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Filippo La Torre
Franco La Torre
con Riccardo Ferrigato

ECCO CHI SEI

Pio La Torre, nostro padre

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Gli autori ringraziano di cuore Francesco Tornatore per
l’amicizia e i suggerimenti che hanno reso questo libro più
accurato e preciso.

Per le immagini alle pagine X, Y, Z si ringrazia l’archivio fotografico del Cen-


tro Studi Pio La Torre ONLUS; tutte le altre immagini provengono dall’archi-
vio della famiglia La Torre.

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2017


Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione : Diffusione San Paolo s.r.l.
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-922-1067-7

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Non sono mai cento gli anni d’una vita
ma di mille anni portano il dolore.
Se i giorni sono brevi e se le notti
noiose sono lunghe,
perché non prendere una lampada,
e uscire fuori alla ventura?
Se vuoi essere giocondo affrettati,
non aspettare “un’altra volta”.
Lo stolto che non vuole spendere
quelle ricchezze che possiede,
fa solo poi ridere i posteri.
È vero, sì, che messer Wang
divenne un giorno immortale,
ma come possiamo noi pretendere
di fare come messer Wang?

Anonimo cinese, I sec. d.C.

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Presentazione

«Ormai è materia da storici». Giusto. E sulla figura di


Pio La Torre «mancano dei tasselli», «che spesso si conser-
vano soltanto nella nostra memoria». Giusto.
«Agli storici non interessano…» Di questo non sono si-
curo.
Trovo che sarebbe magnifico, comunque, raccogliere (in
un blog?) i ricordi di Pio La Torre che sono ancora in giro.
Lui partiva “dal basso”, dal popolo. Specie se aveva dubbi.
Comporre una versione popolare della sua esistenza,
penso che sarebbe un gesto degno di lui.
Ringrazio Filippo e Franco per la possibilità che mi han-
no offerto di esprimere qui i miei.

Io Pio La Torre lo ricordo bene. L’ho conosciuto sin da


bambino. Era una figura familiare, presente. Ne sentivo
parlare, visti i suoi rapporti con mio padre. La prima volta
lo incontrai a Bagheria. Venne a tenere un comizio elettora-
le. Avrò avuto undici anni. E mi colpì. Avevo già assistito a
vari comizi, e in genere, salvo quelli in cui vedevo parlare
mio padre, mi stufavano. Invece quello di La Torre non mi
annoiò.
Per la chiarezza del pensiero. Era facile comprenderlo. E
non soltanto perché anche lui, come molti oratori locali, a

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differenza dei politici che venivano dal continente e parla-
vano solo in italiano, ricorreva di tanto in tanto al dialetto
per farsi capire dalla gente del popolo. Non parlare diffici-
le, essere lineare nel ragionamento, era nella sua natura. Si
capiva tutto. Anche i concetti complessi, riusciva a espri-
merli in modo semplice.
Per la sua gestualità. Si muoveva, si agitava in un modo
che non era tipico del comiziante così come ero abituato a
vederlo. La sua gestualità faceva pensare quasi più a un
mimo, a un attore di teatro che cerca di rendere più effica-
ce il senso delle parole. Talvolta i suoi gesti cadenzavano
l’eloquio come a voler aiutare le frasi e i concetti a raggiun-
gere più facilmente la capacità percettiva della folla.
Spingeva le parole. Non bastava che fossero pronunciate
e irradiate. Lui le aiutava, spingendole con le mani, per
farle penetrare nella testa della gente.
Quella volta, alla fine della manifestazione, quando tutti
in genere si avvicinavano all’oratore per fargli le congratu-
lazioni o chiedergli dell’assegno di disoccupazione o della
pratica per la pensione, lui aveva ancora in mano i fogli con
il testo del comizio, e io li scrutai. In effetti non era il testo
di un discorso da leggere, più che altro una generosa scalet-
ta da cui traeva spunto. Ma ai margini di quel canovaccio,
notai dei segni: un punto esclamativo, due punti esclama-
tivi, frecce, accenti e altre linee. Erano i punti in cui doveva
calcare di più con l’energia, quelli in cui invece contenere
l’enfasi e procedere con serena lucidità. Insomma, le im-
pronte della struttura nevralgica del discorso. Una specie
di elementare grafico drammaturgico del comizio.

Un altro ricordo mi viene dalla cerimonia d’inaugura-


zione del Museo Guttuso, allora Pinacoteca d’arte moder-
na e contemporanea; dunque nel dicembre 1973. Benché

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avessi solo diciassette anni, ero fotografo, e in quel ruolo
partecipai all’evento. Tra i tanti, fotografai anche Pio La
Torre. Era molto contento, l’istituzione del centro d’arte
voluto da Renato Guttuso era motivo di orgoglio, specie
per un comunista come lui. Ne parlò con mio padre che
aveva seguito il progetto; come consigliere comunale e ca-
pogruppo del Pci, era stato a Roma più volte, si erano visti
con Guttuso. E mentre parlavano, Pio si guardava intorno,
percettivo. Ovviamente c’era un’umanità complessa: po-
litici di qualunque tipo di partito, non solamente locali e
non solo regionali. C’erano tanti artisti, scrittori e giornali-
sti. C’era Ignazio Buttitta e, non vorrei sbagliarmi, Andrea
Camilleri. E tanta gente che veniva a curiosare. La Torre
muoveva lo sguardo tra la folla e, così come gli avrei visto
fare anni dopo durante le assemblee di partito, stava atten-
to. Guardava e capiva. C’era un giornalista della Pravda,
per esempio, che seguì tutta l’inaugurazione e faceva in-
terviste. Pio l’osservava, lo studiava. Poco tempo dopo ap-
prendemmo che si trattava di un agente del Kgb venuto,
anche lui, a curiosare.

Durante il servizio militare andai un paio di volte a Bot-


teghe Oscure a trovarlo. Ero a Roma, un po’ sperduto, non
conoscevo nessuno. Poiché sapevo che Pio La Torre era lì,
non più in Sicilia, cercai di incontrarlo. Lui ebbe un atteg-
giamento paterno nei miei confronti: il figlio dell’amico
Peppino era a Roma, quindi se ne preoccupava. Mi chiese
cosa volessi fare. Gli spiegai il mio sogno di rimanere nella
capitale e frequentare il Centro Sperimentale di Cinemato-
grafia e lui: «Ah, il Centro Sperimentale. Dobbiamo parla-
re con Renato, che conosce tutti».
Ricordo, in particolare, una sera d’estate. Ero in libera
uscita, in divisa. Passeggiavo per le vie di Trastevere con

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un paio di commilitoni. D’estate a Roma si mangia all’a-
perto, e nella stradina dov’era il cinema Pasquino, seduto
ai tavoli di una trattoria, vidi Pio La Torre con delle per-
sone. Mi avvicinai a salutarlo, senza temere di disturbare.
Fu affettuosissimo: «Ah, Peppuccio!» mi presentò ai suoi
ospiti, e mi disse che in divisa stavo bene, o forse male,
non ricordo.

Quando tornò a Palermo, una sua fotografia apparve in


giro per la città. Il manifesto diffuso subito dopo la sua no-
mina a segretario regionale del Pci. Era un bellissimo pri-
mo piano in bianco e nero, in cui però indossava un paio
di occhiali, con degli strani decori, che lo invecchiava. Ne
rimasi colpito, ma era proprio quella montatura a invec-
chiarlo. E anche i capelli che cominciavano a ingrigirsi.

In quel periodo ricordo un’importante assemblea pub-


blica del partito. C’erano argomenti scabrosi da discutere.
Un gruppo di compagni della provincia veniva messo in
discussione per questioni riguardanti il mondo delle coo-
perative.
Lui era attento, ascoltava gli interventi, prendeva ap-
punti, segnava tutto. Ti dava la sensazione di uno che face-
va politica quasi con l’atteggiamento di un soldato. Un sol-
dato che deve capire, attrezzarsi, e prepararsi a qualunque
evenienza. Convinto che tutto quanto gli accada intorno
possa essergli utile a comprendere le cose. Mentre un com-
pagno interveniva, in terza fila magari qualcuno s’avvici-
nava a un altro con un commento, una parola, o semplice-
mente un verso, un sospiro, una battuta di spirito a mezza
voce. Pio captava. Lo conosceva bene il comportamento di
quello strano animale che è la folla. Se ne intendeva. Era in
grado d’interpretare il suo respiro, cogliere i silenziosi se-

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gnali che sapeva mandargli. Era costantemente concentra-
to. Sintonizzato con il contesto che lo circondava. E il suo
sguardo improvvisamente diventava acuto, talvolta lucido
di ironia o scuro di presagio. Leggeva. Leggeva la folla.

Convocava tutti i segretari di sezione, i dirigenti delle


associazioni e dei sindacati della fascia costiera, intellettua-
li, storici e industriali, per conoscere il loro punto di vista
sulle emergenze dell’isola e il dilagare del potere mafioso.
Incontrava i magistrati, faceva tesoro delle loro esperienze,
interrogava chiunque ricoprisse ruoli pubblici. Insomma,
era un politico investigatore. Stava istruendo un’indagi-
ne difficile e articolata, in cui metteva in gioco tutto il suo
rapporto con la Sicilia. Erano anni terribili quelli, gli anni
dei grandi omicidi politici: ’79, ’80, ’81, ’82. Era una guer-
ra. E lui era tornato per combattere. Infatti, per quello che
ricordo, il concetto intorno a cui prende corpo la famosa
legge Rognoni-La Torre, cioè la definizione di associazione
a delinquere di stampo mafioso, fu concepito da lui. Se ne
parlò a lungo, dentro e fuori il partito, prima che la leg-
ge venisse approvata: era un’idea rivoluzionaria. Se tre o
più persone hanno relazioni tra di loro riferite ad affari di
illecito guadagno, questa è mafia. Un teorema che anda-
va oltre la grande intuizione di Leonardo Sciascia quando
diceva: «Basta guardare dentro le tasche della mafia per
combatterla». Il passo di La Torre era notevole. Seguire il
denaro della mafia prima che vada a finire in banca, per
risalire alla rete che gestisce gli affari mafiosi nel contesto
della vita economica del Paese. Basta intercettare almeno
tre persone legate tra di loro da attività illegali perché siano
dichiarati mafiosi e dunque perseguibili. Un’innovazione
dirompente. Era la bomba atomica che Pio La Torre studia-
va per mettere in ginocchio la mafia. E infatti suscitò molto

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scalpore. Il mondo dell’antimafia esultò, ma tra le fila dei
partiti che amministravano i più grandi comuni siciliani si
diffuse un indignato terrore. «Ma allora se io devo compra-
re una casa e coinvolgo mio cugino che ne parla con suo
cognato? Minchia, che siamo mafiosi?!» In questo stralcio
di conversazione che mi capitò di raccogliere ai margini
di una seduta consiliare, sicuramente si voleva travisare
il senso della legge, ma nel contempo se ne indicava una
debolezza, e cioè che la si poteva applicare in modo di-
storto. Un rischio calcolato, probabilmente, ma La Torre si
rendeva conto che per interpretare quell’immenso fiume
di denaro sporco che invadeva il Paese era necessario che
lo Stato si attrezzasse di nuovi e implacabili strumenti legi-
slativi. In Sicilia il Pci aveva mandato una mente capace di
elaborarli. E il mondo nemico che gli stava di fronte, si pre-
parava a reagire con il solo linguaggio che sapesse usare.

L’altro grande impegno di Pio La Torre, non del tutto


estraneo alla lotta contro la mafia, fu per smantellare i mis-
sili Cruise a Comiso. Era convinto di quella battaglia, e an-
che molto efficace nelle argomentazioni. Si faceva capire
da tutti, anche in questi argomenti. Lanciò la campagna di
raccolta delle firme per chiedere e ottenere lo smantella-
mento della base missilistica, proprio nei giorni in cui sta-
vo girando il documentario Diario di Guttuso, per la Terza
Rete Rai di Palermo. Quindi era il 1982. Durante le riprese
venimmo spesso a Bagheria, con Renato Guttuso. Una di
quelle volte lo portai nello studio dei fratelli Ducato, i ce-
lebri pittori di carretto, e lo ripresi mentre li riabbracciava
e assisteva al loro lavoro. Intanto si era sparsa la voce nel
quartiere, era arrivata tanta gente. Quando finimmo di gi-
rare, mentre uscivamo, nel salutare la folla Guttuso disse:
«Mi raccomando, firmate tutti la petizione per Comiso,

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contro i missili». Lo disse ai pittori Ducato, agli astanti, a
me, a tutti i curiosi. Con la stessa attitudine del militante in
campagna elettorale. Pio La Torre aveva catechizzato tutti.

Pochi giorni dopo stavo montando il documentario


presso la sede Rai, in via Cerda, a Palermo. All’interno del
filmato mostravo ovviamente molte opere di Guttuso. In
particolare avevo realizzato dei movimenti di macchina
sui dettagli di quel dipinto bellissimo che è I funerali di To-
gliatti. Mi colpivano, confusi in mezzo alla folla, tutti quei
grandi personaggi storici, credo ci fosse lo stesso Guttuso.
E anche Togliatti, che partecipa ai suoi stessi funerali. Al-
ternate a quelle del dipinto, innestai le immagini di reper-
torio del funerale vero. Erano strazianti, in un drammati-
co bianco e nero. Mentre con il montatore Piero Rotondo
inserivamo proprio una di quelle inquadrature, squillò il
telefono. Risposi io, era una signora della produzione, la
voce tremante: «Peppuccio, ammazzarono a Pio La Torre!»
Restai pietrificato. Nei monitor davanti a me, le immagi-
ni dei militanti comunisti che piangevano addolorati da-
vanti alla sede di Botteghe Oscure sembravano acquistare
una tragicità ulteriore. Ne fui molto turbato. Uscimmo nei
corridoi, un’angoscia elettrica invase di colpo la redazione
giornalistica. Ricordo Bianca Cordaro uscire dal suo uffi-
cio, sconvolta, come se l’avessero informata della morte di
un parente. Tutti terrorizzati. Partì la prima troupe al volo.
Mentre ancora giravano sul luogo dell’assassinio, uno spe-
cializzato ci portò di corsa la prima cassetta. Giornalisti,
programmisti, dirigenti, tecnici, ci precipitammo tutti nella
saletta del telegiornale. Il mio montatore, in camice bianco,
riavvolse il nastro a gran velocità. Le immagini apparvero
a ritroso. Rapide e inafferrabili. Violente e irragionevoli.
S’intravedevano sangue e schegge di vetro. In quel magma

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visivo comparirono due corpi senza vita, contorti. In un
lampo di luce s’intuì un primo piano di La Torre crivellato
di colpi. Il montatore si fece il segno della croce. Non di-
menticherò mai il movimento rapido delle sue mani che
segnavano il viso, i suoi occhi sgomenti incollati al mo-
nitor. E il silenzio assordante. Infine le vedemmo quelle
immagini, a velocità naturale, partendo dallo start. Molte
di esse non furono mai diffuse, erano atroci, insostenibili.
Ricordo la camera ardente, in corso Calatafimi. Me lo ri-
cordo benissimo. Lui era un po’ semicoperto, però lo vidi.
Lo vidi bene.
Mi ricordo i funerali. Venne Berlinguer. Ricordo l’ama-
rezza di mio padre che, rispetto a tanti, sembrava com-
posto, chiuso in una muta amarezza. Andammo insieme
al comizio a piazza Politeama, e mentre camminavamo,
sperduti in quella città macchiata di sangue, gli sentii sus-
surrare: «Sempre sfortuna gli ha portato Palermo a Pio La
Torre». E non ci siamo detti più niente.

Giuseppe Tornatore
Roma, 16 febbraio 2017

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Chi era tuo padre?

La Conca d’Oro. A scriverlo oggi sembra uno scherzo di


pessimo gusto. Eppure all’inizio di questa storia, la storia
di Pio La Torre, quando si parla della Conca d’Oru si fa rife-
rimento alla pianura che dai monti di Palermo scende fino
al Tirreno. Una pianura ricca di arance, mandarini, limoni,
pompelmi. Una pianura coltivata di tutti i colori dell’oro.
È stata così fino a quando la città non ha deciso di man-
giarsi rami, tronchi, radici, terra, crescendo a dismisura e
sostituendo i frutteti con una selva ben ordinata di tondini
di ferro, calcestruzzo e asfalto. Come puoi chiamarla anco-
ra in quel modo? Con il sacrificio della Conca si sono fatti
l’oro, altro che agrumi!, l’oro vero, quello della speculazio-
ne edilizia. Se lo sono messi in tasca, lo hanno spedito in
Svizzera o chissà dove. E oggi, quando dici Conca d’Oro,
ai limoni non pensa più nessuno. Era rimasto solo il nome,
ma poi si sono presi anche quello e ci hanno battezzato
un centro commerciale. La Conca d’Oro, aperto nel marzo
del 2012 nel quartiere Zen di Palermo, ha un ipermercato,
cento negozi, un’area da più di cinquantacinquemila metri
quadrati, aria condizionata, wi-fi gratis.
Pio La Torre era ed è nostro padre. Dei centri commer-
ciali non sapeva nulla, ma nella Conca era nato e aveva vi-
sto chi aveva portato via l’oro dall’orizzonte. Li conosceva

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famiglia per famiglia, faccia per faccia. Li aveva guardati
negli occhi e aveva fatto loro paura, poi si era trasferito
a Roma per combatterli con più forza e, nell’autunno del
1981, era tornato in Sicilia con la determinazione di sem-
pre. Forse ancora di più.
Noi, i suoi due figli, non eravamo con lui in quei mesi.
Eravamo adulti, non vivevamo più con i nostri genitori. Al-
tri impegni – il lavoro, la leva militare – ci tenevano lontani
dall’isola: avevamo le nostre vite nella capitale, dove ci era-
vamo trasferiti da oltre un decennio e dove viviamo tuttora.
Neanche nostra madre tornò a Palermo, non avrebbe avuto
senso. Pio stava a Roma dal martedì al giovedì per i lavori
parlamentari e, quando scendeva in Sicilia, preferiva avere
mani libere e nessuno che lo aspettasse per cena. Tutti lo
sanno, Pio volle tornare mentre l’isola bruciava di polvere
da sparo. Gliel’abbiamo sconsigliato, lui non ci ha ascoltato.
Molto di questo è già stato raccontato. La seconda guerra
di mafia, il sacco di Palermo (cioè la fine della Conca d’Oro),
la scelta di tornare. È un pezzo della storia del nostro Pae-
se, ormai è materia da storici. Eppure al racconto dell’uomo
ucciso il 30 aprile 1982, quel siciliano che è parte della storia
d’Italia e che era ed è nostro padre, mancano dei tasselli.
Sarà bene dirlo subito: sono tasselli che agli storici non in-
teressano, passaggi e suggestioni che spesso si conservano
soltanto nella nostra memoria, ma oggi vorremmo lasciarli
uscire, farli respirare e riflettere la luce del sole. Messi in fila,
dopo trentacinque anni, questi piccoli frammenti di vita re-
stituiscono qualcosa di importante. Non su nostro padre, di
nostro padre. Ce lo fanno riscoprire per quello che era, per
come lo abbiamo conosciuto e per come è rimasto dentro
di noi. Ci fanno trovare nuove risposte alla domanda che ci
viene rivolta da quasi tutta la vita, una domanda difficile, se
presa sul serio: chi era vostro padre?

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Sono passati trentacinque anni dalla sua scomparsa.
Papà aveva meno dell’età che oggi noi ci portiamo addos-
so. Siamo diventati più vecchi di lui, ed è una sensazione
strana quando capita di rifletterci. Pensiamo a papà come a
un uomo giovane, con meno esperienza di noi e un ipoteti-
co lungo futuro davanti. Oggi avrebbe novant’anni. Chissà
se ci sarebbe arrivato.
Non lo sapremo mai: papà ha subito il medesimo de-
stino della sua Conca d’Oro. Distrutta dalla mafia e dalla
politica, oggi ne rimane poco più del nome che, a volte, è
per giunta usato in modo inappropriato, usurpato e svili-
to. Così è per Pio La Torre: spesso è dimenticato come tan-
te altre vittime di quegli anni terribili, spesso è ricordato
solo per un doveroso ma formale riguardo, in una liturgia
che non distingue e non mette nessuno in discussione. Il
tempo che passa è impietoso: si appiglia alle persone che
non ci sono più e ne fa dei personaggi disegnati a due di-
mensioni, incasellati nelle loro piatte categorie. Per papà
la categoria è “vittime della mafia”. Ma ciascuna delle vit-
time, vista da vicino, ha qualcosa di unico: una domanda,
uno sguardo e la battaglia che si sono scelte e per la quale
hanno pagato. Per papà quella domanda, quello sguardo e
quella battaglia erano tutto, erano il senso che lui dava alla
sua esistenza, e questo è il motivo per cui non era un uomo
facile da contenere e gestire, e lo stesso per cui oggi non è
un uomo facile da ricordare.
A volte la realtà la vediamo tutta al contrario, sottosopra
o in negativo. Capita di scambiare cause ed effetti, vittime
e carnefici, perfino cielo e terra. Allo stesso modo ci sembra
spesso di pensare – perfino a noi – che l’esercizio del ricordo
di nostro padre, del ricordo vero, sia qualcosa che dobbiamo
a un uomo che si è sacrificato per una battaglia che è anche
nostra. Non è così, è tutto l’opposto. Pio è morto trentacin-

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que anni fa, a Palermo, mentre percorreva insieme al suo
amico Rosario Di Salvo un vicolo lungo e stretto dal quale
non sono mai usciti. Il bene che potevamo fare a nostro pa-
dre, che chiunque poteva fare a nostro padre, andava fatto
prima di quel momento, ma oggi, quando lo ricordiamo,
quando si cerca di rammentare Pio La Torre e di farlo per
bene, non lo si fa per lui, lo si fa per noi che siamo rimasti.
Siamo noi che spesso perdiamo la speranza nel futuro,
lui non lo ha mai fatto. Siamo noi che ci lasciamo abbatte-
re da una realtà che sembra non cambiare mai, non lui. E
siamo noi ad essere rimasti su questa terra, in questo Paese
ancora pieno di mafia e corruzione mentre lui, purtroppo,
non c’è più. Per questo abbiamo ancora bisogno che Pio La
Torre ci spieghi che tutto può cambiare, che bisogna trova-
re la forza di crederci, e che lo faccia nell’unico modo in cui
oggi può farlo, con il suo esempio.
Spesso il ricordo delle persone eccezionali può aiutarci.
L’Italia è una meraviglia macchiata del sangue di chi ha
continuato, controcorrente, a credere nella giustizia in cui
vorremmo credere ancora. Ma il tempo, l’abitudine e mol-
to altro hanno storpiato le immagini di quegli uomini e di
quelle donne, hanno frapposto tra noi e loro una serie di
protezioni, per difenderci e farci restare tranquilli. Il pas-
sato è conservato sotto vetro: non ci fa male, ma non può
difenderci dal presente. Così noi, proprio mentre ricordia-
mo quelle persone, continuiamo a dimenticarle, proprio
mentre le cerchiamo, continuiamo a perderle di vista.
Nostra madre, invece, non ha mai lasciato suo marito.
Non ne ha costruito un’immagine consolatoria, ha sempre
tenuto con sé il ricordo di Pio, quello vero, quello che le
faceva male proprio perché era il più bello. Nella sua ul-
tima intervista, concessa quando aveva più di ottant’anni,
parlava ancora di papà con occhi lucidi, faticando a addo-

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mesticare l’emozione. Anche noi dobbiamo fare i conti con
quella fatica, e la riconosciamo e l’abbiamo riconosciuta in
uomini e donne che hanno condiviso con Pio un grande
progetto o, magari, solo un paio di bicchieri di vino. Incon-
triamo spesso persone desiderose di raccontare e ricordare
chi fosse davvero nostro padre, perché quell’uomo fosse
tanto eccezionale o soltanto il motivo per cui gli hanno
voluto bene, perché papà suscitava emozioni che gli sono
sopravvissute e, a sentire i racconti di chi ha sognato con
lui, Pio La Torre era un uomo di cui non ci si sarebbe potuti
dimenticare.
Eppure non è andata così. A trentacinque anni dalla
morte sono tantissimi, soprattutto i più giovani, a non sa-
pere chi sia stato Pio La Torre o ad accontentarsi di una
descrizione vaga, stereotipata e inoffensiva. Ci piacerebbe
allora ricordarlo per l’uomo complesso, a volte rigido ma
schietto, che era e che abbiamo conosciuto. Ci piacerebbe
ricordare la sua storia, bella anche se finita in tragedia.
Per noi il ricordo di papà è un conforto e portare il suo
nome ci dà orgoglio. Non perché è stato ucciso: questo non
è dipeso da lui, non interamente. Quello che conta di papà
sta nella sua vita, non nella sua morte, e nella forza, nelle
convinzioni e nelle debolezze, nell’estrema coerenza che
ha dimostrato ovunque, dai banchi del Parlamento al sa-
lotto di casa nostra. Non è mai stato semplice fare i conti
con Pio La Torre. Quando mamma ci chiese di convincerlo
a rimanere a Roma, a non tornare in una Sicilia dove la ma-
fia stava uccidendo come non mai, uno di noi, Filippo, ten-
tò senza speranza una lunga strada di mediazione; l’altro,
Franco, le disse che Pio non era tipo da cambiare idea su
questo genere di cose. Avevamo ragione nell’essere scetti-
ci, aveva ragione mamma nel volerci provare comunque.
Alla fine lui è andato, e capire le ragioni profonde di quella

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scelta, capire il motivo per cui un uomo arriva a rischiare
la vita per quello in cui crede, non è banale, ci aiuta, ci ser-
ve anche dopo trentacinque anni.
Possiamo per il momento spiegarlo in sintesi, ma se la
sintesi non basterà è perché in quella scelta si condensano
più di cinquant’anni di storia di un uomo, ciò che lui era
e voleva essere, cioè tutto quello di cui parla questo libro.
Ma da qualche certezza bisogna partire, e allora va scritto
che in quei giorni tutti gli chiesero di restare a Roma, fami-
gliari, amici e compagni di partito, però Pio si rifiutò, per-
ché ascoltandoli avrebbe abbassato la maschera, mostrato
che le sue convinzioni potevano essere negoziate e, se ne-
cessario, messe da parte. Ma papà non poteva farlo perché
non aveva nessuna maschera da togliere, e questo è il pri-
mo motivo per cui Pio La Torre imbarazza e mette ancora
in discussione. Aveva il vizio e il coraggio di andarsene in
giro per il mondo mostrando nient’altro che la sua faccia,
con sincerità e coerenza, e quando è così, quando non stai
fingendo, c’è solo un posto dove puoi andare, quello dove
devi stare per non rinunciare a te stesso. Era quindi inevi-
tabile che papà quel giorno, nell’autunno del 1981, uscisse
dalla porta di casa e dicesse:
– Vaiu a Palermu.

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SENZA DI NOI

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«Nel piccolo villaggio dove io sono nato, fino all’età di


otto anni, non avevamo la luce elettrica, si studiava al lume
di candela o a petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare
a prenderla quasi a un chilometro di distanza. I braccianti
di quella borgata, la domenica mattina, quando si ripuliva-
no e andavano in città, dicevano: “Vaiu a Palermu”, come
se andassero in una città lontana».
Per noi bambini degli anni Cinquanta e Sessanta non era
semplice capire la povertà che ci raccontava nostro padre con
queste o altre parole. Le storie della sua prima giovinezza
erano distanti, mondi impolverati e scoloriti di sole e sciroc-
co. Ad Altarello di Baida ci siamo andati più volte, ma la di-
stanza tra noi e la nostra famiglia che aveva vissuto lì non si
misurava in chilometri, ma in significati, in difficoltà e fatiche.
Pio era nato, terzo di cinque figli, in una famiglia con-
tadina siciliana, povera come potevano esserlo i poveri di
quell’epoca, non solo senza mezzi per una vita dignitosa,
ma senza una speranza di cambiamento, di miglioramen-
to delle proprie condizioni. L’eterno ritorno dell’uguale, in
quelle borgate, non aveva bisogno di grandi filosofi per es-
sere teorizzato: l’eterno ritorno era la vita, uguale di gene-
razione in generazione, era il contadino povero che mette
al mondo un altro contadino povero.

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Nostra zia Felicia, sua sorella maggiore, racconta di un
Pio precoce, che già a quattro anni la mattina si svegliava
per accompagnare il padre al lavoro, un bambino capace
di percorrere il chilometro che divideva la casa dal pozzo
con l’acqua pulita ma, soprattutto, tanto forte da rompere
il mantra del “nulla cambierà”. Deve averlo fatto in una
mattina d’estate, probabilmente era il 1932, almeno così
racconta la zia. Era al lavoro nei campi con nonno Filippo
ed è quasi certo che usò poche frasi e molto coraggio.
– Papà, posso dirti una cosa?
– Dimmi Piuzzu.
– Mi piacerebbe andare a scuola.
Nessuno registrò il dialogo e nessuno può dire se le pa-
role furono proprio queste ma, dialetto a parte, non cre-
diamo di essere andati molto lontani. A quasi cinque anni
nostro padre iniziò la sua prima lotta politica, una batta-
glia in versione casalinga che, per quanto piccola, non fu
di certo la meno importante. Fu anzi fondamentale.
Sembrava una causa persa, perché nonno Filippo non
aveva orecchie per quel desiderio né, forse, l’umiltà di
mettere in discussione le proprie convinzioni. Di certo con-
siderava la richiesta del figlio un’assurdità, qualcosa che
nessun adulto ragionevole avrebbe potuto prendere sul se-
rio, e per questo commise il suo errore più grande quando,
forte di questa convinzione, tornò a casa e ne parlò alla
moglie.
Nonna Angela, che veniva da una famiglia di pastori del-
la Basilicata, era povera e analfabeta proprio come il mari-
to, ma forse aveva un carattere diverso, forse era ottimista
di natura o forse, semplicemente, il suo amore per Pio era
quello di una mamma e non di un papà, di una donna e
non di un uomo. Noi non l’abbiamo mai conosciuta, è mor-
ta troppo presto, ma fu lei a sognare per prima un futuro

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diverso e a fare di tutto per renderlo possibile. Si caricò di
nuovo lavoro per sostenere le spese scolastiche, mentre Pio
promise che avrebbe faticato nella stalla ogni mattina pri-
ma di andare alle lezioni. Chissà se nonno Filippo capì o se
si rassegnò, di sicuro papà iniziò a studiare e tutto, anche
per noi che ancora non esistevamo, cambiò radicalmente.
Frequentò le elementari, poi volle continuare gli studi.
Aveva dimostrato di essere molto dotato, ma si iscrisse alle
scuole di avviamento professionale. Niente scuole medie,
era figlio di contadini. Ogni mattina doveva camminare
dieci chilometri per andare a lezione e dieci per tornare
perché, anche se l’autobus c’era, mancavano i soldi per i
biglietti. Il patto stipulato all’età di cinque anni era ancora
valido: Pio lavorava nella stalla la mattina e la sera, ogni
giorno. La scuola di avviamento durò fino al 1940, cioè
fino alla seconda guerra mondiale. Poi vennero le superio-
ri, per la precisione un istituto tecnico industriale, mentre
guardava da lontano la guerra e la Resistenza e, da vicino,
i fascisti e gli americani. A miseria si aggiunse miseria e le
tasse per le superiori erano piccioli che facevano la diffe-
renza: nostro padre in quel periodo dovette costruirsi un
futuro, mattone su mattone, lavorando anche come mano-
vale. Per alcuni mesi, poi, durante la guerra, i La Torre si
rifugiarono in Basilicata, ospiti della famiglia di nonna, i
Melucci, a Muro Lucano. Si trasferirono nel 1943. Nel con-
testo rurale di una tra le provincie più povere d’Italia, ma
dove la miseria teneva lontani anche i bombardamenti Al-
leati, il problema dei La Torre fu quello di riuscire a lavo-
rare per racimolare qualche soldo e tirare avanti. Solo Pio,
sedicenne, riuscì a trovare un impiego, e proprio grazie al
fatto di aver studiato. Fu una piccola rivincita o, meglio,
una dimostrazione di quanto avesse ragione: riuscì infatti
a farsi assumere dall’ufficio postale del paese.

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Il diploma arrivò poco dopo il 25 aprile 1945, quando
la famiglia tornò a Palermo. Il desiderio di studiare di Pio
non si era ancora placato. «Bisogna appropriarsi della cul-
tura» diceva agli amici di quel periodo. Si iscrisse all’u-
niversità, facoltà di ingegneria. Fu una scelta dettata dai
tempi: dopo la guerra l’Italia era macerie e cantieri, tutto
andava ricostruito e si sentiva il bisogno di tecnici. Pio pre-
se questa decisione forse senza tenere conto delle sue vere
aspirazioni, ma poco importa perché non terminò quel
corso di studi.
La frattura con il nonno a questo punto si era probabil-
mente ricomposta: in tanti anni quell’uomo, per quanto
rigido, deve aver gettato la spugna. Ma nostro padre, pro-
prio nel periodo in cui si iscriveva all’università, metteva
la firma anche in calce a un’altra iscrizione che lo avrebbe
segnato per sempre, prendendo la tessera del Partito Co-
munista Italiano. Il contesto in cui maturò questa scelta va
però precisato per evitare incomprensioni in una storia che
abbiamo appena iniziato a raccontare.
La seconda guerra mondiale era finita e i partiti della
Resistenza, Pci compreso, davano al Paese un governo di
unità nazionale. Il Partito Comunista stava cambiando
pelle; si lasciava sempre più alle spalle le velleità rivolu-
zionarie e si imponeva un indirizzo politico pienamente
democratico, benché non mancasse tra le posizioni di di-
rigenti e militanti qualche eccezione. Era un partito orga-
nizzato e radicato, con un milione e settecentomila iscritti
che stavano crescendo. La situazione era molto favorevo-
le, si potrebbe pensare, ma non era così ovunque e, soprat-
tutto, non era così in Sicilia. Qui il Pci non era un partito di
massa, per motivi storici ed economici non era penetrato
nel tessuto sociale e, se vogliamo quantificare la distanza
tra il partito palermitano e quello nazionale, basti il dato

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delle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente. In Ita-
lia il Pci arrivò a un soffio dal 19%; nella città di Palermo,
probabilmente uno dei risultati peggiori del Paese, si fer-
mò al 2,6%.
Il partito di massa era senza massa; i dirigenti non ave-
vano veri interlocutori nelle classi popolari e facevano più
salotto che lotta di classe. A Palermo mancavano gli operai
di Milano o Torino e la propaganda comunista non aveva
ancora attecchito.
Il Pci a cui si iscrisse nostro padre era anche quello del
segretario regionale Girolamo Li Causi, arrestato per mo-
tivi politici nel 1928 e liberato alla caduta del fascismo. Era
emigrato al nord per prendere parte alla Resistenza ma
presto era tornato in Sicilia a dirigere il partito. Non era
un uomo da salotto, si era perfino “meritato” un attentato
mafioso durante un comizio del 1944. Era un personaggio
capace di ispirare grandi entusiasmi, che di sicuro piacque
al giovane Pio, anche se i due entrarono presto in conflitto.
Come ha scritto Emanuele Macaluso, dal 1947 segretario
regionale della Cgil e poi tra i massimi dirigenti del Pci
siciliano, oltre che grande amico di papà, in quegli anni «si
svolse pur con difficoltà e deficienze un processo di chia-
rificazione politica fra le masse e nel partito». Significa, in
altre parole, che furono anni di dissensi, fratture e di com-
plicazioni nella costruzione di una linea politica unitaria.
Eppure Pio, appena diciottenne, entrò nella Federazione
del partito e chiese la tessera. Perché? «Fu una scelta certa-
mente influenzata dal tipo di famiglia nella quale ero cre-
sciuto» ha scritto lui. Era figlio di contadini ed era appena
entrato all’università: il suo percorso di vita ruotava attor-
no a una parola, “emancipazione”, e lui voleva che quella
parola fosse per tutti, senza i sacrifici che aveva dovuto
sobbarcarsi. Molti amici, negli anni, gli avevano rimpro-

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verato il desiderio di studiare – a un contadino non serve
a niente – e lui aveva cercato di spiegare, con pazienza,
che quella era l’unica strada per non restare sottomessi. Il
Pci, per nostro padre, era e doveva essere il partito di chi
si libera dallo sfruttamento con lo studio e con la politica.
Papà compì diciotto anni il 24 dicembre 1945. Il primo tim-
bro sulla sua tessera è del gennaio 1946. Fu comunista da
quel momento fino alla morte.
Appena iscritto, Pio fece parlare di sé. Sui primi giorni
del compagno La Torre circola da allora un racconto che
abbiamo sentito più di una volta. Era una domenica. Pio
era un novellino e, come spesso accadeva, il suo primo in-
carico fu quello di vendere – ma allora si diceva “diffon-
dere” – il quotidiano di partito, l’Unità. Dalla Federazione
gli fornirono un pacchetto di giornali. Papà reclamò, era-
no troppo pochi, e chiese un centinaio di copie. I nuovi
compagni lo guardarono increduli e un po’ divertiti, ma
lui fece finta di nulla e uscì dalla Federazione con la sua
mazzetta spropositata. Vendette tutte le copie. Poi ritornò,
ne prese ancora. E ancora. Alla fine leggenda vuole che ne
“diffuse” settecento. Al netto delle cifre, che probabilmen-
te sono lievitate di decennio in decennio, il giovane Pio
stupì facendo ciò che per lui era naturale: andò dai conta-
dini, disse che il Pci era dalla loro parte, che lottava contro
quelli che li sfruttavano. Guadagnò la loro fiducia perché,
per quanto istruito, era uno di loro.
Nonno Filippo, quel padre diverso, gli aveva trasmesso
qualcosa che non lo abbandonò mai. Non lo avrebbe volu-
to veder studiare, è vero, ma gli aveva insegnato la lingua
e la vita dei poveri. Grazie a questo Pio seppe diventare in
breve cinghia di trasmissione tra dirigenti e popolo. Anche
quando lasciò il destino di suo padre, è sempre tornato in-
dietro, ha sempre ricordato la strada di casa, e ha voluto

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che anche noi tornassimo ad Altarello di Baida, forse per-
ché non dimenticassimo da dove aveva mosso i primi pas-
si. Spesso si è scritto della rottura tra papà e nonno Filippo,
ma è una rottura che non abbiamo visto né vissuto. Non
abbiamo avuto molte occasioni di passare del tempo con il
nonno. Nostro padre teneva a fargli visita, quando poteva,
e portava anche noi, ma il nonno se ne andò troppo presto
per lasciare più di un’ombra nei nostri ricordi. Ci pare però
che le discussioni tra Pio e suo padre non abbiano lasciato
strascichi profondi. Papà negli anni deve averle comprese
e rielaborate come qualcosa di naturale, qualcosa di cui lui
stesso aveva bisogno.

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La rivoluzione proletaria più possibile in Sicilia è quella dei


lavoratori del latifondo con il passaggio della terra alla col-
lettività. Il latifondo deserto riesce molto più facile da so-
cializzare per via della cooperazione: ed è a ciò che tende
il movimento contadino in Sicilia… Da queste plebi rurali
sorgerà una Sicilia novella che farà scomparire quella trista
della mafia e del malandrinaggio, della malaria e dell’anal-
fabetismo, del voscenza servile e dell’omicidio per un non-
nulla, della taverna e del lotto, del latifondista e del prete. I
villani spregiati più degli operai delle città preparano, con
il loro lavoro di organizzazione socialista, alla Sicilia una
gloria maggiore di quella che vi portarono le squadre dei
normanni e quelle dei Mille.
Sebastiano Cammareri Scurti,
dirigente socialista siciliano, 1906

Pio La Torre, per quanto avesse successo come difensore


della causa contadina, non ha inventato i contadini, né le
lotte contadine, né la relazione tra il Partito Comunista e
la classe contadina. Nel simbolo del partito, a incrociare il
manico del martello restò sempre la falce, anche quando le
falci furono abbandonate tra la polvere. In Sicilia, a ecce-
zione degli operai dei cantieri navali – a cui nostro padre

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dedica il suo primo scritto politico pubblicato nel marzo
del 1946 – e dei lavoratori delle zolfatare, Pio La Torre ha
di fronte quasi solo contadini. Tra i suoi meriti ci furono
quelli di guadagnarne la fiducia e di comprendere l’impor-
tanza dell’organizzazione delle loro rivendicazioni.

– Filippo, ho un regalo per te.


Il primo libro che mio padre mi mise in mano era un
saggio di Pietro Secchia, un dirigente comunista di cui cer-
to non condivideva la rigidità, ma che aveva ai suoi occhi
almeno un pregio.
– Leggilo, Secchia scrive bene.
Avevo tredici o quattordici anni. Era un libro sulla Re-
sistenza italiana, ma siccome Secchia aveva desiderato a
lungo che l’insurrezione del ʼ45 fosse l’anticamera della
rivoluzione comunista, l’opera aveva un’ampia sezione
dedicata proprio alla storia delle rivoluzioni. Di questo fi-
nimmo a parlare io e mio padre, della storia delle rivolu-
zioni, e questo mi è rimasto di quel libro.
Il secondo regalo che ricordo è di nuovo un saggio, una
storia delle religioni. Mi appassionò moltissimo, soprattut-
to l’Islam. Io e mio fratello eravamo figli di una coppia di
comunisti, quindi atei, e non avevamo ricevuto la canonica
educazione cattolica. Eppure quel libro, secondo mio pa-
dre, rispondeva al suo progetto educativo e per questo vol-
le che lo leggessi. Conoscere la storia delle religioni signi-
ficava scoprire qualcosa di cui avevo poca consapevolezza
e, insieme, ricevere un forte strumento di critica. Forse per
lui mettere le diverse religioni sul medesimo piano, cioè
su quello storico, ne evidenziava le differenze e quindi le
contraddizioni.
Storia delle rivoluzioni e storia delle religioni. Mio
padre non si riconosceva né nelle une né nelle altre, per

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La seconda tessera del Partito Comunista Italiano di Pio La Torre, anno
1946. La data di nascita di Pio è però sbagliata: era nato il 24 dicembre e
non il 24 novembre.

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quanto potesse guardare alle prime con maggior simpatia.
Eppure mi regalò quei due libri e oggi viene da chiedersi
perché lo abbia fatto. Rivoluzioni e religioni hanno qual-
cosa in comune: entrambe parlano un linguaggio popola-
re, traducono concetti complessi in prassi più semplici, si
fanno intendere da tutti. Possono cadere nella mistificazio-
ne, nell’eccessiva semplificazione – e lui era sicuro che di
norma succedesse proprio questo – ma hanno nel numero,
soprattutto nella costruzione di un popolo, la loro ragion
d’essere. La religione deve essere diffusa, così come l’ideo-
logia rivoluzionaria. Esse non producono discorsi per po-
chi eletti, ma discorsi di popolo. Forse per questo erano
importanti ai suoi occhi.
Il terzo libro che ricordo tra i suoi regali è Storia della Sici-
lia medievale e moderna di Denis Mack Smith, il lungo saggio
di un bravo professore che, secondo mio padre, aveva la
pecca di essere troppo inglese per comprendere a fondo
la realtà dell’isola. Eppure quel libro mi offriva un quadro
storico. Tra le linee dello spazio e del tempo mi diceva: noi
siamo qui.

«Avevo cominciato la mia attività politica nella borgata


dove sono nato. Dopo aver costituito la sezione del partito
e contribuito a crearne altre attorno, avevo scoperto che
c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti
e, quindi, mi ero rivolto alla Federterra. Venni ingaggia-
to, su due piedi, come funzionario della Federterra che in
quel periodo era in espansione».
Papà entrò nella Federterra nel gennaio del 1947. L’orga-
nizzazione in realtà aveva appena cambiato nome, si chia-
mava dall’ottobre precedente Confederterra Cgil, ma la so-
stanza era la medesima: era l’organizzazione sindacale dei
mezzadri e dei braccianti agricoli. Al partito, insomma, si

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affiancava il sindacato e, in entrambi, il giovane compagno
La Torre ricoprì incarichi dirigenziali, cioè di servizio e or-
ganizzazione dei contadini, le cui condizioni di vita erano
«veramente terribili. Mancavano di tutto, del pane, delle
strutture igieniche fondamentali» scrisse anni dopo. «Nel-
la casa di una famiglia di braccianti di Corleone, in cui ho
dormito molti giorni, avevano un secchio che non sapevo
bene se era un secchio o una pentola, perché serviva per
cucinare gli spaghetti e per lavarsi i piedi. C’era la capra
che girava liberamente per la casa come un animale sacro,
in quanto solo grazie al suo latte si alimentavano i bambini
che altrimenti sarebbero morti di tubercolosi e di fame».
Papà si trovò in mezzo a quelli che, nelle parole dello scrit-
tore torinese Carlo Levi, erano i «difficili tentativi contadi-
ni per esistere come uomini».
Negli anni della guerra i proprietari terrieri si erano ar-
ricchiti con la borsa nera, ma nelle città affamate dove loro
risiedevano, ben lontani dai propri possedimenti, i più po-
veri guardavano con disprezzo i contadini, impegnati in
un piccolo commercio clandestino di grano utile alla loro
sopravvivenza o a poco più. Braccianti e contadini poveri
contro cittadini poveri, mentre i proprietari delle terre per
i quali i primi lavoravano, sfruttati e malpagati, spesso ri-
coprivano posizioni di potere. Lucio Tasca, per esempio, a
capo dei possidenti agrari di Palermo, venne scelto dagli
Alleati come primo sindaco della città dopo il fascismo.
La classe contadina aveva fame, non c’è modo più chiaro
per dirlo. Ne aveva sempre avuta e fin dall’Unità d’Italia
si era ribellata ciclicamente: c’erano stati i fasci siciliani,
alla fine del diciannovesimo secolo, le rivolte del primo
decennio del Novecento e poi quelle tra le due guerre. Si
era trattato di movimenti spontanei o non sufficientemen-
te organizzati, senza i necessari appoggi politici e quindi

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senza capacità di cambiare la situazione in atto. Partito
Comunista e sindacato, insieme al Partito Socialista, dopo
la guerra diedero finalmente una struttura organizzativa
e una visione politica alla protesta. «I siciliani sono nella
stragrande maggioranza un popolo di lavoratori che ha
sete di libertà e fame di terra»: le parole del segretario del
Pci Palmiro Togliatti ebbero una ricaduta concreta, si diffu-
se un’idea nuova e antica insieme, antica nelle aspirazioni
e nuova nella forza con cui sembrava finalmente persegu-
ibile: la riforma agraria ovvero l’assegnazione delle terre a
chi le coltivava.
Negli anni in cui montava la protesta delle campagne,
prese corpo anche la certezza che nostro padre non sareb-
be mai diventato ingegnere. Si laureerà, molti anni dopo,
nel 1961, ma la facoltà sarà quella di Giurisprudenza, e la
tesi non si occuperà – non direttamente – di strade e pon-
ti, ma della «Programmazione per lo sviluppo economico
della Regione siciliana». Nel frattempo Pio viveva tra se-
zioni e Camere del lavoro, era responsabile giovanile re-
gionale della Cgil e del partito, e altri incarichi sarebbero
arrivati presto. Non era un impegno che poteva prendere
a cuor leggero, e non solo per la responsabilità di fronte ai
volti belli, antichi, violenti, spesso generosamente baffuti,
dalla classe contadina. Quando era da pochi mesi dirigen-
te della Confederterra, gli uomini della banda criminale
che faceva capo a Salvatore Giuliano diressero le bocche
delle mitragliatrici verso i partecipanti a una festa di lavo-
ratori. Nel boato di un quarto d’ora di piombo morirono
undici persone e ventisette rimasero ferite. Era la prima
strage della storia repubblicana: 1° maggio 1947, Portella
della Ginestra. Non fu un caso isolato, anche se fu il più
eclatante e rese noto in tutta Italia il nome del bandito
Giuliano. I segretari delle Camere del lavoro, in quegli

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anni, cadevano come pupi a cui venivano tagliati i fili:
quasi quaranta sindacalisti uccisi dalla mafia e dal bandi-
tismo, mentre la polizia e le forze dell’ordine cercavano di
reprimere il movimento contadino e spesso chiudevano
un occhio quando altri, con maggiore violenza, “la face-
vano pagare ai rossi”.
Nostro padre è cresciuto in quei giorni, sono stati la
sua scuola di politica. Subito spedito in prima linea, si
è dovuto porre domande a cui molti non hanno mai do-
vuto rispondere in tutta una vita. Cosa era disponibile a
sacrificare? Cosa metteva sul tavolo? Le sue convinzioni
erano tanto profonde da fargli sopportare la violenza e
la paura? Non fu facile, ma i giovani militanti di quel
tempo avevano la fortuna di esempi cui guardare. Pio
pensava a Giacomo Matteotti, ai fratelli Rosselli, forse a
Piero Gobetti, di certo ad Antonio Gramsci e ai tanti ca-
duti della Resistenza. L’alternativa era abbassare la testa
e questo, per nostro padre, era come dire che non c’era
alternativa.
Le intimidazioni arrivarono fino all’uscio di casa. Il
crepitio, il rosseggiare del fuoco e i richiami degli ani-
mali spaventati svegliarono la famiglia La Torre che si
ritrovò sull’aia, di notte, perché qualcuno aveva dato alle
fiamme la porta della stalla in cui di solito riposava l’u-
nico vitello della famiglia. Era un segnale, e non servì
fantasia per interpretarlo: Pio parlava troppo e con trop-
pe persone. Nonno Filippo cercò di dissuaderlo dal suo
impegno con una frase che, uscita dalla sua bocca, aveva
del paradossale:
– Pio, smettila col comunismo, pensa a studiare.
Per nostro padre, però, quel legno carbonizzato era un
messaggio opposto, significava che il suo lavoro era im-
portante, tanto da preoccupare i piccoli mafiosi locali. Altro

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che ingegneri, la Sicilia aveva bisogno di lui! Ma era chiaro
anche che stava mettendo in pericolo la sua famiglia e così,
dato che non poteva nascondersi e tacere, papà fece le va-
ligie e abbandonò la casa di Altarello di Baida. Era senza
un soldo, ma venne accolto da Pancrazio De Pasquale, due
anni più grande di lui e già segretario provinciale del parti-
to, che presto lo avrebbe chiamato nel suo gruppo dirigen-
te. Non che De Pasquale avesse molto da offrire: divideva
una stanza con un compagno, Emilio Arata, segretario del-
la Fgci palermitana, così si trovarono a spartire due letti in
tre, facendo i turni per dormire. A volte papà doveva divi-
dere il materasso con Arata, altre, per fortuna, De Pasquale
gli lasciava il suo letto per sgattaiolare, nottetempo, nella
camera di una signorina di nobile famiglia palermitana.
Per Pio il partito divenne una seconda famiglia, come dirà
più volte, che lo aveva accolto quando era rimasto senza
nulla al mondo.
Alle elezioni regionali del 1947, intanto, socialisti e co-
munisti si allearono nel Blocco del popolo e raccolsero la
maggioranza relativa dei voti. Continuava la battaglia per
le terre e montava la violenza nei confronti dei sindacalisti.
Il 10 marzo 1948, a Corleone, venne rapito e ucciso Pla-
cido Rizzotto. Era il segretario della Camera del Lavoro,
socialista, ex partigiano. Lo chiamavano “Vento del nord”,
un vento che scompaginava gli equilibri mafiosi che soffo-
cavano la terra e gli uomini. Anche il segnale lanciato con
quell’omicidio era chiaro, soprattutto perché nel giro di un
mese altri due segretari vennero uccisi: erano Epifanio Li
Puma di Petralia Soprana e Calogero Cangelosi di Cam-
poreale. Tre assassinati, tutti e tre socialisti: una chiara pu-
nizione per l’alleanza con i comunisti e un’intimidazione
in vista delle future scelte politiche. Fu a quel punto che il
comunista Pio La Torre, che aveva vent’anni, fu mandato

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per un breve periodo proprio a Corleone per sostituire Riz-
zotto. Il Vento del nord in quei giorni era un uomo scom-
parso, non lo si riusciva a trovare né vivo né morto, ma
nessuno si faceva illusioni. Passarono due anni prima che
il cadavere fosse ritrovato, ormai irriconoscibile, sul fondo
di un burrone.

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– Cos’era la mafia per tuo padre?


È una domanda che ci viene posta spesso. Rispondia-
mo con le sue parole, prese dai documenti che ha lasciato,
tutto materiale pubblico e ben noto. A quel punto capita
di accorgersi di un certo disappunto nell’interlocutore di
turno. Questo già lo sa, ma da noi vuole sapere il resto. Di
solito la domanda viene riformulata così:
– Come parlava di mafia con voi?
Deve esserci un’equazione molto diffusa, ed è la seguen-
te: siccome Pio La Torre era un nemico della mafia, sicco-
me è stato ucciso dalla mafia, allora Pio La Torre doveva
essere un uomo che giorno e notte si occupava di mafia,
che non pensava ad altro che alla mafia e cresceva i suoi
figli con una sorta di educazione tutta incentrata su quanto
fosse tremenda la mafia. In realtà nostro padre aveva ben
altre manie, se così vogliamo chiamarle. Una su tutte: la
difesa dei più poveri. Pio La Torre voleva uno Stato giusto,
che non schiaccia i deboli e che non è debole con i forti, una
società senza sfruttamento e in cui le istituzioni non siano
dalla parte dello sfruttatore. Ecco le utopie in cui credeva.
Se fosse nato in una città della Pianura Padana, La Tor-
re sarebbe stato il peggior nemico degli industriali senza
scrupoli. Nato a Palermo, La Torre è diventato il peggior

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nemico della mafia e di chi se ne serviva. Per questo l’ha
combattuta, perché era l’antitesi di tutto ciò in cui credeva.
Nei suoi primi anni di impegno politico la situazione
nelle campagne siciliane era molto simile a quella del pe-
riodo feudale. «Il proprietario, in genere l’aristocratico,
stava a Palermo, o anche se stava in paese viveva di ren-
dita» spiegava nostro padre. «Sul feudo c’era il gabellotto
mafioso che tendeva ad essere cooptato nella classe pro-
prietaria. Via via che l’agrario si allontanava dalla terra, il
gabellotto si proponeva come candidato a surrogarlo nel
possesso della proprietà».
La mafia non è solo ingiusta. Per un convinto comuni-
sta la mafia è sabbia negli ingranaggi della storia. A capire
quanto questa avversione avesse radici profonde aiuta la
“dialettica servo-signore” di Hegel riletta dal marxismo,
quella che veniva insegnata nelle sezioni del Pci. Lo sche-
ma è semplice. Il servo, subordinato al signore, acquisisce
a poco a poco un ruolo fondamentale perché dal suo lavo-
ro dipende il sostentamento di chi lo tiene sottoposto. La
presa di coscienza di questa contraddizione, dell’impor-
tanza del più debole che si scopre forte, è uno dei motori
della storia di progressiva liberazione attraverso la ribel-
lione contro i signori. Fin qui la teoria marxista, ovviamen-
te molto semplificata. Peccato che nelle campagne della
Sicilia, a bloccare questa dinamica, ci sia un personaggio
singolare, il gabellotto.
È una parola tipica siciliana, gabellotto; è l’affittuario
del terreno che lo gestisce assicurando una buona rendita
per proprietario e un’ottima rendita per sé. La mafia nel-
le campagne ha questo volto: una sanguisuga che succhia
denaro dal bracciante e dal proprietario, e lo fa attraverso
violenza e soprusi. Prima prende di mira il debole, il brac-
ciante o il contadino povero, obbligandolo a una vita di

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stenti, poi si sostituisce a quello di cui può fare a meno.
«Il potere mafioso finiva, in molti casi, con l’estromette-
re fisicamente il proprietario originale dalla sua terra. La
borghesia mafiosa alla fine diventava “proprietaria”, ma
sempre in funzione parassitaria». E non c’è solo questo. La
mafia sviluppa una narrazione eroica di se stessa, una pro-
paganda molto sottile che ha radici nella cultura popolare
e la contrappone allo Stato centrale e sfruttatore. Gli stessi
gabellotti in origine sono a volte contadini poveri: la mafia,
la sanguisuga, descrive la sua violenza con un’altra parola,
la chiama “giustizia”, usa lo stesso nome che nostro padre
dava a tutto ciò cui stava dedicando la sua vita.
Non è possibile raccontare l’impegno di Pio La Torre e di
molti di quella e altre generazioni senza rischiare di essere
retorici. Oggi abbiamo l’impressione di vivere una realtà
ovattata, immobile e immutabile; per quegli uomini, inve-
ce, tutto poteva e doveva cambiare. C’era davvero un noi
che era più importante dell’io. C’erano davvero soprusi a
cui non ci si poteva abituare mai. E davvero sentire parlare
dei criminali in termini di “onorata società” e “uomini d’o-
nore” era un pugno nello stomaco che forse non riusciamo
più a immaginare.

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– Hai letto L’emancipazione della donna di Lenin?


È il 1949, una ragazza di ventidue anni supera la soglia
della Federazione comunista di Palermo e incontra due oc-
chi neri e svegli, quasi febbrili. Lei pensa: “Questo me lo
devo sposare”; lui le chiede se ha letto Lenin.
Nostra madre, Giuseppina Zacco, era figlia di un baro-
ne, un medico repubblicano, un nobile che aveva perso
qualsiasi tipo di rigidità ed era convinto che i figli e le
figlie dovessero essere liberi di fare quello che sentivano
giusto. Non che Giuseppina, in quel momento, gli stesse
disobbedendo o gli stesse dando un dispiacere. Il dottor
Zacco non era il prototipo dell’aristocratico conservatore.
Tanto per cominciare non era stato fascista, e per questo
semplice fatto aveva dovuto abbandonare i sogni di carrie-
ra universitaria e darsi alla libera professione. Durante la
dittatura e la guerra, poi, gli era stata vietata anche quella
e venne obbligato a occuparsi, come primario, dell’ospe-
dale della Croce Rossa. Era una sorta di punizione, perché
si dava il caso che quello fosse un ospedale dove non si
poteva far carriera.
Lavorando per questo libro ci siamo chiesti se non-
no Francesco fosse stato comunista. Non ricordavamo,
eravamo sicuri che non ne fosse rimasta traccia, poi, tra

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Tessera del Partito Comunista Italiano di Francesco Zacco. L’iscrizione è
datata 1° gennaio 1944.

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i tanti documenti che i nostri genitori ci hanno lasciato,
abbiamo scovato una tessera del Pci a suo nome. Era del
1944. Significa che, immediatamente dopo la fine del fa-
scismo, nonno Francesco deve essere corso a iscriversi a
un partito che fino a pochi mesi prima era clandestino.
Ecco perché frequentava la Federazione comunista: quel
giorno del 1949 nostra madre stava accompagnando pro-
prio lui. Chissà quando nonno Francesco si era avvicinato
alle battaglie della sinistra, di certo nel Pci aveva trovato
buoni alleati per sostenere le sue convinzioni più radicate.
Spesso ospitava i dirigenti comunisti che scendevano in
Sicilia. Per alcuni mesi dormirono a casa sua Pompeo Co-
lajanni e famiglia, il mitico partigiano Barbato, che aveva
partecipato alla Resistenza nella Pianura Padana e capeg-
giato la liberazione di Torino. All’indomani della fine della
guerra La voce della Sicilia pubblicò un articolo del nonno
che ancora conserviamo. Il titolo è «Assistere i poveri» e
il tema è quello del degrado delle fasce più deboli, di cui
dovrebbero occuparsi le Opere Pie di Palermo: «Una buo-
na parte degli amministratori delle Opere Pie è costituita
da componenti la nostra tarata aristocrazia, cioè da vecchi
nobili che non hanno evidentemente né adeguata compe-
tenza né possibilità di compenetrarsi della ormai dispera-
ta situazione delle categorie più diseredate del popolo. I
nobilotti si servono delle cariche che ricoprono presso le
varie Opere Pie unicamente per soddisfare la loro vacua
vanità e qualche volta anche per venire incontro ad amici e
congiunti pure aristocratici…» eccettera eccetera. Firmato
Francesco Zacco, che evidentemente non aveva paura di
farsi dei nemici. È con lui che sua figlia Giuseppina, quel
giorno del 1949, entra in Federazione: è già iscritta, ma
vuole offrirsi per fare vera attività politica. Scopre subi-
to che entrare e chiedere non basta, perché ad accoglierla,

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Tessera del Partito Comunista Italiano di Giuseppina Zacco, anno 1946.

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dietro un tavolino, c’è un coetaneo che non la riceve con
grande calore.
– Perché sei qui?
– Voglio impegnarmi come militante.
– Hai letto L’emancipazione della donna di Lenin?
– No, non l’ho letto.
– Allora leggilo, e poi ne riparliamo.
È difficile oggi interpretare quel dialogo. Chissà se il gio-
vane La Torre non avesse qualche remora nell’accogliere la
figlia di un barone nel partito, una donna che poteva per-
mettersi calze di seta, mentre per le contadine spesso non
c’erano neppure quelle di cotone. Certo è che all’epoca era
normale non accettare nuovi militanti a cuor leggero, ma in-
dagarne le vere intenzioni e convinzioni, assicurandosi di
non accogliere serpi in seno. E poi dobbiamo spendere due
parole anche su quel libro, L’emancipazione della donna, pub-
blicato dalle Edizioni Rinascita di Roma nel 1948 e venduto
al prezzo di 150 lire. Per la verità si fatica a chiamarlo libro: è
una raccolta di articoli e di discorsi di poche decine di pagi-
ne, è di piccolo formato, è elegantemente impaginato ma la
carta è economica, con le lettere che fanno su e giù tra i molti
spazi bianchi. È un libro che si legge in un paio d’ore, e non
va neanche letto tutto: si possono scegliere gli articoli più
interessanti scorrendo i titoli dall’indice. Nostro padre aveva
chiesto una prova d’amore – per la causa comunista – ma era
una prova piccola piccola, quasi un invito a rivedersi presto.
Passarono due o tre giorni, infatti, e Giuseppina tornò
in Federazione dove, dietro al tavolo, sedeva ancora Pio.
– Hai letto L’emancipazione della donna di Lenin?
– Sì, un po’ l’ho letto.
– Allora adesso possiamo discutere, vieni con me.
Quella discussione è durata fino all’aprile 1982 e ad essa
noi dobbiamo la fortuna di essere al mondo. Se nostro pa-

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dre ebbe qualche pregiudizio nei confronti di quella gio-
vane e bella ragazza, ben presto lo mise da parte. Mentre
passeggiavano e discutevano per un parco cittadino fece
anche un gesto estremo, quasi una follia per il figlio di
un contadino: le comprò un gelato. Il loro amore è stato
da subito impastato di politica e delle tante vicende che
superarono insieme. E non poteva che essere così, perché
quando nostro padre doveva lavorare per il partito non
c’era per nessun altro, e questa passione andava compre-
sa, accettata e vissuta anche da chi gli stava vicino. Quel-
la, il Pci, era la sua seconda famiglia e nostra madre pare-
va volerne far parte. In poco tempo decisero di sposarsi.
Pio, a quel punto, volle presentare la fidanzata anche
alla sua prima famiglia, quella di Altarello di Baida. Lo ab-
biamo detto, nonostante avesse abbandonato il tetto pater-
no, quel legame non si era mai sciolto. In quel caso, però,
non c’erano libri da leggere che potessero preparare nostra
madre: venne messa di fronte a una prova più dura.
– Sai cucinare le uova?
Zia Felicia si preoccupò di vagliare quanto contava delle
capacità di quella giovane ragazza che voleva sposare il
fratello. Giuseppina, da parte sua, non era mai entrata in
una cucina perché sua madre, nonna Carmelina, non glielo
permetteva per il ragionevole motivo che là stavano do-
mestici e camerieri.
– Certo che sono capace!
Mamma non poté che mentire, ma di tutta risposta la
scettica zia le mise in mano una padella e due uova. Come
a dire, fammi vedere. La bugia durò lo spazio di pochi
sguardi.
– Pio, – urlò la zia – vedi che chista nun sapi fare nenti!
Mamma non superò la prova, ma non era un fallimen-
to che potesse interessare nostro padre, senza contare che

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c’erano ampi margini di ricorso contro quella bocciatura.
«Perché la donna sia completamente liberata e realmen-
te pari all’uomo, bisogna che i lavori domestici siano un
servizio pubblico e che la donna partecipi al lavoro pro-
duttivo generale», per citare L’emancipazione della donna di
Lenin, Edizioni Rinascita, pagina 36.
Sembra incredibile, ma fu più facile per papà, giovane e
senza un soldo, farsi accettare dal barone dottor Francesco
Zacco. Nonno lo portò nel suo studio per una visita genera-
le, nel vero senso della parola. Non c’erano testimoni e così
nessuno ha potuto riferire quello che si dissero con preci-
sione. Si è poi raccontato che il nonno avesse domandato
a papà dove intendesse trasferirsi con la giovane sposa, e
papà, con tutta la concretezza e la sincerità del caso, aveva
confermato quello che probabilmente il barone già imma-
ginava, e cioè che sarebbe toccato a lui ospitare gli sposini.
Poco male, deve aver pensato, perché quel ragazzo gli pia-
ceva. Gli piacevano le sue idee e la forza che trasmetteva, la
passione sconfinata per i deboli, e anche quel desiderio di
studiare che lo aveva portato lontano e che lui non aveva
saputo trasmettere ai suoi figli. Da parte di nostro padre,
invece, entrare nella famiglia Zacco come un figlio adot-
tivo deve averlo fatto crescere in fretta sul piano umano.
Molti aspetti lo rendevano diverso da quella realtà nobile
e benestante, ma c’era un collante che – al di là dell’amore
per nostra madre – stava nelle idee progressiste, nella fame
di giustizia, nel desiderio di cambiare la situazione in atto,
nella generosità verso il prossimo. Pio, in quella casa, deve
aver imparato che quando la posta in gioco è alta, è im-
portante dare valore a ciò che unisce, non riaffermare ciò
che divide. E pazienza se uno zio prete di nostra mamma
aveva deciso di diseredarla per aver sposato un comunista.
Su chi non capisce, ci si può fare una risata.

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Papà e mamma si sposarono il 29 ottobre 1949 con un
rito civile celebrato al municipio di Palermo. Il viaggio di
nozze durò poco. Presero il piroscafo da Palermo a Napoli,
passando dal timido monte Pellegrino al Vesuvio minac-
cioso. Dopo pochi giorni trascorsi sull’isola di Capri, ven-
nero però richiamati dalla Sicilia e decisero di tornare in
fretta. A casa, gli comunicarono, era iniziata la rivoluzione.

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Pio La Torre era membro del Comitato federale del Pci e


nei pochi mesi del fidanzamento non era rimasto indietro
sul piano politico, anzi. Lo slogan era «La terra a tutti»: bi-
sognava preparare l’ennesima mobilitazione per l’occupa-
zione delle terre da parte dei contadini. Non era la prima,
ma le precedenti non avevano dato frutto. Pio guardava
come esempi ai movimenti contadini della Pianura Pada-
na che, prima del fascismo, con uno sciopero di più di qua-
ranta giorni, erano riusciti a dare ai braccianti le otto ore
di lavoro e altre conquiste, presto cancellate dalle camicie
nere. L’importante, questa volta, era non rivelarsi vellei-
tari, organizzarsi, stare uniti. Il movimento puntava alla
riforma agraria, sulla base del concetto che le terre – molte
delle quali incolte e abbandonate – andavano assegnate ai
contadini che potevano e volevano lavorarle e che, invece,
stavano morendo di fame e malattie.
Il 29 ottobre 1949 non è solo la data del matrimonio di
papà e mamma, ma è anche il giorno nefasto della strage di
Melissa, in Calabria, dove la polizia aprì il fuoco sui conta-
dini e i braccianti che avevano occupato un appezzamento
agricolo, lasciando a terra tre morti, un uomo, una don-
na e un bambino, e facendo quindici feriti. Il rimbombo
di quegli spari arrivò anche in Sicilia, dove il movimento

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era pronto all’occupazione su larga scala, almeno nell’opi-
nione di nostro padre e del segretario federale di Palermo,
quel Pancrazio De Pasquale che lo aveva accolto nella sua
casa e nella sua segreteria. Di diversa opinione era il se-
gretario regionale, l’ex partigiano Girolamo Li Causi, che
in una riunione convocata da Togliatti dopo la strage – la
questione della riforma agraria era nazionale e non solo
siciliana – sostenne che la Sicilia non era pronta per l’occu-
pazione. «Egli, cioè» scriverà Pio, «ignorava quello che si
era preparato a Palermo». Si aprì un periodo di dolorosa
rottura, durante il quale i giovani del partito palermitano
vennero tacciati di “frazionismo”, cioè di voler dividere il
partito per scalzare Li Causi, e di “populismo”, per via del-
la troppa attenzione prestata alle masse contadine, disinte-
ressandosi invece degli operai e di altre battaglie politiche.
Nostro padre e la Federazione palermitana, comunque,
tirarono dritto e programmarono l’occupazione per il 13
novembre 1949, organizzandola con una serie di incontri
e assemblee in tutta la provincia. Quella fu la vera luna
di miele dei nostri genitori, ospitati dai braccianti perché
il partito non poteva sostenere economicamente il loro la-
voro. Dormivano sulla paglia nelle stalle, quando c’era la
stalla, o nelle piccole stanze che ospitavano intere famiglie,
spostandosi con muli, cavalli e biciclette. Nostra madre,
che era stata educata a ben altri agi, non ci ha mai raccon-
tato di quel periodo come di una prova difficile. Entram-
bi erano entusiasti e orgogliosi di aver partecipato a quel
movimento. La sera, con i contadini, si ascoltavano alla
radio le notizie che venivano dall’altra parte del mondo,
dalla Cina, dove l’Esercito Popolare di Liberazione stava
vincendo la guerra civile. I dirigenti facevano in modo che
ci si sentisse uniti in una battaglia comune, in Cina come in
Sicilia, poveri contro sfruttatori.

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La Torre segretario Camera del Lavoro Palermo presiede la riunione della
Federbraccianti

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Il 13 novembre 1949 in dodici paesi della provincia di
Palermo migliaia di persone scesero in strada, a piedi, a
cavallo, sui muli, e si diressero verso i feudi difesi dai ga-
bellotti mafiosi con i loro attrezzi e le bandiere dei partiti.
Non c’erano solo quelle comuniste, ma anche quelle dei
socialisti e della Confederterra. A Bisacquino alcune donne
portarono la bandiera della Democrazia Cristiana in po-
lemica con i dirigenti e con il parroco locale. «In genere»
scrisse nostro padre dei democristiani, «noi auspicavamo
la loro partecipazione». La mobilitazione non venne re-
pressa immediatamente, troppa eco aveva avuto il boato
di Melissa, e così i contadini poterono fare quanto di più
simbolico e concreto si possa fare in un campo occupato:
seminarono il grano con la semenza raccolta in precedenza
durante le feste dell’Unità.
Non fu la repressione – che ebbe comunque alcuni pic-
chi violenti – a sciogliere il movimento, ma le piogge e la
naturale stanchezza. Ci si lasciò dandosi appuntamento,
diciamo così, al marzo successivo, mentre i semi, sotto
terra, facevano il loro lavoro. La Federazione palermitana
cercò di coinvolgere nel movimento Li Causi e, insieme,
di far assegnare ai contadini, riuniti nelle cooperative, il
diritto sui tremila ettari seminati. Il prefetto propose in-
vece di assegnare loro altre terre: il risultato sarebbe stato
che i proprietari avrebbero raccolto il grano seminato dai
contadini, e i contadini non avrebbero raccolto nulla. La
trattativa, come è normale che fosse, saltò, e il movimento
riprese vigore.
Il 10 marzo il compagno La Torre era alla testa di un lun-
ghissimo corteo a Bisacquino, a circa ottanta chilometri da
Palermo, nell’entroterra. Il corteo puntava sui terreni occu-
pati, che venivano divisi tra i braccianti un ettaro ciascuno.
Alla testa del corteo ormai era stabile, insieme alle altre,

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la bandiera bianca democristiana, segno di un movimento
unitario e per questo più forte. Nel pomeriggio qualcuno
portò a Pio un telegramma. Veniva da Palermo, Pancra-
zio De Pasquale aveva bisogno di lui perché, si scoprì poi,
voleva metterlo a capo della Confederterra palermitana.
Papà avrebbe dovuto per questo prendere la corriera del-
le 15 ma, discutendo con il sindaco socialista del paese,
finì per perdere tempo e, insieme a quello, l’autobus. Ri-
prese allora la strada per le campagne, si fermò nell’orto
di un compagno che gli regalò dei finocchi e, parlando e
mangiando, si avviò verso il corteo dei contadini. L’idillio
bucolico si ruppe quando, mentre già i contadini erano in
vista, spuntò una colonna di automezzi carica di poliziotti
e carabinieri che si fermò a poche centinaia di metri da lui.
Pio capì cosa stava succedendo, anche perché il prefetto
aveva minacciato una dura repressione. Decise allora di
evitare lo scontro per salvaguardare gli occupanti e perché
sapeva che rispondere alla polizia, da parte dei contadini,
avrebbe rischiato di far fallire la loro azione. Iniziò allora a
camminare verso i poliziotti.
«Mentre mi avvicinavo notai il tenente dei carabinieri di
Bisacquino. Costui si chiamava Panzuti ed era una perso-
na ragionevole con cui ero riuscito a trovare un’intesa nei
giorni precedenti. Ma quando quel pomeriggio tentai di
rivolgermi a Panzuti, egli abbassando gli occhi mi disse:
“Si rivolga al dirigente della colonna, il commissario capo
dottor Panico”». Il dottor Panico non lasciò neppure par-
lare il giovane Pio e ordinò subito di strappare le bandie-
re, «quello sconcio di bandiere» furono esatte parole, dalle
mani delle donne. Loro reagirono e gli uomini risposero
alle forze dell’ordine con una sassaiola. Fu a quel punto
che le armi degli agenti presero a sparare e la situazione si
fece davvero difficile.

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«Io all’inizio ero rimasto in mezzo agli ufficiali di poli-
zia. Successivamente, dopo gli spari, ero andato a finire
di nuovo in mezzo ai contadini e nel mezzo della mischia
ho assistito a cose terribili. Ho impedito fisicamente a un
gruppo di contadini nascosti dietro un macigno di uccide-
re un maresciallo. Dietro un altro macigno un altro gruppo
di contadini aveva catturato un maresciallo di pubblica si-
curezza e, dopo averlo disarmato, lo stavano denudando.
Convinsi quei contadini a restituire la divisa al maresciallo
e a lasciarlo libero».
Papà era tra i più giovani, in mezzo a quel tafferuglio,
eppure riconosceva quello che aveva davanti: era una pro-
vocazione, un tentativo di screditare il movimento i cui
nemici non erano carabinieri e poliziotti, ma gli agrari e i
mafiosi che volevano quello scontro.
Alla fine lo caricarono con più di altri cento sui camion
della polizia e un tenente lo accusò falsamente di averlo
preso a bastonate. A terra, nelle campagne di Bisacquino,
rimase il bracciante Salvatore Catalano con un proiettile
conficcato nella colonna vertebrale. Restò invalido per tut-
ta la vita e spesso, negli anni successivi, ricevette le visite
di nostro padre.
L’indomani papà e gli altri entrarono nel carcere dell’Uc-
ciardone e, dopo le perquisizioni di rito, vennero portati
nelle celle in attesa di giudizio. Le accuse erano di resisten-
za a pubblico ufficiale, lesioni e violenze, diffusione di no-
tizie false e tendenziose, occupazione delle terre. L’attesa fu
infinita: restarono in carcere per un anno e mezzo senza es-
sere giudicati. Pio pensava alla sua casa, dove lo aspettava-
no una moglie incinta e una madre malata. Non potrà esse-
re presente alla nascita del primo figlio, Filippo, e perderà
l’occasione di salutare per l’ultima volta la sua mamma.

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Il carcere è un ricordo difficile da gestire in una famiglia,


un tema che va raccontato con cautela, e infatti la storia
non ci è stata riferita quando eravamo bambini, ma più
tardi, quando Filippo era già al liceo e Franco alle scuole
medie. Da quel momento si prese a parlarne abbastanza
spesso, ma non con rabbia o rancore. Se ne rideva, i nostri
genitori raccontavano la vicenda come se fosse un’epopea:
«Sai che mi è successo di finire in cella con i mafiosi? Sai
cosa ha detto tuo padre quando gli ho comunicato la no-
tizia della tua nascita?» D’altra parte papà lo metteva in
conto: così come tutti suoi punti di riferimento, i comunisti
del periodo del fascismo, il carcere poteva essere un “effet-
to collaterale”. Non era qualcosa di cui vergognarsi, questo
è vero, ma era qualcosa che faceva male. In questo senso i
nostri genitori ci tutelarono da un sentimento doloroso, e
solo più tardi ci capitò di pensare a quanto dovesse essere
duro per un ventiduenne finire all’Ucciardone. Di spazio
per il rancore, per la rabbia e il dolore ce ne sarebbe stato,
eccome. Lui stesso, trent’anni dopo, scriverà di quell’anno
e mezzo con le parole di un uomo ferito. Il fatto di non aver
potuto far visita al letto di morte di sua madre, soprattutto,
lo aveva segnato.
Mamma, quando ce ne parlò per la prima volta, ci mo-

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strò i libri che gli aveva portato in carcere dove, nelle pa-
gine bianche, erano scritti dei messaggi con il succo di
limone, che si potevano vedere solo passando una fiam-
mella sotto al foglio. Qualcuno di quei libri è stato conser-
vato, ma chissà dove sono andati a finire oggi. È difficile
ricordarne i titoli. Papà leggeva saggi e non si interessava
di romanzi; di certo si fece portare le Lettere dal carcere e
altre opere di Antonio Gramsci che venivano pubblicate
proprio in quel periodo da Einaudi grazie ai fondi del Pci.
Voleva testi per la sua formazione e per l’analisi politica,
lesse Lenin e Labriola, passò quei mesi studiando in una
fame di informazioni sempre crescente di cui fece le spese
anche mamma. Lei gli mandava lettere piene di dolcezza
e preoccupazione, lui le rispondeva chiedendo aggiorna-
menti sulla situazione politica ed esponendo le sue rifles-
sioni. Quando lei andò ad annunciargli la nascita di Filip-
po, poco dopo il parto, lui le rispose che era doppiamente
felice, per la nascita del figlio e perché la Regione Siciliana
aveva appena approvato una legge di riforma agraria. Era
fatto così, a volte serviva un po’ di pazienza.
La sua famiglia di origine non poté assisterlo, sia per
mancanza di denaro sia perché stava affrontando in quel
periodo l’agonia di nonna Angela. La famiglia di nostra
madre, invece, si adoperò per far avere a quel ragazzo
qualche piccolo privilegio che per le vie “legali” non pote-
va essere raggiunto. Si tenga conto che le vie legali, allora,
erano quelle che scarceravano con facilità i mafiosi e tene-
vano in cella centinaia di persone per mesi senza proces-
so. Comunque finì che per qualche libro, qualche giornale,
qualche colloquio in più, dovettero impegnare la bian-
cheria. Una delle grosse imprese fu quella di far vedere a
papà il primogenito in fasce. Riuscirono a ottenere che una
guardia carceraria gli portasse il fagottino, ovvero Filippo

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avvolto in una specie di sacchetto. Fu uno dei momenti di
maggior commozione di tutta la vita quando si rese conto
di essere diventato padre in quelle condizioni.
A questo si aggiungeva per papà l’impressione, e forse
molto di più, che il suo partito lo avesse abbandonato. La
tensione tra Li Causi e De Pasquale si era risolta in una se-
rie di provvedimenti disciplinari contro quest’ultimo, reo
di essere a capo di un vero e proprio “complotto frazioni-
stico”, complotto del quale faceva ovviamente parte anche
il compagno La Torre. Fu informato, tramite nostra madre,
che non avrebbe avuto nessun avvenire nel partito e che
era meglio che utilizzasse il tempo in carcere per studiare
e laurearsi. D’altra parte, il fatto che fosse detenuto senza
essere stato condannato avrebbe potuto certo essere posto
al centro di una battaglia del partito, per richiederne la
scarcerazione e, se ben organizzati, le possibilità di riuscita
erano moltissime. Semplicemente il partito decise di non
farlo per molti mesi.
Poi, nel novembre del 1950, a Palermo arrivò come vice
di Li Causi un dirigente romano, Paolo Bufalini. Fu l’esta-
te di San Martino, un raggio di sole inaspettato in mezzo
all’inverno gelido. Nonno Francesco si adoperò perché la
situazione di nostro padre e degli altri venisse rimessa in
discussione e i suoi buoni offici diedero frutto perché Bufa-
lini rimise al centro dell’azione politica la riforma agraria e
la scarcerazione dei compagni vittime della repressione di
Bisacquino. Quando lo venne a sapere, felice per la riabi-
litazione e la prospettiva di lasciare il carcere, papà scrisse
una lettera accorata a Bufalini: «Uno degli obiettivi che il
nemico si prefigge chiudendoci in carcere è quello di strap-
parci alla lotta e di isolarci da quel movimento che è la
fonte di ogni nostro pensiero e azione. Ma se ci impedisce
di partecipare a determinate attività non può impedirci di

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essere informati e di seguire passo passo e di vivere gli
sviluppi di quel movimento col quale la nostra esistenza
si identifica».
Il motivo per cui nostro padre poté fare quello che fece,
prima e dopo Bisacquino, sta proprio in questa identifi-
cazione totale e piena con le sue battaglie. Oggi come al-
lora queste parole possono sembrare retoriche, eppure
non lo sono. Pochi hanno avuto e hanno la credibilità per
pronunciarle, pochi possono davvero dire «Io sono la mia
battaglia». La lettera piacque tanto a Bufalini che decise di
farla pubblicare su l’Unità, commettendo una leggerezza
di non poco conto visto che nostro padre, dal carcere, non
avrebbe potuto inviare corrispondenza, o almeno non di
quel tenore. Papà venne interrogato e si rifiutò di spiegare
come quello scritto fosse arrivato sulle pagine del quoti-
diano. Disse semplicemente che c’era arrivato «per posta»
e venne punito con ventiquattr’ore di reclusione da scon-
tare insieme a due fratelli mafiosi, uno imputato di omici-
dio e l’altro di sfregio. Il maggiore aveva ammazzato un
uomo per la grave colpa di non aver ceduto il passo al suo
carretto. Nostro padre quella notte non dormì.
Paolo Bufalini si fece poi perdonare. In pochi mesi pro-
mosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un
collegio di difesa che ottenne la scarcerazione delle perso-
ne arrestate a Bisacquino. Papà venne assolto dall’accusa
di aver colpito il tenente, ma condannato per occupazione
di terre. Fu comunque scarcerato: già aveva passato all’Uc-
ciardone più del tempo previsto dalla condanna. Quando
mio padre uscì dal carcere, ad attenderlo c’erano la moglie
e la suocera. Nostra madre fu colpita dal colore della sua
pelle, da troppo lontana dalla luce del sole, e dall’odore
che aveva addosso, una «puzza di carcere» che ricordò per
tutta la vita.

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Molti dei protagonisti di questa vicenda come di altre
che verranno non sono solo parte della storia del Pci sici-
liano, ma sono anche personaggi dei miei ricordi di bam-
bino e ragazzo. Paolo Bufalini, per esempio, rimase sem-
pre legato a mio padre. Era “di casa”, come si dice, sia a
Palermo sia quando ci trasferimmo a Roma. Negli anni in
cui vivemmo nella capitale, quando papà non rientrava
la sera, lo si poteva trovare in una trattoria nella zona di
Campo de’ Fiori, preso in una delle sue infinite discussioni
con Bufalini. Ricordo che per qualche motivo, quando ero
ancora un ragazzino, gli rimase impresso il mio interesse
per la storia e, al posto di chiamarmi per nome – Franco –,
iniziò a rivolgersi a me semplicemente come allo “storico”.
Aveva colto qualcosa di me perché anni dopo mi laureai
proprio in Storia preso da una passione che lui e mio padre
certo condividevano.
Tra gli altri “personaggi viventi” ricordo Girolamo Li
Causi, il grande dirigente che, dopo la lotta di Resisten-
za, dovette anche subire un attentato per mano mafiosa.
Lo ricordo in un pomeriggio degli anni Sessanta mentre
chiacchierava con mio padre nel giardino dei nonni. Evi-
dentemente Pio e Li Causi negli anni si erano riavvicinati,
o la necessità di condividere l’impegno politico fece sì che
mettessero da parte le loro incomprensioni. Io ricordo Li
Causi come un signore che mi ispirava simpatia, un uomo
molto anziano per me che ero solo un bambino. Lui e mio
padre quel pomeriggio giocarono con me per qualche mi-
nuto e mi fecero divertire molto.
Gli uomini che fanno la storia sono sempre anche uomi-
ni che giocano – o non giocano – con i bambini, che amano
– o non amano – le loro mogli, che abbracciano – o non
abbracciano – i loro amici. E in questa quotidianità ricca
di sentimenti le persone autentiche rimangono sempre se

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stesse. Così Li Causi, il partigiano, il parlamentare, il rife-
rimento dei comunisti siciliani, l’uomo che la mafia aveva
tentato di intimorire sparandogli alle gambe, era lo stesso
che mi faceva giocare, e questo non lo possiamo derubri-
care come ininfluente. Se davvero vogliamo chiederci chi
fosse, dobbiamo sapere come ha speso gli anni della sua
vita. Ecco, Li Causi era un uomo che giocava con i bambi-
ni. Allo stesso modo mio padre – un uomo che mangiava i
cannoli dividendoli sempre a metà – era lo stesso che gui-
dò i contadini, che fu in carcere e fece paura alla mafia. I
due aspetti, pubblico e privato, camminano insieme: Pio
La Torre era un uomo unico, ed era sempre se stesso.

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CON NOI

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Dopo il carcere, la vita dei due sposini – i nostri genitori


– cambiò in fretta. Negli anni Cinquanta la nostra fami-
glia si allargò e dopo Filippo, il primo figlio nato durante il
soggiorno forzato all’hotel Ucciardone, Pio vide finalmen-
te nascere il secondo di noi, Franco. Vivevamo sotto il tetto
dei nonni materni, a Palermo, in via Pasubio, nel quartiere
Matteotti che nei giorni neri si era chiamato Littorio. Intor-
no a noi la Sicilia che i nostri genitori avevano conosciuto
andava piano piano scomparendo.
La stagione delle lotte contadine ebbe una frenata
con l’approvazione della riforma agraria che, varata dal
governo De Gasperi, avrebbe dovuto rispondere alle
esigenze delle campagne. Non fu una transizione sem-
plice, ma servirono rivendicazioni e lotte per veder at-
tuata quella legge. Ancora una volta lo Stato non seppe
tutelare i più deboli. Non fu inusuale che proprietari e
mafiosi riuscissero ad escogitare stratagemmi, tanto fan-
tasiosi quanto meschini, per mantenere il potere sulle
terre, ovviamente a scapito dei contadini. Molti agrari
vendettero proprio ai contadini poco prima dell’entrata
in vigore della riforma, frodandoli, lasciandoli sul lastri-
co e ammassando così denaro da investire in altri settori.
Quando Pio diceva che anche un contadino aveva biso-

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gno di studiare per tutelare i suoi interessi, aveva delle
buone ragioni.
Nello stesso periodo, venendo meno la manodopera a
bassissimo costo garantita dai gabellotti, ai vecchi proprie-
tari terrieri che volevano investire in agricoltura non restò
che dotarsi di moderne macchine agricole. Le campagne
subirono allora una veloce modernizzazione, proprio men-
tre il prezzo del grano – anche grazie agli aiuti americani
del piano Marshall – crollava di schianto. L’agricoltura,
così centrale per l’economia dell’isola, stava diventando
meno fruttuosa e quindi meno influente dal punto di vista
politico. Nostro padre continuò comunque a occuparsene
per tutta la vita, anche quando le rivendicazioni di chi la-
vorava la terra uscirono quasi completamente dall’agenda
politica dei partiti. Ancora negli anni Settanta, con il suo
accento marcatamente e fieramente palermitano, poteva
battere in lungo e in largo la Pianura Padana ed essere ap-
prezzato, superando ogni pregiudizio, proprio grazie alla
conoscenza minuta e puntuale dei temi legati al mondo
agricolo.
Non si deve credere che con la riforma agraria la Sici-
lia si fosse pacificata, così come non è possibile pensare
che la mafia, venute meno le funzioni dei gabellotti, fosse
scomparsa. Mentre nostro padre restava un dirigente della
Cgil, i sindacalisti continuavano a morire. Nel 1955 ven-
ne pubblicato un resoconto di viaggio dello scrittore Carlo
Levi in cui si raccoglieva, tra le altre, la testimonianza del-
la madre di Salvatore Carnevale, sindacalista e contadino
assassinato quello stesso anno dai mafiosi al servizio della
principessa Notarbartolo a Sciara, provincia di Palermo.
Carnevale, poco più di trent’anni, combatteva perché la
legge fosse rispettata. Il testo fece discutere perché lì sua
madre, per cui «le lacrime non sono più lacrime ma parole,

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e le parole sono pietre», descriveva la mafia con precisione,
grazie a un linguaggio elementare e per questo diretto. Era
la stessa mafia di cui pochi anni prima un uomo, «vicesin-
daco, credo, di Palermo», disse allo stesso Levi: «Lei ci cre-
de a quella fandonia? La mafia non esiste, è una leggenda.
La mafia non c’è: se ci fosse sarebbe una bella cosa, sarei
mafioso anche io».
Questi erano i discorsi che mio padre sentiva quando
entrava in un bar o cenava in un’osteria, l’assurda nega-
zione di ciò che gli aveva ucciso tanti compagni, che aveva
attentato alla vita del suo segretario Li Causi, che gli ave-
va bruciato la porta della stalla obbligandolo a lasciare la
propria casa. Per lui negare che ci fosse la mafia in Sicilia
era come negare che ci fossero i fichi d’India, le palme e
le piante di cappero. E anzi era peggio, perché si rendeva
conto che grazie a quella negazione la mafia agiva indi-
sturbata, e che quella favoletta per cui la mafia non esi-
steva come organizzazione criminale, ma soltanto come
fenomeno culturale, come un senso di giustizia tipico dei
siciliani che si impastava con l’onore e la virilità, era una
teoria a uso e consumo della mafia stessa. Pio, mentre lot-
tava contro la mafia, si sentiva così dire che la mafia non
c’era e che, in fondo, trattandosi di un fenomeno cultura-
le proprio dell’isola, tutti i siciliani erano un po’ mafiosi.
Sì, perché non esistono organizzazioni mafiose, esiste un
aggettivo, “mafioso”, che è per giunta positivo. Luciano
Liggio – gabellotto di Corleone accusato di essere l’assas-
sino di Placido Rizzotto, un farabutto che avrà un ruolo
di primissimo piano nella mafia siciliana – in un’intervi-
sta concessa nel 1989 a Enzo Biagi, sostenne appunto che
«“mafioso” è una parola di bellezza, bellezza non solo fisi-
ca ma anche spirituale». Una bella ragazza, un bel cavallo,
un bel cappotto sono tutti “mafiusi” e, continuava Liggio

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incalzato da Biagi, in Sicilia le persone muoiono ammaz-
zate perché «siamo gente sanguigna». L’intervista destò
scalpore, ma Liggio non faceva altro che richiamarsi a una
tradizione che aveva radici nell’Ottocento e che restò viva
per più di un secolo. Una visione inaccettabile, che avreb-
be fatto anche di Pio La Torre, un bravo ragazzo intelligen-
te e lavoratore, un “mafiuso”.
Nel frattempo, negli anni Cinquanta e Sessanta, mentre
tanti si attuppanu ’a vucca, per non parlar di occhi e orec-
chie, il potere mafioso spostava i propri interessi su altri
settori e sulla città di Palermo, bellissima ma deturpata
dai bombardamenti, povera ma di nuovo “capitale” grazie
all’istituzione della Regione autonoma siciliana. Gli inte-
ressi mafiosi, finita l’Italia rurale, smisero di guardare alle
campagne e sognarono palazzi, condomini, centri congres-
si. Ne verrà una speculazione edilizia su vasta scala che
sfigurerà per sempre la città e farà tracimare le casse del
malaffare.
Nostro padre, di fatto, seguì gli investimenti della mafia
come in un corpo a corpo. Nel 1952 si candidò alle elezioni
comunali a Palermo e guadagnò un posto tra le fila della
minoranza che combatteva, come poteva, contro quanto
stava avvenendo. Due anni dopo scrisse un articolo molto
accorato per l’Unità della Sicilia spiegando come il Comune
stava subendo una trasformazione inquietante: «Pur re-
stando strutturalmente una Amministrazione del passato
si sta adeguando, nel settore edilizio, alle più ampie esi-
genze della grande speculazione edilizia». E poi ancora:
«L’Ufficio Lavori Pubblici è stato trasformato in un grande
baraccone che ha il compito di portare avanti i piani della
speculazione privata». Siamo nel 1954, Pio ha solo ventisei
anni e il peggio – la gestione di Giovanni Gioia, Salvo Lima
e Vito Ciancimino – deve ancora venire. La mafia cambia

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Pio La Torre con il figlio Filippo nel 1952.

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connotati e riferimenti politici, e si avvicina sempre più
alla destra democristiana. Presto i confini tra politici amici
e mafiosi si faranno tanto sottili da rendere qualsiasi distin-
zione un puro esercizio per filosofi e magistrati. Dall’altra
parte della barricata – fino al 1960 – nostro padre sedette al
suo posto nel consiglio comunale di Palermo. Salvo Lima,
sindaco mafioso di Palermo dal 1958 al 1963 e dal 1965 al
1968, usava dire che la pasta andava scolata quando tutti
i cucchiai erano in tavola, cioè che gli affari si facevano
quando tutti potevano aspettarsi la loro porzione di gua-
dagno. Nessuno ha mai messo in dubbio che Pio La Torre
a quella tavola non si sia mai seduto.

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Documento, datato 4 giugno 1952, con cui il prefetto comunica a Pio La
Torre l’avvenuta proclamazione a consigliere comunale di Palermo. È la
sua prima elezione. Ha ricevuto 54702 voti.

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Otto anni in consiglio comunale di fatto corrispondono


ai nostri primi ricordi. Ma quelli non bastarono, perché in
quel periodo papà diventò segretario regionale della Cgil,
dal 1959 al 1962, e poi segretario regionale del Pci, dal 1963
al 1967. Inoltre, nel 1963, venne eletto per la prima volta
all’assemblea regionale siciliana, dove restò per due legi-
slature, e dal 1964 al 1968 si impegnò per un mandato da
consigliere presso il Comune di Monreale. Nostro padre,
in quegli anni, si immerse anche in una nuova e più raffi-
nata formazione politica, fatta di viaggi a Roma con desti-
nazione via delle Botteghe Oscure, come componente del
Comitato centrale e poi della Direzione nazionale, e in bre-
ve diventò, nonostante la giovane età, un dirigente stimato
in tutta la regione.
Negli anni Sessanta Pio si trovò quindi al posto che era
stato di Li Causi, e dovette essere singolare vedere alla
Direzione un uomo che, all’epoca delle lotte per la terra,
era stato accusato di aver agito in grave disaccordo con i
vertici del partito. De Pasquale e gli altri, tra cui papà, era-
no stati riabilitati, certo, e quel “peccato” fu attribuito alla
giovane età e a una formazione politica ancora acerba. «De
Pasquale ha sbagliato gravemente ma non ha tradito» ave-
va detto all’epoca Pietro Secchia, sceso da Roma per met-

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tere fine alla questione. «Ci ha detto di non essersi accorto
del carattere deleterio della sua azione. Soltanto alla scuo-
la del partito si è accorto del suo errore». E così era stato
anche per Pio. Non che avesse potuto godere della scuola
di partito nei giorni passati all’Ucciardone, ma di certo si
accorse dell’errore: non quello di appoggiare i contadini,
ma quello di andare contro il proprio partito. Quel ragazzo
che aveva fatto parte di una corrente “frazionista”, come
si diceva allora, dopo più di dieci anni – forse anche per
quell’episodio – comprendeva appieno il valore dell’unità
e di una direzione univoca del movimento.
Il più maturo compagno La Torre interpretava il ruolo
di dirigente politico come un impegno alla responsabilità,
un onere che avvertiva in tutte le sue implicazioni, ma che
non ne modificava modi e abitudini. «Pio non sgarrava di
tanto così rispetto alle sue idee» ricordava spesso nostra
madre, e il rigore che sarebbe dovuto derivare dal senso di
responsabilità per i nuovi incarichi non aggiungeva molto
alla sua personale coerenza, quell’inflessibilità nel raccor-
dare ideali e scelte concrete che lo caratterizzava. Essere
un dirigente voleva dire soprattutto rendere più diffusa ed
efficace la sua personale battaglia, che in realtà personale
non era mai stata: a capo di una struttura influente e per-
vasiva, una macchina fatta di donne e uomini, ora poteva
davvero cambiare l’ingiustizia in giustizia.
L’autobiografia di un importante leader comunista, Pie-
tro Ingrao, è intitolata Volevo la luna. Nostro padre non
avrebbe mai accettato un titolo simile, troppo enfatico, con
un retrogusto utopico. La sua visione politica non manca-
va di idealismo, ma era convinto che ogni traguardo si rag-
giungesse attraverso piccole conquiste intermedie e che a
quelle si dovesse puntare. Pio continuava a lanciare il cuo-
re oltre l’ostacolo, ma non prima di aver creato le condizio-

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ni perché questo gesto fosse utile e fruttuoso. Significava,
a volte, dover fare dei passi indietro. Significava chiedersi
quale fosse l’obiettivo perseguibile. Lui questo ormai lo
accettava. Voleva la luna, ma soprattutto voleva costrui-
re uno a uno tutti i gradini necessari ad arrivarci. Essere
un dirigente politico significava quindi avere il compito
di creare queste condizioni, di guidare una macchina che
doveva muoversi con continuità e a volte con inevitabile
lentezza.

– Franco, Filippo, lo sapete di essere figli di Tazio Nu-


volari?
E come potevamo dimenticarlo? Papà guidava poco,
spesso il partito gli metteva a disposizione automobile
e autista, ma amava le quattro ruote ed era convinto di
essere un guidatore di talento, come Tazio Nuvolari, ap-
punto, il «mantovano volante», il campione della sbanda-
ta controllata, cioè il più grande pilota del periodo della
sua infanzia. Non abbiamo mai visto correre Nuvolari, ma
abbiamo ragione di credere che in questo paragone papà
fosse molto generoso con se stesso. La verità è che guida-
va malissimo; le sue capacità di entrare in relazione con
uno strumento meccanico erano pressoché nulle e l’auto
non faceva eccezione. Resta, in questo frangente, il ricordo
di Filippo di una breve vacanza di famiglia, un giro della
Sicilia che culminò con la visita all’Etna. Franco era molto
piccolo e restò a casa con la nonna.
Per quel viaggio affittammo – o qualcuno ci prestò –
un’automobile, perché noi non la possedevamo. Andam-
mo verso Catania, poi le strade cominciarono a cambia-
re pendenza, prendemmo a salire verso la cima della più
alta montagna dell’isola. Il problema non fu l’ascesa ma
la discesa, che si trasformò in una cruenta tortura per le

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Agata Zacco, sorella di Giuseppina, tiene sulle gambe Franco
La Torre, nel giardino di casa (Palermo, 1959).

Pio La Torre nel giardino


di casa, dopo la nevicata a
Palermo dell'inverno del
1960.

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ganasce dell’auto: papà non scalò mai la marcia e affrontò
i tornanti in quarta solo perché la quinta, per le utilitarie,
ancora non esisteva. In quello stato non poteva che conti-
nuare a pigiare il freno a ogni curva e discesa in cui l’auto
prendeva troppa velocità. Arrivati a valle si accorse che i
freni erano completamente consumati, ma la parte davve-
ro comica fu che il Tazio Nuvolari di Sicilia si domandò
per molto tempo perché mai l’automobile si fosse ridotta
in quello stato. A mettere in dubbio le sue capacità di pilota
non ci pensava neanche.

Partito e sindacato possono essere strumenti, ma non


sono macchine. Il loro funzionamento si basa su logiche
politiche e cioè su relazioni tra esseri umani, presi sin-
golarmente o in gruppi più o meno organizzati. Ti per-
mettono di raggiungere obiettivi più ampi, per i quali
è necessario sostenere e farsi sostenere dalla massa. Per
questo – per le relazioni tra uomini e per le strategie della
politica – nostro padre aveva predisposizione naturale e
talento inversamente proporzionali a quelli per la mec-
canica. Ormai non si trattava solo di quanto già abbiamo
detto, cioè del guadagnare la fiducia dei contadini che
in lui si rispecchiavano. Con il passare del tempo il suo
impegno allargò gli orizzonti mentre la classe contadina,
in termini oggettivi, si assottigliò progressivamente. Da
segretario della Cgil dovette occuparsi di tutti i setto-
ri produttivi ed entrare in contatto con uomini e donne
dalle esigenze diverse. Il suo lavoro nel partito diede gli
stessi frutti, obbligandolo a nuove battaglie e nuovo stu-
dio. Mantenne sempre una vocazione popolare mentre,
consapevole dei limiti di questa impostazione, amava cir-
condarsi di intellettuali.
Molte delle doti che già abbiamo messo in evidenza

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lo sostennero in questo percorso, ma ora più di tutto lo
aiutò la naturale curiosità. Il compagno La Torre era in-
fatti capace di appassionarsi a dilemmi grandi e piccoli:
non importava quanto alta o misera fosse la posta in gioco,
lui ci si buttava a capofitto, a patto di vederci il segnale di
una questione più grande, quella del destino delle masse
e dell’emancipazione di chi era sottomesso. Mediare, tro-
vare soluzioni, scovare la falla nel sistema e su quella co-
struire una strategia, vagliare le alternative possibili con
meticolosa attenzione. Lottare. Soprattutto gli interessava-
no gli uomini e le donne: aveva uno sguardo che si intrufo-
lava negli interstizi, che cercava di scoprire quali fossero le
aspirazioni di chi lo incontrava, quali le convinzioni, quale
il passato. L’indifferenza gli era sconosciuta: qualsiasi per-
sona o situazione era per lui degna di attenzione e rifles-
sione, anche solo per un breve istante. D’altra parte il suo
impegno era nato proprio nel tentativo di dare voce a chi
per secoli era rimasto nel silenzio: come avrebbe potuto,
ora, disinteressarsi di chi gli affidava il suo problema o an-
che soltanto la sua considerazione? Così come aveva di-
vorato libri per «appropriarsi della cultura», ora divorava
storie, problemi, fratture, battaglie.

A cinque anni mio padre lavorava nei campi e chiedeva a


suo padre che lo lasciasse andare a scuola. A cinque anni io,
vestito di nero, facevo il mio ingresso in un palazzo pieno
di banchi, cattedre e gessetti: era la prima elementare e io
ci ero arrivato perfino in anticipo, condannato alla primina.
– Franco, ci dici che lavoro fa il tuo papà?
Non mi sarei mai immaginato che le domande delle ma-
estre fossero così difficili. Papà usciva ogni giorno per an-
dare a lavorare, ma cosa facesse di preciso non lo sapevo
proprio. Lavorava anche a casa, e quando si chiudeva nel-

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lo studio, dove c’erano libri, pile di giornali e una grande
scrivania, di solito la mamma diceva a me e a Filippo, che
magari stavamo giocando come è normale giochino due
bambini, cioè rumorosamente:
– Papà sta leggendo, fate silenzio.
C’era una versione alternativa.
– Papà sta scrivendo, parlate piano.
Alla maestra curiosa risposi allora che mio padre passa-
va il tempo della sua vita a leggere e scrivere e lei si fece
l’idea che fossi figlio di un giornalista. Per qualche tempo
anche io credetti, quindi, che fosse così.

Pio non si poteva definire un padre presente, non se


l’aggettivo “presente” si riferisce al numero di ore tra-
scorse tra le mura di casa. C’erano segreterie, attivi, con-
gressi, elezioni, consigli comunali e regionali, riunioni di
partito… È cosa certa che passasse più tempo con i suoi
stretti collaboratori che con noi e con mamma, eppure non
lo ricordiamo come un padre assente, e non solo perché i
nostri nonni si occuparono di noi, dato che spesso anche
mamma era al lavoro. Papà sapeva dedicarsi ai suoi fi-
gli nel poco tempo libero che gli restava, spinto anche in
quel caso dalla curiosità. Quando stava con noi lo faceva
con autenticità, non perché si sentisse obbligato, maga-
ri proprio per via delle sue numerose assenze. Avevamo
l’impressione che davvero si interessasse a noi, ai nostri
giochi e, quando fummo abbastanza grandi da formular-
le, alle nostre convinzioni e considerazioni. Non era uno
di quegli adulti che trattano i bambini con sufficienza,
magari scambiando con il figlio le solite frasi e le abituali
domande senza neppure ascoltarne le risposte. Papà nu-
triva un sincero interesse per quello che pensavamo e gli
raccontavamo. A volte ci correggeva, altre ci chiedeva di

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spiegare meglio quanto stavamo sostenendo. Costruiva
con noi un rapporto di vera reciprocità, una relazione che
si manteneva nonostante lunghi silenzi e assenze. Anche
se spesso era necessariamente lontano, papà c’era e c’è
sempre stato.

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Di papà vogliamo ricordare anche questo: lui non si fer-


mava mai. Non era un uomo sedentario, per nascita e con-
vinzione, ma cresciuto sudando e sbuffando nei campi o
in cantiere, lavorando duro, con la cassa toracica che come
un mantice pompava sangue e ossigeno a muscoli e cer-
vello. Poi, in carcere, aveva dovuto prendersi cura del suo
corpo che altrimenti si sarebbe logorato per la sedentarietà
forzata, e in cella alternava lo studio dei saggi politici e
storici alla ginnastica a corpo libero. D’altronde Antonio
Gramsci, che Pio leggeva in cella, scriveva a un amico, an-
che lui in carcere: «Sta’ allegro, bada solamente alla tua
salute fisica, per essere in grado di sostenere fermamente
qualsiasi traversia». Lui seguiva il consiglio. Una volta li-
bero, aveva continuato nella sua disciplina personale con
flessioni giornaliere che faceva in camera da letto. Fumava
qualche sigaretta Muratti, ma per il resto era molto attento
alla salute.
Era un uomo sempre in cammino e non solo in senso
metaforico. Concepiva il suo impegno come un lungo e ar-
ticolato percorso, ma nei fatti il mestiere del politico non
è mai stato dei più dinamici e così Pio aveva bisogno di
trovare da sé le condizioni per dare sfogo all’energia che
portava dentro: preferiva evitare gli ascensori, per esem-

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pio, ed era cosa comune che, bloccato nel traffico, abban-
donasse auto e autista per proseguire a piedi.
– Se si libera la strada mi recuperi dietro l’angolo, altri-
menti ci vediamo là.
Quando non poteva camminare nelle campagne o nei
boschi, diventava un accanito passeggiatore urbano. Nel
1969 ci trasferimmo a Roma, e per un primo periodo tro-
vammo un alloggio nel quartiere dell’Eur, lontano dal cen-
tro. Poi ci spostammo in via Panisperna, e per lui quello
era il luogo ideale, dato che poteva raggiungere a piedi la
Camera e la sede del partito a Botteghe Oscure.
Con il corpo di papà ci siamo dovuti misurare molte vol-
te. Gli piaceva fare a gara, competere in tutto, nella corsa,
nel nuoto o giocando con il pallone. Non gli piaceva per-
dere, però, perché la sconfitta non la metteva mai in conto,
la poteva concepire solo come un qualcosa di passeggero,
un errore di calcolo piccolo piccolo da sistemare il prima
possibile.
– Ancora!
Se perdeva voleva ripetere la gara e si faceva più at-
tento e preciso di prima, spalancando le palpebre, mo-
strando i denti. Era un padre che teneva in gran conto la
serietà di un gioco, proprio come fa un bambino. Forse
per questo ci piaceva. Con la palla al piede sembrava
non rendersi conto della sua stazza e, alla fine, qualcuno
di noi finiva sempre a terra, vittima di un colpo d’anca,
di un movimento troppo ampio di un braccio o sempli-
cemente travolto da un dirigente comunista trasforma-
tosi in mediano di sfondamento.
A dieci anni amavo il calcio. Giocavo nelle giovanili del-
la Bacigalupo, una squadra palermitana dedicata al miti-
co portiere ligure del Grande Torino, Valerio Bacigalupo,
morto nella tragedia di Superga. Oggi la squadra in cui

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1° maggio 1958, Pio La Torre segretario della CGIL regionale.

Comizio di Pio La Torre segretario della CGIL siciliana,


fine anni Cinquanta.

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militavo non esiste più, ma all’epoca si trattava di un viva-
io importante, l’anticamera del Palermo Calcio. In quella
squadra esordì il giovane Zdenĕk Zeman, mentre l’allena-
tore era un certo Čestmír Vycpálek, che all’epoca allenava
anche il Palermo e che passerà anni dopo alla panchina
della Juventus. Io, intendiamoci, ero nella categoria pulci-
ni. La mia “carriera” era solo agli inizi e, per quanto fossi
bravo, non ho coltivato grandi illusioni su ciò che avrei
potuto fare in un campo di calcio. Dico “avrei” perché un
pomeriggio, durante un allenamento, oltre la rete che cir-
condava il campo, ho visto arrivare papà a bordo di una
macchina. Non guidava lui, aveva già l’autista. Lo vidi
scendere, poi mi richiamarono negli spogliatoi. Cambia-
ti gli scarpini, tolta la maglietta, ho lasciato il campo da
calcio e non sono più tornato. Era estate, la scuola era fi-
nita e io aspettavo di partecipare a un importante torneo
estivo in cui la mia squadra si sarebbe misurata con altre
giovanili di livello. Papà, invece, mi accompagnò a casa e
mi spiegò che sarei dovuto partire con mamma per una
vacanza. Quell’estate la passai in Abruzzo. Una volta tor-
nato a casa, papà disse che mi aspettava la prima media e
quindi l’impegno che dovevo mettere nello studio non si
conciliava con il calcio. La mia storia con la Bacigalupo si
concludeva lì.

Nostro padre era alto, con un fisico possente che, salvo le


normali variazioni che accompagnano il corso di una vita,
rimase sempre tonico e forte. La sua figura nei comizi e
nelle riunioni di partito era un tutt’uno con la sua dialetti-
ca. Non che si curasse di apparire bello, ma il suo impegno
aveva sempre qualcosa di fisico, e quindi lui stava bene
quando si sentiva allenato e in buona salute. Molti di quelli
che lo ascoltavano, d’altra parte, dovevano trovare schietta

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e forte la sua figura quanto le sue parole. Mentre spiegava
o cercava di convincere l’interlocutore faceva ampi gesti,
spalancando spesso le palpebre, mostrando i denti. Modu-
lava la voce mantenendo l’inflessione palermitana che era
la sua tipicità, e non la perse né cercò di camuffarla nep-
pure quando arrivò a Roma. Ne andava fiero, così come
amava il dialetto perché l’italiano in Sicilia, come scrive
Luchino Visconti nei titoli che aprono il film La terra trema,
non era la lingua dei poveri.
Aveva grande rispetto per la fatica e un’etica del lavo-
ro severa, ma sapeva che la tecnica, cioè l’organizzazione
del movimento, è essenziale alla riuscita. Prendiamo come
esempio il nuoto, che aveva iniziato a praticare da bam-
bino insieme ai suoi fratelli e ai suoi amici. Non in mare,
ma neppure in una piscina con tanto di istruttore, cloro e
ciabattine. Aveva imparato a stare a galla immergendosi
in una cisterna di cemento che serviva per l’irrigazione, e
poi, piano piano, aveva messo a punto una tecnica di nuo-
tata. Non la tecnica della nuotata, ma una tecnica singolare
e inefficiente, uno stile libero sghembo che gli faceva di-
sperdere energie senza che riuscisse ad andare abbastan-
za lontano o veloce. Lo ricordiamo al mare, quando non
poteva resistere sulla sabbia e figuriamoci se sapeva rima-
nere sdraiato. Si buttava subito in acqua a macinar metri
con il suo movimento goffo, altalenante, tutto tonfi, sbuffi
e schizzi. Sapeva che quello non era il modo di nuotare,
eppure andava, faticava, continuava.
Organizzò il sindacato e il partito perché la loro attività
non fosse goffa, faticosa e inefficiente come la sua nuotata,
lo realizzò costruendo relazioni e studiando nuove stra-
tegie che potessero fare in modo che nessuno, nella Cgil
come nel Pci, si sentisse solo, e che la cinghia di trasmis-
sione del movimento potesse girare senza intoppi. Sapeva

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che era importante avere buone idee, ma lo era altrettanto
saper mettere a esse delle gambe e vedere se fossero in gra-
do di camminare. Al centro della macchina stava lui, con
la sua intelligenza, il suo intuito e l’esperienza che in pochi
anni aveva saputo e dovuto costruirsi.

La squadra della Bacigalupo fu fondata dalla famiglia


Dell’Utri nel 1957. Io entrai a farne parte poco dopo la fon-
dazione. Nel frattempo, però, nostro padre deve essere ve-
nuto a conoscenza di qualcosa che riguardava i Dell’Utri
e deve aver deciso che non erano persone con cui voleva
avere a che fare. Suo figlio non doveva giocare a calcio
in quel posto. Non mi ha mai spiegato il motivo per cui
mi portò via da quel campo. Quella vicenda mi tornò alla
mente molto dopo, nel 1994, quando vidi apparire in tele-
visione Marcello Dell’Utri al fianco di Silvio Berlusconi – i
due avevano appena fondato Forza Italia. Papà non era
più con noi da tempo. Dell’Utri, invece, aveva percorso
una lunga carriera politica che esula completamente dal
tema di questo libro, se non per il fatto che di recente è
stato condannato per concorso esterno in associazione
mafiosa. Dal giorno in cui mio padre decise che io dove-
vo lasciare il campo di calcio a quello della condanna di
Dell’Utri sono passati più di sessant’anni. Il Club Baciga-
lupo di Palermo, nella sentenza di condanna a Dell’Utri, è
citato più di trenta volte.

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Il Partito Comunista è il contesto nel quale siamo nati e


cresciuti. Non ci è stato imposto nulla, non abbiamo subito
pressioni, ma la nostra famiglia faceva fieramente parte di
quella storia. Non solo a casa si finiva sempre per discutere
dei temi della politica, ma anche quando eravamo ospiti,
magari per un pranzo domenicale, le abitudini non cam-
biavano. Papà non poteva evitare di ascoltare e commenta-
re le notizie al telegiornale; dopo mangiato, ovunque fosse,
aveva bisogno di un posto per riposare ma, soprattutto, se
si finiva a far salotto – cosa che non amava – di solito l’ospi-
te curioso voleva saggiare le sue opinioni sui temi più cal-
di del dibattito pubblico e, comunque, per lui non c’erano
questioni più stimolanti di quelle. Politica, sempre politica.
Non si deve tuttavia pensare che non avesse altri inte-
ressi. Certo, non leggeva romanzi – il tempo della lettura
era tutto dedicato a giornali, saggi e documenti – ma gli
interessavano il cinema e il teatro. Amava la cultura po-
polare, i film con John Wayne e le commedie di Eduardo
De Filippo. Gli piaceva il già citato Luchino Visconti che
aveva girato nel 1948 un film sui pescatori siciliani, un’o-
pera neorealista senza attori professionisti, concepita come
la prima di un trittico sulla Sicilia: la seconda pellicola sa-
rebbe stata dedicata ai lavoratori delle zolfatare, la terza ai

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contadini. Purtroppo girò solo il primo film. A Pio piaceva
l’opera e aveva una collezione di dischi di musica classica
che venivano dall’Unione Sovietica, ma non aveva tempo
di ascoltarli e rimasero più che altro un cimelio. Non ama-
va particolarmente il calcio e, benché potesse farlo gratis,
solo un paio di volte andò allo stadio e solo per accom-
pagnare Filippo, il calciatore mancato. Insomma, c’era un
mondo oltre la politica anche se lui, molto più di noi, fu
forgiato dal partito senza il quale probabilmente sarebbe
stato “solo” un buon ingegnere. Eppure, allo stesso tempo,
etichettarlo come “comunista” non dice tutto.
Nonostante Pio fosse un comunista, per esempio, diver-
samente da molti compagni di partito, teneva molto alla
famiglia e cercava di sostenerla in ogni modo. La nostra
non era una famiglia tradizionale – non festeggiavamo il
Natale e le altre festività cristiane – ma era un nucleo forte
che sentivamo come un punto di riferimento saldo. Non
seguendo il calendario cattolico, vivevamo un’altra ritua-
lità. Ci si ritrovava durante le vacanze, anche se perfino
quelle non erano convenzionali. I viaggi, all’epoca, costa-
vano molto più di quanto non sia oggi, così i funziona-
ri alti e intermedi potevano usufruire del programma di
scambi offerti dal partito.
L’organizzazione era affidata all’Internazionale sociali-
sta e, nel continente europeo, la parte da leone la facevano
i paesi dell’Est. Lì si voleva far mostra delle bellezze del
mondo oltre Cortina e, insieme, stimolare gli scambi tra re-
altà diverse, ma spesso anche i comunisti italiani e francesi
ospitavano delegazioni straniere nei loro Paesi. Il partito
italiano mandava all’estero alcuni dirigenti importanti e
alcuni “bravi compagni” che si formavano o il cui impe-
gno veniva così premiato. Papà usava questi viaggi per di-
scutere e confrontarsi con dirigenti di altri Paesi, lo faceva

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Pio La Torre nella foto "ufficia-
le" dell'Assemblea Regionale
Siciliana (Palermo, 1962).

Pio La Torre con la cognata Agata, suo marito Salvatore Visconti e Ugo
Minichini, dirigente socialista (Palermo, 1963).

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sfruttando le sue competenze – non eccelse ma comunque
sufficienti – nel francese e nel tedesco. Probabilmente le
aveva studiate a scuola entrambe, ma il tedesco lo aveva
perfezionato proprio per poter interagire con i dirigenti so-
vietici che lo usavano come seconda lingua.
Il più delle volte Pio andò da solo, altre era prevista la pre-
senza delle famiglie. Mamma partecipò spesso, anche se, a
onor del vero, a un certo punto iniziò ad essere insofferente,
fino a quando si rifiutò di visitare l’Est per l’ennesima volta.
– Quest’anno con te viene Pippo.
Filippo visitò la Cecoslovacchia e l’Ungheria, quest’ulti-
ma insieme anche alla mamma. Per un adolescente la va-
canza di partito era meravigliosa, anche se non erano in
molti, una volta tornato a casa, a darti pacche sulle spalle:
c’era la guerra fredda e tu eri andato a casa del nemico,
quindi ti consideravano come se fossi contaminato. A noi
questo interessava poco e niente; con il padre che aveva-
mo la contaminazione ce la portavamo dalla nascita, senza
contare che quei viaggi ci davano la possibilità di pren-
dere l’aereo, in un’epoca in cui si volava poco, e, per due
settimane, di visitare luoghi lontani insieme a papà. Per i
dirigenti era l’unica pausa dal lavoro durante l’anno e il
partito faceva in modo che si potessero divertire con le loro
famiglie. Il ricordo di quei viaggi è spesso annodato alla
storia del secolo scorso. Nel 1964, quando Filippo era in
Cecoslovacchia con papà, la delegazione italiana dovette
abbandonare il viaggio prima del termine: a Yalta, dove a
sua volta era in vacanza con Nilde Iotti, era morto Palmiro
Togliatti. La delegazione tornò per partecipare ai funerali
che si svolsero a Roma il 26 agosto.

Una volta tornati andai con papà ai funerali di Togliatti.


Fu un’esperienza entusiasmante, per via dell’eccezionale

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partecipazione di popolo. Ne feci una ripresa con la video-
camera russa, una 8 mm acquistata durante la vacanza ma,
purtroppo, non è rimasta traccia di quel nastro. Quando si
andava in Unione Sovietica spesso si acquistavano stru-
menti tecnologici perché erano di buona qualità e avevano
un prezzo accessibile. L’anno precedente papà mi aveva
regalato una macchina fotografica – la prima che entrò in
casa nostra. Il modello si chiamava Смена, era un prodotto
economico di un’azienda di Leningrado.

L’anno successivo fu la volta dell’Ungheria. Ci andai con


mamma e papà e mi rimase impresso un episodio diver-
tente. Ci trovammo a tavola con un ministro del Vietnam
del Nord, un signore di bassa statura, minuto, che discute-
va con nostro padre e con altri presenti. Il dito mignolo di
quell’uomo mi impressionò perché aveva lasciato crescere
l’unghia in maniera spropositata e con quella si toglieva il
cibo rimasto tra i denti, ma faceva anche un’attenta pulizia
di padiglioni auricolari e setto nasale. Il tutto durante il
pasto. La mia aristocratica mamma ne fu nauseata. Dopo
la cena non poté trattenersi dal parlarne con papà.
– Hai visto quanto era disgustoso?
Papà, preso dalla discussione politica, non se n’era ne-
anche accorto.
Finalmente, nel 1968, venne il turno di Franco. Il partito
aveva deciso di organizzare un viaggio in Polonia. Aveva
dodici anni e avrebbe seguito lui mamma e papà.

Ero felice perché nei viaggi precedenti era stato Filip-


po ad accompagnarli e io, ascoltandone i racconti, spesso
lo avevo invidiato. Visitammo Cracovia, Varsavia e Zako-
pane. Ci imbarcammo per scendere lungo la Vistola, e fu
un’esperienza che mi sembrò davvero avventurosa. Poi

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arrivammo ad Auschwitz, che mi è rimasta nella memoria
proprio perché non potei entrare. Ho visto la scritta beffar-
da che, mi spiegarono, significava «Il lavoro rende liberi».
Ho visto alcune bacheche con oggetti che erano i resti della
vita nel campo. E poi i miei genitori mi si avvicinarono.
– Ci hanno consigliato di farti aspettare fuori, non sei
abbastanza grande per questo.
Quando uscirono, dai loro sguardi, prima che dalle loro
parole, compresi che era stato meglio così. Durante il viag-
gio di ritorno a Zakopane mi raccontarono del lager, certo
adeguandolo alle mie possibilità di capire ma nel desiderio
che non ne dimenticassi l’orrore.
Passarono pochi giorni e la storia bussò ancora alla porta
delle nostre vacanze, questa volta in modo inaspettato. Il
20 agosto 1968 l’Unione Sovietica e gli alleati del patto di
Varsavia – a eccezione della Romania – invasero la Ceco-
slovacchia dove da mesi Alexander Dubček, primo segre-
tario del Partito Comunista, aveva dato l’avvio alla cosid-
detta Primavera di Praga, una stagione di riforme che si
discostava dalle posizioni del Partito Comunista sovietico.
Quell’operazione militare fu uno shock per i comunisti di
tutto il mondo: il fronte si stava spaccando, l’Unione So-
vietica usava violenza contro i suoi alleati. Per due gior-
ni il nostro gruppo fu isolato dal resto del mondo: niente
giornali, pochissime notizie. Per mio padre fu impossibile
comunicare con i dirigenti italiani. Non sapeva come com-
portarsi, quale fosse la linea da tenere nei confronti degli
altri dirigenti con cui condivideva il viaggio. Impossibili-
tato a comunicare con Roma, chiese di rientrare, ma gli fu
negato. Luigi Longo, segretario del partito italiano dopo
Togliatti, per mesi aveva espresso apprezzamenti per l’o-
perato di Dubček e per il “socialismo dal volto umano”
che dava forza a «quella via italiana al socialismo che noi

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intendiamo percorrere in piena libertà e autonomia». Il Pci,
a Roma, aveva infatti condannato l’invasione della Ceco-
slovacchia e per questo Pio e la delegazione italiana ven-
nero isolati per alcuni giorni. Mio padre, per questo, non
conservò un buon ricordo di quel viaggio.

Tra le tante esperienze della nostra infanzia e adole-


scenza che si legano al ruolo di papà nel Pci, una non ha
mai preso forma: papà non ci ha mai chiesto di prendere
la tessera della Fgci – la Federazione dei Giovani Comuni-
sti – né di siglare, più tardi, quella del partito. Le sue scelte
e quelle di nostra madre restavano cosa loro: ci venivano
spiegate, le vivevamo in tutte le conseguenze, ma ci era
anche permesso discostarcene. I nostri genitori vollero
crescere una famiglia che rispecchiasse i loro ideali, ma
senza imposizioni.
Da questo punto di vista c’era un’altra somiglianza tra il
modo in cui Pio impostava le dinamiche famigliari e quan-
to faceva nell’attività politica. Non che pensasse che la
stessa autonomia dovesse essere garantita a tutti, nel par-
tito. Aveva però i suoi ideali e faceva in modo che il partito
fosse organizzato al meglio per dare la miglior prova di sé
nel realizzarli: quello era il suo compito. Allo stesso tempo
accettava la diversità e, entro certi limiti, poteva compren-
dere, se non condividere, le scelte difformi. Di certo resta-
va aperto, le prendeva in considerazione, le analizzava. E
ti metteva in discussione, sempre. Era molto concreto, sa-
peva che lo scontro non si vince solo sulle idee, ma sugli
esempi di uomini e donne che incarnano quelle idee. Così
anche a noi ha voluto lasciare più esempi che imposizioni.

Il mio insegnante delle elementari, attivista di Azione


Cattolica, lavorò molto perché il suo allievo Filippo La Tor-

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re avesse una conversione più o meno spontanea. Arrivò al
punto di farmi sentire molto in colpa per non essere stato
battezzato e così, all’età di nove anni, chiesi ai miei genito-
ri di diventare cristiano. Loro non ebbero alcuna obbiezio-
ne. Restai meravigliato. Nel febbraio 1960 venni battezzato
con il mio maestro come padrino. La nota stonata in tut-
ta la vicenda fu che il maestro di cognome faceva Leggio,
proprio come il capomafia Luciano Leggio, detto Liggio.

Il rapporto con la Democrazia Cristiana di papà era


tutt’altro che banale. Lui, ateo e comunista, non poteva
condividere quell’impostazione di pensiero e la sua storia
politica fu sempre una storia di opposizione alla Dc. Negli
anni del suo impegno a Palermo si scontrò proprio con gli
esponenti dc – i Gioia, i Lima, i Ciancimino – che diedero
la città in pasto alla mafia. Franco Restivo, presidente de-
mocristiano della Regione Siciliana dal 1949 al 1955 e negli
anni Settanta due volte ministro, sarà dipinto da Pio come
il «grande corruttore» e, per fare un terzo esempio, al car-
dinale di Palermo Ernesto Ruffini non saranno risparmiati
giudizi pesantissimi. La Torre odiava quindi la Democrazia
Cristiana? Per nulla. Pio guardava dentro le cose, le analiz-
zava sempre in profondità. Sapeva, per esempio, che all’e-
poca della lotta per la riforma agraria una corrente demo-
cristiana, i dossettiani, aveva appoggiato la riforma e che
questo appoggio era stato determinante. Sapeva anche che
per raggiungere risultati di grande portata bisogna unire
e non dividere le forze. Ricordava con grande rispetto, an-
cora trent’anni dopo, una donna che era stata incarcerata
dopo i fatti di Bisacquino, una donna cattolica che aveva
resistito più di venti mesi in carcere con grande fierezza.
Per capire quali fossero le sue idee è utile riprendere l’ul-
tima pagina della sua tesi di laurea – discussa nel 1961 e

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incentrata sullo sviluppo economico della Sicilia – che no-
nostante il tono accademico è molto chiara: «Le peculiarità
d’ordine ideologico e politico generale non debbono risol-
versi senz’altro in un ostacolo ad un incontro sulla piatta-
forma programmatica ritenibile valida ai fini della soluzio-
ne dei problemi che travagliano le popolazioni dell’isola. Il
nuovo fronte operativo assiso sulla classe dirigente, di cui la
Sicilia ha bisogno, non può emergere dalla valorizzazione di
una sola tendenza ideologica, esso dovrà formarsi attraver-
so la confluenza, attorno agli obiettivi fondamentali della
rinascita siciliana, delle istanze ideologiche fondamentali».
Non fu un caso, allora, se negli anni Settanta proprio lui ven-
ne incaricato dalla segreteria del Pci di migliorare i rapporti
con la parte della Dc con cui si poteva entrare in discussione.
Non erano solo quelli della sinistra dc, e la sua azione non
intendeva provocare una scissione di quella parte del parti-
to. Aveva abbastanza rispetto della Democrazia Cristiana da
sapere che questa strategia non avrebbe avuto effetti.
Ne aveva riguardo anche per un altro motivo: La Torre
era uno dei pochissimi dirigenti comunisti venuti dal bas-
so, mentre gli altri spesso provenivano da classi più agiate,
erano nobili o intellettuali, persone che la politica se l’e-
rano potuta permettere. Guardando dall’altra parte della
barricata, riconosceva nella Democrazia Cristiana molti le-
ader cresciuti nelle parrocchie o nell’Azione Cattolica, per-
sone che venivano dai ceti popolari, proprio come lui. Era
un paradosso ma, ai vertici, la Dc era più popolare, ossia
composta da membri del popolo, del Pci. Anche sulla base
di questo, nostro padre era convinto che si potesse creare
un dialogo profondo.

– Franco, padre Mario…


Papà non mi ha mai impedito di frequentare la parroc-

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chia dietro casa, così all’età di dieci anni ero perfino diven-
tato chierichetto e servivo messa. Lo facevo, però, con un
certo senso di colpa. Non verso i miei genitori. Il fatto era
che sapevo di non essere stato battezzato. Un giorno presi
il coraggio a due mani e confessai al parroco che, appunto,
ancora gravava su di me il peccato originale. Dopo pochi
giorni un amico con cui frequentavo la parrocchia mi si
fece vicino.
– Franco, padre Mario… ha detto di non farti più vedere.

Papà non ha mai ritenuto che la tessera del Partito Co-


munista fosse di per sé una garanzia di onestà e fedeltà
alla causa comune. Non ha mai pensato che il suo partito
fosse immune alle lusinghe del potere e quindi, in Sicilia,
della mafia. Rimase d’altra parte famosa la frase che, con
un sorriso, rivolse a un collega deputato repubblicano: «Io
invidio voi repubblicani che appartenete a un partito pic-
colo, con pochi iscritti, perché in un grande partito di mas-
sa ci puoi trovare una gran massa di stronzi».

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L’impegno di Pio come segretario regionale del Pci si


concluse con una pesante sconfitta elettorale. Nelle elezio-
ni regionali del 1967 le aspettative del partito sulla Sicilia
erano alte. Il risultato di quattro anni prima era stato buo-
no – 24,8% – e, convinto che sarebbe andata molto bene,
il segretario nazionale Luigi Longo si impegnò come non
mai nella campagna elettorale sul territorio dell’isola. Non
si tenne però conto di quanto era successo tra le due ele-
zioni e di come gli umori fossero cambiati, così, quando il
Pci si fermò al 21,3%, per tutti pagò Pio La Torre, con un
passo indietro che presto si trasformò nella rincorsa per
uno scatto fulminante, ma che in quel momento apriva
una ferita che bruciava davvero. Sulle pagine del Corriere
della Sera le impressioni di quei giorni si imprimevano in
una parola senza appello: papà, titolavano, era stato «si-
lurato».
Il periodo della sua segreteria si era aperto nel bel mez-
zo di un esperimento politico, il primo nel suo genere in
Italia. La Sicilia era governata dal centro-sinistra, con l’ac-
cordo tra Dc e Partito Socialista. Il presidente, Giuseppe
D’Angelo, era un democristiano con un forte impegno an-
timafioso e che seguiva il programma di Aldo Moro, allora
segretario nazionale della Democrazia Cristiana, quello di

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Pio La Torre a Portella della Ginestra, 1° maggio 1964.

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una «cauta sperimentazione» di nuove alleanze, sperimen-
tazione di cui i comunisti non si fidavano, anche perché si
traduceva spesso in un doppio binario: a una settimana di
distanza, lamentavano, la Dc faceva il centrosinistra con il
Psi alle amministrative di Agrigento e il centrodestra con il
Partito Liberale a quelle di Catania. Tuttavia sui temi della
mafia, per i quali D’Angelo si era espresso con chiarezza,
La Torre e i suoi cercarono di far quadrato. Molti provve-
dimenti, osteggiati dalla destra del partito democristiano,
passarono infatti grazie al voto dei comunisti. Nel 1962 –
ma all’epoca Pio non era ancora segretario – il Pci presentò
una mozione per chiedere al Parlamento nazionale la costi-
tuzione della commissione parlamentare antimafia. Grazie
anche al lavoro di D’Angelo, la mozione passò all’unani-
mità. La commissione nacque l’anno seguente, ma perché
diventasse davvero operativa servì più di una mozione,
servì il sangue versato dagli uomini delle forze dell’ordine
l’anno successivo.
Il 30 giugno 1963 un’Alfa Romeo Giulietta venne se-
gnalata con una telefonata in Questura. Poche ore prima
un’autobomba era esplosa davanti all’autorimessa di un
boss facendo due morti. Si chiamarono allora gli artificie-
ri che, dopo il loro intervento, dichiararono la situazione
«bonificata». Non era così. Quando il tenente Mario Ma-
lausa aprì lo sportello del bagagliaio, l’auto saltò in aria e
con essa cinque uomini: due dell’esercito, due carabinieri,
un poliziotto. Morti pesanti, morti che si fecero sentire. Era
sempre più difficile voltarsi dall’altra parte.
L’anno seguente papà non era solo segretario, ma anche
membro eletto dell’assemblea regionale. I comunisti arri-
varono allora a presentare una mozione sullo scioglimento
dell’amministrazione comunale di Palermo. I socialisti si
espressero contro. La mozione non passò perché non rac-

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colse la maggioranza: 44 voti a favore, 44 contrari. Il go-
verno di D’Angelo a quel punto aveva le ore contate e le
amministrative del 1964 si rivelarono disastrose, anche per
il Pci. A Palermo l’andreottiano Salvo Lima venne eletto
per la seconda volta: la “sua” Dc sfiorò il 45% (a Catania,
altro comune al voto, superò il 48%). I comunisti aveva-
no fortemente criticato l’esperimento del centro-sinistra,
ma in D’Angelo avevano avuto un interlocutore. Gli anni
che seguirono furono invece difficili, anni in cui dilagò il
clientelismo mafioso e paramafioso. Longo, sceso in Si-
cilia per la campagna elettorale del 1967, rilanciò l’impe-
gno meridionalista del partito: «È chiaro» disse a Catania
«che senza risolvere alla radice il problema della Sicilia e
del Mezzogiorno, non si può risolvere nessuno dei gran-
di problemi nazionali». Il suo coinvolgimento non bastò.
Le destre seppero raccogliere al meglio il malcontento dei
siciliani promettendo, tra l’altro, la costruzione del ponte
sullo stretto di Messina – un progetto che da dieci anni si
era arenato e sul quale, effettivamente, si ricominciò poi a
investire inutilmente. La strategia di Pio, «Sinistra unita,
Sicilia unita», che avrebbe voluto alle elezioni un fronte
compatto di comunisti e socialisti, non riuscì a realizzarsi.
Davanti al risultato delle urne nostro padre sentì che era il
momento di dimettersi da segretario.
A Pio restava, perché rieletto, il suo impegno di parla-
mentare regionale, ma non venne messo a riposo. Fu “re-
trocesso” per più di un anno a segretario della Federazione
palermitana mentre il ruolo di segretario regionale veniva
ricoperto prima ad interim dall’amico Macaluso e poi, con
una nuova elezione, da un poco più che trentenne Achille
Occhetto. Papà fece da supporto a entrambi almeno fino ai
primi mesi del 1969, mentre diventava più chiaro che per
lui si preparava un nuovo incarico.

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Furono i mesi del terremoto nel Belice, a gennaio 1968,
quando Pio – pur essendo ormai solo segretario provincia-
le – organizzò una rete di aiuti del partito alle zone colpite;
furono anche gli anni di una piccola ed enorme storia di
coraggio che arrivava ai banchi del Tribunale di Trapani.
Si discuteva, in tutta Italia, della vicenda di Franca Viola,
bella ragazza di Alcamo rapita, violentata e segregata dal
membro di una potente famiglia della zona. Franca Viola e
i suoi genitori si erano opposti con coraggio al “matrimo-
nio riparatore”, che avrebbe fatto cadere qualsiasi accusa
nei confronti dei rapitori. Era la Sicilia dei piccoli che ina-
spettatamente, nella forza d’animo di una stupenda ragaz-
za, si ribellava a quella dei potenti.
Presto papà avrebbe lasciato quella terra bellissima. Nel
1969 venne chiamato dal partito come viceresponsabile
della commissione agraria, ma non fu rieletto in Direzio-
ne nazionale, dove sedeva come segretario regionale dal
1966. Poi si spostò alla commissione meridionale, diven-
tandone il responsabile nazionale. E proprio mentre la sua
carriera faceva questo salto di qualità, in casa nostra arrivò
il movimento. Era il 1968.

Avevo preso la tessera dei Giovani Comunisti a quat-


tordici anni. Mio padre non mi aveva né incoraggiato né
dissuaso, ma di certo ne era stato contento. Per me fu una
scelta quasi automatica, anche se a quell’età non si com-
prendono bene le implicazioni di un gesto del genere. Ad
ogni modo, dopo essere stato in Cecoslovacchia e in Un-
gheria, dopo aver tante volte seguito mio padre negli im-
pegni di partito, quello era il mondo di cui mi sentivo par-
te. Per il resto studiavo in un liceo classico di Palermo, il
Garibaldi, dove per molti essere comunisti era un insulto.
– Pippo, prima si studia, poi si fa la politica.

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Mio padre su questo punto non transigeva e così, fino
alla seconda liceo, nonostante la tessera, non mi occupai
davvero di politica. Poi, nell’autunno del 1967 si diffuse la
notizia della morte, in Bolivia, di Che Guevara, in Cina la
rivoluzione culturale viveva i suoi momenti più radicali,
in Cecoslovacchia si preparava la Primavera di Praga. Il
mondo si metteva in marcia e io cominciai ad appassio-
narmene. In Italia il Sessantotto si era aperto due anni pri-
ma, nel ’66, con l’occupazione della facoltà di sociologia a
Trento. Ce ne furono molte altre, da quel momento, fino a
quella della Cattolica a Milano e della facoltà di architettu-
ra a Torino, ma anche la Normale di Pisa e poi La Sapienza
di Roma, la Federico II di Napoli… Il movimento studen-
tesco contestava la società capitalistica, ma contestava an-
che il Partito Comunista. Chiedeva un cambiamento totale
che, nella nostra prima battaglia di studenti, si riassumeva
in una rivendicazione semplice, quasi elementare.
– Vogliamo le classi miste!
Non sarà stata una vera rivoluzione, e in alcuni casi esi-
stevano già, ma sfido chiunque a sostenere che avremmo
dovuto mantenere le classi separate tra ragazzi e ragazze.
C’era poi in cantiere un progetto di riforma della scuola
che non accettavamo in nessuno dei suoi punti e contro cui
iniziammo a dare battaglia. Il movimento era comunque
un’esplosione di energia innovativa, in tutti i campi, che a
quell’età non poteva lasciarmi indifferente.
Entrai a farne parte nella primavera del 1968. A Palermo
mi venne affidata la responsabilità dei liceali; sopra di me,
a livello nazionale, c’erano Renato Curcio e Mario Capan-
na, i nostri punti di riferimento per quanto riguardava la
lotta politica. La distanza dalle posizioni del Pci e di mio
padre era siderale. Per tornare al clima di quegli anni ba-
sta ricordare il marzo del 1968, gli scontri violentissimi tra

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studenti e poliziotti a Roma. L’indomani Pier Paolo Paso-
lini pubblicò su l’Espresso una poesia destinata a diventare
famosa. Iniziava così:

Mi dispiace. La polemica contro


il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.

E poi ancora:

Avete facce di figli di papà.


Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.

La tensione, insomma, saliva. Quell’anno a scuola ven-


ni rimandato perché troppo movimento aveva fatto sì che
studiassi poco. Non mi mossi da Palermo (fu l’estate della
vacanza di Franco, mamma e papà in Polonia) e, al ritorno
in classe, teorizzai che era giunto il momento di occupare la
scuola. Il movimento, a livello nazionale, aveva deciso che
l’ottobre sarebbe stato caldissimo. Ovviamente non ne par-
lai a casa e, dopo pochi giorni di lezione, facemmo il primo

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tentativo di occupazione. Peccato che qualcuno avesse dif-
fuso la notizia: venimmo fermati e condotti tutti in Que-
stura. A quel punto dovetti affrontare il rimprovero di mio
padre, che fu epocale ma non sortì alcun effetto: il giorno
successivo, quando non se lo aspettava nessuno, ritentam-
mo l’occupazione e riuscimmo. Ci imitarono poi tutti i licei
della città e le occupazioni non si limitarono alla sola Pa-
lermo. Noi fummo così duri da continuare fino a dicembre.
Dal punto di vista dei programmi scolastici fu un disa-
stro. Io e i miei compagni eravamo in terza liceo e alla fine
dell’anno ci aspettava l’esame di maturità.
– Ci perseguiteranno tutti.
– Chi se ne frega, tanto vince la rivoluzione!
A casa c’era meno ottimismo. Con mio padre, dopo le
sfuriate iniziali, cominciai a discutere. Lui mi criticava su
tutta la linea, considerava la nostra come una lotta poli-
tica sine materia, credeva che stessimo giocando pericolo-
samente alla rivoluzione, che stessimo seguendo qualcosa
che assomigliava davvero a una moda.
– Che classe sei tu? Tu sei un privilegiato!
Papà ragionava di classi sociali e gli studenti, si sa, non
sono una classe sociale. Se ripenso al fatto che i miei com-
pagni si tagliavano i cachemire per far mostra dei loro ve-
stiti usurati… All’epoca, però, sostenevo che la sua fosse
una posizione di retroguardia di quel colosso del Pci che
non riusciva a concepire la politica in modo diverso da
come aveva sempre fatto, ed era perfino colluso con il si-
stema che noi combattevamo.
– Tu sei un conservatore!
– E tu sei un cretino!

Nel 1968 io, invece, avevo dodici anni ed ero trop-


po piccolo per vivere davvero quel momento, o almeno

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così posso dire adesso, con il senno di poi, di quel Franco
adolescente. Ma all’epoca anche io ebbi la mia “sbanda-
ta movimentista” e volli emulare mio fratello maggiore.
Insieme ad altri amici organizzammo uno sciopero della
nostra scuola, la scuola media. Il piano era quello di unir-
si al corteo che quel giorno avrebbe attraversato Palermo.
Così una mattina uno sparuto gruppo di ragazzini prese a
vagare per le strade della città alla ricerca disperata di un
corteo a cui aggregarsi: forse avevamo sbagliato il giorno,
forse era stato cancellato e sostituito da un’assemblea, fat-
to sta che non lo trovammo mai. A noi rivoluzionari imber-
bi non restò che tornare a casa a testa bassa. Fu la fine del
nostro Sessantotto.

L’occupazione del liceo invece continuava. Io, anche


perché qualcosa dei ragionamenti di mio padre comincia-
va a convincermi, avrei voluto concludere quell’esperien-
za molto prima di Natale, come poi invece accadde. C’era-
no però delle spinte interne ad andare avanti, molti gruppi
nascevano per dare un contenuto politico al movimento,
come quello dei maoisti o quello dei marxisti-leninisti. Io
mi dissociai apertamente e ne parlai a mio padre. Lui colse
la palla al balzo.
– Perché non scrivi una lettera per L’Ora?
Ricordo che la preparai, non ricordo se venne pubblica-
ta, ma lui ne fu molto compiaciuto. A quel punto, per far-
lo ancora più contento, dato che avevo compiuto diciotto
anni ed ero ormai completamente capitolato, gli dissi che
volevo prendere la tessera del Pci. Mi iscrissi così a una
sezione a cui papà teneva molto perché era stata fondata
da lui. Ricordo che mi raccontò dell’uomo a cui la sezione
era dedicata, un compagno di cui rimaneva memoria in
città. Decisi però che con quel gesto avevo chiuso con la

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politica attiva, anche se continuai a rinnovare la tessera
ogni anno.

Anche io ho avuto poi, per qualche mese, la necessità


di distaccarmi politicamente da mio padre. L’anno suc-
cessivo, appena trasferito a Roma, mi lasciai affascina-
re dagli ambienti extraparlamentari. Fu un’infatuazione
che durò pochi mesi, poi quegli ambienti fumosi, in cui
erano sempre le stesse persone a parlare e contare, mi
stancarono.

Papà non ci ha mai rinfacciato questi o altri errori, sbagli


che dal suo punto di vista erano molto chiari e che ora lo
sono anche per noi. Mentre li commettevamo sotto i suoi
occhi, lui non si limitava a bollarci come degli stupidi o,
se lo faceva in uno sfogo di impazienza, prima comunque
ci ascoltava fino in fondo. Nella discussione che ne nasce-
va sembrava che puntasse non tanto a convincerci quanto
a fornirci degli strumenti per capire il suo punto di vista.
Non voleva avere ragione, voleva che comprendessimo il
suo modo di ragionare, quello a cui era stato educato nel
solco di una lunga tradizione.
La nostra educazione è stata quindi nel segno dell’au-
tonomia. Eravamo liberi di sbagliare e, semmai, l’obbligo
era quello di confrontarci con quell’uomo per spiegare le
nostre ragioni. Potevamo commettere errori, ma doveva-
mo farlo con una buona motivazione. Nulla ci è mai stato
rinfacciato, neanche le volte in cui siamo stati, entrambi,
rimandati al liceo. Nostro padre sapeva di non essere infal-
libile e perfino l’ortodossia dell’educazione del militante
comunista prevedeva il momento dell’autocritica, l’analisi
delle proprie scelte da farsi a distanza di tempo per com-
prendere con sincerità cosa avesse funzionato e cosa no.

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L’errore, insomma, è ciò in cui è inevitabile e necessario
incappare nella lunga e faticosa strada di una vita.
L’autonomia che Pio ci offriva era la stessa che lui aveva
dovuto pagare a caro prezzo durante la sua infanzia e ado-
lescenza. Aveva dovuto soffrire e lavorare, allontanarsi da
un padre che amava per affermare le proprie convinzioni,
il desiderio di studiare, l’adesione alla causa comunista.
Suo padre spesso non lo aveva capito. Lui non voleva fare
lo stesso.

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Dal 1969, una volta lasciata in via definitiva la segreteria


regionale e acquisiti i ruoli nel partito romano di cui abbia-
mo detto, nostro padre iniziò a spostare il baricentro del suo
lavoro nella capitale e presto i nostri genitori decisero di tra-
sferire a Roma l’intera famiglia. Era il momento ideale: nel
1969 Filippo si iscriveva al primo anno di università, facoltà
di medicina, e Franco al primo di scuola superiore, liceo clas-
sico. Entrambi chiudevamo un ciclo di studi e ne riaprivamo
un altro e, come sempre, prima di tutto veniva la scuola.
Furono anni bellissimi. Nostro padre, che lavorava
a poca distanza da casa, nonostante gli impegni sempre
pressanti poteva trascorrere più tempo con noi. Spesso tor-
nava a casa per pranzo e spesso si ripeteva quella scenetta
casalinga: lui mangiava con foga e la nostra nobile mam-
ma lo riprendeva in continuazione. Aveva conservato la
fame dei contadini e, per giunta, era goloso: davanti a un
vassoio di paste o di cannoli prendeva un dolce, lo tagliava
con un coltello e cercava qualcuno con cui condividerlo,
così poteva assaggiarne il più possibile, perché ogni volta
ne mangiava solo metà.
Pio, a Roma, non doveva muoversi in lungo e in lar-
go per la Sicilia come quando era segretario. La sua po-
litica per il Mezzogiorno, per i lavoratori agricoli, con-

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tro la mafia, la faceva da lì, dalle stanze dei bottoni che
raggiungeva con una passeggiata. E, d’altronde, era una
gran fortuna che non si dovesse muovere in auto. Un
giorno, all’inizio degli anni Settanta, per qualche motivo
decise di usare la Cinquecento di Filippo. Salì, mise in
moto, inserì la prima e, lasciando dolcemente la frizione
e spingendo sull’acceleratore, cercò di partire. La mac-
china, però, non si mosse. Dopo diversi tentativi citofonò
a casa e chiese a Filippo di scendere per dargli una mano
dato che la sua auto aveva qualcosa di strano. Avrebbe
potuto chiedere anche di Franco, di mamma, del porti-
naio, di chiunque. Durante la notte avevano rubato gli
pneumatici e la carrozzeria della povera Cinquecento ora
poggiava solo su quattro pile di mattoni. Se ne accorse
Filippo, mentre lui, ignaro, continuava a considerarsi l’e-
rede di Tazio Nuvolari.
A casa si rideva e si sorrideva, ed era una fortuna perché
la situazione politica dell’Italia di quegli anni gettava om-
bre lunghe e tenebrose. Nel dicembre del 1969 l’esplosione
della bomba alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fonta-
na, a Milano, apriva la stagione degli anni di piombo e,
se nella primavera del 1970 si arrivava alla conquista del-
lo Statuto dei Lavoratori, nel dicembre dello stesso anno
veniva sventato il golpe di Junio Valerio Borghese. C’era
paura per quel ritorno alla violenza, che ricordava gli anni
Venti del Novecento. Sempre nel 1970 – anche se per qual-
che anno le loro attività furono piuttosto limitate – nasceva
il gruppo terrorista delle Brigate Rosse.

Ritornavo da un lungo periodo a Londra nell’autunno


del 1971. Mamma mi prese da parte, era molto preoccupata.
– Filippo, papà qualche giorno fa è stato male e abbiamo
dovuto fare degli accertamenti.

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Siamo nei primi anni Settanta, non esistevano l’ecogra-
fia, la Tac, l’endoscopia flessibile, e questo complicò le cose.
Gli diagnosticarono un cancro con l’indicazione di operare
immediatamente. Fu mio compito tenere i contatti con il
chirurgo e seguire il decorso. In fondo ero il medico della
famiglia, anche se da studente, e di questo lui era molto
orgoglioso.
Averne di pazienti così! L’intervento fu eseguito in modo
ottimale, il decorso fu senza complicanze al di fuori di
qualche problema nel primo periodo del quale papà non
si lamentò oltre misura. Mio padre era molto legato alla
sua forma fisica e, da uomo forte, non si tirava indietro an-
che a costo di spendere risorse residue; se necessario, però,
cedeva a trattamenti sanitari anche fastidiosi o dolorosi:
l’importante e che potessero restituirgli piena efficienza.

Il 1972 fu un anno di svolta, per papà e per il partito.


A marzo il congresso nazionale acclamò come nuovo se-
gretario del Pci Enrico Berlinguer avviando un processo di
allontanamento dall’Unione Sovietica in favore dei partiti
della sinistra europea ed europeista. Berlinguer, cosa che
all’epoca fece specie, era il primo segretario nazionale a
non conoscere il russo. A quel congresso, il XIII, che si svol-
se a Milano, Pio si fece accompagnare da Franco, che aveva
sedici anni. Il ricordo di quei giorni è legato al momento in
cui i dirigenti del Pci interruppero i lavori per l’arrivo di
una notizia shock: era stato trovato, a pochi chilometri da
loro, vicino a un traliccio a Segrate, il cadavere dell’editore
Giangiacomo Feltrinelli.
Successivamente, a maggio, si andò al voto dopo che, per
la prima volta nella storia, il Presidente della Repubblica
aveva sciolto anticipatamente le camere. A quelle elezioni
politiche tra i candidati c’era anche Pio La Torre, nella cir-

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Pio La Torre con la nipote Patrizia Visconti sulle nevi di Monte Livata,
provincia di Roma (1972).

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coscrizione della Sicilia occidentale, quella che comprende
le provincie di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanisset-
ta. La Torre, che si presentava per la Camera dei Deputati,
raccolse oltre quarantaduemila voti, terzo nella lista dopo
Emanuele Macaluso e Cesare Terranova, il magistrato –
candidato come indipendente – che nel 1969 aveva istruito
un processo contro Totò Riina, Bernardo Provenzano, Lu-
ciano Liggio e Calogero Bagarella, un processo finito con
l’assoluzione di tutti gli imputati, anche perché ancora non
esisteva il reato di associazione mafiosa. Per La Torre, co-
munque, fu la prima di tre elezioni consecutive. Nel 1976
e nel 1979 papà si ricandidò nella medesima circoscrizione
dove, in queste due occasioni, insieme a lui vennero eletti,
tra gli altri, anche il suo grande amico, Paolo Bufalini, e il
suo successore alla guida del Pci siciliano, Achille Occhetto.
Nelle tre elezioni i voti di Pio La Torre subirono una lie-
ve e comprensibile flessione passando dai quarantadue-
mila del 1972 ai trentaseimila del 1979, forse per via della
sua attività che, pur non slegandosi mai dall’isola, aveva
sempre più respiro nazionale e lo allontanava dal suo ter-
ritorio. Pio, però, si candidò sempre in quello che per lui
era il suo “luogo naturale”, nella circoscrizione della Sicilia
occidentale, dove poteva contare su un elettorato che sa-
peva coinvolgere con battaglie e ideali, strappandolo dalla
logica del “meno peggio” per guardare davvero con fidu-
cia nel futuro.
Erano gli anni Settanta, e ripercorrerli qui sarebbe un
esercizio inutile anche se, poiché nostro padre era ormai in
prima linea, ognuno dei grandi eventi che caratterizzò quel
decennio si lega a un ricordo di lui, a una sua dichiarazione
o presa di posizione. Sulla scia di Giorgio Amendola, insie-
me ai colleghi Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte
ed Emanuele Macaluso, Pio faceva parte del gruppo dei

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cosiddetti “miglioristi” e cioè di quella parte del Partito
Comunista che auspicava riforme in senso progressista e
un dialogo aperto con alcune forze politiche alla propria
destra nell’arco costituzionale. D’altra parte era, questa,
una posizione pienamente conseguente alla sua storia e al
suo modo di vivere la politica, e non solo la politica.
Rileggendo le vecchie pagine de l’Unità non sorprende
allora trovare passaggi come questo, del dicembre 1974:
«Occorre porsi obiettivi realistici e tenere conto della storia
e delle componenti del partito democristiano. Non si tratta
di pretendere che la Dc diventi un partito di sinistra, ma
che si caratterizzi sempre più come una forza popolare e
antifascista. Occorre che nel sollecitare il ripensamento cri-
tico interno alla Dc anche noi ci dimostriamo aperti all’au-
tocritica».
Come abbiamo visto, il tema dell’autocritica era fonda-
mentale per lui, per la sua politica e anche per noi. Così in
una relazione al Comitato centrale dell’ottobre 1972: «Oc-
corre essere coerenti nell’applicare i principi della critica e
dell’autocritica che, a volte, sembra entrato in desuetudine.
Occorre condurre una lotta politica precisa per fare passa-
re questa impostazione nell’azione costante di costruzione
e rinnovamento del partito. Dove questo esame critico si
va compiendo si dimostra salutare per armare il partito e
sospingerlo all’attacco». Ci sono due anni di distanza tra
i due scritti da cui prendiamo queste poche righe, ma è
come se fossero state scritte lo stesso giorno. E potremmo
prendere altri testi, più lontani nel tempo e di diversi argo-
menti, e comunque scopriremmo assonanze inattese, per-
ché Pio La Torre è stato sempre coerente nelle sue posizio-
ni, l’uomo che «non sgarrava di tanto così», come diceva
mamma, e alla base del suo impegno restarono per tutta la
vita apertura, autocritica, che era poi un combinato dispo-

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sto di onestà intellettuale e responsabilità, attenzione per
gli ultimi, politica come servizio.
Su quest’ultimo punto vale forse la pena di soffermar-
si perché “politica come servizio” è un’espressione tanto
abusata da aver quasi smesso di significare qualcosa. Con
la concretezza di papà la spiegheremmo così: non abbiamo
mai avuto l’impressione che un qualsiasi incarico politico
o una qualsiasi elezione fosse vissuta come un momento
economicamente rilevante o come l’espressione di un pote-
re personale che si andava costruendo. Non abbiamo mai
pensato a nostro padre attraverso la categoria del “potere”.
Il suo amor proprio era certo soddisfatto quando pensava a
sé, figlio di contadini poveri che aveva fatto carriera in una
grande organizzazione fino ad arrivare al Parlamento. Ave-
va ambizioni concrete e di enorme portata, certo, ma non si
misuravano con le cifre dei conti in banca, automobili sporti-
ve o appartamenti di prestigio. Aveva obiettivi più alti, gran-
di come una riforma agraria, per esempio, o come la gran
massa di persone che lo sostenevano e gli volevano bene.
Continuando a sfogliare vecchi numeri de l’Unità salta
fuori un articolo davvero divertente che risale all’agosto
del 1974. Il titolo recita: «Sono irrisori gli stanziamenti per
gli interventi straordinari nel Sud» e poi il sottotitolo spie-
ga: «Il compagno La Torre motiva il voto contrario dei co-
munisti per l’esiguità e la frammentarietà della misura».
Si trattava cioè del rifinanziamento della Cassa del Mez-
zogiorno, contro cui i comunisti – papà in testa – avevano
votato. Nell’articolo il compagno La Torre conclude spie-
gando che «si deve andare a una radicale trasformazione
della Cassa, che al momento è assolutamente inefficiente».

Nell’estate 1974, la stessa estate di quell’articolo, ad


appena diciotto anni decisi che mi sarei sposato. Papà e

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mamma, che non erano molto più in là con l’età quando
avevano preso la stessa decisione, non avevano buoni ar-
gomenti da opporre e quindi si affidarono al tempo, quello
che mi sarebbe servito per trovare un lavoro con cui man-
tenermi durante l’università. Non chiesi aiuto a mio padre,
ma ai genitori di alcuni amici. Un giorno uno di questi mi
chiamò.
– Franco, ci sarebbe un lavoro per te…
Il lavoro non era certo qualificato, ma non potevo pre-
tendere che lo fosse dato che avevo in tasca una maturità
classica e nessuna esperienza. Si trattava di un impiego
al Formez. In altre parole, al centro studi della Cassa del
Mezzogiorno.
– Tu sei pazzo!
Mio padre non la prese bene.
– Io sto facendo la battaglia per chiudere il carrozzone
della Cassa del Mezzogiorno e tu vuoi andarci a lavorare?
Non pensi a cosa significherebbe per me?
Sarebbe significato mettere in dubbio la sua coerenza.
Capii perfettamente e lasciai perdere, iniziai a fare qualche
lavoretto saltuario e in breve tempo anche il previsto matri-
monio diventò un progetto da abbandonare.
Di lì a poco il Corriere della Sera battezzava papà «l’uo-
mo nuovo a cui il Pci ha consegnato il problema del Mez-
zogiorno», l’ex contadino che stava battendo «le regioni
meridionali con una media di 2 o 3 comizi al giorno». Per
veder chiudere la Cassa del Mezzogiorno, però, sarebbe-
ro stati necessari altri dieci anni. Dieci anni che papà non
ebbe la fortuna di vivere.

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Uno. Cosa significa “santabarbara”.


Si tratta del deposito delle munizioni di una nave milita-
re. Forse la si chiama così perché un tempo si usava, in se-
gno di buon augurio, lasciare un’immagine di quella santa
all’entrata del deposito. Santa Barbara, la patrona dei vigili
del fuoco, della marina militare e degli artificieri.
Due. Una storia si conclude.
La commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno
della mafia in Sicilia fu istituita per la prima volta nel 1962
e, come abbiamo scritto, iniziò i suoi lavori l’anno succes-
sivo. Nel corso della terza legislatura il presidente fu Paolo
Rossi; nella quarta fu presieduta da Donato Pafundi, nella
quinta da Francesco Cattanei e nella sesta da Luigi Carraro.
A parte il primo, un socialista, gli altri tre presidenti erano
esponenti della Democrazia Cristiana. I lavori si conclu-
sero all’inizio del 1976, al termine della sesta legislatura,
con una relazione finale che doveva essere il prodotto di
tredici anni di lavoro. Papà era entrato nella commissione
durante il suo primo mandato da parlamentare. Di quella
relazione finale non condivideva nulla.
Tre. Inizia un’altra storia.
14 gennaio 1976: per la prima volta va in edicola un nuo-
vo quotidiano diretto da Eugenio Scalfari: la Repubblica. Il

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titolone di prima pagina rimanda all’incarico di governo a
Moro, a pagina 3 c’è una lunga intervista dello stesso Scal-
fari a Francesco De Martino, allora segretario nazionale so-
cialista; a pagina 13 Alberto Arbasino intervista Bernardo
Bertolucci che spiega «Perché ho girato Novecento». Pagina
16, invece, apre con il titolo sibillino: «Dopo sedici anni di
silenzio esplode la santabarbara». Occhiello: «Un dossier
segreto della commissione parlamentare rivela i legami tra
la mafia e la Dc» e, nell’articolo, del “dossier” sono riporta-
ti ampi brani. In basso, un riquadro: «Il deputato che firma
l’accusa». Il suo nome, anche sulla pagina consumata dal
tempo, è molto chiaro e lo si riconosce senza dubbi. Sono
tre parole, tutte molto brevi: c’è scritto Pio La Torre.
Quell’articolo non gli fece piacere. Non sapeva chi aves-
se fatto avere quello scritto al giornale, ma non era certo un
documento segreto. Era solo una bozza da rendere pubbli-
ca pochi giorni dopo e che la Repubblica aveva pensato di
trasformare in uno scoop perfetto per il numero inaugu-
rale. In realtà si trattava di un documento che proprio Pio
aveva preannunciato su l’Unità venti giorni prima e che,
dal suo punto di vista, andava interpretato in modo molto
diverso: «Noi il discorso sulla “santabarbara” dell’attuale
inchiesta, che avrebbe dovuto far saltare per aria mezzo
Parlamento, non l’abbiamo mai condiviso. Il nostro com-
pito non è questo. È invece quello di fornire al governo
e al Parlamento uno spaccato della situazione, una serie
precisa di indicazioni per realizzare le riforme economi-
che, sociali e politiche in senso non mafioso. Siamo contra-
ri all’equivoco che si è ingenerato: che cioè la commissione
parlamentare fosse una specie di “giustiziere del Re”, una
sorta di comitato di salute pubblica destinato a far cadere
testa su testa».
Pio era entrato nella commissione dopo l’elezione del

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1972. Aveva preso il posto che era stato di Girolamo Li Cau-
si e quel documento, che fu consegnato ai presidenti delle
Camere pochi giorni dopo lo “scoop”, era frutto principal-
mente del suo lavoro. Papà portò nella commissione la sua
esperienza delle cose della mafia, la sua capacità, come si
disse dopo, di «parlare l’italiano e il siciliano». Lo fece cer-
cando di costruire intorno al tema la maggior collaborazio-
ne possibile, anche fuori dal suo partito. Non per nulla era-
no gli anni del “compromesso storico”. Così nel 1975, per
esempio, aveva presentato una relazione alla commissione
sulle misure economiche necessarie per la Sicilia, dove si
spiegava che «la liquidazione della mafia è innanzitutto il
problema di una trasformazione profonda dell’economia
e della società siciliana». Il testo era stato preparato con la
collaborazione del senatore dc Alessandro Agrimi. Il po-
meriggio del 30 ottobre 1975 Pio aveva preso la parola di
fronte ai colleghi per illustrare il contenuto del documento,
poi si era alzato Agrimi. «Nella prima parte del suo docu-
mento, l’onorevole La Torre propone delle diagnosi, evi-
denzia alcune cause di carattere sociologico e politico che
io non condivido, ma il punto sul quale siamo certamente
d’accordo è l’obiettivo, lo spirito animatore del documen-
to». Il senatore, insomma, aveva preso le distanze, non si
voleva intestare l’analisi che nostro padre faceva su cosa
fosse la mafia e su come si era strutturata negli anni. Pio, se
voleva parlare davvero di mafia, e non limitarsi a un eser-
cizio di stile, doveva essere disposto a farlo anche da solo.
Il suo impegno nella commissione fu enorme. Parlava
spesso con noi di quanto andava facendo perché quello era
il luogo in cui, ne era convinto, la battaglia di una vita po-
teva dare davvero frutto. Spesso gli altri componenti della
commissione si rivolgevano a lui per avere informazioni
sulla Sicilia, mentre le sue critiche erano sempre mirate e

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Seduta della commissione parlamentare antimafia. Da sinistra a destra:
Marcello Sgarlata, Luigi Carraro, Cesare Terranova e Pio La Torre.

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accompagnate da proposte concrete. Ogni tanto sbottava e
interrompeva gli interlocutori per mostrare loro che stava-
no sbagliando, come chi sente svolgere un ragionamento
che ben conosce e che già da tempo ha superato. Pio, in-
somma, dava lezioni di antimafia a molti componenti della
commissione. Con altri, invece, come con il giudice Cesare
Terranova, si intendeva in modo più diretto. A tratti, l’au-
la diventava luogo di un dibattito che vedeva come pro-
tagonisti loro due, che si confrontavano su questioni che
conoscevano a fondo. Poteva succedere, per esempio, che
arrivassero a parlare di persone e fatti che solo loro cono-
scevano, senza preoccuparsi di spiegare agli altri ciò di cui
stavano parlando.

Terranova: «L’usura in Sicilia non è un reato tipico della


mafia. Vi sono due tipi di usura: uno è quello esercitato a
livello di professionisti. Non dirò il nome di un professio-
nista, che l’onorevole La Torre conosce bene, recentemente
scomparso; era un notissimo usuraio, un individuo che si
è costruito una posizione favolosa senza alcun rapporto
con la mafia».
La Torre: «Rapporti con la mafia ne aveva».
Terranova: «Sì, ma per altro verso, non per l’esercizio di
quell’attività illegale. Si occupava della vendita di auto-
mobili, e in quel campo aveva rapporti con la mafia».
I due discutevano su un piano diverso e lì costruivano
spazi di intesa. Erano la parte più attiva, propositiva e in-
formata della commissione. Ben presto, però, papà capì
che il suo lavoro non avrebbe dato i frutti sperati e che
quella commissione non avrebbe costruito davvero un ri-
ferimento efficace di contrasto alla criminalità. Ne parlò
con chiarezza anche in aula. Dopo un’intera mattinata di
lavoro sul tema dei rapporti tra mafia, banche e finanzia,

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in una seduta del novembre 1975, sembrò lasciarsi andare
allo scoramento: «Come si può stroncare questa attività?
Questo è il problema. E così è anche per quanto riguarda
gli altri problemi. Noi, cioè, abbiamo davanti un gruppo,
un groviglio di questioni che sono di grandissima attuali-
tà. E sarebbe estremamente interessante cercare di rispon-
dere in maniera puntuale e non con dati generici dicendo
soltanto che occorrono maggiori controlli eccetera; che bi-
sogna guardare all’aspetto morale eccetera. Cose sacrosan-
te ma che sono acqua fresca rispetto alla drammaticità dei
problemi che dobbiamo affrontare. Questa è la verità». Gli
rispose il socialista piemontese Manlio Vineis: «Questa è
una materia su cui esistono già delle misure legislative».
Chissà cosa deve aver pensato papà…
Quando nel gennaio del 1976 la commissione presentò
la sua relazione, si scoprì che le relazioni erano tre. Una,
quella approvata a maggioranza, secondo Pio era proprio
l’«acqua fresca» di cui sopra, un testo che si limitava a
«dire il peccato e non il peccatore». La seconda, la cosid-
detta “di minoranza”, era il “dossier” che era finito ancora
in bozze sulle pagine de la Repubblica e porta, dopo la fir-
ma di nostro padre, quella dei componenti comunisti del-
la commissione, «nonché del deputato Terranova», come
recita il frontespizio. La terza, presto scomparsa dai radar
della storia, era quella del Movimento Sociale. Tutte e tre
le relazioni vennero consegnate ai presidenti delle Camere
il 4 febbraio 1976.
Altro che santabarbara! Per papà quel giorno prese cor-
po una sconfitta annunciata. Lo Stato si era riunito ai più
alti livelli per prendere finalmente in considerazione il
problema della malavita organizzata siciliana e, alla fine,
dopo tredici anni, ne uscivano tre posizioni diverse, l’im-
magine di una politica spaccata e quindi debole di fron-

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te alla mafia. Eppure, si era sentito obbligato a quel passo
– cioè a presentare una seconda relazione – perché, come
scrive proprio in quel testo, quanto approvato dalla mag-
gioranza della commissione «non può ritenersi in alcun
modo soddisfacente» perché lì «si sfugge al nodo centrale
della questione: che la compenetrazione fra il sistema di
potere mafioso e l’apparato dello Stato è avvenuta stori-
camente come risultato di un incontro che è stato ricercato
e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)».
Pio La Torre non era tipo da “sfuggire” le questioni, figu-
rarsi su questo argomento e in questo contesto. La mafia è
mafia per via del suo rapporto con il potere politico, ecco
il tema su cui la relazione di maggioranza non insisteva
a sufficienza. E non è possibile pensare che questo fosse
del tutto slegato dal fatto che la classe dirigente, in Sicilia,
era per la gran parte democristiana. «Il nostro documento»
disse Pio a l’Unità «si fa carico di affrontare questo aspetto,
e quindi fa nomi e cognomi. Non tutti, perché ci sarebbero
da scrivere dei volumi, ma denuncia personaggi che han-
no responsabilità particolarmente gravose, quelli che tira-
no le fila del sistema di potere mafioso». E sì, la relazione
di Pio è un documento di denuncia perché fa riferimento
a persone che spesso non hanno condanne sulle spalle, ma
di cui la politica – e Pio prima di tutti – si prende la briga di
giudicare con coraggio l’operato e le ombre, senza paraca-
dute, senza delegare alla magistratura. D’altra parte, se la
magistratura avesse avuto gli strumenti per punire la ma-
fia, con buona pace di Manlio Vineis, forse non ci sarebbe
stato bisogno di nessuna commissione parlamentare.
Secondo nostro padre non si poteva parlare di mafia in
Sicilia senza parlare della politica che faceva affari con essa
o minimizzando questo aspetto peculiare. Non per una
questione morale, o per l’etica professionale di qualsiasi

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uomo politico impegnato nella commissione, ma per la ri-
gida legge della logica: la mafia, diceva Pio, è un fenomeno
di classi dirigenti e come tale è costituita anche dai «com-
ponenti delle classi che esercitano il dominio economico
e politico nell’Isola». Se non si parla di loro, non si parla
della mafia. Non che la relazione di maggioranza non fa-
cesse, per esempio, il nome di Vito Ciancimino, ma non
chiariva a sufficienza il quadro nel quale il suo ruolo si era
sviluppato, senza contare che non c’era solo Ciancimino.
La relazione di maggioranza non faceva il nome del suo
sindaco – Salvo Lima, l’andreottiano che mentre papà scri-
veva la relazione sedeva in Parlamento – né tirava in ballo
il loro riferimento politico più alto. La relazione di mino-
ranza, invece, era molto più diretta: «Al vertice di questo
sistema di potere a Palermo, da venti anni, si è insediato
l’attuale ministro della Marina Mercantile onorevole Gio-
vanni Gioia». Bisogna riconoscere che con questi contenu-
ti, la retorica della “santabarbara” aveva di che sostenersi.
Ma non ci furono solo le relazioni, come risultato del la-
voro di quegli anni. Spesso lo si dimentica. Il frutto più
importante di tredici anni di lavoro, infatti, era un altro.
«Nonostante il dissenso su alcuni punti» spiegò papà in
un’intervista televisiva, «ci siamo fatti carico di trovare
un’intesa sulle proposte finali che sono state approvate
con una larga maggioranza», e cioè con il voto contrario
dei soli rappresentanti del Movimento Sociale. Proposte
finali, cioè suggerimenti su come lo Stato avrebbe potuto e
dovuto rispondere all’emergenza mafiosa in Sicilia. Propo-
ste finali, cioè la lettera morta di cui il Parlamento per anni
si disinteressò completamente.

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Me lo ha insegnato fin da piccolo. Mai rinunciare al con-


fronto con la realtà. La realtà non ha mai paura: se non la
guardi, è perché sei tu ad averne.
Avevo raccolto la cifra che mi serviva: duecentocinquan-
ta lire. Lo avevo visto all’Upim di Palermo, era un elmetto
militare bellissimo, completamente diverso dagli altri. Era
mimetico, coperto da diverse sfumature dei colori del le-
gno e da alcune foglie posticce, di plastica dura. Lo com-
prai e tornai a casa, lo indossai ed entrai soddisfatto nello
studio di papà.
– Quindi, Franco, ti piace la guerra.
Non sembrava contento. Gli spiegai che mi piaceva gio-
care alla guerra, che quella vera era una cosa brutta. A lui
non bastò.
– Sai chi indossa questo elmetto?
– I soldati.
– Forse non mi sono spiegato. Sai quale esercito indossa
questo elmetto?
Era l’elmetto dei soldati americani, ben mimetizzato per
nascondersi nella giungla e uccidere i Viet Cong, che lot-
tavano per la riunificazione e l’indipendenza del proprio
Paese. Uscii dallo studio di papà di umore diverso rispetto
a quello con cui ero entrato.

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«Interpretare la mafia come fenomeno della classe diri-
gente isolana, con la partecipazione decisiva del grande
baronaggio della Sicilia occidentale, non significa che tutti
i membri delle classi dirigenti siano stati o siano, come tali,
membri attivi della mafia, ma solo che membri della mafia
rappresentano una sezione nient’affatto marginale delle
classi dominanti». Così Pio, nella relazione, spiegava che
non tutti i governanti e i potenti siciliani sono collusi con
il malaffare. O, detto altrimenti, che il suo non era un atto
d’accusa verso tutta la Democrazia Cristiana dell’isola. Bi-
sogna fare dei distinguo, analizzare caso per caso, scende-
re in profondità.

Non so quanto tempo passò dalla vicenda dell’elmetto.


Settimane, forse qualche mese. Ricordo però che scrissi un
articolo per il Club dell’Amicizia, un gruppetto di amici
figli di funzionari di cui facevo parte. Ci riunivamo nella
soffitta della Federazione e componevamo a mano il no-
stro giornalino. Il mio articolo si intitolava: «L’invasione
dei giocattoli americani nei nostri supermercati», una sorta
di parallelo tra Saigon e l’Upim di Palermo. Terminata la
stesura presi il mio foglio ed entrai soddisfatto nello studio
di papà. Lui lesse tutto il mio scritto e sottolineò alcuni
errori di grammatica e sintassi. Poi, finito di leggere, si oc-
cupò dell’errore più grave.
– Non devi generalizzare, – mi spiegò. – Se a te non piace
un giocattolo americano, non significa che tutti i giocattoli
americani siano da rifiutare. Ce ne sono di belli, divertenti
e perfino educativi.
Papà mi consigliò allora di prendere il mio articolo e di
tornare all’Upim, per controllare se quanto avevo scritto
corrispondeva a realtà. Ovviamente non corrispondeva.

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C’era un giovane democristiano, assessore alla Regio-
ne Siciliana, che alla lettura della relazione di minoranza
dovette sobbalzare almeno due volte. La prima leggendo
quanto si scriveva del professor Lauro Chiazzese: «Per
quanto riguarda la Democrazia Cristiana, dopo il con-
gresso di Napoli del 1954, in provincia di Palermo l’o-
norevole Gioia passa dalla alleanza soltanto elettorale e
governativa con forze di destra espressione organica di
cosche mafiose, a una concezione che mirava ad assor-
bire all’interno della Dc quelle stesse forze. Non che pri-
ma si disdegnasse il passaggio nelle file della Dc di noti
esponenti del blocco conservatore: vogliamo ricordare il
caso del professor Lauro Chiazzese (ex dirigente del Pli,
diventato segretario regionale amministrativo della Dc)».
E di Lauro Chiazzese si dice anche che, come avvocato,
ha difeso i possidenti nella loro battaglia legale contro
la riforma agraria e, soprattutto, lo si inserisce tra quelli
«che più organicamente e stabilmente hanno espresso il
sistema di potere mafioso». Il giovane assessore – aveva
solo quarant’anni – ricordava bene il 1957, quando ave-
va partecipato a una visita di condoglianze alla famiglia
proprio dopo la morte di Chiazzese. Lì aveva conosciuto
la figlia del defunto, Irma, e l’anno dopo l’aveva sposa-
ta. L’uomo di cui parlava la relazione, insomma, era suo
suocero. E non era tutto perché, anche se con toni più
sfumati, più volte la relazione faceva il nome di Bernardo
Mattarella, ministro democristiano negli anni Cinquanta
e Sessanta. Mattarella non veniva attaccato direttamente,
forse anche perché anni prima era stato messo nel miri-
no dalle accuse feroci di Danilo Dolci, scrittore e sociolo-
go triestino, e la vicenda era finita in Tribunale, con una
condanna per quest’ultimo nei tre gradi di giudizio. Ad
ogni modo non poteva far piacere al giovane assessore

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Piersanti Mattarella vedere il proprio cognome e quello
di sua moglie in quella relazione.

Nella seconda metà degli anni Settanta papà fece un


viaggio negli Stati Uniti. Non ricordo con esattezza l’anno.
Io, nel frattempo, mi ero sposato nell’aprile del 1976 con
cerimonia civile officiata da un amico di papà, l’assesso-
re al bilancio del Comune di Roma Ugo Vetere. Poi avevo
avuto una bambina, Valentina. Spesso si parla del viaggio
di Giorgio Napolitano, quello dell’aprile 1978, come del
primo viaggio di un dirigente comunista italiano negli Sta-
ti Uniti. È un’inesattezza. Quello fu, come scrisse lo stesso
Napolitano, il primo di «un membro della Direzione del
Pci invitato in quanto tale negli Stati Uniti, e non come
componente di una delegazione unitaria, di carattere par-
lamentare o regionale o comunale, per partecipare a una
missione ufficiale». Papà, invece, era sbarcato a New York
per una missione della commissione Agricoltura, non nelle
vesti di dirigente politico. Quell’esperienza gli era molto
piaciuta, e aveva avuto anche modo di far visita a sua so-
rella maggiore, zia Felicia, emigrata negli anni Cinquanta
a Rochester, nello stato di New York ma a un passo dal
confine con il Canada. Tornato da quel viaggio, ricordo
che papà venne presto a casa mia. Portò a Valentina, la sua
prima nipote, un grande, colorato e rumoroso giocattolo
americano.

Cosa pensava papà di quel democristiano, figlio di Ber-


nardo Mattarella e genero di Lauro Chiazzese, quel giova-
ne assessore che nel febbraio del 1978 diventerà presidente
della Regione Siciliana? Lo seguiva con grande interesse
e, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, con sen-
timenti positivi. Lo aveva conosciuto di persona tra la fine

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degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Si erano
incontrati alla facoltà di giurisprudenza dell’università di
Palermo, dove Pio si era laureato e dove Mattarella aveva
iniziato a lavorare come assistente. Sapeva che si trattava
di un esponente della sinistra democristiana, con la qua-
le aveva sempre intrattenuto, pur nelle differenze, buoni
rapporti. Mattarella era un referente della corrente di Aldo
Moro e Pio era contento di vederlo crescere. Veniva da un
contesto sociale completamente diverso dal suo – era, ap-
punto, figlio di un importante ministro – ma aveva seguito
il suo stesso percorso, con qualche anno di ritardo. Era sta-
to eletto prima come consigliere comunale a Palermo e poi
come consigliere regionale. Aveva avuto la possibilità di
far parte dell’amministrazione regionale, cosa che a papà,
essendo un comunista, era preclusa. Quando Mattarella
guadagnava posizioni all’interno della Dc, le perdevano
gli esponenti della destra del partito, più lontani da Pio e a
volte, in Sicilia, espressione di una classe dirigente legata a
doppio filo con la mafia. Da Roma, insomma, nostro padre
guardava con favore all’ascesa del giovane Mattarella che
non per caso incassò, per il suo primo governo regionale,
anche il voto favorevole dei deputati del Pci.
Non si trattò solo di una comunione di intenti tra due
uomini che facevano politica lontani, uno a Roma e uno a
Palermo. Pio e Piersanti si incontrarono più volte ed è ri-
masto il ricordo di uno di questi appuntamenti in occasio-
ne della Conferenza regionale dell’agricoltura svoltasi del
febbraio del 1979. L’incontro era stato organizzato in uno
storico hotel a cinque stelle di Palermo, a Villa Igea. Pio,
all’epoca parlamentare e responsabile nazionale dell’uffi-
cio agrario del Pci, prese la parola e attaccò la giunta di
Mattarella, in particolare l’assessorato all’agricoltura. Dis-
se che i tentativi di cambiare le politiche agricole si erano

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scontrati «con il permanere del vecchio quadro istituzio-
nale e il riaffiorare di antichi e consolidati interessi di oli-
garchie che pompano una parte decisiva delle risorse sici-
liane». Disse che se Mattarella aveva paura di modificare
gli equilibri di potere nelle campagne, l’esperienza politica
dell’appoggio esterno al suo governo da parte del Pci po-
teva considerarsi archiviata. Fu, insomma, un attacco fero-
ce e, proprio dopo quelle parole, si alzò Mattarella. Prassi
avrebbe voluto che il presidente difendesse a spada tratta
il suo assessore all’agricoltura, ma a volte la prassi la si
manda al diavolo. Mattarella prese la parola e, alla fine del
suo discorso, riconobbe le problematiche sollevate da papà
e le insufficienze di quanto compiuto fino a quel momento.
Lo fece con un tono meno veemente di nostro padre, ma fu
chiaro e fermo.
Che il presidente Mattarella trovasse nel deputato comu-
nista una tale sponda fu una notizia che lasciò traccia in
molti ambienti della classe dirigente siciliana. Le differen-
ze erano ancora marcate, ma si leggeva in controluce una
comunione di intenti. Va però chiarito, per chi guarda la
politica dell’epoca con gli occhi dell’oggi, che nonostante il
suo avvicinarsi al campo avverso papà non ha mai smesso
di essere un comunista. Un comunista “migliorista”, certo,
ma prima di tutto un comunista. Non bisogna credere che
la sua identità politica si annacquasse in questa apertura, e
lo stesso si potrebbe dire di Piersanti Mattarella, democri-
stiano dalla testa ai piedi per tutta la vita. Erano uomini,
quelli, che conoscevano il rispetto per chi non condivideva
le loro prospettive politiche, e in virtù di quel rispetto pote-
vano trovare degli accordi restando su fronti opposti.
C’è una storia, su questo argomento, che è abbastanza
eloquente. Una sera papà, mamma e un loro amico mol-
to caro andarono a Mondello per cenare in un ristorante.

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Sulla strada del ritorno, nel bel mezzo di una discussione
molto accesa sull’unico tema possibile, e cioè la politica,
l’amico sbottò dicendo: «Pio, tu sei socialdemocratico».
Papà rallentò, accostò e lo fece scendere dalla macchina.
Allo stesso modo il Pci siciliano scaricò presto Mattarel-
la. Di mezzo ci si mise Roma: il dirigente degli enti locali
del Pci, Armando Cossutta, diede l’aut aut alle federazioni
comuniste impegnate in un sostegno esterno dei gover-
ni locali. Lo slogan era: o al governo o all’opposizione. A
livello nazionale si era scelta l’opposizione. I comunisti
siciliani tentarono qualche resistenza, ma l’8 marzo 1979
furono costretti a negare la fiducia al governo. Mattarella
formò in meno di un mese una nuova giunta, questa volta
senza l’appoggio dei comunisti. Il presidente disse poi al
Giornale di Sicilia: «Essendo impegnati nell’attuazione di
un programma che fu concordato con il Pci, sentiamo il
dovere di ricercarne continuamente il consenso». Manda-
va, cioè, un messaggio: non tutto era perduto.

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«Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini […]


se domandava, per ingannare la noia della lunga strada
polverosa […]: “Qui di chi è?”, sentiva rispondersi: “Di
Mazzarò”.
E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese,
coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi ac-
coccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano
la mano sugli occhi per vedere chi passava: “E qui?”. “Di
Mazzarò”.
E cammina e cammina […], passando per una vigna che
non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobi-
le, come gli pesasse addosso la polvere, […] levava il capo
sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: “Di
Mazzarò”.
Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non
spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli
ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava
rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza,
si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che
tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passa-
vano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si
vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendi-
ce brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di

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Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle
gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il
canto solitario perduto nella valle.
“Tutta roba di Mazzarò”».

Così inizia la novella di Giovanni Verga, La roba. Chi è


Mazzarò? È un Pio La Torre che non vede negli occhi de-
gli altri. È nato contadino, e «ci aveva pensato e ripensato
tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza
scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva
provato quel che ci vuole […] a star colla schiena curva
quattordici ore». Mazzarò, cervello come un diamante e
tanta voglia di lavorare, aveva deciso di riscattarsi da quel
destino di miseria e lo aveva fatto accumulando la roba
che gli era mancata. La voleva tutta, più di quella che po-
teva servirgli. Papà, pure lui gran cervello e abitudine alla
fatica, era uscito dalla sua condizione assommando com-
pagni ad amici per una battaglia comune e lunga una vita.
Della roba, papà non sapeva cosa farsene. Aveva sem-
pre lavorato e guadagnato, versato le sue quote al partito,
mantenuto la famiglia. La vita gli aveva dato l’opportunità
di migliorare la sua condizione, di vivere bene, essere tran-
quillo. Non voleva più di questo, e non cambiò neppure
quando fu eletto in Parlamento: avevamo ciò che serviva,
e accumulare o investire non erano verbi che lui frequen-
tasse. Comprò, per esempio, una sola casa in tutta la sua
vita. Quando lo fece, su spinta di mamma, era il 1967 e sta-
vamo a Palermo: la presero “sulla carta”, per risparmiare,
ma quando la casa fu pronta, noi ci eravamo già trasferiti
a Roma. Sarà che quell’esperienza lo lasciò scottato, sarà
che il comunismo all’epoca era ancora una cosa seria, ma
nella capitale siamo sempre stati in affitto. Non gli inte-
ressavano i soldi, non gli interessavano le proprietà e non

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gli interessavano neppure i piccoli e grandi privilegi che
si sarebbe potuto permettere nella sua posizione. Quando
viaggiava preferiva l’ospitalità dei compagni alle cene nei
lussuosi ristoranti, gradiva il vino aspro ma genuino dei
contadini, le tavolate improvvisate nei cortili delle cascine.
Non lo faceva per un calcolo elettorale, lo faceva perché
quella era la vita che gli piaceva vivere, quella era la di-
stanza – gomito a gomito – che voleva tenere con chi aveva
il dovere di rappresentare. Allo stesso modo, quasi per un
istinto, che altro non è che l’eco di quello che siamo, non gli
interessava “la roba” né poteva capire fino in fondo quelli
che ne erano ossessionati. Quando se ne andò, quando ce
lo portarono via, lasciò dietro di sé un conto corrente con
poche decine di migliaia di lire.
Le relazioni della commissione parlamentare antimafia
vennero consegnate al Parlamento nel 1976. Ci si sarebbe
dovuti aspettare che le Camere iniziassero un percorso le-
gislativo per dare allo Stato gli strumenti per rispondere
al cancro mafioso. Questa la teoria. Nella pratica, invece,
un ex contadino continuò a predicare nel deserto e cingere
d’assedio un magistrato perché si formulasse una propo-
sta di legge innovativa di contrasto all’attività della mafia.
I due protagonisti di questa storia furono, ovviamente, Pio
La Torre e Cesare Terranova.
Papà aveva avuto un’intuizione. Ne parlava spesso, in
ogni occasione, con noi e con gli amici. Era un’idea su cui
continuava a riflettere e, incredibile a dirsi, finì che per un
certo periodo non fece che pensare a una cosa sola, e cioè
alla roba. Era il suo chiodo fisso, ma non si trattava della
sua roba, ma di quella degli altri, quella dei mafiosi.
– Il punto è questo, – diceva. – Il mafioso si vuole arric-
chire, pensa solo alla roba. Per questo, se vogliamo colpir-
lo, non serve metterlo in galera. La galera è acqua fresca.

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Pio li aveva visti i mafiosi all’Ucciardone, sapeva che
pure da dietro le sbarre si può rimanere potenti.
– Abbiamo solo un’arma efficace: dobbiamo togliergli la
roba.
Non si trattava, insomma, di punire il mafioso. Non ave-
va senso tentare di colpire il singolo individuo. I mafiosi
vengono uccisi, feriti, costretti a letto o in una cella; posso-
no colpirli altri mafiosi o può fermarli lo Stato, ma il punto
è che i mafiosi passano e la mafia resta. Perché il nemico
non è lui, il singolo, per quanto potente. Il nemico è il loro
potere, è il potere mafioso, che passa di mano in mano,
striscia come un verme, e quando colpisci l’uomo spesso
non colpisci il suo potere, o magari quello passa di mano
proprio mentre tu lo stai mettendo dietro le sbarre.
Pio, che non faceva troppe astrazioni, sapeva che la con-
cretezza del potere sta proprio nella roba, in cui il potere
si calcifica, si fa ricchezza, e poi genera altro potere. Ma il
potere non si tocca, la roba sì.
– È semplice, è come per Al Capone!
Al Capone nel 1930 fu definito “nemico pubblico nume-
ro uno” dall’Fbi. L’anno successivo venne imprigionato
perché colpevole di evasione fiscale, oltre che della viola-
zione delle leggi sul protezionismo. Al Capone incastrato
dalla roba. Al Capone che quando gli togli la roba non re-
sta più niente.
Bisognava dare strumenti allo Stato per arrivare fino a
lì, per fare accertamenti sulle ricchezze dei mafiosi e, poi,
portargliele via.
– Dobbiamo colpire l’illecito arricchimento, – spiegava
con il sorriso di chi vede quando è bello un ragionamento
lineare: – perché la mafia ha come fine l’illecito arricchi-
mento. È lì che dobbiamo mettere i riflettori.
Per Pio guardare la mafia era come osservare se stesso

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Conferenza economica del PCI Siciliano. Si riconoscono Achille Occhetto,
Pio La Torre e Enrico Berlinguer (marzo 1976).

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nello specchio della roba. Se guardava lì, la mafia era pro-
prio come lui, ma tutta al contrario. Era una forza, un po-
tere riconosciuto dalle persone, anche da quelle più umili.
Ma papà guadagnava quella forza dal rispetto che si aveva
per lui, lui che non voleva la roba, lui che era incorruttibile,
come si diceva senza timore di sbagliare. Il potere mafio-
so, invece, poggiava sulla forza e sul rispetto che nasceva
dalla roba, perché si troverà sempre una voce, dentro le
persone, pronta a guardare ogni ricchezza con ammirazio-
ne. Togliere la roba alla mafia, allora, sarebbe stato come
togliere a papà la sua gente e quegli sguardi speranzosi
e ammirati, quella fiducia che lo nutriva e lo spingeva ad
andare avanti. Lui sapeva che senza di quello non sarebbe
stato più se stesso, come sapeva che, senza la roba, la mafia
non sarebbe più stata la mafia.
Con Cesare Terranova lavorò finché il magistrato restò
alla Camera. Non ricordiamo se la loro fu più di una fre-
quentazione professionale, e cioè non sappiamo se i due
fossero anche amici. Probabilmente non si sentirono mai
davvero vicini, erano molto diversi, ma avevano una pro-
fonda stima reciproca e condividevano una battaglia. Ter-
ranova, come capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di
Palermo, era già stato procuratore d’accusa al processo con-
tro i Corleonesi nel 1969, dove quasi tutti gli imputati erano
stati assolti. Nel 1974 aveva ottenuto una parziale rivincita,
processando e condannando all’ergastolo Luciano Liggio
(già assolto al processo di cinque anni prima) che aveva giu-
rato vendetta. Due anni prima era stato eletto alla Camera
insieme a nostro padre. Conclusa l’esperienza della com-
missione, si aprì il lavoro preparatorio per la presentazione
una proposta di legge che, a giudizio di Pio e di Terranova,
era diretta conseguenza dell’esperienza della commissione.
Quello che ricordiamo è che papà trattò Terranova come

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era abituato a trattare i suoi collaboratori, cioè con una se-
verità e un contegno da mastino. Era un profluvio di tele-
fonate e di incontri, un’attenzione incessante e maniacale
per i minimi particolari. Non era cattiveria, era perfezioni-
smo. Pio sapeva che la sua proposta di legge sarebbe stata
quella di una minoranza; sapeva che il Parlamento a cui
presentava la sua legge era quello in cui per anni aveva
ripetuto fino alla nausea che era ora di prendersi davve-
ro carico del lavoro della commissione antimafia e, quan-
do guardava agli scranni della maggioranza davanti a sé,
vedeva Salvo Lima, il sindaco del sacco di Palermo, della
distruzione della Conca d’Oro. Per questo voleva che la
proposta fosse perfetta, che nessuno si potesse appigliare
a un’inezia per distruggerne l’impianto, e a farne le spese
fu il povero Terranova.
Non si trattava solo della roba, si trattava anche di una
piccola rivoluzione nel codice penale, perché per togliere
le ricchezze al mafioso, prima devi condannarlo, e per con-
dannarlo hai bisogno di sostenere che ha commesso un re-
ato. Nel diritto penale dell’epoca esisteva un reato – quello
di associazione per delinquere – che teoricamente avrebbe
fatto al caso dei magistrati, ma l’appartenenza alla mafia
non era, in sé, un reato e questo rendeva molto difficile
incriminare dei capi mafia che spesso non commettevano
delitti in prima persona ma si limitavano a esserne i man-
danti. All’articolo 416 – associazione per delinquere – si
doveva aggiungere, nella proposta di La Torre e Terranova,
il 416bis, riferito al nuovo reato di associazione mafiosa.
Con quella legge essere parte della mafia sarebbe stato
riconosciuto per la prima volta nella storia d’Italia come
un reato, ma per un passo così grande, in un Paese con-
servatore come il nostro, non basta una proposta. Servono
lacrime e sangue.

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Terranova, dopo la legislatura chiusasi nel 1979, tornò al


suo impegno in magistratura e venne nominato alla Corte
d’Appello di Palermo. Per lui il pantano in cui si erano
bloccate le conclusioni della commissione, che dopo più di
tre anni non accennavano ad essere discusse in Parlamen-
to, era una sconfitta che chiudeva la sua attività legislati-
va. Tornò nell’isola, quindi, benché quello fosse un anno
terribile.
Il 26 gennaio del 1979 a Palermo viene assassinato Mario
Francese, onesto giornalista che più volte si era occupato
dei fatti di mafia sull’isola.
Il 9 marzo cade sotto il piombo mafioso Michele Reina,
segretario provinciale della Dc palermitana, reo di aver
aperto alla collaborazione con i comunisti.
Il 20 marzo viene ucciso a Roma il giornalista Carmine
Pecorelli. Ancora oggi non si conoscono i responsabili né il
movente, ma una delle piste porta dritta al cuore di Cosa
Nostra.
Il 17 luglio Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore
della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, banchie-
re vicino alla mafia siciliana, viene ucciso a Milano. Si sa-
prà poi che l’assassino è un sicario ingaggiato dallo stesso
Sindona.

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Il 21 luglio, quattro giorni dopo, Boris Giuliano, capo
della Squadra Mobile di Palermo, viene assassinato nel ca-
poluogo siciliano.
Sempre quell’anno, la mattina del 25 settembre, Cesare
Terranova si mette alla guida di una Fiat 131 per le strade
di Palermo. Al suo fianco ha l’unico uomo della sua scorta,
il maresciallo Lenin Mancuso. A un tratto la macchina tro-
va un’interruzione inattesa lungo il tragitto. È un agguato
mafioso. Entrambi vengono uccisi: Terranova muore sul
colpo, Mancuso dopo ore di agonia.

«Crediamo che il modo migliore di onorare Cesare Ter-


ranova e il suo fedele collaboratore sia quello di portare
in una delle prossime sedute all’esame del Parlamento le
conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta
sulla mafia». La voce, a Montecitorio, è quella di Pio La
Torre. È il giorno che segue l’omicidio e lui guarda sempre
e ancora, ancora di più, dritto verso l’obiettivo. Non c’è
emotività, il suo intervento è lucido e analitico. «Sono in
possesso anche di suggerimenti che lo stesso Cesare Ter-
ranova negli ultimi mesi mi aveva fatto avere sul modo
su cui tradurre in precise proposte di legge le conclusioni
della commissione antimafia» rilancia.
Le sconfitte e le delusioni che hanno portato Terranova
a lasciare il Parlamento sono le stesse che ha subito papà.
Lui, sempre più solo, continua a combattere. Lo faceva per
tutti i morti ammazzati, ma anche per tutti i siciliani e gli
italiani che sarebbero venuti. Contro c’erano diffidenza e
rassegnazione, perché tutti sanno che in Italia – e soprat-
tutto in Sicilia – non cambia mai nulla. Sembra di sentire
proprio il gelo di questa considerazione quando si riguar-
da l’intervista che, poche settimane dopo l’omicidio, ven-
ne concessa dalla moglie del magistrato assassinato, Gio-

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vanna Giaconia: «Lei ritiene» le chiede il giornalista di Rai
Due «che il sacrificio di Cesare possa servire a qualcosa,
che dica qualcosa, che suggerisca qualcosa agli altri, un’a-
zione concreta?» La signora, che per il resto dell’intervista
ha tenuto gli occhi fissi sull’intervistatore, ora sospira e per
un attimo guarda in alto, come a cercare le parole. «Io lo
spero fermamente» risponde dopo una pausa «ma non lo
so. In questo momento non lo so».
Il 17 ottobre Piersanti Mattarella volò a Roma per un
colloquio privato con il ministro dell’Interno Virginio Ro-
gnoni. La situazione in Sicilia non era più sopportabile. Gli
confidò – ma lo si saprà solo anni dopo – i suoi timori per
il clima in cui si trovava a lavorare e le preoccupazioni per
il ritorno in auge dell’ex sindaco Ciancimino all’interno
della Dc. Rognoni dirà che si era trattato di un colloquio
calmo e sereno, e di non aver avuto l’impressione di essere
davanti a una drammatica richiesta d’aiuto. Non aveva ca-
pito, insomma, quale fosse la posta in gioco.

Il 6 gennaio 1980 ero a casa di mamma e papà. Era un


giorno festivo e lo passammo insieme, anche se i ricordi
non sono molto nitidi. Quello che è certo è che poco dopo
l’ora di pranzo arrivò la notizia. Papà si fece cupo. Per una
volta sembrava faticare nell’elaborazione di quanto era
successo: il presidente della Regione Siciliana ammazzato
sotto casa, appena salito in macchina. Ucciso mentre era
insieme alla famiglia e stava andando a messa.
– Hanno colpito in alto, – mi ha detto, e in quella frase
e nel tono con cui veniva pronunciata filtrava come l’im-
pressione che avessero colpito qualcuno di molto vicino
a lui. Quell’omicidio era doppiamente grave: perché si
colpiva la più importante carica istituzionale dell’isola e
perché si annientava così un uomo del dialogo. Ma lo era

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anche perché Mattarella era una sua speranza, e adesso
non c’era più.

Nel dibattito parlamentare sull’omicidio Mattarella,


papà volle per sé il ruolo di oratore ufficiale del Pci. Lo vol-
le per dire che la mafia aveva fatto un balzo in avanti, che
era in atto un attacco eversivo ai danni dello Stato, che l’as-
sassinio di Mattarella era il passo più grave dopo quello
che aveva portato il cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio
di un’auto in via Caetani, che c’era un legame tra mafia e
terrorismo politico ed era del tutto evidente se si conside-
rava la mafia per quello che era, cioè un fenomeno di classi
dirigenti. Questa definizione l’aveva scritta quattro anni
prima in una relazione che pochi, in quel Parlamento, sem-
bravano essersi presi la briga di leggere. Era stato invece lo
stesso Piersanti Mattarella a dire in un’intervista rilasciata
qualche giorno prima della morte: «La mafia esiste perché
nella società a diversi livelli, nella classe dirigente non solo
politica, ma pure economica e finanziaria, si affermano
comportamenti individuali e collettivi che favoriscono la
mafia». E aveva continuato: «Bisogna intervenire per eli-
minare quanto a livello pubblico ha fatto e fa proliferare la
mafia». Questo era l’uomo che la Sicilia aveva perso.
Leonardo Sciascia, all’indomani dell’omicidio, scrisse
sulle pagine del Corriere della Sera: «Non mi pare di trovar-
mi di fronte a un delitto di mafia, anche se nessun dato di
fatto possa in questo momento appoggiare la mia impres-
sione. Non sono, d’altra parte, d’accordo con coloro che lo
vedono come un delitto terroristico a partecipazione ma-
fiosa. O è mafia, o è terrorismo. O mafia camuffata da terro-
rismo o terrorismo che, inevitabilmente o confortevolmen-
te, ci si ostina a vedere come mafia». Gli rispose a distanza
La Torre, intervistato da Lucio Caracciolo per la Repubblica

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il giorno successivo: «Sciascia dovrebbe sapere che molte
volte la mafia è stata utilizzata per operazioni squisita-
mente politiche». E poi: «In Sicilia si colpisce sempre nella
stessa direzione, perché da un lato si colpiscono gli onesti
servitori dello Stato, dall’altro qualificati dirigenti demo-
cristiani orientati verso il governo di unità autonomistica».
Papà non lo disse, ma di certo ricordava i sindacalisti socia-
listi uccisi negli anni Quaranta e Cinquanta per far sì che si
rompesse il patto con il Pci. Ricordava Placido Rizzotto e
tutti gli altri. Il parallelo era impressionante.
– Forse a Roma, – commenta Caracciolo – non si è anco-
ra realizzata la gravità e l’importanza nazionale di questa
offensiva mafiosa e terroristica.
– Purtroppo è così, – gli risponde nostro padre, che in
pochi mesi ha perso due punti di riferimento importanti,
due interlocutori nella sua battaglia, e ora sente di essere
solo.
A Roma, certo, faticavano a capire. I risultati della com-
missione antimafia, su cui aveva investito tante energie
non sembravano interessare il Parlamento. Solo il 26 feb-
braio 1980 iniziò la discussione sulle conclusioni della
commissione. Erano state consegnate quattro anni prima.
In quattro anni la mafia stava cambiando pelle. In quat-
tro anni aveva ucciso centinaia di volte. Lo Stato, invece,
a eccezione di pochi e limitati provvedimenti, non aveva
fatto che guardare e, anche con l’apertura della discussio-
ne in aula, il piglio non era quello che avrebbe auspicato
Pio. «È un fatto davvero gravissimo che il governo abbia
chiesto un nuovo rinvio per la sua risposta perché non era
pronto ad assumersi precisi impegni». Papà, a quel punto,
lavorava a Roma da un decennio, e da un decennio cerca-
va di spiegare alle istituzioni la sua idea della mafia. Lo
Stato, invece, continuava nella solita manfrina: era lo Stato

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che «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna
con gran dignità», come lo canterà Fabrizio De André anni
dopo. Ma per papà la dignità, la sua e quella dello Stato,
erano ben altra cosa.
Il 31 marzo 1980 presentò la proposta di legge a cui ave-
va lavorato con Terranova e, dopo il suo assassinio, con
due giovani magistrati palermitani: Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino. Era intitolata: «Norme di prevenzione e
repressione della mafia e costituzione di una commissio-
ne parlamentare permanente di vigilanza e di controllo».
Aveva convinto a firmarla venti colleghi della Camera, tra
i quali Achille Occhetto e Luciano Violante, futuro presi-
dente della Camera e della commissione parlamentare an-
timafia. Inutile cercare nei giornali dell’epoca una traccia
di dibattito sulla proposta. La situazione era quella del
classico muro di gomma contro cui nostro padre continua-
va a sbattere.
Papà, in quel periodo, faceva fatica. Di muri ne aveva
abbattuti tanti, ma questo davvero pareva sfiancarlo. Da
un lato doveva combattere contro le collusioni e le conni-
venze di quella parte di classe dirigente che con la mafia
faceva affari o che la considerava come un valido interlo-
cutore per mantenere saldo il controllo dell’isola; dall’al-
tro, perfino quando si voltava dalla parte dei suoi compa-
gni, anche quando non lo contraddicevano apertamente,
sentiva nelle loro parole e nei loro atteggiamenti come un
sottofondo, un mantra recitato con una voce sottile, quasi
impercettibile. Servivano antenne finissime per coglierlo,
eppure per papà era come un boato. Era una frase ripetuta
centinaia di volte ogni giorno. «Tanto non cambia nulla».
L’aveva sentita per tutta la vita. «Tanto non cambia nulla».
E nonostante quanto avesse fatto nella sua vita per smen-
tirla, a volte, nello sconforto di una battaglia che non riesce

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a essere vinta, forse si è anche lasciato cullare da quella
voce. «Tanto non cambia nulla». Succede a tutti, successe
anche a Pio. «Tanto non cambia nulla». Ma fermarsi lì, a
quell’idea così consolatoria, significava gettare le ragioni
di una vita, spesa per dire che invece tutto può cambia-
re. Questo forse era nostro padre, l’uomo del «tutto può
cambiare», quello che spera mentre tutti disperano. «Tutto
può cambiare». E se sembra impossibile, è perché bisogna
ancora capire come fare.

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Per il Partito Comunista il 1979 fu l’anno del XV con-


gresso, con l’approvazione di un nuovo statuto che lo im-
pegnava «per l’estensione e il rafforzamento delle libertà
sancite dalla Costituzione repubblicana e antifascista, per
trasformare l’Italia in una società socialista fondata sulla
democrazia politica, per affermare gli ideali della pace e
del socialismo in Europa e nel mondo». Alle politiche del
giugno successivo, però, il partito perse circa il 4% dei con-
sensi, a vantaggio soprattutto dei radicali. Nella legislatura
che prese l’avvio con quella tornata elettorale Pio La Torre,
rieletto, sedette in una sola commissione, apparentemente
lontana dai suoi interessi: la commissione Difesa.
A luglio il Comitato centrale elesse la Direzione nazio-
nale del partito. Si era atteso di conoscere il risultato delle
elezioni e, essendo questo negativo, il percorso di forma-
zione della Direzione era stato quanto mai accidentato. Il
segretario nazionale, Enrico Berlinguer, che aveva portato
il partito sulla strada del compromesso storico, ora che se
ne intravvedevano esiti fallimentari, era da molti messo
in discussione. Fu in questo contesto che Berlinguer volle
papà nella sua segreteria, proprio con l’importante inca-
rico di coordinatore dell’ufficio di segreteria. Fu l’apice
della sua ascesa nel partito, un riconoscimento delle sue

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capacità e del suo ruolo che era stato apprezzato non solo
sui temi del contrasto alla mafia, ma anche su quelli del-
le politiche agricole, delle politiche per il Mezzogiorno e,
sul fronte interno, dell’organizzazione del partito. Eppure
restò il fatto che dovette abbandonare la Direzione. Si è
discusso molto su questo. Si è detto che quell’esclusione
era legata a un particolare passaggio. Pio La Torre si era
inimicato tutta la Direzione quando, da solo, si era oppo-
sto al finanziamento da parte dello Ior tramite il Banco
Ambrosiano della testata di partito Paese Sera. Era un fi-
nanziamento di circa tre miliardi. Lo aveva fatto perché
temeva che questo ponesse le basi per un pesante condi-
zionamento della testata e del partito. Forse non si deve
estremizzare il conflitto che si accese in quel momento. In
realtà il Pci e la Democrazia Cristiana erano grandi partiti
che riuscivano a includere diversi modi di vedere le cose,
diverse analisi politiche. È normale che su alcuni temi ci si
trovasse, tra dirigenti, su fronti diversi pur facendo parte
della stessa compagine, papà lo sapeva benissimo. Come
sapeva benissimo che quella sua opposizione poteva co-
stargli il posto in Direzione.
Papà amava Roma, amava lavorare a Botteghe Oscure,
era fiero del suo incarico in segreteria come di quelli pre-
cedenti, ma non mise mai un freno alla sua attività politica
minuta, capillare e popolare, come l’aveva sempre conce-
pita. Anzi, il ritmo si faceva sempre più serrato. Viaggia-
va tantissimo, in tutta Italia. Era sempre disponibile per
assemblee nelle sezioni e nelle federazioni, e poi c’erano i
cortei, i comizi, i dibattiti. Per la televisione era soprattutto
il volto dell’antimafia dei comunisti, ma ciò che impegna-
va di più il suo tempo, e che lo legava più al territorio, era-
no le battaglie per i lavoratori del settore agricolo. Erano
anni in cui il suo sostegno cresceva, e allo stesso tempo i

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rapporti con il resto del gruppo dirigente comunista si fa-
cevano più difficili. Per molti versi papà fu un corpo estra-
neo tra i dirigenti del suo stesso partito.

In quegli anni mi laureai in Storia e, dopo aver accarez-


zato per qualche tempo il sogno di una carriera universita-
ria, decisi per un cambio radicale. Insieme ad alcuni amici
iniziai a collaborare RadioBlu, una radio per la quale ave-
vo lavorato anche durante gli studi. Di lì a poco sarebbe
diventata la radio del Pci romano. Papà, ancora una volta,
non era d’accordo. Lavorare per il sistema di informazione
privato non gli pareva importante quanto sforzarsi affin-
ché il sistema pubblico fosse all’altezza del suo compito. Il
partito doveva impegnarsi in quello, non acquisire radio
private, così diceva, ma nonostante questa opposizione
non mi fece mai mancare il suo supporto. Di RadioBlu fui
direttore dal 1979 al 1982.

All’inizio degli anni Ottanta si cominciarono a vedere


i primi segnali del cosiddetto “riflusso”: dopo un decen-
nio, quello degli anni Settanta, in cui tutto sembrava dover
essere pubblico, era il momento del ritorno alla sfera del
privato, ai propri interessi individuali. In un partito che
doveva rappresentare le masse, ci si pose il problema di
come tornare a costruire e organizzare una massa critica.
Papà, dal canto suo, era convinto che un popolo, il suo po-
polo, ci fosse ancora. Che se non si riusciva a mobilitarlo,
a dargli una prospettiva comune, a portarlo nelle piazze, il
problema stava negli errori nei dirigenti.
– Bisogna passare dai salotti alla piazza, – questo lo ri-
peteva spesso, ed era una critica non troppo velata a molti
dei suoi colleghi romani.
Lui non è mai stato un uomo da salotto, e non è un caso

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che Pio fosse più amato nelle periferie dove aveva speso
tutto il suo tempo, per il semplice motivo che le amava
profondamente. Il lavoro nelle sezioni era quello che gli
piaceva di più. Poterlo fare come dirigente della segreteria
nazionale fu forse la sua soddisfazione più grande.
Domenica 23 novembre 1980 papà corse a Botteghe
Oscure. Era l’unico dirigente, quel giorno, che poteva pre-
sidiare la sede del Pci. Era sera, quasi l’ora di cena. Lui
era al telefono con un compagno della Basilicata ma, a un
tratto, la comunicazione si interruppe. Provò a richiamare;
nulla da fare. Si venne a sapere, da lì a pochi minuti, che
la terra aveva tremato tra le province di Avellino, Salerno
e Potenza. Un terremoto che veniva descritto come molto
più spaventoso di quello del Belice, dodici anni prima.
L’idea oggi diffusa rispetto a cosa siano i partiti – poco
più che comitati elettorali, se non comitati d’affari – rende
difficile capire cosa successe dopo. Pio si attaccò al tele-
fono. Non poteva telefonare verso sud, così iniziò a diri-
gere le sue chiamate al nord, soprattutto alle federazioni
dell’Emilia e della Toscana. Rintracciò i segretari regionali
e mobilitò tutte le organizzazioni di partito delle “regioni
rosse” per portare aiuto alla Campania e alla Basilicata. La-
vorò per coordinare gli aiuti da parte delle amministrazio-
ni comuniste. Nel contempo cercò di comprendere quale
fosse l’entità del disastro. Pio quella notte trasformò Botte-
ghe Oscure in una vera unità di crisi.
«Girammo tutta la notte, cercando di tanto in tanto dalle
cabine pubbliche di telefonare a Roma alle Botteghe Oscu-
re. Senza successo perché le linee erano sovraccariche».
Questo il ricordo di Piero Di Siena, all’epoca segretario
provinciale Pci di Potenza. «La mattina, dopo esserci as-
sicurati che avremmo aperto la sede del partito come ogni
giorno, verso le 7.30, riesco a mettermi in contatto con

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Roma. Mi passano la segreteria del partito e dall’altro capo
sono investito da una sequela d’improperi da parte di Pio
La Torre che aveva telefonato in Federazione per tutta la
notte e, ovviamente, non aveva trovato nessuno. Mi trat-
tò quasi come se avessi disertato. Pio aveva un carattere
irruento e, naturalmente, era in preda all’agitazione per
un evento di cui non si conosceva ancora l’ampiezza e la
portata».
La prima colonna di aiuti umanitari arrivò in Basilica-
ta alle 4.30 del giorno successivo alla scossa. Erano quelli
del Comune di Bologna, all’epoca amministrato da Renato
Zangheri, sindaco pci. Sul posto non trovarono nessuno a
ricevere il carico. La situazione rimase tale per giorni, lun-
ghi e pieni di morte, disorganizzazione, polemiche e paro-
le furenti del presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Alla disorganizzazione dello Stato rispose, nella misura
che gli fu possibile, l’organizzazione del Partito Comuni-
sta, al centro della quale stava un metronomo implacabile
che si chiamava La Torre. E non si limitò ai primi aiuti, ma
l’impegno continuò per intere settimane. Si fermarono in
Irpina centinaia di giovani, una generazione di comunisti
che si è formata tra i calcinacci e il fango, mobilitata a forza
di telefonate di nostro padre alle quali non era permesso
rispondere «No, grazie». Una generazione che non poté
certo evitare che il computo delle vittime del terremoto – e
dei ritardi nei soccorsi – fosse tanto grave: 280.000 sfollati,
oltre ottomila feriti e quasi tremila morti.
Mobilitare era ancora un verbo che gli piaceva molto. A
poco più di cinquant’anni, con una lunga e corposa espe-
rienza alle spalle, Pio era già considerato un uomo della
vecchia guardia. Per il Sud i suoi piani non erano mai cam-
biati: «Occorre suscitare una grande mobilitazione unitaria
di intere popolazioni attorno a un programma di profondo

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rinnovamento delle strutture economiche, sociali e politi-
che della Sicilia, della Calabria e di tutto il Mezzogiorno».
“Unitaria”, significava che nessuno era escluso, che anche
la Democrazia Cristiana avrebbe dovuto partecipare. An-
che su questo le fratture furono profonde. Pio restava sulla
linea di Berlinguer quando perfino Berlinguer cambiava
linea. Proprio dopo gli eventi dell’Irpinia, e dopo la di-
mostrazione di incapacità da parte dello Stato, Berlinguer
aveva dichiarato: «Diciamo chiaramente che la Dc, avendo
dimostrato di non essere in grado di guidare un’azione di
risanamento morale e di rinnovamento della società e del-
lo Stato, non è in grado di dirigere il governo del Paese».
Pio si trovò così in rotta – dal punto di vista politico – an-
che rispetto alle scelte del segretario. Ma, ancora una vol-
ta, la sua non era una strategia che potesse mettere in di-
scussione fino a quel punto. Era il centro del suo impegno,
quello di cui aveva scritto nell’ultima pagina della sua tesi
di laurea, ed erano passati vent’anni.

Nel 1981, la Sicilia andò alle elezioni regionali restituen-


do, per il Pci, un risultato negativo. Il segretario regionale
Gianni Parisi, che pure era stato eletto in assemblea re-
gionale, chiese di essere sostituito nel suo incarico. Si aprì
un vuoto, a Palermo, dovuto al combinato disposto tra le
dimissioni di un segretario e la conflittualità della classe
dirigente, isolana e nazionale.
Pio, a quel punto, era un dirigente di primo piano. Aveva
già assunto il ruolo di segretario regionale, e la sua espe-
rienza si era conclusa in modo molto simile a quanto stava
succedendo ora a Parisi: elezioni perse e dimissioni. Pio
aveva visto la mafia crescere e uccidere uomini importanti
dello Stato. Aveva lavorato contro Cosa Nostra, a Roma,
nella commissione e con la presentazione della sua legge,

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e in Parlamento con tanti interventi, ma aveva combattuto
più contro lo Stato che contro la mafia, cioè aveva dovuto
scontrarsi con troppe resistenze che gli avevano impedito
di incidere davvero nella carne viva delle organizzazioni
criminali. E, intanto, la situazione sull’isola precipitava.
– Se continuo così non combino niente, – diceva a mam-
ma. – Devo andare in Sicilia per dimostrare che è possibile
cambiare.
Era deciso più che mai. Era la battaglia contro il gatto-
pardismo, la solita. Papà era forza che voleva scontrarsi
contro un’altra forza, quella del potere mafioso, e da trop-
po non riusciva neppure a guardare in faccia il suo nemi-
co. Era come se fosse in acqua da tutta una vita, nuotando
verso un traguardo. Nuotava a modo suo, e magari faceva
fin troppo fatica, ma continuava senza sosta nella convin-
zione di poter arrivare. Ma, a un tratto, l’acqua calda del
Mediterraneo aveva iniziato a cambiare: prima si era raf-
freddata, era diventata buia e pesante, come quella di un
lago alpino, e poi piano piano, quasi senza che se ne accor-
gesse, si era fatta vischiosa e dolciastra, e si era trovato in
un mare di melassa. Ecco Roma, dolce ma immobile, Roma
che non ti dice mai di no, ma non verrà mai via con te.
Ci disse che voleva tornare a Palermo. Noi non erava-
mo d’accordo. Mamma era del tutto contraria. Ci chiese
di parlargli ma Franco le rispose che era tempo perso.
Filippo tentò senza crederci davvero. Ci sembrava un
passo di gambero e, per giunta, un passo pericoloso. Ab-
biamo però dovuto piegarci alla sua determinazione.
Lo stesso dovettero fare gli amici Paolo Bufalini ed Ema-
nuele Macaluso, preoccupati per la sua incolumità ma tra-
volti dalla sua convinzione.
– È un atto forte, in Sicilia bisogna rinnovare completa-
mente il partito.

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Pio La Torre e la moglie Giuseppina Zacco a Lampedusa (aprile 1981).

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Più complicato fu convincere il Pci, che era spaccato:
metà voleva Pio, metà voleva Luigi Colajanni, figlio di
Pompeo, il partigiano “Nicola Barbato”. A sostenere il pro-
getto di papà c’era Napolitano, contro di lui si schierò Pie-
tro Ingrao. «Devo dire» ricordò poi Ingrao «che i dissen-
si vertevano essenzialmente sulla politica da seguire nei
riguardi della Democrazia Cristiana. Da lungo tempo io
mi sforzavo di sostenere nel mio partito una politica che
mirasse a determinare una crisi interna e una frattura della
Democrazia Cristiana. Il compagno Pio La Torre replica-
va a queste mie posizioni sostenendo che esse potevano
portare a un’azione troppo chiusa e, quindi, politicamente
infeconda». Era un dissidio politico, insomma, di quelli a
cui papà era certo abituato dopo più di trent’anni di vita
di partito.
Alla fine la proposta di nostro padre passò, ma non furo-
no mai rose e fiori. La sera prima della sua partenza per la
Sicilia, si tenne una riunione di Direzione a Botteghe Oscu-
re: fu uno scontro a tutto campo tra papà e Ingrao durante
il quale Pio se ne uscì con una frase stizzita.
– Caro Pietro, se non sei d’accordo, perché in Sicilia non
ci vai tu?
Era una battuta, niente di più. Pio in quel momento era
convinto più che mai che il posto di Ingrao fosse a Roma
proprio quanto il suo era a Palermo.

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– L’importante è dire tre cose, semplici e concrete, – spie-


gava spesso ai compagni più giovani – e su quelle batte-
re con costanza. – Così, per prenderlo bonariamente per i
fondelli, lo chiamavano “tre cose”.
Quando tornò in Sicilia, lo aspettavano in effetti tre batta-
glie. La prima era quella tutta interna al partito, una battaglia
di rinnovamento e di rottura di vecchi equilibri, ma anche in-
sieme la ricerca di un nuovo modo di stare insieme. Il 29 set-
tembre, ad Agrigento, venne eletto segretario dal Comitato
regionale. La sua preoccupazione, sul fronte interno, fu quel-
la di accorciare le distanze tra iscritti e dirigenti e di evitare di
diventare un partito di opinione rinunciando alla prospettiva
del partito di massa.
– In una parte dei nostri quadri, – diceva – è affiorata la
tentazione di “fare politica” con iniziative soltanto di ver-
tice; molti giovani sono entrati nel partito e poi sono andati
via delusi.
Si inventò le “zone”, una specie di corpo intermedio tra
la Federazione e le sezioni, proprio mentre la maggior par-
te dei segretari di Federazione venivano sollevati dal loro
incarico e sostituiti. Voleva creare un nuovo inizio, dare ai
compagni più giovani un partito simile a quello di cui lui
si era innamorato quasi quarant’anni prima.

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Molti, nel Pci siciliano, non lo volevano. Papà dovette
confrontarsi anche con questa realtà: da una parte il suo
desiderio di risollevare il partito ad ogni costo, e di farlo a
modo suo, dall’altra la classe dirigente che avrebbe prefe-
rito tenerlo lontano dagli occhi e dal cuore delle federazio-
ni. Nel congresso regionale del gennaio ’82, con elezioni
a scrutinio segreto, i suoi oppositori decisero di dargli un
segnale: i compagni più vicini a Pio vennero esclusi dal
Comitato regionale e, come se non bastasse, alla fine non
risultò primo degli eletti, come ci si sarebbe dovuti auspi-
care per dare un pieno mandato al nuovo segretario. Molti
voti furono fatti confluire su Pancrazio De Pasquale, che lo
superò di una manciata di preferenze. Poi, con l’accordo
di De Pasquale, si decise di rivedere il risultato a favore di
Pio, ma quella fu di certo un segnale importante e negati-
vo. Lui, che voleva cambiare tutto, agli occhi di molti com-
pagni era un conservatore, un romantico innamorato dei
vecchi tempi, quelli delle lotte contadine e delle carovane
per l’occupazione della terra, un uomo di destra, pronto
a scendere a patti con la Democrazia Cristiana dopo che
quella strategia – all’epoca del compromesso storico e di
Mattarella – aveva fatto perdere consensi e iscritti, uno fis-
sato con Cosa Nostra che vedeva mafia in ogni cantuccio.
E poi, per molti dirigenti intermedi che avrebbero dovuto
avere a che fare con lui, Pio era una seccatura: instancabile,
con una volontà di ferro, era capace di telefonarti a qual-
siasi ora del giorno e della notte, chiedeva continuamente
conto delle tue scelte, dei risultati che quest’ultime ave-
vano generato, di quelle che invece erano state le critici-
tà… Sentiamo parlare di lui da trentacinque anni e, spesso,
come per tutte le persone che hanno subito la sua sorte, lo
si fa in tono di elogio. Nessuno ha però mai detto che no-
stro padre fosse un uomo accondiscendente. Si dice spesso

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che era un uomo grintoso. All’epoca era più probabile si
usassero altri termini.
Per di più, Pio aveva il dubbio che nel partito alcuni
compagni avessero pericolose connivenze con la mafia:
preparò una relazione, ma un’indagine interna prosciolse
tutti i sospettati. Forse si era sbagliato, di certo non si è
fermato. Perché testardo, questo lo era di certo, e non solo
sulle questioni legate alla trasparenza e all’organizzazione
interna del partito.
La seconda battaglia era proprio contro la mafia. Qui la
sua lotta si faceva complessa e sfaccettata, piena di inizia-
tive sulle quali insisteva con la solita irruenza.
Voleva, per esempio, che la Regione Siciliana cambiasse
il sistema delle leggi regionali sugli appalti pubblici e le
imprese, la grande mangiatoia che era stata fortemente av-
versata anche da Piersanti Mattarella. L’ex presidente della
Regione, che aveva fatto approvare una nuova normativa
sugli appalti, dopo un’inchiesta che aveva messo in luce
una serie di irregolarità, era arrivato a far dimettere il suo
assessore ai Lavori pubblici. Ma l’impegno di Mattarella
era affogato nel sangue in via della Libertà, e gli appalti
continuavano ad essere in parte gestiti dalla mafia. Così
papà imboccò ancora quella strada, portandosi dietro tutte
le armi a disposizione, organizzando convegni, elaboran-
do una nuova proposta legislativa e arrivando perfino a
scrivere al presidente del consiglio Giovanni Spadolini per
chiedergli di bloccare i finanziamenti pubblici alla Regione
Siciliana.
La mafia, Pio lo capì prima e meglio di tanti, non solo
aveva rialzato la testa, ma stava diventando qualcosa di
nuovo e diverso. E non era soltanto un problema siciliano.
Gli omicidi non si erano fermati a Mattarella: Palermo era
il centro di una vera e propria guerra. Guerra tra cosche e

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guerra contro lo Stato. Il 3 maggio 1980 era stato assassi-
nato a Monreale il carabiniere Emanuele Basile, che ave-
va indagato sull’omicidio di Boris Giuliano. Nell’agosto
del 1980, a pochi metri dalla sua casa di Palermo, tre col-
pi di pistola avevano ucciso il magistrato Gaetano Costa.
Nell’81, poi, aveva preso corpo quella che verrà poi battez-
zata la “seconda guerra di mafia”, una mattanza che vide i
Corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano eliminare
le cosche concorrenti.
La mafia mutava pelle e diventava sempre più violenta.
E non bastava la Sicilia, e neppure l’Italia intera. Pio intrav-
vedeva quei collegamenti pericolosi tra Palermo e l’Ame-
rica, quelli dei traffici di droga, ma anche quelli finanziari
di Michele Sindona, tessera P2 numero 0501, l’uomo che
secondo Giulio Andreotti era «il salvatore della Lira» e che
invece era il banchiere della mafia e il mandante dell’o-
micidio di Ambrosoli. Pio conosceva il contesto mafioso,
conosceva la Sicilia e spesso sapeva intuire ciò che sareb-
be venuto alla luce anni o decenni dopo. Entrava a gamba
tesa, per irruenza e desiderio di giustizia, e successe anche
che alcune delle sue supposizioni non fossero poi confer-
mate. Ma molte, troppe volte, ebbe ragione.
Papà giocava la stessa partita, quella contro la mafia,
su due tavoli diversi, lavorandoci ogni settimana per tre
giorni a Roma e per quattro a Palermo. Il 3 marzo 1982
gli fu concesso un incontro con Spadolini e con il mini-
stro dell’Interno Virginio Rognoni. Non andò solo. Con lui
c’erano Ugo Pecchioli, il responsabile dei «problemi dello
Stato» del Pci, e la vedova del procuratore Gaetano Costa,
Rita Bartoli. Chiese al governo di velocizzare la discussio-
ne in Parlamento della sua legge e di inviare in Sicilia il ge-
nerale Carlo Alberto dalla Chiesa con funzioni di prefetto
ma con poteri speciali. Dalla Chiesa aveva efficacemente

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combattuto il terrorismo delle Brigate Rosse, ma aveva an-
che lavorato in Sicilia, molto tempo prima. Papà lo cono-
sceva da trent’anni. Nel 1949, a Corleone, quando gli era
stato affidato il compito di sostituire alla Camera del La-
voro Placido Rizzotto, dalla Chiesa lavorava per stroncare
il banditismo e aveva indagato proprio sulla scomparsa
del “Vento del nord”. Pio riuscì a convincere Spadolini e
Rognoni che, tre anni prima, si era trovato nel suo ufficio
con Piersanti Mattarella. Se quella volta Rognoni non era
riuscito a intuire la gravità della situazione, in questa occa-
sione ascoltò le parole che arrivavano da Palermo in modo
diverso. Nel giro di un mese il generale dalla Chiesa venne
nominato prefetto; nel giro di un mese la legge presentata
da Pio La Torre iniziò l’iter parlamentare. Erano i primi
passi, ma sembrava davvero si stesse realizzando l’irrea-
lizzabile.

Nel frattempo papà si era preso il porto d’armi e una pi-


stola Smith&Wesson. Gli avevano detto di difendersi così,
dato che non aveva nessuna scorta. A casa la cosa ci sem-
brò ridicola, tanto che ricordo che ne ridemmo: papà con
una pistola era come un normanno a cui mettono in mano
un telefono cellulare. La maneggiava dando prova di non
aver imparato nulla dagli amati film western e il massi-
mo che ci poteva fare, dicevamo, era spararsi per sbaglio
nei piedi. Lui lo sapeva, e infatti il più delle volte, quando
scendeva a Palermo, lasciava la pistola a Roma, chiusa in
un cassetto, dove almeno non faceva danno a nessuno.

La terza battaglia di quei mesi fu il capolavoro di Pio,


per molti inaspettato, di certo meraviglioso e variopinto.
Lo dicono le foto di una giornata di sole, tra abbracci e
sorrisi, di quando papà diede appuntamento al mondo

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Appunti autografi di Pio La Torre per l'intervento al IX Congresso dei
Comunisti siciliani (Palermo, gennaio 1982)

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nell’angolo più lontano della sua Sicilia, e il mondo si pre-
sentò all’Appello.
L’esecutivo di Spadolini, su sollecitazione statunitense,
aveva deciso di designare l’aeroporto militare Vincenzo
Magliocco di Comiso, in provincia di Ragusa, come base
militare Nato. Non era solo un cambio di gestione, un pas-
saggio dal controllo italiano a quello del patto atlantico,
ma significava che là si sarebbero dovuti accogliere ospiti
invadenti, cioè oltre cento missili nucleari puntati verso
l’Unione Sovietica.
– Quando nell’agosto scorso, in piene ferie, il governo
Spadolini fece la scelta di Comiso per l’istallazione della
base per i missili Cruise, nessuno si aspettava che in Si-
cilia si sarebbe sviluppato un movimento di opposizione
dell’ampiezza che via via si è andato disegnando.
Nella vicenda di Comiso papà vide un grande perico-
lo – «l’istallazione della base dei Cruise a Comiso trasfor-
merebbe la Sicilia in un avamposto di guerra» – ma anche
l’occasione di realizzare il sogno di una vita.
In una riunione di Direzione del gennaio ’80 Enrico Ber-
linguer aveva detto chiaramente: «Dobbiamo essere parte
attiva di quelle forze (paesi non allineati; forze progressi-
ste non solo dell’Europa occidentale; forze del mondo cat-
tolico, con alla testa papa Wojtyla) che si muovono per la
pace». Papà seguì con convinzione questa linea. Con un
lavoro politico attento ed efficace riuscì a guidare un movi-
mento di contrasto al progetto di Comiso. Con lui c’erano
le federazioni regionali di Cgil, Cisl e Uil, ma non solo.
«La mobilitazione» scriveva «ha interessato vaste aree cat-
toliche e laiche, suscitando contraddizioni e difficoltà nei
gruppi dirigenti dc e psi».
Nel Psi, in particolare, si creò una frattura. I socialisti
siciliani contestavano i missili, proprio mentre il ministro

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della Difesa era Lelio Lagorio, un socialista. Ma contro i
missili si schierarono anche le Acli, diverse associazioni
e i pacifisti, siciliani e non, perché il problema di Comiso
diventò un tema caro al movimento pacifista che in tutta
Europa stava chiedendo la smilitarizzazione.
Va detto anche che per lui la questione non si esauriva
con il pacifismo. Pio ricordava cosa era accaduto nel 1943,
con gli americani sull’isola e i loro favori ai mafiosi, e sa-
peva che la mafia italiana era in stretta connessione con
quella americana. Temeva che Comiso potesse diventare
un centro di potere per le armi e per la droga, che la mafia
potesse inserirsi negli appalti per la costruzione della base.
In un’area militarizzata la mafia ha più libertà, perché c’è
meno libertà per la politica. Papà, però, cavalcò soprattut-
to l’altra battaglia, quella per la pace, attorno alla quale
poté federare il maggior numero di siciliani. Lavorò contro
tutti i missili, e non solo contro quelli americani.
– La sospensione della base missilistica a Comiso è una
delle risposte urgenti che l’Italia può dare per creare le
condizioni più favorevoli alla ripresa e al successo del ne-
goziato, per salvare l’Europa dalla catastrofe della guerra
atomica.
Il 29 novembre del 1981 si svolse una manifestazione
per la pace a Palermo a cui parteciparono cinquantamila
persone. Il movimento cresceva in tutta Europa, ma il pro-
getto della base non accennava a fermarsi. A marzo venne
assegnato l’appalto per l’abbattimento delle vecchie strut-
ture dell’aeroporto militare. Per aprile papà decise di indi-
re una manifestazione proprio a Comiso. Il rischio di falli-
re era evidente: organizzare un grande raduno all’estremo
sud della Sicilia, in un paese difficilmente raggiungibile, in
un periodo storico in cui – come si diceva – non c’erano più
masse pronte a scendere in piazza.

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Papà stupì tutti. Alla manifestazione parteciparono ot-
tantamila persone, che portarono a Comiso una gran quan-
tità di striscioni e bandiere colorate. Dai comunisti ai cat-
tolici, senza soluzione di continuità: tutti a Comiso dietro
a Pio, che aveva cresciuto e organizzato un movimento di
massa, e cioè era tornato alla lotta politica così come l’ave-
va conosciuta e la voleva attuare. Uno schiaffo alla politica
dei salotti, con il ritorno di un popolo che si riscopre final-
mente unito. A Comiso si andava oltre le ideologie, compo-
nendo un’unità trasversale in cui la Sicilia d’un tratto tor-
nava a far sentire finalmente la sua voce. Una voce di pace.
Comiso fu la sua rivincita contro tanti avversari. A Co-
miso, il 4 aprile 1982, riabbracciò la Sicilia e i siciliani che
amava. Era felice. Lo si vede nelle foto, nei suoi occhi, nel
suo sorriso. Non amava le fotografie, ma di quel giorno ne
sono rimaste molte. Lo si vede posare sorridente sotto una
grande scritta «Sicilia senza missili per la pace». Lo si vede
con Giacomo Cagnes, allora sindaco di Comiso, e soprat-
tutto lo si vede con il suo autista e amico Rosario Di Salvo,
sempre sotto quella scritta. Faceva caldo, ed entrambi ve-
stivano con una camicia bianca: Rosario si era un po’ sbot-
tonato, papà si era arrotolato le maniche. Pio aveva nella
mano destra gli occhiali e con quelli indicava la macchina
fotografica. La mano sinistra era sulla spalla di Rosario,
che portava i capelli lunghi. Presto se li sarebbe tagliati.
Nella foto ha la bocca un po’ aperta, quando è stata scatta-
ta stava dicendo qualcosa, forse a papà.
Quella è l’unica foto di papà e Rosario. Ce ne sono delle
altre che molti hanno visto, ma in quelle fotografie loro due
non ci sono già più. Ci sono solo due cadaveri abbandonati
sui sedili anteriori di una Fiat 131 ferma in una strada di
Palermo. Furono scattate alla fine di quel mese di aprile, lo
stesso mese della grande manifestazione di Comiso.

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SENZA DI LUI

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Avevo trentun anni, mi ero laureato da tempo e stavo


lavorando in un ospedale di Göteborg per un periodo di
stage. Il 30 aprile del 1982, era un venerdì, presi un aereo
Alitalia per tornare al caldo della primavera romana e per
passare il weekend successivo con mia moglie e i miei figli.
Papà non lo avrei incontrato: il 1° maggio lo avrebbe pas-
sato a Comiso.

Mamma scese le scale della nostra casa in via Panisper-


na, quella mattina, e andò a piedi verso piazza Vittorio
Emanuele II, dove sotto i portici si teneva lo storico mer-
cato. Doveva acquistare le solite cose, ma aveva in testa
di comprare anche due uccellini. Li voleva regalare ai due
nipotini, figli di Filippo.

La sede di RadioBlu, di cui da qualche tempo ero diven-


tato direttore, era in via Palestro. Da casa nostra mi bastava
un quarto d’ora di passeggiata, così quella mattina anch’io
lasciai via Panisperna e a piedi mi diressi verso la stazione
Termini, la superai e in breve arrivai sotto l’appartamento
– era al terzo piano – in cui c’erano i nostri studi di regi-
strazione e diretta. Salii.

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L’aereo atterrò dopo un volo tranquillo di cui non ricor-
do nulla di particolare. Radunai le mie cose e mi preparai
a scendere. Non vedevo l’ora di essere a casa ma un assi-
stente di volo si avvicinò.
– Si sieda, prego. Le devo chiedere di aspettare un mo-
mento.
Tutti i passeggeri mi sfilarono davanti e se ne andarono
per la loro strada, mentre non capivo cosa stesse succeden-
do. Quando l’aereo era ormai vuoto, vidi salire a bordo
una faccia conosciuta. Era mio zio, il marito della sorella di
mia madre, comandante dell’Alitalia. Venne verso di me.

All’ingresso della sede di RadioBlu c’era un telefono a


gettoni. Serviva per ricevere le telefonate urgenti degli in-
viati o delle emittenti a noi collegate. Era un telefono di ser-
vizio, quello da chiamare in caso di emergenze perché era
più facile trovarlo libero. Appena entrai e chiusi la porta
dietro di me, il telefono iniziò a squillare. Ero l’unico nella
stanza e fui io a prendere la telefonata. La voce, dall’altro
capo, non salutò, non si presentò né mi chiese quale fosse
il mio nome. La voce si limitò a passarmi, con una frase, la
notizia del momento.

Appena mamma imboccò via Panisperna, tornando a


casa con le due piccole gabbiette, si accorse che tutti gli
abitanti della via erano scesi in strada. Vide le saracinesche
dei negozi, erano tutte abbassate nonostante fosse ormai
metà mattina. Continuò a mettere un passo dietro l’altro.
Piano piano, come se la luce del mattino avesse iniziato a
mutare impercettibilmente dopo ogni metro percorso, nel-
la sua mente si affacciò un’idea che deve aver cercato di
scacciare in ogni modo. Davanti al portone di casa trovò
molte persone, tanti compagni, sua sorella Agata e il mari-

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to Totino. A quel punto, come se non volesse sentirlo dire
da una voce diversa dalla sua, pronunciò lei quelle parole.

– Hanno ammazzato Pio.

Riagganciai il telefono, mi voltai, riaprii la porta, scesi le


scale e tornai a casa. Arrivai poco prima di mia madre. Il
ricordo di quel giorno e dei successivi è zeppo di amnesie,
buchi neri, vuoti di memoria. Negli anni sono emerse pic-
cole incongruenze, contraddizioni, perché la mente deve
aver cancellato o modificato la realtà in un tentativo dispe-
rato di rendere il dolore più sopportabile.

Scesi dall’aereo che veniva dalla Svezia e salii su un altro


aereo. Ero come in trance, non mi feci domande, mi lasciai
guidare da mio zio che mi portò a Palermo. Mi trovai pre-
sto nella sede della Federazione comunista, in corso Cala-
tafimi. Venni accolto da Luigi Colajanni, il vicesegretario.
La sera mi fermai a casa del fratello di nostra madre, zio
Angelo.

Non piansi. Forse perché ancora non potevo capire, forse


perché sentivo di dover proteggere mia madre, che ricordo
seduta sul divano di casa, muta, con lo sguardo pianta-
to nel vuoto. Anche lei cercava di trattenere le lacrime e i
singhiozzi, non poteva ma tentava, in mezzo a tanti amici,
tanti compagni. Vedevo il suo sforzo, non potevo crollare.
Di quel giorno ricordo e non ricordo, l’ho detto. Ricordo
Gianni, un mio caro amico. Ricordo Walter Veltroni, giova-
ne dirigente con il quale ero cresciuto nella Fgci e non solo.
Si fermò per qualche tempo a casa nostra. Ricordo, la sera,
gli amici di RadioBlu, ma so che tanti, che ci furono vici-
ni in quei momenti, sono stati dimenticati e spero non me

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ne vorranno. Poi, il giorno successivo, andammo a Paler-
mo. Nella sede del partito io e mamma trovammo Filippo.
Quando fummo insieme nell’ufficio di papà, quando quel
contorno di amici e compagni ci lasciò un piccolo spazio
privato, allora sentii che me lo potevo concedere. Lo ab-
bracciai forte e lasciai scorrere le lacrime.

La sera la camera ardente si tenne proprio in corso Ca-


latafimi, alla sede del partito. Nostra madre era accompa-
gnata da Paolo Bufalini, che le teneva la mano tanto stretta
da farle male. Davanti a noi c’erano le due bare, quella di
papà e quella di Rosario. I loro volti continuavano a dire
tutta la violenza che li aveva travolti. Non abbiamo mai
conosciuto Rosario. Aveva pochi anni più di noi. Aveva tre
bambine. Era morto con la testa di nostro padre poggiata
in grembo.

La mattina del 30 aprile 1982 Rosario Di Salvo accompa-


gnò le sue figlie a scuola, poi andò a casa di papà. Rosario
si occupava degli spostamenti dei dirigenti regionali del
partito e da qualche mese accompagnava Pio. Gli voleva
bene e lo ammirava, al punto che decise di stargli vicino
anche quando fu chiaro che quel lavoro era pericoloso,
anche quando dovette comprarsi una pistola pur sapendo
che non sarebbe servita a nulla. Ultimamente, però, comin-
ciava ad avere davvero paura. Voleva chiedere una nuova
collocazione, lo aveva anticipato a una collaboratrice di
papà, ma a lui non ne aveva ancora parlato.
Rosario, quella mattina, aveva la pistola. Suonò alla
porta dell’appartamento di papà per accompagnarlo alla
sede del partito. Con lui c’era un altro compagno, Roso-
lino Cottone, che doveva sbrigare delle commissioni per
Pio. Mentre papà si vestiva, Rosario preparò il caffè. Lo

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bevvero insieme, parlando per una mezz’ora, poi usciro-
no. Rosolino era il più anziano dei tre, aveva fatto il parti-
giano sull’Appennino tosco-emiliano e papà lo chiamava
“comandante”. Pio gli offrì un passaggio e il comandante,
per fortuna, rifiutò.
Papà salì in macchina insieme a Rosario e si diresse-
ro verso via Calatafimi. La Fiat 131 costeggiò la caserma
Andrea Sole e imboccò via Turba, una strada stretta, un
senso unico con le auto parcheggiate su entrambi i lati.
Percorrendo via Turba Rosario e papà avevano a sinistra il
lungo muro perimetrale della caserma, a destra una serie
di case fatiscenti, molte delle quali abbandonate. Quella
era la strada in cui i sicari volevano portare l’agguato. Li
stavano aspettando da quasi un’ora. Una moto superò la
Fiat 131 e le tagliò la strada, obbligando Rosario a frenare.
Contemporaneamente una Fiat Ritmo si affiancò sul lato
destro dell’auto, quello in cui era seduto papà. Rosario
capì e riuscì a estrarre la pistola: per questo venne ucciso
per primo. Fece in tempo ad esplodere cinque colpi, tut-
ti a vuoto. Poi il killer si avvicinò a papà, dal lato destro
dell’auto. Lui fece un gesto strano, istintivo, che servì solo
a non arrendersi alla morte neanche di fronte al proprio
assassino. Si buttò indietro con il corpo, verso Rosario,
come per liberare le gambe e tirare un calcio al killer, oltre
il finestrino. Urlò a chi lo stava ammazzando: «Vigliac-
chi». Venne colpito da un proiettile e morì sul colpo. La
testa poggiata sul grembo di Rosario, che lo ha difeso fino
all’ultimo respiro, e la gamba sinistra fuori dal finestrino.
Verso le nove e mezzo Rosolino Cottone, il comandante,
arrivò in Federazione.
– Ammazzarono La Torre e Di Salvo! – gli urlarono. Lui
corse sul luogo del delitto, poco distante. Era già arriva-
ta la polizia e tentarono di bloccarlo, ma quello urlava di

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rabbia e non poterono che lasciarlo arrivare alla macchina
ferma in via generale Turba, crivellata di colpi e zuppa di
sangue.
Noi, in quel momento, eravamo lontani, ma intorno a
quell’automobile si ritrovarono in tanti a raccogliere i cocci
dei propri sogni, a mescolare rabbie e paure. Tra gli altri,
attorno al cadavere di nostro padre, c’erano quel giorno
quattro uomini, immortalati tutti insieme in una fotogra-
fia. Erano Antonino Cassarà, Rocco Chinnici, Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino. Saranno tutti assassinati dalla
mafia da lì a pochi anni.

Il funerale di papà fu un funerale civile. Prima di essere


un funerale di Stato, fu un funerale di popolo per un uomo
del popolo. Si tenne in una piazza Politeama gremita di
folla. C’era una commozione palpabile che viaggiava lenta
tra i drappi rossi, le bandiere e gli striscioni. Noi stava-
mo sul palco. Sulla piazza campeggiava la scritta «Onore
ai compagni La Torre e Di Salvo». Erano presenti il presi-
dente della Repubblica Sandro Pertini e quello del consi-
glio Giovanni Spadolini. C’era la presidente della camera
Nilde Iotti. Dalla camera ardente erano passati il ministro
Rognoni e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, a cui Spa-
dolini aveva chiesto, nel giorno dell’assassinio di papà, di
anticipare il suo trasferimento a Palermo, previsto per il 6
maggio. C’era il segretario nazionale del Pci Enrico Berlin-
guer, che tenne una lunga orazione: «Perché hanno ucciso
La Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da
limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma
era un uomo che faceva sul serio. Era un uomo che, alla te-
sta di un grande partito di lavoratori e di popolo, di gente
schietta e pulita, era capace di suscitare grandi movimenti,
di stabilire ampie alleanze con forze e uomini sani, demo-

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Funerali di Pio La Torre e Rosario Di Salvo Archivio: Centro Pio La Torre

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cratici di altre tendenze; di prendere iniziative che colpi-
vano nel segno». E poi concluse: «Sull’esempio e nel nome
dei compagni caduti intensifichiamo l’impegno in una lot-
ta più ampia e decisa dei lavoratori e delle forze popolari
per il riscatto della Sicilia, per il rinnovamento dell’Italia,
per la pace». C’era il presidente della Regione Mario D’Ac-
quisto, un uomo vicinissimo a Salvo Lima. Non rifiutò di
pronunciare anche lui un’orazione, ma la folla, quando
prese la parola, esplose. «Lima, D’Acquisto, Ciancimino,
chi di voi è l’assassino?» Noi eravamo troppo sconvolti per
dire o pensare qualsiasi cosa, in quel momento.
Non considerammo mai la possibilità di chiedere di cele-
brare quel funerale in formula privata. Probabilmente non
ci pensò neppure nostra madre. Pio era un uomo pubblico,
un parlamentare, un dirigente politico da tutta una vita.
La sua bara, dopo quello che era accaduto, non poteva che
stare in una piazza, e intorno a lui non poteva che esserci
una folla. Quella era l’ultima volta che scendeva in piazza
con i suoi compagni: non glielo potevamo togliere.

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Nel primo periodo, dopo quei giorni, pensammo al pic-


colo svolgersi degli eventi e a tutto quello che avrebbe
potuto evitare l’omicidio. Se Rosario non avesse imboc-
cato quella strada, se Pio avesse preso parte a quella ri-
unione romana che si teneva proprio quel giorno, e a cui
Alessandro Natta gli aveva chiesto di partecipare… Ma
è probabile che non sarebbe cambiato nulla. Si sarebbero
guadagnati giorni, magari settimane, tempo prezioso, ma
i killer avrebbero trovato un’altra occasione. Uccidere no-
stro padre non era complicato. Non ci siamo mai chiesti,
invece, cosa sarebbe successo se Pio si fosse fatto gli affa-
ri suoi, se avesse lasciato perdere la politica o se si fosse
limitato a un ruolo meno battagliero. Quello non sareb-
be stato papà. Senza il partito, non sarebbe stato lui, non
avrebbe neanche incontrato mamma e noi non saremmo
mai esistiti. E poi, che senso ha porsi queste domande?
Che senso ha ragionare sui “se”, quando c’è molto altro
su cui riflettere?
Di papà restano ricordi belli, tristi o felici, di centinaia o
forse migliaia di persone che lo hanno conosciuto e che vo-
levano e vogliono continuare a ricordarlo. Si parla di Pio,
si scrive, e talvolta perfino si disegna, ma per quanto tutti
si siano sforzati e si sforzino, e tra loro ci siamo anche noi,

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papà da trentacinque anni non c’è più, e questo ha fatto la
differenza.
Tanti dovettero raccontare di lui – non lo scelsero – in sede
di processo, un terreno su cui qui non scaveremo a fondo,
perché qui vogliamo raccontare chi era papà, non dei suoi
assassini e di come scelsero di ucciderlo. Basti sapere che il
processo iniziò dieci anni dopo le mitragliate di via Turba e
l’iter si concluse in via definitiva venticinque anni dopo, nel
2007, con la condanna, come mandanti dell’omicidio, di Totò
Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e
Antonino Geraci. Insomma, fu condannata Cosa Nostra. Nel
frattempo via Turba non si chiamava più via Turba, ma via
Vincenzo Li Muli. Era stata dedicata a uno degli agenti della
scorta di Paolo Borsellino, ucciso in via D’Amelio nel 1992.
Durante i giorni del processo e negli anni successivi ab-
biamo letto e scoperto aspetti di nostro padre che non co-
noscevamo. Ci siamo accorti, per esempio, di quanto papà
ci proteggesse dalla paura. Scoprimmo che nel 1981, appe-
na eletto segretario, volle subito parlare con Adriana Lau-
dani, una compagna che non lo aveva votato. Le disse a
chiare lettere che scendeva in Sicilia aperto alla possibilità
di morire e che, con la convinzione di un uomo che mette
tutto a disposizione della sua battaglia, voleva averla nella
sua segreteria. Scoprimmo anche che nell’ultimo lunedì di
Pasqua, passato con mamma a casa di Emanuele Macaluso,
dopo pranzo Pio e il suo vecchio amico uscirono a passeg-
giare lungo il Tevere. Lì papà disse a Emanuele quello che
sentiva.
– Ora tocca a noi.
Vedeva un disegno negli assassinii politici di Palermo,
nell’attacco allo Stato, e quel disegno si concludeva con il
rosso del sangue di un comunista.
– Ora tocca a noi.

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Quella frase pronunciata dal segretario del Pci siciliano,
l’uomo che aveva scritto la relazione di minoranza e che
aveva firmato per primo la legge che introduceva il rea-
to di associazione mafiosa, era terribilmente simile a «ora
tocca a me».
Con noi non parlava in questo modo. Minimizzava i ri-
schi, diceva di conoscere la Sicilia, che sarebbe stato atten-
to e che non c’erano pericoli così imminenti. Da decenni
combatteva quella battaglia e sapeva come farlo. Era con-
vincente e un po’, forse, noi volevamo che lo fosse. Forse
cercava soprattutto di convincere se stesso. Quando era a
Roma, allora, spiegava che stavamo esagerando con le no-
stre preoccupazioni, ma poi scendeva in Sicilia e si giocava
la vita.
Scoprimmo che aveva ricevuto dei segnali, diversi e al-
larmanti. Gli erano arrivate delle voci, dei velati consigli.
Una sera fece tardi per via di una riunione di partito a Tra-
pani e la mattina successiva ebbe una brutta sorpresa. Pri-
ma delle otto, Rosario Di Salvo suonò il campanello di casa
sua per accompagnarlo alla sede del partito.
– Che sei venuto a fare? – gli aveva domandato. – Ti ave-
vo chiesto di venire dopo le nove e mezzo.
– Cosa? – gli rispose Rosario. – Hai chiamato casa mia
poco fa e hai detto a mia moglie di farmi venire prima.
Papà non aveva telefonato a nessuno, stava dormendo.
Furono altri a chiamare da Rosario contraffacendo la voce,
e lo “scherzo” si ripeté. A quel punto papà decise di cam-
biare casa. Non ci aveva parlato neanche di questo, fu la
mamma a dircelo molti anni dopo. I suoi ultimi mesi furo-
no un mare di paure in cui navigava in solitaria.
Non avrebbe potuto parlarci, invece, di qualcosa che
non sapeva, anche se non è del tutto escluso che lo avesse
messo in conto. Durante il processo scoprimmo che nostro

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padre era stato seguito dai servizi segreti italiani per qua-
si trent’anni. Prima, dal 1950 al 1976, i servizi seguirono
papà perché «tra gli agenti sospetti di spionaggio a favo-
re di una organizzazione politica asservita agli interessi
dell’Urss». L’organizzazione politica era, ovviamente, il
Pci. Dopo ventisei anni di verbali confusi, ventisei anni in
cui la vita della nostra famiglia era stata messa sotto la len-
te di ingrandimento dei servizi, nel 1976 si era deciso di
declassificare La Torre perché non si erano raccolti abba-
stanza elementi per sostenere che fosse una spia. Papà era
però tornato sotto la lente di ingrandimento quando ave-
va organizzato il movimento di opposizione al progetto di
Comiso. L’ultima nota dei servizi è del 22 aprile 1982, otto
giorni prima dell’assassinio.
A questo si collega anche una leggenda che non ha nes-
sun riscontro, quella che vedeva nostro padre, per lo meno
negli anni Sessanta, come agente di Mosca. Posto che non
ne avrebbe di certo parlato con noi, possiamo ricordare che
Pio, in quegli anni, intratteneva alcuni rapporti a livello
internazionale, ma che soprattutto dopo i viaggi in Urss
e le vacanze di cui abbiamo detto, aveva iniziato a notare
aspetti della vita e dell’organizzazione dei Paesi socialisti
che non condivideva. Aveva un caro amico italiano a Mo-
sca, uno scienziato che scelse di lavorare in Unione Sovieti-
ca. Tramite lui, papà veniva a conoscenza di come la situa-
zione, oltre Cortina, fosse critica e andasse peggiorando.
Per questo, quando il Pci si allontanò da Mosca, Pio seguì
– lo abbiamo detto – con convinzione quella scelta. Noi
escludiamo del tutto che papà fosse un uomo al servizio
di Mosca e non ci sorprende che in vent’anni passati sotto
la lente di ingrandimento dei servizi segreti non si siano
trovate prove che mostrassero il contrario. Ma le voci sono
davvero dure a morire.

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Negli anni che hanno seguito l’omicidio di Pio La Tor-
re abbiamo scoperto molto anche di noi stessi. Siamo stati
messi alla prova e abbiamo dovuto scovare la forza per
ripartire. La famiglia e il lavoro ci aiutarono a guardare
avanti e a non farci schiacciare da quel dolore. Eravamo
giovani e avevamo un futuro da costruire. Per mamma,
invece, fu più difficile. Si sentiva abbandonata, forse anche
tradita da tutto quello in cui Pio e lei avevano creduto, dal
finale drammatico di una battaglia che la lasciava a dor-
mire da sola ogni notte. Per un lungo periodo sembrò che
l’incubo di un marito assassinato non le permettesse più
di risvegliarsi, poi, piano piano, ritrovò Pio nella sua lotta
e nella sua memoria, e a queste si dedicò sempre, fino ai
suoi ultimi giorni. Continuò a combattere, come Pio aveva
fatto, per la giustizia, iniziando dalla giustizia per chi era
stato ucciso.
Il processo agli assassini di nostro padre era quello per i
cosiddetti “omicidi politici”: non solo Pio e Rosario, quin-
di, ma anche Michele Reina e Piersanti Mattarella. La no-
stra famiglia non si costituì parte civile: mamma volle che,
per un uomo come Pio, a costituirsi parte civile fosse il
suo partito, o quello che ne era rimasto. Il Pci aveva ormai
cambiato nome, e non solo quello. A costituirsi parte civile
fu così il Partito dei Democratici di Sinistra.
Nei primi anni dopo la morte di papà, mamma colla-
borò con Rocco Chinnici, il magistrato che aveva istituito
il pool antimafia e che credeva fortemente che la scelta di
uccidere Pio non potesse essere derubricata a un semplice
affare di mafia. Ci dovevano essere coperture politiche più
ampie, e su queste si doveva indagare. Mamma portò a
Chinnici i notes di papà: là c’erano le sue analisi sugli omi-
cidi precedenti, e leggere quello che ci si trovava scritto era
come parlare con Pio del suo stesso assassinio. Come papà

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aveva detto per Mattarella, quando la mafia uccide un per-
sonaggio di quella importanza di certo ha degli appoggi
politici, obbedisce a un disegno più ampio, a un coagulo
di interessi che lo vogliono morto.
Nella primavera del 1983 Chinnici chiamò mamma
per l’ultima volta. Le disse che le indagini erano arriva-
te al punto, che poteva avvisare Irma Mattarella, la moglie
dell’ex presidente della Regione: aveva in mano il bandolo
della matassa. Ma Chinnici venne ucciso a luglio e nessu-
no seppe più a cosa si stesse riferendo. Quando Giovanni
Falcone prese in mano le indagini si fece sviare dalla cosid-
detta pista interna, quella che portava a cercare i mandanti
tra i compagni del Pci, una pista che non condusse a nulla
e che, come un vero depistaggio, fece sì che altre non ve-
nissero percorse a sufficienza. Falcone stesso sapeva, nel
1992, che le indagini sarebbero dovute continuare, ma si
doveva chiudere, erano passati troppi anni, e forse non si
poteva scavare più a fondo. Il risultato fu che, rimanendo
alle sentenze, fu tutto e solo un affare di mafia.
– Questo processo è stato fatto perché si doveva fare, –
disse mamma ai giornali – per dare un contentino all’opi-
nione pubblica.
Chi aveva studiato alla scuola secondo cui «la mafia è
un fenomeno di classi dirigenti» non poteva pensare che
Pio – uno dei due parlamentari in carica assassinati nella
storia della Repubblica, l’altro è Aldo Moro, e l’unico ucci-
so dalla mafia – fosse stato ammazzato per una decisione
tutta e solo di Cosa Nostra. Insomma, la nostra famiglia ha
sempre creduto e crede nello Stato, e allo stesso modo ha
il massimo rispetto per la magistratura, ma non abbiamo
avuto la sensazione che sia stata fatta giustizia. Crediamo,
anzi, che lo Stato abbia lasciato solo papà a combattere una
battaglia più grande di lui, che pure era un uomo grandis-

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simo, e poi non ha saputo scovare quei colpevoli che forse
si nascondevano proprio tra gli uffici e i corridoi delle isti-
tuzioni.
Qualche giorno dopo la morte di papà il generale dalla
Chiesa parlando di Mattarella disse: «Ho fatto ricerche su
questo fatto nuovo: la mafia che uccide i potenti, che alza
il mirino ai signori del “palazzo”. Credo di aver capito la
nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene
questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso
ma si può uccidere perché è isolato». Furono tanti, perfino
nel suo partito, a non comprenderlo – non ne avevano la
voglia o i mezzi – e a lasciarlo solo. Anche Berlinguer lo
disse ad alcuni compagni davanti alla bara di papà: «Solo
adesso capisco…», ma era tardi.
Intanto, dopo l’assassinio del 30 aprile, dalla Chiesa era
arrivato a Palermo, ma non ebbe mai i poteri speciali che
Pio aveva richiesto per lui. Durò quattro mesi, venne as-
sassinato il 3 settembre, quando la sua auto fu bersaglio
di raffiche di mitra che uccisero anche la giovane moglie
Emanuela Setti Carraro. Morì anche un uomo della scorta,
Domenico Russo. Solo a quel punto la misura fu colma.
Al funerale le contestazioni contro le autorità furono ben
peggiori di quelle avvenute durante le esequie di piazza
Politeama. Solo Pertini venne risparmiato. Cittadini indi-
gnati cacciarono i politici dalla camera ardente mentre il
cardinale Pappalardo, nella sua omelia, tradusse in una
frase famosa, buttata in faccia ai rappresentanti delle isti-
tuzioni, il pensiero degli onesti: «Mentre a Roma si pensa
sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici,
e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la no-
stra Palermo!»
Dieci giorni dopo l’assassinio di dalla Chiesa, il Par-
lamento approvò, nei suoi due rami, la legge voluta da

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nostro padre e presentata dal ministro Rognoni, la legge
Rognoni-La Torre. È stata la sua più grande eredità, la
realizzazione di un progetto in cui aveva creduto spesso
da solo, per il quale aveva lavorato, per il quale aveva
dato la vita.

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Quello che resta

«Gli uomini passano, le idee restano». Quanti luoghi


comuni ha scardinato Pio? Questa frase, per esempio, an-
drebbe abolita, fatta sparire per sempre, perché è un leniti-
vo che non cancella le ferite ma le nasconde, e soprattutto
non dice la verità. Non è vero che le idee restano, le idee
hanno bisogno degli uomini e delle donne, e ciascuno le
incarna a modo suo, così che quelle stesse idee mutano
passando di mano in mano e diventano altre. Le persone
non si possono sostituire.
A Ragusa, il 1° maggio 1982, si tenne un convegno orga-
nizzato dal movimento dei cristiani «conciliari ortodossi»;
il titolo scelto per quell’incontro era: «Invece dei missili».
Avevano invitato anche nostro padre che avrebbe dovu-
to parlare dopo Leonardo Sciascia, ma lo assassinarono il
giorno prima e così non poté partecipare. Gli organizzatori
tennero comunque il convegno, ma lo fecero lasciando una
sedia vuota tra i relatori. C’è un altro luogo comune da de-
molire, quello secondo cui «in politica non esiste il vuoto».
Ecco una seconda frase fatta che papà ha smontato. Il po-
sto che ha lasciato non è mai stato riempito. È stato evitato,
semmai, perché faceva paura. Fino a questo punto le idee
se ne vanno insieme alle persone.
Torniamo allora a una vecchia questione. Ci si chiede da

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Pio La Torre tiene un comizio a piazza Politeama nei primi anni Sessanta.

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decenni che senso avesse uccidere un uomo come Pio La
Torre, un comunista che aveva assommato più sconfitte
che successi, che aveva depositato una legge che riuscì ad
essere approvata solo dopo la sua morte e in buona misura
grazie a quella. Per la mafia non era meglio tenere tutto così,
lasciare che si dimenasse inutilmente, tanto aveva il vuoto
attorno e si poteva stare tranquilli? No, e per due ragioni.
La prima è che papà iniziava a raggiungere risultati, aveva
un interlocutore nel governo romano e si mormorava che
prima o poi perfino la sua legge, o parte di essa, sarebbe
stata approvata. E se Pio usciva vincitore dalla melassa ro-
mana, cosa avrebbe fatto alla Sicilia ora che riempiva le
piazze, metteva becco su Comiso e si occupava da vicino
degli appalti?
Ma c’è una seconda ragione per cui papà è stato ammaz-
zato, ed è proprio perché la mafia è concreta tanto quanto
lo era lui, e non si fa abbindolare dalla retorica delle frasi
fatte (a proposito, eccone un’altra molto in voga in certi
ambienti: «Chi ha molti compagni non muore mai»).
La mafia sa che gli uomini muoiono con le loro idee se
nessuno ha il coraggio di seguirne la traccia e se tutto quel-
lo che resta si riduce al ricordo della retorica, alla memo-
ria del 30 aprile, alla targa appesa sul muro cui voltare le
spalle il prima possibile. Il coraggio di Pio e la sua capacità
di capire la mafia morirono con lui. Quando Giorgio Boc-
ca chiese al generale dalla Chiesa perché la mafia avesse
ucciso Pio La Torre, lui rispose: «Per tutta la sua vita». Lo
stesso concetto, così alto e bello, lo ha spigato in tre pa-
role il pentito di mafia Gaspare Mutolo in un’audizione
alla commissione parlamentare antimafia. Gli fu chiesto
perché si fosse deciso di uccidere La Torre e lui rispose:
«Perché insisteva sempre».
È vero, papà insisteva sempre.

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Un’auto che da Palermo va verso Comiso, di certo pas-
sa dalle parti di Altavilla Milicia, tra Bagheria e Cefalù. Lì
Pio deve essersi fermato, magari più di una volta nei suoi
ultimi mesi. Poco tempo prima si era lasciato convincere
a un gesto quasi sconsiderato: aveva comprato un pezzo
di terra. Sappiamo che essere proprietario di qualcosa per
papà non era eccitante come per altri. Pio era comunista,
lo era davvero, eppure suo fratello più piccolo, zio Lui-
gi, quella volta lo aveva convinto. I due si erano comprati
due piccoli lembi di terra, due francobolli confinanti che
stavano, appunto, nelle campagne di Altavilla Milicia, ’a
Milicia. Sul terreno dello zio c’era un rudere che lui stava
ristrutturando, mentre su quello di nostro padre c’erano
nuda terra, sterpaglie e poco altro. Ogni tanto Pio passava
di là. Dava un’occhiata ai lavori sulla proprietà del fratello
e i due si scambiavano qualche battuta in dialetto. Davanti
a loro stava la terra di Pio. Lui sognava di costruirci una
piccola casa per la pensione, un posto dove riposarsi in
vecchiaia. La sua Conca d’Oro non esisteva più, ma forse
in quel piccolo terreno ancora si potevano trovare quella
campagna, quegli odori, quel vento caldo e secco che ave-
va conosciuto da ragazzo.
In quei mesi, mentre a ogni angolo poteva immaginare
un sicario pronto a ucciderlo, ad Altavilla Milicia papà pen-
sava al futuro e si godeva il presente. Come faceva quando
ci portava a passeggiare, strappava dell’erba e se la passa-
va tra le mani per sentirne il profumo, prendeva un pugno
di terra e ne saggiava la consistenza. Non aveva paura di
sporcarsi, e neppure di sognare una nuova Conca d’Oro e
una Sicilia senza la mafia, con i siciliani che prendono in
mano il proprio destino e combattono insieme contro chi
li sta opprimendo da troppo tempo. Questa era la sua vita
e su questo insisteva sempre perché, se di fede in Dio non

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ne aveva, a Pio non è mai mancata la fiducia. Fiducia negli
uomini, nelle donne, nelle masse, nelle «magnifiche sorti
e progressive». Fiducia che gli aveva fatto lasciare a Roma
due figli, una moglie e due cassetti chiusi. Nel primo c’era
la pistola che lo avevano obbligato a procurarsi, nel secon-
do la sua proposta di legge.
Fiducia che, con un po’ di lavoro, perfino un pezzetto
di terra ad Altavilla Milicia avrebbe potuto diventare un
agrumeto, come quelli strappati dalla Conca. Se mai ha
avuto questa idea, guardando il suo unico possedimento
terriero nell’autunno del 1981, deve aver pensato che in
quella stagione si sarebbe dovuto preparare il sovescio,
perché se vuoi ingrassare la terra per gli agrumi, una delle
cose che puoi fare è seminare tra i filari delle essenze erba-
cee – orzo, avena, favino, colza, veccia. Una volta cresciute,
devi trinciarle e interrarle con una lavorazione superficiale
del terreno. Le erbe, marcendo, nutrono al meglio le buone
piante del tuo campo.
Il nutrimento, la forza, la possibilità di farcela: nostro
padre era convinto che tutto questo venisse dal basso. Bi-
sogna organizzare il lavoro per tempo, fare tutti i passag-
gi necessari, sapere che costerà fatica, riunire le forze dei
piccoli, che da soli sembrano valere nulla, ma quando si
mettono insieme il loro impegno può dare frutto. Insieme,
perché è la solitudine che ammazza, e infatti anche di so-
litudine è morto papà. Quella in cui lo hanno lasciato le
istituzioni e i compagni che non lo hanno capito, che lo
hanno abbandonato in prima linea perché non riuscivano
o potevano condividere la sua battaglia. Quelli che poi,
come è inevitabile, non hanno raccolto la sua eredità e così
hanno lasciato vincere la mafia, perché gli uomini passano
e la mafia resta, perché Pio è passato e la mafia è rimasta.
Ecco il finale triste della storia di nostro padre, il La Tor-

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re che ci ha provato e non ce l’ha fatta. O, per lo meno, ecco
il primo finale proposto, quello che subito ci sentiamo di
scartare. Se davvero vogliamo confrontarci con il ricordo
vivo di papà, dobbiamo immaginare l’ennesimo confronto,
rivederci ragazzini con un foglio in mano mentre entriamo
nel suo studio traboccante di libri, cartacce e documenti
importanti per avere il suo giudizio. Con sincerità diciamo
che, con questo finale, non avremmo coraggio di superare
la soglia di quella porta. Il motivo è chiaro: nostro padre
era l’uomo che insisteva sempre. Ad Altavilla Milicia, sul
suo pezzo di terra, insisteva a pensare alla sua vecchiaia
mentre rischiava la vita, e a Comiso, con tutti contro, pure
là insisteva perché sognava l’isola della mafia trasformata
in un’isola di pace. Quando gli dicevano che i suoi tempi
erano il trapassato remoto e che la politica era ormai un’al-
tra cosa, si girava dall’altra parte. Quando sentiva dire che
gli italiani e i siciliani sono condannati dai loro atavici vizi
di mafia e corruzione, si incazzava. No, non si arrabbiava,
si incazzava proprio, e tuonava contro chi aveva osato tor-
nare su quel vecchio adagio disfattista che suona tanto si-
mile al nostro tremolante e sempre più provvisorio finale,
il mantra maledetto del «non cambia nulla».
– Un cretino!
Sembra di sentirlo.
– Anzi, un cretino col botto!
Quel finale non lo avrebbe sopportato, sarebbe stato me-
glio non fargli sapere chi lo aveva scritto.
– Quello è una cosa inutile! Ma come è possibile… Non
cambia nulla? Tutto cambia, è cambiato tutto! Per una vita
mi sono sentito dire che quello che volevo non sarebbe ac-
caduto, e poi guardami: dovevo fare il contadino e sono ar-
rivato in Parlamento, ho dovuto combattere contro uomini
immensamente più potenti di me, discutere con gente che

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non distingueva un capomafia da un ladro di gatti, eppu-
re il risultato l’ho portato, da vivo e da morto. L’abbiamo
portato, tutti insieme. E ora mi sento dire che ho perso e
quindi tutto finisce in nuddu mmiscatu ccu nienti solo per-
ché dei vigliacchi mi hanno chiuso la bocca per sempre.
Ma io, cari miei, vigliacco non lo sono stato mai, e tutte le
volte che potevo abbassare la testa, mettere le mani in tasca
e tornarmene zitto a casa, ho deciso di insistere perché vo-
levo e speravo che l’Italia e la Sicilia cambiassero. E un po’,
anche grazie a noi, sono cambiate. Combattere con la mafia
non è il gioco delle correnti di partito, non è come cercare
di agguantare una poltrona da sottosegretario: sapevo che
poteva succedere quello che è successo, ma ho avuto fidu-
cia che servisse, e non volevo darla vinta a chi mi voleva
immobile e muto.
– Sì, ma quando ti hanno ucciso…
– Fermo! Davvero vuoi dire che, mentre rischiavo la mia
vita, avevo più fiducia nel futuro di quanto oggi non ne
abbia tu?
Ecco perché ricordare papà, ricordarlo per davvero, è
stato per molti troppo difficile.
– Davvero vuoi dire che hai deciso che è ora di smettere
di chiedere giustizia?
Perché se decidi di ascoltarlo, poi devi anche trovare una
risposta alle sue domande.
– E allora? Non mi rispondi?
Ma d’altra parte, arrivati a questo punto, il problema non
è più quello di chiedersi chi fosse davvero Pio La Torre.
– Cosa pensi di fare, adesso?
Il problema è quello di chiedersi, davvero, chi siamo noi.

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Bibliografia delle opere
di e su Pio La Torre

La Torre P., Comunisti e movimento contadino in Sicilia,


Editori Riuniti, Roma 1980.
–, Le ragioni di una vita. Scritti di Pio La Torre, De Donato,
Bari 1982.
–, Discorsi e interventi parlamentari di Pio La Torre, 3 voll.,
a cura di Francesco Renda, Ars, Palermo 1987.

***

Bascietto G., Camarca C., Pio La Torre. Una storia italiana,


Aliberti, Roma 2008.
Bolzoni A., Uomini soli. Pio La Torre e Carlo Alberto dalla
Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Melampo, Mila-
no 2012.
Coco V., L’antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione
di minoranza, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2013.
De Simone C., Pio La Torre. Un comunista romantico, Edi-
tori Riuniti, Roma 2002.
La Torre Franco, Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia,
Melampo, Milano 2015.
Lo Monaco V., Vasile V., Pio La Torre, Flaccovio Editore,
Palermo 2012.
Mondani P., Sorrentino A., Chi ha ucciso Pio La Torre?

197

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Omicidio di mafia o politico? La verità sulla morte del più im-
portante dirigente comunista assassinato in Italia, Castelvec-
chi, Roma 2012.
Rizzo D., Pio La Torre. Una vita per la politica attraverso i
documenti, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003.
Ruta C. (a cura di), Pio La Torre legislatore contro la mafia.
Interventi e discorsi parlamentari, Edizioni di storia e studi
sociali, Cava d’Aliga (RG) 2014.
Tornatore F., «Ecco perché…». Bibliografia degli scritti di Pio
La Torre, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2016.

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Indice

Presentazione7

Chi era tuo padre? X


Senza di noi X
Con noi X
Senza di lui X
Quello che resta X

Bibliografia delle opere di e su Pio La Torre X

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