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Suadela

–#–

Collana diretta da
Adelino Cattani

Suadela è lo splendido nome dato dai Romani alla Peitho greca,


semidea e personificazione della persuasione.
Suadela è altresì assunta a personificazione
della non prepotenza e del rispetto del pensiero altrui.
C’è chi la chiama tolleranza. C’è chi la chiama civiltà
aRGOMENTARE LE PROPRIE RAGIONI

Organizzare, condurre e valutare un dibattito

a cura di
Adelino Cattani

loffredo editore
university press
In copertina:

EAN

Coordinamento University Press: Ugo Cundari ucundari@libero.it

Finito di stampare nel mese

© LOFFREDO EDITORE s.r.l.


Via Capri 67 80026 Casoria (NA)
http://www.loffredo.it  E-Mail: universita@loffredo.it
Indice

Introduzione 9

ADELINO CATTANI
Filosofi e retori 17
1. Filosofia e retorica 17
2. Filosofi contro retori 18
3. Filosofia, retorica e verità 21
4. Filosofia e retorica nel dibattito 22

MANUELE DE CONTI
Gestire i disaccordi  31

RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO


Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 39
1. L’argomento ad ignorantiam 40
2. Logica e retorica 41
3. Tipi di cliché 41
4. Risorse disponibili 48

PAOLO BOSCHI
Fatti, valori e dibattito 55
1. La situazione 55
2.  Casi ricorrenti 56
3.  Altri casi 61
4. Parole valigia 65
5. Attenzione, capacità e consapevolezza 67
PAOLA CANTÙ
La formazione al dibattito attraverso l’analisi di ragionamenti tratti dai
quotidiani 75
1. Introduzione 75
2. Tre obiezioni 76
3. La peculiarità dello strumento formativo 77
4. La monnezza rom 78
5. Non desiderare la tesi altrui 80
6. Un modo per zittire il dibattito 83
7. Come ti avveleno la sorgente 85
8. Conclusione 88

ALFRED C. SNIDER
Debate: Critical Method for the 21st Century 91
My background 91
Why the 21st century is different 92
Why current educational methods fall short 93
Debating as important bundle of educational experiences 95
Empirical results 96
Competitive debating 97
Classroom debating 98
Conclusions 99

ANTONIO MARTÍN SANCHEZ


Con Acento 101

CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ


Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 111
1. Diseñando situaciones argumentativas 112
2. Fundamentos para un enfoque crítico de debate académico 113
3. Diálogo, debate y metacognición. 117
4.  Características ideales del debate académico como modalidad
dialógica 121
5. La reconstrucción de discusiones críticas  123
6.  Aportes de un enfoque dialógico cognitivo al diseño de un mo-
delo de debate 128
7. Propuesta general de diseño para un modelo de debate crítico 131
8.  Conclusiones 133

CATERINA BOTTECCHIA
“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento
formativo 139
Premessa 139
Il torneo di disputa filosofica e la quotidiana attività didattica  140
Conclusione 149

ROBERTO FALDUTI
Palestra di botta e risposta al microscopio: considerazioni teorico-prati-
che e analisi di una disputa 153
1. Considerazioni preliminari 153
2. Osservazioni sul percorso di dispute 157
3- Analisi di una disputa 166

SENOFONTE NICOLLI
Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale 185

ALBERTO RIELLO
La parola e il gesto 191
Il gesto degli altri, ovvero manipolazioni di pensieri illustri 192

GIULIO ZENNARO
Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica 195
Introduzione

«Se io so di essere fallibile e tu sei consapevole della


tua fallibilità, allora – se ci sta davvero a cuore
risolvere i problemi – io aspetterò con ansia le tue
alternative e le tue critiche e tu sarai grato delle mie
alternative alle tue proposta e delle mie critiche.
Insomma discuteremo. E la discussione è l’anima
della democrazia.» (D. Antiseri, Princìpi liberali,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 19)

Il dibattito ha così tanta parte nella nostra vita, e, incomprensibilmente,


così poca parte nei nostri pensieri. Non abbiamo sempre chiaro quale sia il
suo senso, non abbiamo presenti quali ne siano i metodi, le procedure, le fi-
nalità, le diverse tipologie. Ci si affida al dibattito senza averne appreso regole
e mosse. Certo si può entrare in campo e disputare un incontro da dilettante,
ma ha la meglio chi mette a frutto la sua capacità dialettica innata o si avvale
dell’argomento “giusto”. Si sa bene che in un dibattito non vince sempre la
tesi migliore, ma quella meglio argomentata; non ha la meglio il discorso
giusto ma quello meglio impostato; non prevale l’opinione più ragionevole,
ma quella meglio motivata, vale a dire quella supportata da motivi e cause più
che da ragioni. La ragione infatti è ciò che giustifica, la causa è ciò che deter-
mina, il motivo è ciò che spinge. Ragione, causa e motivo rispondono tutti alla
domanda “perché?”, ma una cosa è fornire una spiegazione logica delle nostre
scelte, altra cosa è indicarne una causa oggettiva e controllabile, altra ancora è
addurre un motivo soggettivo e valido solo per me.
Con questa consapevolezza e con l’intento di “dibattere concretamente
sul dibattito”, il 18 e 19 novembre 2010 si sono riunite a Padova sette as-
sociazioni (ACPD, APOGEO, ERGO, IASC, TORNEO CON ACENTO,
WDI, ZIP) e studiosi-operatori di sette diverse nazioni (Cile, Israele, Italia,
10 Adelino Cattani

Messico, Slovenia, Spagna, Stati Uniti) per confrontarsi sul valore e sui limiti
di una formazione al dibattito. Titolo del convegno-laboratorio: Argomentare
le proprie ragioni: come organizzare, condurre e valutare un dibattito. Il volume
è frutto dei colloqui intercorsi durante e dopo quelle giornate, oltre la contin-
genza dell’incontro.
Argomentare e non dimostrare, perché entrambi gli atti, pur avendo il me-
desimo scopo di provare qualcosa per via inferenziale, sono di natura assai
diversa.
Ragioni, e non ragione, perché nel dibattito contano le ragioni plurali,
conta chi ha più ragioni o meno torto dalla sua e contano anche la quantità e
il modo, oltre che la qualità e le pertinenza.
Le proprie ragioni, perché, se è pur vero che “non posso conoscere la mia
verità se non conosco la verità degli altri”, a ognuno il suo compito: io pos-
so comprendere e debbo tenere conto delle ragioni altrui, ma non farmene
necessariamente carico; sarà l’interlocutore-oppositore che saprà/dovrà difen-
derle al meglio, quando, come succede perlopiù, il contesto è controversiale
e polemico.
Questi tre termini caratterizzano e definiscono il dibattito, un atto davvero
vitale, ma poco tematizzato.
Come organizzare, condurre e valutare un dibattito è il sottotitolo: a Padova,
che è stata la prima sede universitaria ad introdurre un corso di Teoria dell’ar-
gomentazione, tuttora unico in Italia; in Italia dove una volta si esercitava la
preziosa logica maior, che è quella sostanziale e discorsiva, e dove un tempo
vivevano “retori felici”, si è voluto riflettere su quell’atto tipicamente ed esclu-
sivamente umano che è il dibattito. Un buon dibattito, per quanto scontroso
e polemico possa essere, consente di far emergere quanto di meglio si possa
dire, quanto di meglio sia mai stato detto e scritto. Un buon dibattito è quello
in cui si confrontano due interlocutori, ciascuno dei quali riconosce il diritto,
accetta il dovere ma gode altresì del piacere di discutere.
«Razionale è una persona a cui importa più di imparare che di avere ragio-
ne» diceva il liberale Karl Popper, per il quale liberale è la persona consapevole
della propria e dell’altrui fallibilità, e della propria e dell’altrui ignoranza.
Argomentare le proprie ragioni 11

Tra filosofi e oratori-retori c’è sempre stato antagonismo, perché il filo-


sofo mira alla verità in sé, l’oratore mira alla verità in comunità. Verità ed
educazione discorsiva-negoziazione sono due valori che si possono contem-
perare nel dibattito, in quell’arte, la dialettica, che un tempo era qualifica-
ta liberale e che oggi definiremmo liberante. Liberante perché promuove la
libertà di pensare, la libertà di esprimere e la libertà di replicare. Liberante
perché incoraggia il pensiero indipendente e, come recita lo slogan appa-
rentemente paradossale della campagna promozionale della storica Enciclo-
pedia Filosofica concepita dal Centro di Studi Filosofici di Gallarate ed ora
(2010/2011) riproposta, a distanza di sessant’anni, in nuovissima rielabora-
zione da Rizzoli/RCS, “è il pensiero degli altri che ci aiuta a pensare con la
propria testa”.
Le sette Associazioni, impegnate in questa sfida teorico-educativa, alfabeti-
camente ordinate, sono le seguenti.

ACPD – Associazione per una Cultura e la Promozione del Dibattito, è


l’esito di un progetto di formazione al dibattito, chiamato Palestra di Botta e
risposta, avviato a Padova dal 2006 e collegato al corso di Teoria dell’argomen-
tazione attivata dal 2001 nell’università patavina. Si propone di introdurre
nella scuola la metodologia del dibattito regolamentato. Ispirato all’idea che
la discussione sia non solo un diritto del singolo e un dovere civico, ma al-
tresì un piacere, il progetto si attua in forma di torneo a cui partecipano stu-
denti degli istituti di istruzione secondaria. (http://www.educazione.unipd.it/
bottaerisposta)

APOGEO – Acronimo che sta per Analisi Progettazione Organizza-


zione Gestione Operativa, Agenzia di formazione fiorentina diretta da Pa-
olo Boschi e Lucia Sprugnoli. Opera in diversi settori d’intervento, dalla
formazione manageriale alla sviluppo della comunicazione e interna ed
esterna, dal counselling psicologico all’acting teatrale (bisogna anche ap-
prendere la “spontaneità” dei gesti in un dibattito). Gestire tempo, conflit-
ti e frustrazioni, riunioni, collaboratori e “colleghi impossibili”. Superare
12 Adelino Cattani

l’ansia e vincere lo stress (condizioni psicologiche rilevanti e ricorrenti


in un dibattito). Arte del comunicare ma anche del tacere. (http://www.
apogeoform.net)

ERGO – Associazione di Pratica e Teoria dell’argomentazione. Costitui-


tasi nel 2008, ricorrenza del 50° anniversario della pubblicazione del Trattato
dell’argomentazione di Chaïm Perelman e del volume di Stephen Toulmin,
Gli usi dell’argomentazione, per iniziativa di Adelino Cattani, Paola Cantù,
Italo Testa e Paolo Vidali, vorrebbe abbinare teoria e pratica, privilegiando,
fin dalla denominazione del gruppo, la pratica alla teoria, l’applicazione e la
trasferibilità delle analisi teoriche. Meglio che qualcosa funzioni anche senza
avere completa cognizione del perché (questo sarebbe pratica) anziché niente
funzioni avendo tutti piena cognizione del perché (questo è spesso la teoria).
L’auspicio è che teoria e pratica del dibattito si saldino. Cfr. La svolta argomen-
tativa. Cinquant’anni dopo Perelman e Toulmin. Loffredo 2009. (http://www2.
unipr.it/~itates68/ARGO.htm)

CEAR – Centro de Estudios de la Argumentación y el Razonamiemto,


costituito presso l’Università Diego Portales di Santiago del Cile e diretto da
Claudio Fuentes e Cristian Santibañez, che da oltre cinque lustri conducono,
in varie forme, un’intensa e diffusa opera di formazione al dibattito nelle scuo-
le cilene. (http://www.cear.udp.cl)

CON ACENTO. È una iniziativa ideata e animata da Antonio Martín


Sánchez, rivolta a giovani universitari spagnoli della regione Andalusa. È
un torneo di dibattito, nell’ambito del Club di dibattito dell’Università
Pablo de Olavide di Siviglia, che intende valorizzare i talenti di intelligen-
za, di partecipazione, di impegno dei giovani e della società andalusa, per
mezzo del poderoso strumento della parola, dell’oratoria e della dialettica,
all’insegna della semplicità unita alla precisione, della convinzione unita
all’apertura, del dinamismo unito all’attenzione, della serietà unita alla di-
sinvoltura. (http://debateconacento.com/quienes.html) 
Argomentare le proprie ragioni 13

IASC – International Association for the Study of Controversies. Fondata


nel 1995 e presieduta da Marcelo Dascal, è dedicata alla elaborazione di stru-
menti idonei per lo studio e la gestione delle controversie, soprattutto filosofi-
che e scientifiche, nella convinzione che la controversia, in tutte le sua forme,
dalla polemica virulenta alla discussione pacata, sia il motore del progresso in
ogni campo. (http://tau.ac.il/humanities/philos/iasc)

WDI – World Debate Institute, Università del Vermont, USA. Diretto


da Alfred Snider e attivo dal 1982, il WDI nel corso di un trentennio ha for-
mato addestratori e giudici di dibattito di 50 diversi paesi in tutto il mondo,
rivolgendosi primariamente ai paesi emergenti e in cui ancora non si è diffusa
la pratica del dibattito formativo, con spirito “missionario”, mirando ad uno
sviluppo delle capacità dibattimentali, nella convinzione che una comunità in
cui si discute liberamente e con competenza sia anche una società potenzial-
mente più pacifica e più giusta. (http://worlddebateinstitute.blogspot.com;
http://debate.uvm.edu/debateblog/wdi)

ZIP – Za in proti, Zavod za kulturo dialoga - Pro et Contra, Institute for


Culture of Dialogue, Ljbljiana, Slovenia. Diretto da Bojana Skrt, responsabile
della Debate Academy Slovena, ZIP, un acronimo che, in lingua slovena, sta
per Pro e contro, è un Istituto per la cultura del dialogo ed un programma
di vasto respiro rivolto a scuole di diversi paesi di ogni livello, dalle medie
all’università, che mira a diffondere, con tutti i mezzi disponibili, attraverso
workshops, forum, tornei di dibattito, tavole rotonde, manuali e trasmissioni
radio-televisive, la cultura del dibattito. Ad oggi, nell’arco di 6 anni ha orga-
nizzato oltre 150 eventi, con più di 5000 partecipanti ed ha costituito più di
60 gruppi di dibattito nelle scuole medie della Slovenia. (www.zainproti.com).

Il volume è diviso in due parti, la prima prevalentemente teorica, la secon-


da prettamente operativa. Nella prima si tratta dei fondamenti e delle finalità
di una formazione al dibattito. La seconda è dedicata all’organizzazione, alla
conduzione e alla valutazione del dibattito.
14 Adelino Cattani

L’introduzione di Adelino Cattani esamina il rapporto, da sempre pro-


blematico, tra filosofi e retori, rilevando quanta retorica ci sia nella filosofia
e quanta filosofia ci sia nella retorica, a dispetto dell’antica ostilità fra le due.
Il tema del disaccordo, della sua genesi e possibilità di superamento, è al
centro e nel cuore dell’interesse di Manuele De Conti, infaticabile promotore
di queste iniziative di dibattito formativo e cofondatore della Associazione per
una Cultura e la Promozione del Dibattito - ACPD. Se De Conti tratta di
come gestire il disaccordo, di come gestire stereotipi e fenomeni simili si occupa
Rafael Jiménez Cataño, docente nell’Università della Santa Croce di Roma.
Membro della IASC – International Association for the Study of Controversies,
egli è assiduamente attivo anche in Messico. Al laboratorio padovano del 18-
19 novembre 2010 era presente, con un intervento sul tema Arguing our re-
asons and other reasons for arguing. Controversies theory and political debite,
Amnon Knoll, della School of Philosophy di Tel Aviv, dove opera Marcelo
Dascal, fondatore e presidente della IASC.
Paolo Boschi, direttore dell’Agenzia di formazione “Apogeo”, di Firenze,
discute, con chiari esempi illustrativi, quella che, sulla falsariga della episte-
mologica “pregnanza teorica delle osservazioni”, potremmo chiamare la “pre-
gnanza valoriale dei fatti” in un contesto di scambio dialogico/polemico.
Infine Paola Cantù e Italo Testa, ispiratori e membri cofondatori di Ergo,
propongono un’analisi della stampa come momento di formazione al dibattito.
Chiude la sezione dedicata ai fondamenti e alle finalità, il contributo di Al-
fred Snider, un “apostolo” del dibattito, che dirige il World Debate Institute.
Snider testimonia la rilevanza del dibattito visto come “condotta critica” per
il nuovo secolo, come strumento di cambiamento e di promozione individua-
le, scolastica e sociale, i cui esiti sono documentati sia da numerose singole
esperienze (tra cui la sua personale) sia da nascenti ricerche sperimentali sul
campo a lungo termine.
La parte operativa è aperta dall’intervento del direttore del Torneo de De-
bate con Acento, attivato presso l’Università Pablo Olavide di Siviglia, Anto-
nio Martín Sanchez, il quale riferisce dell’esperienza organizzativa spagnolo-
andalusa in tema di formazione al dibattito competitivo.
Argomentare le proprie ragioni 15

Dall’America Latina, precisamente da Santiago del Cile, dove da alcuni


decenni si è sviluppato un forte interesse teorico e pratico per l’argomenta-
zione, Claudio Fuentes Bravo e Cristian Santibánez Yáñez, che gestiscono il
CEAR, Centro de Estudios de la Argumentación y el Razonamiemto, costi-
tuito presso l’Università Cilena Diego Portales, delineano i vantaggi di una
trattazione teorica e di una progettazione pratica di natura dialogico-cognitiva
del dibattito accademico-formativo a fronte di una trattazione-progettazione
tradizionale.
Caterina Bottecchia e Roberto Falduti, due docenti padovani pionieri in
questa attività di formazione scolastica al dibattito, mettono a frutto e a di-
sposizione la loro competenza filosofica e l’esperienza acquisita in qualità di
educatori e di addestratori di torneo. Con acribia e con verificata convinzio-
ne, Caterina Bottecchia evidenzia nella Palestra di botta e risposta la natura di
un percorso di autentico arricchimento formativo, proponendo altresì spe-
rimentati esercizi idonei a conseguire gli obiettivi educativi fondamentali e
a superare le difficoltà di comunicazione che intervengono nel processo di
insegnamento-apprendimento.
Roberto Falduti dedica il suo intervento ad un riesame anche operativo, “al
microscopio”, dell’esperienza finora condotta, sulla base delle effettive dispute
svolte nella Palestra di botta e risposta. Minuziosa la sua analisi di una disputa
sul tema “È corretto chiamare ‘scienze’ le scienze umane?”, sorretta da puntua-
li considerazioni teorico-pratiche.
Senofonte Nicolli, dirigente scolastico e supervisore nella Facoltà di Scien-
ze della Formazione nell’Univeristà di Padova e Alberto Riello, incaricato
dall’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto di progetto di educazione al te-
atro, un vero “form-attore”, sottolineano l’importanza dell’azione oratoria –
della comunicazione non verbale e del linguaggio del corpo – perché “non di
sole parole” vive l’uomo che discute e si nutre il dibattito.
Chiude il volume il contributo di Giulio Zennaro, professore di filosofia e
storia nel liceo Concetto Marchesi di Padova, la cui squadra si è aggiudicato il
titolo di magnifico disputante nel Torneo di disputa “Palestra di botta e rispo-
sta” dell’anno 2010, sulla base di una pionieristica esperienza di formazione
16 Adelino Cattani

al dibattito scolastico, tratta della disputa filosofica come esperienza didatti-


ca nella prospettiva dell’argomentare inteso come forma di dialogo. Zennaro
offre un succinto e pregnante epilogo che evidenzia chiaramente la natura
creativa e ricreativa della disputa esercitata nel quadro di una Palestra di botta
e risposta, il cui valore è riassumibile in quattro punti: 1. l’essere, in primo
luogo, una sfida e una competizione regolamentata che favorisce la crescita dei
partecipanti; 2. il consentire di imparare dai propri errori e dalle sconfitte; 3.
il privilegiare negli studenti l’attività di ricerca rispetto alla ripetizione mne-
monica; 4. l’indurre nella classe un atteggiamento di cooperazione efficace
volta a raggiungere un obiettivo comune. Si aggiunga l’obbligo di individua-
re una preliminare, inderogabile premessa di partenza condivisa, se si vuole
intraprendere qualsiasi dibattito che non sia tra sordi: sembrerà paradossale,
ma la condizione per discutere è di essere d’accordo (d’accordo su un punto
di partenza comune). Tale premessa condivisibile, può ricercarsi, ad esempio,
nei più generali diritti umani. Detto in breve, la disputa privilegia il dialogo
come metodo e l’argomentazione come regola, al motto di “mai imporre, ma
sempre spiegare e proporre all’assenso”.
ADELINO CATTANI

Filosofi e retori

Abstract

L’intervento prende le mosse dal duplice quesito: “Se e quanta filosofia ci sia nella
retorica e se e quanta retorica ci sia nella filosofia”. La domanda può suonare sorpren-
dente, perché tra filosofia e retorica c’è sempre stato antagonismo. Lo scontro tra
filosofi e oratori verte essenzialmente sul rapporto pensiero/linguaggio e sulla rispet-
tiva concezione di bene: il parlare “bene” dei filosofi e il parlare “bene” degli oratori/
retori. Per il filosofo il bene dicendi consiste nel dire il vero e il giusto, per l’oratore
consiste nel comunicare in maniera persuasiva. La verità, la “nuda verità”, anche
quella filosofica, dovrebbe parlare da sè e non dovrebbe avere bisogno di orpelli reto-
rici. Ma una considerazione sia storica sia teorica attesta che la retorica non è assente
dalla filosofia. Anzi si può sostenere che ogni argomento filosofico è inevitabilmente
retorico e la retorica è una forma di filosofia. Perché, per dirla aforisticamente: biso-
gna avere ragione e bisogna saperla esprimere, ma non basta; bisogna anche riuscire
a farsela riconoscere.

1. Filosofia e retorica

Il rapporto tra filosofia e retorica è da sempre stato problematico. Una delle


ragioni riconosciute è il fatto che «la storia della retorica è come la storia di
una disciplina che si accorcia…La retorica venne morire quando il gusto per
la classificazione delle figure soppiantò il senso filosofico che animava il vasto
impero retorico, ne teneva insieme le parti e collegava il tutto all’Organon e
alla filosofia prima» (Ricoeur 1976, p. 190).
Si cercherà qui di rispondere all’interrogativo “Se e quanta filosofia ci sia
nella retorica e se e quanta retorica ci sia nella filosofia”.
18 ADELINO CATTANI

A tale fine consideriamo in primo luogo che cosa ha fatto/fa chi pratica la
filosofia e che cosa ha fatto/fa chi pratica la retorica.
Che cosa fanno, oggi, i retori? Dopo una lunga eclissi, la retorica è tornata
prepotentemente tornata alla ribalta del sapere in due forme: come “teoria ge-
nerale del discorso e della comunicazione” (retorica come tecnica pregnante e
totalizzante, l’impero della retorica, «più vasto e più tenace di qualsiasi impero
politico» - R. Barthes ) e come “teoria dell’argomentazione” (retorica come
antidoto alla violenza e garanzia della democrazia, la retorica delle «buone
ragioni» - Ch. Perelman).
Che cosa fanno i filosofi? Qualcuno, molto autorevole, ha sostenuto, sem-
plicisticamente e drasticamente, che la filosofia è morta, che non ha più nulla
da dire: ci basta, ci occorre la scienza per spiegare il mondo – lo sostengono,
ad esempio, Stephen Hawking e Leonard Mlodinow nel loro recente volume,
Il grande disegno. Ma per fortuna qualche filosofo in circolazione c’è ancora.
Che cosa fa?
Dimostra? La risposta è chiaramente no, perché la filosofia è storicamente
una sequenza ininterrotta teorie rivali e di pensatori in contrasto fra di loro.
Spiega? La risposta è: cerca di spiegare, ma la sua spiegazione non è mai
definitiva; mai un filosofo risponde con un sì o un no decisivi. E pretenderlo
sarebbe come chiedere ad un tennista di fare goal, per usare una celebre im-
magine di origine neopositivistica.
I filosofi non dimostrano e non spiegano, ma argomentano e l’argomenta-
zione è lo strumento della retorica e della controversia.

2. Filosofi contro retori

Platone contro Isocrate, Boezio contro Cassiodoro, Thomas H. Huxley


contro Matthew Arnold, John Dewey contro Jacques Maritain costituisco-
no tutti diversi, opposti punti di vista, quello filosofico e quello oratorio che
hanno interagito in modo controversiale lungo tutta la storia del pensiero e
dell’educazione dall’antichità ai giorni nostri.
Filosofi e retori 19

In una ipotetica competizione tra filosofi fautori e detrattori della retorica,


la squadra dei contrari sarebbe preponderante per numero e in forza.
Oltre a Platone, una drastica condanna della retorica, giudicata ingannevo-
le e menzognera, è pronunciata da John Locke: «la retorica, quel potente stru-
mento d'errore ed inganno… come il bel sesso ha in sé fascini troppo potenti
per tollerare che mai si parli contro di essa. E vana cosa è denunciare quelle
arti dell'inganno, nelle quali gli uomini trovano piacere a essere ingannati.»
(Locke 1999, III, X, 34, p. 572 ).
Anche Kant si schiera con i detrattori dell'«ars oratoria», intesa come arte
di persuadere, «ossia di abbindolare, con una bella apparenza»: «l'arte oratoria,
in quanto arte di servirsi della debolezza umana ai propri fini (siano supposti
o siano realmente buoni quanto si voglia), non merita alcuna stima». I motivi
della sua condanna, che riecheggia temi e idee antiche, sono spiegati in una nota
della Critica del Giudizio (Critica del Giudizio, Sez. I, libro 1, par. 53) e sono
riassumibili nella avversione per la parola impura, asservita e liberticida, di cui la
retorica pare l'istituzionalizzazione Critica della Ragion Pura, II, cap. II, sez. III.
A dispetto dei giudizi espressi dai filosofi sulla retorica, di cui i precedenti
sono solo una minima campionatura, a metà del secolo scorso si è riaffermata
l’importanza anche filosofica della retorica, ben espressa, ad esempio, da Erne-
sto Grassi. Il filosofo italo-tedesco si è occupato in particolare del rapporto tra
retorica e filosofia giungendo alla sorprendente convinzione per cui la retorica
non sarebbe una semplice modalità di espressione finalizzata alla persuasio-
ne, bensì un atto costituivo e fondante del pensare umano: “la retorica non
è qualcosa che si aggiunge alla verità filosofica; è la fonte di questa verità.”
(Grassi 1980). Grassi vede nella retorica il punto di partenza della filosofia,
non viceversa1.

1  Grassi valorizza l’umanesimo italiano, contro la tradizione scientista. Considera centrali


la metaforicità e l’ingenium che si manifestano nell’immaginazione, nell’attività e nel linguag-
gio. Solitamente si ritiene che la metafora non sia altro che un decoro linguistico che nulla
aggiunge alla sua sostanza.
20 ADELINO CATTANI

Tra i pensatori moderni, il primo ad aver portato l'attenzio­ne sulla di-


mensione ineludibilmente retorica della parola è stato Nietzsche (Nietzsche
1912). Nietzsche ha non solo parlato di retorica ma ha parlato, e fatto filo-
sofia, retoricamente; al punto che è stato considerato un poeta manipolato-
re, un retore-oratore appunto. Qualcuno l’ha definito “un filosofo contro i
filosofi”.
Ciò prova una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che la filosofia è es-
senzialmente e irrimediabilmente controversiale. Lo è non tanto nel senso
banale per cui non c’è tesi che un qualche filosofo non abbia sostenuto (se ne
lamentavano sia l’oratore Cicerone sia il filosofo Cartesio), quanto nel senso
più pregnante per cui la filosofia è un perenne confronto di posizioni diverse
e contrarie.
Sia Cartesio sia Nietzsche sono considerati dei filosofi, ma il primo fa fi-
losofia in maniera articolata, rigorosa e conformemente ad un modulo logi-
co-sillogistico, il secondo in maniera sentenziosa e in forma esplicitamente
retorica. Parimenti, prendiamo Aristotele e Kiekegaard, leggiamo un testo di
Kant ed uno di Wittgentsein, confrontiamo Heiddeger e Carnap: se tutti sono
a ragione definibili filosofi, significa che filosofia si dice in molti modi, e la
filosofia contempla contenuti e stili quantomai diversi. Qual è la differenza
tra i pensatori menzionati, se tutti sono filosofi? Ciò che li distingue è una
particolare “retorica filosofica” (Grassi 1980).
Oggi tendiamo ancora a prendere le distanze dalla retorica. La tradizione
oratoria e quella filosofica hanno divorziato; discorso e ragione, oratio e ratio
rimangono due approcci concorrenti.
Certamente gli oratori dell’antichità erano dogmatici: ritenevano che il
compito dell’educazione fosse impartire la verità.
Certamente la retorica deteriorò in sofistica.
Certamente la retorica divenne poco a poco una vacua arte declamatoria.
Ciò giustifica la condanna e i giudizi costantemente negativi pronunciati
dai filosofi nei confronti della retorica, considerata corrotta e corruttrice sotto
tutti i punti di vista, per i suoi intrinseci vizi di natura cognitiva, metodologi-
ca, etica e sociale. La retorica è stata infatti giudicata:
Filosofi e retori 21

- un ragionare vizioso perché infondata o fondata su basi irrazionali o


a-razionali;
- una procedura fallace perché superficiale, aforistica, entimematica;
- un’arte ingannevole perché indifferente alla distinzione vero/falso o,
peggio, capace di spacciare il falso per vero.
- pericolosa per la sua parzialità, demagogia e potere seduttivo.

Quando poi la retorica si esercita sul dibattito, c’è il timore che essa crei
solo individui brillanti che hanno sempre una risposta apparente per tutto e
in ogni occasione, cioè disputanti capaci di trovare argomenti fasulli e false
ragioni, che sanno sempre come replicare e come mentire.

3. Filosofia, retorica e verità

Ma da quando il filosofo ha incominciato ad interrogarsi più problemati-


camente sulla verità, integrando il suo interrogarsi sul vero con la clausola if
any e da quando il retore ha ripreso a coltivare i “fioretti dialettici” oltre che
i suoi “fioretti retorici”, il rapporto tra filosofia e retorica è un po’ cambiato.
In particolare da quando la filosofia ha preso a occuparsi a fondo del lin-
guaggio, il come dire (la forma) non è più in insanabile conflitto con il cosa
dire (il contenuto).
Infine, da quando la filosofia fa i conti con la controversia, il filosofo, attore
solitamente alquanto monologico e solipsistico, deve fare i conti con la dispu-
ta, con la disputa intesa sia come forma di scambio dialogico-cooperativo sia
come forma di scambio polemico-competitivo.
Così oggi possiamo dire che, accanto ai suoi noti limiti e vizi, alla retorica
sono riconosciuti i seguenti pregi e valori.

Dal punto di vista cognitivo, la retorica può fornire schemi euristicamente


validi a cogliere i molteplici aspetti del reale.
Dal punto di vista metodologico, è associata con apertura critica.
22 ADELINO CATTANI

Dal punto di vista etico, è associata con prudenza ed antiautoritarismo


Dal punto di vista sociale, è nel contempo indice e promotrice di apertura
mentale o – se vogliamo dirlo “retoricamente”, nel tradizionale senso del ter-
mine – di antidogmatismo, democrazia, tolleranza,

4. Filosofia e retorica nel dibattito

Queste quattro dimensioni della retorica e la retorica stessa caratterizzano


quella peculiare attività umana che contraddistingue l’uomo, vale a dire il
processo del discutere/dibattere.
Anche in un dibattito si possono utilmente distinguere una dimensione
logico-cognitiva, una metodologica, una etica ed una sociale.
Il dibattito è la terza via tra il monologo e il dialogo, la terza opzione tra
un duetto e un duello. Un ping-pong di ragioni che rimbalzano da una parte
all’altra pare una valida alternativa all’indifferenza e allo scontro.
E se lo scopo di una buona discussione è quello di trasformare una con-
trapposizione di argomenti (un pro e un contro, un “x vale quanto y”) in un
modulo selettivo (un pro o un contro, un “x è migliore di y perché”) che con-
senta una valutazione ponderata e quindi una scelta fra due posizioni, rientra
in essa sia una dimensione filosofica sia una dimensione retorica.
Nella dimensione filosofica rientrano le regole e i doveri “dialettici” (logi-
ci ed etici) del disputante, operanti a livello normativo (ciò che si dovrebbe
fare).
Nella dimensione retorica rientrano le mosse e i diritti
“oratòri”(comportamentali e sociali) del disputante, individuabili sul piano
descrittivo (ciò che si fa).
Abbiamo regole dell’onesta e leale discussione e mosse dell’abile polemi-
sta, e di conseguenza due diversi livelli di analisi, quello normativo e quello
descrittivo.
Il livello descrittivo ci offre una rappresentazione realistica di una situazio-
ne concreta, il livello normativo ci offre un codice di condotta per ottenere il
Filosofi e retori 23

massimo e il meglio da un dibattito, al fine di elaborare un insieme di stru-


menti utilizzabili e non utopici per chi discute.
Le regole e i diritti “filosofici” codificati del dibattito sono del tipo:

1. Non ritenerti infallibile.


2. Cerca un punto di partenza comune.
3. Attieniti a ciò che ritieni vero.
4. Porta le prove richieste dall’interlocutore.
5. Non sfuggire alle obiezioni.
6. Non scaricare l’onere della prova.
7. Sii pertinente.
8. Sii chiaro.
9. Non deformare la posizione della controparte.
10. In caso di dubbio, sospendi il giudizio, se possibile.

Ma che fare se l’avversario non rispetta queste regole e questi doveri? Le


ipotesi di risposta che comporta questo problema non sono state finora ade-
guatamente considerate nel processo educativo.
Un decalogo integrativo – non un controdecalogo – di mosse e diritti “re-
torici” potrebbe essere il seguente.

1. Abbiamo il diritto di mettere tutto in dubbio.


2. Abbiamo il diritto di non esplicitare i fatti e gli argomenti sfavore-
voli.
3. Abbiamo il diritto di sottrarci alla strategia dell’avversario.
4. Abbiamo il diritto di difendere noi stessi e le nostre posizioni.
5. Abbiamo il diritto di concludere il nostro discorso. (Diritto elemen-
tare, ma non sempre riconosciuto quando si discute).
6. Abbiamo il diritto di aspirare alla vittoria.
7. Abbiamo il diritto di usare i nostri argomenti.
8. Abbiamo il diritto di rivolgerci ad una terza parte (giudice, pubblico,
mediatore).
24 ADELINO CATTANI

9. Abbiamo il diritto di essere giudicati per quel che diciamo e non per
quel che abbiamo fatto.
10. Abbiamo il diritto di cambiare d’accordo con la controparte le re-
gole della discussione. Il dibattito è infatti l’unico gioco in cui le
regole possono stabilirle e concordarle i giocatori.

Sono queste le mosse descrittive di uno scambio fattuale che si aggiungono


alle regole normative di una discussione ideale.
Abbiamo bisogno diritti e di doveri, di regole e di mosse. Diceva John Stuart
Mill nella sua opera dedicata alla libertà di parola e di espressione: sono necessari
insieme l’ordine e la rivoluzione, l’uguaglianza e la proprietà, la cooperazione e
la competizione perché l’uno limiti reciprocamente gli eccessi dell’altro: ciascu-
no di questi modi di pensare/agire deriva la sua utilità dalle carenze dell’altro:
ma è in larga misura l’opposizione dell’altro a mantenere ciascuno nei limiti del
ragionevole buon senso (Mill, 1859, p. 48; 1999, p. 54).
Logica e retorica, dimostrazione e argomentazione vanno a braccetto nel
dibattito. L’oratore e il disputante devono a essere attrezzati sia di strumenti
logici che di strumenti retorici. Non basta pensare bene, occorre parlare bene.
Bisogna avere ragione, bisogna saperla esprimere, bisogna riuscire a farsela
riconoscere.
In un dibattito il problema riguarda non tanto l’uso di mosse retoriche
(che sembra inevitabile), ma il fatto che chi vi partecipa non sia capace di
individuare e di neutralizzare le fallacie, intenzionali o involontarie, gli errori,
i trucchi. Se uno si serve di mosse retoriche, sarà compito della controparte
identificarle e rintuzzarle.
Certo, spesso chi discute è platealmente parziale, usa argomenti capziosi,
espone la questione in modo impreciso, utilizza dati e argomenti unilaterali,
travisa l’opinione avversa, magari in buona fede. Nelle discussioni accese il
polemista ricorre intenzionalmente ad invettive, al sarcasmo, ad attacchi per-
sonali, a mosse sleali. Ma quanto diceva Martin Luther King a proposito dei
diritti civili è applicabile anche al dibattito che si vorrebbe civile: «Ciò che
deve preoccupare non è l’urlo delle gente brutale, ma il silenzio degli onesti».
Filosofi e retori 25

Sicuramente il connubio di comunicazione e conoscenza, la combinazione


di arte della parola e scienza è l’ideale auspicabile: sapientia cum eloquentia
e eloquentia cum sapienta era il celebre chiasmo ciceroniano (Cicerone, De
Inventione, I, 1).
Quella prodigiosa alleanza tra pensiero e parola che gli antichi avevano
voluto fu rotta dai «discepoli di Socrate che allontanarono da sé gli oratori e li
privarono del nome di filosofo che prima era comune agli uni e agli altri» (De
oratore, III, 19, 73).
Il ristabilimento di quella mirabile alleanza ripristinerebbe anche il signifi-
cato, la funzione e la forza del logos, concetto cruciale diventato ambiguo. Non
ragione o parola, ma ragione e parola, vale a dire quel logos «che ci ha permesso
di perfezionare quasi tutto ciò che abbiamo acquisito civilmente. Infatti è il
logos che ci ha fornito i criteri di giusto e sbagliato, di onesto e disonesto, prin-
cipi senza i quali non saremmo in grado di vivere in società… il parlare bene è
per noi la prova più sicura del pensare bene… È grazie al logos che discutiamo
di ciò che è controverso e che indaghiamo ciò che è oscuro. In una parola, al
logos fanno capo tutte le azioni e i pensieri e coloro che se ne servono sono i
più saggi di tutti gli uomini» (Isocrate, Antidosis, 254-257).
Per questo Isocrate reclamava per l’oratore il titolo di ‘filosofo’, perché a
suo giudizio l’altezza filosofica era raggiunta dall’eloquenza oratoria.
Se un buon uso della parola è l’indizio più sicuro di un buon ragionamen-
to, come dice in modo interessato ma condivisibile Isocrate, un buon uso del
dibattito è il segno più sicuro di una buona società, perché, potremmo dire,
con Kimball, «Socrate aveva ragione se parliamo della verità, gli oratori aveva-
no ragione se parliamo della società» (Kimball 1995, p. XIX).
Dibattere è un’arte liberale e liberante. La persona «perfettamente edu-
cata in tutte quelle arti che sono degne di un libero cittadino» è colui che ha
acquisito la libertà di pensare, la libertà di dire e, più importante ancora, la
libertà di controargomentare in una comunità in cui si valorizzi al massimo
il pensiero indipendente la “comprensione” (nel suo duplice senso di “atto di
capire” e di “atto di far proprio”) con il fine di utilizzare il meglio che sia stato
pensato e detto nel mondo.
26 ADELINO CATTANI

Cicerone si pone all’inizio del suo De inventione (1, 1) questo interrogati-


vo: se sia maggiore il bene o il male che ha arrecato alla società e agli uomini
la copia dicendi e l’eloquentiae studium, cioè la retorica.
Sulla base delle precedenti considerazioni, la nostra risposta è: la retorica
ha arrecato danni, ma può arrecare bene se una sufficiente libertà/abilità di
parola (parresia) è distribuita in maniera sufficientemente paritaria ed egalita-
ria (isegoria). E questa felice combinazione si ha con l’introduzione sulla scena
del teatro filosofico, accanto al pensatore-protagonista, di un secondo perso-
naggio che svolga il ruolo di antagonista, di interlocutore o di oppositore, e
sulla scena pedagogico-sociale con l’introduzione di una adeguata educazione
filosofica abbinata da una formazione al dibattito, come avveniva nella buona
tradizione della disputatio scolastica medioevale.
Filosofia retorica e retorica filosofica possono sembrare due ossimori. Cer-
to quella retorica è più un’arena passionale, quello filosofico è più un asettico
laboratorio. In un’arena sono solleticate le passioni, in un laboratorio contano
i dati. Nella prima le conclusioni sono raggiunte per deliberazione, nel secon-
do sono il risultato di un’inferenza logica.
In realtà c’è molta retorica nella filosofia e c’è molta filosofia nella retorica.
Anzi, di più: ogni filosofia è retorica. E un filosofo è un oratore-retore quasi
sempre a propria insaputa.
Come la retorica, la filosofia è un mezzo e non un fine. È uno strumento.
Uno strumento per pensare autonomamente (con la propria testa) e creativa-
mente (in modo nuovo e fruttuoso), per produrre argomenti convincenti o
almeno persuasivi e per giudicare in modo critico (nel doppio senso che ha il
termine “critico”, ossia in modo valutativo e in modo polemico-oppositivo).
Come la dialettica, la filosofia è simile alla retorica e da essa diversa, ne è
l’analogo e la controparte. La retorica a sua volta è sia subordinata sia coordi-
nata rispetto alla filosofia. Ne è l’antistrophos, per riprendere il discusso termi-
ne introdotto da Aristotele per designare rapporto problematico che sussiste
tra dialettica e retorica. Rapporto che esprimerei in questo modo: entrambe
utilizzano la medesima struttura inferenziale, ma mentre la filosofia dovrebbe
partire dalle premesse per ricavarne una conclusione convincente, la retorica
Filosofi e retori 27

parte dalla conclusione, che è già certezza del retore, per cercare e esplicitare le
premesse che rendano tale conclusione accettabile all’uditorio.
In retorica si assumono le conclusioni che si presume siano sostenute e le-
gittimate da certe premesse, mentre in filosofia si assumono le premesse che si
presume sostengano e legittimino una certa conclusione. Nell’uno e nell’altro
caso si parte da assunzioni che bisogna giustificare, non da dati. E la giustifica-
zione si costruisce nel dibattito o meglio in quella che un tempo si chiamava
la disputatio.
C’era una volta la disputatio, che combinava insieme dialogo e polemica,
ragione e astuzie della ragione, comprensione e persuasione..
Potrà mai la disputa tornare ad essere, come nei tempi passati, la forma del
dialogo e il mezzo di formazione al dialogo? Torneranno ad esserci, oltre che
retori, anche disputanti felici? Anche se mai tornerà un’epoca storica in cui la
retorica sia, con la filosofia, il vertice massimo dell’educazione e del sapere,
una buona teoria e una buona pratica dell’argomentazione possono ricosti-
tuire l’equilibrio del chiasmo ciceroniano sapientia cum eloquentia, eloquentia
cum sapientia.
Sempre sia lodato il dialogo: il dialogo è l’atteggiamento giusto per chi vive
in comunità. Ma sempre sia lodata anche la polemica: la polemica è l’atteggia-
mento giusto per chi vuole comprendere.
L’atteggiamento dialogico-cooperativo è più conforme ad uno spirito di ve-
rificazione: la discussione in ottica cooperativa mira trovare le soluzioni più
accettabili o le conclusioni più condivise. L’atteggiamento polemico-competi-
tivo invece è conforme ad uno spirito di falsificazione, per cui la discussione
funge da filtro per individuare le carenze e i limiti delle proposte.
Concordia o verità? Pax aut veritas? Senza necessariamente dover operare
un rovesciamento dei valori alla Nietzsche, una composizione di queste due
esigenze sembra possibile ed è necessaria.
È possibile se consideriamo gli aspetti dialogici insiti nella controversia e
nel dibattito polemico: chi accetta di discutere con qualcuno riconosce valore
all’interlocutore, lo ascolta e prende in considerazione il suo punto di vista e,
difendendo le proprie idee, insieme cerca di confutare le sue.
28 ADELINO CATTANI

È necessaria se puntiamo ad una verità che va ricercata e non ad una verità


che va trasmessa e impartita. A render liberi non è solo la verità, secondo il
dettato evangelico, ma anche la semplice ricerca della verità.
Il modello educativo contemporaneo si ispira naturalmente più agli ideali
filosofici che a quelli oratori-retorici. Ma non è stato sempre così. Nel passato
la cultura pedagogica è stata debitrice più a pensatori come Isocrate, Cicerone
e Quintiliano che a Socrate, Platone e Aristotele.
Aristotele aveva anticipato e cercato di risolvere il problema del dire bene
da filosofo (dire il vero e il giusto) e dire bene da retore (dire il persuasivo),
definendo la retorica “la facoltà di scoprire ciò che c’è di persuasivo in ogni di-
scorso”. Aristotele quindi intendeva la retorica non come l’arte di persuadere,
ma la capacità di scoprire tutto ciò che ha una funzione persuasiva. Una di-
stinzione analoga negli anni Sessanta del secolo corso consentiva di mantenere
la scienza distinta dagli usi della scienza, per quanto potenzialmente perversi
e micidiali fossero questi usi. Ma a molti può sembrare più una soluzione-
scappatoia che una risposta davvero risolutiva.
Possiamo forse fare un passo avanti rispetto alla mera distinzione, in dire-
zione di una fattibile integrazione.
Come dicevamo, i filosofi hanno di mira la verità in sè, mentre gli oratori
hanno in mente la verità in comunità: la verità è un valore filosofico, mentre la
negoziazione e l’educazione discorsiva sono valori sociali; e i due valori vanno
contemperati se si aspira ad un’educazione liberale. Si possono, e si devono
armonizzare, se si concepisce l’educazione non come un processo mediante
il quale si impartisce la verità, ma un processo che favorisca la ricerca della
verità.
Ricapitolando: in attesa che tutti gli uomini buoni diventino bravi e che
tutti i bravi diventino buoni, si può auspicare almeno che i filosofi diventino
un po’ più oratori e acquisiscano consapevolezza della loro retoricità e gli ora-
tori diventino un po’ più filosofi e acquisiscano consapevolezza del loro essere
qualcosa di più che teorici e praticanti della retorica.
Parlare bene è indice e causa del pensare bene. Pensare bene significa anche
pesare i pro e i contro, confrontandosi con gli altri dialogicamente o polemica-
Filosofi e retori 29

mente. Cioè pensare bene è anche argomentare e controargomentare. E l’ar-


gomentazione è lo strumento tipico della retorica e della filosofia. In questa
circolarità risiede, ritengo, il rapporto tra filosofia e retorica: argomentare è
un’operazione che ha natura prettamente retorica e ha finalità prettamente
filosofica.
Per questo riteniamo che una “Palestra di botta e risposta” in cui si eserciti
la “disputa filosofica” come pratica didattica di formazione al dibattito nella
scuola (Nicolli e Cattani 2008) sia utile, preziosa e necessaria.

BIBLIOGRAFIA

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Hawking, St. e Mlodinow, L. (2010), Il grande disegno, Mondadori, Milano..
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Kant, I, Critica della ragion pura
Kimball, B.B. (1995), Orators & Philosophers. A History of the Idea of Liberal Education, The
College Entrance Examination Board, New York.
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Mill, J. Stuart (1859). On liberty; trad. it. (1999) Saggio sulla libertà. Il Saggiatore, Milano.
Nicolli, S. e Cattani, A. (2008), Palestra di botta e risposta. La disputa filosofica come formazione
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Nietzsche, F. (1912), Rethorik, in Werke, XVIII, Kroener Verlag (Lezioni di Basilea sulla
retorica).
Ricoeur, P. (1976), La metafora viva, Jaca Book, Milano.
MANUELE DE CONTI

Gestire i disaccordi

Abstract

Ripensare l’educazione al dibattito è quanto mai importante per valorizzarne la funzione e


l’efficacia non solo tecnica, ma pedagogica. In questo quadro, «disaccordo» e «bias cogni-
tivo» sono due nozioni fondamentali da problematizzare: il disaccordo, inteso come una
particolare condizione cognitiva, permette infatti di individuare un momento precedente
alla comunicazione a partire dal quale poterla orientare; lo studio dei bias cognitivi, inve-
ce, svelandoci nuove prospettive per guardare ai ragionamenti invalidi e fallaci, può offrir-
ci modi nuovi per una più accurata comprensione del mondo e del nostro interlocutore.

La necessità di pensare a un’educazione al dibattito deriva dal fatto che la


formazione al dibattito, intesa come addestramento principalmente tecnica,
esige d’essere integrata con un’educazione civile, ossia un’educazione della per-
sona intesa come cittadino, con particolare riguardo alla convivenza sociale.
Già in passato, infatti, le dispute medievali furono tacciate di rendere sfrontata
la gioventù e di provocare sommosse (Holberg 1994: pp. 36-7). Nel mio in-
tervento, quindi, per mostrare l’importanza del riferimento a un’educazione
civile ai fini della formazione al dibattito, tratteggerò alcuni dei concetti su cui
questa formazione potrebbe basarsi, soffermandomi, sui seguenti punti:

1)  l’importanza del concetto di «disaccordo» per una formazione al di-


battito, che sia anche un’educazione al dibattito;
2)  l’importanza della consapevolezza dei bias cognitivi in questa for-
mazione.

Come si sa, il modo in cui fatti e situazioni sono descritti struttura il nostro
modo di percepirli e di reagirvi (Lakoff 2004, p. XV). Anche gli antichi retori
32 MANUELE DE CONTI

ne erano consapevoli; in processo il reo poteva essere considerato ladro oppure


sacrilego e un comandante, macchiatosi di aver abbattuto le mura di una città,
poteva evitare la condanna dichiarando di averlo fatto per un bene maggiore:
la vittoria. E inoltre quanti uomini considerati perseveranti, ossia uomini la
cui condotta è al servizio di una causa (reputata) buona, sono giudicati da
altri ostinati, ossia al servizio di una causa (ritenuta) sbagliata? Pertanto non
sarà lo stesso descrivere uno scambio comunicativo come lite o dialogo. Gli
stessi dialoghi socratici, ad esempio, si trasformerebbero nelle socratiche liti
perdendo il loro riferimento pedagogico per acquisirne uno marcatamente po-
lemico. Tuttavia ancora più importante di un corretto uso dei termini è l’avere
a disposizione i concetti per indicare o strutturare situazioni differenti: essi,
infatti, permettono di cambiare il modo in cui si vede il mondo (Lakoff 2004,
p. XV). Noi abbiamo due differenti concetti di «disaccordo» e «conflitto», ma
esiste una notevole confusione intorno al loro uso. Non sempre, infatti, nella
letteratura specialistica questi due termini sono distinti (Mizzau 2002, p. 21).
Meno ancora nella letteratura non specialistica, in cui parlare o interpreta-
re le circostanze in termini conflittuali permette addirittura di accattivarsi il
pubblico, o alimentare dannose discussioni, come Deborah Tannen lamenta
(Tannen 1999).
Tuttavia è possibile individuare una differenza tra disaccordo e stadi a esso
successivi in cui sarebbero presenti tratti di conflittualità. La conflittualità,
considerata come negazione della soddisfazione di un bisogno da parte di un
altro agente, nel conflitto si presenta come azioni o comportamenti recipro-
camente ostili degli stessi agenti1. Essere in conflitto significa opporsi, signi-
fica ostacolarsi, significa lottare. Ciò non vale per il concetto di «disaccordo»
secondo il quale è possibile essere in disaccordo con il nostro interlocutore
senza esprimere questo dissenso, com’è possibile essere in disaccordo con un
interlocutore a prescindere dal fatto che esso lo sia con noi. Parlare di disaccor-
do non significa perciò riferirsi a una situazione di reciproca ostilità tra agenti

1  Questa definizione si può ritrovare nella concezione di «conflitto in senso stretto» pre-
sentata da Emanuele Arielli e Giovanni Scotto (Arielli, Scotto 2003, p. 10).
Gestire i disaccordi 33

manifestata attraverso il loro comportamento, ma significa riferirsi a uno stato


cognitivo che consiste nel non considerare esistente, vero, certo o corretto quanto
detto o fatto dal proprio interlocutore, o terzo. In questo senso, non coinciden-
do con l’esecuzione di un’azione o l’assunzione di un comportamento, ma
essendone precedente, il concetto di «disaccordo» manifesta il suo potenziale
educativo per una formazione al dibattito e alla discussione. Infatti, da come si
reagisce al disaccordo, la relazione tra gli interlocutori di una discussione potrà
essere più o meno conflittuale (Arielli e Scotto 2003, p. 83) e la discussione
più o meno fruttuosa (Eemeren, Grootendorst 1988, p. 281).
Tuttavia il concetto di «disaccordo» non è importante solamente perché in-
dividua un momento precedente all’azione e all’espressione su cui intervenire
su di esse per poterle orientare. Il disaccordo acquista la sua importanza all’in-
terno di qualsiasi democrazia perché è la dimensione entro la quale i conflitti
dovrebbero essere ricondotti. Condurre e trasformare il conflitto in disaccordo
significa passare dal bastone alla parola per poter così accedere alla risorsa della
discussione (Arielli, Scotto 2003: pp. 161-74) e del dibattito (Branham 1991,
p. 16-9). Da un punto di vista opposto, essere in disaccordo ed evitare che
degneri in conflitto significa saper dibattere, saper discutere e al tempo stesso
meglio convivere (Cattani, in Cattani et all. 2009, p. 17).
È proprio perché il disaccordo individua un momento anteriore all’azione
e all’espressione, e perché è strettamente collegato al dibattito come istituto e
capacità sociale, che il concetto di «disaccordo» assume un ruolo fondamenta-
le in un’educazione al dibattito e all’argomentazione.
A sviluppare la ricerca in questa direzione è stata la scuola pragma-dia-
lettica di Frans van Eemeren. Dal punto di vista di questa scuola centrale è,
infatti, il concetto di «disaccordo» e lo stretto rapporto che esso intrattiene con
l’argomentazione. Saper esporre le proprie ragioni esternalizzando il disaccor-
do e saperle discutere argomentando diventano i punti fondamentali di una
procedura finalizzata a risolvere o minimizzare i disaccordi stessi (Eemeren,
Grootendorst 1988, p. 286). Attraverso le regole stilate dalla scuola pragma-
dialettica sarebbe infatti possibile impostare un dibattito in modo fruttuoso
poiché il rispetto delle regole stesse limita proprio i ragionamenti ingannevoli,
34 MANUELE DE CONTI

ossia le fallacie. E una discussione esente da fallacie è una situazione ideal-


utopica, ma auspicabile.
Tuttavia se il dibattito deve essere riconosciuto come uno strumento utile per
lo sviluppo e l’acquisizione della capacità sociale di gestire il disaccordo, e non solo
per lo sviluppo delle capacità critico-argomentative o di orientamento decisionale,
classiche funzioni ad esso attribuite, una formazione ispirata a un’educazione civile
non può non comprendere il riferimento ai bias cognitivi, ossia agli errori sistema-
tici della nostra capacità cognitiva. E questo per due principali motivi:

1)  perché i bias ci impedirebbero di individuare strategie opportune


per orientare i dibattiti verso uno sviluppo fruttuoso;
2)  perché, se non correttamente compresi e gestiti, i bias condurrebbe-
ro dal disaccordo al conflitto.

Quando diciamo “tutti i politici sono trasformisti” commettiamo una evi-


dente generalizzazione indebita. Tali generalizzazioni determinano assunzioni
o derivano da assunzioni che si configurano come vere e proprie petizioni di
principio, in cui cioè le conclusioni coincidono con le premesse. Nel caso
in esame: “se un politico non fosse un trasformista, allora non sarebbe un
politico”. Tali assunzioni che strutturano la nostra percezione del mondo, e
che ci conducono alle fallacie appena menzionate, sono gli stereotipi, ossia le
opinioni precostituite, generalizzate e semplicistiche (che non si fondano cioè
sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripetono meccanicamente),
su persone, avvenimenti o situazioni.
La facilità di reperimento degli elementi a proprio favore, o le aspettative,
conducono invece a un’altra fallacia, ossia quella che consiste nell’attribuire
al proprio interlocutore una tesi più semplice di quella da lui effettivamente
sostenuta facendo apparire noi, con la coda di paglia, e lui, come un fantoccio.
Infine, non essere in grado di comprendere l’alta probabilità di due eventi tra
loro indipendenti ci conduce a considerare questi eventi come sorprendente-
mente legati da causalità, anziché comprendere le meraviglie della casualità
(Motterlini 2008: pp. 62-69).
Gestire i disaccordi 35

Come questi esempi ci indicano spesso gli inganni della nostra facoltà co-
gnitiva, ci inducono a commettere quegli errori di ragionamento che, da un
punto di vista formale o pragmatico, sono chiamati fallacie. Non sto dicendo
che i bias cognitivi siano l’unica causa dei ragionamenti fallaci2. Quello che
sto dicendo è che la possibilità di spiegare i ragionamenti fallaci anche in
termini di bias cognitivi apre la strada a nuove possibilità di comprensione e
nuove strategie di replica. Infatti, se penso che lavare la macchina faccia im-
mancabilmente piovere, forse non ho ancora capito che sto commettendo un
ragionamento fallace che va sotto il nome di post hoc ergo propter hoc, ossia che
confondo una relazione temporale con una relazione causale, ma anche che,
forse, dove lavo la macchina, la probabilità di pioggia è molto alta.
Avendo nuove possibilità di neutralizzare i ragionamenti fallaci perseguire-
mo l’obiettivo di eliminare alcune delle cause che complicano i dibattiti, favo-
rendone uno svolgimento corretto e lineare al fine di minimizzare i disaccordi
e garantire più stabili accordi.
Tuttavia i bias ci permettono di perseguire questo obiettivo anche in un
altro modo. Infatti i bias cognitivi non agiscono solo negli altri. Comprendere
che la nostra stessa conoscenza e il nostro stesso giudizio ne sono minacciati
può permetterci di individuare strategie critiche di verifica dei nostri stessi
processi cognitivi (Vaughn 2008: pp. 4-9). E questo risulta importante poiché
che dei vari errori cognitivi a cui si sarebbe soggetti, uno dei più insidiosi
è l’autocompiacimento. Esso, infatti, condurrebbe a essere sensibilissimi agli
errori cognitivi degli altri ma molto meno ai propri (Pronin 2007, p. 37). In
questo modo la propria capacità d’errore ne risulta sottostimata.
Nella direzione delle strategie critiche di verifica dei processi cognitivi si
muovono le proposte del critical thinking. Caratterizzato dall’attenzione alle
modalità di reperimento, valutazione e organizzazione delle conoscenze e cre-
denze, il critical thinking riconosce come spesso l’uomo, assuma le proprie cre-
denze solo perché sono in molti a considerarle vere, o perché queste lo fanno

2 Infatti i ragionamenti vengono considerati fallaci quando presentano vizi formali o vio-
lano alcuni impegni pragmatici.
36 MANUELE DE CONTI

sentire bene. Inoltre anche le emozioni o l’interesse personale svolgerebbero


un ruolo fondamentale nel distorcere i giudizi. Pertanto diventa necessario
dotarsi di quei criteri di valutazione delle credenze atti ad evitare di incorrere
in questi tranelli. Questo ci condurrà a essere più liberi e a scelte più consa-
pevoli, dato che ciò in cui crediamo influenza le nostre azioni e scelte (Pronin
2007: pp. 4-21).
La possibilità di nuove ed efficaci strategie di replica e di verifica è solo
il primo beneficio che può derivare dallo studio dei bias cognitivi. Fino al
2006 gli studi di psicologia cognitiva sulle reazioni al disaccordo arrivava-
no a mettere in evidenza come ci sia una generale inclinazione a considerare
l’interlocutore con il quale siamo in disaccordo come influenzato da interessi
personali. Pertanto chi ha un punto di vista diverso dal nostro è facilmente
accusato di sostenere tale opinione per proprio tornaconto, per simpatia, per
adesione politica, per incapacità di vedere le cose correttamente o per graniti-
ca adesione ad una ideologia (Kennedy, Pronin 2008, p. 834). La possibilità
di riferirsi a queste cause di distorsione come a bias avrebbe invece portato a
concentrarsi maggiormente su di un altro aspetto. Come dimostrano Emily
Pronin e Kathleen Kennedy, la tendenza a percepire chi è in disaccordo con
noi come soggetti a bias cognitivi, ossia errori sistematici della capacità cogni-
tiva, avrebbe conseguenze infelici: infatti, più ci sentiremo in disaccordo con
il nostro interlocutore, più avremo la tendenza a percepirlo soggetto a errore
e più questa tendenza sarà forte più saremo inclini a reagire nei suoi confronti
in modo conflittuale (Kennedy, Pronin 2008, p. 846).
Pertanto se vogliamo educare al dibattito, ossia a un dibattito inteso anche
come strumento utile per lo sviluppo e per l’acquisizione della capacità sociale
di gestire il disaccordo, risulta fondamentale educare a discutere attraverso
strategie che possano condurre a: percepire i propri interlocutori come capaci
di obiettività; essere motivati a intraprendere ulteriori sforzi per una più ac-
curata comprensione del mondo (Kennedy, Pronin 2008, p. 846); ampliare
le proprie modalità comunicative e capacità retoriche per meglio trasmettere i
messaggi. Solo in questo modo potremmo evitare che le critiche mosse alle di-
spute medievali, ossia di essere ars rixosa (Brucker, 1975: pp. 532-912) e puri
Gestire i disaccordi 37

combattimenti tra galli (Holberg 1994), siano rivolte anche ai nostri dibattiti
scolastici.
Le proposte della pragma-dialettica e dell’Informal Logic già tendono a
questi fini. Il riferimento, infatti, alle regole che una discussione deve rispetta-
re per raggiungere risultati validi, di per sé ha come obiettivo di evitare, tra gli
altri, quegli errori di ragionamento e relazionali che consistono nel combat-
tere l’interlocutore anziché la sua tesi. Anche le regole conversazionali di Paul
Grice assumono in questo contesto un nuovo valore pratico, ossia il rispetto
della cooperazione che, come ben sappiamo, non ha come suo contrario la
competizione, bensì il conflitto. Infine, oltre allo sviluppo delle proposte di
Pronin e Kennedy ossia di discutere attraverso strategie che possano motivare
ad intraprendere ulteriori sforzi per una più accurata comprensione del mon-
do e a percepire i propri interlocutori come capaci di obiettività, interessanti
sono le proposte di comunicazione nonviolenta elaborate da Arne Naess. Padre
dell’ecologia profonda, facendo riferimento al satyagraha, ossia al tipo di lotta
nonviolenta principalmente gandhiana, Naess elabora una serie di principi sui
quali la comunicazione dovrebbe basarsi affinché sia uno mezzo per risolvere
problemi, piuttosto che alimentare confitti (Naess 2006: pp. 100-11).
Concludendo, parlare di disaccordo significa continuare a tracciare la stra-
da lungo il solco della nostra tradizione, interessata più al dibattito che alla
violenza, più alla libertà di espressione che alla forza della repressione. Questo
concetto ci permette infatti di individuare un momento precedente all’espres-
sione e all’azione dal quale poter orientare il proprio comportamento. In par-
ticolare la comprensione dei bias cognitivi ci può guidare a individuare nuove
strategie per far fronter agli altrui errori e alle proprie sviste, e a elaborare le
strategie per evitare che un singolo stato cognitivo si traduca in una situazione
reciprocamente conflittuale.
Infine una formazione al dibattito che sia imperniata sull’idea di un’educa-
zione civile e centrata sui concetti di «disaccordo» e «bias cognitivo» ci porterà
non solo a una teoria del dibattito finalizzata allo sviluppo delle capacità criti-
co-argomentative, ossia focalizzata sulla conoscenza del soggetto che dibatte;
non solo a una teoria del dibattito come strumento per orientare le scelte, fo-
38 MANUELE DE CONTI

calizzata su una terza parte rispetto alle due coinvolte nel dibattito, l’uditorio;
ma soprattutto a una teoria del dibattito che, oltre ad includere le altre teorie,
sia centrata sulla capacità di gestire il disaccordo e quindi focalizzata su colui
con il quale stiamo dibattendo.

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RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili

Abstract

Gli stereotipi come errore cognitivo sono il versante difettivo di meccanismi di


semplificazione indispensabili per la vita. Per capirne gli effetti dialettici si deve
distinguere fra la loro valenza logica e quella retorica. Nella gestione dialettica
dello stereotipo che porta ad affermazioni generali che contraddicono la pro-
pria esperienza, è efficace evitare l’induzione e poggiare invece sull’esempio. Se
la disputa è eristica, le risorse per portare al ridicolo sono spesso a portata di
mano. Se però il disputatore tiene al rispetto della persona dell’interlocutore e
cerca la condivisione di una verità, sembra più efficace una strategia che porti
l’interlocutore a percorrere tutti i passi per raggiungere la conclusione senza
dipendere dall’autorità del partner nel dialogo.

Se si dovesse presentare questo contributo come studio sul dibattito, sa-


rebbe un testo alquanto anomalo, perché viene a proporre accorgimenti che
esulano dai tempi normali di un dibattito. Sono infatti convinto che spesso gli
stereotipi richiedano tempi molto lunghi. Inoltre io parlerò qui della rilevanza
dell’ethos nella loro gestione, quindi non in primo luogo del logos, che è il
mezzo di persuasione che più immediatamente si associa al dibattere. Tempi
lunghi vuol dire che spesso c’è poco da fare all’interno di un dibattito, anche
se dovesse durare alcune ore. Il superamento di alcuni luoghi comuni può
entrare nei parametri temporali dell’educazione, della crescita di una persona,
della maturazione di un rapporto.
Nel percorso che farò dei diversi tipi di semplificazione cercherò di far
notare il loro aspetto positivo, oltre a quello fallace. Questo è uno dei motivi
per cui ora ho detto “semplificazione”, che non è di per se una denominazione
negativa, come invece lo è “stereotipo”. Ci sono semplificazioni – di pensiero,
40 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

di espressione, di argomentazione – estremamente ordinarie nella nostra vita,


che hanno un ruolo positivo nella comprensione della realtà. Esse sono vitali
anche per la comunicazione e per l’educazione1.

1. L’argomento ad ignorantiam

Come approccio alle semplificazioni e alla prevenzione delle loro versioni


difettive, trovo utile ricorrere a quello schema che a partire da Locke è stato chia-
mato argumentum ad ignorantiam. Esso “consiste – scrive Adelino Cattani – nel
considerare vera una tesi perché non è stata dimostrata falsa o, viceversa, falsa
perché non ne è stata dimostrata la verità” (Cattani 1995, p. 127). La formu-
lazione della pragma-dialettica di Frans Van Eemeren dice che l’argomento ad
ignorantiam “consiste nel concludere che un’asserzione è vera perché la sua con-
traria non è stata difesa con successo” (Eemeren, Grootendorst 2008, p. 134).
Non mi trattengo sull’invalidità di questo schema. Vorrei solo ricordarne
l’applicazione giuridica, che di solito aiuta a capirlo: se il legale di un imputato
confuta le prove di colpevolezza presentate dal pubblico ministero, non ha an-
cora provato l’innocenza del suo cliente, ha solo provato che la requisitoria del
pubblico ministero non prova niente. Se ci sfugge questo particolare rischiamo
di trasformare un non-sapere in sapere (Cfr. Cattani 1995, p. 129), che è ap-
punto l’origine del nome “ad ignorantiam”.
Questo schema argomentativo fa vedere con molta chiarezza la relatività della
nozione di fallacia, il bisogno di metterla in contesto per giudicarla tale o meno.
Anche su questo punto trovo innecessario fermarmi, perché chi è aduso ai dibat-
titi ha l’esperienza immediatissima della dimensione vitale della maggior parte
dei ragionamenti: il loro rapporto con delle persone e con delle risorse cognitive.
Dell’argomento ad ignorantiam ci sono difatti usi non fallaci, usi che nes-
suno obietterebbe (Cfr. D’Agostini 2009, p. 74). C’è per esempio il valore

1  Sul ruolo costruttivo delle semplificazioni si veda il punto di vista psicologico in Arcuri,
Cadinu 1998: pp.10, 13, 139.
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 41

della consuetudine o dell’esperienza (“abbiamo sempre fatto così; finché non


si trova un modo chiaramente migliore di farlo, continueremo a fare così”),
oppure l’assoluzione per mancanza di prove.

2. Logica e retorica

Nel caso dell’argomento ad ignorantiam, validità e invalidità si giocano


in buona misura nella sua diversa valenza logica e retorica. È un’esperienza
vitale dei dibattiti: se uno viene confutato ripetutamente, ciò non significa
che la tesi contraria sia stata provata. Questo, da un punto di vista logico.
Ma è inevitabile che per coloro che seguono il dibattito si consolidi a poco a
poco l’impressione che la tesi contraria sia valida, forse fino alla persuasione.
E questo è il punto di vista retorico.
C’è un fenomeno ben noto a chi lavora nell’ambito dei mezzi di comuni-
cazione, il cosiddetto stillicidio, che ha un’efficacia strabiliante. È un gocciolio
che finisce per formare una vera e propria opinione pubblica spesso senza
alcuna vera e propria ragione. Si potrebbe pensare che l’infondatezza ripe-
tuta finisse per persuadere del contrario, ma ciò non succede perché non c’è
coscienza dell’infondatezza. Una condizione per l’efficacia dello stillicidio è
la superficialità. In questo caso (e, credo, nell’argomento ad ignorantiam in
generale) è naturalmente più facile che a trarre la conclusione sbagliata sia
l’opinione pubblica che gli esperti della materia. Già Aristotele distingueva
fra l’opinione (doxa) e l’opinione degli esperti (endoxon) (Topici, I, 100a-b).

3. Tipi di cliché

a.  Semplice generalizzazione – Errore tassonomico

Un primo tipo di cliché è la semplice generalizzazione: fare d’ogni erba un fascio.


L’errore della generalizzazione indebita sta nell’applicare a tutti gli elementi di un
42 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

gruppo una qualità che possiedono solo alcuni: pochi, o anche molti, ma non tutti.
Esiste anche il caso in cui nessuno degli individui risponde all’attributo affibbiato,
oppure questi sì, ci sono, ma non è stata quella l’origine del cliché. Questo ci porta
ad un altro fenomeno, anch’esso diverso dallo stereotipo, che possiamo chiamare
errore tassonomico, come pensare che gli iraniani sono arabi, che i rumeni sono slavi,
che i messicani sono sudamericani, che gli scozzesi sono inglesi. Qui non ha senso
parlare di “eccezione” senza ricorrere a cittadinanze acquisite o alla diversa valenza
dell’aggettivo a seconda che significhi una razza, una lingua, una nazionalità.

b.  Simbolizzazioni

Spesso le generalizzazioni hanno un valore metonimico. Sono quindi si-


gnificative, non un puro errore, ma sbagliate se non si tiene conto della meto-
nimia. Molte denominazioni ufficiali (o almeno storiche) di paesi e di popoli
hanno questo carattere. Si pensi al significato di “Asia”, nome del continente
più esteso di tutti, che in origine significava una regione ben più ristretta in
paragone. “Messico” prende il suo nome dal popolo che dominava la maggior
parte del territorio che oggi porta quel nome; molte etnie oggi “messicane”
non sono assolutamente messicane nel senso etnologico proprio. “Argentina”
è un termine legato al Rio de la Plata, che, per quanto grande ed importante
(rappresentato addirittura nella Fontana dei Fiumi a Piazza Navona), non ha
una rilevanza geografica per tutto l’immenso territorio di quel paese.
Tutto questo è di solito pacifico, finché non si alza un’etnia per dichiararsi
stufa di essere chiamata con il nome di suoi antichi dominatori, o una nazione
per sottolineare la propria specificità, diversa dallo stato cui appartiene. Si
pensi per esempio ad alcune regioni della Spagna.

c.  Microfondamentalismo

Ora vediamo un tipo tutto particolare di semplificazione, che non riguar-


da solo un rapporto fra generalità più o meno ampie ma fra una realtà e le
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 43

sue versioni. Ci sono infatti realtà talmente ricche che solo una pluralità di
versioni può esprimere la loro ricchezza, gli argomenti di cui si occupa la fi-
losofia, per esempio, ed è questo il motivo per cui non esiste una filosofia che
possa essere chiamata quella totale, o quella vera. Anche le forme dell’amicizia
presentano una profusione simile, e quelle della società, della famiglia, delle
religioni, delle diverse arti.
Luigi Pareyson fa una distinzione fra la verità e le sue formulazioni, che
risponde con precisione a quanto voglio esprimere2. La pluralità di formula-
zioni della verità può essere assunta come una pluralità di verità. Ci sono molti
sensi in cui certamente esiste una pluralità di verità, ma qui sto segnalando un
malinteso frequente che è una delle forme del relativismo. L’estremo opposto
consiste nel rifiutare quella pluralità prendendo una delle versioni come se
fosse la realtà piena. Questo può essere chiamato fondamentalismo. Si pensi a
ciò che succede se si prende una filosofia fra le molte esistenti, per esempio il
marxismo-leninismo o il tomismo, o la filosofia analitica, e si ritiene “la vera
filosofia”, con esclusione di tutte le altre, il che è chiaramente una posizione
fondamentalista. L’essenziale non è il riconoscimento di validità di ciò che è
stato preso, ma l’esclusione di validità di tutto il resto.
Ci sono ambiti dove di solito non ricorriamo al termine “fondamentali-
smo”, e tuttavia si applica lo stesso schema. Per esempio se uno dice che vera
pittura è quella rinascimentale e tutto il resto è tentativo di arrivare o corru-
zione posteriore; oppure uno che dice che la Sinfonia Incompiuta di Schubert
è quella di Giulini e le altre sono soltanto approssimazioni; o dire che pizza è
la pizza margherita e tutto il resto sono capricci di turisti. Certo, non stiamo

2  “La parola rivela la verità, ma come inesauribile, e quindi è eloquente non solo per quel
ch’essa dice, ma anche per quel ch’essa non dice: l’esplicito è talmente significante che appare
come una continua irradiazione di significati, perennemente alimentata dall’infinita ricchezza
dell’implicito, sì che comprendere significa approfondire l’esplicito per cogliervi l’inesauribile
fecondità dell’implicito, senza mai raggiungere la completa esplicitazione, per la sovrabbondan-
za della verità, cioè non per inadeguatezza della parola, ma proprio per la sua capacità di posse-
dere un infinito, cioè per una pregnanza di rivelazioni che non per il fatto di aumentare di nu-
mero s’avvicinano a una manifestazione totale, di per sé impossibile” (Pareyson 1971, p.115).
44 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

a dare del fondamentalista al poveraccio che non riesce a godersi le molteplici


interpretazioni dell’Incompiuta, ma mi sembra chiaro che lo schema di pen-
siero è lo stesso.
Per spiegare questo, Pareyson ricorre al fenomeno dell’interpretazione
artistica, ed afferma che l’opera non è “un ‘oggetto’ a cui l’interprete deb-
ba adeguare la propria rappresentazione dall’esterno, essendo essa piuttosto
caratterizzata da una ‘inoggettivabilità’, che le deriva dall’essere inseparabile
dall’esecuzione cha la fa vivere e al tempo stesso irreducibile a ciascuna delle
proprie esecuzioni”3.
Sono convinto che è molto difficile, se non addirittura impossibile, essere
assolutamente liberi da questo tipo di semplificazione. È qualcosa di vitale.
Per un principio di economia mentale e linguistica, non sempre prendiamo in
considerazione tutte le virtualità di una realtà bensì solo ciò che risulta perti-
nente in un contesto determinato. Questo ha una spiegazione nella psicologia
cognitiva (Cfr. Arcuri, Cadinu 1998: pp. 10, 13, 139), ma da un punto di
vista dialettico propongo chiamarlo “microfondamentalismo”. Eliminare ogni
microfondamentalismo dalla nostra vita non è solo difficile ma inutile e persi-
no dannoso. Ciò che è importante è esserne consapevoli.

d) Eresia

Penso che sia molto conveniente mantenere distinto il fondamentalismo


(o microfondamentalismo) da un altro tipo di semplificazione che possiamo

3  “È evidente che un rapporto del genere non si può configurare nei termini di soggetto e
oggetto: né l’interprete è un ‘soggetto’ che dissolva l’opera nel proprio atto o che debba sperso-
nalizzarsi per rendere fedelmente l’opera in sé stessa, ma è piuttosto una ‘persona’ che sa servirsi
della propria sostanza storica e della propria insostituibile attività e iniziativa per penetrare
l’opera nella sua realtà e farla vivere della sua vita; né l’opera è un ‘oggetto’ a cui l’interprete
debba adeguare la propria rappresentazione dall’esterno, essendo essa piuttosto caratterizzata da
una ‘inoggettivabilità’, che le deriva dall’essere inseparabile dall’esecuzione cha la fa vivere e al
tempo stesso irreducibile a ciascuna delle proprie esecuzioni” (Pareyson 1971, p.71).
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 45

chiamare “eresia”. Com’è ben saputo, hairesis significa “scelta”, e di solito le


eresie (le più conosciute sono quelle del cristianesimo) sono consistite nel
prendere qualche verità come quella essenziale, e a partire da lì giudicare le al-
tre o addirittura eliminarle. Fra due testi della Bibbia, per esempio, che appa-
iono incompatibili, c’è chi cerca di trovarne la sintonia ed è disposto a lasciare
il chiarimento alle future generazioni, e c’è chi sceglie uno e dichiara l’altro
una corruzione del testo, un’interpolazione, un errore del copista.
Non vorrei insistere di più su questa distinzione, perché l’uso sia di “ere-
sia” che di “fondamentalismo” consentono molte sfumature, a seconda delle
scelte di classificazione e quindi delle convenzioni lessicali. Ritengo rilevan-
te in ogni modo mantenere distinti due tipi di semplificazione, uno che è
la riduzione di una realtà ad una sola delle sue possibili versioni, che è un
difetto per mancanza di interpretazione, e questo è un senso classico del ter-
mine fondamentalismo; e un altro che è la scelta, non fra versioni ma fra
gli elementi di cui una realtà è composta a scapito degli altri, che è ciò che
possiamo chiamare eresia.

e) Stereotipo

E arriviamo ora al tipo di semplificazione che meglio risponde a ciò che


chiamiamo stereotipo. È il caso dell’idea generale che contraddice l’esperienza
particolare, anche personale. La definizione di stereotipo che riporta il voca-
bolario di De Mauro dice: “Un’opinione precostituita, non acquisita sulla base
di un’esperienza diretta e scarsamente suscettibile di modifica” (De Mauro
1999-2007: Vol. 6, p. 388). Altri vocabolari sono meno precisi. Si badi bene
che non è solo una semplificazione. Le semplificazioni, torno ad insistere, pos-
sono giocare un imprescindibile ruolo pedagogico, a patto che restino aperte
ad integrazioni. Nessuno di noi può godere del massimo livello di profondità
in tutte le sue conoscenze. Anche per l’uomo di saggezza “sconfinata” ci sa-
ranno sempre campi in cui la sua conoscenza sia piuttosto elementare. Egli si
dimostrerà veramente saggio nella consapevolezza di quell’elementarità e nella
46 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

disposizione ad imparare di più. Quelle nozioni semplici non sono quindi uno
stereotipo.
Qualche anno fa Marcelo Dascal, dell’università di Tel Aviv, esperto in
argomentazione, commentava il suo desiderio di analizzare un giorno la logica
che sta alla base di espressioni come questa: “Gli ebrei sono dei furfanti, ma
devo riconoscere che i miei migliori amici sono ebrei”. L’espressione citata è
un caso molto caratteristico, ma non è difficile trovare altre categorie umane
dove si verifichi questo modo di ragionare. Dal contrasto fra il cliché e l’espe-
rienza personale non si passa alla correzione di uno degli estremi, vale a dire
rivedere il cliché o concludere per deduzione che quei carissimi amici sono
pure dei furfanti. Invece no, lo stereotipo si mantiene e l’esperienza personale
si assume allora come eccezione. Quando ci si trova ad entrare in una di queste
categorie “stereotipate” non è strano che uno si senta dire “Ma tu sei diverso”,
o qualche altra formulazione di eccezionalità.
Lo stereotipo quindi e l’esperienza si contraddicono, eppure era dall’espe-
rienza che si poteva fare un’induzione. Certo, il cliché non è stato ottenuto per
induzione (o si è fatta una generalizzazione indebita). Quando dal cliché si fa
deduzione, si ottiene una conclusione che contraddice l’esperienza, la quale
viene allora considerata un’eccezione. Sono molte le persone che si portano
avanti uno stato irrisolto nella valutazione di una categoria umana. Da una
parte convivono serenamente, forse anche proficuamente, persino in un rap-
porto personale impegnato; e dall’altra, conservano una valutazione negativa
per la categoria nel suo insieme.

f ) Argomento ad verecundiam

Certamente non sono da confondere gli argomenti ad ignorantiam e ad


verecundiam. Tuttavia quest’ultimo illumina bene quanto abbiamo visto, per-
ché anche qui l’ignoranza gioca un ruolo decisivo. Esso trae il suo nome dalla
vergogna che l’interlocutore potrebbe provare nell’ammettere che non cono-
sce un’autorità che è stata citata, e perciò l’accetta. Chi usa questa mossa come
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 47

strategia prevede quella reazione di fronte al suo sfoggio di scienza e quindi


gioca con l’ignoranza altrui (unita all’amor proprio e forse anche alla timidez-
za). Gli stereotipi sono spesso efficaci perché chi li accetta lo fa per paura di
andare contro un’autorità, quella dell’autore di moda o quella dell’“opinione
comune”. Spesso è solo una vaghissima impressione che quello sia il pensiero
imperante, o l’opinione degli anticonformisti (se il luogo comune è quello), o
quello dei progressisti o quello dei conservatori, ecc.
Un personaggio de Il ritratto di Dorian Gray molto celebre, forse più anco-
ra del protagonista, è Lord Henry Wotton. Egli ha una rara abilità per asserire
con efficacia il contrario di ciò che tutti sostengono o il contrario del buon
senso. Durante un ricevimento, dopo che qualcuno ha augurato a uno dei pre-
senti un matrimonio felice, Lord Henry esclama: “Quante sciocchezze dice la
gente riguardo ai matrimoni felici! Un uomo può essere felice con qualunque
donna, a patto di non amarla” (Wilde 2003, p. 184). Questo espediente gli
procura un invito a pranzo da parte di una vecchia dama, che considera Lord
Henry “un tonico veramente ammirevole, molto migliore di quelli che mi
prescrive Sir Andrew”.
Poco dopo, una nobildonna dichiara:

— Io fumo davvero troppo. D’ora in poi voglio moderarmi.


— Non lo fate, Lady Ruxton, per favore — disse Lord Henry. — La mo-
derazione è una cosa fatale. (…)
Lady Ruxton lo guardò incuriosita.
— Venite da me un pomeriggio a spiegarmi questo. Mi sembra una teoria
affascinante.
Possiamo così immaginare che si siano incontrati in casa della nobildonna
e, abbandonata ogni moderazione, abbiano bevuto cinque litri di the a testa.
In ogni modo, è ammirevole e affascinante quanto dice Lord Henry forse per-
ché fa intravedere una giustificazione per le proprie debolezze, ma dal punto
di vista dei motivi per accettarlo il punto di forza sta nel timore di opporsi a
qualcosa che a quanto pare tutti sanno, almeno tutti quelli in cui uno si rico-
nosce. Ecco perché è un argomento ad verecundiam e porta con sé un elemen-
48 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

to di ignoranza. Così pure, l’accettazione dello stereotipo è spesso mossa dalla


vergogna di non sapere ciò che “tutti sanno”. E poi, certo, dalla comodità di
accontentarsi di quell’informazione.

4. Risorse disponibili

E così possiamo ora pensare alle possibili risorse per la gestione dello ste-
reotipo. È evidente che contro l’ignoranza c’è la conoscenza, l’informazione.
Questo però si può rivelare una trappola. Bisogna offrire informazione, su
questo non c’è dubbio, ma più rilevante ancora è il modo di farlo. È chiaro che
spesso la disinformazione contiene informazione corretta. È anche assodato
che l’esperienza concreta spesso non riesce a cancellare il cliché che contraddi-
ce. Nei primi messi del 2010 si parlò molto di uno studio che aveva già una
lunga storia e poi pubblicato sulla rivista Political Behavior (Nyhan, Reifler
2010), dove si sostiene che le false informazioni non si superano con le retti-
fiche, anzi spesso le rettifiche le rafforzano. Ciò è dovuto in buona misura al
fatto che l’effetto del chiarimento è governato da posizioni ideologicamente
prese4. Sebbene la ricerca si incentri sul campo politico, le conclusioni rifletto-
no una realtà più ampia, e certamente illuminano la natura degli stereotipi in
generale5. Come si combatte allora l’ignoranza?
In casi particolari, poco numerosi, di persone veramente serie, in grado di
affrontare un’analisi imparziale al modo d’uno studio sociologico, è proponi-
bile una disamina dei dati per chiarire il malinteso. Di solito però l’attenzio-

4  È illustrativa la serie di ipotesi presentate per l’analisi: “Hypothesis 1 (Ideological In-


teraction): The effect of corrections on misperceptions will be moderated by ideology. Hy-
pothesis 2a (Resistance to Corrections): Corrections will fail to reduce misperceptions among
the ideological subgroup that is likely to hold the misperception. Hypothesis 2b (Correction
Backfire): In some cases, the interaction between corrections and ideology will be so strong
that misperceptions will increase for the ideological subgroup in question” (Cfr. Nyhan, Reifler
2010, p. 309).
5  Anche Arcuri e Cadinu dedicano spazio a “gli effetti ironici dei tentativi di soppressione
degli stereotipi” (Arcuri, Cadinu 1998, p.159).
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 49

ne si dovrà rivolgere ad altre qualità della comunicazione, ad altri mezzi di


persuasione.
Nella maggior parte dei casi è controproducente conferire all’informazione
una forma espositiva sistematica, come di chi vuole dimostrare, confutare. È
più efficace il ricorso al caso concreto non come parte di un processo induttivo,
ma come esempio (paradeigma), soprattutto se sono storie umane, con anima,
perché esse hanno una vita propria. Octavio Paz fece nel 1937 un viaggio in
Spagna assieme a molti intellettuali messicani che volevano far sentire una
voce “antifascista” durante la Guerra Civile degli anni 1936-19396. Durante il
soggiorno, Paz ebbe occasione di arrivare fino al fronte, quasi a contatto con il
nemico, in un fabbricato dove lo poteva persino sentire, e riferisce che fu per
lui una scossa avvertire in loro una normalità che non si aspettava: quei nemici
erano uomini! (Cfr. Paz 1990, p. 106). Non erano dei mostri, si raccontavano
barzellette e dicevano cose come “passami una sigaretta”.
Conviene quindi evitare l’induzione. È conveniente evitare persino l’appa-
renza di induzione. Di fronte allo stereotipo non è la ragione la prima facoltà
chiamata in causa ma un insieme di risorse che Aristotele chiama buona vo-
lontà (eunoia7), che possiamo definire come volontà di capire8. Quando uno
non vuole capire, ogni informazione, per quanto opportuna e perspicua, ri-
mane insufficiente. È evidente però che la volontà dell’interlocutore non è la
nostra, non è nelle nostre mani la facoltà di farla agire. Possiamo solo provare
a suscitarla, e a questo scopo il modo migliore è mostrare quella propria9 (Cfr.
Jiménez Cataño 2006: pp. 97-104), perciò non è di solito indicato il tono di
sfida ma, tutt’al contrario, la mitezza nel chiarimento.
Come si può vedere, questo esula dai tempi ragionevoli di un dibattito.
Sono i tempi dell’educazione, della maturazione. Taluni argomenti possono

6 Di questo viaggio egli si rammaricò più tardi perché diventò una specie di baccanale che
nulla aveva a che fare con le convinzioni politiche.
7  Aristotele, Retorica, II, 1378a.
8  Benedetto XVI la formula in una maniera molto indovinata: “quell’anticipo di simpatia
senza il quale non c’è alcuna comprensione” (Benedetto XVI 2007, p. 20).
9  Cfr. anche Aristotele, Retorica, II, 4.
50 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

richiedere anni. I già citati Arcuri e Cadinu spiegano che “un eventuale cam-
biamento degli stereotipi si può realizzare solo con lentissime progressioni e
solo nella misura in cui gli attributi che ne segnano la modificazione si inter-
connettono in maniera estensiva e duratura con il nodo concettuale” (Arcuri,
Cadinu 1998, p. 70).
Ho presentato parte di quanto sto proponendo qui come lectio magistralis
all’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011, nella mia università, che
è la realizzazione postuma di un desiderio di san Josemaría Escrivá (1902-
1975). Proprio in alcune sue lettere avevo avvertito suggerimenti dialettici
quanto mai azzeccati e un evento così istituzionale era l’occasione ideale per
andarli a ritrovare. Egli scriveva: “Conversare richiede agire con cortesia, saper
ascoltare, avere fiducia nell’intelligenza, ripudiare la violenza come metodo
per convincere. La violenza non è mai una soluzione, la violenza di per sé è
stupida. Quando una macchina non funziona, la soluzione non è mai darle
botte, ma lubrificarla, oliarla. Nei rapporti umani l’olio è il dialogo amabile,
la giustizia intrisa di carità”10.
Penso che per violenza – respinte senz’altro quella fisica e anche quella
verbale che si traduce in insulti, minacce, ecc. – qui si intenda più verosimil-
mente il discorso che si impone con l’autorità o con la forza di argomenti
forse anche validi ma più ingiunti che proposti alla comprensione dell’inter-
locutore. In ogni caso è probabile che, sebbene non sarà difficile alla maggior
parte dei lettori trovare condivisibile la messa al bando della violenza, tuttavia
rimanga l’impressione che in questa descrizione delle esigenze di una conver-
sazione le risorse dialettiche si riducano. È legittimo domandarsi perché mai
si dovrebbe essere cortesi, o su quale base potremmo fidarci dell’intelligenza
altrui. Dovremmo appellarci ad un’antropologia cognitiva e ad una teoria del
dialogo, ma per il momento basti segnalare che è una questione di fini. Nel
suo celebre manualetto di disputa eristica, Schopenhauer propone stratagem-
mi ben lontani da questa considerazione per la persona dell’interlocutore, ma

10 Escrivá 1965: n.33. La traduzione è mia. Sulla natura di queste lettere, cfr. Illanes 2009:
pp. 246-257.
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 51

il suo gioco è chiaro: lo scopo è quello di vincere in una discussione, non quel-
lo di raggiungere o condividere una verità né tanto meno quello di educare
nessuno. Egli spiega che ci sono dialoghi in cui si cerca la verità e dialoghi
in cui lo scopo è “ottenere ragione, dunque per fas et nefas [con mezzi leciti
e illeciti]” (Cfr. Schopenhauer 2004, p. 903), perché, “di regola, chi disputa
non lotta per la verità, ma per imporre la propria tesi”11. Siccome lo scopo del
dialogo di cui parla san Josemaría è la condivisione della verità, e visto che l’in-
terlocutore viene preso nella sua integrità di persona, egli invitava ad esporre
“la verità serenamente, in maniera positiva, senza polemica, senza umiliare,
lasciando sempre all’altro un’uscita dignitosa” (Escrivá 1932: n.70). Questo
mi sembra un modo chiaro di mostrare la propria buona volontà. Ed è anche
una rinuncia a far leva sulla vergogna altrui. Così, quando poi capiterà a me di
avere torto, questo stesso atteggiamento mi aiuterà a scoprirlo e ad accettarlo.
La proposta di applicare questi suggerimenti nella gestione degli stereotipi
risponde al forte radicamento che essi hanno nella nostra mente, il che costi-
tuisce anche un problema di visione: finché un nostro concetto avrà le caratte-
ristiche dello stereotipo, non ci consentirà di vedere altro, donde l’esigenza di
ricorrere alla buona volontà, che sposta il peso dell’attenzione fuori dall’ambi-
to concettuale. Si potrebbe dire che chi ha come scopo vincere in una disputa
può fare uso di risorse più “forti” – la sfida, il sarcasmo, la polemica – di chi
invece vuole condividere una verità e trattare l’interlocutore come un “altro
io” (Etica Nicomachea, IX, 4, 1166a 32). Se però ha l’intenzione di debellare
qualche stereotipo, è probabile che riesca solo ad indurirli ulteriormente.
Perciò san Josemaría scendeva persino allo specifico suggerimento di “non
stravincere” (qui usava il verbo italiano12) come una dimostrazione di delica-
tezza. Schopenhauer – il contrasto è drastico, ma illuminante – proponeva
l’argumentum ad verecundiam proprio come uno stratagemma, con l’esplicito

11  Si spiega pure che in quelle dispute bisogna presupporre slealtà e vanità nei partecipanti
(Cfr. Schopenhauer 2004: pp. 904-5).
12 Escrivá 1965: n.33: “Es necesario tener la delicadeza de no apabullar, de no stravincere,
como dicen en italiano, de no llevar las cosas más allá de lo necesario”.
52 RAFAEL JIMÉNEZ CATAÑO

invito a servirsi dei pregiudizi esistenti e con la consapevolezza che “le autorità
che l’avversario non capisce affatto per lo più producono l’effetto migliore”
(Schopenhauer 2004, p. 932); e con la stessa pragmaticità egli garantisce il
successo in un altro stratagemma – quello di cantare vittoria senza fondamen-
to – “se l’avversario è timido o sciocco”13.
“Lasciare all’altro un’uscita dignitosa”, “non stravincere”, sono strategie
tutt’altro che vincenti nel senso dell’opuscolo di Schopenhauer. Se però si
tiene ben presente la distinzione dei fini, sarà possibile apprezzare un nuovo
giro di vite “perdente” in cui io trovo una risorsa paradossalmente efficace se
lo scopo del dialogo è condividere la verità nel rispetto dell’altro: “A volte la
carità più fine sarà far sì che l’altro rimanga nella convinzione di essere arrivato
per conto suo a scoprire qualche nuova verità” (Escrivá 1932: n. 70).
L’accurata attenzione alla buona volontà nella gestione di concettualizza-
zioni difettive è anche pertinente in funzione preventiva, per evitare il difetto
in contesti che presentano quel rischio, come succede in ogni uso di analogie,
metafore, metonimie14. La distanza fra il senso letterale e ciò che si vuole co-
municare è sempre una non identità e racchiude quindi una certa ignoranza
che deve essere superata, il che richiede altrettanta volontà di vedere e di capire.

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13  “Schüchtern oder dumm” dice l’originale, ingentilito nella traduzione (Schopenhauer
2004, p.926).
14 Dove le fallacie in agguato sono generalizzazione indebita, falsa analogia, caricatura,
antagonista di comodo (straw man), pio desiderio (wishful thinking), e inoltre i cliché che
abbiamo or ora analizzato.
Risorse per gestire stereotipi e fenomeni simili 53

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PAOLO BOSCHI

Fatti, valori e dibattito

Abstract

Talora un'argomentazione logica e sequenziale è fondata su dati decodificati in modo


improprio. Il costrutto è allora viziato dalla mancanza di un presupposto fondante
valido, rendendo il confronto inutile o fuorviante. Al fine di contenere questo rischio
l'articolo indaga le difficoltà ricorrenti della percezione, intesa come sintesi dei dati
sensoriali alla ricerca di forme dotate di significato. Poiché la percezione della realtà
cambia da un soggetto all'altro, viene poi rilevato come la definizione di fatto, i valori,
il metodo stesso dell'argomentazione siano funzioni della visione del mondo che ca-
ratterizza ciascun attore del dibattito. Vengono quindi percorsi i legami fra chi dibatte
e gli astanti. Una proposta finale motiva e sostiene lo scambio fra cognitivisti, filosofi
e retori.

1.  La situazione

Il tema prende le mosse da alcune fra le riflessioni di Adelino Cattani, per


le quali l’argomentare è un atto inferenziale comunque diverso dal dimostrare,
dove le ragioni rilevano sia per quantità e modo che per qualità e pertinenza.
Tutto ciò conduce a rilevare come un’argomentazione logica e sequenzia-
le possa, talora, fondarsi su dati di partenza erronei o decodificati in modo
improprio. In questi casi il costrutto sarà sì corretto in quanto tale, ma vi-
ziato dalla mancanza di un presupposto fondante riconoscibile come valido.
Il confronto sulle ragioni sarebbe allora inutile o fuorviante. Tale situazione
è rappresentata allegoricamente da chi, allacciando l’ultimo bottone di una
camicia, si accorgesse di aver sbagliato tutte le asole. A ben guardare solo l’er-
rore compiuto con il primo bottone è da considerare veramente tale, mentre i
disallineamenti successivi sono solo le sue conseguenze logiche.
56 PAOLO BOSCHI

Il mondo attuale, mutevole e intercorrelato, rende ancora più complessa la


questione, che impone un’attenzione elevata a questa possibile criticità. Divie-
ne pertanto naturale e ineludibile uno sviluppo significativo della capacità di
leggere i contesti e le costruzioni verbali, al fine di accrescere una sensibilità e
una tecnica utili per vedere quello che va effettivamente visto, in modo da non
ingannarsi o lasciarsi ingannare alle pendici di un dibattito.
La questione è tanto più importante poiché l’aggiornamento e lo sviluppo
continuo delle capacità di comunicazione risulta uno degli elementi fonda-
mentali per interagire in maniera consapevole nella società contemporanea,
non per “diventare bravi” o “più bravi”, ma per sviluppare i propri modelli
comportamentali, adeguandoli alla situazione attuale e alle sue previsioni di
sviluppo. Alla base di tutto ciò sta, in modo naturale e forse ineludibile, lo
sviluppo significativo della capacità di leggere i contesti e di comunicare.
Una delle prime difficoltà da affrontare si rintraccia nel fatto che ogni dato,
che ci ostiniamo a definire come “imparziale”, “spassionato, “realistico” oppu-
re “obiettivo”, possa invece:

 presentarsi in modo parziale;


 risultare diverso a seconda del contesto e dell’angolo di visuale;
 cambiare aspetto a seconda della distanza da cui viene osservato;
 essere variamente interpretato dall’osservatore, causando incidenti
percettivi anche rilevanti.

Parafrasando un antico adagio della tradizione toscana, talvolta “fra il dire


e il vero c’è di mezzo il mare”.

2.  Casi ricorrenti

Se la situazione descritta sin qui può essere fonte di normale difficoltà in


casi usuali, il problema si complica enormemente in un mondo professionale
complesso come quello di oggi, mutevole e sempre più intercorrelato. Il tema
Fatti, valori e dibattito 57

merita quindi elevata attenzione, prendendo in considerazione le principali


criticità che possono sovente caratterizzarlo.

Primo aspetto: “dato parziale”.

Consideriamo ad esempio un dato per


cui nel secondo semestre 2010 gli infor-
tuni mortali sul lavoro sarebbero “dimi-
nuiti del 7,2%”. Questo dato “obiettivo”
– e chi osa mettere in dubbio le statisti-
che dell’Inail? – sembrerebbe estrema-
mente rassicurante, tale da coonestare il
lavoro del legislatore sui testi unici per la
sicurezza e quello degli spot pubblicita-
ri nel merito. Occorre però considerare
che questa consolante informazione potrebbe essere integrata da un’altra,
per la quale nello stesso periodo le ore lavorate sarebbero diminuite di una
percentuale significativamente maggiore. Comparando le due informazioni,
verrebbe da considerare che forse gli incidenti sul lavoro non siano affatto
diminuiti, quanto piuttosto aumentati.
Ciò illustra con chiarezza la questione percettiva: se il primo dato - asso-
lutamente vero - viene considerato da solo permette una serie di elogi a tutto
ciò che gravita intorno alla sicurezza, dallo sviluppo della normativa alla diffu-
sione dell’uso dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.). Quando trova
collocazione in un contesto più ampio e cessa di costituire una visione parziale
della realtà contrabbandata per l’intero, narra tutt’altra situazione e suggerisce
l’opportunità di ulteriori interventi. Sarà allora nostra cura rifuggire da facili
entusiasmi e indagare, contestualizzando l’informazione nel suo più ampio
quadro di riferimento. Quanto più l’interlocutore farà esistenza, evitando di
rispondere o assumendo toni definitivi, tanto più sapremo di essere sulla buo-
na strada.
58 PAOLO BOSCHI

Secondo aspetto: “dato che risulta diverso a seconda del punto di


osservazione”.

Consideriamo questa immagine, dalla quale si


ricava l’impressione che sia una statua a “fare cane-
stro”. Certo, tutta la nostra esperienza ci dice che i
monumenti sono affetti da una certa qual rigidità,
che impedisce di credere fino in fondo a quello che
propone il colpo d’occhio. Proviamo a immaginare
una situazione del genere in altri contesti e la diffi-
coltà diventa subito chiara, con tutti i pericoli che
vi possono essere connessi. Al riguardo, i formatori
tradizionali sono soliti esemplificare questo con-
cetto citando una novella zen, il cui succo è all’incirca: “Un monaco attraversa
una regione agricola. Dietro una stecconata, vede un uomo che zappa stando
seduto. Scandalizzato da tanta pigrizia, gira intorno al recinto per trovare l’ac-
cesso e rimproverare l’uomo. Giunto dall’altro lato, si accorge però che l’uomo
è mutilato di una gamba e che, quindi, quello è forse l’unico modo che ha per
compiere il suo lavoro. Avendo visto la situazione da ambo i lati, lo loda” (se
qualcuno ha la versione integrale e vuole segnalarmela, il mio indirizzo email è
p.boschi@apogeoform.net). La novella chiarisce il concetto, anche se il monaco
lascia perplessi per il modo in cui si forma un giudizio senza aver prima indaga-
to. Cerchiamo quindi di comportarci in maniera più riflessiva. Più in generale,
ecco un monito dell’umorista statunitense Josh Billings: “Se vuoi giungere alla
verità, di regola, ascolta le due campane e non credere a nessuna delle due”.

Terzo aspetto : “dato che muta aspetto per la distanza da cui viene
osservato”.

L’osservazione di questa immagine da distanze diverse (provate!) esempli-


fica il rapporto fra visione strategica e visione operativa, laddove la strategia
Fatti, valori e dibattito 59

può essere definita come “scienza/arte dei piani


d’azione a medio/lungo termine, per impostare e
coordinare le azioni verso l’obiettivo” (dal greco
στρατηγός, ossia “generale”), mentre la tatti-
ca è data da “un insieme di accorgimenti tecnici
per utilizzare al meglio le risorse in ogni azione,
tenendo conto del regime di vincoli, in vista
dell’obiettivo finale”.
Pertanto la strategia porta l’attenzione su-
gli insiemi, dovendo quindi e per forza di cose
prescindere dai dettagli per considerare scenari e
operazioni complesse. La tattica, invece, richiedere concentrazione sui parti-
colari. Questo fenomeno, del tutto necessario se non addirittura naturale e
opportuno, può condurre a difficoltà di comprensione quando i diversi piani
vengano mischiati senza controllo o interlocutori attestati – o arroccati – sulle
rispettive pozioni non intendano considerare l’uno quella dell’altro. In termi-
ni metaforici, lo stratega non vede la farfalla per effetto del volto di donna,
mentre il tattico non scorge il volto per effetto dei fiori. Per contribuire al
dialogo e generare interessanti e proficue sinergie, occorre portare l’attenzione
sui ruoli dei diversi attori del processo e modulare di conseguenza la comuni-
cazione. In tal modo ciascuno dovrebbe poter sviluppare la propria attività in
maniera sempre più consapevole e produttivo, in un orientamento sistemico
ai risultati.

Quarto aspetto: “dato variamente interpretato dall’osservatore”.

È noto come una stessa immagine possa dare luogo a interpretazioni anche
molto distanti in persone diverse, o come un medesimo concetto possa con-
cretizzarsi in immagini di significati simbolici fra loro assai lontani. Probabil-
mente questa problematica è nell’esperienza della maggior parte delle persone.
Per averne un ulteriore esempio può essere significativo osservare il quadro di
60 PAOLO BOSCHI

Dalì che raffigura il mercato degli schia-


vi, dove però qualcuno vede il ritratto di
Voltaire. Diventare consapevoli del feno-
meno permette di contenere malintesi,
perdite di tempo e altri inconvenienti
comici, irritanti o pericolosi.
Fra i principali motivi che portano
gli esseri umani a percezioni diverse di
uno stesso fenomeno si individuano il contesto, le esperienze del passato, i
bisogni e le aspettative. Studi specifici hanno dimostrato che anche le con-
vinzioni individuali possono concorrere a deformare il dato di realtà. Ad
esempio, persone alle quali sono state mostrate immagini contrarie alla pro-
pria visione del mondo hanno riposto alla richiesta di riferire quello che
avevano visto travisando o addirittura ribaltando i termini proposti dall’im-
magine, per ricondurli nell’alveo delle propria visione del mondo, pur nella
sicurezza fortemente difesa – per quanto arbitraria - di dare un resoconto
corretto.
Gli aspetti più cupi di questo fenomeno sembrano spiegabili attraverso
il concetto di “ideologia” per come viene modernamente inteso. Per mag-
giore chiarezza, occorre dedicare una breve nota
all’evoluzione del termine. Come origine, appare
per la prima volta nell'opera Mémoire sur la fa-
culté de penser del 1796 di Antoine-Louis-Ca-
lude Destutt de Tracy (1754-1836) con il signi-
ficato di “scienza delle idee e delle sensazioni”.
Risulta che a quel tempo l'ideologia si riferisse
principalmente al pensiero di John Loke e Con-
dillac, ricorrendo anche ad una base fortemente
materialistica e utilizzando gli studi sulla fisio-
logia del sistema nervoso di Pierre Jean Georges
Cabanis. Per l’opposizione espressa dagli ideolo-
gi al suo sistema di governo, Napoleone utilizzò
Fatti, valori e dibattito 61

il termine in senso dispregiativo, indicando negli ideologi i “dottrinari”, colo-


ro che avevano poco contatto con la realtà e scarso senso politico.

Fu a partire da qui che il termine perse la sua connotazione esclusivamente


filosofica, acquisendo connotati sempre più vicini alla nozione moderna, vici-
na a quella di dogmatismo. Si arriva così alla definizione attuale del dizionario
di italiano Sabatini Colletti, per il quale “ideologico” è, per estensione, ciò
che risulta “condizionato da idee preconcette,
da pregiudizi” , tanto da portare a costruzioni
di frasi come: “il suo modo di vedere le cose è
ideologico”.
Esemplifica il tutto un caso enucleato dal-
la psicologia della testimonianza, per il quale
quando più persone che affermino di aver as-
sistito allo stesso evento criminoso ne danno
un’identica versione, l’una in modo indipen-
dente dalle altre, c’è ragionevole certezza che stiano mentendo di concerto.
Infatti, già il solo angolo visuale di ciascun astante può diversificare le rispet-
tive percezioni. Se a ciò si aggiungono i diversi livelli di attenzione ai dettagli,
il grado di memoria, gli effetti di distorsione causati dall’impressione più o
meno forte che l’evento abbia causato in ciascun astante e i risultati del pregiu-
dizio su alcuni sospetti, ad esempio a causa della loro etnia, diviene lampante
come le narrazioni dovrebbero divergere, almeno su alcuni elementi.
Una particolare attenzione, che tenga conto degli effetti perversi della perce-
zione indagati sin qui, integrati con tutti gli altri elementi maturati nel tempo
e con l’esperienza, può consentire di procedere prevenendo sorprese sgradevoli.

3.  Altri casi

Talvolta si cerca di ovviare ai problemi di percezione compiendo un’opera-


zione definita “basarsi sui dati”. Questo accorgimento può invece complicare
62 PAOLO BOSCHI

ulteriormente i rapporti, quando talune distorsioni della cultura contempora-


nea inducano operazioni improprie. Se da un lato sono poche le occasioni per
esibirsi in lezioni di analisi e statistica, dall’altro occorre comunque riconosce-
re gli errori e porvi rimedio.

Due casi ricorrenti di interpretazione erronea dei dati riguardano:

 l’aspetto quantitativo;
 l’aspetto probabilistico.

Nel primo caso, aspetto quantitativo, non


viene definita numericamente l’importanza di un
dato. Si consideri ad esempio il consiglio da far-
macopea pubblicitaria: “La vitamina C combatte
i radicali liberi: mangia un’arancia!”. Ammesso
che i radicali liberi siano da combattere a prio-
ri, la dose proposta è sufficiente o no? Difficile
instaurare un dibattito nel merito se prima non
vengono prese in considerazione e risolte queste due questioni pregiudiziali.
Lo stesso inconveniente si verifica con qualsiasi altro dato quantitativo trattato
in maniera generica.
L’aspetto probabilistico rileva almeno in due fattispecie. La prima riguar-
da l’errore di aprobabilità, come nel caso dell’avvinazzato cronico che ben
potrà citare a difesa delle proprie abitudini un alpino ottuagenario che beve
due fiasche di brandy al giorno da quando aveva sei anni e ancora si reca a
piedi in cima al Monte Cauriol tutte le volte che gliene prende lo sghiribizzo.
Ora, ammesso anche che un cotanto fenomeno umano esista, è l’unico noto e
di certo statisticamente non rilevante. Ma vaglielo a spiegare.
La seconda fattispecie è definibile come “errore di fuga”. Si sostanzia quan-
do taluno rifugge in toto da una situazione, con ripiegamento talora disordi-
nato o evitamento assoluto, senza calcolare le possibilità che un evento nega-
Fatti, valori e dibattito 63

tivo temuto e non voluto possa effettivamente accadere, né verificare quanto


sia contenibile con adeguate precauzioni.
Ben lo sanno gli assicuratori, quando incontrano un cliente che risulta in-
disponibile a riconoscere il grado di probabilità del verificarsi di taluni eventi
infausti, per una sorta di fede magica in una particolare configurazione del
mondo per la quale “a lui certe cose non accadono”. In questi casi, come
in molti altri simili, portare statistiche e articoli di giornale a sostegno delle
proprie tesi può essere d’aiuto, anche se parziale. Talvolta può valere la pena
di sensibilizzare familiari e altri interlocutori che possano contribuire a deter-
minare le scelte di chi non accetta altrimenti il mondo per come in effetti è.

Come caso estremo di errore di interpretazione, talora i dati sono


disponibili tuttavia non vengono considerati. Si possono generare al-
lora errori di:

 irrazionalità;
 emozione;
 semplificazione.

Nel primo caso, irrazionalità, il soggetto può arrivare ad assumere posi-


zioni e/o prendere decisioni in base a elementi non collegati al contesto. I casi
più ricorrenti sono quelli della superstizione e dell’astrologia da rotocalco.
Nel secondo caso, emozione, i co-
strutti vengono elaborati sull’unica base
dei sentimenti. EW’ da ritenere che tale
modalità possa presentare limiti peri-
colosi. Già in termini cartesiani il sen-
timento non ha a che fare con la ma-
terialità del corpo, bensì con “un moto
dell'anima che diviene oggetto passivo
di una forza che la sovrasta”. Anche il
64 PAOLO BOSCHI

“sentire del cuore” di Pascal sembra poco ra-


zionalizzabile, organizzabile e trasmissibile in
maniera strutturata. Più funzionale risulta la
visione di Leibniz, che reputa difficile consi-
derare il sentimento come un atteggiamento
conoscitivo poiché produce un sapere confu-
so, incerto e ambiguo rispetto a quello che
deriva dalla razionalità.
Diverso è l’intuito, inteso come quel tipo di conoscenza immediata che se-
condo alcuni non si avvarrebbe del ragionamento o della conoscenza sensibile.
In quest’ottica, da Platone a Kant e da Schelling a Cusano si arriva a Bergson,
che attribuisce all’intuito la possibilità più istintiva e genuina di portare a solu-
zione ogni problema per la sua capacità di andare ol-
tre la rigidità materiale del pensiero razionale. Rileva
qui anche il concetto di “intuizione”, che secondo
Jung è un processo di intervento dell'inconscio con
cui la mente riesce a percepire i modelli della real-
tà nascosti dietro i fatti. In un certo senso, potreb-
be quindi trattarsi di un raptus cognitivo talmente
rapido da sfuggire alla percezione, pur rimanendo
tale. Importante sarebbe, ai fini dell’analisi del dato
e della successiva costruzione di argomentazioni, che ogni soggetto cercasse di
maturare una qualche forma di consapevolezza del processo che pone in essere.
Modernamente ricorre invece un modo di procedere basato sui meri sen-
timenti, chiamati proditoriamente “intuito” e difesi in modo aggressivo con
logorroiche pretese di razionalità. Il fenomeno si evidenzia in talune trasmis-
sioni televisive criminogene, che arrivano a proporre scelte basate su pastiche
pseudo-istintivi, in realtà meramente egocentrici. L’approccio standard è ri-
assumibile in affermazioni del tipo: “Io sono così e mi comporto di conse-
guenza, tu devi tenerne conto e non venirmi a fare la morale perché non mi
conosci e comunque quando ho una sensazione so che è vera e tu non cercare
di sviarmi con i fatti, tanto lo so io che cosa va bene per me”.
Fatti, valori e dibattito 65

Nel terzo caso, semplificazione, si cerca un mo-


dello facile, ad es. una monocausa o un rinforzo di
quanto sia già esistente (ipersoluzione), quando la si-
tuazione in esame si presenta ben più variegata. Vale
qui la pena di richiamare l’indicazione di Leon Wo-
ods, secondo cui “il complicato va semplificato, ma
il complesso può essere solo capito e gestito”. In tutti
questi casi le obiezioni dell’interlocutore non possono
essere né “aggredite” né tanto meno “demolite”, poiché ogni attacco diretto ottiene
in genere il solo effetto di rinforzarne le posizioni. Meglio sarà un’opera di gestione,
tenendo distinte le conclusioni raggiunte per intuito, che possono avere una loro
validità, da quelle irrazionali o emotive, che spesso risultano pericolose e fuorvianti.

4. Parole valigia

Un’attenzione particolare merita uno strumento concreto per sostenere il


governo della comunicazione in tempi turbolenti: l’attenzione ai concetti e alle
parole cosiddette “valigia”. Si tratta di espressioni, o anche di singoli vocaboli che
sembrano mettere tutti d’accordo solo perché permettono a ciascuno di attribuire
loro il significato che più gli è congeniale, anche se diverso da quello degli altri.
Alcuni esempi tratti dal dibattito politico e dall’ambiente familiare esem-
plificano il concetto in tutta la sua nefanda importanza. Un esempio valga per
tutti: certo tutti siamo d’accordo
sull’opportunità di “premiare il me-
rito”. La discussione potrebbe tut-
tavia farsi aspra quando si tratti di
decidere se il “merito” corrisponda
all’impegno o al risultato, soprattut-
to se a seconda dell’accezione scelta
taluno rimanesse escluso dai ricchi
riconoscimenti. Anche questo tipo
66 PAOLO BOSCHI

di consapevolezza permette di strutturare meglio il divenire del dialogo, di


raccogliere informazioni precise e complete e, all’occorrenza, di condurre la
conversazione in una direzione specifica.

Concetto soggettivo espresso Domanda di verifica per evitare


in modo oggettivo solo interpretazioni personali ed
all’apparenza (talvolta nemmeno arbitrarie
quella)
La crisi di governo non deve E perché?
succedere
È chiaro a tutti che….. “A tutti” chi? “Chiaro” come e
perché?
Test clinici confermano che… Quali test? Fatti da chi?
Costa poco…. “Poco” quanto?

Per rafforzare le possibilità di utilizzo dello strumento, provi il lettore a


completare la tabella che segue, per poi confrontare le proprie soluzioni con
quelle alla fine del testo. Nel farlo, tenga presente che talvolta esistono più
campi di indagine, ognuno dei quali con diverse possibilità di formulazione,
tanto da rendere legittime altre possibilità oltre quelle proposte.

Concetto soggettivo espresso in Domanda di verifica per evitare


modo oggettivo solo all’apparenza interpretazioni personali ed
(talvolta nemmeno quella) arbitrarie
Se mi eleggete farò le riforme che
servono
Ci vuole troppo
Fuori fa freddo
È vicino
Fatti, valori e dibattito 67

5. Attenzione, capacità e consapevolezza

In definitiva, affinché un confronto possa avere un buon punto di partenza


condiviso, o almeno condivisibile, occorre prestare attenzione a:

 grado di completezza delle informazioni;


 corretta lettura dei dati;
 parametri utilizzati per la valutazione dei dati;
 effettiva considerazione dei dati.

Rilevante anche, per evitare dolorosi malin-


tesi ed equivoci cruenti, verificare la condivisio-
ne del significato attribuito ai termini utilizzati
durante lo scambio. Come avvertiva Cicerone in
tempi non sospetti, “ogni trattazione sistemati-
ca di un argomento deve iniziare con una defi-
nizione, così che tutti possano capire l’oggetto
dell’analisi” (De officiis, I,19-21). Se ciò non
avviene all’inizio, è possibile rimediare in corso d’opera. L’onere spetta a chi
per primo abbia il sospetto di un’intrusione anfibologica fra i termini in uso.
A tutto ciò si aggiunga il dovere di meditare sulla direzione da prendere,
intesa come responsabilità personale. Nel dibattito si argomenta infatti con
ragioni che, se ben sostenute, possono arrivare non solo a convincere, ma
persino a persuadere interlocutore e astanti, spostandoli dal loro punto di
vista originario per convogliarli verso nuovi orizzonti. La distinzione non è
da poco. Infatti, l’atto di “convincere” punta a indurre l’accettazione di una
proposta o l’ammissione di un fatto meditante l’evidenza delle prove o la va-
lidità degli argomenti addotti. Riguarda quindi la sola parte razionale dell’in-
terlocutore. Per contro, la persuasione è volta a conseguire l’approvazione o la
fiducia attraverso un’opera o un motivo personale di convinzione. Riguarda
l’immaginazione, il corpo, il sentimento, tutto ciò che non è ragione. Èil pri-
68 PAOLO BOSCHI

mo passo verso un’azione forte. Quindi, Per chi tende al risultato, persuadere
più che convincere.

In altri termini, la capacità argomentativa di per se stessa pone chi ne fa


uso nella condizione di poter spingere avanti il ragionamento nel suo divenire
fino alle estreme conseguenze, oppure di mettervi un punto fermo, nella con-
sapevolezza e responsabilità che la scelta è arbitraria e che gli esiti dell’azione
possono condizionare il pensiero e le azioni altrui, fino a segnarne le scelte e
gli sviluppi di vita, con conseguenze variamente
definibili.
La cosa si complica considerando come le con-
clusioni di un’argomentazione possano convince-
re anche e in primo luogo chi sta argomentando,
attivando un processo circolare: chi argomenta ha
una sua visione della realtà, che può essere viziata
da tutti gli inconvenienti esaminati sin qui. Tut-
tavia, quando le proposizioni si susseguono l'un
l'altra in modo congruente e sequenziale, quando
si arriva al punto in cui si decide di fermarsi, sem-
bra che non sussistano motivi per ritenere che la
conclusione possa essere falsa. Ergo, deve essere
vera. E se è necessariamente vera non è possibile non crederci, poiché la verità
è ciò che necessariamente è. Solo che qualche volta potrebbe non risultare tale,
proprio per la parzialità distorta del dato di partenza. Già questo dovrebbe
essere sufficiente per far porre solenni interrogativi a chi ritiene di possedere
verità universali.
Poiché la percezione della realtà cambia da un soggetto all’altro, occor-
re ancora osservare come le precondizioni della validità di qualsiasi discorso
argomentativo non possano essere assolute: la definizione di fatto, i valori, il
metodo stesso dell'argomentazione divengono funzioni della visione del mon-
do che caratterizza ciascun attore del dibattito, retore o astante che sia. Si
veda al riguardo e per tutti il lavoro di Perelman e Olbrechts-Tyteca, dove la
Fatti, valori e dibattito 69

competenza argomentativa è sempre e comunque individuata come relativa,


dal punto di vista gnoseologico, pedagogico e morale.
Così, un’argomentazione adatta per convincere o persuadere un determi-
nato uditorio potrebbe addirittura risultare neppure comprensibile per un al-
tro. Allo stesso modo, visioni discordanti del mondo possono far accogliere in
modo diverso uno stesso argomento. In più, taluni argomenti godono di una
tale e radicata condivisione da poter restare impliciti, mentre altri risultano di-
sporre di uno statuto epistemico diverso nel tempo o tra gruppi sociali diversi,
per il quale vengono accettati come validi e indiscutibili in una certa epoca
o in una certa comunità e respinti in epoche successive o in altre comunità.
Per quanto è stato considerato sin qui, alla base della comunicazione in
genere e di quella argomentativa in particolare sta il fatto che ciascuno di noi
è diverso dagli altri. Questo porta a dover tenere presente che in un dibattito
davanti a un pubblico, nel formulare le proprie ragioni occorre considerare
sia l’impatto sull’interlocutore diretto che sugli astanti. Questi costituisco-
no infatti una massa in grado di manifestare reazioni fisiche o psichiche, tali
comunque da poter influire sullo stato di coloro che stanno confrontando le
rispettive ragioni. Esemplificando, se l’argomentazione è di un “amico” quasi
tutti coloro che sono schierati nello stesso campo si sentiranno portati a di-
fenderla indipendentemente dalla sua qualità concettuale, trasmettendo forza
al proprio beniamino. Se promana da un “nemico”, pressoché nessuna con-
siderazione di qualità oggettiva la potrà salvare, tanto che il malcapitato sarà
colpito da strali a dir poco frustranti. In simili condizioni estreme, impegnarsi
a costruire argomentazioni ritenute “buone a prescindere” rappresenterebbe
una perdita di tempo. Occorrerebbe allora aggirare la questione contribuendo
in primo luogo a moralizzare il sistema, impresa per la quale occorre comun-
que una buona capacità argomentativa. Nel frattempo, sarebbe comunque
indispensabile riconoscere all’uditorio la sua importanza e comportarsi di
conseguenza.
La figura qui riportata schematizza la situazione. Fra noi e l’interlocuto-
re intercorre una linea di scambio argomentativo. Da ciascuno dei due l’ar-
gomento proposto all’altro si proietta anche verso l’uditorio, con due linee
70 PAOLO BOSCHI

convergenti che concorrono a formare i due lati del triangolo che rappresenta
l’insieme dei rapporti. Nella figura, si tratta del triangolo bianco con la base
dalla parte del lettore.
Da parte sua, l’uditorio reagisce ai segnali che percepisce e risponde con
emanazioni di ritorno, che si insinuano tra i due contendenti, contribuendo a
definirne i rispettivi stati psichici e la conseguente forza dibattimentale. Nella fi-
gura, questo feedback è rappresentato dal triangolo bordato di nero con la punta
rivolta verso il lettore.
Nella configura-
zione di tale feedback
è l’uditorio a stabilire
la qualità dell’argo-
mentazione, poiché
non esiste il discorso
“chiaro e convincente
in astratto”, ma solo
discorsi comprensibili
o non comprensibili,
accettabili o non accet-
tabili per determinate
platee. Il valore della chiarezza, fondamentale per argomentare, passa dunque
attraverso una corretta analisi e definizione preventiva dell’uditorio, diretta a in-
ferire il suo modo di percepire la realtà. Infatti, per decidere di dedicare parte del
proprio tempo all’ascolto di un’argomentazione – e soprattutto per decidere se
accettarla o meno - l’uditorio ha necessità di poter percepire che quell’argomen-
tazione lo riguardi e abbia a che fare con i suoi reali interessi, che possono essere
quotidiani e concreti come il prezzo dei generi alimentari, elevati e morali come
l’abolizione della tortura, culturali e tecnici come il progresso dell’astronomia.
Al fine di ottenere consenso e sostegno da un uditorio occorre poi tenere conto
dei suoi valori e delle sue reazioni, talora variegate. Ad esempio, a un dibatti-
to su nuove forme di sostegno alla disabilità possono presenziare anche persone
normodotate, come familiari, amici e volontari legati a tale contesto. Occorrerà
Fatti, valori e dibattito 71

quindi tenere presente che il pubblico è composto da soggetti diversi con istanze
altrettanto diverse rispetto alla questione handicap. Il tema è tanto più importan-
te quanto più l’uditorio abbia un rilievo rispetto alla conclusione di un dibattito.

Un’ultima considerazione e un quesito finale

Nonostante ciò che la tavola mostra e ad onta del modo in cui le figure
costituite dai vettori di comunicazione sono state definite poco sopra, nello
schema non vi sono triangoli. Risulta allo sguardo, ma si tratta solo di un caso
di percezione amodale. Da qui il quesito: ora che sappiamo che le figure ge-
ometriche utilizzate per esemplificare il concetto non ci sono, il concetto che
essa è stata chiamata a rappresentare risulta ancora valido?
Per tutto ciò, risulta confermata l’importanza di indagare i temi della per-
cezione e della comunicazione, in modo da garantire visioni corrette del dato
di partenza e sviluppare capacità di impatto sugli astanti. I vantaggi per chi
si muovesse in tal senso potrebbero risultare molti e importanti: recupero di
tempo e chiarezza, diminuzione del contenzioso, sviluppo della capacità di ac-
quisire informazioni oggettive e, infine, aprirsi al nuovo come sviluppo fisio-
logico. Lo scambio fra cognitivisti, filosofi e oratori-retori sarebbe vantaggioso
per tutti e per ciascuno poiché , con lo slogan citato da Adelino Cattani, “è il
pensiero degli altri che ci aiuta a pensare con la propria testa”.

Proposta di soluzione alla ricerca

Concetto soggettivo espresso in Domanda di verifica per evitare


modo oggettivo solo all’apparenza interpretazioni personali ed
(talvolta nemmeno quella) arbitrarie
Se mi eleggete farò le riforme che Quali riforme, di preciso?
servono
72 PAOLO BOSCHI

Ci vuole troppo Quanto tempo? (in gg, h, minuti)


Fuori fa freddo Quanti gradi?
È vicino Quanto dista? (in km e m)

Per esplorare ulteriormente la questione, si


tenga comunque presente che la percezione del
tempo e delle distanze del nostro interlocutore
potrebbe avere una natura decisamente personale.

CITAZIONI

Al posto di un elenco di libri da comprare e con meno incomodo per il


lettore

È difficile trovare persone di buon senso, salvo tra quelle che la pensano come noi. (La
Rochefoucauld)
Il genio è la capacità di vedere dei rapporti dove gli uomini inferiori non ne vedono alcuno.
(William James)
La concentrazione è avere il coraggio di imporre… alle persone e agli avvenimenti la vostra decisio-
ne su cosa è importante e su cosa deve venire al primo posto. (Peter Druker)
La semplice idea che esista un’altra idea è già qualcosa di guadagnato. (Richard Jeffries)
Il linguaggio è un labirinto di strade, vieni da una parte e ti sai orientare, giungi allo stesso
punto da un’altra parte e non ti raccapezzi più. (Ludwig Wittgenstein)
Le si affacciò una lagrima sul ciglio, / sul mio labbro una frase di perdono;
parlò l’orgoglio e si asciugò il suo pianto, / e sul labbro la frase mi morì.
Io vo per una via, lei per un’altra; / ma se pensiamo al nostro muto amore
Io dico ancor: Perché quel giorno tacqui? / E lei: Perché non lagrimai, quel dì?
(Leon Woods)
è impossibile sconfiggere un ignorante durante un litigio. (William Gibbs)
È la dose che fa il veleno. (Paracelso)
Gli ideali di un leader li capisci dalle sue metafore. (Leon Woods)
Fatti, valori e dibattito 73

Non c'è uomo che non erri, né cavallo che non sferri. (Antico proverbio toscano)
Ciascuno chiama idee chiare quelle che hanno lo stesso grado di confusione delle sue. (Marcel
Proust)
Il genio è la percezione dell’ovvio che nessun altro vede. (Ronald Weiss)
Tutto il pensare che fai prima di iniziare un lavoro, abbrevia il tempo per eseguirlo. (Roy L.
Smith)
Se non avete problemi, perdete l’opportunità di crescere. (Thomas Blandi)
È meglio un capitombolo che non provarci mai. (Raffaella Carrà)
L’umorismo è un’affermazione di dignità, una dichiarazione della superiorità dell’uomo su tutto
quanto gli accade. (Romain Gary)
A meno di non essere un genio, conviene puntare alla comprensibilità. (Anthony Hope)
Parlare a qualcuno che non ascolta è sufficiente a irritare il diavolo. (Pearl Bailey)
PAOLA CANTÙ1

La formazione al dibattito attraverso l’analisi di ragionamenti


tratti dai quotidiani

Abstract

L’articolo sostiene che la lettura e l’analisi dei quotidiani può costituire un momento
formativo per l’educazione al dibattito dei cittadini, poiché favorisce lo smascheramento
degli errori di ragionamento, lo studio delle mosse strategiche e la distinzione tra mosse
retoriche efficaci e mosse logicamente corrette. In particolare l’interesse dei testi giornali-
stici concerne anche l’analisi dei meta-argomenti, vale a dire dei ragionamenti che hanno
come oggetto la validità dei ragionamenti stessi. Attraverso l’analisi di tre esempi specifici
l’articolo abbozza anche una strategia di difesa contro le mosse che mirano a squalificare
i giornali come falsi e dunque a chiudere anziché aprire la discussione.

1. Introduzione

L’analisi degli argomenti contenuti negli articoli dei quotidiani è un ottimo


esercizio per sviluppare ed applicare la capacità di riconoscere fallacie e buoni
argomenti, ma – e questa è la tesi che sosterremo nell’articolo – qualora gli ar-
ticoli siano scelti in maniera accurata, essa può costituire anche un momento
di formazione al dibattito, e dunque un aspetto essenziale dell’educazione del
cittadino alla vita democratica, basata sulla discussione pubblica della bontà
delle ragioni delle parti.
In primo luogo la lettura comparata dei botta e risposta pubblicati su quo-
tidiani diversi favorisce lo smascheramento degli errori di ragionamento altrui,

1  Ringrazio Italo Testa che, pur non avendo avuto modo di collaborare alla preparazione e
alla stesura di questo articolo, ha comunque discusso varie parti dell’articolo, fornendo, come
d’abitudine, preziosi commenti.
76 PAOLO CANTÙ

preludendo all’apprendimento dell’arte di scoprire le fallacie nei propri discor-


si, ma anche l’individuazione di meta-argomenti che possono essere ripresi,
sviluppati, scelti come modello in una discussione persuasiva e razionale.
In secondo luogo l’analisi degli argomenti prodotti dai giornalisti permette
di rivolgere l’attenzione alle mosse strategiche compiute dall’oratore, distin-
guendo tra errori volontari e sviste involontarie e favorendo la comprensione
dei meccanismi che spiegano la maggiore efficacia di certe mosse rispetto ad
altre, nonché l’individuazione degli interessi dell’autore o del pubblico di let-
tori cui ci si rivolge.
In terzo luogo la lettura dei quotidiani permette di rivolgere una particola-
re attenzione alla distinzione problematica tra mosse retoriche efficaci e mosse
logicamente corrette, favorendo l’analisi di diversi contesti in cui lo stesso
argomento può essere valutato ora come corretto ora come fallace. In partico-
lare, l’individuazione di fallacie diverse su uno stesso tema aiuta a compren-
dere che gli errori possono avere gradi diversi di gravità, contro l’abitudine
a commettere una generalizzazione indebita: “se tutti i giornali contengono
almeno una fallacia, allora sono tutti egualmente falsi”. Non tutti gli errori di
ragionamento sono fallaci allo stesso grado: alcuni errori sono più gravi di altri
e lo stesso errore può essere più grave in un contesto e meno grave in un altro.
Come a scuola ci sono errori blu e errori rossi, così in teoria dell’argomenta-
zione ci sono errori di vari colori.

2. Tre obiezioni

Si potrebbero tuttavia sollevare diverse obiezioni alla scelta di utilizzare la


lettura dei quotidiani come esercizio di formazione al dibattito. Innanzitutto
la varietà dei contesti è ristretta al caso del dialogo persuasivo, o della ricerca
di informazioni: si tratta senz’altro di un limite, ma non per questo di un pro-
blema, poiché non si pretende di dimostrare che la lettura dei quotidiani sia
l’unico mezzo di formazione al dibattito e nemmeno che sia uno strumento
sufficiente per una formazione completa.
La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 77

In secondo luogo gli articoli di giornale sono sempre e soltanto testi scritti.
Tuttavia essi sono spesso un’istantanea di argomenti ripetuti nel dibattito pub-
blico, vuoi perché riportano un’intervista o parti di un discorso pubblico, vuoi
perché per avvicinarsi ai lettori gli autori cercano talvolta di imitarne il linguaggio
e gli stili argomentativi. L’analisi e la ricostruzione degli argomenti presenti nei
testi scritti ha il vantaggio di essere più semplice perché il testo può essere riletto
più volte, e garantisce comunque una facile estensione all’ambito del dibattito
orale, che spesso si basa su argomenti simili a quelli riscontrati nei testi scritti.
In terzo luogo gli articoli pubblicati sui quotidiani sono monologici, ad ecce-
zione delle interviste riportate in discorso diretto. Tuttavia l’apparenza monologi-
ca non esclude la presenza di una struttura fondamentalmente dialettica, poiché
molti articoli nascono come risposta a testi (scritti o orali) precedenti oppure
mirano a scatenare una reazione (una risposta, un dibattito, una domanda, una
riflessione) nel lettore, in altri giornalisti, in personaggi pubblici, negli intellettua-
li, nell’editore... In questo senso tali articoli possono essere considerati come delle
istantanee di un vero e proprio dibattito che si muove in un tempo discontinuo
e rallentato, ma che non cessa perciò di avere la funzione di una discussione dia-
lettica tra punti di vista diversi, che interagiscono rispettando ciascuno il proprio
turno di parola. A questo proposito, si potrebbe pensare che i giornali abbiano
il vantaggio, rispetto ai talk-show televisivi, di impedire il mancato rispetto dei
turni di parola, e dunque di favorire uno scambio equilibrato e corretto tra le
parti. Vedremo tuttavia che ogni mezzo ha le sue infrazioni specifiche e che an-
che sui quotidiani è possibile violare le regole di un corretto scambio dialettico,
ad esempio interpretando in maniera scorretta le tesi dell’interlocutore oppure
ignorandole o ancora facendole proprie in maniera tacita (§ 5).

3. La peculiarità dello strumento formativo

I quotidiani hanno alcuni tratti peculiari che permettono di vedere o scoprire


argomenti che non sono sempre altrettanto evidenti nel caso di altri mezzi di comu-
nicazione. Un vantaggio degli articoli di giornale è quello di permettere facilmente
78 PAOLO CANTÙ

l’analisi e la valutazione dei meta-argomenti, vale a dire dei ragionamenti che han-
no come oggetto la validità dei ragionamenti stessi. La tesi che l’argomento vuole
difendere non riguarda come stanno le cose, ma come devono essere valutate le
ragioni portate a favore di una tesi. In altre parole io produco un meta-argomento
quando porto ragioni a favore della distinzione tra ciò che è legittimo e ciò che
non è legittimo dire nel dibattito pubblico, quando cioè l’oggetto dell’argomento
è a sua volta un argomento (§ 3). In particolare mediante la lettura comparata dei
quotidiani è possibile studiare i meta-argomenti e gli effetti dello stile argomenta-
tivo sull’andamento del dibattito pubblico. Ad esempio (§ 7), è possibile indaga-
re l’effetto di fallacie particolarmente pervasive, come l’avvelenamento del pozzo,
sulla credibilità dei quotidiani come mezzi di informazione. In particolare l’analisi
dello stile argomentativo dei quotidiani permette anche di individuare vari usi del
dibattito pubblico stesso, che può essere volto a chiudere o a riaprire la discussione,
frenando o stimolando la richiesta di ulteriori ragioni nell’interlocutore (§ 6).
Nel seguito dell’articolo analizzeremo alcuni esempi, tratti dal volume E qui
casca l’asino. Gli errori di ragionamento nel dibattito pubblico (Cantù 2011) a so-
stegno delle tesi sopra esposte, prima fra tutte l’idea che gli argomenti presenti
negli articoli dei quotidiani possano avere una natura intrinsecamente dialettica se
considerati come momenti di un dibattito pubblico più ampio. Dapprima analiz-
zeremo uno scambio dialettico basato su meta-argomenti tra un lettore e l’editore
di un quotidiano (§ 4). Quindi considereremo un caso di violazione delle regole
della comunicazione in uno scambio tra una giornalista, una scrittrice e una filoso-
fa (§ 5). In seguito valuteremo un caso di argomento che mira a chiudere o zittire
il dibattito (§ 6). Da ultimo analizzeremo una fallacia di avvelenamento del pozzo
che ha ricadute significative sulla credibilità dell’informazione giornalistica (§ 7).

4. La monnezza rom

Uno scambio dialettico che si è verificato nel maggio 2008 tra Vittorio Feltri,
giornalista e direttore di «Libero», e Alfonso Gianni, lettore e ex onorevole di
Rifondazione Comunista illustra bene il meccanismo dialettico che può instau-
La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 79

rarsi tra diversi articoli di giornale che esprimono meta-argomenti. Entrambi i


giornalisti si riferiscono ad un articolo apparso il 16 maggio su «Libero» a firma di
Matteo Mion, che rispondeva a sua volta ad un articolo apparso su «L’Espresso»:

Matteo Mion scrive:

La mia mente ottusa pensava che Papalia & C. s’impegnassero a disinfestare il Veneto
dalla monnezza rom e assimilati. Sono stato il solito egoista: ho pensato sempre e solo
alla mia grama pellaccia, a non farmi randellare dal primo marocco di strada.2

Al passo precedente si riferisce Alfonso Gianni in una lettera indignata al


direttore di «Libero»:

Come può pensare di ospitare sul suo giornale opinioni di questo genere? Come Lei
può constatare siamo nel più puro e delirante razzismo. Tale è considerare una porzione
di umanità, come il popolo rom (e «gli assimilati» chi e quanti sono?), un rifiuto.3

Il ragionamento di Gianni è un meta-argomento, perché è volto a criticare


la legittimità del ragionamento di Mion, che in teoria dell’argomentazione
potrebbe essere catalogato come una fallacia d’accento ma anche come una
metafora esplicitamente denigratoria. In risposta Vittorio Feltri scrive:

[Matteo Mion] non ha scritto che i rom sono spazzatura, ha scritto di aspettarsi
che Papalia & C. si impegnino a disinfestare il Veneto dalla spazzatura rom. Cioè
dei rom, che notoriamente non sono rispettosi, nei loro campi abusivi e no, delle
norme igieniche. E anche questo è un dato, non una sensazione. Lei obietterà che
Mion avrebbe potuto esprimersi in forma più delicata. Sono dello stesso parere. Ma

2  Matteo Mion, «L’Espresso e la Verona che non c’è», Libero, 16 maggio 2008, p. 12.
3  Alfonso Gianni, «Che tristezza definire i rom in quel modo», Libero, 23 maggio 2008,
p. 7.
80 PAOLO CANTÙ

aggiungo che chiunque maneggi la penna non è mai abbastanza lieve. Il razzismo,
via, è un’altra cosa.4

La risposta di Feltri è anch’essa un meta-argomento, perché per difendere


Mion egli ne spiega il ragionamento come un caso di anfibolia, cioè come
un errore di ambiguità. L’espressione monnezza che Gianni interpretava
come una qualifica attribuita al popolo rom e dunque come una locuzione
razzista, viene invece intesa in senso letterale come l’immondizia deposi-
tata in alcuni angoli dei campi rom. Tuttavia, oltre alla scarsa plausibilità
grammaticale (l’anfibolia come figura retorica ha luogo quando in una stessa
frase entrambi i significati del termine, quello letterale e quello figurato,
sono interscambiabili, mentre l’interpretazione di Feltri richiede la scrittura
“monnezza dei rom” e non “monnezza rom”), la spiegazione è in contrasto
con uno stile giornalistico frequente su «Libero», come mostra l’articolo di
Marcello Veneziani pubblicato il 22 maggio 2008, ove l’analogia è introdot-
ta in maniera esplicita:

Zingari & Cassonetti, monnezza umana e monnezza urbana. Circolano due teorie:
da quando c’è la destra con la Lega al governo, zingari e immigrati sono due capitoli
dell’emergenza rifiuti. L’altra teoria dice: no, la destra e la Lega sono al governo perché
la gente considera zingari e immigrati due capitoli dell’emergenza rifiuti.5

L’analisi di questo esempio è possibile soltanto grazie ad una lettura


comparata dei quotidiani in un arco temporale di varie settimane: non
solo si vede che gli articoli sono spesso in dialogo tra loro, ma si scopre
il valore formativo per il dibattito di una dialettica giornalistica basata su
mete-argomenti.

4 Vittorio Feltri, «Ma i fatti contano più di qualsiasi parola», Libero, 23 maggio 2008, p. 7.
5  Marcello Veneziani, «Cacciate i rom che delinquono. Ma attenzione…», Libero, 22
maggio 2008.
La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 81

5. Non desiderare la tesi altrui

Un altro esempio di dialettica a più voci tra giornalisti è offerto dall’artico-


lo di Marcello Veneziani, pubblicato su «Libero» il 15 luglio 2010 in risposta
a due precedenti interventi di Dacia Maraini sul «Corriere della Sera» e di
Michela Marzano su «La Repubblica». Maraini e Marzano condannano l’abi-
tudine giornalistica di classificare i delitti compiuti contro le donne da aman-
ti, mariti, compagni, parenti e affini come omicidi compiuti per un raptus
d’amore. Le due autrici argomentano che si tratterebbe non di una passione
improvvisa ma di uno stato emotivo costante, non di amore ma di desiderio
di possesso: «paura di perdere il potere sulla persona che si considera cosa
propria»6 o «un modo per sventare la minaccia della perdita, per continuare a
mantenere un controllo sulla donna, per ridurla a mero oggetto di possesso».7
Il desiderio di possesso è spiegato però in due modi diversi: per Maraini è il
segno di una cultura androcentrica e possessiva che permane anche nei paesi
in cui è garantita la parità formale tra i sessi, mentre per Marzano è il segno
di una reazione maschile violenta di fronte alla raggiunta autonomia delle
donne.
Già nel titolo del proprio pezzo «L’uomo uccide: non è colpa del maschili-
smo» Veneziani esplicita l’intenzione di confutare la tesi «vecchiotta» di Mar-
zano e Maraini:

Gira e rigira, tornano sempre al femminismo. Per spiegare la catena funesta di delitti
contro le donne, uno al giorno, Dacia Maraini sul Corriere della sera, Michela Marzano
su la Repubblica e un esercito di donne pubblicanti sui quotidiani d’impegno, ricorro-
no alla solita vecchiotta spiegazione, diversamente modulata: è il maschio spossessato
(...) che non sopporta l’emancipazione femminile e allora torna dispotico, cruento e

6 D. Maraini, «Il sale sulla coda. Quelle ragazze uccise dal bisogno di potere», Corriere
della Sera, 13 luglio 2010.
7  M. Marzano, «Perché gli uomini uccidono le donne», La Repubblica, 14 luglio 2010.
82 PAOLO CANTÙ

primitivo. La tesi è facile, ideologicamente comoda per loro, ma non convince. Perché
non considera tre o quattro cose.

Veneziani non attacca la tesi principale avanzata nei due articoli (gli omi-
cidi in questione non sono l’effetto di un sentimento d’amore ma di un sen-
timento di paura), bensì la tesi che collega la paura di perdere il possesso e il
potere sull’altro alla diffusione di una cultura «androcentrica» o «maschilista».
Le due diverse posizioni sopra menzionate vengono però identificate da Ve-
neziani in un’unica tesi che egli ricostruisce in maniera semplificata per aver
miglior gioco nella confutazione. In questo modo egli viola la decima regola
del decalogo di van Eemeren e Grootendorst (2008, p. 176): «Una parte non
può usare formulazioni non sufficientemente chiare, confuse o ambigue. Una
parte deve sempre interpretare le formulazioni dell’altra parte quanto più at-
tentamente e accuratamente possibile».
Consideriamo la prima obiezione mossa da Veneziani alla tesi di Marzano:

La prima obiezione elementare è che la società era infinitamente più maschilista negli
anni Settanta quando il femminismo era più virulento, mentre delitti di questo gene-
re con questa impressionante sequenza, si vedono invece quarant’anni dopo, quando
molte di quelle rivendicazioni che all’epoca sconcertavano, sono diventate ormai oriz-
zonte comune.8

Si tratta di un’obiezione che Marzano stessa si era posta e cui aveva risposto
suggerendo che si tratti di un tentativo di restaurazione della cultura patriar-
cale-dispotica.9 La scorrettezza dialettica di Veneziani consiste sia nell’usare
un’obiezione già confutata da Marzano ignorando però il controargomento
sia nella dichiarazione di aver confutato la tesi avversaria pur non avendo mos-

8  M. Veneziani, «L'uomo uccide: non è colpa del maschilismo», il Giornale, 15 luglio


2010.
9  «Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a
tutti gli ambiti sociali?» M. Marzano, op. cit.
La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 83

so obiezioni alla tesi principale, ma soltanto ad una tesi accessoria formulata


in maniera imprecisa. La regola della pertinenza di van Eemeren et Grooten-
dorst (2008, p. 174) recita infatti: «Le critiche devono vertere esattamente
su ciò che l’interlocutore sostiene». Non è lecito, per apparire vincenti nella
discussione, deformare la tesi dell’avversario, semplificandola oltre misura o
estraendo arbitrariamente una parte dell’argomentazione dal contesto.
Anche in un dibattito tra giornalisti su quotidiani diversi si possono dun-
que riscontrare alcune violazioni delle regole argomentative: anzi, puntando
sul fatto che raramente i lettori leggono quotidiani diversi, non è rara l’occor-
renza di fallacie del fantoccio: per mostrare più facilmente che la tesi dell’av-
versario è errata, Veneziani la presenta in maniera imprecisa e incompleta,
selezionando alcune parti del ragionamento a scapito di altre.

6. Un modo per zittire il dibattito

Se la fallacia del fantoccio ricorre frequentemente sui quotidiani, sembra-


no più rare le infrazioni alla regola secondo la quale ciascun interlocutore
deve sempre lasciare all’altro il diritto di esprimere il proprio punto di vista
e di muovere obiezioni al punto di vista dell’altro (Cfr. van eemeren, Gro-
otendorst: 2008, p. 173). Se la contestazione, in quanto espressione di un
disaccordo, è di solito il punto di partenza di un’argomentazione, vedremo
due esempi di articoli che svolgono una funzione opposta: in un caso mirano
a “estinguere” il dibattito, nell’altro lo “alimentano”.
Il 4 settembre alla festa del Partito Democratico a Torino un gruppo
di contestatori fischia Fassino nel momento in cui dà la parola a Rena-
to Schifani, che accusa i contestatori di essere anti-democratici perché fi-
schiando impediscono a due politici di discutere. La mossa di Schifani è
fallace perché non riconosce i cittadini intervenuti alla festa del PD come
interlocutori legittimi e perché ritiene che il disaccordo, anche radicale, sia
illegittimo qualora impedisca la discussione. Al contrario il disaccordo è un
ingrediente essenziale del dibattito democratico: casi di deep disagreement,
84 PAOLO CANTÙ

che riguardano spesso il rapporto tra una minoranza ed una maggioranza,


sono presenti in ogni forma democratica e dovrebbero stimolare gli in-
terlocutori a cercare altre vie di dialogo, magari rispondendo ai fischi con
argomenti.
La reazione di Schifani ha suscitato la risposta dialettica di Pierluigi Bat-
tista sul «Corriere della Sera»:10 Battista non si interroga sulle origini della
contestazione (un articolo a firma di Lirio Abbate su «L’Espresso» che segna-
lava un’indagine su presunti collegamenti tra Schifani ed esponenti di Cosa
Nostra),11 ma insiste sulla anti-democraticità della contestazione mediante
fischi, muovendo accuse ad hominem ai «professionisti del fischio» per dele-
gittimarli e zittirli:

I professionisti del fischio sono cupi, arroganti, fanatici. Purtroppo sta diventando una
moda. Ma è un errore essere accondiscendenti con una pessima abitudine, antiliberale
e antidemocratica. Non è vero che ci sia alcunché di spontaneo, in quel dissenso: sono
sempre minoranze molto agguerrite e molto organizzate. Ma non sono il popolo. [...]
Fischiassero pure, ma la smettessero di farlo a nome di un loro inesistente «popolo
indignato». [...] Hanno tutti gli strumenti democratici per dissentire: manifestazioni,
cortei, spettacoli, comizi, sit-in, happening di piazza. Ma la smettano di zittire gli altri
per sentirsi buoni e forti. Non in nostro nome.

Travaglio ribatte che per quanto poco rappresentativi dell’intera popola-


zione, i contestatori sono comunque cittadini che hanno diritto di esprimere
il dissenso e l’esiguità del loro numero non dovrebbe privarli del diritto di
avere una risposta dall’interlocutore contestato, se è vero che i diritti di una
minoranza dovrebbero essere tutelati al pari dei diritti della maggioranza in
democrazia. Travaglio cita l’esempio di Tony Blair, che alla contestazione ra-
dicale subita poco prima della presentazione di un suo libro, si era sentito in

10  Cf. Pierluigi Battista «I professionisti dell’intimidazione. Vanno in scena i Dissidenti


Preventivi e i Professionisti dell’Urlo», Corriere della Sera, 5 settembre 2010.
11  Cf. Lirio Abbate «Quel che so di Schifani», L’Espresso, 2 settembre 2010.
La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 85

dovere di rispondere nei giorni successivi con un’intervista nella quale espone-
va una ragionata difesa delle proprie scelte politiche in Iraq.12
In risposta all’articolo di Battista, Travaglio ribatte con tre diverse strategie:
1) controargomenta mediante un esempio: come Blair ha risposto alle critiche
ritenendole legittime così dovrebbe fare anche Schifani, perché la contesta-
zione dei potenti è uno strumento tipico delle democrazie e i cittadini hanno
diritto di essere presi sul serio come interlocutori, anche quando fischiano o
pronunciano slogan offensivi; 2) denuncia le fallacie di linguaggio pregiudi-
zievole di Battista con un meta-argomento; 3) spiega già dal titolo del suo
pezzo «Giornalisti-estintori» che la strategia argomentativa di Battista mira a
zittire il dibattito pubblico.

7. Come ti avveleno la sorgente

Ci sono fallacie teoriche che meglio si possono comprendere in correlazio-


ne con gli stili di ragionamento tipici della comunicazione giornalistica. Per
esempio, in teoria dell’argomentazione si è a lungo discusso intorno alla na-
tura della fallacia dell’avvelenamento del pozzo: secondo alcuni autori, come
Douglas Walton, si tratta di una fallacia ad hominem con caratteristiche pe-
culiari Walton 2006: pp. 273-307); secondo altri si tratta di una mossa reto-
rica. Nel suo recente libro Verità avvelenata Franca D’Agostini suggerisce che
nel dibattito pubblico sia presente una versione generalizzata di tale ragiona-
mento, la cui fallacia consisterebbe nell’obiettivo di screditare o delegittimare
in anticipo qualunque argomento e qualunque argomentatore (D’Agostini
2010, p. 11). Si tratterebbe cioè di una strategia che viene messa in campo
preventivamente, per evitare di dover prendere parte al gioco democratico di
dare e chiedere ragioni.
La strategia della macchina del fango, denunciata nei giornali di sinistra
come un’operazione compiuta dai giornali di destra, e dai giornali di destra

12  Marco Travaglio, «Giornalisti-estintori», Il Fatto quotidiano, 7 settembre 2010.


86 PAOLO CANTÙ

come un meccanismo usato frequentemente dai giornali di sinistra, è stata


paragonata alle azioni di linciaggio morale o killeraggio politico tipiche delle
elezioni presidenziali americane (Castells 2009). Tuttavia la propaganda nega-
tiva propria delle campagne elettorali si distingue dalla macchina del fango per
varie ragioni: innanzitutto non è ristretta al periodo pre-elettorale; in secondo
luogo è usata come strategia da parte di un gruppo politico per mantenere il
potere e il consenso anche dopo le elezioni; infine non è messa in opera dai
portavoce al soldo dei politici ma dai giornalisti stessi. Una lettura comparata
dei quotidiani può essere utile a questo proposito per comprendere in che
misura la fabbrica del fango in Italia abbia cambiato obiettivo: dai politici ai
giornali.13 Il fango è scaricato sui giornalisti dai giornalisti e il duello verbale
non avviene più tra due uomini politici ma tra due ventriloqui, ciascuno dei
quali parla con la pancia, cioè tramite il suo giornale-portavoce. Un esempio
rivelerà il rischio che la macchina del fango italiana serva non a vincere le ele-
zioni ma a zittire i giornali e il pubblico dibattito.
Il botta e risposta tra D’Avanzo, Bracalini e Sallusti a proposito dei dossier
preparati da «Libero» esemplifica anche un caso di mancato rispetto delle regole
dialettiche. D’Avanzo accusa Feltri di essere responsabile della preparazione di

13 Inizialmente Massimo D’Avanzo si era riferito alla «macchina del fango» diretta da
Berlusconi contro i suoi oppositori politici, Saviano aveva parlato della «macchina del fango»
orchestrata da Cosentino contro Caldoro, candidato rivale del Pdl in Campania, e Ezio Mauro
aveva usato l’espressione «centrale del fango» nell’analisi del caso Marrazzo. Successivamente
il termine «fango» è stato impiegato per accusare i giornalisti stessi : si è parlato per esempio
del «fango che [Santoro] getta quotidianamente contro il premier», o del fango raccolto nelle
fabbriche dei dossier dal direttore del giornale di Silvio Berlusconi in relazione ai casi Vaudano,
Marini, Boffo, Marcegaglia o delle «paginate di fango su la Repubblica a firma D’Avanzo» o an-
cora del «Metodo “Repubblica”: fango e giustizialismo sempre a senso unico». Cf. M. D’Avan-
zo, «La macchina del fango», La Repubblica, 27 ottobre 2009; R. Saviano, «Dossier, calunnie
e voti comprati. La macchina del fango targata Cosentino», La Repubblica, 17 luglio 2010;
E. Mauro, «La centrale del fango», Corriere della Sera, 23 luglio 2010; AAVV, «Feltri sospeso
sei mesi per caso Boffo e Farina. Il direttore: trattato peggio di un prete pedofilo», Redazione
della versione online de il Giornale, 26 marzo 2010; G. D’Avanzo, «Così colpisce la fabbrica
dei dossier al servizio del Cavaliere», La Repubblica, 11 ottobre 2010; A. Sallusti, «Ecco le vere
fabbriche del fango», il Giornale, 12 ottobre 2010; P. Bracalini, «Metodo "Repubblica": fango
e giustizialismo sempre a senso unico», il Giornale, 12 ottobre 2010.
La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 87

falsi dossier sugli avversari politici di Berlusconi per intimorirli o minacciarli


(si veda ad esempio la condanna ricevuta dall’Ordine dei giornalisti per aver
acconsentito alla pubblicazione di documenti su Boffo, poi risultati falsi, senza
averne verificata l’autenticità).14 L’impianto accusatorio di D’Avanzo è basato su
due tipi di argomenti: un appello al precedente e un riferimento di Feltri stesso
alla minaccia, poi realizzata, di una campagna d’opinione contro Fini.
Bracalini e Sallusti non ribattono alle accuse di D’Avanzo ma introducono
argomenti a difesa di Feltri e del suo «Giornale» con un ragionamento ad
populum:

ci accontentiamo del giudizio dei nostri lettori, che in questi giorni ci premiano facen-
do schizzare le vendite del Giornale a cifre da record15

o con una fallacia di inversione dell’onere della prova unito ad un attacco ad


hominem non circonstanziato:

D’Avanzo torna in cattedra: vuole impartirci lezioni di deontologia, ma è lui a fabbri-


care veleni e falsi scoop.16

Entrambi commettono ulteriori fallacie ad hominem quando scrivono


rispettivamente:

Due paginate di fango su La Repubblica a firma D’Avanzo, quello che nel torbido pesca
da anni per costruire teoremi che mai reggono la prova dei fatti.17

La fabbrica di condanne preventive, peraltro, fabbrica frequentemente falsi scoop e


clamorosi flop. [...] la fabbrica è sempre aperta e dà lezioni deontologiche agli altri.

14 D’Avanzo, op. cit.


15  Sallusti, op. cit.
16  Bracalini, op. cit.
17  Sallusti, op. cit.
88 PAOLO CANTÙ

Anche se poi si rivela per quel che è: un giornalismo di scorie velenose, un giornalismo
D’Avanzo.18

Al di là dei singoli argomenti, la strategia complessiva de il Giornale è volta


a mostrare che, se qualcuno ha fabbricato fango, allora lo fanno tutti, e quindi
non ha più senso distinguere tra argomenti che gettano fango sull’avversario e
argomenti che non lo fanno: ciò che conta è solo il gradimento dei lettori. È
proprio questa la strategia di avvelenamento del pozzo: l’obiettivo è dimostrare
che tutti i giornali sono egualmente falsi e dunque che nessuno fornisce un’in-
formazione oggettiva. Così ciascun lettore sceglierà il suo giornale indipen-
dentemente dalle notizie vere o false che riporta, come a dire: sui giornali non
hanno spazio né la verità né l’argomentazione. Ma proprio perché così non è,
come ci sembra di aver mostrato in queste pagine, la lettura dei quotidiani è
al contrario un’ottima palestra di formazione al dibattito, sia per smascherare
le fallacie sia per valutare i meta-argomenti che distinguono gli argomenti
accettabili dagli argomenti scorretti.

8. Conclusione

L’ultimo esempio è interessante perché permette di analizzare un caso in


cui la convinzione diffusa che i giornali della parte politica avversa siano “fal-
si” impedisce il nascere della discussione e scoraggia il lettore dal tentativo di
interloquire. Se tutti sparano fango allo stesso modo, se il dibattito sui quoti-
diani è solo un loop di insulti a vuoto, allora meglio rimanere spettatori e non
immischiarsi, se non si vuole correre il rischio di essere sommersi di fango. Si
vede così che la pubblicazione di articoli in dialogo tra loro può avere non solo
la funzione di alimentare il dibattito, ma anche di spegnerlo, o di infuocarlo
rendendolo inavvicinabile a causa delle troppo alte temperature.

18  Bracalini, op. cit.


La formazione al dibattito attraverso l’analisi... 89

Ma un’analisi comparata di tali articoli permette di sviluppare una strate-


gia parafango, che favorisce la formazione al dibattito, a condizione di essere
accompagnata da tre strategie da adottare in maniera sinergica per difendersi
dagli spruzzi: 1) tenere ben presente la personalizzazione della politica italiana,
2) essere consapevoli dell’uso peculiare di alcuni quotidiani come portavoce
dei politici, 3) aguzzare lo sguardo per imparare a distinguere, nella melma del
rumore di fondo, grumi più o meno densi di ragionamento, migliorando al
contempo la propria abilità di individuazione delle fallacie e dei meta-argo-
menti nel dibattito pubblico.
In conclusione, la lettura e l’analisi dei giornali può costituire un momento
formativo per l’educazione al dibattito dei cittadini non soltanto perché aiuta
ad apprendere e ad applicare la distinzione tra argomenti buoni e fallacie, o
tra mosse dialettiche corrette e scorrette (come nel caso dei meta-argomenti),
ma soprattutto perché fornisce ai cittadini una strategia parafango che evita
l’assuefazione ad un cattivo argomentare e promuove la richiesta di un’infor-
mazione giornalistica basata su ragioni migliori.

BIBLIOGRAFIA

Cantù, P. (2011), E qui casca l’asino. Gli errori di ragionamento nel dibattito pubblico, Torino,
Bollati Boringhieri.
Castells, M. (2009), Licenza di uccidere: la politica dell’aggressione, estratto dal volume Comu-
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D’Agostini, F. (2010), La verità avvelenata, Torino, Bollati Boringhieri.
Eemeren, F. van, e Grootendorst, R. (2008) A Systematic Theory of Argumentation. The Pragma-
Dialectical Approach, 2004, Cambridge, CUP; trad. it. a cura di A. Gilardoni, Una
teoria sistematica dell’argomentazione: l’approccio pragma-dialettico, Milano, Mimesis.
Walton, D. (2006), Poisoning the Well, Argumentation, 20, pp. 273-307.
ALFRED C. SNIDER

Debate: Critical Method for the 21st Century

Abstract

Il 21° secolo si distingue dal secolo passato per diversi aspetti: l’enorme quantità di
informazione a cui possiamo aver accesso, ma dalla quale siamo anche investiti e obe-
rati; i veloci cambiamenti sociali; l’interconnessione globale, che vede, ad esempio, in
Cina le conseguenze di ciò che succede in Italia; la capacità argomentativa promossa
attraverso rilevanti risorse economiche. Così com’è, il sistema scolastico non è in grado
di far fronte a queste sfide. Infatti, la concezione della memoria come “deposito” è
inidonea allo scopo e troppo spesso gli studenti hanno un ruolo passivo nel processo
educativo. Inoltre lo sviluppo delle loro capacità è trascurato e sempre più si chiede loro
di ascoltare e non di mettere in discussione. Il dibattito è la possibile soluzione a tutto
ciò: esso è infatti lo strumento adatto per promuovere la capacità di pensare e di dialo-
gare, non può facilmente essere sottoposto al controllo autoritario e inoltre attiva una
serie di processi di adattamento vitali nella società attuale. Tuttavia l’entusiasmo per
questo metodo e i notevoli risultati acquisiti e acquisibili con la sua applicazione non
hanno finora indotto mutamenti sensibili nel sistema scolastico. A tal fine si rendono
necessari anche dati empirici, di cui noi oggi siamo in possesso, che accertino questa
sua validità. Il presente articolo riporta gli esiti di una prima ricerca a riprova della più
alta probabilità di portare a termine gli studi da parte degli studenti che hanno incon-
trato il dibattito lungo il loro percorso scolastico; dei loro migliori risultati accademici;
dell’aiuto che il dibattito può offrire non solo gli studenti più dotati, bensì a tutti quelli
che vi prendono parte, a prescindere dalle doti naturali di partenza.

My background

I was a very poor student and also a discipline problem until at the age of
eleven. I was invited to be in a debate. It changed my life, and especially my
92 ALFRED C. SNIDER

approach to academics. I discovered a reason to enjoy school, and I found my


voice in the modern classroom. I debated all through college and immediately
became a debating coach at the college level. I have been one ever since. About
twelve years ago I became involved in promoting debating in other coun-
tries. I have now done debate training in 35 countries, including places like
Venezuela, Iraq, Latvia and a lot more. For the last eight years I have focused
my training of students for competition in the World Universities Debating
Championship format and I regularly attend the world championships. I have
published a broad variety of articles and books concerning debating, with a
special mention of my book, now in its second edition, Many Sides: Debate
Across the Curriculum about using debate techniques in the classroom to im-
prove learning in a broad array of subjects (Snider, 2006).
I have become somewhat of a debate evangelist, taking my message to
whoever and wherever I can. I am just a small part of the story, but debating
as a method of learning and individual development is now spreading explo-
sively all over the world, from Saskatchewan to Sudan, from Iraq to India, and
everywhere in between.

Why the 21st century is different

Our older techniques of education and social organization may have been
satisfactory in the past, but the present is quite different. Many important
changes in the intellectual landscape of our planet took place in the 20th Cen-
tury, and they are all making their mark in the 21st Century. These develop-
ments are already known to you, but bear repeating to make my eventual
point.
Instead of an in-depth explanation, allow me to just outline these
changes:

1.  There is more information now that ever. The increase in informa-
tion will continue to increase geometrically, which means that we
Debate: Critical Method for the 21st Century 93

need to know how to find and analyze information as much if not


more than we need to memorize the information itself.
2.  The pace of social change continues to increase. Our lives are so
much different than our grandparents; our parents and our children
will live in a very different world. We need to learn more than use-
ful patterns; we need to know how to adapt and how social change
redefines us as citizens.
3.  The globe is one connected whole more than ever. What happens
in Italy influences China, what happens in Brazil influences India.
Economies and technological patterns are increasingly connected.
As with any large and complex system, understanding how it oper-
ates can be challenging.
4. Our mass media rains down on us with “expert” discourse. Given
the first three events, we more and more rely on selected talking
heads to do our thinking for us. Of course, such “experts” have their
own points of view and their own masters, requiring us to judge
them more closely than ever.
5.  We are surrounded by weak arguments promoted with considerable
resources. We vote for “Yes we can,” instead of “Here is how we
can,” and we are told so often that certain products or services will
make use sexy or give us status when that is obviously not true. We
become susceptible to the weak arguments around us through sheer
repetition.

Why current educational methods fall short

I am sure that we are all familiar with the chorus of criticisms that modern
education faces. Rather than repeat all of them, I would like to briefly sum-
marize those indictments that seem most relevant to this discussion.
1.  The old “banking” model is insufficient. We often view students as
a bank account into which the instructor deposits knowledge. The
94 ALFRED C. SNIDER

data is a “thing” or an “artifact,” and once the student has it, they
are then educated. Given the magnitude of current knowledge that
seems impossible as well as ineffective. I tend to agree with Paolo
Freire in this work The Pedagogy of the Oppressed (Freire, 2007). Stu-
dents need to learn how to manipulate and process data more than
just check to see how full their knowledge bank account is.
2.  Students are too often in a passive role. They are told to remain
quiet and learn through listening. I am all for listening, but there is
little motivation for it unless the student has a chance to be active,
to participate and express themselves. We need a “noisy classroom”
in the words of the UK’s Debbie Newman, who advocates active
roles for students through debating and similar communicative
roles (Newman, 2010).
3.  Skill development is neglected. Skills have been relegated to the
domain of vocational education, whereas multiple skills are essen-
tial for high level intellectual involvement in modern society, such
as organizing research, public speaking, responding to criticism,
thinking on one’s feet, asking and answering questions, note tak-
ing, learning to persuade listeners and other abilities. The current
method of “learn it once and move on” neglects these complex skills
that need to be developed over time and through considerable rep-
etition. Debating does this by, during each iteration, calling on all
of these skills by those participating.
4.  Students are taught to “accept” and not to “question.” The truth
comes from the teacher as unassailable fact and the student becomes
a habitual receiver of that information. The student is not taught to
question and find the fault in what is offered. This poorly prepares
students for the real life situation of competing advocates offering
their own perspectives and asking the citizen to wisely choose be-
tween them. Modern education does not train young people to find
faults, ask difficult questions and to test ideas that are being offered
to them. Thus, in life they may find it hard to do what they are
Debate: Critical Method for the 21st Century 95

rarely trained to do in school. Debating, on the other hand, makes


as one of its absolute principles that they need to question and find
fault with the ideas of the other side.

Debating as important bundle of educational experiences

For each of these five ills, I believe that debate is a possible solution. De-
bate provides the potential for independent vigorous free thought and dia-
logue. Debate cannot easily be policed or controlled, and its process requires
active thinking. Classrooms are increasingly important spaces to teach stu-
dents intellectual survival skills.
I believe that using debate as an educational and/or classroom technique
is valuable in addressing these issues and how citizens deal with them. Debate
teaches content as well as process and requires information acquisition and
management. Different aspects of an issue must be investigated and under-
stood by the debater. Debaters learn how to gather information and marshal
that knowledge for their purposes. The process of debating is dynamic, fluid,
and changing. Every day brings new ideas and new arguments. Every op-
ponent uses some arguments that are expected and some that are not. Con-
nections need to be made between the arguments in every debate as debaters
search for ways to use what others have said against them. Debaters also learn
to compete against others in the realm of ideas while cooperating with team
and class members in their efforts. Debaters learn to cooperate in order to
compete. Debaters must critically analyze and deconstruct ideas presented by
their opponents in preparation for doing the same thing for the rest of their
lives in all of their information transactions.

Debating inherently involves a number of essential processes. It is easy to


see how these processes add extra dimensions to the learning situation.

1.  State your case. Any essay will do this, of course.


96 ALFRED C. SNIDER

2.  Clash with a critique the arguments of the other. This is rarely done
in modern media, and even more rarely in schools.
3. Defend your own arguments from the critique of opponents. Media
time allocation does not allow this, nor are there many teachers who
are willing to defend their arguments against critical analysis.
4. Develop a perspective on all issues that enables a decision about the
question at hand. The discussion needs to be packaged for a deci-
sion by an audience, which rarely happens today in politics or in
education.

Debate calls to task simplistic public dialogue and foments a kind of glo-
bal critical thinking. By encouraging participants to look carefully at the root
causes and implications of controversies, and by teaching students that ex-
perts often have their own interests in mind when they produce facts and
norms, debate can create a powerful resistance to many problems that seem
to overwhelm us today. Most important, debate teaches a method of critical
questioning and learning that can help anyone who seeks out new interpreta-
tions. Debates encourage students not only to debate about content but also
about the frameworks of problems and how to solve them. Debate heightens
mental alertness by teaching students to quickly process and articulate ideas.
Thinking on their feet, debaters are required to hear an idea and then provide
a response. This pressure-laden scenario enhances the educational outcomes
and spontaneity of debates.

Empirical results

Most of us working in this field believe that debating has a very positive
academic impact on the students who participate. However, the opinions of
committed enthusiasts is not going to influence school systems and ministries
of education. Only rigorous empirical research can do this. Some of the ear-
lier studies of the academic impact of debating were flawed in very important
Debate: Critical Method for the 21st Century 97

ways. However, now we seem to have a series of peer reviewed studies that
suggest that the relationship is quite strong between debating and academic
success.

Competitive debating

Academic performance by African Americans in the USA is an example


of an education system failing an important population. Fewer than half of
African American high school students finish school. Debate can make a real
difference. Mezuk (2009) examines data from Chicago Public Schools and
the Chicago Debate League from 1997 to 2006. Overall, more than three
quarters of debaters graduate, compared to barely half of non-debaters. The
effects for African American males are even bigger: African American males
who participate in debate are 70 percent more likely to graduate and three
times less likely to drop out than their peers.
A variety of other studies have confirmed these findings. According to
the National Association for Urban Debate Leagues compendium of research
(NAUDL 2010). Studies of students in Chicago, Kansas City, St. Louis, Seat-
tle and New York (2004) concluded, "Academic debate improves perform-
ance at statistically significant levels on reading test scores, diminishes high-
risk behaviors, and improves academic success and student attitudes towards
higher education."
In another study, in Minnesota in 2005, the findings included:
• Debaters scored 36% higher on the reading post-test than on the
pre-test. This improvement is 61% greater than improvements
among the comparison group.
•  80% of debaters reported no attendance problems compared to
49.02% with no reported attendance problems among the com-
parison group.
• Debaters averaged 15% higher self-esteem than the comparison
group, and this boost in self-esteem was positively correlated with
98 ALFRED C. SNIDER

the duration of debate participation: the longer he/she debated, the


wider the differential.
•  By the end of their first year of debate, 100% of the debaters re-
ported an increased interest in their classes.
•  Compared to the comparison group, 87% of debaters were better
able to analyze information.
• On a 4.0 scale, the gross average of debaters' 2006 GPAs was 2.97,
compared to 2.5875 among the comparison group. Returning de-
baters averaged a 0.13 increase in their GPAs, while returning com-
parison group members lost an average of 0.10 points.
•  100% of Minneapolis urban debate league debaters were unlikely to
engage in negative risk behavior (drug use, early pregnancy, and al-
cohol). Debaters scored the highest possible score on this indicator.

Classroom debating

One of the earliest results from the application of debating as a technique


to use in classrooms teaching non-debate subjects was gathered in Providence,
Rhode Island by Frank Duffin (2005). He was the principal of the school, so
he was able to make broad changes in the way courses were taught. He divided
the school into three groups: A.) debate across the curriculum used heavily
in classes, B.) debate across the curriculum used sparingly in classes and C.)
debate across the curriculum used not at all in classes. He took baseline infor-
mation from the entire school in 2002. In 2003, after the program had begun,
the results were mixed. In basic reading comprehension, students in group A.)
finished 20% ahead of Group B.) [24 vs. 20] and 33% ahead of group C.)
[24 vs. 16.7]. In 2004 students in A.) gained an additional advantage, rising
to a score of 28 while the other two group reading comprehension scores had
actually fallen. In a study of student ability to analyze and interpret world
problems, all three groups improved from a score of 9.5 in 2002 to a score of
12 in 2003, but then the differences really emerged and in 2004 students in
Debate: Critical Method for the 21st Century 99

group A.) improved to 20 while group B.) improved to only 14 and group C.)
scores actually declined. At this point parents of those in group C.) demanded
that their students be included in the debate across the curriculum method
and the experiment was discontinued.
In a recent study of students in Hong Kong, Sam Greenland (2010) was
able to show that debate training of high school students showed considerable
promise. He found that many of the issues that had been raised about previous
studies did not seem relevant. He found that it was not true, as some had sug-
gested, that male students learned debating better than females, but that both
gained knowledge and skills equally. He also found that those students, who
were more academically able, based on previous performance, did no better
than their poorer performing comrades, indicating that debate is not just “for
the smart” but can be done by almost all students. Finally, he discovered that
abilities in speaking English (the debating activities all took place in English)
did not influence the amount of debating expertise developed, and that those
with less English speaking ability still performed very well in the debates that
were scored. Thus, these findings may serve to answer some of the concerns
that debating only helps some, or the gifted or the verbally able. The results
in a large controlled study showed that debating helped everyone. As of this
time I am awaiting Greenland’s findings about the future academic success of
these students and whether debating improved their overall performance, and
preliminary analysis of the data indicates that debating did, indeed, improve
overall academic performance significantly.

Conclusions

Those we teach today will spend the rest of their lives in the future. It is
essential that we understand how the present is different from the past and
design our educational experiences accordingly. All over the world educational
systems are being reorganized to emphasize active learning, critical thinking
and creativity. I do not pretend to believe that debating is a magic bullet for all
100 ALFRED C. SNIDER

of the issues we face, but I do think it is a very strong candidate for something
that can be done to better prepare students for the future.
A democracy cannot just be a form of government; it must also be a state
of mind. In democracies we get the governments we deserve, and if your vot-
ers are passive, accepting and lack critical thinking capacities and abilities to
speak out, we will have more of the same, more of what we have now. I believe
that we can greatly improve all of our societies by raising up a generation of
debaters to become a new generation of citizens.

BIBLIOGRAFIA

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Snider, A. Schnurer, M. (2006), Many Sides: debate Across the Curriculum, New York, iDebate
Press.
ANTONIO MARTÍN SANCHEZ

Con Acento

Abstract

Il torneo di dibattito Con Acento è finalizzato a formare oratori che si rivelino


capaci, competenti e leali anche nella sfera pubblica, rivalutando nel contem-
po il modo di esprimersi, o “accento”, della terra andalusa. Aperto a tutti gli
studenti dei corsi pre-universitari dell’Andalusia, Con Acento si distingue dalle
consuete competizioni dibattimentali per diversi aspetti: la partecipazione è
completamente gratuita e l’amicizia prevale sulla competizione grazie alla crea-
zione di un contesto che mira a far socializzare e dilettare i partecipanti. Inoltre
i giudici del programma Con Acento si dedicano alla formazione dei dibattenti
anche al di fuori del periodo di feedback e, dal punto di vista della valutazione,
particolare merito sarà riconosciuto alla squadra più capace di valorizzare i
punti comuni delle due posizioni contrastanti. Tali caratteristiche, che distin-
guono Con Acento da altre iniziative simili, sono le basi e i pilastri dell’obietti-
vo principale che si propone questo torneo, ossia estendere il dibattito, come
strumento educativo, a tutte le scuole pre-universitarie.

El Torneo de Debate para jóvenes promesas de Andalucía Con Acento


nace, en primera instancia, con dos objetivos claros. No obstante, superados
estos, Con Acento conlleva y apareja un sinfín de retos, dibujados en caminos
con un destino claro que intentaré describir de forma clara en esta interven-
ción. Conociendo la meta intentaré desgranar, objeto de esta ponencia, la
gestión y el desarrollo del torneo.
Pero empecemos por el origen y conocer qué es Con Acento. Con Acento
es un Torneo de Debate para jóvenes de toda Andalucía, región del sur de
España con más de 8 millones de habitantes. En él participan más de 100
estudiantes de último curso de bachillerato (enseñanza preuniversitaria) distri-
102 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ

buidos en 24 centros de enseñanza que presentan equipos de cuatro integran-


tes y un profesor capitán que se encarga de la selección de los participantes
y su formación previa al torneo. El torneo se desarrolla en Sevilla, capital de
Andalucía, en sede universitaria, durante cuatro días.
El origen de Con Acento marca la idiosincrasia del mismo. Con Acento
nace tras la unión de varios estudiantes debatientes en torneos universitarios.
Cansados del modelo tradicional de gestión de los torneos, proponemos un
modelo diferente dónde la formación se una de forma radical al compromiso
social.
Antes de continuar, los dos objetivos principales de Con Acento:
El primero, poner el acento en nuestros jóvenes. En el año 2009 surge
en España el concepto, creado por los mass-media y poco fiel a la realidad,
ni-ni. Ni-Ni, que quiere decir "ni estudio ni trabajo" hace alusión de forma
generalista a toda una generación de jóvenes que son calificados de vagos, des-
preocupados, con falta de formación, desinteresados de dialogar sobre temas
de trascendencia. El concepto nace como producto de la "telebasura" pero
su calado social es profundo. Unido a problemas que acechan a la juventud,
difícil acceso a la vivienda, alta tasa de paro juvenil, etc. empieza a surgir la
reacción, puramente falaz, de que las nuevas generaciones son "peores" que las
anteriores, identificada en el dicho "estos jóvenes de hoy en día(, no son los de
antes)". Baste mirar los datos de formación y nuestros resultados, no sólo aca-
démicos, también, por ejemplo, deportivos, para saber que cada generación
que surge en España está más capacitada que la anterior.
Con Acento nace como instrumento de doble vía. La primera, ante la
sociedad, poniendo en valor la capacidad de nuestros jóvenes, su intención de
participar en la vida pública de forma rigurosa y con talento, evitando discur-
sos demagógicos o vacíos de evidencias. La segunda, ante los jóvenes, siendo
canal de participación pura y medio de expresión de valores.
El segundo objetivo, reivindicar una forma de expresión propia de la tie-
rra, rica, ágil y expresiva, que es el acento Andaluz. Andalucía sufrió, durante
la dictadura franquista, una gran represión y falta de inversión. La imagen
(alejada de la realidad) de Andalucía se consolidó, para el resto de España,
Con Acento 103

como una tierra de agricultura especialmente analfabeta y cateta, dónde la


fiesta primaba sobre el trabajo y el contacto con nuestra cultura se resumía en
la gran pantalla al servicio doméstico, que siempre era interpretado por anda-
luces. Durante la etapa democrática Andalucía ha sido capaz de romper ese
falso paternalismo y sentirse orgullosa de su tierra y su cultura y es una de las
regiones más prosperas del país. La Andalucía de Lorca, Picasso, Juan Ramón
Jiménez y otros muchos artistas, investigadores, emprendedores, etc. camina
con paso firme y es una referencia internacional por su alegría, calidad de
vida, y por sectores emergentes como la aeronáutica, biomedicina o energías
renovables. Pero aún permanecen estigmas de esa imagen falsa y tópica que ha
quedado encerrada en España (es curioso que fuera de España casi todo lo que
suele representar al país es cultura Andaluza). Uno de esos estigmas, y quizás
el más relevante, es nuestro habla. El acento Andaluz sigue, aunque cada vez
menos, identificándose, especialmente en ciertos círculos como es el debate de
competición o académico, como "vulgar", "gracioso", "poco serio", "no rigu-
roso", etc. Describir la riqueza del andaluz como habla o lengua nos llevaría
una ponencia completa y no es el caso.
Con Acento pretende afianzar el orgullo de nuestros jóvenes por sus raíces
y en especial, por la forma de expresión de un pueblo, así como reivindicar el
uso de nuestro habla en ámbito académico con seriedad, precisión y rigurosi-
dad sin la renuncia a las características propias de este.
Enunciados brevemente los dos objetivos que dan lugar al juego de pa-
labras que pone nombre al torneo, Con Acento se desarrolla en una esfera
mucho mayor, dando lugar a una forma de entender el debate de competición
que ha terminado por gestar una sociedad con su mismo nombre.
Pero, ¿que características definen el proyecto frente a otros? Y sobre todo,
¿Que parte de ellas es responsabilidad de la gestión del mismo?
Aunque sean muchas las características diferenciadoras, expondré las más
representativas.
Una desazón que nos unía a los promotores era la alta competitividad
existente entre los debatientes de torneos universitarios. La competitividad
entendida en el seno del torneo puede resultar positiva, pero sin lugar a dudas
104 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ

no lo es fuera de este. Ver a equipos ya eliminados sin compartir palabras o ni


siquiera conocerse y respirar una tensión, la mayoría de las veces impuesta por
los preparadores, es innecesario más allá de cuando el crono se para.
En este sentido es importante conocer la tradición del debate en España.
La mayoría de los clubes de debate en España, jóvenes todos ellos, son de
Universidades Privadas. Una de las razones que mueven a esa competitividad
exagerada es la necesidad, por parte de las instituciones, formadores y alum-
nos, de distinciones. Distinciones que atestigüen una calidad o excelencia que
normalmente la Universidad Pública (esta tendencia está cambiando) no ne-
cesitaba obtener para la captación de alumnos. Que el debate sea (o haya sido
gestionado) fundamentalmente por Universidades Privadas, casi todas ellas de
carácter religioso, ha determinado un modelo (muy endogámico) con ciertas
características, una de ellas la competitividad, y dónde Con Acento marca un
punto y aparte en el mundo del debate.
Pero, ¿cómo combatir la tentación de competir y a la vez no perder el rigor
del torneo?
Con Acento es más que debate. Con Acento busca ofrecer a sus participan-
tes una experiencia que les enganche al debate de por vida. Así, para fomentar
vínculos de amistad, el reparto de habitaciones en el albergue es aleatorio, no
pudiendo dormir juntos nunca dos integrantes de un mismo equipo. Algo
tan exiguo al debate en sí (y que nos genera tantas críticas el primer día) es
una apuesta para evitar stress, entrenamientos nocturnos, fomentar el conoci-
miento de otros compañeros y sobre todo, formar redes entre todos los parti-
cipantes. Esta idea es repetida en todas las actividades que se realizan durante
el torneo con la intención de convertirlo en una experiencia, como visitas a la
ciudad o al parlamento, teambuildings, actividades de dinamización...
Pero, si hablábamos de cambiar el modelo y el modelo era gestionado
por centros de educación privada, algo indispensable es la gratuidad. Con
Acento tiene coste cero para centros y participantes desde que salen de casa
(la organización facilita hasta los billetes de tren con mejor combinación),
alojamiento, comida, transporte… y por supuesto, todas la actividades y ma-
teriales gracias a nuestros patrocinadores. Así, tienen las mismas opciones de
Con Acento 105

participar cualquier centro interesado o estudiante que conozca la actividad,


requiriéndose para la inscripción únicamente una carta de motivación. Hoy
por hoy, Con Acento es el único torneo en España totalmente gratuito para
sus participantes.
Sería difícil sin esta seña de identidad mantener el firme compromiso so-
cial que existe en Con Acento y que este trasmite. Desde los dos objetivos
principales, que poseen un marcado carácter social hasta la elección de los
temas a debatir (siempre dos, se sortea antes del comienzo de cada debate el
tema que será debatido en esa ocasión) y que hacen posible la presencia de pa-
trocinadores muy diversos y respetados (como puede ser la Universidad Pablo
de Olavide, el Defensor del Pueblo Andaluz, instituciones públicas…) Los
temas que se han debatido en las última edición han sido: ¿Favorece la globali-
zación a los países subdesarrollados? Y ¿Justifican las medidas de seguridad los
sacrificios de derechos civiles?
La repercusión que el torneo ha obtenido ha superado con creces las ex-
pectativas, tanto sociales, mediáticas, como por instituciones, patrocinadores
y participantes.
Este compromiso del que hablábamos afecta directamente a uno de los
pilares básicos de Con Acento: Extender el debate como herramienta educa-
tiva por los centros preuniversitarios de Andalucía. Así, los capitanes, siem-
pre profesores de los centros correspondientes, se convierten en objetivos tan
prioritarios como los alumnos, y desde la organización se presta un especial
interés a su formación, antes, mediante el envío de guías de debate, manuales,
videos, etc… Durante; en los feedbacks, y posteriormente, manteniendo un
contacto con ellos y facilitando información y asesoramiento para generar es-
tructuras de debate que permanezcan en el tiempo en los centros. La carencia
que existe en el modelo educativo español de participación proactiva por parte
del alumno es preocupante añadida al cambio de evaluación por competencias
que establece el Espacio Europeo de Educación Superior hacen del debate una
herramienta idónea, para valorar y potenciar competencias (Dominio del len-
guaje verbal y no verbal, capacidad para improvisar, de síntesis, análisis, ges-
tión del tiempo, autocrítica y honestidad, trabajo en equipo, capacidad crea-
106 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ

tiva, empatía, superación de situaciones de stress, capacidad de investigación


y uso transversal de los conocimientos y mayor facilidad comunicativa, como
mínimo, según el estudio de A. Barco, miembro de la organización) y para los
docentes a la hora de estructurar una participación de calidad y evaluable que
motive al alumno, desde la investigación de contenidos, aplicación de las en-
señanzas básicas y desarrollo como disposición transversal de los contenidos.
Precisamente otra de las características principales del torneo son los fee-
dbacks que se realizan tras los debates. Con Acento es una oportunidad para
aprender al ser el primer contacto de todos sus participantes con el debate y los
jueces y la organización son conscientes de ello. Así, los jueces motivan el resul-
tado y aconsejan a los participantes al finalizar cada debate por un tiempo igual
a la duración del debate. Por eso, uno de los criterios que priman a la hora de
seleccionar los jueces es su capacidad pedagógica y la plantilla es el doble que la
necesaria para dedicar el tiempo necesario a la formación, no sólo en feedbacks,
sino en los espacios de tiempo libre que tienen los participantes dónde coinciden
con los jueces. El progreso que experimentan los participantes desde su primer
hasta último debate (3 como mínimo, 7 los finalistas) es algo que sorprende a los
mismos debatientes, capitanes y público. La implantación en las aulas, objetivo
del torneo, es total en el caso de los profesores en su docencia particular y son
bastantes los centros que han comenzado a realizar torneos internos, formar otros
docentes, incluirlo en los programas de asignaturas, etc. Por lo que una parte
imprescindible de los feedbacks es asesorar a los docentes en como estructurar
debates, diferentes opciones, como plantear los temas, motivar a los debatientes,
evaluarlos, etc. El debate, es visto por los participantes, como una herramienta
totalmente diferente a la que creían antes de acudir a Con Acento (el modelo
televisivo es el referente) y sorprende su orden en las intervenciones, la profundi-
dad que puede alcanzar, el respeto por el rival y la implicación que logra obtener.
Así, y teniendo en cuenta que nos dirigimos a un público sin vicios gene-
rados por un modelo de debate, introducimos un nuevo factor a la hora de
juzgar nuestros debates. Es por eso que decidimos valorar muy positivamente
la búsqueda de consensos y puntos de encuentro con el equipo que defiende
la postura contraria. Este factor a la hora de puntuar es totalmente innovador.
Con Acento 107

Confundido muchas veces el debate, la defensa de posturas antagónicas, como


un espacio dónde no caben datos comunes, argumentos válidos para reforzar
una u otra postura en función del análisis que le acompañe, o incluso puntos
aceptados por ambas partes. Con esto premiamos el acercamiento al otro, la
búsqueda del consenso fruto del disenso y evitar debates paralelos, sin inte-
ractuación con la otra parte que poco producen, más que el espectáculo, al
carecer de puntos de encuentro.
Por último, el premio al ganador. Es fundamental que el premio no des-
virtúe el espíritu con el que los centros acuden, y mejor aún, con el que los
participantes salen del torneo. Por eso, el verdadero premio es participar en la
experiencia, aprender divirtiéndose y pudiendo aplicar lo aprendido de forma
inmediata, y “llevarse a casa” una ristra de amigos y contactos apasionados por
el debate. A los ganadores, la organización les regala una beca para estudiar de
forma gratuita el primer año en la Universidad Pablo de Olavide.
Trazados por encima los principios que dirigen el torneo y nuestros carac-
teres diferenciadores, quisiera terminar con algunos aspectos prácticos de la
gestión del torneo.
No es el lugar, ni mía la intención, aunque si cualquiera de los presentes
tiene curiosidad, de hablar de cifras y datos en detalles, pero sí repasar por
encima el modelo de debate para que sirva de comparación.
Con Acento tiene una duración de cuatro días y participan un total de 24
centros. Las solicitudes triplican el número de plazas disponibles (que la or-
ganización se está planteando en aumentar para la tercera edición) por lo que
se establecen varios criterios a la hora de seleccionar a los participantes, man-
teniendo una distribución territorial equilibrada, un cupo mínimo de nuevos
equipos, un ratio mínimo entre centros públicos y centros privados y una
carta de motivación redactada por el capitán.
Una vez seleccionados los equipos, se desvelan los temas de la edición
como mínimo un mes antes del inicio del torneo, que siempre son dos.
El transcurso del torneo se divide en una fase de grupos, dónde debaten
todos contra todos, y una fase final o de playoffs dónde se clasifican los 16
mejores equipos.
108 ANTONIO MARTÍN SANCHEZ

Los debates, en los que se celebra sorteo para elegir el tema de entre los
dos posibles y la postura que defenderá cada equipo, tienen una duración de
30 minutos, dividiéndose en cuatro intervenciones para cada equipo alternas;
introducción (4´), primera refutación (4´), segunda refutación (4´) y conclu-
siones (3´). Durante las refutaciones está permitido, siempre bajo la concesión
del orador, interpelar desde el equipo que no está en el uso de la palabra.
El Jurado, formado por un Juez principal (miembro de la organización)
y dos auxiliares (un exdebatiente ajeno a la organización con una trayectoria
reconocida y un profesor universitario) delibera en torno a los siguientes
ítems:

1. Responde a la pregunta de debate


2. Argumentos definidos
3. Argumentos variados
4. Adecuación del discurso al propio debate
5. Uso adecuado de los turnos
6. Pertinencia de las interpelaciones y agilidad en las respuestas
7. Actitud y coordinación del equipo
8. Rigor evidencias
9. Evidencias más variadas
10. Análisis de las evidencias
11. Recursos externos al orador
12. Naturalidad y expresividad
13. Dominio espacio y del tiempo
14. Dominio voz y silencios
15. Comienzos cautivadores y finales contundentes
16. Lenguaje variado y apropiado
17. Actitud respetuosa

No obstante, a pesar de la puntuación obtenida en la hoja de ítems (ambos


equipos pueden alcanzar el ítem en mayor o en menor grado, no son excluyen-
tes), el jurado determina el ganador del debate en base a su impresión general,
Con Acento 109

sirviendo la hoja de ítems para orientar y dirimir en caso de empates en la fase


de grupos.
Los criterios para clasificar a playoffs son el número de victorias, me-
nor número de faltas graves o leves (falta leve es interrumpir al orador del
equipo contrario sin su permiso o excederse del tiempo de intervención
prolongadamente)
Todos los debates son grabados para su posterior análisis y ayuda a la inves-
tigación por parte de la organización.
Todos los debates se celebran en la Universidad si bien no todas las activi-
dades se celebran, como hemos anticipado, en esta. La organización prepara
multitud de actividades para fomentar la convivencia en la ciudad de Sevilla.
En sus dos primeras ediciones Con Acento contó con financiación total-
mente pública de diversas instituciones.
Por último, no puedo olvidar el factor de éxito de Con Acento y que me
toca aquí representar, su equipo humano. Con Acento es el fruto del tra-
bajo de más de 20 personas, en su totalidad, estudiantes universitarios, que
desarrollan la actividad sin ningún ánimo de lucro, más que por su afición
al debate. Ellos han sabido configurar un clima de profesionalidad extrema,
dónde la imagen es cuidada al detalle, los ritmos medidos al minuto y la aten-
ción al participante es extrema. No obstante, a pesar de esa profesionalidad
que hace al participante observar la importancia del evento y aprovechar cada
segundo, el equilibrio con la cercanía hace que los alumnos se sientan como
en casa. Todo ello, sin más recompensa que la formación y las sonrisas de los
debatientes.
CLAUDIO FUENTES BRAVO
CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

Diseñando debates:
preliminares para un enfoque dialógico y crítico

Abstract

I dibattiti formativi praticati negli Stati Uniti e replicati con forza in America
Latina rappresentano un approccio filosofico antropologico-relativista in quan-
to orientati all’uditorio e alla persuasione. Un approccio al dibattito che faccia
riferimento ad un approccio critico razionalista deve invece confidare nella
forza logica degli argomenti e orientarsi alla riflessione e alla risoluzione dei
conflitti. Pertanto, per condurre gli studenti ad acquisire queste ultime capa-
cità, è necessario un progetto di dibattito formativo che si distingua da quello
antropologico-relativista e non ne perpetui gli errori. La presentazione di tale
modello, in chiave pragma-dialettica, sulla scia di van Eemeren e Grootendorst
e della Scuola di Amsterdam, sarà l’obiettivo di questo articolo. Il modello
di dibattito da noi elaborato si differenzia da quello antropologico-relativista
per due nuovi principi: lo scopo perseguito non è il trionfo personale quanto
invece l’interesse dell’intera collettività che si propone di risolvere un conflit-
to; il modo di perseguire lo scopo è un processo da realizzare attraverso forme
argomentative dotate di validità formale e informale, di rilevanza conoscitiva
e/o di peso probatorio. In questo contesto le quattro fasi della discussione cri-
tica pragma-dialettica permetteranno di capire quando il dibattito soddisferà i
requisiti della discussione critica e quando invece no.
Per evitare che il dibattito si risolva in una discussione tra sordi è introdotta
inoltre una terza squadra che migliorerà il flusso delle informazioni tra le due
squadre antagoniste e limiterà il rischio che siano omesse informazioni rilevan-
ti. Infine, rompendo definitivamente con la tradizione del dibattito retorico,
i partecipanti non dovranno cercare l’adesione del pubblico ma sforzarsi di
112 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

presentare una proposta ragionevole per la risoluzione del conflitto di opi-


nioni, impegnandosi anche, con uno sforzo metacognitivo, ad impugnare le
loro stesse conclusioni. Solo introducendo e riservando un’ulteriore terza fase
di riflessione sulle argomentazioni, proprie e altrui, emerse nell’incontro, il
dibattito potrà dirsi e diventare veramente critico.

1. Diseñando situaciones argumentativas

Tal como expresaran Jacobs y Jackson en Designing argumentation protocols


for the classroom (2002), nuestro propósito fundamental en este manuscrito es
“ampliar la pragma-dialéctica hacia una empresa de diseño1”. Aunque por ra-
zones que iremos mostrando a lo largo de este manuscrito, no sólo intentare-
mos ampliar la pragma-dialéctica, sino que además intentaremos integrar ésta
a otros enfoques, que serían susceptibles de incorporar a un plan de diseño
para dar cuenta de una situación argumentativa compleja.
La línea de pensamiento que se sigue al identificar un discurso como dise-
ñable –afirman Jacobs y Jackson (2002)- “(…) tiende cada vez más a la inter-
vención activa en escenarios donde se da la argumentación – y el tipo de práctica
que se deduce de la intervención motivada por la teoría, tiende cada vez más hacia
una empresa de diseño disciplinado”. La capacidad de la pragma-dialéctica para
el diseño se desprende básicamente de su visión procedimental (Jackson y
Jacobs 2006; Jackson y Aackhus 2005). Así, para Jackson:
La argumentación que se produce en todos los tipos de discurso como
un método para reparar el desacuerdo, opera según procedimientos que son
más o menos formales e invocados de manera más o menos explícita. Estos
procedimientos definen roles de participación, formas permitidas de acción

1  Jackson define diseño en sentido general (2002, p. 106), como el empleo de conocimien-
to teórico para resolver problemas prácticos a través de la construcción de cosas o de la “con-
strucción ingeniosa”. En el contexto de la argumentación los autores se refieren a la resolución
de “problemas insolubles” en situaciones de conflicto.
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 113

comunicativa, y otras características tales como la concesión de la presunción


a una u otra parte en una disputa. (Jackson 2002, p. 106)
La situación argumentativa que abordaremos en este manuscrito es el de-
bate académico2, y en relación con ella plantearemos una serie de considera-
ciones a partir de las cuales surgirán exigencias que intentaremos incorporar a
una propuesta de diseño. En lo que sigue realizaremos un recorrido selectivo
de enfoques teóricos que pondrán a prueba la consistencia de una situación
dialógico-argumentativa como el debate, con los requisitos mínimos de su
adecuación pedagógica.

2.  Fundamentos para un enfoque crítico de debate académico

El debate en términos generales es una práctica cultural signada por un


ideal de razonabilidad, lo que genera, a su vez, una gran dificultad para con-
verger en una definición del concepto mismo de razonabilidad (Hoppmann
2009; Zarefzky 2009). Lo razonable para los griegos –recordemos-, se erigió
como un bien de discusión pública. Aún hoy persiste cierto consenso ilustrado
que defiende esta juiciosa práctica, pero no siempre ha sido así. La historia de
occidente, de hecho, se ha empecinado más tiempo en identificar lo razonable
con aquello que se deduce a partir de verdades reveladas, aquello que se negocia
únicamente por el mérito de las razones.
En relación con lo anterior, van Eemeren y Grootendorst (2003) distin-
guen entre los enfoques descriptivos, en teoría de la argumentación, que fa-
vorecen una concepción antropológica, como es el caso de la lingüística y la
etnografía, de los enfoques normativos que favorecen una concepción crítica,
como ocurre en la lógica y los enfoques pragmáticos.

2  Según Freeley y Steinberg (2009), el debate es un proceso de interrogación y defensa,


una forma de llegar a juicios razonados sobre una proposición. Los debates académicos tratan
sobre una proposición con un interés académico (educacional) y es típicamente presentado por
un profesor, un jurado o una audiencia que tienen incidencia directa en la decisión sobre la
proposición.
114 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

Tanto la práctica del debate académico (Branham 2001; Freeley y Steinberg


2009; Snider y Schnurer 2002), como los enfoques dialécticos contempo-
ráneos de la argumentación (Barth y Krabbe 1982; Lorenzen, 1978, 2000;
Kuno Lorenz, 1978, 2009; van Eemeren y Grootendorst 2003, 2007) com-
parten supuestos “muy familiares” para racionalistas críticos y trascendentalistas
pragmáticos.
Como ejemplo de esta familiaridad leamos lo que dice Branham acerca del
debate académico:
Si el debate es “el proceso mediante el cual las opiniones son presentadas, apo-
yadas, disputadas y defendidas”, la ejecución de estas acciones a su vez requiere
que los argumentos utilizados tengan ciertos atributos. Por ende, el verdadero
debate depende de la presencia de cuatro características de la argumentación:
1) Desarrollo: Los argumentos son presentados y apoyados; 2) Confrontación:
Los argumentos son apropiadamente refutados; 3) Extensión, a través de la
cual los argumentos son defendidos tras ser refutados; y 4) Perspectiva: Los ar-
gumentos individuales son relacionados a la interrogante principal del debate
(Branham 1991, p. 22)
Si tenemos en cuenta los enfoques teóricos señalados hasta aquí, el compo-
nente crítico en una perspectiva dialéctica estaría dado por la voluntad compartida
de resolver una diferencia de opinión. Por otra parte, el aspecto crítico de la volun-
tad de resolución sería externo, se incorporaría a través de un criterio adicional de
razonabilidad, según el cual el procedimiento argumentativo debería orientarse.
Un modelo de debate inscrito en una tradición dialéctica tendría que, en
virtud de lo dicho, aspirar a alcanzar acuerdos basados en argumentos válida-
mente emitidos y no en razón de su éxito persuasivo. Lo que parece una ob-
viedad, no lo es tanto, de momento que constatamos que la práctica de debate
académico promueve la incorporación, y frecuentemente, la priorización de
habilidades performativas verbales en desmedro de las cognitivas orientadas
al análisis y producción de argumentos. Por otra parte, si además de suscribir
una tradición dialéctica el debate académico pretende orientarse críticamente,
su fin no debería ser otro que la búsqueda sistemática de la aceptabilidad de
los argumentos que sostienen un punto de vista.
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 115

Hasta aquí, un buen lector de filosofía contemporánea podría encontrar


en una propuesta dialéctica y crítica de fundamentación del debate académico
familiaridad teórica con el pensamiento de Apel y Habermas. No obstante,
las pretensiones universalistas de una fundamentación trascendental, parecen
acercarnos más al racionalismo de Karl Popper y Hans Albert.3
“La actitud crítica, la tradición de la libre discusión de las teorías con el
propósito de descubrir sus puntos débiles para poder mejorarlas, es una ac-
titud razonable, racional. Hace un uso intenso, tanto de la argumentación
verbal como de la observación, pero de la observación en interés de la argu-
mentación... La exigencia de pruebas racionales en la ciencia indica que no se
comprende la diferencia entre el vasto ámbito de la racionalidad y el estrecho
ámbito de la certeza racional: es una exigencia insostenible y no razonable.”
(Popper 1983, p. 75)
La familiaridad que proponemos de un enfoque dialéctico y crítico del
debate académico con el racionalismo crítico se puede revisar a la luz de la
exposición que Albert hace del trilema de Münchhausen.
“Si se pide para todo una fundamentación, entonces debe pedirse tam-
bién para los conocimientos a los cuales se haya retrotraído la concepción
por fundamentar, lo cual lleva a la situación con tres alternativas que son
por igual inaceptables, o aparecen como tales: 1) un regreso al infinito, que
no es realizable y por eso no proporciona fundamento alguno; 2) un círculo
lógico en la deducción, cuando se recurre a enunciados que ya antes se habían
mostrado como enunciados que requieren fundamentación, lo que tampoco
conduce a un fundamento seguro porque es lógicamente defectuoso; y 3) una
interrupción del procedimiento en un punto determinado, que si bien parece
realizable en principio, implicaría sin embargo, una suspensión arbitraria del
principio de la fundamentación suficiente”. (Albert 1973, p. 25)

3 No profundizaremos en esta prolífica y profunda discusión, esencialmente por razones


de espacio. La discusión al respecto se encuentra abierta para la filosofía. Para quien quiera
profundizar recomendamos la lectura de “La disputa del positivismo en la sociología alemana”
(Adorno et al. 1972).
116 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

El racionalismo crítico sostiene la imposibilidad de una fundamentación


última para la filosofía, pretensión que se esboza en oposición tanto del ra-
cionalismo clásico moderno como de la crítica trascendentalista kantiana del
conocimiento4. En opinión de Appel (1987) el racionalismo crítico combina
(1) el distanciamiento de un racionalismo que no ha reflexionado críticamen-
te sobre la imposibilidad de auto-validación con (2) la afirmación de que el
programa filosófico de fundamentación puede ser sustituido por un programa
alternativo de crítica racional ilimitada.
De manera intuitiva, estaremos de acuerdo con que un programa académi-
co (educacional) de debate coincidiría (dado nuestro conocimiento del debate
cotidiano) con la descripción de (o debería fundamentarse como) un pro-
grama de crítica racional ilimitada. Por otra parte, aunque de manera menos
intuitiva, podríamos coincidir con la otra parte de la observación de Appel,
que el racionalismo crítico (entendamos aquí debate académico) se distancia
de cierto racionalismo (modelos retóricos de debate) que no ha reflexionado
sobre su imposibilidad de validación.
Por lo anterior, nos interesa en este manuscrito el enfoque problematizador
del racionalismo crítico, y más aún, la salida planteada por Popper al trilema
de Münchhausen a través de la aplicación sistemática de su criterio de contras-
tabilidad a los enunciados básicos de una teoría. La contrastabilidad, según
su propuesta, determinaría el contenido empírico de teorías y enunciados en
“grados de contrastabilidad”. En otras palabras, cuanto más y mejor puede ser
sometido a contrastación un enunciado (sin llegar a ser falsado), tanto mayor
es su contenido empírico.

4  Una crítica a los argumentos de Albert ha sido expuesta con profundidad por Apel en
The Problem of Philosophical Foundations in Light of a Transcendental Pragmatics of Langua-
ge (1975). Una visión más amplia de la disputa entre los racionalistas críticos y los miembros
de la Escuela de Frankfurt, se puede revisar en un clásico imprescindible, La disputa del positi-
vismo en la socialogía alemana (Appel, K. O. et al. 1972). En la misma línea de Appel, Cortina
y Martínez (2008) sostienen que el profesor de Manheim se encontraría atrapado también en
un “decisionismo dogmático”. En este sentido, los argumentos que defienden la opción de una
racionalidad falibilista aparecerían tan arbitrarios como aquellos que son denunciados.
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 117

Al respecto, es relevante destacar la utilidad del concepto de proceso de


contrastación en el diseño de instrumentos de evaluación de debates académi-
cos. Si asumimos que “el contenido empírico” será un criterio para diferenciar
la fuerza argumentativa de un argumento en razón de otro, entonces es fácil
representar en un esquema el proceso dialéctico en el que intervienen pares de
participantes entregando argumentos de defensa y de ataque a una proposición
controversial.
Para el racionalismo crítico una fundamentación última del conocimiento
(incluyendo una de naturaleza pragmático-trascendental) es una quimera de
la razón. La “voluntad de certeza” –dice Albert- es contraria a la “voluntad de
conocimiento”. En definitiva, esta introducción pretende contextualizar la fa-
miliaridad del concepto de falibilismo con la práctica del debate académico. El
debate cotidiano parece encarnar “en los hechos”, sin haber mediado consenso
ni reflexión sobre una determinada praxis, lo que Albert llamó principio de pre-
servación de la voluntad de conocimiento, es decir, que no haya ningún punto de
vista posible que se sustraiga a la crítica racional. Las restricciones, las cláusulas
a los puntos de vista debatibles, las sospechas sobre intereses, se correlacionan
-la historia de las ideas está de nuestro lado- frecuentemente con la aparición
de un discurso que reflexiona sobre los límites del conocer o del actuar.

3.  Diálogo, debate y metacognición.

Snider y Schnurer sostienen en Many Sides: Debate Across the Curricu-


lum (2002) que “(…) en el mundo del debate, es un dogma fundacional que la
competitividad motiva el logro intelectual” (Snider y Schnurer 2002, p. 8) No
obstante, la competitividad en el mundo de la pedagogía ha sido recurrente y
seriamente criticada, en especial por los autores que curiosamente el mismo
Snider y Schnurer citan como referentes de su trabajo, a saber, Paulo Freire
(2000, 2002) y Peter Mc Laren (1990, 1993, 2005).
Más allá de la cita específica de Snider y Schnurer (2002), que a nuestro
juicio exhibe cierta desorientación en la fundamentación del debate académico,
118 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

el texto completo de los autores aludidos parece querer fundamentar los bene-
ficios de la práctica del debate académico a partir de un listado de testimonios
y opiniones. No ocurre algo muy diferente en otros reconocidos autores de
texto en el ámbito del debate académico, a saber, Freeley y Steinberg (2009) y
Branham (2001), por citar algunos connotados.
En los libros de texto, aún concediendo que se trataría de manuales que
intentan meramente guiar la práctica y no reflexionar sobre los fundamentos,
no se evidencia un interés por considerar estudios científicos sobre los efectos
positivos y especialmente negativos del uso del debate en contextos educati-
vos5. Digamos de paso, que la literatura al respecto es abundante y accesible
para cualquier investigador precavido6. La fundamentación de la práctica del
debate académico en estos manuales de texto suele dar paso a la persuasión
testimonial sobre sus beneficios, por medio de giros retóricos que suponíamos
debían ser superados por la práctica de la herramienta que se quiere enseñar.
Una referencia muy socorrida en los manuales de texto que tratan sobre
debate académico y en muchos casos, la única que se explicita, es el monumental
estudio de Matlon y Keele (1984) “A survey of participants in the national debate
tournament, 1947-1980”. De cualquier manera, el estudio de Matlon y Keele,
siendo una investigación que ilustra con precisión el impacto positivo del debate
académico en la vida laboral de los participantes, no entrega datos relevantes
para responder el listado de aspectos negativos que el debate produciría o alienta

5 Destacamos la necesidad de referirse a los aspectos negativos ya que son frecuentemente


omitidos. Un ejemplo es el listado de Firmin (2007).
6 Los siguientes son estudios en relación con el debate que Firmin (2007) destaca en Using
Debate to Maximize Learning Potential: A Case Study: (1) Examen de posiciones opuestas
de una cuestión (Mooney 1991; Ingalls 1985), (2) promoción de la igualdad de género y la
promoción de las perspectivas feministas (Elliot, 1993; Bruschke & Johnson 1994, y Haffey
1993), (3) promoción de los valores liberales de arte en el currículo (Rohrer 1987), (4) mejora
de habilidades de los estudiantes de comunicación (Garrett, Campana, y Schoener 1996), (5)
superación de miedos (Gersten 1995), (6) participación activa del estudiante en el proceso de
aprendizaje (Crone 1997), (7) habilidades de pensamiento crítico (Colbert y Biggers 1987), y
(8) empoderamiento de los estudiantes a asumir la responsabilidad de su propio aprendizaje
(Frederick 1987).
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 119

según datos del estado del arte en la investigación de estrategias dialógicas de


aprendizaje. Al respecto, parece relevante decir algo sobre las observaciones de
algunos autores relevantes como Kuhn (2008), quien sostiene que el examen
de lados opuestos de un problema no siempre conduce a los argumentadores a
dejar sus posiciones originales. Esto es importante para nosotros toda vez que lo
que importa en el debate es el desarrollo del pensamiento crítico (ligado íntima-
mente al concepto de revisión de creencias) y no del pensamiento dogmático.
Como una muestra de las críticas más recurrentes al debate, veamos un
resumen que presenta Eyzaguirre et al. (2003): (1) confrontacionalidad (como
actitud negativa frente al otro, no como cualidad crítica de análisis, es decir,
como contrastabilidad); (2) inflexibilidad del punto de vista, (3) falta de aper-
tura a la revisión de creencias; (4) falta de actitud cooperativa en la resolución
del conflicto argumentativo; (5) propensión a desarrollar un clima hostil hacia
la contraparte; (6) restricción para la co-construcción de conocimiento; (7)
restricción de la discusión a una única proposición por debate.
 El informe de Matlon y Keele es moralmente neutro. Es decir, podría
ser el caso que el debate pudiera impactar positivamente en la obtención de
trabajo o en la promoción a mejores puestos dentro de una empresa, pero
ignoramos qué tipo de habilidades son las que permiten estos logros y si esas
habilidades son aceptables moralmente para un plan curricular o si esas habi-
lidades son prioritarias en un sistema educativo.
En lo que sigue, consideraremos las críticas planteadas y propondremos
un diseño de debate que nos permita comenzar a superarlas, puesto que un
debate, cualquiera, no sólo el debate académico, es un tipo de diálogo. Para
determinar qué tipo de diálogo es el debate y cómo podríamos rediseñar sus
características en orden a obtener un modelo adecuado a las exigencias de
una herramienta de apoyo a procesos educativos, usaremos la clasificación
de Rabossi (2002). Este autor distingue entre diálogo y situación dialógica,
definiendo a su vez, siete elementos constituyentes de esta última:

(1)  Un diálogo es una secuencia textual producida por quienes


participan en una situación dialógica y,
120 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

(2)  Una situación dialógica es un proceso dinámico en el que in-


teractúan los siguientes componentes:

a.  dos o más participantes con capacidad para producir e inter-


pretar proferencias lingüísticas,
b.  un lenguaje común a los participantes y un bagaje adecuado de
conocimiento mutuo,
c.  secuencias de actos de habla producidos por los participantes,
d.  intervenciones pautadas de los participantes,
e.  uno o varios tópicos o temas que dan identidad a la situación y
permiten fijar la relevancia de los actos de habla de los parti-
cipantes,
f.  una meta o resultado posible, no dialógico, que los participantes
se proponen alcanzar de manera cooperativa, y
g.  conjuntos mínimos de cánones, generales o específicos, que re-
gulan el desarrollo y las exigencias participativas de cada tipo
de situación dialógica.

Las letras a, b, c, d, e y g, representan características verificables en cual-


quier diálogo-debate, no obstante el componente f, exhibe una característica
privativa de situaciones dialógicas cooperativas y críticas, que no encontramos
en un diseño de debate tradicional.
La categorización de la situación dialógica de Rabossi nos permite cotejar
la presencia de todos los elementos estructurantes del diálogo-debate crítico,
uno a uno, con la clasificación teórica, destacando los dos últimos (i) presen-
cia de una meta colaborativa y (ii) dotación de un conjunto mínimo de cánones.
Ambos elementos entregan un matiz diferenciador al debate como actividad
dialógica, reglamentada, estructurada, crítica, cooperativa y no meramente
competitiva.
Con respecto a lo anterior, los distintos tipos de debate practicados en Es-
tados Unidos y que se han replicado con fuerza en Latinoamérica desde inicios
de la década de 1990, como Cross Examination Debate Association, CEDA,
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 121

NDT Debate (Policy Debate) y Parliamentary Debate, entre otros, representan


modalidades competitivas –que de acuerdo con van Eemeren y Grootendorst
(2003) se identificarían con un enfoque filosófico antropo-relativista orienta-
do a la audiencia, la persuasividad y la prescripción de la conducta. Un diseño
de debate que declara su filiación a un enfoque filosófico crítico-racionalista
se define en oposición a las características anteriores, y es esencialmente un
enfoque orientado a la reflexión y no a la prescripción conductual, y confía
en la fuerza lógica de los argumentos y plantea la posibilidad de análisis de
una controversia de opinión a través de la reconstrucción estructurada de sus
etapas, orientándose fundamentalmente hacia la resolución del conflicto.

4.  Características ideales del debate académico como modalidad


dialógica

Lo dicho hasta aquí respalda la necesidad de proponer un sistema de de-


bate académico que supere ciertas características negativas para contextos
educativos.
Para cumplir con la exigencia anterior, necesitamos, en primer lugar -usan-
do la conceptualización de Rabossi (2002)- adaptar la situación inicial y la
meta del diálogo-debate a las necesidades de una modalidad dialógica híbrida
que llamaremos debate-crítico. Para esto, deberíamos sustituir la situación ini-
cial característica de un diálogo-debate tradicional, a saber, la competencia abier-
ta de puntos de vista por la existencia de tesis u opiniones divergentes relativas a
un tema o problema común; y sustituir además, la meta perseguida característica
de un diálogo-debate tradicional, a saber, obtener el triunfo de mi posición sobre
la del otro, por exponer su tesis sobre un tema o problema común, ofrecer argu-
mentos razonables a su favor, evaluar la tesis de la contraparte, criticarla, y tratar
de persuadirla de los méritos de la tesis propia. Los detalles de esta hibridación
será nuestro próximo objetivo en este manuscrito.
Las características especiales del diálogo-crítico aportan al concepto tradi-
cional de debate un par de nuevos principios, estos son, (1) respecto de la cate-
122 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

goría meta perseguida: no debe prevalecer el triunfo personal o el interés propio


por sobre el interés colectivo que se relaciona con la resolución del conflicto,
y (2) respecto de la categoría modo de alcanzar la meta: se debe persuadir a la
contraparte apelando sólo a formas argumentativas evaluables, únicamente
en términos de validez formal o informal, relevancia cognoscitiva y/o peso
probatorio (Rabossi, 2002)
En este contexto, el modelo pragma-dialéctico para una discusión crítica
(van Eemeren y Grootendorst, 2003), que define claramente las etapas de una
discusión crítica, es muy útil para distinguir cuándo una interacción dialógica
cumple con los requisitos de un debate-crítico y cuándo no lo hace.
Sin embargo, como es claro, para validar la utilización del modelo pragma-
dialéctico de una discusión crítica, debemos aceptar antes la analogía entre dis-
cusión crítica y debate crítico. En principio, ambos conceptos son intuitivamente
equivalentes en sus presupuestos y complementarios en sus efectos para el diseño
de un modelo de diálogo-debate. El modelo de discusión crítica se puede definir
como un dispositivo teórico que tiene como objetivo ex-post reconstruir una situación
argumentativa concreta, a partir de sus partes fundamentales y el debate crítico se pue-
de entender como un modelo teórico que regula ex-ante una situación argumentativa
para que se conduzca bajo los criterios que lo definirían como un diálogo crítico.
Un punto de partida para diseñar un modelo de debate académico con las ca-
racterísticas que nos hemos propuesto, es considerar referencialmente el modelo
ideal de resolución de disputas de van Eemeren y Grootendorst (2003) compuesto
de cuatro etapas, las que corresponden a las cuatro fases de una discusión crítica,
y cotejarlo con la experiencia concreta en debate-académico escolar en Chile,
que podemos obtener de las opiniones de docentes y estudiantes, extraídas de
los Informes Técnicos de Evaluación del Torneo Nacional de Debates 2002,
2003, 2004 y 20057. Este ejercicio nos permitirá definir con precisión aspectos
relevantes para el diseño de un modelo de diálogo-debate crítico.

7 Los informes de evaluación citados fueron elaborados por Paulina Chávez y entregados
al Ministerio de Educación de Chile en el contexto del Programa de Debates Estudiantiles
coordinados por la Unidad de Transversalidad del MINEDUC y el actual Centro de Estudios
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 123

5.  La reconstrucción de discusiones críticas

Etapa de confrontación: Se establece que existe una disputa. Un punto de


vista se presenta y es puesto en duda.

Esta exigencia presenta limitaciones en el ejercicio de un ejercicio de debate


académico con niños y adolescentes (específicamente de aquellos establecimientos
educacionales calificados en situación de riesgo social o bajo rendimiento acadé-
mico), y podría explicarse, entre otras factores más complejos de delimitar (socia-
les, educacionales y económicos), por el concepto de “déficit interpersonal” descrito
por Hidalgo y Abarca (2000). Los estudiantes referidos, en situación de debate,
muestran grandes dificultades para expresar claramente sus puntos de vista a no
ser que haya sido claramente expresado el conflicto de opinión por sus profesores.
Los estudiantes además, exhiben falta de confianza en sus propias elaboraciones
argumentativas, lo que se suma a que la mayoría de los profesores entrevistados
frecuentemente no confía en las capacidades y compromiso de sus estudiantes
(Chávez, 2003). La construcción autónoma de razones para sus puntos de vista es
poco frecuente entre los estudiantes. Es una práctica común entre los estudiantes
dejar en manos de sus profesores la elaboración de sus argumentos, cuando
esto es requerido para la preparación de un debate (Chávez, 2003). En los re-
feridos informes, Chávez, en varios momentos, reporta la dificultad que presentan
los actores del programa de debate MINEDUC 2002-2005,8 con la expresión
enunciativa de un conflicto de opinión. Se valora, en ese mismo documento, la
necesidad de poner a disposición de los participantes, un dispositivo didáctico que

de la Argumentación y el Razonamiento (CEAR) de la Facultad de Psicología de la Universi-


dad Diego Portales. Este programa contempló (1) la capacitación en argumentación y debate
de estudiantes y profesores del sistema de establecimientos subvencionados de Chile entre la
tercera y la octava región, en su mayoría liceos de capitales regionales, y (2) la organización en
el año 2005 de un Torneo Nacional de Debate.
8 Programa de debates patrocinado por el Ministerio de Educación de Chile entre los
años 2002 y 2005 y ejecutado por el actual Centro de Estudios de la Argumentación y el
Razonamiento.
124 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

facilite la expresión proposicional de los “conflictos de opinión” de manera clara y


consistente.
Los objetivos que surgen de la consideración de la descripción de la etapa
de confrontación, enfrentada a las limitaciones de la práctica concreta serían
los siguientes:

1. Desarrollar, potenciar y/o estandarizar (según haga falta) las habi-


lidades sociales y comunicacionales generales de los estudiantes que
participarán de un programa de debate.
2. Proveer una estructura proposicional estandarizada para expresar los
conflictos de opinión en un debate.

Etapa de apertura: Se toma la decisión de intentar resolver la disputa por


medio de una discusión argumentativa reglamentada. Una parte toma el rol de
protagonista, lo que significa que está preparada para defender su punto de vista
por medio de la argumentación. La otra parte toma el rol de antagonista, lo que
significa que está preparada para desafiar sistemáticamente al protagonista a de-
fender su punto de vista.

Los estudiantes se muestran mayoritariamente proclives a que un programa


de debates exhiba protocolos y reglas de funcionamiento, versus un programa
que no los exhiba u otro que tenga una regulación más laxa (Chávez, 2003). El
respeto de los protocolos del debate académico, como las regulaciones de rol
y tiempo de discurso, aseguran en opinión de los docentes asesores un orden
en la exposición de argumentos, además de permitir una evaluación justa,
más acertada y eficiente (Chávez, 2003). Las nociones de protagonista y an-
tagonista que aporta el modelo pragma-dialéctico nos permiten entender una
dinámica distinta de la interacción argumentativa que permitiría en un mo-
delo de debate-crítico, evitar los vicios argumentivos característicos del debate
académico tradicional. Por otra parte, esta nueva dinámica facilitaría la imple-
mentación de una modalidad de evaluación que se basaría en la preeminencia
del discurso argumentativo del protagonista o –dicho en jerga del debate aca-
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 125

démico- discurso afirmativo (gracias a que define un universo de discusión o un


conjunto de razones como referencia obligada para la contraargumentación)
y obliga al antagonista a una defensa sistemática e inevitable (críticamente
hablando) de las razones efectivamente expuestas del protagonista.
Objetivos que surgen de la consideración de la descripción de la etapa de
apertura confrontada a las limitaciones de la práctica concreta:

1. Valorar la existencia de protocolos y reglas de regulación de rol y


turno en el diseño de un debate.
2. Implementar un sistema de evaluación que de cuenta del dinamis-
mo de un modelo de debate y que reduzca la probabilidad de arbi-
trariedad y error en la valoración de los jueces.

Etapa de argumentación: El protagonista defiende su punto de vista y el


antagonista, si tiene más dudas, requiere de él o ella más argumentación. Debido
a su rol fundamental en la resolución de la disputa, la etapa de argumentación es
considerada a veces como la "verdadera" discusión.

Un problema corriente de los debates académicos escolares, debido al tipo


de debate que se practica, es que los participantes evitan la interrogación di-
recta, la confrontación de datos u objeciones. Frecuentemente, lo que se ob-
serva –en opinión del público asistente a un debate académico tradicional-,
es un verdadero debates de sordos (Chávez, 2003), dado que ninguna de las
partes refiere directamente lo que la otra ha establecido como una razón que
defiende su punto de vista. Para evitar esta anomalía del diálogo-debate, es
necesario establecer mecanismos que aseguren la calidad del intercambio ar-
gumentativo de los participantes. Un mecanismo interesante de aplicar en el
diálogo-debate es la incorporación de un tercer actor en la discusión, a saber,
un equipo investigador. La inclusión de un equipo investigador que se sume a
las bancadas afirmativa y negativa, tradicionales, mejoraría el flujo de informa-
ción en el debate, evitando la omisión de información relevante y poniendo
a disposición de las partes los argumentos centrales a la discusión. Agregaría
126 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

también un poco de incertidumbre al intercambio argumentativo haciéndolo


más espontáneo. La incorporación de este tercer actor al debate implicaría la
concreción de un elemento que la teoría argumentativa asume como funda-
mental: la existencia de tres puntos de vista posibles a partir de un conflicto de
opinión: positivo, negativo y neutro. Objetivos que surgen de la consideración
de la descripción de la etapa de argumentación confrontada a las limitaciones
de la práctica concreta:

1.  Asegurar la calidad del intercambio argumentativo en el formato de


debate.
2. Incorporar una bancada de investigación a las bancadas tradiciona-
les, afirmativa y negativa, y considerar la existencia de tres puntos
de vista en el debate.

Etapa de conclusión: Se establece si la disputa ha sido o no resuelta, basándo-


se en que se ha retirado el punto de vista, o la duda referente al punto de vista. El
protagonista puede adoptar un punto de vista opuesto a su punto de vista original.
También puede debilitar o alterar su punto de vista original, o bien adoptar un
punto de vista cero.

Esta es –típicamente- una exigencia teórica que con dificultad puede ser
cumplida en los debates concretos. De hecho es una exigencia que no se ob-
serva en los debates académicos tradicionales (CEDA, NDT, Parliamentary
Debate). Incorporar los conceptos descritos por el modelo teórico para la eta-
pa de conclusión al debate que intentamos configurar, implicaría un aporte
muy relevante desde una teoría dialógica de la argumentación a la práctica
del debate académico. El debate, en el diseño que estamos configurando, para
respetar la propuesta del modelo ideal de resolución de disputas de van Ee-
meren y Grootendorst (2003), tendría que cerrarse sin una obligación de rol
en la defensa de un punto de vista. Los participantes de un debate, deberían
entonces, ocuparse en –rompiendo con la tradición retórica del debate aca-
démico- cerrar el debate, ya no intentando ganar la adhesión de la audiencia,
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 127

sino esforzándose por hacer una propuesta razonable para la resolución del
conflicto de opinión. Esta adaptación culmina por diferenciar un enfoque de
debate orientado a la persuasividad de un enfoque de debate orientado a la
resolución. Derivadamente, la distinción que acabamos de hacer nos permite
aclarar otra diferencia, la persuasión responde naturalmente a un interés pres-
criptivo y la resolución a un interés reflexivo (crítico). La reflexividad, enten-
dida como la acción que un agente racional realiza cuando se vuelca sobre sus
propias operaciones cognitivas para valorarlas, actúa para su corrección con
determinados fines, para su adecuación con el contexto o simplemente para
contemplarlas. El factor reflexivo que incorpora el diálogo-debate es el que le
da el nombre de crítico y lo distingue de un diálogo-debate tradicional. Crítico
es otro nombre (ligado a la tradición filosófica) para denotar la acción reflexiva
que un agente racional vuelva sobre sus operaciones cognitivas. En el ámbito
de la psicología contemporánea se ha denominado a éste mismo fenómeno
metacognición.
El cambio de rumbo en la comprensión del debate académico, que despla-
zamos desde una tradición retórica antropo-relativista, hacia una concepción
dialógica crítica racionalista, involucra un impacto no sólo en el diseño de una
modalidad para la práctica del debate, como hemos visto, sino también en la
filosofía de fondo, en los presupuestos cognitivos a la base de nuestras afirma-
ciones, que afectan a su vez la comprensión que tendremos de los procesos
de aprendizaje o de construcción de conocimiento, que dicho sea de paso,
no pueden desligarse del diseño de un modelo de debate adecuado a los fines
declarados y actualizado en relación al estado del arte en filosofía de la mente
y psicología de la cognición.
Al respecto leamos a Leitão (2008):

“La extensión del campo de reflexión del individuo desde fenómenos


hacia afirmaciones acerca de fenómenos (cogniciones) [se puede entender]
(…) como un proceso de diferenciación entre niveles de semiotización del
pensamiento. Tal diferenciación puede ser teóricamente descrita como una
transición desde el plano cognitivo (en el cual se produce conocimiento sobre
128 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

los objetos del mundo) hacia un plano metacognitivo de funcionamiento psi-


cológico (donde se reflexiona acerca de los fundamentos y límites del conoci-
miento producido)” (Leitao, 2008, p. 113)
En definitiva, un principio fundamental para el diseño de un modelo de
debate adecuado y actualizado, como hemos dicho, deberá incorporar un mo-
mento metacognitivo, es decir una etapa en donde los participantes puedan
volverse sobre las argumentaciones realizadas y desde un contexto distinto,
juzgar lo hecho con la libertad de revisar sus creencias e impugnar sus propias
conclusiones si el caso lo amerita.
En resumen, los objetivos que surgen de la consideración de la descrip-
ción de la etapa de conclusión confrontada a las limitaciones de la práctica
concreta:

1. Incorporar un cierre del debate sin obligación de rol.


2. Orientarse sin equívocos a la resolución del conflicto de opinión y
no la persuasión del jurado o la audiencia.
3. Incorporar un espacio o momento de metacognición que permita
la crítica del proceso dialéctico, revisando creencias e impugnando
conclusiones se fuese necesario.

6.  Aportes de un enfoque dialógico cognitivo al diseño de un modelo


de debate

En los últimos años nos hemos interesado en la investigación realizada en


torno al enfoque dialógico-cognitivo de la psicología, como una manera de
complementar el trabajo multidisciplinar en torno a la práctica y aplicación
del debate en la educación que habíamos desarrollado desde hace 8 años. A la
discusión sobre los fundamentos y a la consideración de los reportes cualita-
tivos acerca de la práctica del debate realizados por Chávez (2003), debíamos
agregar la consideración de los estudios de la dialogicidad desde una perspec-
tiva psicológica y cognitiva.
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 129

En este ámbito en particular, nos interesamos en los trabajos centrados en


el estudio del vínculo entre habilidades argumentativas y desarrollo del pen-
samiento y construcción de conocimiento (Leitão, 2000; Kuhn, 1992; Billig,
1987). Creemos que este enfoque, en particular los trabajos de Leitão (2000,
2004, 2008), nos permiten cubrir los intersticios que nuestro discurso teórico
hasta aquí aún no ha logrado cerrar.
La dialecticidad inherente a la interacción argumentativa promovería un
tipo de aprendizaje “socio-constructivo”, es decir, que enfatiza más el proce-
samiento de los contenidos de manera de comprenderlos o de incorporarlos
al sistema conceptual de una persona más que memorizarlos y repetirlos (La-
rraín, 2006).
El punto de vista de la argumentación como una práctica social que implica
la negociación de la divergencia, implica un énfasis en la argumentación como
un proceso generador de procesos cognitivos colaborativos que favorecen la
construcción de perspectivas de los participantes. En franco contraste con la
postura clásica de Piaget (1997), que sostuvo que la solución del conflicto cog-
nitivo se alcanza mediante la aplicación de mecanismos de regulación interna,
la resolución es vista por Leitao como un proceso afectado por las demandas
específicas de las situaciones argumentativas.
El enfoque cognitivo-dialógico de Leitao profundiza desde una perspectiva
empírica el potencial excluyente de la argumentación para poner en marcha
procesos de cambios de perspectivas. La teoría de la argumentación ha asu-
mido este principio desde siempre aún cuando no nos había dado pruebas de
su prevalencia en situaciones reales. Esta situación, es necesario decirlo, ha
comenzado a cambiar.
Leitão (2008) ha propuesto un procedimiento analítico diseñado para cap-
tar procesos de revisión de creencias en la argumentación que nos ha sido muy
útil en el diseño de un modelo crítico de debate. El procedimiento analítico
de Leitao se basa en una unidad de análisis conformada por tres componentes:
argumentación, contra-argumentación y respuesta. A cada uno de estos, le co-
rresponden funciones generales y específicas, es así como la función discursiva
la podemos apreciar en el establecimiento de la argumentación; la función
130 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

psicológica o cognitiva, en la instalación del proceso de revisión de creencias;


y la función epistémica, en la (trans)formación del conocimiento.
La exposición de estas dimensiones se puede resumir de la siguiente forma
(Leitao, 2008):

1. El primer elemento, el argumento, permite identificar el punto de


vista sobre el cual la argumentación es establecida y las ideas con las
cuales el proponente lo justifica. Desde el punto de vista del fun-
cionamiento cognitivo del individuo, el argumento crea un punto
de referencia en relación al cual el proceso de evaluación (y eventual
transformación) de perspectivas defendidas puede, o no, instalarse
en las fases posteriores de la argumentación. Desde un punto de vis-
ta epistémico, el argumento captura una organización momentánea
de conocimiento del individuo sobre un tema determinado.

2. El segundo componente, el contra-argumento, captura la existencia


en el discurso de las voces de oposición que introducen la dialectici-
dad inherente a la argumentación. La presencia del contraargumen-
to, a nivel del funcionamiento cognitivo representa para el discurso
la alteridad, que permite al individuo evaluar su posición inicial en
virtud de la contraposición. A nivel epistémico el contraargumento
desencadena el proceso de revisión de creencias.

3. Finalmente, el tercer elemento, la respuesta, es definido como la


reacción –inmediata o remota– a la oposición por parte del pro-
ponente. Su presencia en la argumentación marca la toma de con-
ciencia del individuo de las concepciones que se contraponen a sus
posiciones y la forma como a éstas reacciona, refutándolas o incor-
porándolas (parcial o completamente) a sus propias posiciones

El tercer elemento de la unidad de análisis propuesta por Leitão nos da


una pista de lo que podríamos considerar, desde una perspectiva dialógico-
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 131

cognitiva, propiamente, crítico. Una acción en un sujeto puede ser identificada


como crítica cuando exhibe algún grado de modificación epistémica, esto es,
una nueva organización del conocimiento del argumentador como resultado
de la confrontación entre perspectivas. La comparación entre la formulación
inicial del argumento y la reformulación de éste, en respuesta a los contra- ar-
gumentos, es el recurso analítico que permite capturar eventuales cambios de
posiciones inicialmente defendidas (Leitão, 2008). 
Las unidades de análisis de Leitao tienen una función distinta al uso que
estamos sugiriendo para el debate. Si para Leitao se trata de un conjunto de
categorías que nos permiten captar los procesos de revisión de creencias, para
nosotros se trata de un conjunto de criterios que nos pueden guiar en la cons-
trucción de un modelo de debate crítico. En cierto sentido, usamos los resulta-
dos de una perspectiva descriptiva de la argumentación, para fines normativos,
para la obtención de un diseño argumentativo.
La consideración de las unidades de análisis de Leitao, a nuestro juicio,
sugiere una dirección a seguir, una respuesta a cómo organizar las partes de un
debate, de manera tal que el diseño promueva entonces las tres competencias
básicas de la interacción argumentativa: discursiva, cognitiva y epistémica. Por
otra parte, el aspecto crítico, ahora ya rigurosamente definido, como parte de
la función epistémica, debe tener una relevancia especial en el diseño de un
debate académico.

7.  Propuesta general de diseño para un modelo de debate crítico

El modelo estaría compuesto de tres etapas (argumentación, contraargu-


mentación y cierre de resolución), en cada parte participan tres bancadas9, de

9 Entidad compuesta de un conjunto de agentes que asumen   un rol argumentativo (pun-


to de vista) según cierta estrategia de juego.
132 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

tres debatientes10, cada uno con un turno de tres minutos para la exposición
alternada de argumentos11 y contraargumentos12. Sumado a los tres minutos se
contempla la adición de dos minutos para realizar y responder a una pregunta
de la contraparte y la adición de un minuto para realizar y responder a una
contrapregunta de la contraparte. Es importante recordar que cada bancada
defiende un punto de vista diferente del punto de vista de su contraparte. Los
puntos de vista son, o afirmativo, o negativo o neutro (éste último, para efec-
tos de este diseño lo llamamos de investigación).
La controversia de opinión se representará a través de una estructura pro-
posicional compuesta de cuatro partes que respetan la gramática castellana y al
mismo tiempo destacan conceptos de lógica modal y pragma-linguística. Un
ejemplo de controversia bien construida es la siguiente:

“Se debe permitir el aborto terapéutico en Chile”. En esta proposición


distinguimos, un indicador modal deóntico (se debe), un verbo que refleja
una cierta intención ilocutiva de la oración (permitir), un tema (el aborto
terapéutico) y un contexto que equivale al complemento circunstancial de
lugar de la gramática española (en Chile). Cada una de estas partes nos indi-
ca distintas funciones características. El indicador modal, el tipo de debate
al que nos enfrentamos y el paso relativo de los argumentos; el verbo, lo que
debemos probar y derivadamente el tipo de estrategia que debemos seguir;
el tema, lo que debemos investigar; y el contexto, la delimitación del tema
de investigación.

10  Agente epistémico autónomo inteligente y activo que tiene un rol dentro de un equipo
de trabajo.
11 Un argumento es una estructura lógico-lingüística formada por un conjunto de asun-
ciones (p.e. información a partir de la que se puede obtener una conclusión) y una conclusión
que puede ser obtenida por uno o más pasos de razonamiento. Las asunciones funcionan como
soporte de los argumentos, y su conclusión usualmente es llamada pretensión.
12 Un contraargumento es una estructura lógico-lingüística que dado un argumento A1,
un contra-argumento se define como un argumento A2 tal que o A2 es una refutación para A1
o A2 es un debilitamiento para A1.
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 133

8.  Conclusiones

En este ensayo proponemos lineamientos generales para el diseño de un


modelo de debate que hemos llamado “debate crítico”. El concepto de diseño
argumentativo lo hemos obtenido de Jackson (2002).
El modelo que proponemos es fruto de la consideración de una serie de
enfoques teóricos acerca de la argumentación que contrastados a resultados de
la práctica concreta nos sugieren ciertas modificaciones al diseño tradicional
de la práctica del debate.
Hemos realizado algunas críticas a la forma habitual de fundamentar el
debate en libros de textos estadounidenses. Nos referimos a los más populares
y los más representativos. Validamos una serie de críticas al debate tradicional
que surgen de autores relevantes (Billig, Kuhn, otros). Creemos que un buen
diseño debería intentar superar las objeciones presentadas.  Un aspecto cen-
tral de este manuscrito es la consideración de la perspectiva cognitiva dialógica
de Leitao, de quien decimos que ha guiado y complementado nuestro trabajo
teórico en los últimos años.
Damos cuenta de la adaptación que hacemos de su modelo de análisis
para guiar nuestro diseño. De la contrastación de la experiencia concreta con
debates escolares y las exigencias que la consideración del modelo de resolu-
ción crítica de van Eemeren y Grootendorst (2003) derivamos una serie de
principios para el diseño. El primero de ellos se distingue de los anteriores y lo
analizamos por separado. Los siguientes están dispuestos en un cuadro com-
parativo que nos permite correlacionar de qué elemento del diseño se trata y
el aspecto de la teoría al que corresponde.
- Desarrollar, potenciar y/o estandarizar (según haga falta) las habilidades
sociales y comunicacionales generales de los estudiantes que participarán de un
programa de debate.

Si ponemos atención, este principio es muy cercano a uno de los princi-


pios que Habermas (1987) propone para la formación de un diálogo ideal
en la Teoría de la acción comunicativa. Este principio recuerda al teórico de
134 CLAUDIO FUENTES BRAVO - CRISTIÁN SANTIBÁÑEZ YÁÑEZ

la argumentación la relevancia de las variables culturales y socioeconómicas


que afectan la producción discursiva. Las diferencias en el capital léxico, la
desigualdad en el nivel de competencia social y comunicativa, por nombrar
algunas, pueden generar distorsiones enormes en los efectos de la aplicación
de un programa de debate en el contexto educativo.

Elemento del debate Correspondencia con aspecto de


la teoría
Etapas del debate Modelo analítico de Leitao

Argumentación Desarrollar función discursiva

Contraargumentación Fortalecer el papel de la alteridad en


la construcción de conocimiento,
en la producción de acuerdos y en la
construcción discursiva, etc.

Cierre de resolución Reforzar la función metacognitiva.


La revisión de creencias.
Presencia de tres bancadas Clasificación de puntos de vista
(afirmativa, negativa y neutra) según teoría pragmadialéctica.
Cierre de debate sin obligación de Orientación a la reflexión (no a la
rol prescripción de la acción). Puntos de
partida de la teoría pragmadialéctica
de la argumentación.
Obligación de turno Tradición dialéctica de la
argumentación.
Diseñando debates: preliminares para un enfoque dialógico y crítico 135

Orientación a la resolución de las


Cierre resolutivo controversias (no a la persuasión
de la audiencia). Puntos de partida
de la teoría pragmadialéctica de la
argumentación.
Estructura proposicional para la Elementos de pragmática lingüística,
representación de la controversia de lógica informal, lógica modal y
opinión gramática de la lengua española.
Evaluación de argumentos basada
Sistema de evaluación dialéctico en criterio comparativo.
Fuerza argumentativa (cogency).
Elementos de lógica informal.

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CATERINA BOTTECCHIA

“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico


arricchimento formativo

Abstract
I vantaggi didattici di “Palestra di botta e risposta” possono essere riassunti in due
categorie fra loro interdipendenti: da un lato la partecipazione al torneo di disputa
contribuisce al raggiungimento stabile degli scopi della formazione liceale e dall'altro
consente di superare molte difficoltà che gli insegnanti di frequente accusano e alcu-
ni difetti di comunicazione del quotidiano processo di insegnamento-apprendimento.
Nell'articolo si propongono esercizi ed attività utili alla preparazione degli studenti
impegnati nel torneo di disputa e riflessioni sulla ricaduta didattica dello stesso torneo,
un'ottima opportunità per i ragazzi di oggi, che vivono in una società in continua e
rapidissima evoluzione.

Premessa

Scopo di queste pagine è presentare le nuove riflessioni suscitate in me


dalla prosecuzione dell'attività relativa al percorso didattico “Palestra di botta
e risposta”. Alla luce della mia esperienza didattica come docente di filosofia
e storia e della mia partecipazione come formatrice e giudice al torneo di
disputa filosofica, ho potuto rafforzare la mia convinzione della straordinaria
validità di questo progetto formativo che è andato coinvolgendo un numero
sempre crescente di classi e docenti, nonché un pubblico sempre più nume-
roso (comprendente studenti delle scuole partecipanti al torneo, ma anche
docenti e famiglie).
Mi sembra si possano riassumere i vantaggi didattici derivanti da quest'at-
tività in due categorie fra loro interdipendenti: da un lato la partecipazione
al torneo di disputa contribuisce in modo sostanziale al raggiungimento degli
scopi che la formazione liceale si propone e dall'altro consente di superare
140 Caterina Bottecchia

agevolmente molte difficoltà che gli insegnanti di frequente accusano e alcuni


difetti di comunicazione che possono rendere meno fluido il quotidiano pro-
cesso di insegnamento-apprendimento.
L’obiettivo di questo lavoro non è spiegare in che cosa consista questo per-
corso didattico (si veda, a questo proposito, il capitolo L'argomentazione nella
scuola de La svolta argomentativa, volume indicato in bibliografia) o giustifi-
carne la riproposizione ai licei, ma mostrarne nuovi punti di forza ed indicare
alcuni modi per collegarlo in modo più stretto alla ferialità didattica.

Il torneo di disputa filosofica e la quotidiana attività didattica

Un confronto onesto tra gli spunti teorici offerti dai testi di didattica - o
dai corsi di formazione - e la pratica non può che far constatare al docente la
difficoltà di motivare e coinvolgere gli studenti per un tempo prolungato col-
tivando in loro la pazienza e la disponibilità a rivedere o correggere il proprio
lavoro. Chiunque insegni sa quante energie vadano disperse nel tentativo di
educare alla costanza, alla precisione e all'impegno e quanta delusione tale
dispersione comporti.
La disputa, che verte spesso su questioni che si collocano a fianco o al di
là dei contenuti disciplinari normalmente affrontati nelle ore di filosofia, con-
sente di acquisire in modo stabile obiettivi che, purtroppo, spesso sono solo
momentaneamente raggiunti.
La variazione degli stimoli, indicata dagli esperti come una delle strategie
funzionali a catturare l’attenzione dei discenti, unita alla dimensione ludica
del torneo, ridesta la curiosità e l'interesse di tutti i ragazzi, agendo su di loro
come propulsore motivazionale e facendoli desistere da facili rinunce. E, an-
cora, il fatto che l'attività proposta non si esaurisca in un unico episodio, ma
implichi, fin dalla fase eliminatoria, una serie di incontri con squadre diverse,
impone di mantenere alti il controllo e l'impegno, pena l'inadeguatezza o la
sconfitta in un incontro successivo. Non servono molte parole del docente
perché i ragazzi si rendano conto che aver vinto (o perso) una disputa su tre
“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 141

della fase eliminatoria non li qualifica (o squalifica) immediatamente, perché


vogliano tornare ad analizzare il dibattito per individuare i propri punti di
forza e debolezza e trovare margini e strategie di miglioramento!
Il ruolo dell'insegnante in questa fase consiste nel controllare l'attività
spontanea degli studenti, intervenendo a colmare le eventuali lacune nell'as-
segnazione e nello svolgimento dei compiti: ad esempio, può consigliare a
qualcuno di costruire una griglia di osservazione o valutazione da utilizzare
per ripensare all'incontro già effettuato o per seguire quelli venturi, anche di
altre squadre; può esortare uno o due studenti a raccogliere le osservazioni
della giuria, a confrontarle con le impressioni della classe e a tenere una breve
relazione in cui siano evidenti gli aspetti positivi e quelli da migliorare; può
formare piccoli gruppi di lavoro, il più possibile eterogenei, che si concentri-
no ciascuno su un problema particolare e ne cerchino la soluzione. Tra tutti
i vantaggi che i piccoli gruppi offrono dal punto di vista didattico mi limito
a menzionarne uno qui particolarmente rilevante: lo scambio di spiegazioni
e comunicazioni si fa più fitto e richiede un livello molto alto di riflessione e
metacognizione. Dal canto suo l'eterogeneità dei gruppi costringe ciascuno
studente ad esplicitare certi sottintesi solitamente da lui considerati condivisi
universalmente e pertanto indiscutibili.
Un'altra possibilità per il docente è riprendere i discorsi proposti in fase
di replica dalla propria squadra per stimolare gli studenti ad analizzarne la
pertinenza alla luce delle mosse effettivamente compiute dagli interlocutori,
valutarne la chiarezza e la solidità, immaginare varianti e ipotesi alternative
con cui compararli.
È abbastanza semplice predisporre esercizi, che possono anche essere fa-
cilmente valutati e le cui ricadute didattiche vanno ben oltre il torneo, come
per esempio la riscrittura di un discorso in un numero minore o maggiore
di parole, oppure la stesura di una versione più chiara o più convincente,
o, ancora, più mite o più aggressiva del medesimo testo. Un altro esercizio
fattibile consiste nella scrittura di almeno tre brevi testi diversi a partire dalla
medesima scaletta o mappa concettuale: si stimolano i ragazzi a esplorare e,
all'occorrenza, sfruttare meglio la ricchezza della lingua italiana, li si esercita
142 Caterina Bottecchia

a variare la disposizione delle parti del testo, si suggerisce loro la possibilità di


scegliere e soprattutto di individuare dei criteri di scelta. Si può chiedere ai
ragazzi di leggere una fonte, o anche un intervento tratto da una disputa, se-
lezionando i contenuti rilevanti in riferimento a obiettivi diversi; gli studenti
possono essere allenati a riconoscere e denominare alcune fallacie o a muovere
obiezioni (nel caso di discorsi effettivamente tenuti diverse da quelle già mos-
se) o a neutralizzarle.
Dunque il docente che accompagna una squadra nel torneo di disputa fi-
losofica, oltre all'opportunità di assegnare ruoli differenti a chi effettivamente
pronuncia i discorsi, ha quella di assegnare compiti personalizzati di diversi
tipi per tutti i discenti anche in altri momenti: l'intera classe può essere diret-
tamente coinvolta in queste attività, sia che partecipi al torneo con una squa-
dra variabile, sia che la mantenga fissa. La disputa vera e propria, così come
la sua preparazione e la sua revisione, mette i ragazzi di fronte ad un compito
autentico; il sapere che qui risulta efficace e vincente non può essere ricondot-
to ad una serie di contenuti appresi in modo mnemonico o rigido, ma è invece
riorganizzato in maniera personale, sfruttato in modo creativo ed efficace in
relazione agli obiettivi di volta in volta differenti che l'allievo si trova davanti.
“Palestra di botta e risposta” promuove le capacità e corregge i limiti di cia-
scuno, favorisce lo sviluppo di un sapere elastico, che intreccia conoscenze e
competenze in un insieme adattabile ed effettivamente adattato al contesto,
rivelandosi un percorso che risponde a tutti i requisiti che, secondo gli esperti
dell'OCSE e del Consiglio sul Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli per
l'apprendimento permanente, ma anche secondo gli studiosi, sono propri di
un buon percorso didattico.
Vi sono anche altri vantaggi; mi limito ad indicarne alcuni: l'obiettivo
comune - migliorare per vincere le sfide successive ed eventualmente il tor-
neo - aiuta gli studenti anche ad appianare i contrasti; l'attività cooperativa
dei piccoli gruppi promuove l’empatia e facilita il raggiungimento del (pic-
colo) traguardo di cui ciascun gruppo avverte la responsabilità; l'acquisizione
di nuove competenze sociali, ma anche filosofiche, tramite la cooperazione,
anziché tramite l'obbedienza ad un superiore, modera l’individualismo e la
“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 143

competitività, valorizza le risorse degli “spiriti divergenti” e nel contempo ne


placa la carica dirompente per il gruppo.
Le nuove indicazioni ministeriali per l'insegnamento della filosofia confer-
mano la rilevanza della discussione razionale e delle capacità argomentative ai
fini della maturazione della capacità di giudizio critico e dello sviluppo della
riflessione personale, che presuppongono quella disposizione all’approfondi-
mento che l'attività di disputa filosofica consente di coltivare1: l'attitudine a
problematizzare i contenuti conoscitivi, ma anche le proprie credenze ed i
propri valori, prima acriticamente assunti come ovvi, è infatti notevolmente
stimolata dal progetto. La natura del nostro dibattito, che, pur non demoniz-
zando la retorica e non escludendo la mozione degli affetti, richiede vengano
offerti all'interlocutore argomenti plausibili a sostegno delle tesi in cui ci si
riconosce, impedisce l'adesione incontrollata o superficiale a posizioni prede-
terminate. La disputa educa al rispetto della diversità, insegna la responsabi-
lità delle parole, palesando il nesso inscindibile tra retorica, logica ed etica, e
ripetutamente induce gli studenti a porsi con passione la domanda “perché?”
e a tentare di rispondere in modo onesto e convincente, facendo vivere loro
un'esperienza autenticamente filosofica.
Alcuni topici, estremamente interessanti, hanno richiesto ai ragazzi di in-
tegrare e far interagire conoscenze e competenze provenienti da ambiti di-
versi: anche questo esercizio si rivela fruttuoso e coerente con le già citate
indicazioni ministeriali che raccomandano di orientare l'attività didattica alla
comprensione delle “radici concettuali e filosofiche [...] dei principali proble-
mi della cultura contemporanea”, nonché all'individuazione dei “nessi tra la
filosofia e le altre discipline”2.

1  “La conoscenza degli autori e dei problemi filosofici fondamentali dovrà aiutare lo stu-
dente a sviluppare la riflessione personale, l’attitudine all’approfondimento e la capacità di
giudizio critico; particolare cura dovrà essere dedicata alla discussione razionale, alla capacità di
argomentare una tesi, riconoscendo la diversità dei metodi con cui la ragione giunge a cono-
scere il reale, e all’importanza del dialogo interpersonale”. (Bozza Indicazioni Nazionali Licei ,
12 marzo 2010).
2  Bozza Indicazioni Nazionali Licei , 12 marzo 2010.
144 Caterina Bottecchia

Nonostante i ragazzi, soprattutto nelle prime esperienze di disputa, incon-


trino ancora difficoltà a compiere quest'integrazione, sia i risultati raggiunti
dagli stessi studenti già alla fine del percorso, sia quelli emersi uno o due anni
dopo la partecipazione al torneo ci incoraggiano a continuare in questa dire-
zione. Sono infatti decisamente aumentati nei ragazzi che hanno partecipato
al progetto l'interesse per questioni filosofiche, politiche e sociali, la proprietà
di linguaggio, l'abilità di selezionare rapidamente le informazioni utili per
rispondere ad un'obiezione o ad una domanda, ma anche le capacità metaco-
gnitive e, conseguentemente, l'autocontrollo nelle situazioni di prova. Non è
sembrato casuale, a noi docenti impegnati a vario titolo nel progetto e riuniti
per la riflessione e la verifica del percorso, che gli studenti che si sono ci-
mentati nella disputa ottenendo i progressi maggiori abbiano sostenuto degli
eccellenti colloqui in sede di esame di stato e abbiano affrontato con successo
la terza prova scritta.
A volte è difficile per noi insegnanti realizzare percorsi e prove di verifica
interdisciplinari: i tempi sono sempre più stretti, lo studio di alcuni autori
- imprescindibili sia secondo le indicazioni ministeriali vigenti sia secondo
quelle indicate come ipotesi per il futuro - richiede già di per sé una fatica
enorme ai ragazzi, abituati a brevi percorsi obbligati, risposte semplici e si-
cure. “Palestra di botta e risposta” fa emergere la profondità e la poliedricità
della filosofia, dal momento che permette di valorizzare aspetti meno noti del
pensiero dei filosofi del passato e di far vedere gli stessi filosofi sotto una luce
diversa agli studenti, ma offre anche la possibilità di lavorare davvero in modo
interdisciplinare, aprendo interessanti finestre sui dibattiti filosofici attuali e
mostrando come essi mantengano vivo il dialogo con le altre discipline.
La particolarità e la complessità delle questioni dibattute non di rado co-
stringono i ragazzi a rompere l'isolamento tra le varie discipline e riescono ad
abbattere il muro tra scuola e mondo, contribuendo concretamente allo svilup-
po del senso civico: nella fase di ricerca del materiale infatti gli studenti si inter-
rogano su questioni a cui prima non avevano mai pensato, interpellano docenti
diversi da quello di filosofia, ma coinvolgono anche le famiglie ed altre agenzie
educative o fonti di informazione, e scoprono frequentemente l'esistenza o lo
“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 145

scopo di istituzioni prima per loro sconosciute. La partecipazione al torneo di


disputa filosofica contribuisce così anche a diminuire la distanza che a volte si è
costretti a registrare tra l'istituzione scuola e le altre istituzioni ed agenzie edu-
cative e mira alla costruzione di un sapere non più avvertito dai ragazzi come
estraneo ed inutile, ma armonicamente collegato con la loro personalità e la loro
vita extrascolastica presente e futura. È per questa ragione che mi è sembrato
importante sottolineare fin dall'inizio la presenza tra il pubblico, non solo alla
finale, di alcuni familiari dei ragazzi ed è in quest'ottica che vanno comprese le
scelte di organizzare il torneo in incontri aperti al pubblico e di far disputare la
finale in un'aula prestigiosa dell'università, invitando le autorità civili.
Il torneo di disputa prevede l'incontro tra docenti di scuole o età diver-
se e, conseguentemente, favorisce il confronto e l'utilissima condivisione di
informazioni, esperienze didattiche, strategie e convinzioni metodologiche.
Anche i ragazzi conoscono studenti di altri istituti e si mettono in discussione,
aprendo i propri orizzonti, arrivando talvolta a valutare in maniera diversa se
stessi, i propri insegnanti, i compiti ed i carichi di lavoro quotidiani.
Per molti studenti che hanno effettivamente disputato l'esperienza del tor-
neo è stata orientante: se c'è chi, approfondendo una questione, ha scoperto
una grande passione per una scienza o un insieme di problemi, se c'è chi ha
capito di volere proseguire gli studi frequentando filosofia all'università e se c'è
chi invece ha compreso di preferire intraprendere una strada completamente
diversa, tutti hanno imparato a conoscersi meglio e hanno potuto operare una
scelta più consapevole.
I diversi ruoli e compiti richiesti dalla partecipazione alla disputa han-
no agevolato docenti e studenti nella predisposizione e nello svolgimento di
percorsi personalizzati; il ricorso alla posta elettronica, oltre a facilitare e ad
accelerare notevolmente le comunicazioni, ha evitato la discontinuità nel tem-
po del lavoro di redazione e revisione dei testi, garantendo la possibilità di
conservarne e confrontarne le diverse versioni, e la puntualità delle correzioni,
elemento tutt'altro che trascurabile dal punto di vista didattico.
Le regole del torneo, poche ed apparentemente semplici, sono per lo più
formulate non in modo negativo, ma in modo descrittivo, cosicché i ragazzi
146 Caterina Bottecchia

sanno non tanto cosa non si può fare, ma, fattore ben più importante, cosa
si può fare e in che modo lo si può fare. Inoltre, durante la preparazione
e la revisione degli incontri di disputa, così come durante la disputa vera
e propria, i ragazzi ricevono, dai docenti e dai pari, tutti i tipi di aiuto es-
senziali per il processo di apprendimento: indicazioni verbali, ovviamente
accompagnate da segnali paraverbali e non verbali, ma anche dimostrazioni
di “come si fa” che vengono spontaneamente imitate. Così, nel corso del
torneo di disputa progressivamente il supporto che il docente deve fornire
ai ragazzi diminuisce (o diventa più raffinato), ad ogni tappa gli studen-
ti sono più autonomi e lo dimostrano correggendosi ed avvicinando per
approssimazioni successive il proprio comportamento a quello di oratori
esperti, capaci non solo di individuare un piano strategico, ma anche di ap-
plicarlo, segnalando la propria padronanza della situazione con un contatto
visivo più ampio e costante con interlocutori e pubblico. La percezione di
non avere più bisogno del continuo aiuto del docente e di non necessitare
più di compiti facilitati da qualcuno di più esperto è per i ragazzi chiarissi-
ma e, comprensibilmente, li gratifica. Ma si tratta di una gratificazione che
hanno meritato in pieno – di questo gli studenti sono pienamente coscien-
ti – e che corrisponde ad una loro effettiva crescita e dunque ha un valore
incommensurabilmente più alto di quello della gratificazione che consegue
ad un bel voto “preso per caso”.
Anche dal fatto che le prestazioni degli studenti sono sottoposte non alla
valutazione dei docenti della classe, ma a quella della giuria, riconosciuta come
esperta e soprattutto imparziale dai ragazzi, derivano importanti vantaggi.
Prima di emettere il suo verdetto, la giuria propone una valutazione com-
plessiva delle due squadre ed individua per ciascuno dei disputanti criticità
su cui lavorare e eccellenze, o almeno punti di forza, da coltivare: dunque la
valutazione della giuria è sempre formativa, è ricca di consigli ed indicazioni
potenzialmente utili per i ragazzi.
Al docente è offerta l'opportunità di confrontare il proprio metro di va-
lutazione con quello della giuria ed eventualmente di aggiustarlo, di notare
qualche difetto o pregio che aveva trascurato, di ricevere nuovi spunti di ri-
“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 147

flessione e stimoli per la propria attività didattica e la costruzione di prove di


verifica più significative.
È accaduto spesso che le valutazioni degli insegnanti siano state conferma-
te dalla giuria: in caso di risultati positivi i discenti si sono sentiti più sicuri e
hanno accresciuto la loro fiducia nel professore, in caso di risultati negativi il
verdetto della giuria, ignara dei risultati scolastici dei vari partecipanti al tor-
neo, ha consentito di superare la resistenza di alcuni studenti che, nonostante
gli sforzi del docente, non comprendevano o addirittura rifiutavano valuta-
zioni negative, precludendosi così la possibilità di migliorare. Non di rado,
qualche giorno dopo lo svolgimento di un incontro di disputa, studenti fino
a quel momento irrimediabilmente convinti di subire in modo del tutto in-
giustificato una valutazione troppo bassa hanno avvicinato il proprio docente
ammettendo “Prof. aveva ragione” e cominciando un dialogo che ha aperto la
strada a considerevoli progressi: spesso questi studenti si sono mostrati capaci
di darsi autonomamente obiettivi per migliorare e di assumersi le responsabi-
lità conseguenti in termini di impegno e disponibilità ad accettare correzioni
e suggerimenti.
La struttura della disputa facilita il riconoscimento dei progressi personali:
ciascuno nota, con il passare del tempo, come aumentino in coloro che inter-
vengono nel dibattito, magari svolgendo sempre lo stesso ruolo, la padronanza
della situazione e la scioltezza, ma anche l'abilità nel costruire un certo tipo di
discorsi, nel sollevare critiche o nel rispondere a un attacco. Utilissime a que-
sto proposito si rivelano le registrazioni o le riprese degli incontri di disputa
che consentono di riascoltare o rivedere anche più volte e a casa i vari inter-
venti e di raffrontarli. Anche tra coloro che non sono chiamati a interloquire
con gli avversari si possono notare miglioramenti sia nella rapidità e precisione
nello svolgimento di esercizi come quelli indicati più sopra, sia nella capacità
di valutare autonomamente le prestazioni di chi discute e di schierarsi a favore
dell'uno o dell'altro dei contendenti.
Il percorso proposto, che, scandito in tappe, dura quasi un intero anno
scolastico, non premia lo studio dell'ultimo momento o diretto solo al “bel
voto”; al contrario, pur non negando il valore dell'intuizione e dello spirito
148 Caterina Bottecchia

di iniziativa, manifesta quanto siano importanti per una buona prestazione,


e persino per l'improvvisazione, la conoscenza dei contenuti, la perseveranza
ed il labor limae. Questo risultato mi sembra particolarmente interessante non
solo per quei discenti che restano delusi per lo scarto tra l'impegno che pro-
fondono e gli esiti delle loro prove non sempre brillanti, ma anche per quegli
studenti che, più curiosi e veloci degli altri, spesso in classe si annoiano o si
distraggono, perdendo una parte delle spiegazioni tradizionali e svolgendo,
qualche volta, per la noia o per la fretta, un lavoro impreciso, in cui molte loro
potenzialità rimangono inespresse.
La partecipazione al torneo di disputa filosofica fa poi sperimentare come
in filosofia non ci sia “la risposta giusta”, ma si diano “diverse buone risposte”,
non ci sia un'unica strada obbligatoria, ma si aprano diverse direzioni possi-
bili. In ogni caso la prevedibilità e la controllabilità della disputa sono decisa-
mente inferiori rispetto alla normale pratica didattica: i ragazzi sono davvero
messi alla prova in queste situazioni e sviluppano naturalmente la capacità di
governarsi al meglio in condizioni che trovano complesse o inaspettate. Sap-
piamo bene quanto alcuni studenti all'esame di stato trovino difficile affronta-
re l'imprevisto (prove ministeriali, domande inattese, commissari esterni che
hanno un modo di porsi diverso da quello degli insegnanti conosciuti fino a
quel momento...); altri, nel corso del primo e a volte anche del secondo anno
di università, lamentano di non riuscire a prevedere o comprendere le doman-
de degli esami con la stessa facilità con cui al liceo riuscivano a prevedere le ri-
chieste dei docenti. Non possiamo dimenticare che è parte del nostro compito
di insegnanti di liceo preparare i ragazzi all'esame di stato e all'università: la
disputa ci consente di migliorare anche in questo ambito, rendendo i discenti
più duttili e promuovendo la loro capacità di fronteggiare gli imprevisti.
Appare superfluo sottolineare l'importanza della flessibilità e della correla-
ta capacità di far fronte all'imprevisto dal punto di vista educativo in generale
e in modo particolare per i ragazzi di oggi, che vivono in una società multi-
culturale, in continua e rapidissima evoluzione, e che potrebbero essere chia-
mati, in professioni o contesti nuovi –e che noi non siamo nemmeno in grado
di immaginare con precisione! – a far dialogare creativamente conoscenze e
“Palestra di Botta e Risposta”: un percorso di autentico arricchimento... 149

competenze provenienti da ambiti diversi. È nostro dovere di educatori e do-


centi impegnarci affinché gli studenti possano imparare a confrontarsi con gli
altri sapendoli ascoltare e senza imporre acriticamente le proprie visioni e, nel
contempo, senza scadere nell'indifferenza e nel relativismo. Dobbiamo inoltre
compiere ogni sforzo per sviluppare nei ragazzi l'elasticità che sicuramente
può aiutarli in un mondo tanto mutevole.
Sarà difficile che le loro comunicazioni, forti dell'esperienza della disputa,
si trasformino in un completo fallimento: tra le condizioni imprescindibili di
uno scambio comunicativo efficace e persuasivo vi sono proprio, da un parte,
la capacità di ascolto e l'impegno a non fraintendere intenzionalmente l'in-
terlocutore, dall'altra, l'impegno alla chiarezza e all'onestà, la padronanza del
contenuto, la precisa percezione di chi sia il destinatario e la consapevolezza
degli scopi della comunicazione, la capacità di adottare uno stile ed un com-
portamento che rispecchino la propria personalità, ma siano anche adeguati
agli interlocutori, al contenuto e allo scopo della comunicazione, tutti ingre-
dienti fondamentali anche della buona disputa.

Conclusione

Penso si possa concludere riassumendo quanto emerso e affermando che


questo progetto ha dimostrato di valere perché propone ai discenti una possi-
bilità di crescita vera e ai docenti una sfida autentica.
Secondo i pareri più autorevoli, infatti, un apprendimento è qualificato
positivamente se è attivo, cioè se il soggetto dell'apprendimento è consapevole
e responsabile del proprio percorso, costruttivo e collaborativo (cioè svilup-
patosi in una dinamica di interazione sociale): abbiamo visto come “Palestra
di botta e risposta” presenti queste caratteristiche. Inoltre, in un buon pro-
cesso di apprendimento svolgono un ruolo essenziale i processi motivazionali
e il linguaggio, mediatore del pensiero, ma anche costruttore di conoscenze,
proprio come accade nel nostro percorso. Infine, gli esperti non mancano di
sottolineare l'importanza di proporre ai ragazzi compiti autentici e contestua-
150 Caterina Bottecchia

lizzati, come è di fatto ciascun incontro di disputa, e la necessità di istituire un


circolo virtuoso tra conoscenza, esperienza e successiva riflessione.
A sua volta l'insegnamento è efficace e significativo nella misura in cui in-
tegra le nuove conoscenze con le conoscenze pregresse dello studente, è attivo
e situato, ma anche capace di promuovere la consapevolezza del processo di
costruzione della conoscenza nello studente. Un insegnamento efficace oggi
non può prescindere dalla combinazione e dall'integrazione di diversi approc-
ci alla realtà e diverse rappresentazioni della stessa. Un buon insegnante mira
a provocare la creatività dello studente e non gli chiede la semplice ripetizione
o la mera riproduzione, è aperto a diverse analisi dei contenuti culturali e a
più soluzioni agli stessi problemi. Il docente impegnato nel torneo di disputa
filosofica è chiamato ad essere proprio così ed a non concepirsi come erogato-
re di conoscenze, ma invece ad acquisire quella “professionalità estesa” il cui
tratto distintivo è la disponibilità ad una verifica costante del proprio lavoro.

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Bozza Indicazioni Nazionali Licei, 12 marzo 2010.
ROBERTO FALDUTI

Palestra di botta e risposta al microscopio:


considerazioni teorico-pratiche e analisi di una disputa

Abstract

L'articolo prende le mosse da alcune considerazioni preliminari sulla valutazione degli


incontri di disputa filosofica del progetto “Palestra di botta e risposta” che coinvolge
ormai da cinque anni molti studenti dei licei della provincia di Padova e, da quest'an-
no, del resto del Veneto. Vengono in seguito riassunte alcune osservazioni, condotte
su un'ampia casistica di dispute, sull'approccio all'argomentazione, gli argomenti più
usati, le fallacie e gli errori più frequenti, l'uso delle fonti da parte degli studenti. Nella
sezione successiva viene proposta la trascrizione integrale di una disputa esemplare,
corredata da un commento “tecnico” e tuttavia semplice ed accessibile: dai turni di
prologo a quelli di argomentazione e replica, fino all'epilogo e alla proclamazione della
squadra “vincitrice” da parte della giuria.

1. Considerazioni preliminari

Tentare un'analisi di una o più dispute svoltesi durante gli ultimi tornei
"Palestra di botta e risposta" è un'operazione che si è rivelata più difficile, e
soprattutto più problematica, del previsto.
La difficoltà deriva dal fatto che è impossibile pensare di poter analizzare
il materiale grezzo a disposizione solo trascrivendolo e "vivisezionandolo" per
scomporlo negli usuali moduli funzionali e per applicare le consuete categorie
logico-retoriche che riserviamo solitamente all'analisi di testi argomentativi.
Certo, anche tale operazione è necessaria e senz'altro fattibile: ma non si può
mai dimenticare, durante l'analisi, che ci si trova di fronte a un tipo di testo che
ha caratteristiche del tutto peculiari rispetto a qualunque altro testo argomen-
tativo. Si tratta infatti di dispute fra studenti, organizzate per fini soprattutto
154 Roberto Falduti

didattici, regolate secondo un protocollo e inserite nel contesto di un torneo


che prevede incontri eliminatori, semifinali, finali ecc. È naturale che durante
il lavoro di trascrizione e analisi delle dispute ci si trovi a ritornare e a riflettere
su alcuni nodi teorici (ed epistemologici e pratici) che riguardano la definizio-
ne di quest'attività specifica. Non è certo questa la funzione di questo breve
saggio, tuttavia mi sembra ineludibile l'accenno e il riferimento, per quanto
rapido, ad alcuni di questi nodi problematici.
Il primo, che è stato oggetto di riflessione fra quanti hanno contribuito
all'ideazione e alla realizzazione di questo progetto, è: come definire, come
classificare la tipologia della nostra attività? Che cosa "fanno" gli studenti che
affrontano questa attività? La denominazione di Torneo di disputa filosofica è
sembrata la più adeguata. In effetti, la scelta della definizione di campo (di-
sputa filosofica ) è importantissima per le implicazioni che comporta per chi
affronta l'attività e anche per chi la deve giudicare e/o analizzare. Adelino Cat-
tani ha fornito una argomentata e esaustiva distinzione fra diverse situazioni
dibattimentali1; io, per brevità, cito una definizione sintetica e recentissima di
Franca D'Agostini: Si ha una disputa “quando A e B difendono rispettivamente
p e non-p ed entrambi mirano ad avere ragione [...] la disputa è definibile come
controversia quando A e B cercano di prevalere, convincendo uno o più 'terzi' che
l'altro contendente ha torto. La controversia è dunque una disputa a tre termini,
con due opponenti e un terzo giudicante2
Si tratta del nostro caso. Sarebbe dunque più giusto definire la nostra atti-
vità come Torneo di controversia? Non credo che questa eventuale precisazione
sia importante. È importante invece mettere in rilievo la presenza di un terzo
giudicante, nel nostro caso una giuria formata da tre esperti, di cui due sono
chiamati a valutare la qualità, quantità, pertinenza e fondatezza delle argo-
mentazioni, il terzo a valutare tutto ciò che riguarda l'actio (vocalità, gestualità
ecc.): in pratica, due giudici per quello che si dice e un giudice per il come lo si
dice.

1  Cattani 2001, pp. 61-84


2  D'Agostini 2010, pp. 181-182
Palestra di botta e risposta al microscopio 155

Ecco il secondo nodo problematico ed ecco perchè mi si è presentato duran-


te il lavoro di analisi delle dispute: cosa valuta la giuria e come lo valuta? Avendo
fatto parte della giuria per la valutazione di molte dispute e trovandomi ora a
riascoltare (e dunque inevitabilmente a ri-valutare) le registrazioni delle stesse,
ho potuto notare una significativa differenza fra l'analisi a posteriori (fra l'al-
tro si potrebbe differenziare ulteriormente fra l'analisi effettuata su registrazioni
audio-video, solo audio, o su trascrizioni) e la analisi-valutazione da me stesso
effettuata sul momento, "a caldo", in cui comunque avrei dovuto valutare gli
stessi parametri (qualità, quantità e pertinenza delle argomentazioni). Si tratta
solo di diversi "tempi di reazione"? La differenza riguarda solo la rapidità con cui
si è costretti a valutare in tempo reale (rapidità che potrebbe far sfuggire qualche
aspetto dell'argomentazione, magari qualche aspetto fallace) e la ponderazione
con cui si può riconsiderare il tutto in ambiente neutro, laboratoriale? Credo
che questa spiegazione sia plausibile ma non esauriente: sono convinto che nella
valutazione della giuria che si occupa di quello che si dice sia prevalente, molto
più di quanto si possa ipotizzare, l'aspetto retorico anche quando si dovrebbe
valutare quasi unicamente l'aspetto logico dell'argomentazione. Non vorrei che
questa distinzione "elementare" fra aspetti logici e aspetti retorici, qui utilizzata
in maniera volutamente semplificatoria, venisse fraintesa: per intenderci, e per
semplicità, dirò che in una disputa ciò che un'eventuale giuria che si occupa
di quello che si dice dovrebbe valutare è né più né meno che la qualità (bontà)
degli argomenti addotti dall'una e dall'altra parte. Ovvero quello che la più
recente letteratura riguardante l'approccio di tipo argomentativo (per differen-
ziarlo dall'approccio unicamente logico-formale e dall'approccio unicamente
retorico) è concorde nell'affermare come derivante dalla correttezza (validità più
verità) unita alla persuasività degli argomenti3. La mia conclusione è che nella
valutazione "a caldo" della giuria (e si tratta pur sempre di una giuria esperta)
prevalgano gli aspetti a volte "dimenticati" o considerati meno importanti dalla

3  Per approfondire la questione (cruciale) della valutazione/valutabilità degli argomenti si


rimanda a D'Agostini 2010, che dedica un'intera sezione del suo libro alla questione (pp. 69-
99) giungendo peraltro a conclusioni diverse da quelle da me esposte
156 Roberto Falduti

teoria dell'argomentazione, quali il delectare e il movere, spesso relegati nell'am-


bito del puro dominio retorico nel senso stretto del termine; insomma, che la
persuasività dell'argomento si lasci intendere prima della sua correttezza, e a volte
anche indipendentemente da essa.
Tale conclusione non vuole né sminuire la competenza della giuria né tan-
tomeno inficiare la validità del progetto didattico, al quale credo fermamente
(e argomentatamente!) e del quale ho in diverse sedi illustrato le virtù, ma
semplicemente sfiorare (senza addentrarvisi) la vexata quaestio sulla fiducia
nella capacità "naturale" di giudicare la bontà o meno di un argomento da
parte di cosiddetti agenti razionali, intorno alla quale, come si è capito, le mie
posizioni non sono del tutto ottimiste.
Il problema è fra l'altro strettamente legato ad altre fondamentali questio-
ni oggetto di dibattito nella letteratura contemporanea sull'argomentazione,
quali la natura e la definizione delle fallacie argomentative (questione che non
sfioreremo nemmeno, anche se alcune considerazioni derivanti dal riscontro
più frequente di alcune fallacie in sede di disputa studentesca potrebbero es-
sere oggetto di un altro interessante tipo di studio) e ancora di più i rapporti
che la teoria dell'argomentazione intrattiene con la retorica e la definizione
dell'ambito delle competenze dell'una e dell'altra (ammesso che sia possibile,
appunto, una netta delimitazione).
In conclusione, nonostante il nostro protocollo di dibattito, cioè il format
usato nei nostri incontri, sia stato giustamente definito come avente una mo-
dalità di valutazione "primariamente logica ma anche retorica"4, la mia espe-
rienza di giudice e il lavoro di analisi successivo sul materiale registrato mi
portano ad aumentare il valore di quel ma anche, se non addirittura ad avere
la tentazione di rovesciare i termini.
Un altro nodo problematico che riguarda da vicino la valutazione (e l'analisi)
delle dispute è quello delle regole del confronto. Inutile ricordare che la letteratu-

4  Mi riferisco ad un saggio di prossima pubblicazione di Manuele De Conti, in cui il


format da noi utilizzato è messo a confronto con altri orientati più sul versante "logico" che
"retorico".
Palestra di botta e risposta al microscopio 157

ra sull'argomento è vastissima e qualificata: da Grice a Van Eemeren, passando


per Habermas e Apel5. Prendendo come riferimento il famoso "decalogo" di
Van Eemeren e Grootendorst, a tale proposito mi sembra di poter affermare che
nei nostri incontri si è data particolare rilevanza alla regola 1 e 2 (che riguardano
sostanzialmente il diritto di chiedere ragioni e il dovere di fornirle da una parte
e dall'altra); alla 3 e alla 10 (che riguardano sostanzialmente l'esatta definizione
della materia del contendere e il dovere di riferirvisi in modo non ambiguo: tale
richiesta di precisione si concretizza nel nostro caso già dal prologo della disputa,
attraverso il chiarimento di eventuali termini ambigui, la spiegazione della que-
stione dibattuta, fino alla definizione completa dello status quaestionis)6.
L'ultima osservazione riguarda ancora la particolarità del nostro proto-
collo (format). Manuele De Conti ne ha in questo volume spiegato la prove-
nienza e le particolarità e lo ha messo a confronto con altri consimili. Io mi
limito ad aggiungere ciò che appare in sede di valutazione e di analisi, e cioè
la vicinanza, pur nelle ridotte dimensioni, alla dispositio classica : l'esordio, che
serve a preparare il campo della disputa (e l'uditorio), corrisponde al primo in-
tervento di prologo; la narratio e la confirmatio, che possono corrispondere ai
due turni di argomentazione; la confutatio, che corrisponde alla fase di replica;
infine l'epilogo-peroratio, in cui il delectare ma soprattutto il movere assumono
una parte predominante, quando non ci si limita a una semplice recapitulatio.

2. Osservazioni sul percorso di dispute

Prima di procedere all'analisi di un caso esemplare di disputa, desidero an-


ticipare alcune conclusioni a cui sono giunto esaminando una casistica molto
più vasta di quella qui riportata. Ho individuato alcune linee di fondo che

5  Una rassegna esaustiva e una discussione critica delle varie posizioni si trova in Cantù
e Testa 2006
6  Per la formulazione completa delle regole di Van Eemeren si veda Cantù e Testa 2006,
pp. 88-89
158 Roberto Falduti

hanno caratterizzato le dispute fra studenti in questi anni, e ritengo che le più
importanti da mettere in luce siano quelle qui sotto elencate.
1) La prima riguarda la convinzione, supportata dal riscontro dei pro-
gressi notati nei gruppi di disputa che hanno partecipato ad almeno
3-4 incontri, che la consapevolezza dei meccanismi che regolano la
persuasione aumenti effettivamente in seguito alla pratica argomen-
tativa.
2) La seconda riguarda la grande utilità del momento di botta e risposta
vero e proprio, che non tutti gli altri protocolli prevedono, o alme-
no non con un ritmo così serrato.
3)  Queste due prime osservazioni non sono solamente una constata-
zione empirica di "buon funzionamento" del meccanismo di di-
sputa, ma sono strettamente legate ad uno di quei nodi teorici cui
avevo fatto cenno in precedenza: infatti lo sviluppo delle due abilità
sopra descritte rappresenta il principale "antidoto" contro lo strapo-
tere persuasivo della parola. Se infatti, come nota Olivier Reboul,
un discorso retorico ha le caratteristiche (che sono anche quelle
che lo rendono "pericoloso") di essere non parafrasabile in maniera
compiuta e di essere, in maniera più o meno completa, chiuso, cioè
di tendere verso l'esclusione di repliche, "alla non-parafrasi si può
opporre il criterio di trasparenza: che l'ascoltatore sia il più possibile
consapevole dei mezzi attraverso cui si modifica la propria credenza; il
fascino e la poesia del discorso non possono con questo dirsi eliminati,
ma tenuti sotto controllo. Alla chiusura si può opporre il criterio di re-
ciprocità: che la relazione tra l'oratore e l'uditorio non sia asimmetrica,
che l'uditorio abbia diritto di replica. Questi due criteri non rendono
certo l'argomentazione meno retorica, la rendono più onesta"7
4) Una terza osservazione riguarda la progressiva scomparsa, nel corso
del "consolidamento" del progetto di disputa (in questi anni una
piccola "memoria storica" degli incontri effettuati si è venuta a for-

7  Reboul 1996, p. 111


Palestra di botta e risposta al microscopio 159

mare nel ricordo di studenti e docenti e nel piccolo archivio del sito
internet) di quello che io considero il difetto principe nella pratica
argomentativa: l'uso di argomentazioni ad hominem / ad personam
invece che ad rem. Dopo il riscontro di qualche caso nelle prime
dispute degli anni scorsi, la pratica dell' "avvelenamento" è stata
dimenticata e non è più, per ora, riapparsa in maniera significati-
va negli incontri più recenti. In questo caso l'azione dei docenti,
dei formatori e dei giudici è parsa particolarmente incisiva e an-
che a questo proposito non si tratta di constatare il semplice "buon
funzionamento" del meccanismo di disputa, se è vero che “la con-
suetudine dello spostamento ad personam diventa un abito retorico-
argomentativo condiviso, che non sorprende più, e non viene valutato
come errore [...] l'avvelenamento è diventato di uso comune, una sorta
di assuefazione generale"8. Lo stesso Schopenhauer, nel suo noto
libretto che cataloga gli stratagemmi di cui servirsi per vincere per
fas et nefas un confronto dialettico, indica il ricorso all'argomen-
tazione ad personam come il sommo "male" e la matrice di tutte le
perversioni argomentative, mettendone allo stesso tempo in luce
l'efficacia9 (per constatare quanto venga utilizzata, per esempio nel
dibattito politico di casa nostra, basta accendere la televisione su
un qualsiasi canale o aprire un quotidiano a caso ad una pagina a
caso...)
5) La quarta osservazione riguarda la progressiva scomparsa delle co-
siddette fallacie esecutive, che invece erano presenti, anche se non
di frequente, nei primi anni di disputa. Le fallacie esecutive sono
perturbazioni - volontarie, anche se più o meno palesi - del normale
svolgimento dello scambio dialettico dovute a gesti, atti, variazioni
del tono della voce, velate "minacce" ecc. che mirano ovviamente a
mettere l'interlocutore in uno stato di disagio o a distogliere l'atten-

8  D'Agostini 2010, p.114


9  Schopenhauer (trad. it.) 1991, p. 27 e p. 64
160 Roberto Falduti

zione dell'uditorio e della giuria dall'argomentazione razionale. Ov-


viamente la giuria interviene immediatamente solo nei casi di palese
violazione del protocollo (per esempio nel caso di invasione del tur-
no di parola altrui), ma scoraggia il ricorso a questi tipi di pratiche
(argomentando con opportune spiegazioni al termine dell'incontro,
quando si tirano le somme sull'andamento del confronto). I casi
che si erano verificati saltuariamente consistevano nel chiacchera-
re o commentare ironicamente mentre l'interlocutore stava argo-
mentando, nel rivolgersi all'interlocutore con tono minaccioso o
comunque irriguardoso, nel cercare di far apparire l'interlocutore
ridicolo. Anche in questo caso, non si tratta solo di rallegrarsi per
il "buon funzionamento": è chiaro che il rispetto consapevole delle
regole argomentative e soprattutto la comprensione di esse (che ci-
tavo come uno dei nodi teorici importanti nel capitolo precedente)
comporta una ricaduta importante non solo sul piano educativo ma
anche su quello euristico ed epistemologico.
6)  Stranamente (o meglio, stranamente per me, in quanto non sono
riuscito a formulare una ipotesi davvero credibile al riguardo) si è
verificato nel corso degli anni un sempre minor ricorso anche agli
argomenti esecutivi, altrimenti detti ad lapidem, che possono esse-
re considerati come il lato buono delle pratiche sopra descritte. Si
tratta di affermare qualcosa, o rispondere a un'affermazione, non
mediante parole ma mediante un'azione; o comunque, durante le
nostre dispute, di accompagnare l'argomentazione con un'azione.
È evidente che il confine fra un buon argomento esecutivo e l'ec-
cessiva teatralità di un gesto, o addirittura la fallacia esecutiva, è
labile e l'effetto sull'uditorio può essere di aumento dell'attenzione,
di persuasione, di meraviglia, ma può altresì risultare controprodu-
cente. Quindi, nell'ottica difensivista del "primo non prenderle", si
potrebbe considerare che il rischio di indispettire l'uditorio funga
da notevole deterrente. Può darsi che per tale motivo il ricorso a
questo tipo di pratica si sia diradato nel corso delle edizioni del tor-
Palestra di botta e risposta al microscopio 161

neo. Cito invece come esempi due argomenti esecutivi a mio parere
molto originali che si sono verificati negli anni precedenti: nel corso
di una disputa sul tema (assai originale anch'esso) "È appropriato
utilizzare gli episodi dei Simpson nell'insegnamento della filosofia?" gli
studenti della squadra del Liceo "Tito Lucrezio Caro" di Cittadel-
la si sono presentati al pubblico (e agli interlocutori) mascherati e
travestiti come i personaggi della serie televisiva... Ancora, durante
la finale del torneo dell'anno 2007/2008 sul tema "L'applicazione
sistematica e continua della tecnologia nell'educazione dovrebbe sosti-
tuire il sistema delle lezioni in presenza" un alunno della squadra del
Liceo "Tito Livio" di Padova, dovendo difendere la posizione contro,
si è ad un tratto avvicinato ad alcuni docenti presenti in sala e li
ha invitati risolutamente ad alzarsi, dicendo: "La vostra presenza, a
quanto pare, non è più necessaria, siete obsoleti...ecco la vostra liqui-
dazione – l'alunno ha tirato fuori dalla tasca qualche monetina – e
fuori dall'aula!"
7) La quinta osservazione riguarda invece i più frequenti errori in cui
gli studenti incappano nel corso delle dispute. Mi pare di poter af-
fermare, in linea generale, che la fallacia più frequente che è dato
di osservare sia il non sequitur, cioè il caso in cui, in un'inferenza, la
conclusione non deriva dalle premesse. Si tratta di una fallacia oltre-
modo insidiosa in quanto, se nelle sue forme più grossolane è molto
facile da individuare, a volte si presenta ben mascherata. Oltretutto,
questa fallacia è in certo modo amplificata dall'impianto dialogico
della disputa: infatti, il risultato di questo errore è quello di produr-
re una diversione dal tema principale; se tale slittamento non viene
immediatamente individuato dalla controparte, che anzi magari si
incammina anch'essa durante il botta e risposta sulla strada sbaglia-
ta, si rischia di allontanare la disputa dal tema esatto e di rimanere
impaniati per tutta la fase di interlocuzione su un punto morto, o
addirittura di compromettere irrimediabilmente la base sulla quale
era stato costruito l'approccio al tema in questione. Questo tipo
162 Roberto Falduti

di incidente si è verificato più volte nel corso delle nostre dispute.


Cito ancora Franca D'Agostini: "Nelle discussioni non è sempre facile
individuare il non sequitur e a volte lo stesso interlocutore è portato a
sbagliarsi e a difendere tesi che in realtà non voleva sostenere. Un tipo
di non sequitur si chiama infatti falsa pista, indicando con ciò che si
induce il proponente ad avviarsi su una strada diversa da quella che
intendeva percorrere"10
8)  Strettamente legata a questo tipo di fallacia è quella derivata dall'uso
di una terminologia troppo vaga. La sesta osservazione riguarda pro-
prio questo problema, più volte verificatosi nei nostri incontri, e
la soluzione che spesso gli studenti sono stati bravissimi ad indi-
viduare. Il problema non è solo dei nostri disputanti, ma è uno
dei problemi più importanti del linguaggio comune, che a volte
investe persino il linguaggio filosofico e anche scientifico in senso
stretto. La preoccupazione socratica del definire bene "che cos'è" è
alla base del ragionamento dialogico: senza accordo preliminare sul
significato dei termini e senza assicurazione reciproca sulla stabilità
semantica da mantenere durante tutto il corso dell'interlocuzione
non si può procedere a una reale disputa (si parla infatti, in questi
casi, di dispute apparenti). Peraltro, proprio dalla strutturale vaghez-
za di alcuni termini, ad esempio di alcuni predicati che comune-
mente si usano per descrivere la realtà, nasce l'esigenza, per evitare la
contraddizione, di affinare l'ingegno nella sottile arte del distinguo.
Posso dire che nel corso dei tornei ho riscontrato in alcuni studen-
ti grandi miglioramenti nell'uso del distinguo. L'individuazione di
una contraddizione reale nelle conseguenze della tesi sostenuta da
una delle due squadre porterebbe, per il meccanismo della reductio
ad absurdum, all'immediata confutazione e alla conseguente affer-
mazione di verità, per il principio del terzo escluso, della tesi della
squadra opposta. È dunque giocoforza tentare di separare con cura

10  D'Agostini 2010, p.117


Palestra di botta e risposta al microscopio 163

i concetti quando si è chiamati a rispondere su una predicazione


vaga. E se, come la tradizione filosofica vuole, conoscere è giudica-
re, cioè attribuire predicati a un soggetto, si comprende bene che
questo addestramento alla precisione e a separare le contraddizioni
apparenti da quelle reali ha una portata ben più vasta di quella che
riguarda la dimostrazione di bravura e destrezza durante il torneo.
9) La questione della vaghezza e/o della precisione è affrontata dai di-
sputanti fin dal prologo, dove di solito gli studenti provvedono a
fornire le prime definizioni, indispensabili per poter procedere. Per
inciso, intorno alle classificazioni e alla, mi si perdoni il calembour,
definizione di definizione11 si cela il solito problema gnoseologico
ed epistemologico dell'esatta conoscibilità del reale, o della verità.
Mi spiego: io, nonostante nelle righe precedenti abbia difeso stre-
nuamente la ricerca della precisione, sono convinto che qualsiasi
definizione, tranne (forse) quelle matematico-geometriche in cui il
definiens e il definiendum sono assolutamente identici e intercam-
biabili, sia una argomentazione e frutto di una argomentazione.
"Qualunque definizione è un argomento, poichè impone un certo signi-
ficato, in realtà a scapito di altri"12. Abbandonando la questione che
non rientra nel campo d'indagine di questo scritto, accontentiamo-
ci di richiedere agli studenti - questo sì possiamo farlo - se non altro
di argomentare le loro definizioni, così come chiediamo di rendere
note le loro fonti.
10) La settima osservazione riguarda l'uso delle fonti, delle citazioni
e l'uso dell'argomento ad auctoritatem. Questa pratica si è rivelata
da subito molto usata nel corso dei nostri incontri di disputa, e
non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di studenti liceali che
spesso possono utilizzare come "mattoni" per costruire le proprie
argomentazioni anche materiali che provengono dalle loro recenti

11  Si veda a tal proposito Iacona 2005, p.15 e soprattutto p.82 e sgg.
12  Reboul 1996, p.191
164 Roberto Falduti

o recentissime attività curricolari. Corroborare la propria argomen-


tazione con la presentazione di dati e di opinioni illustri è pratica
consueta e in molti casi non solo corretta e auspicabile ma indi-
spensabile. Ciò che in questi anni i formatori e i giudici hanno
sempre ricordato agli studenti è: le fonti devono essere sicure e con-
trollabili; questo suggerimento è stato accolto e non si riscontrano
più citazioni provenienti da fonti sconosciute (come un generico
"trovato in internet") o non controllabili. Seconda raccomanda-
zione: in caso di uso dell'argomento ad auctoritatem, attenzione
a citare l'autorità giusta, cioè quella il cui parere conta veramente
in quel caso, l'esperto, il competente. Attenzione anche a non con-
siderare questo tipo di argomento come risolutivo nel tentativo
di dimostrazione. La citazione dell'auctoritas serve a rafforzare la
propria posizione, non a rendere veridica una tesi13 Non sempre
questa corretta modalità d'uso dell'argomento è stata applicata da-
gli studenti nel corso di questi anni. Dai riscontri da me effettuati
risulta che l'approccio alcune volte sia ancora errato in entrambi i
sensi: sia nella scelta della auctoritas adatta, sia soprattutto nel voler
usare l'auctoritas come "sostitutivo" dell'argomentazione sul tema.
Questo uso, in particolare, va combattuto per due motivi. Uno di
ordine pratico-strategico, e cioè che il nostro format prevede tempi
piuttosto stretti e non ci si può permettere di rubare tempo prezio-
so all'argomentazione per inserire citazioni che non hanno valore
dimostrativo e spesso neanche persuasivo. Il secondo motivo è più
"serio" e riguarda il rischio del consolidarsi di un habitus mentale
(di cui purtroppo vedo molti esempi fra i miei studenti) che "dele-
ga" ad altri il compito di pensare: il ricorso all'auctoritas in questo
caso esime dal ricercare, a proprio carico e con propria fatica, prove
e controprove. Pigrizia e viltà, come ci ha ricordato Kant, sono

13  Per la distinzione fra uso corretto e scorretto dell'auctoritas, si veda Boniolo e Vidali
2002, p.91 e p.114
Palestra di botta e risposta al microscopio 165

sempre in agguato, alleate dell'eterodirezione e nemiche dell'auto-


nomia. I nostri studenti, ormai quasi tutti naturaliter maiorennes,
devono ricordarlo sempre.
11) L'ottava e ultima osservazione riguarda l'uso di un argomento
molto frequente nella casistica esaminata. In questo caso non si trat-
ta né di rallegrarsi per miglioramenti ed atteggiamenti positivi degli
studenti né di interrogarsi sul persistere di inclinazioni ad errori di
argomentazione. L'argomento di cui parlo è infatti un argomento
da sempre considerato debole quando non addirittura sbagliato, ma
è usatissimo in tutti i campi in cui si ha a che fare con il linguaggio
naturale: l'analogia14. La casistica è vasta e comprende una gamma
di argomenti analogici che va dalla comparazione piuttosto rigoro-
sa, in quanto vorrebbe essere simile alla misurazione (confrontare
il noto con l'ignoto attraverso una misurazione comparativa non
era forse la definizione di conoscenza data da Cusano?) fino alla
metafora condensata e ardita. Perchè questo argomento è così usato
nell'ambito delle nostre dispute e, fra l'altro, "funziona", nel senso
che è ben recepito dal pubblico che assiste ai confronti, dagli inter-
locutori (che spesso ribattono con un argomento consimile) e anche
dalla giuria? Senza scomodare i trattatisti cinque e seicenteschi, da
Emanuele Tesauro a Baltasar Graciàn, che magnificavano l'efficacia
(anche gnoseologica) della metafora, si può ipotizzare che l'argo-
mento analogico "funzioni" nell'ambito delle nostre dispute pro-
prio perchè rappresenta a volte uno scarto rispetto all'argomentazio-
ne logico-razionale e, nel breve tempo dei turni di argomentazione
concesso dal nostro format, crea una "accensione" del pensiero ana-
logico preceduta magari da una sensazione di decentramento, che,
più l'analogia è peregrina, più si avvicina alla maraviglia teorizzata
dai barocchi.

14  Fondamentale la trattazione di Perelman e Olbrechts-Tyteca (trad. it) 1966, p. 392 e


sgg.
166 Roberto Falduti

3- Analisi di una disputa

Propongo qui di seguito la trascrizione quasi integrale, inframmezzata dal


mio commento, della disputa fra le squadre del Liceo Classico "Tito Livio" e
del Liceo Classico "Concetto Marchesi" di Padova, valevole come incontro di
semifinale del torneo del 2008/2009. Ho scelto di presentare una disputa nel-
la quale non ho fatto parte della giuria, per evitare di appesantire il commento
con le considerazioni relative allo "scarto" fra valutazione in tempo reale e valu-
tazione "al microscopio" di cui ho parlato nelle considerazioni preliminari. Ho
scelto inoltre di trascrivere quanto più possibile fedelmente le argomentazioni
degli studenti, intervenendo per eliminare soltanto elementi caratteristici del
parlato (pause, lapsus, esitazioni o ripetizioni), senza alterare il nucleo sintatti-
co e argomentativo delle frasi. Una precisazione: i turni di parola sono esatta-
mente speculari e di uguale durata; la disparità di lunghezza riscontrabile nelle
trascrizioni dipende ovviamente dalla diversa velocità di eloquio dei parlanti.

TEMA: È CORRETTO CHIAMARE "SCIEN-


ZE" LE "SCIENZE UMANE"?
Squadra Pro: Liceo Classico "Tito Livio"
Squadra Contro: Liceo Classico "Concetto Marchesi"

PROLOGO

PRO – La nostra squadra sostiene la tesi secondo la quale è corretto chia-


mare "scienze" le scienze umane. Il topico che oggi discutiamo è stato oggetto
di un dibattito durante il corso di tutto il XX secolo, che ha visto contrapporsi
due scuole di pensiero: quella neopositivista e quella sostenitrice della teoria
della falsificabilità.
Che cosa si intende per "scienze"? Noi intendiamo per scienza un sapere
che è in grado di spiegare in modo coerente il mondo e che cerca di individua-
re connessioni fra cause ed effetti. Il topico ci mette di fronte al compito di
Palestra di botta e risposta al microscopio 167

dimostrare che gli studi che riguardano l'uomo sono da considerarsi scienze.
L'opinione comune è solita considerare come scienze solo le scienze naturali...
ma non è proprio a causa di questa convinzione che in alcuni periodi storici
solo le scienze sono state considerate in grado di rispondere correttamente agli
interrogativi dell'uomo? Non credete che la nostra vita quotidiana non sia gui-
data dalle scienze ma piuttosto da una continua libera scelta che si configura
come un'interpretazione?

CONTRO – "È corretto chiamare "scienze" le scienze umane? No, noi so-
steniamo il contrario. Vediamo il perchè: quelle che vengono chiamate scienze
umane sono a tutti gli effetti "studi" e non scienze. "Scienze" sono solo quelle
che si avvalgono di un metodo rigoroso di tipo galileiano atto a formulare
leggi universali. Per quanto riguarda le discipline umanistiche, applicar loro
il termine di "scienze" serve solamente a tentare di "nobilitare" questo tipo
di studi. Anche gli argomenti che trattiamo in questa disputa sono soggetti a
interpretazioni, non seguono leggi universali. Ora andiamo a considerare la
storia etimologica del termine "scienza". Il termine scienza nasce nell'antica
Grecia, con Platone, e corrisponde al sostantivo epistéme. Ma è nel Seicento
che la scienza si evolve nel senso in cui tutti la intendiamo oggi: scienza galile-
iana, che si avvale di un metodo sperimentale e prevede anche la formulazione
di una legge universale. Nel 1884 Ampère faceva un distinguo fra applicazioni
noologiche e applicazioni cosmologiche, in cui le prime corrispondono agli
studi umani. E sempre nell'Ottocento abbiamo una terza variabile, cioè la
Storia, intesa come evoluzione sociale, da cui poi nascerà la Sociologia. In con-
clusione, possiamo distinguere fra scienze galileiane, dove possiamo riscontra-
re l'uso di un metodo proprio, e studi umani, dove possiamo riscontrare l'uso
di un metodo improprio, modellato sulla base di quello galileiano.

Due interventi di prologo scanditi secondo la più classica visione funzio-


nale dell'esordio. In particolare quello della squadra Pro è costruito secondo
lo schema: enunciazione della questione – sottolineatura della rilevanza della
questione – definizione dei termini (il termine scienza). In più vi è l'espediente
168 Roberto Falduti

di sottolineare come la posizione da difendere sia "più difficile" perchè contra-


ria alla doxa. In tal modo si cerca di compensare la probabile considerazione
della squadra avversaria come più svantaggiata (chi sostiene la posizione contro
ha l'onere della prova a proprio carico, anche se in questo caso la questione
è stata presentata in forma interrogativa). Si termina con due interrogative
retoriche, che chiamano subito in causa l'uditorio aprendo immediatamente
il canale di comunicazione con gli astanti.
Il prologo della squadra Contro si presenta come meno schematico e forse
un po' più farraginoso, come se qualche passaggio inferenziale si fosse "perso
per strada", dando l'impressione della giustapposizione piuttosto che della
concatenazione soprattutto nella digressione storica. È però da notare come
da subito si sia tentato di portare la discussione a proprio favore mediante l'
uso del distinguo: non si possono chiamare scienze perchè "scienza" in senso
proprio vuol dire questo, e quell'altro è un uso improprio del termine... anzi,
se ne suggerisce uno in alternativa, più preciso: studi umani, mutuato dal lati-
no studia humanitatis. Il ricorso all' auctoritas, invece, è contestabile: si tratta
del parere di uno scienziato "galileiano" e quindi di una fonte autorevole ma
"partigiana".
Nonostante in questo caso nessuno dei due interventi di prologo contenga
una anticipazione di cosa diranno i due argomentatori successivi, si può in-
travedere già dalle definizioni la linea strategica che terranno in seguito le due
squadre.

I TURNO DI ARGOMENTAZIONE

PRO – L'opinione comune ritiene che la scienza sia infallibile. Ora, con-
sideriamo l'esempio del caso Morgan: questo noto scienziato riteneva che i
caratteri ereditari trasportati dai geni si presentassero sempre mescolati nello
zigote, e per questo vinse anche un premio Nobel. Molti scienziati successivi
dimostrarono invece che c'è la possibilità che alcuni caratteri vengano tra-
smessi inalterati di generazione in generazione. Dunque, questo esempio ci fa
Palestra di botta e risposta al microscopio 169

capire che ciò che connota la scienza non è la sua certezza ed assolutezza. Al-
lora vogliamo chiederci: che cos'è che rende una conoscenza semplice, di dati
svincolati fra loro, una conoscenza scientifica? Cos'è che fa di una conoscenza
una vera scienza? Bene, ciò che connota la scienza è la ricerca dei rapporti di
causa-effetto tra i fenomeni. Questo è comune sia alle scienze naturali, scienze
esatte, che procedono al reperimento di leggi per spiegare il funzionamento
della natura, sia alle scienze umane, scienze dello spirito, che da un dato indi-
viduale o da un fatto storico tentano di pervenire a una spiegazione. Ciò che
connota la scienza, quindi, non è il metodo. Il metodo è uno strumento per la
ricerca del rapporto causa-effetto, e di metodi sappiamo bene che nella storia
se ne sono susseguiti molti. Nemmeno l'oggetto, in quanto questo distingue
semplicemente una scienza dall'altra. In conlusione quindi, le scienze umane,
in quanto caratterizzate dalla ricerca di rapporti di causa-effetto come le scien-
ze naturali, sono da definirsi scienze.

DOMANDA (CONTRO) – Ci puoi spiegare meglio cosa intendi quan-


do dici che la ricerca del rapporto causa-effetto è ciò che connota la scienza e
ancora come tu possa vedere nel metodo solamente uno strumento e non la
parte principale della scienza?

RISPOSTA (PRO) – La tesi secondo cui la scientificità di una disciplina


si connota per la ricerca dei legami di causa-effetto è una tesi di Weber. E
anche noi vediamo che questa è una modalità costante che l'uomo applica
rispetto ad ogni disciplina. Non possiamo dire che sia il metodo a connotare
una scienza, in quanto il metodo è una cosa che è cambiata... è cambiata nel
tempo. Noi lo consideriamo lo strumento che serve a ricercare i legami di
causa-effetto.

CONTRO – Per motivare pienamente il nostro "no" a poter definire


scienza gli studi umani dobbiamo fare un importante distinguo, quello fra
le scienze dei tempi di Platone ed Aristotele e le scienze galileiane. Queste
due definizioni che a un primo sguardo possono sembrare sovrapponibili, in
170 Roberto Falduti

realtà sono molto diverse fra di loro. Partiamo dalla cosiddetta epistéme. Che
cos'era? Un ragionamento dimostrato, argomentato a parole. I vertici dei ra-
gionamenti di questo tipo sono i teoremi di Euclide, che sono stati appunto
dedotti razionalmente. Con la nascita del metodo scientifico, nel Seicento, la
conoscenza diventa sperimentale, matematizzata e pratica. Il ragionamento
non basta più da solo, serve un esperimento e la sua continua messa in pratica
per poter arrivare a formulare una legge universale. Ora, ed è questo il punto
cruciale della nostra argomentazione, le scienze galileiane mettono in rappor-
to l'uomo con la natura e le sue realtà oggettive. Facciamo un esempio: un
sasso che cade. Qualora un giorno dovessimo dimostrare che l'insieme di leggi
e di formule, come la legge di gravitazione di Newton, fossero fallaci, perchè
frutto dell'interpretazione dell'uomo, il sasso cadrebbe comunque sempre nel-
lo stesso modo. Non così si può dire degli studi umani che si occupano delle
opere umane: in quel caso è l'uomo che studia l'uomo e ne dà un'interpreta-
zione. Gli esempi più importanti che avvalorano la nostra tesi sono la filologia
e la psicologia.

DOMANDA (PRO) - Non ci sono domande da parte della squadra pro

Il primo turno di argomentazione è lineare e si inserisce nel solco lasciato


presagire dagli interventi di prologo. La squadra Pro apre con un esempio atto
a confutare l'opinione comune: si ribadisce dunque l'allontanamento dalla doxa
fallace e lo si fa mettendo in luce come un solo controesempio serva a "smonta-
re" una falsa opinione. Ma l'esempio è ben scelto? Forse un caso più compren-
sibile (diciamo pure più facile, alla portata di tutti) sortirebbe maggior presa
sull'uditorio. Le conclusioni sono però molto chiare e l'argomentazione "scorre"
in maniera consequenziale, con tutti i passaggi e i nessi logici ben visibili e ben
esplicitati. La domanda rivolta dalla squadra Contro ha una funzione "esplora-
tiva", cioè consiste in una richiesta di chiarimenti. Le domande rivolte all'ar-
gomentatore possono infatti svolgere una duplice funzione: o quella, diciamo
cooperativa, di richiedere ulteriori chiarimenti per poter meglio comprendere la
tesi dell'interlocutore, oppure quella, chiamiamola competitiva, di smascherare
Palestra di botta e risposta al microscopio 171

subito una falla nel ragionamento appena concluso e quindi mettere in difficoltà
l'interlocutore. In questo caso però la domanda non fa che richiedere una ripe-
tizione di ciò che è stato appena detto: si tratta di una scelta strategica o sempli-
cemente del tentativo di occupare il turno di domanda senza passare la mano?
L'argomentazione della squadra Contro è basata su un solo argomento,
evidentemente considerato forte, che è la definizione di scienza galileiana, cioè
sperimentale. Viene inoltre introdotta la dicotomia natura-oggettività/uomo-
soggettività per rafforzare la propria argomentazione e poi un esempio, sem-
plice e comprensibile. Attenzione, però: la dicotomia in questione non rap-
presenta esattamente l'oggetto del contendere, e quindi la tesi che la squadra
Contro è tenuta a negare. Se dunque si tratta, come io ho in buona fede per
ora ipotizzato (la presunzione di innocenza vale anche nel campo argomenta-
tivo) di un semplice tentativo di rinforzo della propria posizione, rimaniamo
nel campo del lecito. Se invece si trattasse del tentativo di spostare la confuta-
zione verso questo nuovo elemento, sostituendolo all'oggetto del contendere,
allora si configurerebbe la fallacia dell'uomo di paglia (nella letteratura anglo-
sassone, strawman) che consiste nel "presentare una tesi apparentemente simile
a quella che si vuole negare, ma meno ragionevole, quindi disfacendosi di questa
nuova tesi pretendere che anche l'altra sia da considerarsi non vera"15 Seguiamo
il resto della disputa per sapere come andrà a finire... Per concludere invece
l'analisi dell'intervento della squadra Contro, rimane solo da dire che l'accen-
no alla filologia e alla psicologia come controesempi cade, per ora, nel vuoto e
crea nell'uditorio l'aspettativa che venga ripreso successivamente.

II TURNO DI ARGOMENTAZIONE

PRO – Incomincerò prendendo in esame l'astronomia e le scoperte che si


sono susseguite in questo campo nel corso dei secoli. Tutti sanno che siamo

15  D'Agostini 2010, p. 126. Su questa fallacia si veda anche la sintetica e chiara definizio-
ne di Boniolo e Vidali 2002, p.106
172 Roberto Falduti

passati, per esempio, dalla teoria tolemaica a quella copernicana. Non era forse
ritenuta esatta e valida la teoria di Tolomeo, che poi è stata confutata? Prima
di essere confutata, non era ritenuta una risposta valida alle esigenze e alle
domande proprie di quel momento storico? Questo ci porta ad ammettere
che anche i risultati dati dalle scienze naturali sono da collocarsi in un deter-
minato contesto storico. Infatti, da cosa deriva la formulazione di una teoria?
Dipende dai mezzi, dagli strumenti a disposizione dell'uomo, dipende dalla
mentalità e dall'ambiente socio-culturale. La scienza, quindi, rappresenta una
risposta valida in un dato momento storico, ed è garanzia di una validità non
assoluta. Inoltre non consiste solo nella pura dimostrazione, ma anche nella
spiegazione. Ora, anche le scienze umane sono da collocarsi in un contesto
storico: quindi, ciò che accomuna scienze naturali e scienze umane è proprio
questo configurarsi all'interno di un contesto storico. Quindi, viene meno
quel carattere di universalità che presupponeva che le scienze umane fossero
in uno stato di minorità rispetto alle scienze naturali. Ogni congettura può
venire confutata. Ciò ci consente di affermare che è corretto chiamare "scien-
ze" le scienze umane.

DOMANDA (CONTRO) – Hai giustamente detto che si è passati dalla


teoria tolemaica a quella copernicana e che quella tolemaica è stata confutata.
Ma la natura non cambia. Non è che ai tempi della teoria tolemaica c'era la
Terra al centro e che poi ci si è messo il Sole... c'è sempre stato il Sole, al cen-
tro, con i pianeti che gli giravano intorno...

RISPOSTA (PRO) – Ma certo... però la scienza è fatta dall'uomo. Noi


non mettiamo in dubbio l'oggettività della natura, ma quella della scienza.
E quindi abbiamo dimostrato che la scienza non è oggettiva e assoluta ma
storicamente determinata.

CONTRO – Procederò a confutare la tesi, appoggiando quello che han-


no detto prima i miei compagni, accingendomi alla critica del positivismo,
che tentò di ricondurre sotto l'accezione di scienza gli studia humanitatis. In
Palestra di botta e risposta al microscopio 173

particolare fu Comte, l'inventore della sociologia, che definì quest'ambito di


studi come la "nuova scienza", dicendo che la costruiva per "conoscere al fine
di prevedere, per poter controllare". Quella di Comte e dei positivisti non è
nient'altro che una pretesa, dal momento che fra gli studiosi di studia huma-
nitatis e gli scienziati delle scienze galileiane ed esatte intercorrono almeno tre
principali differenze: la prima riguarda la materia studiata, la seconda il me-
todo utilizzato, e la terza infine, fondamentale, il risultato. Per cominciare, da
una parte le scienze galileiane analizzano la natura, mentre dall'altra gli studia
humanitatis studiano l'uomo, con tutte le differenze che ciò comporta, quindi
la soggettività. Negli studia humanitatis è l'uomo che si pone di fronte all'uo-
mo stesso, anche con la problematicità che il rapporto fra microcosmo umano
e macrocosmo esterno comporta... La seconda differenza è quella del metodo:
sarebbe pretestuoso applicare il metodo galileiano agli studia humanitatis, dal
momento che mancherebbero il linguaggio matematico e l'esperimento. La
differenza sostanziale sta poi nel risultato: se da una parte si ottiene una legge
di tipo deterministico, necessitante, sotto la quale si può ricondurre la gamma
della casistiche, dall'altra si può ottenere tutt'al più una legge di tipo proba-
bilistico, influenzata dalla soggettività umana. Infatti, per citare Gibran nel
Profeta, "l'uomo è un mare senza confini né fondo"

La seconda argomentazione della squadra Pro si apre con un esempio mol-


to più "facile" e fruibile di quello utilizzato nel primo intervento, e bisogna
dire che l'effetto è più chiaro. Se nel precedente capitolo mi ero soffermato a
parlare del grande uso, nell'ambito delle nostre dispute, dell' analogia, appare
chiaro da questa trascrizione che anche l'esempio è molto usato dagli studenti.
Del resto, si tratta di un argomento frequentissimo nell'argomentazione co-
mune, ma che non è disdegnato neanche dall'argomentazione filosofica, che
ha una lunghissima tradizione, ben valorizzato da Aristotele nella sua Retorica.
Perelman e Olbrechts-Tyteca lo associano all'analogia fra i cosiddetti argomen-
ti fondanti la struttura del reale16, intendendo con ciò che questi argomenti, più

16  Perelman e Olbrechts-Tyteca (trad. it.)1966


174 Roberto Falduti

che fondarsi sulla struttura del reale, quasi la creano, la costruiscono, mettendo
in luce dei legami fra le cose a volte non immediatamente visibili. Da questo
esempio deriva l'affermazione secondo cui le scienze naturali e le scienze uma-
ne sono accomunate dalla storicità (potremmo quasi dire: dall'essere soggette
al tempo, al divenire) e quindi dalla falsificabilità delle loro conclusioni. In
questo caso la squadra Pro, che si era dichiarata contraria alla doxa "del volgo",
si dimostra invece sicuramente imbevuta dell'opinione largamente en-doxa
nell'epistemologia novecentesca (l'esempio è di Khun, alcuni termini usati
sono chiaramente popperiani ecc). Forse, in questo caso, avrebbe giovato avva-
lersi dell'autorità di queste fonti esplicitandole. Un altro elemento, che avreb-
be potuto essere sfruttato ulteriormente, viene solo accennato: è l'argomento
secondo cui anche le scienze naturali non consistono di sola dimostrazione, ma
anche di argomentazione (credo che sia questo il senso da attribuire al termine
spiegazione usato, forse in maniera imprecisa, nel corso dell'intervento). Evi-
dentemente il tempo non ha consentito di sviluppare appieno le potenzialità
dell'argomento (che a mio parere sarebbe potuto risultare decisivo).
La domanda rivolta dalla squadra Contro appartiene alla seconda categoria
di domande, quelle che avevamo definito in precedenza competitive. L'intento
è infatti quello di mettere in difficoltà l'argomentatore. La risposta è in questo
caso precisa e smaschera il tentativo di confondere l'oggetto del contendere
(si conferma l'ipotesi dell'uomo di paglia che avevo avanzato in precedenza...)
La seconda argomentazione della squadra Contro parte dal dichiarato in-
tento di procedere per via di confutazione e cita come oggetto di tale confuta-
zione le teorie positiviste e in particolare quelle di Comte, che hanno tentato
di avvalorare la tesi che la squadra intende negare. Le teorie di Comte sono in
realtà solo accennate, ma le tre "differenze" fra scienze naturali e studia huma-
nitatis sono allineate con ordine e l'argomento risulta essere persuasivo. Ogni
argomento è attaccabile (altrimenti non sarebbe un argomento): si potrebbe
ribattere che anche l'uomo fa parte della natura, che anche sulle cose uma-
ne è possibile praticare esperimenti, che anche le scienze naturali conducono
all'acquisizione di un sapere probabilistico. Vedremo se queste opportunità
verranno sfruttate o meno in fase di replica. Da notare la scelta di aver fin dal
Palestra di botta e risposta al microscopio 175

prologo definito studi umani o studia humanitatis ciò che nella stessa presen-
tazione della questione veniva definito scienze umane: l'uso del termine non è
stato mai contestato dalla squadra avversaria ed è diventato a mio parere un
punto di forza della squadra Contro, che usandolo di continuo ed esclusiva-
mente ha trasmesso un'impressione di compattezza e coerenza rafforzata dalla
reiterazione. Certo la squadra avversaria potrebbe muovere l'accusa di usare
un linguaggio pregiudizievole, o di fornire una definizione pregiudizievole (non
abbiamo ricordato prima che ogni definizione è in realtà un argomento?) o ad-
dirittura ipotizzare la fallacia di petitio principii (presupporre ciò che si intende
dimostrare), ma per il momento non lo fa.
Ho scelto di non trascrivere la domanda rivolta dalla squadra Pro perchè
non apporta novità nell'andamento del dibattito e perchè attraverso i due
esempi di domande della squadra Contro ho già esplicitato le due funzioni
(cooperativa e competitiva) che può avere l'interrogazione all'interno delle no-
stre dispute.

FASE DI REPLICA
Durante la fase di replica l'ordine dei turni di parola vie-
ne invertito: si comincia dunque dalla squadra Contro

I TURNO DI REPLICA

CONTRO – Vorrei iniziare rilevando una piccola incongruenza nella vo-


stra argomentazione. Voi avete sostenuto che il metodo scientifico cambia nel
corso della storia, segue l'evoluzione dell'uomo e del suo ambiente culturale.
Non è esatto, perchè da quando nel Seicento Galileo ha posto le basi del
metodo scientifico, queste sono rimaste invariate. Potete guardare in qual-
siasi libro di fisica. Altro appunto: vorrei affermare che il metodo scientifico
rappresenta lo spirito della ricerca scientifica. Nella vostra argomentazione lo
avete presentato come un accessorio. Avete definito la scienza come la ricerca
176 Roberto Falduti

dei legami causa-effetto, ma avete sminuito il metodo galileiano che è alla


base della ricerca scientifica. Poi, nella vostra argomentazione non ho rilevato
nessuna definizione di quelle che voi chiamate "scienze umane". Vi siete solo
preoccupati di criticare l'astronomia, le scienze naturali. E, visto che per voi
la scienza è soggettiva, avrei due domande da porvi: perchè gli aerei volano?
Domanda numero due: potreste prevedere che cosa sto pensando in questo
momento? Visto che per voi la psicologia è sicuramente una scienza, fa parte
delle scienze umane no?... allora ditemi esattamente quello che sto pensando
in questo momento...

DIFESA PRO – Rispondo alle domande... È chiaro che un aereo vola. Noi
non abbiamo voluto mettere in dubbio la realtà, ma la posizione dell'uomo
rispetto alla realtà. Noi riteniamo che sia l'uomo che fa la scienza. Il modo in
cui l'aereo vola non può cambiare, il modo in cui spiego che l'aereo vola può
cambiare. Per quanto riguarda la seconda domanda, non posso sapere cosa stai
pensando adesso, però quando avrai compiuto un'azione, potrò risalire alla
causa, potrò spiegarmi perchè l'hai fatto.

PRO – Comincerei col dire che parlare di concezione galileiana della scien-
za dopo tutti i dibattiti che ci sono stati durante l'Ottocento e il Novecento...
è un po' antiquato... Partiamo dal punto sulla sperimentazione. La sperimen-
tazione galileiana è finalizzata alla verificabilità. La verificabilità è stata con-
testata dalla tesi sulla falsificabilità di Popper. Per citare le sue parole, "mille
esperimenti non provano una tesi, ma basta uno per falsificarla". In secondo
luogo, un esperimento presuppone una congettura fatta dall'uomo, un'ipotesi
formulata in precedenza, che ha come caratteristica proprio quella della falsifi-
cabilità, perchè proprio l'esperimento stesso potrebbe falsificarla. Inoltre, dob-
biamo sottolineare come anche il risultato di un esperimento abbia bisogno
di un'interpretazione dell'uomo. Poi, avete parlato della matematizzazione e
del metodo matematico. Io posso dirvi che le scienze umane usano il metodo
statistico, se quello della quantificazione è il problema che voi ci ponete. Ma
non sta scritto da nessuna parte che il metodo quantitativo debba essere il me-
Palestra di botta e risposta al microscopio 177

todo delle scienze. Piuttosto, esse devono averne uno. Se il metodo fosse solo
quello matematico, né la medicina clinica né la biologia sarebbero scienze.
Per finire: il sasso che cade. Certo, il sasso cade sempre nello stesso modo, ma
non è il sasso che cade a rappresentare la scienza, ma il modo in cui l'uomo lo
conosce. In sostanza si torna al problema dell'oggettività. Pensiamo a Kant: la
centralità del soggetto conoscente. Noi conosciamo in base alle nostre struttu-
re conoscitive. La scienza non vuole essere lo specchio della realtà, ma tentare
di spiegarla all'uomo.

Innanzi tutto, si noterà come, rispetto ai turni di argomentazione, i turni


di replica siano costruiti giocoforza "a caldo", modellati su quanto è stato
detto dagli interlocutori. Per quanto si possa in sede di preparazione alla di-
sputa cercare (e a volte ci si riesce molto bene) di prevedere quale potrà essere
il nucleo argomentativo dell'avversario, ci sarà sempre qualcosa destinata a
sfuggire, e un buon intervento di replica deve invece ribattere punto su punto
l'argomentazione contraria. A farne le spese è, a volte, la costruzione struttu-
rale dell'intervento, che si presenta meno armonico e meno delineato nelle
sue parti, e anche il registro linguistico adottato, che inevitabilmente tende a
"scendere" di livello.
In effetti si ha l'impressione di giustapposizione di diverse obiezioni, più che
di una ponderata replica, nel primo intervento della squadra Contro, in cui
fra l'altro la domanda secca "Perchè gli aerei volano?" è un tentativo di ripro-
porre lo spostamento dell'oggetto del contendere (l'uomo di paglia si fa sempre
più minaccioso...) La difesa della squadra Pro è puntuale (ci vuole una bella
prontezza di riflessi per non lasciarsi spiazzare dalle due domande "ad effetto")
Il turno di replica della squadra Pro è ottimo nella prima parte, fra l'al-
tro espresso con un registro linguistico adeguato. Si scoprono le carte: viene
citato espressamente Popper; è buono l'artificio di non spiattellare il ricorso
all'auctoritas in sede di argomentazione ma di farne valere il peso in sede di
replica. Nel finale invece si ritorna a cadere nella trappola tesa dall'uomo di
paglia: con la ripresa dell'esempio del sasso che cade si scivola nella questione
dell'oggettività della scienza, che non è la tesi da discutere. Comprensibile la
178 Roberto Falduti

citazione di Kant, ma pericolosa... non è proprio la demarcazione fra ciò che


può essere definito come scienza e ciò che non ne ha diritto uno degli obiettivi
della speculazione kantiana?

II TURNO DI REPLICA

CONTRO – Voi avete concluso il vostro primo intervento dicendo che la


vita dell'uomo non è guidata dalla scienza ma è frutto di un'interpretazione.
O chi lo ha detto non sapeva bene cosa stesse dicendo, o ci ha dato fortemente
ragione: infatti noi abbiamo sostenuto che quelle che voi chiamate "scienze
umane" siano il risultato di una "libera" interpretazione. Poi: voi continuate a
parlare di infallibilità o meno della scienza. Il problema non è questo, perchè
la tesi da dimostrare è un'altra. Comunque, la nostra professoressa E.F. biolo-
ga, la nostra insegnante di scienze, ha sempre affermato che la biologia è esatta
al 97 per cento... Poi avete parlato, nel secondo intervento, di astronomia con
un excursus piuttosto vago, parlando di Tolomeo e Copernico e dimenticando
fra l'altro Keplero... Poi avete basato il collegamento fra scienze naturali e
scienze umane sul fatto che sono dipendenti dal contesto storico... sincera-
mente mi sembra un po' debole. Ultimo punto, voi dite che il metodo è solo
uno strumento, noi sosteniamo che il metodo è il fondamento.

DIFESA PRO – Volevo dire che noi non abbiamo mai tirato fuori la que-
stione dell'infallibilità della scienza, al massimo lo avete fatto voi. Parlando di
oggettività, universalità, matematizzazione, siete stati voi a tirar fuori questa
questione.
Segue una fase piuttosto frammentata di scaramucce verbali che non è agevole
(né utile) trascrivere, fin quando la giuria interviene e decreta il passaggio al turno
di parola successivo.

PRO – Nel vostro secondo turno di argomentazione avete detto che ciò
che distingue le scienze naturali dalle scienze umane sono la materia, il meto-
do e il risultato. Per quanto riguarda la materia, cioè l'oggetto di studio, avete
Palestra di botta e risposta al microscopio 179

detto che le scienze naturali studiano l'universo, tutto ciò che ci circonda.
Bè, a dieci centimetri da me c'è un altro essere umano, anche lui fa parte
dell'universo e ha la dignità di oggetto di studio. Per quanto riguarda il meto-
do, penso che nessuno possa dire con certezza che l'unico metodo scientifico
sia il metodo galileiano. E comunque, per esempio, la psicologia sperimentale
usa il metodo galileiano e fa parte delle scienze umane. Per quanto riguarda il
risultato, avete detto che la scienza per essere tale deve portare a un risultato
universale... universale vuol dire che va bene sempre, in ogni tempo e in ogni
luogo. Successivamente però avete accolto la nostra affermazione secondo la
quale la scienza va calata in un preciso periodo storico. Allora: o è universale,
o va calata nel contesto storico...

DIFESA CONTRO - Bè, se tu un giorno riuscirai a mettere a punto un


metodo migliore di quello galileiano per le scienze come l'astronomia, la fisica
ecc, dimostrando che è più vicino alla realtà di quello galileiano, che voi avete
definito "antiquato", quello da domani sarà il nuovo metodo scientifico e, con
i mezzi che abbiamo a disposizione oggi, sarà il più vicino alla realtà. Noi stia-
mo solo dicendo che oggi, allo stato attuale, quello che definisce la differenza
fra una scienza e una semplice "materia di studi" è il metodo galileiano. Non
stiamo dicendo che tutto ciò che non è scienza sia privo di logica o campato
in aria; anche la psicologia che citavi prima è una cosa serissima ma non è una
scienza galileiana.

PRO - Ma se tu sostieni che un giorno potremo ipoteticamente trovare


un metodo che sostituirà quello galileiano e ci farà arrivare a una conoscenza
ancora più certa, come puoi sostenere tuttora l'oggettività della ricerca delle
scienze naturali? Non so se esista un certo più certo del certo...

La seconda replica della squadra Contro è viziata da un atteggiamento lie-


vemente provocatorio. Lo si nota, oltre che dal tono, dal contenuto di uno dei
termini della disgiunzione ("O non sapeva cosa stesse dicendo..."). Fra l'altro, la
disgiunzione è discutibile. L'argomento della disgiunzione o dilemma è a volte
180 Roberto Falduti

usato nel corso delle nostre dispute; ne abbiamo un altro esempio poco dopo.
Si tratta di un argomento considerato molto forte per via della sua forma "lo-
gica" (si rifà al principio di non contraddizione e al principio del terzo escluso)
ma è molto facile che si cada nella fallacia di falsa disgiunzione, che consiste nel
creare una "falsa dicotomia di due opzioni contrapposte, che non esauriscono tutte
le alternative"17 . Un momento veramente singolare è quando la squadra avver-
saria viene accusata di aver volontariamente spostato la discussione sul tema
della oggettività della scienza: la responsabilità dell'allestimento dell'uomo di
paglia è stata addirittura rovesciata sull'avversario! Una retorsio in piena regola
(ovviamente fallace). Per finire, vengono espressi giudizi di disapprovazione
sulle argomentazioni dell'altra squadra, senza però spiegare il perchè siano
da considerare negativamente. Si potrebbe quasi configurare un tentativo di
replica ad hominem invece che ad rem, in quanto la replica non viene rivolta
contro l'argomento (non c'è traccia di controargomentazione) quanto piutto-
sto contro la persona che l'ha pronunciato.
La difesa della squadra Pro è pronta, ma il risultato finale è che la disputa
"degenera" verso la scaramuccia (è la parte che ho omesso di trascrivere) e il
tranello-provocazione ha sortito l'effetto che forse era quello desiderato.
La seconda replica della squadra Pro ha il pregio di essere ordinata e di
replicare punto per punto, specularmente, al secondo turno di argomenta-
zione degli avversari, anche se le espressioni contestate agli avversari vengono
riformulate in modo leggermente distorto. Anche in questo caso non si tratta
di un comportamento cristallino, ma non so quanto si tratti di un atteggia-
mento volutamente fraudolento o quanto invece sia dovuto agli effetti che la
"perturbazione" precedente ha causato sull'andamento della disputa. Si osser-
va spesso nel corso dei nostri incontri, infatti, come il momento cruciale in
cui si decidono le sorti della disputa (o anche in cui più facilmente si perde il
bandolo della matassa) sia proprio la fase di replica con la successiva interlo-
cuzione botta e risposta: è in questo frangente che si rischia la diversione, la
perdita della lucidità argomentativa, lo stallo su argomentazioni secondarie e

17  Cattani 1995, p.135


Palestra di botta e risposta al microscopio 181

la ridondanza; si rischia anche di scadere nella lizza eristica e di abbandonare


l'argomentazione razionale. Ma è proprio questa la fase della disputa che serve
più di ogni altra come addestramento a contrastare queste abitudini negative.
La successiva difesa della squadra Contro e la ripresa della squadra Pro
non spostano sostanzialmente l'asse della discussione. Interessante l'uso del
calembour e dell'ironia; ma siamo davvero ad una fase di stallo e attendiamo la
recapitulatio finale per "mettere ordine".

EPILOGO

CONTRO – Concludendo, io e la mia squadra, alla domanda "è cor-


retto chiamare 'scienze' le scienze umane", rispondiamo: no. Riteniamo
che una scienza, per essere così chiamata, deve essere supportata dalla ma-
tematica, che è la base irrinunciabile per il metodo scientifico, che ne può
garantire la certezza dei risultati. Le materie umanistiche quali la psico-
logia e la filologia non hanno questa base. Hanno un metodo, anche se
voi non avete ben chiarito quale, avete solo fatto presente che basta che ci
sia un metodo. Bè allora anch'io posso inventarmi un nuovo metodo per
tradurre le versioni... ma io non ho nessuna base per garantire che il mio
metodo sia quello corretto. Noi pensiamo che solamente la matematica
possa dare questa base di certezza. Pensiamo a Freud: per la sua interpreta-
zione dei sogni, non utilizza un metodo scientifico. Possiamo definirlo un
metodo pseudo-scientifico, infatti non avendo una base matematica non
arriva a conclusioni certe e oggettive, ma soggettive e condizionate dalla
persona e dal periodo storico in cui si trova. Kant afferma che la scienza
"offre il tipico esempio di verità universale e necessaria, che pur derivando
dall'esperienza e nutrendosi di essa continuamente, presuppone alla propria
base alcune certezze immutabili che fungono da pilastri, e da garanti di ve-
rità ". I vostri interventi non hanno portato alcun argomento a favore
delle scienze umane, ma hanno solo tentato, a mio parere senza riuscirci,
di sminuire l'universalità delle scienze naturali. Ah, noi non parliamo di
"certo e più certo"... noi parliamo di certo o sbagliato. Il giorno in cui
182 Roberto Falduti

verrà dimostrato che il metodo galileiano è sbagliato, solo allora un nuovo


metodo rappresenterà una certezza.

PRO – Buon giorno a tutti, sono Camilla, del liceo scientifico Tito Livio...
Abbiamo sviluppato un'argomentazione secondo la quale le scienze umane
sono da considerarsi "scienze" a pieno titolo. I nostri interlocutori hanno por-
tato una definizione di scienza che a noi sembra un po' riduttiva, in quanto
l'hanno circoscritta a quella basata sulla matematizzazione, la formalizzazione,
la deduzione. A noi sembra che, dopo la rivoluzione epistemologica di Popper
e di Kuhn, si possano considerare scientificamente valide le conoscenze che
possono definirsi adeguate in un certo momento storico. Adeguate, non uni-
versali. Universali vorrebbe dire che sono al riparo dallo spazio e dal tempo,
cioè si sottraggono a quella che potrebbe essere la loro falsificabilità nel futu-
ro... Poi, i nostri interlocutori hanno sostenuto che le scienze umane non pos-
sono essere vere scienze perchè studiano l'uomo... noi sosteniamo che proprio
per questo possono giungere a conclusioni ancora più valide. Che cosa l'uomo
può conoscere meglio dell'uomo stesso e delle cose che egli stesso produce?
È la famosa frase del filosofo Vico: "verum ipsum factum", e questo è proprio
l'ambito di studio delle scienze umane.

A questo punto la disputa è conclusa. A chi sarà assegnata la palma del


vincitore? Invito i lettori a formulare un'ipotesi anticipando quello che verrà
svelato nelle prossime righe: sarà interessante confrontare la propria opinione
con quella della giuria.
Ovviamente bisogna cercare (e non è facile) di non farsi influenzare dalla
propria convinzione in merito alla questione dibattuta: anche la giuria è con-
scia della difficoltà derivante dal compito di valutare soltanto il modo con cui
le opposte posizioni sono state sostenute.
Il risultato finale si è ottenuto sommando i punteggi attribuiti da cia-
scuno dei tre giudici in base a parametri precedentemente stabiliti e suc-
cessivamente dividendo per un coefficiente che determinasse un risultato
espresso in decimi: con il punteggio di 7,22 contro 7,19 (uno scarto dav-
Palestra di botta e risposta al microscopio 183

vero minimo) è risultata vincitrice la squadra Contro (Liceo Classico "C.


Marchesi").
Il responso della giuria coincide con quello da voi espresso? Se così non
fosse, sarebbe la conferma che "La natura stessa dell'argomentazione e della
deliberazione s'oppone alla necessità e all'evidenza, perchè non si delibera dove la
soluzione è necessaria, né si argomenta contro l'evidenza. Il campo dell'argomenta-
zione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui quest'ultimo sfugge
alle certezze del calcolo."18

BIBLIOGRAFIA

Aa.Vv. (2010), La svolta argomentativa. 50 anni dopo Perelman e Toulmin, Loffredo, Casoria
(NA)
Boniolo, G. e Vidali, P. (2002), Strumenti per ragionare, Bruno Mondadori, Milano
Cantù, P. e Testa, I. (2006), Teorie dell’argomentazione, Bruno Mondadori, Milano
Cattani, A. (1995), Discorsi ingannevoli, GB, Padova
Cattani, A. (2001), Botta e risposta. L’arte della replica, Il Mulino, Bologna
Coliva, A. e Lalumera, E. (2006), Pensare. Leggi ed errori del ragionamento, Carocci, Roma
D'Agostini, F. (2010), Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati
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Iacona, A. (2005), L’argomentazione, Einaudi, Torino
Nicolli, S. e Cattani, A. (2006), Palestra di botta e risposta. La disputa filosofica come formazione
al dibattito nella scuola, CLEUP, Padova
Reboul, O. (trad. it.1996), Introduzione alla retorica, Il Mulino, Bologna
Perelman, C. e Olbrechts-Tyteca, L. (trad. it. 1966), Trattato dell'argomentazione. La nuova
retorica, Einaudi, Torino
Schopenhauer, A. (trad. it 1991), L'arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, Adelphi,
Milano

18  Perelman e Olbrechts-Tyteca (trad. it) 1966, p. 3


SENOFONTE NICOLLI

Non di sole parole.


Disputa filosofica e comunicazione non verbale

La cosa più importante nella comunicazione


è ascoltare ciò che non viene detto"
(Peter Drucker)

La verità dipende dalla dimostrazione?


Cogliere il bello è una capacità innata o acquisita?
È l’uomo misura di tutte le cose?
Esiste una storia o ci sono più storie?
È corretto negare l’espressione di opinione a chi nega l’Olocausto?
La religione è la più grande barriera all’integrazione?
La realtà è razionale?
I problemi filosofici sono problemi irrisolvibili?
La scuola deve preparare al lavoro?
La felicità si può descrivere?
L’assassinio di un dittatore può essere giustificato?
La democrazia è la migliore forma di governo?
Onestà e lealtà vanno sempre di pari passo?
È corretto definire l’uomo “animale razionale”?

Queste sono solo alcune delle domande impegnative e avvincenti da cui


sono partiti gli studenti delle scuole superiori per sviluppare le loro dispute
filosofiche. Lo hanno sempre fatto coinvolgendosi in maniera competente, ap-
passionata e appassionante. E, tuttavia, la loro attenzione era prevalentemente
rivolta all’elaborazione dei contenuti; meno al modo con il quale essi venivano
espressi. Gli studenti sembravano non avere sufficiente consapevolezza delle
186 Senofonte Nicolli

loro modalità comunicative, soprattutto quelle non verbali. Come se, in qual-
che modo, anche il loro corpo non parlasse. Il corpo, invece, parla. Eccome.
E lo fa in modo molto più eloquente delle parole che usiamo per descrivere i
nostri pensieri.
Uno dei luoghi comuni più diffusi in termini di comunicazione è quello
che questa passi prevalentemente per il verbale. Può sembrare che a comuni-
care siano soltanto le parole, che siano solo queste a trasferire i concetti del
nostro pensiero. Le parole non sono, invece, l’unico mezzo che ci permette
di comunicare efficacemente; in realtà trasmettiamo pensieri anche attraver-
so gesti e atteggiamenti del nostro corpo. Approfondendo la conoscenza di
questa forma di linguaggio possiamo arrivare ad utilizzarlo per comprendere
meglio i messaggi che ci vengono trasmessi dalle altre persone, così come per
persuaderle per ottenere ciò che desideriamo. Bisogna, infatti, tenere presente
che noi siamo responsabili dell’esito della comunicazione; una gestione consa-
pevole della gestualità, della prossemica e di alcuni segnali, può permetterci di
migliorare la qualità della relazione.
Il linguaggio verbale è quello a cui tutti pensiamo quando sentiamo la
parola comunicazione, eppure essa rappresenta solo il sette per cento della co-
municazione stessa. Le parole, quindi, incidono solo in maniera marginale
durante un discorso. Imparare, invece, a rendere coerente la comunicazione
verbale e quella non verbale consente di essere più persuasivi e chiari.
Conosciuta anche come linguaggio del corpo, la comunicazione non verbale
svolge importanti funzioni nel comportamento sociale dell'uomo. Quando
dobbiamo farci un'idea di una persona, per esempio, facciamo riferimento, ol-
tre a quello che dice, ai segnali non verbali che ci manda: il tono di voce, la mi-
mica del volto, i movimenti, i gesti. Il linguaggio del corpo, conosciuto come
"comunicazione non verbale", ha perciò un peso decisivo in tutti gli scambi
comunicativi. Si pensa che il corpo sia determinante in almeno il settanta per
cento (fino al novanta per cento) del messaggio trasmesso. Ciò significa che
le nostre parole colpiscono l’attenzione in misura minore di quanto possiamo
pensare. Le parole, dunque, rappresentano solo una piccolissima fetta della
comunicazione che si alimenta, in gran parte, di cose non dette, di toni di
Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale 187

voce e gestualità. È perciò importante prestare attenzione a ciò che si dice, ma


anche a ciò che si fa.
Il trentotto per cento della comunicazione passa, piuttosto, attraverso il
tono, il timbro, il volume e l’inflessione della voce. Questo significa che se
vogliamo farci capire dobbiamo assolutamente alternare il tono della voce in
base ai concetti che si stanno esprimendo. Se non lo facciamo, se continuiamo
a parlare con il solito tono di voce, rischiamo di fare perdere interesse e atten-
zione per le nostre parole. L’utilizzo dei toni della voce è il primo importante
segnale di comunicazione. La capacità di persuasione percepita da chi ascolta
varia in relazione a velocità di esposizione, volume del discorso, assenza di
esitazioni, sottolineature tonali. E’ chiaro, cioè, che la vivacità e la presenza
di segni paralinguistici sono in grado di aumentare la forza e l’efficacia del
messaggio verbale. Il linguaggio paraverbale possiamo definirlo il valore
aggiunto alla comunicazione verbale.
Infine, ben il cinquantacinque per cento della nostra comunicazione passa
attraverso l’atteggiamento non verbale, chiamato anche il “linguaggio del cor-
po”: il contatto con gli occhi, i movimenti del corpo, delle mani, i supporti
visivi. In questo caso si coinvolgono anche tutte quelle persone che hanno,
come sensi più sviluppati, quelli visivi. Per questo è bene sempre guardare le
persone, scambiare con ognuna di loro lo sguardo, fare in modo che si sentano
coinvolte, fargli capire che ci teniamo che capiscano quello che vogliamo co-
municargli. "Guardami negli occhi, capirò se ti interessa ciò che dico”.
Occorre poi sapersi muovere. Usiamo soprattutto le mani: per accompa-
gnare le parole, i toni, le cadenze, per rilevare dei passaggi importanti. Gesti-
colare aiuta a pensare meglio, a concentrarsi, a fissare nella memoria concetti
importanti. Chi fa uso dei gesti, mentre comunica, ottiene risultati migliori:
i gesti sono fondamentali per trasmettere pensieri e conoscenza. Le frasi più
ricordate sono, infatti, quelle accompagnate da gesti significativi. Non si ge-
sticola, del resto, solo per farsi capire meglio, ma anche per aiutare se stessi,
quando si spiegano concetti difficili. È dimostrato che il settanta - ottanta
per cento dell'informazione arriva al cervello attraverso quello che vediamo,
a conferma di quanto la gestualità sia una componente importante, se non
188 Senofonte Nicolli

fondamentale, della comunicazione. L'istinto che ci porta a gesticolare è fra i


più radicati: gesticolano anche le persone che parlano al telefono; gesticolano
i bambini piccolissimi; gesticolano i non vedenti quando parlano con altri
non vedenti. Le mani sono per gli esseri umani ciò che la bacchetta è per un
direttore d'orchestra. Tanto vale assecondare l'istinto e lasciare che sia il corpo
a parlare per noi, o con noi.
La comunicazione verbale e non verbale, per quanto diverse nella loro
modalità di espressione, si integrano e si rafforzano a vicenda, influenzan-
do la comprensione del discorso. Esse avvengono contemporaneamente e
hanno un aspetto in comune molto importante: così come possiamo mi-
gliorare l’uso del linguaggio scegliendo di volta in volta le parole, possiamo
anche usare, in modo consapevole, la comunicazione non verbale per dare
forza al nostro messaggio e aumentare la valenza comunicativa. Per comu-
nicare a trecentosessanta gradi occorre provare a “toccare” tutti i sensi e
trasmettere le informazioni attraverso tutti e tre i canali d’accesso: uditivo,
visivo, cinestesico.
Ogni volta che ciascuno di noi parla è come se si mettesse sul palcoscenico.
Siamo nudi di fronte al nostro interlocutore perché sveliamo una piccola parte
di noi stessi, anche se non vogliamo o non ne siamo consapevoli. Perché è pro-
prio il corpo che aggiunge valore informativo al messaggio stesso. Ecco perché
l’uso consapevole della comunicazione non verbale ci rende più coinvolgenti,
più affascinanti. Per comunicare non basta accontentarsi di avere trasmesso
ciò che volevamo dire: se veramente vogliamo comunicare efficacemente con
gli altri, dobbiamo mettere il destinatario nella situazione di capire ciò che noi
gli abbiamo comunicato.
Potremmo affermare che tutti possono comunicare, ma non tutti sanno
farsi capire. Da ciò deriva che saper comunicare è un’arte. Un’arte che si può
imparare. Se si impara a comunicare in modo efficace, vale a dire con un’atten-
ta scelta delle parole e un controllo della comunicazione non verbale, avremo
in mano gli strumenti per persuadere e convincere. Questo è vero poiché la
comunicazione è un’impresa di relazione, la cui riuscita si misura sulla base del
grado d’interesse e di coinvolgimento dell’interlocutore.
Non di sole parole. Disputa filosofica e comunicazione non verbale 189

Il linguaggio non verbale fa parte di noi: è la cultura che ce lo fa a volte


dimenticare. Riappropriarsi della capacità di "capirlo e parlarlo" significa re-
cuperare qualcosa che forse abbiamo semplicemente dimenticato. Ho chiesto
una volta ad un bambino di sei anni cosa voleva dire per lui comunicare. Mi
ha risposto così: “Per parlare. È utile quando chiedo alla mamma la merenda.
Ma non sempre me la vuole dare. Invece, se le sorrido, poi lei me la dà lo stesso”.
ALBERTO RIELLO

La parola e il gesto

“La parola, da sola, non basta ad esprimere


un’emozione, un’intuizione, un concetto; quando
questi sono pregnanti, la parola ha bisogno di farsi
corpo. Ed è il teatro il luogo privilegiato in cui è
possibile una simile esperienza; in esso la parola “si fa
corpo” attraverso la mimica, il gesto, il movimento,
l’uso consapevole e mirato della voce, il simbolo
materializzato visivamente e spazialmente (Rosita
Paganin, La scatola della memoria).

Sono un teatrante e come tale ho un’inclinazione a “fare” più che a


“dire”.
Il mio contributo in questa pubblicazione è legato proprio alla mia espe-
rienza teatrale e cioè di operatore teatrale nelle scuole.
Nei laboratori teatrali è fondamentale il lavoro sul corpo, sulla gestualità e
sull’ascolto di se stessi attraverso un vero e proprio training attoriale.
L’obiettivo è di recitare e interpretare il testo teatrale facendolo risuonare
dentro se stessi. Ma per far questo bisogna conoscersi, decifrare la gestualità,
bisogna saper “riflettere” con tutto il corpo.
L’esperienza teatrale consente di godere della connessione tra mente e cor-
po, superando quindi il diffuso dualismo tra queste due dimensioni e coinvol-
gendo l’intera persona.
Stimola gli studenti ad assaporare il testo, a “riflettere” su quanto si dice,
ad uscire dal ruolo passivo di consumatore della parola e assumere quello di
protagonista, che riesce a dare forma, coerenza e autenticità alla parola stessa
sino ad esprime emozioni.
192 ALBERTO RIELLO

Il gesto degli altri, ovvero manipolazioni di pensieri illustri

Mi cimenterò in una breve incursione nel “gesto letterario”, ovvero nella


percezione che del gesto hanno avuto alcuni grandi scrittori. Si tratta di un
collage di libere manipolazioni destinate a costruire un personaggio immagi-
nario in uno spettacolo.
Io sono un sognatore e l’abitudine di sognare mi ha portato a conoscere
i gesti con i quali ognuno rivela se stesso, la morfologia della propria psiche.
(Pessoa, Il libro dell’inquietudine)
Attraverso i gesti, riconosco le idee malvagie, riconosco ciò che in noi cerca
di illuderci. (Pessoa, Il libro dell’inquietudine)
Ma non è tutto, i gesti svelano anche da dove si viene;, … i napoletani, in
particolare, dirigono con le mani orchestre invisibili: Io dico che se ci fosse un
premio Nobel per la gestualità la vincerebbe un napoletano… non c’è dubbio
che abbiano inventato il linguaggio del corpo più poetico del mondo… (De-
smond Morris, L’occhio nudo)
Una cosa, poi, che un accorto osservatore sa bene è che i gesti non rispettano
le frontiere degli Stati moderni; infatti, la maggior parte dei gesti simbolici sono
molto più vecchi dei confini politici attuali, considerato che alcuni confini di ge-
sto europei risalgono a più di duemila anni fa! Trovo commovente che il nostro
corpo sia più fedele ai suoi gesti che alle patrie bandiere (Galimberti, Il corpo);
Ci sono gesti espressivi, gesti repressivi; soprattutto gesti repressivi. (Ga-
limberti, Il corpo)
Del resto, se dal momento in cui è apparso sul globo terrestre il primo
uomo sono passati sulla terra circa 80 miliardi di esseri umani, è difficile sup-
porre che ognuno di loro abbia il proprio repertorio di gesti. E’ aritmetica-
mente impossibile.
Quindi, senza il minimo dubbio, al mondo ci sono molti meno gesti che
individui, perciò il gesto è più individuale dell’individuo; come dire: molta la
gente, pochi i gesti...
In effetti, il gesto non è un’espressione dell’individuo, una sua creazione,
perché nessun uomo è in grado di creare un gesto del tutto originale e che
La parola e il gesto 193

appartenga a lui soltanto; né tantomeno, lo si può considerare come un suo


strumento.
Al contrario, sono i gesti che ci usano come i loro strumenti, i loro porta-
tori, le loro incarnazioni. (Kundera, L’immortalità)
Le norme culturali e sociali propongono o impongono cure e pratiche cor-
poree commercializzando prodotti di bellezza, yoga, massaggio, sport. Così il
corpo, apparentemente esaltato, viene invece ridotto a prodotto di consumo,
a merce d’acquisto. L’inflazione del consumo corporeo non implica necessa-
riamente l’ascolto, che al contrario viene spesso mistificato. Si moltiplicano
gli specialisti nelle cui mani il soggetto frammentato mette il proprio corpo,
invece di farsene carico. Questa realtà non può non influire nel rapporto cul-
turale degli educatori e genitori con i bambini. Di contro, nella scuola vige la
supremazia della parola, che riduce il corpo al silenzio; a scuola non bisogna
muoversi quando si parla, quando si legge, quando si ascolta: il corpo cessa
così di essere il luogo privilegiato per vivere il sapere.
In questo panorama di falsi opposti, dal canto mio, il problema non è
tanto quello di rivendicare i poteri del corpo contro l’importanza della parola
quanto quella di trovare un linguaggio carnale, luogo stesso di origine della
parola e per dirlo con M. Lodi: “per non sacrificare nessuna delle competenze
vitali del processo di crescita del bambino”.
Si pone una domanda: non sarebbe necessario per qualsiasi insegnamento
un percorso di espressione corporea come strumento di formazione pedago-
gica? Le persone che lavorano o hanno lavorato attraverso l’espressione sem-
brano essere più consapevoli del proprio linguaggio corporeo e quindi mag-
giormente in grado di presentire la creatività dei propri studenti e di tollerare
l’imprevisto (aspetti sempre presenti nella scuola).
In quest’ottica sto lavorando per un progetto dell’Ufficio Scolastico Regio-
nale del Veneto che ha come obiettivo principale l’educazione al teatro.
Il mio lavoro si concentra soprattutto sulla formazione degli insegnanti
nei vari aspetti del teatro. L’ utopia è quella di far in modo che l’insegnante in
classe (o in uno spazio meno condizionante) “agisca il pensiero” e dall’azione
faccia nascere il pensiero.
194 ALBERTO RIELLO

L’obiettivo è di apprendere e trasmettere conoscenze “dilettando”, perché,


per dirla con Bertold Brecht: “La profondità della conoscenza e dell’impulso
corrisponde alla profondità del piacere”.
GIULIO ZENNARO

Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica


come esperienza didattica

Abstract

La Palestra di botta e risposta mette a disposizione della didattica e dell’educazione due


preziose risorse: il dialogo e l’argomentazione. La disputa privilegia il dialogo come me-
todo e l’argomentazione come regola, all’insegna del “mai imporre, ma sempre spiegare
e proporre all’assenso”. Quattro sono in particolare gli aspetti valoriali dell’attività di
disputa: 1. l’essere una sfida e una competizione regolamentata che favorisce la crescita
dei partecipanti; 2. l’allenare ad apprendere dai propri errori e dalle sconfitte; 3. il
privilegiare negli studenti l’attività di ricerca rispetto alla ripetizione mnemonica; 4.
l’indurre nella classe un atteggiamento di cooperazione efficace volta a raggiungere un
obiettivo comune. Comune deve esser anche il punto di partenza, che può utilmente
essere cercato nell’insieme dei diritti umani condivisi da tutti.

La disputa filosofica mette a disposizione della didattica e dell’educazione


due preziose risorse: il dialogo e l’argomentazione. La disputa è stata per gli
studenti partecipanti del Liceo “Marchesi” di Padova l’occasione pratica per
imparare a ragionare e a dialogare, più che una riflessione teorica sul ragio-
namento e sul dialogo. Su questi due aspetti essenziali della formazione della
ragione la disputa ha permesso di sviluppare delle competenze, non solo delle
conoscenze: ci siamo collocati nella dimensione del fare e dell’essere senza
disgiungerla dalla dimensione del conoscere. Nella disputa gli studenti hanno
avuto la possibilità di fare esperienza di quelle conoscenze che andavano ac-
quisendo mano a mano nello svolgimento del corso di filosofia. È stata vera-
mente una palestra di argomentazione dialogica.
Vorrei sottolineare innanzitutto alcuni fattori metodologici e pedagogici
che la disputa ha permesso di sviluppare in quanto sfida ad un apprendimento
196 Giulio Zennaro

non ripetitivo, ma eminentemente rielaborativo e creativo di forme e percorsi


che non possono appiattirsi sulla manualistica e non possono rinchiudersi in
una ripetizione di un puro sapere consolidato. La nostra esperienza di disputa
filosofica è stata una esperienza che, pur con tutti i limiti che ha ogni esperien-
za concreta, ha permesso a chi ne è stato protagonista di fare un percorso di
crescita molto interessante, di cui dettaglio alcuni aspetti. Questa crescita si è
manifestata nell’aspetto della sfida e della competizione regolata: essa impone
un autocontrollo e una finalizzazione delle energie e della aggressività verso
obiettivi etici, non solo conoscitivi. Impone cioè una finalizzazione etica alle
proprie competenze e conoscenze, in quanto non si può umiliare l’avversario,
ma si deve difendere la tesi con argomenti razionali. Quindi il comportamen-
to è indirizzato alla relazionalità comunicativa mediata dalla razionalità e non
a prevalere sul terreno della forza, per quanto verbale. Fin dall’inizio, per gli
studenti che hanno partecipato, questa è apparsa come una difficoltà con cui
fare i conti: porre un freno alla aggressività, così come la giuria in vari modi
sottolineava, per collocarci su un piano di comunicazione personale di sé non
istintuale ma mediata dalle opportunità comunicative. Il dovere cercare di
controllare il proprio impeto polemico ha costretto tutti a un lavoro su di sé,
di controllo della propria aggressività, lavoro che spesso a scuola non viene
fatto perché manca la motivazione adeguata. La palestra di botta e risposta ha
sfidato tutti al controllo della propria vis polemica, permettendo di migliorare
la propria capacità di comunicazione di sé e l’efficacia della propria espressivi-
tà. Il controllo della propria istintività, quindi, non è un soffocamento dell’io,
delle sue potenzialità, ma, se adeguatamente motivato e bilanciato razional-
mente, è un efficace metodo che aiuta alla vera e più autentica espressione di
sé. Questa è una lezione importante che è stata appresa nella palestra di botta
e risposta, ma andrebbe estesa a tutta l’esperienza di studio, di lavoro e di vita.
Un secondo importante aspetto che l’esperienza della disputa ha messo
in evidenza è stato il valore dell’imparare dai propri errori, dalle sconfitte.
Gli studenti non si sono fermati a recriminare di fronte alla sconfitta, ma
hanno voluto capire i motivi della minore efficacia della prova, capire dove
avevano sbagliato per correggersi e migliorare la propria performance. Normal-
Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica 197

mente, nella esperienza quotidiana della didattica, una performance negativa


viene spesso censurata e non efficacemente razionalizzata, così che non diven-
ta trampolino per nuove e più elevate prestazioni. Veramente, imparare dai
propri errori e fare delle proprie debolezze un punto di forza è il dinamismo
più autentico dell’apprendimento e dell’educazione: la disputa ha messo in
evidenza la sua efficacia nella didattica. La disputa è stata una palestra di me-
todologia di apprendimento efficace, così come Popper teorizza nella scienza
con il metodo per “tentativi ed errori”. Se concepiamo la nostra ragione non
come un contenitore in cui mettere quante più cose possibile, ma come una
bussola, un faro che illumina il cammino e che serve per orientarci nei proble-
mi della conoscenza e della vita, allora la conoscenza per “tentativi ed errori” è
parte integrante dell’apprendimento: è possibile, quindi, fare degli errori non
una occasione unicamente di debolezza e di lamento, ma una opportunità di
forza, in quanto possibilità di continuo affinamento delle proprie capacità.
Un terzo aspetto della esperienza è stata la grande capacità di lavoro e
l’autonomia che la disputa ha permesso di mettere in gioco, una volta che gli
studenti hanno accettato la sfida di essere protagonisti. Gli allievi impegnati
hanno assunto lo studio preparatorio come una questione propria, una sfida
su di sé, così che non era necessario continuamente stimolarli a studiare, a
impegnarsi, perché lo accettavano autonomamente. Insomma, la disputa è
stata una vera palestra di scuola, nel senso di una vera esperienza di lavoro cul-
turale, come dovrebbe essere sempre lo studio. Gli studenti si sono applicati a
studiare gli argomenti, a documentarsi, per capire e entrare dentro le questioni
proposte nel topico. Non hanno ripetuto schemi appresi mnemonicamente,
ma sono, in un certo senso, diventati ricercatori, cercando e trovando le ri-
sposte alle questioni poste dal topico. Essi hanno realizzato potenzialmente un
modo di fare scuola efficace ed efficiente, dove le energie della persona sono
indirizzate allo scopo non per input esterni, ma per una forza di convinzione
interiore, autonoma. Ciò rappresenta un modello della dinamica dell’appren-
dimento: un lavoro sul proprio conoscere che parte dalla sfida della disputa e
che si muove per una forza interna, autonoma. È un io che si muove per scelta
personale e traduce in un lavoro il proprio desiderio.
198 Giulio Zennaro

Un altro interessante aspetto da sottolineare è la cooperazione e l’unità per


raggiungere insieme un buon obiettivo. Gli studenti coinvolti hanno messo
in moto un aspetto essenziale di un vero processo di apprendimento: si im-
para meglio insieme, dialogando reciprocamente per individuare le migliori
strategie di lavoro e di conoscenza. Gli incontri preparatori sono stati dei veri
laboratori, gruppi di lavoro cooperativi in cui si praticava la comunicazio-
ne tra pari come forma di apprendimento induttivo. La competizione non
è stata distruttiva, ma costruttiva all’interno del gruppo: tutti erano tesi alla
realizzazione dello scopo comune, un vero esempio di cooperazione efficace.
Bisognerebbe tradurre questo elemento di collaborazione all’interno delle di-
namiche laboratoriali delle nostre classi, condizionate spesso dalla prestazione
formale e da un apprendimento individualista e competitivo. La forza del vero
apprendimento è il dialogo, con il quale si condividono degli obiettivi e ci si
sforza di raggiungerli insieme.
La disputa filosofica esalta anche il valore critico e razionale delle argo-
mentazioni, favorendo nello studio della filosofia l’esercizio della razionalità
critica. Gli studenti hanno potuto sperimentare il gusto della dimostrazione
caratterizzato dalla coerenza interna e dal rapporto con la realtà e l’evidenza.
Ciò ha permesso di pensare senza schemi rigidi e imposti dall’esterno come
stereotipi e preconcetti. La disputa ha aiutato a smascherare le contraddizioni
in cui cadevano gli avversari quando usavano argomentazioni scorrette, sche-
matiche o mnemoniche. Alla base di tutto questo sta il riconoscimento della
natura profondamente semplice e universale della ragione che è di tutti e da
tutti riconoscibile. Nel mettere in moto la ragione, che è criticità e intelligenza
della realtà, si scoprono le contraddizioni in cui cadono gli avversari e, attra-
verso domande adeguate, le si volge a proprio favore e nello stesso tempo si
risponde alle obiezioni degli avversari.
Occorre sottolineare, anche, che il paradigma dei diritti umani ha guida-
to il percorso argomentativo degli studenti impegnati nella disputa filosofica
permettendo così di non perdere mai l’orientamento, anche nei topici più
difficili. È vero che bisognava, per vincere, anche assumere posizioni a cui non
sempre gli studenti erano pienamente d’accordo (ad esempio, sull’opportunità
Dialogo e argomentazione: la disputa filosofica come esperienza didattica 199

o meno di, come recitava un topico, “rinchiudere gli animali negli zoo”), ma,
nello stesso tempo, i diritti umani costituivano una guida che permetteva loro
di individuare nei distinguo non tanto dei cavilli ma delle possibili interpre-
tazioni riduttive del topico da evitare; per rivendicare alla fine un punto di
vista integrale che sempre ha come punto di riferimento profondo l’insieme di
valori dell’uomo che chiamiamo diritti umani. Il riferirsi ad essi ha permesso
di evitare gli stereotipi e i luoghi comuni in quanto i diritti umani sono sentiti
come valori corrispondenti alle esigenze dell’io e implicati, perciò, nelle va-
rie argomentazioni. Questo riferimento assiologico ha impedito di assumere
posizioni ciniche o nichilistiche, ma ha sempre spinto a confrontare con se
stessi le affermazioni da trovare per difendere la propria tesi e vincere la di-
sputa. Vincere non è mai stato a prezzo della verità: questo ha reso personali e
convincenti le posizioni sostenute, ha permesso di spiegare la loro razionalità
interna e impedito di assumere pose estreme o artefatte. Tutto a vantaggio
della spontaneità e della naturalezza. Questo è un grande esito della razionalità
critica che è stata fatta propria e dispiegata nella tenzone.
E perché non partire da questa esperienza per mettere in piedi un laborato-
rio di pensiero e di metodo razionale argomentativo per aiutare i giovani stu-
denti ad imparare questo metodo, partendo dalla peer education? Gli studenti
più esperti nella disputa hanno fatto da tutor ai loro compagni indicando
anche a loro quanto hanno appreso in questa esperienza. È questa la scoperta
della vera modalità di filosofare e della capacità di comunicare e di persuadere
gli altri, non con la forza, ma con gli argomenti e le ragioni. La filosofia come
maieutica che un maestro, che può anche essere un quasi coetaneo, come nella
scuola di Barbiana, aiuta a fare emergere il pensiero libero che c’è in ognuno
e che spesso non emerge per condizionamenti e paure. Il dialogo come meto-
do. L’argomentazione come regola: mai imporre, ma sempre spiegare e pro-
porre all’assenso. La disputa è stata l’occasione di un dialogo come incontro
di diversità che non si sconfessano ma che, riconoscendosi, si accettano e si
confrontano. Il dialogo esige il confronto di due diversità, non per sopraffarsi
reciprocamente, ma per scoprire che nella diversità c’è un aspetto affascinante
della realtà e dell’uomo che non ho ancora scoperto. Quindi, nel confronto
200 Giulio Zennaro

aperto io posso uscire non solo vincitore, come vuole la regola della disputa,
ma, soprattutto, ricco di una meta-esperienza, quella della scoperta dell’altro,
della sua ricchezza, della sua umanità. Così la mia non è una posizione rigida,
ma una ricerca dell’essere attraverso la diversità fattami scoprire dal tu. Scopro
che nella dialettica delle posizioni, se queste sono riflessi dei valori umani che
io sperimento, io posso scoprire quello che da solo non posso scoprire: che
siamo tutti implicati nell’essere e tutti attingiamo alla stessa fonte di valore e
di significato, pur nella diversità delle sfumature. Nell’esperienza della disputa
abbiamo potuto aprirci alla attualità e scoprire come la razionalità sviluppata
nella filosofia è una guida, insieme ai diritti umani, al nostro difficile orientar-
ci nel mondo. Non è poco questo apprendimento per dei giovani in una età
di crisi come quella che viviamo. La disputa è stata una grande esperienza di
scuola nuova e di protagonismo: una interrogazione sotto forma di disputa as-
sume un interesse e una energia sconosciute. Vale la pena sperimentare. Quel-
lo che risulta è un diverso modo di intendere l’apprendimento e la sua verifica.

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