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IL LAVORO (ETIMOLOGIA E CONCEZIONE DEI TERMINI GIOCO E LAVORO NEL 900):

DEL BAMBINO E DELL’ADULTO.

GIOCO E LAVORO SIGNIFICATO ETIMOLOGICO

La prima parte di questa relazione tenta di tracciare nel modo più esaustivo possibile un percorso
storico-linguistico della concezione del gioco, a fronte del concetto di lavoro che spesso gli è stato
posto come antitesi.
Alla voce “gioco”, il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana suggerisce due radici
alternative: secondo alcuni linguisti, infatti, il termine latino iòcus (che corrisponde al nostro
“scherzo” o “burla”), sarebbe riscontrabile nella medesima radice di diocus, dal sanscrito div-
dju (giocare, scherzare); altri studiosi hanno proposto invece una corrispondenza con la radice jak,
(gettare, scagliare), con il senso primitivo di “scherzo”, quasi un “dardo (in latino jaculum)
scagliato”. Lo iocus dell’antichità era pertanto prevalentemente associato al gioco di parole, allo
scherzo, alle facezie argute e/o volgari, fino al corteggiamento amoroso e ai componimenti letterari
a sfondo erotico.
Il concetto di gioco contemporaneo inteso come attività ludica dei bambini, invece, nell’antichità è
piuttosto da ricercarsi nel termine ludus. Esso era quasi sempre legato ad oggetti modesti, come ad
esempio le noci, che spesso sostituivano le biglie (l’età infantile era spesso definita “il tempo delle
noci” proprio per questo motivo): una delle versioni del gioco delle noci, infatti, era chiamata ludus
castellorum, e prevedeva che il giocatore lanciasse la propria noce in modo che cadesse rimanendo
in equilibrio su tre noci accostate, così da formare un triangolo. Nella categoria dei giochi da tavolo
vi era il ludus duodecim scriptorium (il gioco delle dodici linee), un gioco simile all’odierno
backgammon che si eseguiva mediante un tabellone da gioco orizzontale ricavato da pietre levigate
o tavolini di legno. I ludi erano anche i giochi pubblici e gli spettacoli dei gladiatori: ad esempio,
nel mondo greco i Giochi Olimpici quadriennali costituivano la manifestazione sportiva e religiosa
più importante della civiltà. I ludi sportivi impegnavano i giovani con allenamenti severi e durissimi
fin già dall’età di sette anni, ovvero all’inizio delle scuole-ginnasi.
Aristotele traccia il sentiero ipotetico che l’umanità per secoli ha percorso nel considerare il ruolo
del gioco come attività non finalizzata o produttiva; tuttavia, il filosofo greco riconosce comunque
ad esso una sua utilità: presso i suoi contemporanei, infatti, il gioco era non solo considerato
allenamento fisico, ma anche mentale, nonché fortificazione dello spirito e mezzo per l’acquisizione
di più sviluppate capacità logiche e mnemoniche (è questo il caso dei giochi matematici, ad
esempio). Nell’Etica Nicomachea, Aristotele mette in relazione il gioco con la felicità, in quanto
attività non dettata da interesse o scopo al di fuori del sé, e perciò da considerarsi virtuosa; corregge
però subito il tiro, sostenendo che la felicità sia garantita appunto dall’esercizio della virtù e non dal
divertimento, che distoglie da obbiettivi più nobili, e difeso solo se espressione di uno spirito libero.
Eraclito trova nel gioco fine a se stesso la consolazione e la saggezza che mancava alle presuntuose
e seriose questioni politiche. Il gioco dell’enigma, libero dai meccanismi del pensiero adulto così
come il linguaggio dell’infanzia, è il logos degli dei, che richiedono agli uomini un ascolto
disinteressato e libero dai pregiudizi, com’è appunto lo sguardo dei bambini.
È Platone però, nel mondo antico, la prima voce che si solleva in favore del gioco, riconoscendo ad
esso un aspetto educativo nel momento i cui lo descrive come una preziosa occasione educativa,
oltre che ricreativa, utile allo sviluppo corporeo, alla socializzazione e alla crescita morale
attraverso il rispetto delle regole: paignon, il termine greco che definisce il gioco, ha in effetti la
medesima radice di paideia, ovvero “educazione”, “formazione”.

L’età medievale non fu territorio esplorativo per i pensatori nei confronti del gioco; è solo durante il
Rinascimento, con Montaigne, che si inizia a riconoscere al gioco quella serietà che il mondo degli
adulti, fino a quel momento, aveva negato ad esso; e con Locke nel ‘600 e Rosseau nel ‘700
illuminista, il gioco comincia ad assumere quella dimensione educativa, fino a consolidarsi
definitivamente come tale con gli studi di Frobel nell’800 e infine in età contemporanea, con la
pedagogia di Dewey e Piaget.

Nonostante l’interesse degli intellettuali per questo tema sempre attuale, il gioco presso la cultura
popolare e di massa è sempre stato concepito in contrapposizione al concetto di lavoro, sua nemesi
storica. Il lavoro è a tutt’oggi considerato un’attività seria, finalizzata, utile, che persegue scopi
precisi e tangibili; è quanto di più necessario per l’uomo, di cui egli non può fare a meno - è
l’attività che serve per vivere, e soprattutto per monetizzare (l’attività adulta per eccellenza). In
questa visione limitata, il lavoro è associato indissolubilmente all’età matura, laddove invece il
gioco è l’attività futile tipica del bambino.
All’attività lavorativa è stata sempre affiancata l’idea di fatica, di noia, di sofferenza inevitabile. Ed
è infatti così che l’Enciclopedia Einaudi definisce il termine: lavoro e labour in inglese derivano dal
latino labor, il cui significato era “pena”, “sforzo”, “fatica”, “sofferenza” e ogni attività penosa. E
nel remoto background del francese travail ritroviamo uno strumento di tortura, il tripalium, mentre
lo spagnolo trabajo indicava il “partorire”, il “mettere al mondo” (che riecheggia nell’italiano
“travaglio”). È il lavoro la biblica maledizione per aver peccato nel voler assaporare il frutto della
conoscenza, eppure già nella Regola di San Benedetto il motto “ora et labora” pone la fatica su un
piano più elevato, spirituale, di pratica affine alla preghiera. Di lì a poco, il mondo protestante
inizierà il processo di glorificazione del lavoro in quanto vocazione, chiamata al dovere, e con
Calvino e Lutero esso diviene il fondamento e la chiave dell’esistenza, poiché lavorare significa
servire dio; a questo punto l’ozio cambia radicalmente di significato rispetto al mondo classico,
divenendo attività contro natura, e il valore religioso del lavoro si rafforza e modella la volontà
dell’imprenditore che realizza nel lavoro la propria esistenza. Questo nuovo carattere attribuito al
lavoro influenzerà il concetto dello stesso fino ai nostri giorni o, almeno, fino alla fine del secolo
scorso.
Di quella dimensione dell’ozio tanto vituperato dalla Weltanschauung capitalista occidentale
inaugurata dal protestantesimo, fa perciò indubbiamente parte anche il gioco: esso è un divergere,
uno svago, un non pensare al dovere, una distrazione, un uscire dalla strada del lavoro. Il gioco è
libero, un processo fine a se stesso laddove, al contrario, l’attività lavorativa è seria, finalizzata,
pianificata, utile, e produce utilità.

IL GIOCO COME LAVORO DEL CRESCERE

Pedagogisti e psicologi concordano nell’attribuire al gioco una funzione significativa per lo


sviluppo cognitivo, sociale, motorio, emotivo, per lo sviluppo di varie competenze essenziali per la
“costruzione” della personalità.  Le riflessioni di importanti pedagogisti, quali Piaget, Vjgotsky,
Frobel, Decroly, Claparède, hanno messo in luce le potenzialità dell’attività ludica, che, durante
l’infanzia, con i giusti mezzi, esercita funzioni biologiche ed aiuta a crescere favorendo l’autonomia
e l’indipendenza. 
Con il gioco il bambino comprende le sue attitudini, scopre la sua interiorità e il rapporto del
proprio sé con la realtà esterna, “costruisce” il suo essere al mondo. Sensi e movimento, dicono
Piaget e Vjgostskyi, sono i principali intermediari che permettono l’elaborazione delle informazioni
che riceviamo dall’ambiente esterno, aiutandoci a conoscere, a creare strutture di pensiero. Froebel
celebra il gioco affermando che attraverso di esso il bambino si pone in relazione con sé stesso, con
le cose con gli altri.
Il gioco è, quindi, la principale attività in cui si manifesta lo spirito creativo del bambino
In molti ritengono che Maria Montessori fosse contraria al gioco, i suoi detrattori partono dal
presupposto che nei suoi scritti quanto citato venga presentato in maniera critica.
Nel Il segreto dell’infanzia afferma: ‘Benchè ci fossero nella scuola a disposizione dei giocattoli
veramente splendidi nessun bimbo se ne curava. (..) Allora capìì che il gioco era forse qualcosa di
inferiore per la vita del bambino e che egli vi ricorreva in mancanza di meglio’ .
Sembrerebbe dunque che del gioco si possa fare a meno, che sia solo un passatempo di cui i
bambini presto si stancano.
In realtà Maria Montessori è tra le prime a riconoscere ed evidenziare l’importanza del gioco tanto
da associarlo ad un vero e proprio lavoro per esaltarne la giusta rilevanza: “il gioco è il lavoro del
bambino”. In una delle sue più incidenti osservazioni, che le hanno rivelato “il segreto
dell’infanzia”, Montessori racconta:  un bambino di circa 1 anno e mezzo era, in un giardino,
intento a riempire un secchio di ghiaia, quando la sua “bambinaia” lo prese in braccio per portarlo a
casa, lui si mise a piangere contrariato, allora la donna riempì il secchiello pensando di accontentare
il suo desiderio, ma non servì, il bambino voleva fare “l’esercizio necessario a riempirlo” per
soddisfare lo scopo di “sviluppare se stesso […] coordinare i propri movimenti volontari, esercitare
le forze muscolari nel sollevare oggetti, esercitare l’occhio alla valutazione delle distanze
Per comprendere appieno le parole di Maria Montessori è necessario avere una visione più ampia
del suo pensiero e contestualizzare queste affermazioni in un periodo culturale e sociale di un secolo
e mezzo fa. Il suo era uno sguardo sperimentale che cercava di cogliere alcune evidenze empiriche
in relazione al suo oggetto di studio ovvero la concentrazione del bambino sul lavoro che svolge e il
suo desiderio di scoprire. Nella mente del bambino afferma: ‘Se osservate un bambino di tre anni,
vedrete che egli gioca sempre con qualche cosa. Questo significa che egli va elaborando con le sue
mani e immettendo nella sua coscienza quello che la sua mente inconscia ha assorbito in
precedenza. Attraverso questa esperienza dell’ambiente, sottoforma di gioco, egli esamina le cose e
le impressioni che ha ricevuto nella sua mente inconscia.
In realtà quindi Maria Montessori non si esprime contro il gioco ma contro la concezione comune
che gli adulti hanno del gioco infantile e dell’idea distorta dell’infanzia.
Il gioco, come recitato nella Convenzione sui Diritti dell'Infanzia (Art. 31) è un diritto del bambino
e ha una funzione primaria nella sua vita. Egli deve potersi dedicare ad “attività ricreative proprie
della sua età e partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica” incoraggiata da “mezzi
appropriati”.
La sua importanza è nella funzione principale che ha nello sviluppo cognitivo, sociale, emotivo,
creativo e motorio che costituiscono la base per la costruzione della personalità e individualità dei
bambini e delle bambine.
Permette di esercitare le abilità necessarie per la sopravvivenza e l’adattamento all’ambiente;
giocare vuol dire imparare, significa sviluppare empatia e acquisire cultura.
Possiamo quindi dire che nonostante il ‘900 sia stato il secolo dell’infanzia e nonostante quindi il
valore di gioco sia divenuto man mano più dignitoso non possiamo abbassare la guardia.
Il gioco ha la stessa dignità che ‘la cultura occidentale’ ha dato al termine lavoro, nella misura in cui
è finalizzato ovvero le distanze tra i due termini si annullano nel momento in cui il gioco ha una
finalità uno scopo, è soltanto lo sguardo dell’adulto ad essere sbagliato quando non ne vede la
direzione, una finalità.
Montessori comprende che bisogna dare rilievo ad un particolare “istinto” del bambino che è il
“lavoro di crescere”: è un istinto cognitivo che lo spinge ad apprendere da sé e a cercare
“l’esperienza del mondo e percepirlo col proprio sforzo personale”.  Non solo l’adulto, ma anche il
bambino è un “lavoratore”: il suo compito principale è di “produrre l’uomo”. Nel segreto
dell’infanzia Montessori scrive “Il bambino cresce di continuo, e tutto quanto si riferisce ai mezzi di
sviluppo è per lui affascinante e lo fa indifferente all’attività oziosa. Il bambino non chiede mai di
essere dispensato dalle sue fatiche, ma chiede di effettuare la sua missione totalmente e da solo. Il
lavoro di crescere costituisce la sua vita stessa”.
L’ambiente adatto ed adattato ai reali bisogni del bambino, attraverso i “materiali di sviluppo”, offre
un reale scopo da raggiungere, un “insegnamento graduato in rapporto ai diversi interessi “che dona
i suoi frutti perché viene proposto nel giusto momento. Nelle scuole Montessori, insegnanti ed
educatrici, quando invitano i bambini ad iniziare un’attività, chiedono: vuoi scegliere un lavoro?
Nulla di ciò che è presente nell’ambiente viene chiamato gioco, ma lavoro: il termine mette in
rilievo e dona il necessario riguardo al lavoro psichico che in quel momento si compie.   
Le attività proposte al bambino nel metodo di apprendimento montessoriano rispecchiano
particolari specificità:
 gli oggetti devono essere fatti con materiali naturali, come il legno, la lana, la pietra, il
metallo o la ceramica. Ogni materiale porta con sè peso e tattilità diverse: questo permette al
bambino di esplorare attraverso i sensi l’ambiente circostante e le sue sfaccettature;
 il bambino deve essere lasciato libero di esplorare e interpretare liberamente il gioco e le sue
potenzialità. I giocattoli, quindi, non devono avere bottoni di accensione che portano a sequenze
previste di suoni e movimenti, così come non devono riferirsi a storie, film o cartoni che conosca
già. In questi due casi la dinamica del gioco sarebbe passiva, in quanto indotta da un meccanismo
autonomo o da trame da copiare;
 i giochi devono essere semplici e coinvolgenti. La finalità del gioco deve essere chiara al
bambino, affinché si impegni da subito nel riuscirvi: la semplicità creerà un comportamento attento
e funzionale agli scopi che si sono proposti, senza possibilità di distrazioni causate da regole
difficili o preamboli. La dinamica ludica deve essere anche coinvolgente: il concetto di gruppo,
all’interno del gioco, è fondamentale e ogni attività deve essere pensata per incoraggiarne la pratica;
 i giochi devono essere realistici cioè riprodurre oggetti della quotidianità, al fine di
impratichire il bambino alla vita quotidiana degli adulti. I giocattoli che favoriscono narrazioni
fantastiche (mostri o fate, per esempio) portano nel bambino confusione su cosa sia realtà e cosa
finzione. Fare usare come giocattoli, invece, utensili reali, seppur rimpiccioliti, è la scelta più
coerente con il metodo.
Come ultima importante caratteristica, al termine delle attività tutti i giocattoli dovranno essere
riposti dove sono stati trovati, in ordine e alla portata di altri compagni, il tutto senza l’aiuto degli
educatori.
Durante la sua attività il bambino raggiunge un livello di concentrazione tale che sarà difficile
distrarlo, le sue mani si muovono lentamente, il suo corpo è composto e impegnato in un’attività
costruttiva.
Il bambino apprenderà in pochi anni che non esistono solo i suoi bisogni, ma anche quelli degli
altri. L’accoglienza, la pazienza e la delicatezza con cui ci si avvicina a un bambino che sta
lavorando lo aiutano a crescere in modo armonico ed evitano di fargli vivere momenti di
frustrazione e rabbia. A volte l’interruzione è inevitabile, mentre spesso, invece, è una mancanza
d’attenzione.

L’adulto deve realizzare un’educazione come aiuto alla vita fatta di rispetto riconoscimento
sostegno forte ma mai superfluo o invadente. Il bambino si eserciterà e si muoverà facendo
esperienza coordinando i propri movimenti e registrando le proprie emozioni influenzate dal mondo
esterno che plasmeranno la sua intelligenza.

Il gioco è il lavoro del bambino, ne” La mente del bambino” Montessori scrive : “Per mezzo del
lavoro diviene cosciente e costruisce l’Uomo. Il suo lavoro è costruire se stesso e rinnovare
l’umanità”

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