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Riassunto Il 900 il secolo del

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Pedagogia
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano
34 pag.

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Il 900, il secolo del bambino?

INTRODUZIONE

Il 900 è passato alla storia dell’educazione come “secolo dei fanciulli”, termine usato da Ellen Key,
pedagogista svedese nel suo libro così intitolato

Dalla fine ‘800 in poi sono state fatte ricerche psicopedagogiche e mediche, e interventi legislativi e offerte
educative per proteggere e valorizzare i fanciulli, sia a livello nazionale che internazionale.

Nel M.E., secondo Aries, non c’era visone dell’infanzia come un’età diversa da quella adulta con i propri
modi di essere e pensare, come invece sostenuto da Rousseau (metà 700). Nel mondo occidentale
contemporaneo, c’è stata una costante attenzione in vari campi: drastica diminuzione della mortalità
infantile grazie alle scoperte medico/scientifiche, diffusione dell’igiene urbana e scolastica, divieto di lavoro
per i minori, aumento della scolarità, affermarsi della pedagogia e della pediatria, nascita dei Tribunali per i
minorenni, diffusione di libri e periodici per bambini e di giochi, dichiarazione dei diritti del bambino e del
fanciullo.

Sembrerebbe un’evoluzione positiva nel 900, ma è stato davvero il secolo dei fanciulli? O si è passati dalla
scoperta dell’infanzia alla sua scomparsa come sostiene Neil Postman? O la considerazione dell’infanzia è
solo cambiata? A questi vuole rispondere il testo che riflette sul ruolo del bambino e sull’idea di infanzia nel
900. Per infanzia si intende l’essere bambino o ragazzo fino ai 14 anni.

Ci sono aspetti positivi ma anche ombre sulla scoperta o “mito” dell’infanzia nel corso del 900.

L’idea di infanzia nel XX secolo ha fatto i conti con le organizzazioni statali, con le dittature e le guerre
mondiali, in cui anche l’infanzia era militarizzata. C’è stato il problema dei bambini orfani e abbandonati in
apposite strutture e il lavoro minorile è stato debellato solo verso la fine del secolo.

La violenza sui bambini è mutata ma non scomparsa, è cambiata la famiglia con divorzi, o lavoro di
entrambi i genitori, o famiglia monoparentale. La pedofilia, il maltrattamento e l’abuso psicologico di
bambini sono ancora presenti.

Nelle società non orientali c’è il fenomeno dei bambini soldati, l’emigrazione con minori al seguito o non
accompagnati è un fenomeno globale.

I bambini si confrontano in una società multiculturale dominata dall’apppiattimento di alcuni “valori”


propagandati dai mas media. Le idee sull’infanzia hanno ormai variegate forme.

Nella 1° parte (gli storici e i bambini) si fa una ricerca storico-educativa sull’infanzia nel XX secolo, nella 2°
parte si fa emergere come, in Europa, oltre a tratti comuni, esistano differenze tra le varie società sul
concetto di infanzia, soprattutto nella 1° metà del secolo. È diverso essere bambino in una società
democratica o totalitaria.

Nel 900 si è sconfitto l’analfabetismo con tempi diversi da Stato a Stato creando nuovi e giovani lettori e un
nuovo mercato in cui i governi e settori dell’economia operavano per formare nel bambino, l’uomo che
potrà essere, democratico, nazista, comunista, a seconda del luogo e del tempo. All’interno della stessa
società sempre nel 900 coesistevano infanzie diverse per genere, credo religioso, classe sociale.

La differenza di genere è sempre presente sia nelle politiche statali sia nelle strategie economiche riferite a
bambini consumatori di giochi, fumetti e videogiochi.

Nonostante tutti gli aspetti positivi, molti studiosi, fanno delle precisazioni e distinzioni sul XX secolo come
secolo dei fanciullo.

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Una storiografia dell’infanzia, una storiografia nell’infanzia

La storiografia dell’infanzia nasce negli anni ’60 con la pubblicazione del testo (1968) di Aries sul bambino e
la vita famigliare nell’antico regime. Da allora sono state fatte ricostruzioni sullo stesso tema, ma in chiave
diversa, e analisi su realtà del passato mai analizzate utilizzando modi di ricerca diversi da quello dello
storico tradizionale e adattati al nuovo oggetto.

Si tenterà una storia di questa raffinata storiografia.

1. Rappresentazioni

Philippe Aries nel suo testo del 1960 e tradotto nel ’68 in Italiano col titolo Padri e figli nell’Europa
medievale e moderna, si pone la domanda di come l’infanzia sia stata avvertita per la prima volta come tale
nel periodo tra medioevo e età moderna. La Becchi traduce il vocabolo “sentiment” non letteralmente con
“sentimento”, ma con “rappresentazione” della famiglia e al suo interno, “l’enfant”, da tradurre non solo
come “bambino”, ma anche come “figlio”. Per Aries “sentiment” non esprime solo emozione ma si riferisce
al modo in cui ci si rappresenta una certa realtà, ci si atteggia verso di essa. È quindi un mix tra emozione e
intelletto, affetto e cognizione. Questa nuova accezione del termine “sentiment” è più stimolante e
permette aditi diversi all’oggetto di studio.

Nella “scoperta” dell’infanzia, il non-adulto non viene svelato, ma si individua come, nella Francia agli inizi
dell’età moderna gruppi particolari della società hanno avvertito e rappresentato in modo distinto, una
certa figura del loro mondo (il bambino).

L’infanzia non è stata scoperta, ma costruita in modo nuovo e lo storico la spiega proprio come una
costruzione. Lo storico procede nella sua indagine partendo da come il bambino sia stato avvertito in forme
sociali e culturali diverse in tempi diversi del passato.

La figura del bambino che cerca, sia in documenti letterali, religiosi o iconici della vita pubblica che privata,
non è un bambino in sé che alcuni individui in un certo tempo e in un certo luogo avevano davanti, ma una
realtà che essi hanno costruito e definito.

La ricostruzione dello storico parte da prima del 1960 e termina nel 1979 alla voce “infanzia”
dell’Enciclopedia Einaudi con più interrogativi che sicurezze.

Aries sa che affrontare il bambino in modo sistematico è compito in sé e per sé, è una pretesa assurda,
quindi procede per esempi. Nell suo testo troviamo solo rappresentazioni parziali relative ai tempi e luoghi
in cui sono state espresse.

Aries ci consiglia una cautela critica cioè consapevolezza che quanto comprendiamo o conosciamo del
bambino di ieri o di oggi, è solo parziale. Il lavoro dello storico è umiltà e coraggio di chi scopre il nuovo, ma
anche consapevolezza che non conosce realtà in sé. Il bambino dei secoli passati è un bambino
rappresentato non un bambino in sé.

2. Circostanze

Siccome il bambino è soggetto fenomenico non solo non è in sé ma neppure è una realtà assoluta. Esiste
per come è stato rappresentato soprattutto da padri e madri. Vissuti e rappresentazioni che dipendono da
luoghi e tempi particolari, da reti intersoggettive costruzioni istituzionali che dobbiamo distinguere da
discorsi, immagini, testi di leggi e narrazioni biografiche. Fra le strutture entro le quali comprendere la
realtà infantile, per lo storico francese, la famiglia e la scuola sono da privilegiarsi. “Padri e figli” è
soprattutto una storia della famiglia con figli e della scuola a cui la famiglia affida i figli (anche se in maniera
ridotta).

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Quindi per capire il sentimento di una società determinata verso il bambino, dobbiamo collocarlo a casa e a
scuola.

Il bambino è soprattutto un figlio, la famiglia il suo fondamento la sua base vitale. È nella famiglia che
vanno cercati gli stili pedagogici, la sua gestione tra “vezzeggiamento” e “disciplinamento”, il suo affidarlo
alla scuola. Anche nell’enciclopedia Einaudi Ariès considera l’infanzia relativamente a un figlio all’interno
della famiglia.

Nella storiografia dell’infanzia però i luoghi della società dove cercare il bambino finiscono per essere così
numerosi da soverchiare la sua figura. Un esempio è costituito dall’encyclopedia of children and childhood
in history and society, curate da Paula S. Frass. In tale opera è compresa la storia della pedagogia, psicologia
dello sviluppo, economia e iniziative per il bambino nell’ultimo secolo. È attendibile come prontuario sul
child in society, meno sul child in history.

3. Uno sguardo psicoanalitico

La tesi del primato della famiglia nella rappresentazione del bambino, non è stata una tesi solo di Arès. Altri
studi storici in questo senso sono stati sviluppati oltreoceano dagli anni 70.

Il testo più noto è “The history of childhood” di Lloyd de Mause, che è influenzato dalle dottrine di Freud, di
Reich e Erikson e ha dato vita ad una storiografia che si autodenomina PSICOSTORICA. Nell’inizio di tale
volume si definisce la storia dell’infanzia come un incubo in cui più si va indietro nel tempo, più basso è il
grado di attenzione del bambino a cui tocca spesso essere assassinato, abbandonato, picchiato, stuprato.
L’autore recupera una documentazione che mostra una linea con fasi di modalità diverse della gestione dei
genitori sui figli, linea che va dall’infanticidio, all’abbandono, all’ambivalenza dell’intrusività alla
socializzazione, alla modalità d’aiuto, e consente di capire gli stili di allevamento che, nelle prime 5
manifestazioni, corrispondono a patologie della persona. Un trend che va verso una mitigazione di costumi
parentali. Ad ognuna di queste fasi, corrispondono delle manifestazioni storico politiche. La storia
dell’infanzia sarebbe isomorfa (stessa forma) alla storia del mondo. DeMause ha fatto ricerche specifiche
anche originali, sia nella sua Storia dell’infanzia sia in testi indipendenti.

4. Il bambino pedagogico

Il bambino è destinatario o di cure ed educazione: è quindi un soggetto pedagogico. Il bambino deve


diventare adulto: va educato. Si sa molto sui modi in cui viene fatto diventare “grande”.

Della famiglia si conoscono dimensioni, modalità, luoghi in cui il bambino veniva accompagnato nel viaggio
verso la maturità oppure quest’attenzione mancava.

La documentazione relativa all’educazione è ben conservata, studiata, da più tempo, per cui il bambino
pedagogico è più noto di quello al di fuori.

Anche nell’opera di Arès si dicono cose interessanti sul modo di educare in famiglia e a scuola, non solo sul
vezzeggiamento e disciplinamento come strategie per gestire l’infanzia, ma anche sul modo di dirigere i
piccoli affinché diventino grandi come i “grandi” li vogliono.

Vari documenti mostrano non tanto com’è un bambino, ma come si desidera sia e diventi.

Il bambino viene considerato come un adulto da divenire che deve progredire verso la maturità, non solo
secondo linee predefinite, ma anche in tempi rapidi. Gli scritti educativi, le notizie sull’abbigliamento,
giochi, etc, mostrano il fine e la fretta di farlo diventare subito adulto.

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5. Voci e segni

Nonostante i contributi su aspetti specifici della storiografica della 1^ infanzia siano aumentati, non sembra
aver fatto progressi teorici. Anche l’autrice si sente responsabile di ciò, infatti dice di aver trattato
l’argomento occupandosi di aspetti specifici, quindi parziali. Inoltre, fino a poco tempo fa ha sostenuto la
difficoltà di costruire una storia approfondita e comprensiva del bambino, in quanto non integrata dalla
conoscenza che il bambino ha di sé. Infatti “Infans” è colui che non ha ancora l’uso della parola. Non solo, il
non poter/dover parlare è condizione attestata nei luoghi autorizzati, cioè casa e scuola.

Se l’infanzia esce dagli spazi come famiglia, scuola, lavoro, in cui le sono assegnati ruoli precisi, sfugge alla
possibilità di essere registrata ed oggetto di storia. Ecco quindi che l’autrice chiedeva agli autori di saggi, di
individuare spazi oltre quelli autorizzati, in modo da trovare, forse, segni e voci infantili. L’invito è stato
accolto da alcuni autori che avevano parlato della festa, della fuga dei bambini e dei loro sogni come
occasione di libera espressione. Anche se erano luoghi rarissimi e poco documentati. L’autrice ultimamente
si è ricreduta: non è vero che la voce del bambino sia rilevabile solo in luoghi come la strada o la fuga, o il
sogno quasi impossibile da raccontare. Anche nei luoghi autorizzati, come casa e scuola, si possono trovare
parole, esclamazioni, scarabocchi, disegni che rivelano intenzione e significato. Occorre però fare delle
distinzioni.

L’attenzione alla voce e al segno infatti sono diventati scopi di indagine di studiosi contemporanei che
cercano tracce di lunga durata.

Nel dopo guerra fino agli anni 50 Iona e Peter Opie percorrono l’Inghilterra, ascoltando, registrando e
pubblicando linguaggio e gergo di bambini/ragazzi che vanno a scuola. Raccolgono testimonianze di un
soggetto “altro” rispetto al mondo degli adulti: canzoncine, rime e li raccolgono nelle scuole, feste e cortili.
Questi prodotti sono stati quasi immutati per decenni, ma oggi con il radicale variare degli spazi per
bambini, si stanno distruggendo.

Altri documenti li ha trovati l’autrice stessa nei cosi detti “diari d’infanzia” pagine quasi quotidiane dove un
genitore annota quando il piccolo produce, dal suo linguaggio ai suoi scarabocchi. Un esempio importante è
quello del medico Jean Heroard, del futuro re di Francia, Luigi 13°, nella prima metà del ‘600, che per quasi
trent’anni annotò, dalla nascita alla maturità del suo pupillo stati di salute, azioni, parole, frasi, scarabocchi,
disegni. Quando poi il bambino riesce a scrivere, può raccontare di sé: si possono trovare narrazioni della
propria soggettività in archivi domestici, soprattutto dai primi del ‘900. Bisogna ovviamente rilevare quanto
ci sia del bambino in quanto tale e quanto sia opera dell’adulto. Si può trovare materiale nelle letterine ai
genitori, in disegni, in libri, degli amici e amiche, in caricature e in figure tra i banchi e sui banchi. Poi ci sono
i diari dei ragazzini. C’è anche il caso di Hans, caso clinico freudiano. Il piccolo di 4 anni racconta di sé, dei
suoi sogni, delle sue paure e emozioni al padre che li annota e chiede di farli leggere a Freud. Il caso è
eccezionale, anche altri sono rari. Un bambino olandese di fine 700, racconta della sua quotidianità, narra
dei rapporti con i genitori, delle vicende dei paesi bassi negli anni della rivoluzione francese. Altro esempio
è quello di un diario del bambino tra gli 8-11 anni Hugo Franck che scrive di emozioni. 3° esempio è quello
di alcune ragazzine francesi tra 800-900, che scrivono sul giornalino, spinte dalla madre o insegnante, i loro
sentimenti, le loro letture, i rapporti con adulti e coetanei. In questi testi la parola del bambino è centrale e
serve a completare la storiografia del bambino.

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La ricerca storico-educativa sull’infanzia nel XX secolo

Lo storico francese Marc Bloch, con una celebre metafora, ha paragonato il bravo storico all’orco della
fiaba. Egli sa che dove là dove fiuta cane umana, là è la sua preda. Applicando questa metafora alla storia
dell’infanzia, lo studioso non deve indagare solo le istituzioni in cui essa era collocata, cioè famiglia, scuola,
enti assistenziali, botteghe e fabbriche, ma deve afferrare i bambini reali. Questa esigenza è nata negli anni
trenta, tra XX e XXI secolo e si può notare anche dal mutare della terminologia: non più storia dell’infanzia,
ma storia dei bambini e delle bambine, a significare che l’oggetto dello storico è il bambino reale.

La storia dell’infanzia è sempre stata connotata dal genere, dalla religione, ceto social, cultura della
nazione. La combinazione di questi elementi determinava le modalità di educazione e condizioni di vita.
Dopo la seconda guerra mondiale queste discrepanze si sonno attenuate, basti pensare alla diminuzione
delle differenze educative di genere, prima molto marcate. Il bambino e la bambina, vengono indagati non
più solo come oggetto di studio, ma come attori della storia. Come si è arrivati a tale cambiamento?

1. La progressiva attenzione verso l’infanzia

La nascita della storia dell’infanzia avviene nel 1960, grazie all’opera di Arès “L’enfant et la vie familiale sous
l’ancien regime”.

Nella storia della pedagogia il secolo dei lumi è stato definito “secolo pedagogico” grazie a Rousseau, che
ha scoperto l’infanzia come fase particolare della vita. In realtà la scoperta dell’infanzia deve collocarsi
prima, infatti già nel 500 e 600 c’erano alcuni fenomeni religiosi in tal senso, come la devozione al Bambino
Gesù, Teorizzata da Erasmo oppure l’influsso esercitato da Comenio, vescovo dei fratelli Boemi (600), che
aveva una visione di un’infanzia innocente, che avrebbe potuto redimere l’umanità.

Anche la comunità religiosa di Zinzendorg, che accolse nel 1727 in Sassonia, un gruppo di fratelli Boemi
riservò all’infanzia attenzione medica, pedagogica e religiosa. Quindi l’idea del bambino innocente nasce
prima di Rousseau.

Però è nel ‘700 che pedagogia e medicina volgono uno sguardo nuovo al bambino. In questo secolo nasce la
pediatria, si diffondono riviste di pedagogia e didattica, in Germania si afferma un’industria del giocattolo e
nell’impero asburgico nel 1774, si impone l’istruzione obbligatoria per maschi e femmine dai 6 ai 12 anni.

L’attenzione ai bisogni dell’infanzia proseguì nel XIX secolo, e assai importante fu l’azione educativa svolta
dai maestri, preti, religiose e medici. Tra 8/900 la medicina prestò particolare attenzione agli aspetti
igienici-politici-ambientali per una sana crescita dei bambini. Nel 900 le cure medico-igieniche proseguirono
in un’opera di prevenzione di malattie e mortalità. La regolamentazione del lavoro minorile, l’obbligo
scolastico, le vaccinazioni la migliore alimentazione, la ginnastica come materia scolastica, la prevenzione
del rachitismo e della tubercolosi, il latte in polvere consentirono di aumentare la sopravvivenza dei
bambini.

La psicoanalisi di S. Freud, e poi Anna Freud e Melanie Klein mostrò le dinamiche pulsionali infantili e come
i primi anni siano fondamentali per la costruzione sana o patologica dell’Io.

Lo sviluppo della psicologia dell’età evolutiva e della psicoanalisi fecero si che tanti specialisti oltre a
educatori e pedagogisti, osservarono i bambini in modo scientifico: Maria Montessori e Sante de Sanctis a

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Roma, Ernest e William Storn ad amburgo, Karle e Charlotte Bühler a Vienna, Ovide Dacroly a Bruxelles,
Edouard Claparede e poi Piaget a Ginevra. Giuseppe Lombardo Radico pose l’accento sulla creatività del
bambino e sulla necessità di lasciargli libero spazio, anche a scuola, nei disegni e negli scritti.

L’attenzione degli stati verso l’infanzia e la consapevolezza che l’infanzia necessitasse di cura e protezione,
costruì il terreno culturale su cui si collocò l’opera di Aries. Come studiare però un soggetto che non
produce fonti? Aries aggirò il problema studiando le famiglie e la scuola, oltre che le fonti iconografiche.
Sicuramente la storia dell’infanzia è legata alla famiglia, tuttavia migliaia di bambini erano senza famiglia,
quindi nell’epoca moderna molti bambini non avevano legami né con la famiglia, né con la scuola, in quanto
vivevano in strada, in orfanotrofio o caserme. Anche per chi aveva famiglia, non era la scuola, ma il lavoro a
dominare la vita: lavoro nei campi, in negozio, nelle fabbriche…

Sempre nell’età moderna, migliaia di bambini erano in marina o nell’esercito.

La tesi di Aries, secondo cui nel 600 e 700 sarebbe nato “un’assestamento” dell’infanzia che si
manifesterebbe nell’affetto dei genitori di ceto alto verso i figli e nella necessità di un luogo per la loro
educazione, il collegio sono state contestate e dibattute.

Secondo Richter (1987) la scoperta dell’infanzia, nata nell’età dei lumi, viene vista come una presa di
distanza degli adulti verso i bambini. Il bambino viene assimilato al selvaggio non ancora acculturato, ma
degno di essere indagato.

L’attenzione alla storia dell’infanzia è correlata anche alla diffusione di studi sulla storia delle donne e la
maternità. Secondo alcuni, come Sholter (1975) ed Elisabeth Badinter (1990) l’indifferenza delle masri
provocava l’altissima mortalità infantile.

L’indifferenza delle madri sarebbe stata la causa non l’effetto della mortalità infantile, come sostenuto dagli
storici. Questa affermazione può forse riferirsi agli strati sociali più alti, alle madri che potevano dare i
propri figli a balia, ma per la plebe povera e affamata, più che indifferenza si può parlare di rassegnazione
nei confronti dei figli che non potevano sfamare e che perciò abbandonavano o non accudivano.

LLoy deMause, alla luce della psicoanalisi, nel rileggere le fonti storiche ha descritto la storia dell’infanzia
come “un’incubo dal quale solo di recente abbiamo cominciato a destarci”. DeMause è stato criticato per
certe sue affermazioni, e per l’uso privilegiato solo di alcune fonti. Però non afferma come la Badinter e
Sholter che non esisteva l’amore dei genitori, ma che ai genitori mancava la maturità emozionale per
vedere il figlio come una persona a sé, cosa che si può applicare con le dovute cautele, alla società moderna
verso l’infanzia.

2. La metodologia della ricerca sull’infanzia

Nel primo 500 le ricerche sull’infanzia sono state influenzate dalla psicologia dello sviluppo e vedono
nell’infanzia una fase naturale nel processo evolutivo dell’uomo. Negli anni 70 Brogenbrenner parla di
ecologia dell’infanzia, modello psicologico che guarda alla rete di relazioni.

Negli anni 80 si tralascia il modello psicologico per quello sociologico che non vede nel bambino un futuro
adulto, ma considera l’infanzia una fase della vita autonoma. L’interesse dei ricercatori si volge sul modo di
condurre la vita quotidiana da parte dei bambini. Oltre le metodologie qualitative, si sviluppano analisi
quantitative. Si indagano i rapporti tra generazioni, e non solo tra genitori e figli. Si utilizzano fonti come
ego-documenti per cercare il punto di vista del bambino, ma tali documenti (biografie) non sono una

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fotografia della realtà in quanto descrizioni di adulti sulla loro infanzia che presentano zone d’ombra, vuoti
distorcimenti. Sempre negli anni 80 sono apparsi studi sull’età adolescenziale e giovanile.

Dagli anni 80 sono usciti importanti volumi di storia dell’infanzia che prendono in considerazione più aspetti
e ambiti geografici dall’antichità ai giorni nostri. (Cunningham 1995, Borras 96, Delgado 98, Heywood 2001,
Rollet 2003, Foyster, Marten 2010).

A partire dal 2° dopoguerra, prima negli USA e poi in Europa, il ruolo economico dei ragazzi è cambiato: non
più produttore di reddito in quanto lavoratori, ma scolari, ma in seguito al boom economico, con un certo
potere d’acquisto grazie ai soldi dei genitori, i bambini vengono indagati come soggetti di consumo, non
solo come oggetti di politiche commerciali.

È stato analizzato il ruolo del bambino nella società quasi che la partecipazione attiva del fanciullo al
processo educativo si estendesse alla sua partecipazione ai processi di socializzazione e culturali, non solo
come educando, ma anche come cittadino.

Il bambino viene considerato per ciò che è e non per quello che diventerà. Viene riconosciuta all’infanzia
un’autonomia che la definisce come momento della vita e non come una fase minore verso una fase più
alta.

Un forte impulso a questo approccio viene dato da Margaret Mead: si riconosce ai bambini una voce,
vengono visti come soggetti attivi che vivono e agiscono sulla sèpinta di analisi sociologiche.

Anche in campo storico il bambino è un agente da un punto di vista sociale, non è un destinatario passivo di
acculturazione da parte degli adulti.

Queste ipotesi di bambino come soggetto sociale e produttore di cultura sono state prospettate da oltre 20
anni da studiosi di sociologia e antropologia negli USA, Germania e Gran Bretania.

A volte però si fa confusione tra bambini e ragazzi e giovani, favorita dall’ampia accezione, in altre lingua,
del termine “bambino”.

In italiano tale termine viene usato per indicare l’individuo dalla nascita fino all’inizio della fanciullezza, ma
possiamo arrivare fino agli anni della scuola elementare e media; per infanzia l’età che va dalla nascita alla
fanciullezza, sino alla pubertà (tra gli 11 e 14 anni).

Le lingue che utilizzano per definire bambino la stessa parola per indicare figlio (child, kid, enfant), usano lo
stesso termine per indicare i ragazzi più grandi, i minorenni in genere.

Questo genera confusione: quando si parla di children’s rights, bisogna distinguere tra diritti dei minori e
quelli dei bambini, così come bisogna distinguere tra letture per l’infanzia e quelle dell’adolescenza e
gioventù, occorre tener presente che esiste la cultura infantile, ma anche quella giovanile. Entrambe hanno
due aspetti distinti, ma non scindibili: la cultura per bambini e ragazzi (proposta da adulti) e quella dei
bambini e ragazzi /prodotta da bambini e ragazzi stassi). Nel primo caso abbiamo oggetti, simboli prodotti
da adulti, per educare, controllare, manipolare bambini e ragazzi e riflettono le idee degli adulti
sull’infanzia. Ad esempio letteratura sull’infanzia industria del giocattolo, libri scolastici, film. Videogiochi…
Limitandoci alla storia dell’infanzia occorre indagare su come i bambini abbiano recepito o modificato tali
modelli imposti dagli adulti. Visto che il bambino, anche nelle sue prime fasi, è un soggetto dotato di libertà
lo storico deve cercare di cogliere tali spazi di libertà. Se il fanciullo è attivo produttore di simboli e valori, se
può esprimere una cultura di pari che il sociologo coglie grazie ad un’osservazione di tipo etnografico come
può lo storico determinare quando il bambino agiva in un certo modo perché voleva farlo e non voleva
farlo? Come afferrare il reale modo di pensare dei bambini nella storia?

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Un 1° aiuto ci viene da disegni, lettere, diari di bambini. Egle Bacchi ha utilizzato molte di queste fonti
(1996). Monica Ferrari ha rintracciato il modo di pensare di bambini nobili del Rinascimento Italiano
(2000/6). Però per gli storici è impossibile rintracciare emozioni e pensieri della maggioranza dei bambini
dei secoli passati. Ci si può avvicinare attraverso altre fonti o ego-documenti (biografie) Pia Schmid (2006)
ha descritto episodi di esperienze religiose collettive di gruppi di fanciulli del primo 700, in
Sassonia(germania) utilizzando le biografie dei membri della Herrnhut Brüdergemeine e incrociandole con
altre fonti. La Herrnhut Brüdergemeine era una setta formata da e sui, appartenenti ai fratelli Boemi e
Moravi e dedicava attenzione allo sviluppo infantile, all’igiene del corpo, lasciando spazio all’attività libera,
ma incoraggiando l’autoriflessione di cui la scrittura delle storie di vita era un momento costitutivo. Questa
setta venne accolta in Sassonia dal conte di Zinzendorf che credeva nella naturale innocenza del bambino.

La cultura dei bambini si può manifestare quando ad essi viene lasciato uno spazio in cui esprimersi
liberamente. Ma come determinare se certe pratiche erano espressione libera dei bambini? Diari, lettere e
disegni esprimono ciò che il bambino sente o ciò che l’adulto gli ha insegnato e si aspetta di vedere?

Ad esempio i temi degli scolari durante il fascismo, erano fortemente condizionati, però i quaderni
scolastici sono una fonte importante sia per le “scritture condizionate”, sia per quelle “bambine”, sta allo
storico cogliere gli spazi di libertà. Le scritture disciplinate rimangono fonti molto importanti per la storia
della didattica.

Un caso commovente di scritture bambine è quello dei bambini di Terezin, Campo di concentramento, che
nonostante le tragiche condizioni, riuscirono ad esprimere i loro sentimenti grazie all’intelligenza
pedagogica degli educatori israeliti che se ne presero cura. Per cogliere la cultura dei bambini bisogna
cercare le tracce della loro interpretazione del messaggio adulto, quando esistono le condizioni storiche,
perché il sentire infantile si possa esprimere.

La differenza psicologica anche tra adulti e bambini gioca un ruolo importante come sottolineano sia
Nemilz che Honig. Honig (1999) indica che il bambino deve essere considerato “un agente attivo”, ma si
deve recuperare anche il sé infantile o in senso socio-psicologico di Mead o in senso etnografico.

La differenza tra adulto e bambino, fonda la ricerca, anche storica sulla fanciullezza (Honig).

La ricerca del “bambino in sé” è utopica, in quanto ogni bambino deve essere messo in relazione con la
società in cui vive. Ogni ricerca sull’infanzia deve sempre tener presente i 2 poli della cultura per e del
bambino. Se il messaggio dell’adulto è solo riprodotto dal bambino, si presume che si sia adattato ad esso
anche se non si sa se liberamente oppure no. Se invece il messaggio è distorto o rifiutato, allora il bambino
è quel soggetto attivo che interpreta il mondo degli adulti secondo le sue categorie. Spunti interessanti
provengono dalla letteratura per l’infanzia ad esempio Pinocchio, che termina con l’impiccagione del
burattino, perché secondo il modello 700esco, non c’era riscatto per il bambino cattivo.

I piccoli lettori del giornale per i bambini però, inviarono tante lettere di protesta, che indussero Collodi a
riprendere il suo racconto. Qui i lettori diventarono soggetti attivi che esprimono un proprio sentire (renata
Lollo). Ancora la Lollo riporta un caso tra cultura per dei bambini.

Nel 1891 si tenne a Milano l’Esposizione di Igiene, educazione Infantile e giocattoli.

Il piccolo giornale pubblicò i pensieri dei bambini sull’Esposizione. Mentre i genitori pensavano che i
bambini si sarebbero divertiti, i bambini trovarono la mostra noiosa, perché i giochi non si potevano toccare
né comprare, poi ritenevano ingiusto essere obbligati a descrivere la loro esperienza.

Altro caso emblematico è il Battaglione della speranza tra la 1° e la 2° Repubblica Cisalpina (1797-1801).
Questo doveva infondere nei ragazzi non solo gli ideali repubblicani di valore civico e bellico, ma anche
l’obbedienza. Il Battaglione della speranza era stato costituito per disciplinare e controllare, da parte

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dell’autorità, la fanciullezza a rischio. In realtà, i ragazzi vissero in maniera opposta alle aspettative degli
adulti quest’esperienza paramilitare: a Milano i ragazzi dell’orfanotrofio di padri somaschi, guidati da un
17enne, si ribellarono alle pratiche religiose non sentite. A Bologna, i più piccoli guidati da un 12enne
marinarono la scuola e rubarono la frutta nei campi. In entrambi i casi non fu un momento disciplinare, ma
un modo per affermare la propria autonomia e rifiutare le regole religioso/sociali/scolastiche degli adulti.

3. Piste di ricerca

Frijhofff ha sottolineato che l’infanzia non è solo un fatto di natura biologica e psicologica, ma anche un
concetto culturale, oggetto, nel corso dei secoli, di mutevoli percezioni e definizioni. Lo storico può
assumere come costante, la caratteristica biologica del corpo umano e avvalersi di discipline come
l’antropologia culturale per studiare fenomeni “culturali”.

Mentre la psicoanalisi è una disciplina ancorata alla società occidentale contemporanea, altri aspetti
naturali come l’attaccamento materno l’attività ludica, componenti culturali, variano nello spazio e nel
tempo. Le componenti culturali sono ancora più significative nelle infanzie femminili. Se la storia
dell’infanzia è storia di un soggetto debole, le bambine sono una sottocategoria ancora più debole. Così i
piccoli disabili sono una sottocategoria di cui solo recentemente si è dato voce. Le piste di ricerca si
allargarono ad altri luoghi oltre la famiglia, la scuola, il lavoro, istituti di assistenza, organizzazioni statali e
private. Ci sono le iniziative della chiesa per l’infanzia e soprattutto gli oratori. La letteratura devozionale,
l’affermarsi tra 800 e 900 di una spiritualità sensibile ai fanciulli incentrata sulla sacra famiglia, l’angelo
custode… ha influito sulla vita e mentalità di migliaia di bambini poi adulti.

Anche la storia dell’infanzia femminile è segnata dalla presenza della chiesa, soprattutto in Italia e Spagna.
Altre alle autobiografie, nel 900, ci si può avvalere di fonti, orali (anche se non sempre il ricordo degli eventi
coincide con il vissuto immediato dei protagonisti).

Infine, come suggerito da Aries, anche le fonti iconografiche hanno importanza. Nel 900, oltre ai quadri, si
impone la fotografia. In Spagna in particolare, si indaga su foto scolastiche; così anche la ricezione di
letteratura e fumetti. Anche i giocattoli coinvolgono sia la storia economica, che l’educazione, sia la cultura
per i bambini, che quella dei bambini.

La storia dell’infanzia è quindi una disciplina interdisciplinare, che anche riguarda la storia dell’educazione.
Inoltre, se per lo storico è necessario entrare in empatia con il soggetto della sua ricerca, conservando però
la sua mentalità, per questo è difficile per la storia dell’infanzia perché si chiede allo studioso di non farsi
influenzare dalla sua infanzia.

Così, tornando alla metafora iniziale, l’orco/storico fiutando e raggiungendo i piccoli di un tempo li
restituisce al presente divorandoli/assimilandoli a sé. Uomo del presente capace di scovare le tracce dei
bambini nel passato.

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Il 900, il secolo del bambino 2° Semestre

I bambini nel Regno Unito nel XX secolo (Hugh Cunnigham)

1. Dal 900 al 1945

Agli inizi del XX sec. la Gran Bretagna era in guerra con gli agricoltori boemi in Sud Africa. Sia questa guerra
che le due mondiali successive ebbero un grande influsso sulle politiche per l’infanzia.

La guerra del Sud Africa fu accompagnata dalla scioccante notizia che 2 soldati volontari su 5 erano stati
respinti perché non idonei. Si diede molto risalto al problema del peggioramento delle condizioni di salute
della popolazione, alla “degenerazione fisica”. La colpa venne attribuita all’eccessiva urbanizzazione della
Gran Bretagna. Le città erano viste come ambienti innaturali per i bambini che, al di sotto di 1 anno
avevano un tasso di mortalità pari a quello del 1840 (Rivoluzione industriale) e questo veniva visto come
conseguenza della mancanza di igiene e servizi e ignoranza e incuria delle madri. La guerra rese evidente
che il futuro della nazione era legato alla salute e al benessere dei bambini, questione importante non più
solo per l’ala politica di sinistra, ma per tutti. Negli anni precedenti la 1a Guerra Mondiale, lo stato assunse
nuovi compiti per alleviare i problemi legati alla povertà infantile. Il tasso di mortalità infantile iniziò a
diminuire, forse per la propaganda in materia di igiene sia a scuola, sia attraverso le ostetriche e infermiere
che visitavano le madri, o forse per il miglioramento dei sistemi ferroviari e idrici. Nel 1906 ai bambini più
grandi vennero dati pasti gratuiti nelle scuole e visite mediche.

Molte furono le donne con un ruolo di 1° piano in riforme importanti. Eleanor Rathbone sostenne che il
governo dovesse erogare alle madri assegni familiari per le spese dei figli piccoli e questa fu realizzata nel
1946. Margaret McMillan cercò di far aprire a Londra un giardino in cui le ragazze potessero trascorrere la
notte all’aria aperta, a contatto con la natura. Hanrietta Barnett fu una leader nell’organizzazione di
vacanze in campagna per bambini di città. Maud Pember Reeves con analisi statistiche descrisse i problemi
delle madri che tentavano di sopravvivere e insistette sul dovere dello stato di essere corresponsabile, con i
genitori, dell’educazione della prole.

Nel corso del XIX sec. le organizzazioni di volontariato realizzarono progetti per allontanare i bambini poveri
dalle famiglie, spesso senza casa per farli emigrare nelle colonie. Tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX
furono mandati in Canada come agricoltori o domestici, successivamente in Australia. Durante la 2a guerra
mondiale per evitare i bombardamenti aerei sulle città quasi 1 milione di bambini non accompagnati, e
circa 500.00 in età prescolare con le madri furono sfollati in campagna.

Alternativa alle colonie erano gli istituti a cui erano affidati i bambini, che non potevano essere sostenuti
dalle famiglie. Alcuni bambini erano affidati lì perché ritenuti deboli di mente e si temeva potessero
contaminare la popolazione sana. I ricordi legati a questi istituti erano negativi: disciplina ferrea, cibo di
pessima qualità, mancanza di cure personalizzate. La scuola fu obbligatoria in Scozia da 1872, in Inghilterra
dal 1880, ma nel 1900 solo il 70% dei bambini la frequentava. Le differenze tra le classi sociali rendono
difficile parlare di un’esperienza comune.

I bambini delle classi medio-alte a 7 anni accedevano alle “boarding preparatory schools”, a 13 anni alle
public schools e i più brillanti proseguivano alle università di Oxford e Cambridge. Le ragazze delle classi
sociali più alte frequentavano le “boarding schools”, alcune ricevevano un’educazione casalinga da una
governante. Quelli delle classi sociali intermedie frequentavano le scuole locali diurne con un differente
livello di istruzione, mentre quelli della classe operaia (circa i ¾ della popolazione infantile), raramente
andavano oltre le elementari. Nel 1902 un “Education Act” rese più facile ai bambini brillanti della classe
operaia l’accesso all’istruzione secondaria, ma le barriere economiche e sociali erano insormontabili. I
ricordi dei bambini della classe operaia della scuola erano positivi. L’architettura delle scuole era migliorata
e si erano diffuse le idee progressiste di Fröebel e Montessori. Nel 1901 la pedagogia fu riconosciuta come

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scienza dalla British Association for the Advancement of Science. La psicologia fu la disciplina-chiave nello
sviluppo della nuova scienza dell’infanzia. Dal 1914 la psicologia fu inserita nei programmi delle scuole di
formazione per gli insegnanti. I nuovi ideali, però raramente si concretizzavano: spesso venivano inflitte
punizioni corporali e le lezioni erano lontane dall’esperienza di vita. C’era un marcato accento
sull’importanza dell’Impero, reso evidente dall’Empire Day, istituito nel 1902.

Molti bambini della classe operaia, oltre a frequentare la scuola avevano anche un impiego nei negozi, nelle
industrie locali, nell’agricoltura. Questa modalità fu definita part-time, mezza giornata a scuola, mezza in
fabbrica. I guadagni dei bambini contribuivamo in modo significativo al bilancio famigliare, e non
guadagnavano per sé stessi ma per la famiglia. Nel 1918 l’obbligo scolastico fu elevato a 14 anni, prima a
12-13 anni i bambini lasciavano la scuola spesso il giorno del compleanno, senza aspettare che l’anno
scolastico finisse. Il lavoro però appariva spesso monotono e privo di qualsiasi elemento di formazione o
abilità. A 14 anni terminava contemporaneamente il controllo di scuola e famiglia. L’infanzia finiva
prematuramente e le aspirazioni di virilità si riflettevano nelle abitudini scoiali, nel bighellonare per le
strade, nel fumare, nel divenire hooligans (teppisti).

Il lavoro monotono distruggeva la capacità di concentrazione e intelligenza. Si faceva un nuovo discorso


sull’adolescenza influenzati dal libro dell’americano Stanley Hall del 1904 in cui si sosteneva che se lo
sviluppo andava storto nell’adolescenza, che partiva da 14 anni, il danno poteva essere irreparabile per
tutta la vita. Secondo la maggior parte della classe media l’infanzia doveva continuare fino a 18 anni:
l’adolescenza serviva per raggiungere l’età adulta. Nacquero quindi molte istituzioni destinate a plasmare la
vita dei bambini al di fuori della scuola, soprattutto ispirate e gestite da religiosi, ma anche da laici, dove i
ragazzi trascorrevano la serata in giochi o altre attività. Vennero fondati anche i boy scouts e le Girl Guides.

2. Dal 1945 al 1970

Alla fine della 2a G.M. e negli anni successivi vennero approvati l’Education Act (1944) la Family Allowance
Act (1946) e il children act (1948), segnale che la questione infantile era importante con l’avvento del
welfare state.

L’Education Act elevò a 15 anni l’obbligo scolastico, e introdusse 3 tipi di scuola per l’educazione
secondaria: le grammar schools, le technical schools e le secondary schools. L’accesso ad un certo tipo di
scuola era determinato da un test di misurazione del Q.I. l’Even Plus. Alcuni brillanti bambini del ceto
operaio potevano approdare alla grammar school, ma la maggior parte di essi fu discriminata. Si lanciò
anche una campagna per le Comprensive schools, che potessero soddisfare le esigenze di ogni bambino,
che ebbe successo soprattutto negli anni 60-70.

Il Family Allowance Act riconobbe formalmente che i bambini piccoli esercitavano una forte incidenza sul
bilancio famigliare. Le madri ebbero il diritto di ricevere del denaro dallo stato per integrare il bilancio
famigliare. I salari iniziarono a crescere. I bambini conservavano per proprio uso personale quello che
guadagnavano con lavori saltuari; mentre quelli che entravano nel mercato del lavoro a tempo pieno
contribuivano al bilancio famigliare, ma conservavano per loro una parte del denaro. Il Children Act del
1948 ebbe origine dalla relazione della Commissione Curtis sull’assistenza dei bambini privati di una
normale vita famigliare. Venne riscontrato che i minori affidati agli istituti in cui mancava affetto e
interesse, per cui ai sensi della legge venne istituita una commissione che doveva provvedere che i bambini
rimanessero o fossero riportati nelle loro famiglie oppure inseriti in famiglie affidatarie. L’epoca dei grandi
istituti era ormai finita e molti chiusero. Accanto a questi cambiamenti, ce ne furono altri importanti.
Mentre nella 1a metà del secolo i consigli forniti ai genitori erano basati sull’educazione all’obbedienza, ora
si inserivano nuove idee associate a Freud e alla psicoanalisi. Le Child Guidance Clinic, offrivano
suggerimenti su come affrontare diverse questioni (incontinenza notturna, succhiarsi il pollice…). Inoltre la

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maggior parte degli esperti riteneva ormai inutili le punizioni corporali, anche se a scuola furono abolite
solo nel 1982 e nelle famiglie rimasero una pratica comune. Le nuove idee ricevettero una spinta dalla 2a
G.M., infatti si pensò che un’educazione basata sull’obbedienza potesse portare ad una persona adulta più
adatta al 3°Reich che ad una democrazia.

Si pose nuova enfasi sull’importanza della famiglia e del legame dei bimbi piccoli con le madri. Venne
realizzato un film muto in cui veniva mostrato il disegno dei bambini in ospedale che non potevano ricevere
le visite dei genitori. Fu spianata la strada che permise ai genitori di essere coinvolti nell’ospedalizzazione
dei figli. Le famiglie stavano diventando puerocentriche, i desideri dei bambini ricevevano più
riconoscimento di quelli degli adulti consapevoli che il loro comportamento verso i figli differiva da quello
dei loro genitori.

Altro cambiamento si trova nel modo di parlare ai bambini; se nella 1a metà del secolo i bambini non
potevano parlare o chiedere, adesso i genitori parlavano con i loro figli, rispondendo alle loro domande.
Anche se si arrivava ad eccessi, come bambini che diventavano maleducati con i loro genitori o gli davano
addirittura ordini. I bambini non erano consapevoli di tali cambiamenti e in qualche modo vivevano un
mondo quasi immutato. I coniugi Opie pubblicarono dei libri di giochi e filastrocche per bambini che erano
rimaste quasi immutate nei secoli.

3. Dal 1970 al 2000

Nei primi decenni del ‘900 era diffusa la convinzione che la storia dell’infanzia in Gran Bretagna fosse di
progresso. Filantropi e Stato avevano promesso azioni politiche per migliorare la salute dei bambini:
rendere l’istruzione una regola, far capire ai genitori l’importanza della cura e affetto… Negli anni ’70
questa convinzione iniziò a sgretolarsi e anche le potenzialità del Welfare State vennero messe in
discussione. John Holt pubblicò negli USA nel 1974 “Escape from Childhood” in cui sosteneva che la visione
del bambino innocente, da mantenere in un giardino protetto era una funzione che mirava a tenere
l’infanzia in una prigione di regole. Gli adulti avevano imposto i loro principi ai bambini che dovevano
rendersi autonomi il prima possibile. Una 2a sfida fu espressa da un altro americano Neil Postman nel “The
disappearance of childhood”, in cui, in contrasto con Holt, deplorava la dissoluzione del confine tra infanzia
e età adulta. Soprattutto la diffusione della televisione aveva minato l’autorità degli adulti. Si lamentava
della perdita di un mondo ideale nel quale i bambini conoscevano il proprio posto e si comportavano di
conseguenza.

In queste circostanze aumentò il livello di ansia dei genitori verso i figli. Venne limitata la libertà dei
bambini di giocare all’aperto da soli, di andare a scuola da soli, di attraversare la strada o prendere autobus.
Quello che nel 1971 si poteva fare in autonomia a 7 anni, nel 1990 solo a 9 e ½. I bambini cominciarono ad
essere portati a scuola in macchina a causa dei pericoli del traffico. Altro problema, ora affrontato dai
media, era quello degli abusi sessuali che però spesso avvenivano all’interno delle mura domestiche. Nei
genitori si rinforzò l’idea che le condizioni di vita per i piccoli stavano cambiando in peggio. Nacque anche il
sospetto che gli interessi commerciali manipolassero i bambini per indurli nell’acquisto di beni e servizi
determinati. Altra ansia deriva dall’impatto dei nuovi media: fumetti, stampa, cinema, aggravata dal timore
che i bambini accedessero a media, video nasties, violenti.

Questo portò pensare ai genitori che la loro infanzia fosse stata migliore di quella dei figli. La negatività fu
rafforzata dai media che si occupavano di morti violente di bambini per mano di genitori o adulti di
riferimento. In Inghilterra vigeva il principio del doli incapax cioè i bambini sotto i 14 anni sono incapaci di
distinguere tra bene e il male a meno che nel processo penale non si provi il contrario. Con il “crime and
disorder act” del 1998 questo principio fu abolito e da allora i bambini che hanno compiuto 10 anni sono
perseguibili come i maggiori di 14. La miseria infantile non cessò mai di essere un problema, negli anni 50 la
Gran Bretagna aveva i tassi di povertà infantile più alti d’Europa.

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4. Conclusioni

Le vite dei bambini e degli adulti cambiarono radicalmente nel XX secolo. Ci fu un miglioramento delle
condizioni di vita, delle aspettative di vita e della scolarizzazione. Nacque l’idea che il futuro della nazione
dipendesse dal modo in cui i bambini crescevano e di questo si doveva occupare anche il governo. La 1a
preoccupazione del governo non era rivolta ai bambini, ma agli adulti, che sarebbero potuti diventare. I
dibattiti politici erano incentrati sui bambini che non si conformavano al “normale” modello di sviluppo.
Altro problema era la delinquenza giovanile che veniva affrontato in modo diverso secondo il clima politico:
fino ai primi anni 70 più attento a ciò che i bambini vivevano nella loro infanzia, meno comprensivo e più
punitivo nella 2a parte del secolo.

Bisogna adesso capire se l’infanzia in Gran Bretagna sia simile o diversa rispetto a quella di altri paesi. Ci
sono in realtà molte somiglianze in quanto reti internazionali di esperti mettevano a confronto diversi
Paesi, definendo linee guide internazionali. Una caratteristica distintiva della società inglese è stata
l’influenza del movimento romantico di fine 700 – primi 800 che risultava evidente nella raffigurazione di
bambini in campagna, circondati da animali e nell’idealizzazione dell’infanzia come il periodo più bello della
vita. Ciò facilitò successivamente la percezione di bambini come individui bisognosi di protezione da parte
degli adulti. C’era però un conflitto fra questa idealizzazione e l’effettivo comportamento dei bambini
raramente in armonia con questo ideale. Importante fu il fatto che i bambini volessero partecipare alla vita
degli adulti, come avvenne nelle 2a G.M. quando lavoravano in aziende agricole, confezionando indumenti
per le truppe… nella 2a metà del secolo questo cambiò: i bambini potevano essere consumatori, ma non
produttori. Il secolo del bambino, aperto con un certo ottimismo per il futuro, si concluse con un
pessimismo che il XXI secolo non ha contribuito ad alleviare.

L’infanzia nell’Italia fascista

Alla fondazione dei fasci di combattimento il 23/03/1919 non c’era un programma ben definito inerente
alla questione scolastica, però il fascismo prestò via via attenzione all’organizzazione di giovani e
giovanissimi. Sugli studenti il fascismo, nella fase nascente, esercitò grande fascino, ma un’altra
generazione stava crescendo e aveva bisogno di essere preparata.

1. Mussolini al governo

All’indomani della marcia su Roma, il Partito Nazionale Fascista (PNF) si attivò nel coinvolgere i giovani ai
valori della nuova politica. Già nel 23 si precisò la nuova organizzazione giovanile: a 17 anni ci si poteva
iscrivere alla Milizia Volontaria Nazionale, a 8 ai gruppi Balilla, a 15 all’avanguardia giovanile studentesca
(questa era una scuola di tipo premilitare e propedeutica alla Milizia). Le attività obbligatorie erano quelle
ginniche, le adunate e le manifestazioni patriottiche, quelle ludiche erano a discrezione dei dirigenti locali.
Lo scopo era quello di irrobustire il corpo e la prontezza fisica. Balilla era il ragazzo che nel 1746 era insorto
contro gli austriaci a Genova, divenuto simbolo dell’eroismo giovanile del risorgimento. Questo era
indicativo del progetto fascista: la gioventù italiana doveva essere protagonista del nuovo corso politico
arruolandosi. I primi gruppi Balilla ebbero un certo successo solo nelle grandi città, forse perché le attività
militari erano preponderanti. Tra il 1922 e 24 fu ridisegnato il sistema scolastico ad opera del ministro della
Pubblica Istruzione, Giovanni Gentile. Centrale era il ginnasio – liceo classico, che doveva formare la classe
dirigente e preparare all’università. La scuola di ogni ordine e grado doveva però radicare l’identità
nazionale. Particolare attenzione era rivolta all’istruzione dell’infanzia e della fanciullezza. Per la 1a volta gli
asili entravano a far parte del sistema formativo, riconoscendone il valore educativo. La scuola materna
aveva carattere ricreativo, così si proponevano attività quali canto, disegno, giochi, lavori manuali, secondo
l’influsso del metodo Pasquali-Agazzi, fondamento dei programmi per gli asili del 1914, ma anche del
pensiero di Lombardo Radice, con l’enfasi sulle attività espressive della soggettività infantile. Vennero

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stabilite anche delle norme per il personale docente, vennero istituite delle scuole di metodo per
l’educazione materna della durata di 3 anni, anche se lo stato si assumeva l’onore di crearne solo 6 e
delegava la creazione di scuole materne agli enti locali e privati. Di fatto questo settore fu appannaggio dei
privati, soprattutto cattolici, attivi sia nel creare scuole di metodo, sia asili.

Alla fine della guerra gli asili in Italia erano circa 11.000 e frequentati solo da 1/3 dei minori fra 3/6 anni, il
22% era gestito dai comuni, il 32% da un ente morale e il 6% da enti religiosi o privati.

L’impronta lombardo-radiciana permetteva la riforma della scuola primaria, cioè dell’obbligo. I programmi
avevano carattere orientativo e il maestro, più che un didatta, doveva essere un uomo di cultura che
doveva elevare l’animo del fanciullo. L’infanzia era fatta di semplicità e fantasia, da qui l’ampio spazio a
disegno, musica, canto. Il dialetto, da sempre combattuto per diffondere la lingua nazionale, faceva la sua
comparsa nelle elementari in quanto lingua degli affetti e familiari. Venne reintrodotto l’insegnamento
obbligatorio della religione cattolica nella scuola primaria. Gentile sosteneva che la scuola doveva essere
laica, ma non indifferente o agnostica; riteneva la religione cattolica non come valore intrinseco, ma come
una conoscenza non razionale indispensabile per il fanciullo per aiutarlo a capire di essere parte di una
realtà più ampia che lo trascendeva. In sintesi, l’ideale pedagogico della scuola primaria era quello di una
“scuola serena”. A quest’ideale si ispirò la commissione del 1923 per valutare i libri di testo che dovevano
essere semplici e comprensibili nella lingua e nella forma con illustrazioni da suscitare interesse. I libri di
lettura dovevano appassionare l’alunno come vere proprie opere di letteratura, così che anche le famiglie
più povere gli avrebbero avuti di belli e ad un prezzo accessibile. Vennero approvati i libri prodotti in gran
parte prima della riforma, alcuni di età Giolittiana. Essi non erano un assemblaggio di testi di prosa o poesia
ma costituivano una sorta di romanzo di formazione nel quale il lettore-alunno si identificava. L’ambiente
descritto era quello della media borghesia, con case comode e domestici. Va però sottolineato che il
rispetto della spontaneità del bambino e l’invito al maestro di rinnovare continuamente il proprio modo di
fare scuola, secondo l’ideale lombardo-radiciano, ora in contrasto con una didattica che forniva al maestro
precise indicazioni. E anche l’idea dell’infanzia come luogo di serenità e fantasia era molto distante dalla
vita effettiva dei bambini che spesso non andavano neanche a scuola. Lo spazio riconosciuto al dialetto
serviva per la formazione delle identità nazionali, di un avvicinamento della scuola alla vita, della regione
alla nazione cosa ora in contrasto con una didattica che forniva al maestro precise indicazioni. E anche
l’idea dell’infanzia come luogo di serenità e fantasia era molto distante dalla vita effettiva dei bambini che
spesso non andavano neanche a scuola. Lo spazio riconosciuto al dialetto serviva per la formazione
dell’identità nazionale, di un avvicinamento della scuola alla vita, della regione alla nazione. La scuola
primaria fu uno dei luoghi in cui si compì il processo di istituzionalizzazione del credo politico fascista
attraverso l’appropriazione da parte del regime del culto della patria di origine ottocentesca e di miti e riti
del fascismo della religione civile. Significativo è il coinvolgimento dei bambini nel ricordo dei caduti,
introdotto delle scuole durante la guerra e continuato nel dopo guerra, ma di cui il fascismo rinforzava la
diffusione. Il sottosegretario alla pubblica istruzione, Dario Lupi, nel 23 e introdusse l’obbligo del saluto alla
bandiera alle elementari, e sollecito le scuole a dedicare alberi votivi alle memorie delle vittime fasciste. La
scuola doveva dunque fare amare i bambini una “patria in camicia nera”.

2. All’indomani del 1925

2.1 L’opera Nazionale Balilla (O.N.B.)

Per il regime fascista la conquista dell’immaginario infantile rappresenta la condizione per garantire il
carattere del controllo e la sua proiezione verso il futuro. Da qui la preoccupazione del regime di vigilare sui
luoghi di formazione dei bambini: scuola e famiglia. Mentre la famiglia era tradizionalista in fatto di morale,

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la scuola era “una dolente nota” della rivoluzione fascista, ecco allora la necessità della sua fascistizzazione
E la creazione dell’ONB.

Nel 1926 venne istituita l’ONB in cui emerge la volontà di Mussolini di creare un monopolio delle
organizzazioni giovanili fasciste in ambito extra scolastico. Il testo di legge prevedeva la coesistenza delle
associazioni giovanili confessionali e di quelle fasciste, eliminando tutte le altre, di fatto nel 1928 vennero
soppressi gli scout cattolici. Questo fu il primo episodio che vide contrapposti Chiesa e fascismo
sull’educazione dei giovani e che culminò nel 1931 con la chiusura dei circoli di azione cattolica.
L’organizzazione dell’ONB viene prima affidata alla presidenza del consiglio e posta sotto il controllo del
ministero della pubblica istruzione. Il legame tra scuole di essere a scuola attraverso l’ONB documenta il
disegno educativo totalitario del fascismo. I maestri dovevano fare opera di proselitismo e in classe,
vincendo la resistenza delle famiglie, non tanto ideologica, quanto economica. All’ONB furono affidate dal
1927, l’educazione fisica scuola e la formazione dei docenti in questa disciplina attraverso due istituti:
l’Accademia fascista di educazione fisica Roma del 1928 e l’omologa struttura femminile di Orvieto del
1931. L’ONB assunse anche la gestione delle scuole non classificate di campagna e montagna. L’ONB
comprendeva i Balilla, ragazzi fra gli 8 e i 14 anni, e gli Avanguardisti, tra i 14 e i 18 ed era esclusivamente
maschile. Dal 1929 vennero inclusi i settori femminili: le Piccole e le Giovanni Italiane (stessa età dei
maschi). Dal 1933 venne costituito il gruppo dei figli della lupa per bambini di 6 anni.

L’ONB aveva una struttura paramilitare e gerarchica: gli iscritti erano divisi in squadre, manipoli, in centurie,
corti e legioni Per essere così introdotti al “gioco della guerra”. I più anziani potevano indossare una divisa,
svolgere esercitazioni premilitari, partecipare ad adunate che si svolgevano il sabato pomeriggio o anche la
domenica, suscitando le ire della Chiesa. Il passaggio da un livello all’altro nella scala gerarchica era
celebrato con il rito della leva fascista, il cui momento culminante era il giuramento il cui testo era uguale
per maschi e femmine ma differiva il commento: la donna doveva servire la patria prendendosi cura della
casa, l’uomo era chiamato a servirla immolando sì per la rivoluzione fascista. Entrambi dovevano credere
alla fede fascista per un moto spontaneo dell’anima. Vennero redatti dei decaloghi in cui venivano
richiamati i valori di obbedienza, laboriosità, disciplina, amore per la patria e per il duce, in cui ordini non
andavano mai discussi. Altre attività importantissima era l’educazione fisica. Si trattava di formare
nell’italiano nuovo, la virilità, la salute fisica e la forza per i ragazzi, mentre per le ragazze serviva per
l’irrobustimento in modo che mettessero al mondo figli sani per il potenziamento demografico dell’Italia. Lo
sport, inoltre, serviva creare condivisione della fede politica. L’ONB sì prodigò anche a favore dell’assistenza
dell’infanzia sia in ambito scolastico (refezione gratuita e sostegno delle spese per i sussidi didattici per i
bambini poveri) Che extrascolastico. A questo proposito si deve segnalare lo sforzo dell’ONB assieme
all’opera nazionale maternità e infanzia (ONMI) della diffusione di colonie estive, marine e montane per
ragazzi fra 6:13 anni figli di famiglie bisognose o numerose e dei caduti di guerra. Gli obiettivi erano tutela
igienico-sanitaria, irrobustimento della razza, formazione ai valori del fascismo. Questi istituti crebbero
enormemente durante il ventennio ed indussero ad una modernizzazione del paese, consentendo ai ragazzi
me la ambienti di sperimentare la vacanza estiva, lusso circoscritto ad una élite ristretta. La capillare
presenza dell’ONB nei diversi momenti della vita dell’infanzia, fece sì che il numero dei tesserati
aumentasse progressivamente: nel 1927 i tesserati erano circa 800.000, nel 29 1.230.000, nel 34 3.650.000.
Il tesseramento non fu mai obbligatorio per legge, Però dagli anni 30 l’accesso ai sussidi scolastici, alle
borse di studio o alle colonie era condizionato al possesso della tessera dell’ONB. Nell’ottobre del 36 circa i
due terzi dei bambini, dati tra il 1922 il 1928 era coinvolto a scuola o fuori nelle iniziative messe a punto dal
fascismo per loro.

2.2 La scuola

Fin dal 1925 il regime promise la fascistizzazione della scuola attraverso l’inquadramento dei docenti in
organizzazioni fasciste e il controllo sui contenuti dell’insegnamento. Cessarono di esistere diversi sodalizi
tre insegnanti nati in età Giolittiana, rimase solo l’associazione magistrale cattolica “Nicolò Tommaseo” che

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però fu sciolta nel 1930. Nel 1926 venne istituita l’associazione nazionale insegnanti fascisti (ANIF) Per tutto
il corpo docente, mentre il regime metteva. Strumenti coercitivi per ottenere un’adesione massiccia. Fu
varata una nuova normativa che prevedeva il licenziamento non solo per inadempienze o ragioni di
idoneità fisica, Ma anche per comportamenti, a scuola e non, contrari alle direttive politiche. Per la
partecipazione ai concorsi pubblici occorreva la tessera del partito. L’adesione alle organizzazioni del partito
fu più capillare tra insegnanti delle elementari, Che tra quelli delle medie: nel 1935 il 94,8% dei maestri
elementari vi aveva aderito, mentre soli 53,3% di quelli delle medie. A questo proposito va però ricordato il
maggior controllo sui maestri da parte dell’autorità locali e anche il loro ruolo che doveva trasmettere il
senso di appartenenza alla nazione. Il fascismo si prodigò anche di rendere più fascisti i contenuti
dell’insegnamento, introducendo un libro unico di Stato della scuola primaria a partire dall’anno scolastico
1930-1931 la redazione del libro di stato fu affidata a personaggi influenti della cultura italiana come gli
scrittori Novaro e Grazia Deledda, la poetessa ad Ada Negri, dimessa nel 1929, il matematico Scorza, il
geografo De Marchi. Il libro unico fumo buon prodotto editoriale anche se alcuni maestri nei lamentavano
la complessità. Le prime edizioni (1930) presentavano il volto buono del fascismo con una proposta
pedagogica moderata in linea con la tradizione del libro dell’ottocento, ma anche con la nota di modernità
introdotta dal regime nella vita degli italiani. Non tutti i testi per tutte le classi raggiunsero questo scopo. Il
migliore fu il “Balilla Vittorio” per la classe quinta, che rinviava a “Cuore” di de Amicis, ma anche quello per
la terza di Grazia Delledda. Particolare attenzione venne prestata alle immagini, coinvolgendo disegnatori
apprezzati ed esponenti delle avanguardie artistiche. Le copertine erano la sintesi della rivisitazione del
simbolismo fascista e di elementi provenienti dal futurismo e dall’Art Decó. Anche le copertine dei
quaderni, strumento potente di propaganda, erano molto ricercate. Essi provenivano dall’imprenditoria
privata ma traghettavano nelle famiglie l’autorappresentazione del fascismo con brevi testi e immagini tra
cui spiccavano quelle di Mussolini e delle imprese del regime. Nelle edizioni pubblicate a metà degli anni 30
si nota un’evoluzione: la guerra, lo spirito di conquista e la violenza entrarono nella vita dei bambini. I testi
si modificano con frasi brevi e secche. Anche nei sussidiari, relativi alle diverse materie insegnate, i toni
cambiarono, mentre prima del ‘37 si sottolinealo sia gli aspetti del credo fascista sia quelli del nuovo corso
storico, nelle edizioni successive la realtà fascista pervade tutta la proposta didattica, Sia per i problemi di
geometria sia per gli esercizi di grammatica o aritmetica.

3. Dalla guerra di Etiopia al 2º conflitto mondiale

Dalla metà degli anni 30 la scuola si mobilita per sostenere l’impresa coloniale in Africa orientale. Giuseppe
Bottai, ministro dell’educazione nazionale nel 36, emanò una circolare per tutte le autorità scolastiche dal
titolo “la scuola dell’Italia imperiale” per la quale la scuola di ogni ordine e grado dove va a formare negli
italiani una coscienza imperiale. Da quel momento l’attività didattica ruota attorno a questo tema: le lezioni
iniziavano con la preghiera per i soldati e il bollettino di guerra, sulla carta geografica dell’Africa si
apponevano bandierine per seguire l’avanzata italiana, si tenevano corrispondenze con i soldati. I maestri
dovevano spiegare le ragioni del regime circa la necessità dell’impresa in Etiopia e l’ingiustizia delle sanzioni
all’Italia nel 1935 dalla società delle nazioni. Anche le copertine dei quaderni riproducevano paesaggi
esotici, cammelli, piccoli neri che ubbidiscono ai bambini bianchi in divisa da balilla, immagini volte a
suscitare senso di avventura ma anche a sdrammatizzare l’evento. Uno strumento nuovo faceva il suo
ingresso nel mondo italiano: la radio che destinò quasi subito uno spazio per l’infanzia. Nel 1926 la stazione
di Milano mandò in onda il “cantuccio dei bambini”, un programma di 15 minuti e poi mezz’ora che voleva
istruire ma anche divertire. Anche altre stazioni italiane lo realizzarono grazie scrittori ed esperti di
letteratura giovanile molto noti come fanciulli a Milano, novelli e Lorenzini, nipote di Collodi, a Firenze.
Questo programma conteneva indovinelli, storie fantastiche, filastrocche. Ovviamente solo una cerchia
ristretta della borghesia benestante possedeva la radio. Il maestro Cesare ferri della stazione di Roma ma
andava in onda giornalmente “il giornale radiofonico del fanciullo” con la lettura di un articolo su un

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avvenimento politico, poi cronache dall’Italia e del mondo e poi fiabe, giochi enigmisti, cori di fanciulli. Nel
corso degli anni 30 ci fu un tentativo più organico di raccordo tra radio e infanzia. Era nata l’EIAR (ente
Italiano audizioni radiofoniche) e sì cerco di diffondere la radio per scopi propagandistici. L’EIAR si premurò
di portare la radio nelle campagne, promuovendo l’acquisto di un apparecchio a basso costo condivisi. Uno
di questi fu la scuola elementare rurale. Per gli alunni delle elementari e c’era il radio giornale Balilla in cui
si informava di fatti nazionali e esteri, dell’impresa e del fascismo ma anche c’era spazio per i giochi e
concorsi a premi. C’era anche la rubrica “Dov’è il duce” che dava conto degli impegni di Mussolini. L’ascolto
della radio era uno dei momenti di socializzazione politica e di svago. Nel 1937 venne creata la gioventù
italiana del Littoriono (GIL) che costituì un ulteriore passaggio alla militarizzazione dell’infanzia. Si rivolgeva
a ragazzi tra i sei e i 21 anni ed era sotto il controllo del PNF. Doveva preparare “cittadini soldati” e
otteneva dallo Stato grandi finanziamenti. Nella creazione dell’uomo nuovo si cercava di inserirsi anche
nelle famiglie con la nascita di “sezioni rapporti famiglie-GIL O investendo nei collegi. Negli anni della guerra
dovevano servire a creare dei super fascisti e si accedeva fra gli otto e i 13 anni dopo una selezione. Anche
le competenze dell’opera nazionale degli orfani di guerra passarono alla GIL. Nel 1939 venne approvata la
carta della scuola redatta dal ministro Bottai. Questo documento Non riuscì a concretarsi in una revisione
della scuola italiana in quanto bloccata dall’ingresso in guerra dell’Italia e della mancanza di finanziamenti.
La scuola, “fondamento primo di solidarietà di tutte le forze sociali” doveva formare “La coscienza umana e
politica delle nuove generazioni”. Tale documento enunciava il principio della formazione unitaria e
obbligatoria nella scuola e fuori della scuola, cioè nelle organizzazioni di partito, di tutti i ragazzi dai quattro
ai 21 anni. L’assolvimento di tale obbligo era condizione necessaria per l’accesso al lavoro. Questo progetto
pedagogico, anche se non con una formulazione così precisa, aveva già coinvolto più generazioni di ragazzi
molti dei quali ormai cresciuti, erano mandati a combattere quella guerra nel cui mito erano cresciuti.

L’infanzia nel nazionalsocialismo

Il 30/01/1933 Hitler venne nominato cancelliere del Reich sancendo la fine della Repubblica di Weimar,
1º stato democratico in territorio tedesco. Da allora i nazisti accrebbero il loro potere influenzando non
solo la vita delle persone adulte, ma anche la quotidianità dei bambini

1. L’idea di bambino e la politica per l’infanzia

I nazionalsocialisti vedevano i bambini e i giovani artefici di una società futura migliore. Questa concezione
era già stata formulata alla fine del XIX secolo dalla pedagogia delle scuole nuove. Alla base c’era l’idea
della “EntwicklungsKindheit” (Infanzia in sviluppo) secondo la quale il Modo in cui il bambino cresce nel
presente condiziona il suo futuro. A livello nazionale questo produsse la convinzione che garantire
condizioni favorevoli di crescita il bambino costituisce il presupposto per una società e nazione migliori.

Occuparsi dei bambini quali potenziale del futuro acquisito rilevanza politica in vista della lotta tra le
nazioni europei per l’egemonia dell’Europa e altrove. Durante la prima guerra mondiale queste idee furono
arricchite da contenuti militaristici Che si concretizzarono in un’educazione di tipo militare. Quindi già
all’inizio del XIX secolo la salute dei bambini era considerata importantissima. La priorità degli educatori
dipende perseguire uno sviluppo sano del bambino. I bambini deboli o disabili rappresentavano un
problema. Il mantenersi sani non era inteso come semplice diritto dell’individuo, ma come Obbligo nei
confronti della società. Queste idee vennero radicalizzate dai nazionalsocialisti per cui lo sport assunse un
ruolo centrale non solo nella Hitlerjunged (gioventù Hitleriana) ma anche a scuola, dove le prestazioni
intellettuali passare in secondo piano. Lo stesso Hitler sosteneva che il lavoro educativo dello Stato non
dovesse essere finalizzato ad inculcare il mero sapere, ma ad addestrare corpi sani. Per i nazionalsocialisti
non tutti bambini erano un bene prezioso ma solo quelli di razza pura, quindi il razzismo era insito nel
programma nazionalsocialista Per l’infanzia che aveva anche l’obiettivo della crescita demografica ma
conteneva elementi Antinatalistici. Un altro aspetto rilevante era che il bambino di razza pura non era

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rilevante come individuo ma solo come “portatore del futuro della nazione tedesca”. L’obiettivo educativo
dello stato nazionalsocialista non era quello che i giovani tedeschi sviluppassero una propria individualità,
ma diventassero parte utile della Volkgemeinschaft (Nazione). Questo comportava anche la disponibilità a
sacrificarsi per essa. I nazionalsocialisti modificarono la concezione dell’infanzia anche sotto un altro
aspetto. Fino agli anni 30 in Germania si veniva considerati bambini fino a 14 anni, cioè fino all’obbligo
scolastico. Finita la scuola, per la grande maggioranza, iniziava l’attività lavorativa; solo per i borghesi che
continuavano gli studi, L’infanzia durava più a lungo. Per i nazionalsocialisti chi compiva 10 anni era
considerato un giovane. E questo perché l’educazione all’interno della famiglia sfuggiva al controllo del
partito, ma anticipando la giovinezza a 10 anni (da questa età era permesso aderire alla Hitlerjunged) I
nazionalsocialisti ebbero un accesso diretto alla vita dei bambini esponendoli all’influsso della loro
propaganda in un’età in cui si è particolarmente ricettivi verso un pensiero dicotomico: bene/male,
amico/nemico, guerra/pace. I bambini “giovani” si sentivano presi sul serio, entrando a far parte
dell’organizzazione giovanile, contribuivano alla costruzione di una nuova Germania. La propaganda del
partito si inserì nelle scuole, nella Hitlerjunged, Attraverso i media, soprattutto radio e cinema. Nessun
ambito della vita di bambini e giovani rimase precluso dalla politica: la propaganda si insinua persino nella
famiglia. Inizialmente del sistema scolastico molte cose rimasero inalterati, anche se furono licenziati per
ragioni politiche o razziali molti direttori scolastici, i programmi scolastici rimasero gli stessi. Poi però ai
docenti fu imposto di iscriversi all’associazione nazionalsocialista degli insegnanti e di partecipare a corsi di
formazione attraverso i quali venivano indottrinati sull’allineamento al nuovo regime delle materie
scolastiche. Delle lezioni di biologia si faceva riferimento alla dottrina ereditaria e razziale. Nelle elezioni di
tedesco si selezionavano letture obbligatorie. Le storie di guerra e della 1^ guerra mondiale divennero
sempre più popolari. Il numero di ore di educazione fisica venne portato a cinque. La religione da
obbligatoria divenne facoltativa e abolita per gli alunni sopra i 14 anni. La funzione religiosa del lunedì
mattina fu trasformata in un appuntamento di natura ideologico-politica. Il tradizionale saluto fu sostituito
con il saluto a Hitler. Dopo l’insediamento al governo i nazionalsocialisti costituirono un’unica
organizzazione giovanile che incorporasse tutti i bambini e giovani, e Tranne i non ariani o quelli considerati
inferiori, e tutte le altre organizzazioni furono abolite o inglobate nella Hitlerjunged. I bambini vennero
organizzati separatamente in base al sesso ed età. Le bambine di 10 anni entravano nella Jungmä del Buond
(JM), I maschi nel Deutsche jungvolk (JV). Tra i 14 e i 18 anni facevano parte della Bund Deutscher Mädel
(BDM)-femmine e della Hitlerjunged (HJ)-maschi. L’insieme di tutte queste organizzazioni era chiamata
Hitlerjunged Che era organizzata gerarchicamente in sette livelli; sotto la direzione della
Reichsjugendführung (Direzione della gioventù del Reich). Il livello più basso era costituito da piccoli gruppi
di 15; A capo di ciascun gruppo c’era un membro poco più grande. I capi non venivano scelti dai bambini,
ma nominati. Nonostante l’iscrizione non fosse obbligatoria fino al 1939, i bambini e giovani si scrivevano in
massa: la promessa di essere il futuro della Germania li lusingava. L’uniforme uguale per tutti indicava che
la provenienza sociale non aveva alcun’importanza. Inoltre, i bambini erano attratti dalla possibilità di stare
con altri bambini, di fare viaggi al di fuori del controllo della famiglia, sentendosi autonomi ma non
rendendosi conto che di fatto erano inglobati in una organizzazione basata sull’ordine e obbedienza. Nel
1939 il tasso di adesione era dell’87%. All’interno della Hitlerjunged, L’addestramento premilitare aveva un
ruolo importante, soprattutto per i ragazzi sopra i 14 anni. L’obiettivo era far crescere persone forti e
laboriosi, convinte dell’ideologia nazionalsocialista E pronto a sacrificarsi per essa, ad esempio nella guerra.
Nel maggio del 33 ci fu il rogo dei libri per eliminare la cosiddetta letteratura “degradante”. Nelle
biblioteche pubbliche la polizia avvenne anche nelle sezioni per bambini. Gli insegnanti vendevano riviste
giovanili di orientamento nazionalsocialista, Persino gli album di raccolta illustrate erano allineati. Radio e
cinema diventarono mezzi di propaganda. Nel 1933 venne commercializzato un apparecchio radio
economico alla portata di molti. Il palinsesto radiofonico era un mix di informazioni, intrattenimento e
propaganda. La stessa Hitlerjunged aveva una stazione radiofonica che trasmetteva tematiche trattate nei
suoi raduni o trasmissioni dedicate a giovani e bambini. Il cinema aveva un grosso impatto sui bambini, ma
era appannaggio dei ricchi, però la Hitlerjunged organizzava proiezioni cinematografiche alle quali

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partecipavano intere scolaresche. Hitler già nel Mein Kampf aveva affermato che l’attività sportiva rendeva
forti bambini, e la boxe gli sembrava lo sport migliore. L’allenamento fisico non era fine a sé stesso ma per
scopi bellici. L’obbligo dell’uniforme aveva un duplice scopo: senso di appartenenza ed uguaglianza. I
bambini erano tenuti ad indossare l’uniforme pulita ed ordinata, ad avere unghie pulite e capelli pettinati.
Le femmine non potevano indossare gioielli né tantomeno trucco. La sessualità era un tabù sia all’interno
della famiglia sia nella Hitlerjunged, però siccome si era consapevoli che relazioni sessuali all’interno dei
gruppi di giovani non si potevano escludere, l’autocontrollo e la soppressione dell’istinto era l’obiettivo
educativo fondamentale. I bambini impararono che la violenza era un mezzo legittimo di confronto ed era
lecito definire altri, “inferiori” ed escluderli. L’influsso della ideologia nazionalsocialista avvenne però
gradatamente e la politica di regime senti la necessità di distruggere le culture religiose e politiche
contrarie, cioè partiti operai, sindacati e chiese.

2. Un’indagine empirica

I bambini percepivano che il loro quotidiano veniva politicizzato?

Lo accettavano? Che significato ha avuto questa politicizzazione della loro vita di bambini? Per
rispondere a queste domande sono state intervistate persone che vissero la loro infanzia durante gli anni
30. Sono stati intervistati maschi e femmine cresciuti milieu sociali differenti. Per milieu si intende stili e
comportamenti di vita specifici che le persone sviluppano in un luogo dove vivono in una situazione
sociale simile per un certo tempo. Sono stati selezionati 4 milieu

1. Intervistati del milieu della borghesia benestante. Figli di proprietari di grandi aziende o
accademici. Viveva in città medi-grandi, le mogli non lavoravano e c’era personale di servizio. I
figli avevano molto tempo libero.
2. Milieu Di operai. Vivevano in piccole città, le mogli a volte lavoravano. C’era la coltivazione di orti
molto grandi per l’autosostentamento. I figli collaboravano ai lavori quotidiani.
3. Paese industriale protestanti: i padri erano contadini, minatori, artigiani e bottegai, le madri si
occupavano della casa, di un orto oppure dell’attività agricola. I bambini aiutavano in questi
lavori. Nello stesso nucleo familiare spesso convivevano 3 generazioni.
4. Paese agricolo cattolico: le famiglie avevano piccoli poderi, fonte principale di sostentamento era
l’agricoltura nella quale i bambini erano coinvolti. Come, tre generazioni più anche fratelli e/o
sorelle adulti dei genitori.

La quotidianità dei bambini si differenziava molto da un milieu all’altro, non solo per la condizione
economica della famiglia, ma anche per il tipo di istruzione scolastica ricevuta, per il modo in cui erano
coinvolti nei lavori domestici e agricoli, per il tempo libero a disposizione e per le loro proposte generali di
vita. I milieu si differenziavano anche in base alla loro distanza dal nazionalsocialismo. I bambini del milieu
Borghese crebbero in un ambiente politicamente allineato. I bambini del milieu operaio crebbero in un
ambiente critico ed ostile nei confronti dell’autorità. Quelli del paese protestante non attestano un distacco
dalla situazione politica, mentre quelli del paese cattolico concedeva poco spazio al nazionalsocialismo. I
bambini dei vari milieu vivevano quindi la loro quotidianità in modo diverso.

1. In tre dei milieu indagati le condizioni economiche, sociali e culturali cambiano poco durante il
nazionalsocialismo, mentre nel milieu operaio, dove le famiglie simpatizzavano o facevano parte
del movimento operaio, la politica nazista distrusse o mise a dura prova l’esistenza economica di
molti di esse.

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2. Nella maggior parte dei casi il dialogo e le relazioni famigliari non furono compromessi dai
cambiamenti politici, e non così nel Milieu operaio, dove molti padri di famiglia furono arrestati e
condannati e c’erano divergenze di opinioni politiche tra coniugi o tra padri e figli quando questi
aderivano alla Hitlerjunged. La politica ebbe quindi gravi conseguenze per il clima familiare
3. Per quanto riguarda la scuola come si è già detto la programmazione delle lezioni non fossero volta
anche se cambiamenti ce ne furono, come il razzismo, la posizione anti-intellettuale, il controllo dei
rituali scolastici. I bambini vissero questi cambiamenti in modo inconsapevole, solo pochi bambini
del milieu Borghese ed operaio registrarono la politicizzazione della scuola come cambiamento.
4. Il cambiamento più grande lo portò la Hitlerjunged. Nel milieu Borghese l’adesione provoca una
grande diminuzione del loro tempo libero anche se ebbero modo di soddisfare esigenze di
comando: molti di essi ricoprirono cariche di responsabilità e fecero carriera dell’associazione. Nel
milieu operaio pochi ebbero compiti di comando anche se molti entrarono con entusiasmo,
accettando anche conflitti familiari, altri rimasero fuori a lungo, facendo solo il minimo
indispensabile. Nel milieu Del paese protestante, la maggior parte dei bambini aderì con
entusiasmo dell’organizzazione anche perché questo costituiva una gradita interruzione dalla
routine ed ai lavori agricoli e domestici. Molti acquisire una posizione di comando era concepito
come un periodo positivo della loro infanzia. Nel milieu Del paese cattolico, la quotidianità fu meno
influenzata. Tutti bambini vi aderivano con entusiasmo ma, di fatto, non occupò un grosso spazio
nella loro vita: nessuno ebbe posti di comando e le esigenze di lavoro familiare venivano prima dei
servizi e delle operazioni speciali dell’organizzazione. I bambini riuscirono a percepire che il
nazionalsocialismo si scontrava con chiare resistenze in famiglia, dell’ambiente sociale e in
parrocchia.
5. Per quanto riguarda il corpo e la divisione dei ruoli tra i sessi, ci fu una forte continuità in milieu.
Posizioni liberali e illuminati erano in minoranza anche tra la borghesia e gli operai.
6. Nell’infanzia degli intervistati di tutti i milieu, I media ebbero un ruolo più invasivo rispetto alla
generazione precedente. Siccome però gli apparecchi radio e il cinema non avevano diffusione
uniforme, i bambini borghesi ne furono più influenzati ma non si resero conto della
strumentalizzazione politica.
7. Il complesso di norme valori con cui bambini crebbero, cambiò durante il nazionalsocialismo.
attraverso la propaganda e i suoi principi si diffusero nella testa delle persone e dei bambini. Quelli
più influenzati furono quelli del paese protestante. In ambito religioso ci furono cambiamenti
sostanziali. I nazisti portarono a smantellare l’autorità delle chiese cristiane ma il successo fu
ambivalente. Il paese cattolico, in cui la religiosità era più intensa, i nazisti non portarlo modifiche
sostanziali. Nel paese protestante in cui rapporto con la Chiesa era già compromesso molti bambini
giovani smisero di prendere parte agli eventi religiosi nel milieu operaio questo cambiamento fu
ancora più sostanziale in quanto il legame con la Chiesa si era già sciolto con la Repubblica di
Weimer. Nelle famiglie borghesi, la situazione non è omogenea: dipendeva dalla famiglia di origine,
per cui alcune accolsero bene la politica antireligiosa, altre si dimostrarono più scettiche.
8. La persecuzione dei dissenzienti e degli ebrei fu un altro aspetto che caratterizza l’infanzia dei
bambini degli anni 30 anche le testimonianze provengono solo dai Milieu urbani. I bambini erano
consapevoli che regime punisse chi contrastava O criticava la politica di allora, ma non erano in
grado di recepirla come un’ingiustizia. La maggior parte dei bambini era a conoscenza della
persecuzione contro gli ebrei ma non comprendeva la portata e il significato. Posizioni
antisemitiche erano diffuse tra la popolazione, alcuni bambini registrarono la scomparsa di loro
compagni ebrei nel 1933 ma non rimasero turbati. Successivamente, quando la persecuzione
divenne più intensa, alcuni bambini rimasero colpiti dall’atmosfera opprimente che si stava
diffondendo. Iniziavano a percepire una situazione di pericolo. Alcuni intervistati che si ricordavano
di queste paure, provenivano da famiglie in cui si discuteva di politica, altre, nelle cui famiglie non si
discuteva, non percepivano nulla. I bambini reagirono in modo diverso alla politica

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nazionalsocialista. Ad esempio, nei confronti della Hitlerjunged I comportamenti erano diversi:
alcuni si impegnavano attivamente, altri cercavano di defilarsi. Non si riesce quindi a dare una
risposta univoca a come i bambini percepissero la politica sulla loro quotidianità. Molti intervistati
non Percepissero la politica sulla loro quotidianità. Molti intervistati non erano neppure
consapevoli della politicizzazione: essi crebbero senza conoscere nulla di diverso e neppure da
adulti riuscirono a sviluppare un senso critico nei confronti del nazionalsocialismo.

Il “nuovo bambino” in unione sovietica dalla rivoluzione d’ottobre alla caduta del regime comunista
(1917-1991)

1. Introduzione

Come “il secolo dei fanciulli” (1900) la scrittrice svedese Ellen Key Si augurava l’inizio di una nuova fase
che restituisse ai bambini l’infanzia che i secoli passati avevano negato. Il libro fu tradotto e rapidamente
in varie lingue ed era dedicato a tutti i genitori che speravano di formare l’uomo nuovo nel nuovo secolo.
Diviso in otto capitoli, si occupava degli aspetti più importanti, anche indiretti, della vita quotidiana del
bambino, ad esempio l’educazione, la maternità e il lavoro della donna, la scuola, la delinquenza
infantile… Era un messaggio per il futuro: migliorando la vita dell’infanzia si migliorava l’intera umanità.

Quest’opera preparava alla modernizzazione degli interventi a favore dell’infanzia culminati nel 1910 a
San Pietroburgo con il tribunale dei bambini, prima della dichiarazione dei diritti del bambino del 1924.
L’opera della Key, che poneva il bambino al centro di un progetto educativo, suscitò un dibattito sul
rinnovamento globale dell’educazione, soprattutto dopo la prima guerra mondiale. La rivoluzione russa
del 1917 colse per prima l’opportunità di dare inizio al nuovo secolo del bambino. È, infatti l’unione
sovietica divenne un laboratorio della legislazione per l’emancipazione dell’infanzia dalle strutture e
dallo sfruttamento economico. Per Antonio GIbelli l’infanzia non era una categoria biologica o sociologica
ma politica cioè dipende dal rapporto con la nazione. Nell’unione sovietica si voleva indottrinare
l’infanzia del “uomo nuovo” cittadino-lavoratore pronto alla difesa del paese e del comunismo contro
qualsiasi nemico. L’uomo nuovo era un mito scaturito dalla rivoluzione d’ottobre che aveva sicuramente
uno natura politica, ma non bisogna trascurare l’aspetto biologico e sociologico, importanti per il nuovo
regime. Il progetto sovietico fece dell’infanzia il simbolo dell’avvento di un regime giusto, senza classi
sociali con il progetto della rigenerazione dell’infanzia abbandonata. Con la rivoluzione del 1917 le
condizioni di vita quotidiana dell’infanzia furono modificate grazie a nuove politiche pubbliche. Vennero
creati dei commissariati statali centrali per realizzare istituti di cura ed educativi per minori in stato di
abbandono soprattutto dopo la grande guerra. Questi commissariati elaborarono riforme per i servizi
sanitari per la tutela della maternità e dell’infanzia, gli istituti assistenziali per orfani e disabili, le scuole,
commissioni incaricate per i reati commessi dai minori.

Per formare l’uomo nuovo, l’infanzia sarebbe dovuta cambiare radicalmente: non più abbandono, fame,
disparità tra bambini legittimi e naturali, ma una tutela sociale e giuridica garantita dallo Stato attraverso
il diritto di famiglia, istituzioni di cura, educative di assistenziali. Anche bambini disabili ricevevano cure
ed assistenza oltre a un programma educativo realizzato da specialisti, offrendo un terreno favorevole
per le scoperte scientifiche in ambito psicologico. Ovviamente gli storici hanno poi valutato la distanza
tra gli slogan della propaganda e la vita quotidiana dell’infanzia. Si analizzarono alcuni punti
fondamentali:

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1. La rivoluzione di diritti civili del bambino all’interno della famiglia
2. Le principali riforme delle istituzioni assistenziali per all’infanzia orfana che sperimentarono
nuovi metodi educativi
3. Le riforme della scuola che miravano a coniugare istruzione e lavoro secondo il principio marxista
della formazione politecnica.

Il problema dell’infanzia abbandonata, intrinseco alla società sovietica, costrinse a rivedere molti
progetti rivoluzionari e la ligi se l’azione volta alla prevenzione della devianza minorile.

2. Il “nuovo bambino” in famiglia

Le conseguenze dell’emancipazione femminile perseguita dalla rivoluzione riguardavano anche l’infanzia:


emancipazione della donna ed educazione comunista dei bambini erano una coppia inscindibile. Gli
interventi legislativi sulla famiglia possono essere suddivisi in quattro fasi dal 1917 al 1935 e riguardavano i
diritti civili dei bambini: all’interno della famiglia, i doveri tra coniugi e verso la prole, e, indirettamente, il
coinvolgimento dello Stato nel mantenimento dei minori. La prima riforma della famiglia ci fu subito dopo
la rivoluzione di ottobre con alcuni decreti che introdussero il divorzio e l’equiparazione tra figli legittimi e
naturali. Per la ricerca della paternità bastava la sola dichiarazione della madre e il padre doveva
contribuire al mantenimento del figlio. Il codice del 1918 fondava la paternità sui legami di sangue e
attribuiva ad entrambi i coniugi diritti identici nell’educazione dei figli. Il “nuovo bambino” avrebbe avuto
genitori con uguali diritti e doveri indipendentemente dall’unione (matrimonio civile o di fatto) e avrebbe
dovuto essere educato nello spirito del comunismo. Lo Stato prevedeva un sistema di contributi familiari
che furono però inesistenti fino al 1936, È una rete di servizi a favore della maternità, come asili nido e
consumatori. Queste riforme procedettero lentamente a causa delle conseguenze post-belliche. La
revisione del codice della famiglia del 1926 conteneva emendamenti importanti come la necessità di
registrare il divorzio presso l’ufficio di stato civile, l’intensificazione della ricerca della paternità per il
pagamento degli alimenti e l’adozione di bambini abbandonati. Gli emendamenti esprimevano una
tendenza, che si intensificò successivamente, per farsi che i genitori si occupassero più responsabilmente
dei loro figli. In conseguenza della pianificazione economica (collettivizzazione delle campagne e
l’industrializzazione forzata) nel 1932 molti bambini con genitori vennero abbandonati, in più c’erano quelli
senza genitori perché deportati, con la carestia o per arresti. Con il codice Pansovietico e della famiglia del
1936 la famiglia tradizionale venne restaurata con norme più rigide in caso di divorzio e più il pagamento
degli alimenti a carico del coniuge che aveva mancato ai suoi doveri e ci furono restrizioni per l’aborto negli
ospedali. Nel secondo dopo guerra ci si trovò a far fronte ancora al problema dell’infanzia abbandonata e la
grande quantità di orfani ebbe come effetto di intensificare le misure verso la famiglia legittima, ponendo
fine all’equiparazione tra figli legittimi e naturali. Il codice del 44 abolì il diritto delle madri di rivolgersi al
tribunale Per la ricerca della paternità e la ricerca degli alimenti poteva essere fatta solo nei confronti del
marito e non più del padre naturale. Furono previsti contributi per ragazze madri e per super mamme con
tanti figli. Dopo la morte di Stalin anche la politica della famiglia cambio. Nel 1954-55 vennero abbandonate
le misure relative al divorzio e fu depenalizzato l’aborto. Dal 1965 il divorzio poteva essere ottenuto in base
al mutuo consenso, ma sottoposto ad una procedura di concitazione. Questi cambiamenti furono
confermati dal codice del 1968 che chiedeva prove per il riconoscimento della paternità e il mantenimento
del bambino. Veniva colpevolizzata la ragazza madre per immoralità in ragione del costo sociale che il
mantenimento del figlio comportava per il datore di lavoro. Nel 1974 fu stabilito che gli assegni familiari
fossero versati fino ai tre anni, nel caso in cui il reddito non superasse i 50 rubli. Il codice del 68 è rimasto in
vigore fino al 1996, quando la legislazione è stata rivista in una nuova ottica sociale e politica.

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3. Il “nuovo bambino” negli orfanotrofi sovietici

Negli anni 20 le riforme Del periodo dello stalinismo, seguirono delle sperimentazioni psicopedagogiche
avanzate per quei tempi, volte a rieducare L’infanzia per sviluppare un bambino inteso come futuro “uomo
nuovo”. Il nuovo Stato, con la rivoluzione, delego e al commissariato del popolo per l’istruzione il compito
di creare e gestire istituzioni di diverso tipo come orfanotrofi, comunità di lavoro e colonie per bambini
orfani, senza famiglia o abbandonati. Erano istituti dotati di una disciplina differenziata a seconda del
bambino assistito, ben presto gli orfanotrofi che offrivano un programma di istruzione e apprendistato ad
un lavoro artigianale, si rivelarono insufficienti per il grande numero di bambini. Oltre alla grande guerra, si
aggiunsero due anni di guerra civile (dal 1918 al 1920) ed una terribile carestia nel bacino del Volga che fece
5 milioni di vittime, Provocando episodi di cannibalismo. Circa 2 milioni di bambini abbandonati si sparsero
per il paese, in seguito a sfollamenti, alla ricerca di cure cibo. I bambini vennero trasferiti a Mosca e in altre
città in orfanotrofi ereditati dal sistema zarista che già soffrivano di numerose carenze. Prima di formare il
bambino nuovo, bisognava salvare il bambino dalla fame. Per rimediare alle carenze di tali istituzioni di
competenza dei commissariati, furono create tre istituzioni: che si avvalevano anche della partecipazione
volontaria di cittadini: il consiglio e la difesa dei bambini, la commissione centrare per il miglioramento
della vita dei bambini e l’associazione l’Amico dei bambini. Il primo si occupò dell’alimentazione dei
bambini ed è lo sfollamento in Siberia dei bambini provenienti dalle zone della carestia. Gli altri due
finanziavano gli orfanotrofi o misure di reinserimento dei bambini orfani dal 1921 al 1935. Le riforme degli
orfanotrofi o delle comunità di lavoro per bambini abbandonati Si avvalevano delle teorie
psicopedagogiche e lavorate da specialisti per l’educazione e cercavano di avviare al lavoro artigianale per
l’inserimento nella società. Le teorie psicopedagogiche prendere lavorati da eminenti psicologi: Blaskij,
Molozavyj e Zalkind, Sulla base dei caratteri psicofisici e del percorso individuale Dell’abbandono, per
organizzare attività collettive con metodi più adatti per questi bambini cresciuti in strada. Dalla fine degli
anni 20 alla fine degli anni 30 le condizioni degli orfanotrofi peggioravano che dovettero essere annessi alle
aziende agricole e alle fabbriche che li finanziavano e li inserivano professionalmente. Caos e
disorganizzazione, fenomeni di teppismo e violenze da parte degli educatori portavano queste istituzioni a
degrado. Inoltre, i bambini che avevano vissuto per strada in totale anarchia costituivano un pericolo di
ordine pubblico che portarono alla loro incarcerazione nelle case di correzione minorili o nei Gulag. Con
l’inizio della seconda guerra mondiale fu ampliata la rete di Orfanotrofi e istituti di accoglienza. Mentre
nell’immediato dopo guerra e per circa 10 anni gli orfanotrofi non erano degli spazi educativi, ma dei luoghi
di passaggio custodia, carenti sotto tutti punti di vista che spingevano i bambini alla fuga. Il grande numero
di bambini abbandonati dipendeva dalla priorità accordata alla famiglia legittima a scapito dei bambini
illegittimi e poi anche dalla instabilità economica della ricostruzione post-bellica. La caduta del regime
comunista causò nuove ondate di bambini abbandonati, gli “orfani sociali”, cioè bambini con un solo
genitore in grave difficoltà economica, in conseguenza della crisi del 1993. Sì sono dunque riposti orfani in
fuga su terreni attraverso un paese come dopo le guerre mondiali.

4. Il “nuovo bambino” a scuola.

La rivoluzione d’ottobre del 1917 segna un profondo cambiamento anche nella scuola. La riforma aveva un
duplice scopo: realizzare l’alfabetizzazione di massa e l’educazione comunista. Nel 1918 il governo sovietico
creò una scuola unica del lavoro gratuita, mista e fondata sul lavoro, che prevedeva 9 anni di scuola, poi
ridotto a 7 nel 1921, lasciando però i 9 anni per la scuola professionale. Venere elaborati i programmi che
dovevano coniugare la pedagogia marxista con quella tipa americana per abolire il sapere scolastico basato
sulle discipline tradizionali. La scuola sovietica doveva offrire un’istruzione politecnica di 9 anni prima di
offrire un’istruzione professionale specializzata per mettere una formazione “onnilaterale” come auspicava

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Marx. Il principio politecnico venne mantenuto fino al 1937. Paradossalmente, nonostante la volontà
politica di privilegiare la formazione professionale per l’avvio precoce al lavoro, le riforme post-
rivoluzionaria e non furono in grado di risolvere le gravi carenze formative della generazione uscita dalla
grande guerra. Il principio dell’istruzione politecnica nascondeva il rischio dell’asservimento della scuola il
sistema produttivo. L’obbligo dell’istruzione elementare del 1931 raddoppio sì il numero degli scolari ma il
tanto declamato diritto di accesso agli istituti superiori per i figli degli operai, si tradusse in realtà in un
percorso obbligato, senza prospettive di accedere all’università. Inoltre, c’erano scuole modello destinato ai
figli dei dirigenti di partito. La formazione professionale dipende l’asse portante del sistema scolastico
sovietico. Agli inizi degli anni 30 però si seguirono metodologie didattiche più tradizionali. Nel 1932 fu il
partito comunista, e non più il commissariato del popolo per l’istruzione, ad occuparsi della politica
scolastica, creando prima un apposito comitato e poi nel 46 e nel 59 dei Ministeri. In vista della guerra la
formazione professionale fu oggetto di una riforma importante del 1940 che, abbandonando in principio
marxista politecnico, creò il “sistema di riserva nazionale del lavoro”, responsabile della formazione degli
adolescenti direttamente nelle industrie, nell’agricoltura, nell’edilizia e nei trasporti e delle quote fisse di
apprendisti per i diversi settori della produzione industriale. Fra il 1958 e il 1964 venne rilanciata
l’istruzione politecnica e nel 1958 la scuola media venne estesa da 7 a 8 anni di frequenza anche se divenne
obbligatoria solo nel 1973. Nel 1961 si diffusero scuole con convitto per garantire un percorso completo di
studi a bambini che per condizioni familiari o distanza non potevano frequentare scuole normali. Come
emerge dalla molteplicità delle riforme sovietiche, l’unione sovietica ha cercato di favorire l’avvento del
Secolo del bambino con molti interventi verso l’infanzia, con lo sviluppo di un sistema scolastico complesso
e con la mobilizzazione politica in massa dei bambini aderenti all’organizzazione dei pionieri “V. I. Lenin”.
Tale organizzazione sorse in modo spontaneo dopo la rivoluzione e conobbe la sua massima espansione nel
1972. Capitoli tragici però ci furono durante la dittatura di Stalin come la deportazione di bambini nei
Gulag. Anche il passaggio dall’economia pianificata quella di mercato avuto un impatto deleterio sulle
condizioni di vita dei bambini.

I conflitti del 900 e l’infanzia

Nel 1996 all’Onu veniva presentato uno studio di Graca Machel sull’impatto delle guerre sui bambini.
Premettendo che le guerre e la violenza avevano attraversato ogni epoca, nel XX secolo era aumentato il
coinvolgimento da parte dei bambini (fino a 18) anche per l’aspetto più brutale e devastante delle
guerre. Nel 1995 erano in corso 30 grandi conflitti in cui bambini erano oggetto ma anche autori di
atrocità (bambini-soldato). Le conseguenze delle guerre sono numerose: alcuni muoiono direttamente,
altri per malnutrizione e malattie. La scarsità di cibo, In paesi già poveri, provoca malattie. Inoltre, molti
bambini crescono in un clima di odio e violenza per cui la violenza diventa routine e loro crescono
nell’insicurezza e nella vendetta. Nel corso del 900 si sono avute due guerre mondiali ma anche dopo le
guerre hanno avuto luogo. Nel 1985-95 2 milioni di bambini sono stati uccisi nel mondo in conflitti armati
e 4/5 milioni sono disabili o mutilati, senza calcolare gli orfani.

1. Un’immagine inquietante: un secolo di guerre

Nel 900 le guerre hanno assunto dimensioni e modalità ancora più distruttive. Molte persone che avevano
vissuto il 900 lo ricordano come un secolo tragico, e di movimenti e spostamenti di massa oltre che di
morti. Le guerre hanno percorso tutto il secolo: le residue guerre coloniali, Quella civile spagnola (1936-39),

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di Corea (1950-53), del Vietnam (1968-75), di Cambogia (1975-79), del Ruanda (1994), quelle balcaniche
degli anni 90 e del medio oriente, la rivoluzione russa (1917) e il genocidio degli armeni. La scienza e la
tecnologia applicate ai conflitti hanno raggiunti culmine: bombe atomiche, armi di distruzione di massa. Nel
novecento sono stati uccisi violentemente tra i 100 e 150 milioni di persone, sono la seconda guerra
mondiale avuto 50 milioni di vittime. Il secolo sarà anche ricordato per cambiamenti e conquiste
scientifiche e socioculturali, hanno migliorato la vita degli uomini e la fondazione di Onu e comunità
europea.

2. La militarizzazione dell’infanzia e “l’inutile strage”

Scriveva Gustave LeBon nel 1895: l’età che inizia sarà l’età delle folle. E nell’anima delle folle che si
preparano i destini delle nazioni. Ma la folle con un gregge che non può fare a meno di un padrone e quindi
i governi possono intervenire. L’individuo nella folla non è più stesso ma un automa senza volontà, un
granello di sabbia, tra altri granelli e che il vento solleva come vuole. E il vento che le dà potere, che
indirizza, attraverso i mass media e le istituzioni educative, i granelli di sabbia come vuole, a cominciare dai
bambini. Il messaggio di LeBon è stato fatto proprio dai governi del 900: le violenze del 900 sono state
programmate. Viene seminato l’odio per il nemico e il diverso. Anche l’indifferenza morale, base della
partecipazione di massa della violenza collettiva, ha una costruzione storica. Il diffondersi di questi
atteggiamenti trova origine nella militarizzazione dell’infanzia in molte nazioni dalla prima metà del 900. In
Italia, allo scoppio della prima guerra mondiale vi erano 12 milioni di bambini oggetto di interesse del
governo che, dall’unità in poi, intendeva farne nuovi italiani, attraverso la scuola e il servizio militare
obbligatorio. Nelle scuole europee si formava l’obbedienza, all’amor di patria, al coraggio. Durante la
guerra si seguivano sulle cartine le posizioni degli eserciti, si scrivevano lettere ai soldati al fronte. Nei libri
di testo si esaltavano la patria e la morte eroica. Attraverso la scuola e mezzi di propaganda si inculcava
l’odio verso il nemico. In Austria l’educazione alla guerra si diffuse nelle scuole in maniera sottile anche
prima del 1914 con l’educazione al patriottismo, al culto dell’imperatore, all’esaltazione del proprio popolo.
Il nemico peggiore era l’italiano, traditore e infedele. Lo scoppio della grande guerra diede vita ad una forte
campagna di demonizzazione del nemico per giustificare la violenza e dare maggiore coesione al popolo. Il
richiamo all’ordine e all’obbedienza era sempre presente. La guerra venne addirittura banalizzata ad
evento compatibile con la quotidianità. Anche Pinocchio venne rivisitato: Il nipote di Carlo Collodi pubblico
del 1917 un romanzo in cui il rapporto tra gambe di carne e gambe di legno si caricava di significati in
riferimento ad amputazioni e protesi. Attraverso stampe e cartoline si proponeva un’immagine negativa del
nemico, chiamando tutti cittadini a resistere con il lavoro, il risparmio, la disciplina, l’obbedienza. I bambini
di vendere il simbolo dell’innocenza e del futuro, il motivo per cui soldati lottavano. Anche i giocattoli
vennero calibrati sulla nuova realtà, con trincee e cannoni: l’immagine del bambino che dorme accanto ai
suoi soldatini, sognando autentici combattimenti è una delle immagini più comuni dell’iconografia del
tempo.

Si può dunque parlare di un arruolamento del bambino. La prima guerra mondiale lascia molti orfani: circa
350.000 in Italia e Inghilterra, a circa 1 milione in Francia e Germania, e ostacolò la funzione educativa dei
genitori, sia per il padre assente, sia per la madre impegnata nel lavoro. I bambini vengono allora
considerati come figli della nazione, l’infanzia non era più un fatto privato. Nella fase finale della guerra
molti adolescenti parteciparono al conflitto: in Italia si ricordano “i ragazzi del 99“. Ma i bambini-soldato
erano presenti già anche un tempo: nella guerra dei trent’anni, nel 1811 con Napoleone, nelle guerre
garibaldini e nella guerra civile americana. Minori e giovani vennero anche impiegati nei campi, nelle
fabbriche di munizioni, nei cantieri al fronte. Nelle regioni in mano ai nemici, si aggiunse il trauma
dell’invasioni: ragazzi belgi, francesi, serbi, lituani, polacchi furono deportati in Germania, Bulgaria,
Ungheria. Gli abitanti furono ridotti alla fame dalle requisizioni, donne bambini furono arruolati nelle
squadre di lavoro. La guerra lasciò anche bambini nati da nemici, come in Italia dopo Caporetto e in alcune
zone della Francia occupate dai tedeschi, o come “I bastardi” della Renania, che furono sterilizzati nella

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seconda guerra mondiale. La vita dei ragazzi deportati fu durissima: fame, percosse, umiliazioni. Inoltre la
sotto nutrizione tra bambini diffuse la tubercolosi e lo scorbuto. Nel dopo guerra, fascismo, nazismo e
comunismo continuarono la militarizzazione dell’infanzia formando uomini con determinate caratteristiche,
perfetto soldato pronto ad immolarsi per la patria.

3. Verso la 2ª Guerra Mondiale

Finita la prima guerra mondiale le scuole diventare un uno spazio espositivo per la celebrazione della
guerra: lapidi, targhe e lampada accesa. I bambini rimasero intrappolati da immagini inerenti alla guerra. E
non solo: la letteratura per l’infanzia produceva combattenti in miniatura come “piccolo alpino” di Gotta, e
così il cinema con “la piccola vedetta lombarda” e “il piccolo patriota padovano“ del 1915 e il “Tamburino
sardo“ del 1916. Molti ritengono che la guerra mondiale se iniziata nel 1914 e finita nel 1945, perché il
ventennio fra le due guerre non fu un periodo di pace. Vendere instaurati i totalitarismi e i Gulag, i campi di
concentramento e le deportazioni di massa, oltre la carestia. Nel 1933 circa 3 milioni di bambini russi
morirono per la carestia. Soprattutto negli stati totalitari l’interesse del governo per la preparazione fisica e
militare era molto alto e lo dimostrano le organizzazioni per i giovani come l’opera nazionale Balilla in Italia,
la Hitlerjunged in Germania e i Pionieri in Russia. La scuola nazista era un’arma ausiliare dell’esercito; scopo
della scuola era di plasmare i giovani a capire che lo Stato era più importante dell’individuo e ognuno
doveva essere pronto a sacrificarsi con entusiasmo per la nazione e il Führer. La gioventù tedesca era
totalitaria non solo nel modo di agire ma anche di pensare. I bimbi imparavano la più rigida disciplina,
obbedienza assoluta e a considerare il führer il salvatore della Germania. Una volta preso il potere Hitler
cercò di realizzare quello che aveva progettato nel suo libro Mein Kampf. Nel 1935 fu avviato un progetto
sulle teorie eugenetiche della razza ariana attraverso apposite cliniche. Ai soldati che andavano al fronte si
chiedeva di rendere madri le ragazze ariane perché sarebbero potuti anche non ritornare. Le ragazze madri
che potevano certificare la razza ariana, erano aiutate purché donassero il figlio al führer. Nei territori
conquistati i rapiti bambini, giudicati di razza pura, per essere germanizzatati soprattutto in Norvegia,
Ucraina e Polonia. Per i non ariani la vita divenne un calvario, soprattutto per ebrei, rom e disabili.
Tantissimi bambini vennero deportati in campi di concentramento dove le possibilità di sopravvivenza
erano scarsissime. Su molti bambini vennero fatti atroci esperimenti “scientifici” dal Dottor Mengele ad
Auschwitz e dal dottor Heissmeyera a Neuengamme. I bambini erano ridotti ad operai schiavi al pari degli
adulti.

Anche nella guerra civile spagnola del 1936-39 i bambini dovettero convivere con l’orrore, quando donne e
bambini venivano presi in ostaggio in cambio di mariti e padri. Circa 1 milione di bambini furono evacuati
anche fuori dalla propria nazione e al termine delle ostilità, migliaia di bambini, figli di “rossi”, finirono in
istituti; venga cambiato il loro nome e consegnati come figli da rieducare, a Famiglie simpatizzanti del
regime di Franco. Anche a questi fanciulli fu negata l’infanzia.

4. Dai diari di ragazzi e adolescenti

Un modo per conoscere le sofferenze, ma anche il mondo interiore dei bambini ci viene dalla lettura dei
loro diari di cui il più famoso è quello di Anna Frank (1947). Questi ci fanno capire come un’infanzia rubata
abbiamo gravi conseguenze nel corso della vita dei protagonisti, se riescono a sopravvivere. Emergono
riflessioni sulla vita personale i suoi risvolti psicologici che i fatti della guerra provocano nella loro mente.
Molti ragazzi vivono ogni giorno pensando che sia l’ultimo. Per alcuni diari un modo per non sentire
l’angoscia e per trovare il coraggio di vivere nonostante le terribili condizioni di vita. Si parla spesso di
morte, ma c’è una forte voglia di vita. Alcuni ragazzi scrivono per combattere la solitudine, per cercare di
sfuggire quel senso di vuoto simile alla morte. In loro diari diventano una testimonianza dell’indicibile
criminalità commesse dai criminali nazisti, anche se addirittura scrivono che non sanno se saranno creduti.
Il diario può essere anche uno strumento di autoanalisi o per sfogare la propria rabbia, minacciando i
nemici in una realtà virtuale. È anche un modo per non essere sopraffatti dal caos circostante, per

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esprimere il proprio dolore e dargli un senso. Ogni diario di guerra tra suda sofferenze e privazioni, non solo
fisiche, ma anche psichiche, spirituali: un dolore profondo che non permette una normalità nella crescita
personale. Un terrore che fa perdere, in alcuni, nel desiderio di vivere. Vivere privati di tutto fa
sperimentare per qualcuno la grandezza delle piccole cose quotidiane. Per alcuni il diario una forma di
resistenza terapeutica, un modo per mantenere un senso di identità e integrità personale. Molti riescono
anche ad apprezzare, in mezzo a tante malvagità, le poche cose belle che la natura offre, come la neve.
Qualcuno, addirittura, trova le ragioni per continuare a vivere dedicandosi ad aiutare gli altri la propria
Patria. Ma gli stati d’animo cambiano a seconda delle circostanze e degli umori preadolescenziali
altalenanti. Il bisogno di trovare un significato alla propria vita sembra molto difficile in tempi di
persecuzione terrore. Nei campi di concentramento, chi riuscì a sopravvivere psicologicamente è perché
credeva che ciò che faceva nel quotidiano poteva cambiare la vita degli altri in futuro. Molti hanno pensato
che i diari avrebbero parlato per loro impedendo il ripetersi di simili atrocità come la soluzione finale. La
prigionia, le persecuzioni possono anche spronare ad affermare il positivo che si può intravedere: un
bambino scrive nel momento che stava vivendo era eccezionale e avrebbe formato uomini fuori dal
comune. Infatti, dalla sofferenza nasce la maturità e da questa si raccolgono i frutti. Molte persone tornate
a casa dalla prigionia non hanno avuto la forza di ricordare. Solo anni dopo qualcuno ha trovato il coraggio
di scrivere, come Nonna Bennister che ha vissuto da bambina in Russia durante il conflitto mondiale e la
prigionia prima di emigrare negli USA. Altre volte l’uomo fa emergere il lato buono della natura umana
come Anna Frank che scrive: “continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo che può sempre emergere”. I
numerosi sono gli esempi di abnegazione di sé, fino a dare la vita. Un esempio è il pedagogista medico
Korczack: nel 1911 assunse la direzione della casa degli orfani di Varsavia, organizzandole in una specie di
autogestione, sull’esempio di scuole nuove occidentali. Il 5 agosto 1942 tutti gli orfani furono condotti ai
forni crematori di Treblinka: file di bambini dai due ai 13 anni, camminavano tenendosi per mano, ognuno
con un piccolo fagotto, sorridevano, non avevano il minimo presagio del loro destino. Alla fine della
processione c’era il Dottor Korczack che controllava che i bambini camminassero sul marciapiede e
carezzava loro la testa o un braccio. Così è morto uno degli uomini più onesti e nobili che sia mai vissuto.
(Holilday 1995).

5. Un fragile presente

Negli ultimi decenni del XX secolo si sono moltiplicati i conflitti per ragioni etniche, religiose o sociali. Nel
1994 in Ruanda, in poche settimane sono stati uccisi circa 300.000 bambini. I bambini sono anche vittime
indirette della guerra: a causa di conflitti vengono distrutte produzioni agricole, case, scuole, istituzioni
religiose. Le principali cause di mortalità infantile (dissenteria, morbillo, malaria) trovano terreno fertile del
deperimento fisico. Bambini e adolescenti sono esposti a rischio di violenze sessuali. Altri effetti invisibili
sono di natura psicologica: la psiche dei bambini può subire ferite incancellabili a seguito di traumi e
sviluppare su via panico. Alcuni conflitti si protraggono lungo determinandone nei bambini insicurezza e
desiderio di vendetta. Negli ultimi anni il numero di profughi e rifugiati di guerra è cresciuto enorme mente.
Per la protezione dei più deboli e l’ONU ha provato la carta dei diritti dei bambini e sono stati attivati
organismi come l’Unicef, ma anche attualmente le guerre in Siria, Iraq, centro Africa, provocano lo
spostamento di intere popolazioni con tanti bambini che spesso trovano la morte in mare i una vita difficile
in altri luoghi. Anche questi sono bambini a cui viene rubata l’infanzia. Il 12 agosto del 1949 la quarta
convenzione per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, firmata a Ginevra, chiedeva le parti in
conflitto di assicurare che i fanciulli, orfani o separati dalle loro famiglie a causa della guerra, non fossero
abbandonati “la convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” di New York Del 20/11/1989
affermava che “in tutte le circostanze Giulio deve essere tra i primi a ricevere protezione e soccorso”. “Un
secolo che si era aperto con bambini e che non avevano praticamente alcun diritto, si è concluso con i
bambini che possiedono il più potente strumento legale, che non solo riconosce ma protegge i loro diritti

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umani” (Bellamy, direttore Unicef). Dal punto di vista legislativo la vita dei bambini sembrava tutelata, in
realtà un’assenza di valori condivisi ed una carica d’odio fa emergere l’homo lupus homini di Hobbes: la
storia non è stata maestra di vita.

Fra le nuvole: breve storia del fumetto in Italia dagli esordi agli anni 70

Il fumetto, nato negli USA a fine 800, È stato a lungo in Italia oggetto di pregiudizi che l’hanno relegato a
sottoprodotto culturale. A partire dalla metà degli anni 60 del 900, linguistici e storici si sono accostati ad
esso con maggiore interesse. Umberto Eco e Roberto Giammanco scrissero alcuni saggi in grado di
scardinare, seppur lentamente, gli antichi precetti. All’inizio per “fumetto”, si intendeva la nuvoletta, simile
a fumo, che usciva dalla bocca del personaggio contenendo la frase pronunciata. Solo successivamente il
fumetto identificò tutta la narrazione è svolta per immagini. In Italia i “i baloons” entrarono prima in
periodici per ragazzi, in cui testi scritti erano preponderanti, per poi avere maggiore spazio e a dar vita ad
albi illustrati in cui a prevalere erano proprio fumetti.

1. Dagli Stati Uniti all’Italia: benvenuto fumetto?

Il fumetto nacque nel 1896 come supplemento domenicale del quotidiano “The New York World”.
Protagonista era un bambino irlandese Mickey Dugan, ribattezzato dei lettori e della sua stessa autrice,
Outcault, The Yellow Kid, per via del vestitino giallo che indossava. Le sue storie si svolgevano nei quartieri
poveri e multietnici di New York e rappresentavano scene di vita quotidiana in cui protagonisti erano
bambini vivaci, abituati a vivere in strada. Queste storie non erano state pensate per un pubblico di
bambini e quando vennero importate in Europa, non si ritenne appropriato che hai degli adulti si
dilettassero nella lettura di storielle illustrate. Il mondo delle letture dapprima snobbò i fumetti, tanto è
vero che in Italia la parola “fumetto” entrò nel vocabolario solo ai primi anni 60 del 900, poi inizio a cedere
per le altissime tirature di tali pubblicazioni. Ma si iniziò ad addomesticare e le strips provenienti dagli USA,
eliminando proprio le nuvolette a favore di didascalie posse a piè pagina. A fare questa opera di
modernizzazione in Italia fu il Corriere dei Piccoli, a cui seguirono altri periodici per ragazzi. Prima la stampa
per ragazzi, aveva utilizzato tavole illustrate, come nel giornale per i bambini di Martini o nel giornalino
della domenica di Vamba, ma la parte scritta era preponderante. Il corriere dei piccoli nacque a dicembre
del 1908 come supplemento domenicale per ragazzi del Corriere della Sera. La prima pagina, suddivise in
vignette colorate concatenate che davano vita ad una storia, fu subito molto apprezzata dai giovani lettori.
Le divertenti storie provenivano dagli inserti settimanali o dalle strisce quotidiani di periodici degli USA, ma
per farle accettare in Italia, le nuvolette vennero eliminate, sostituite da filastrocche a piè pagina e i nomi
vennero italianizzati: Jiggs e Maggie divennero Arcibaldo e Petronilla, happy hooligan-Fortunello, la mula
Maud, “La checca”, i pestiferi Katzenjammer Kids – Bibí e Bibó. Successivamente la conoscenza dei fumetti
USA stimolò la creatività di autori italiani che iniziarono a produrre storie autoctone. I personaggi creati da
illustratori come Attilio Mussino, Antonio Rubino, Sergio Tofano, Carlo Bisi, divertirono intere generazioni di
lettori. Non solo il borghese corriere dei piccoli, ma anche periodi per fanciulli di matrice comunista o
cattolica, per molto tempo non utilizzarono la nuvoletta.

La svolta si ebbe tra il 1932 e il 1934 quando alcuni editori si convinsero che il pubblico italiano fosse pronto
per le nuvolette. Lotario Vecchi nel 1932 lanciò a Milano Jumbo, con storie avventurose provenienti
dall’Inghilterra, e con la comparsa dei baloons. Fra il 1933 34 i fratelli Del Duca pubblicarono a Modena “il
monello” un mix tra Jumbo e il corriere dei piccoli. Ma nel 1934 a Firenze, Nerbini pubblicò l’“avventuroso”

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che utilizzava solo il fumetto e si rivolgeva ragazzi più grandi, con personaggi come: Flesh Gordon,
Mandrake, l’uomo mascherato. Nerbini aveva anche stampato Topolino in Italia. Visto il successo
dell’avventuroso, Nerbini decise di stampare Albi su un singolo personaggio. La stampa cattolica non
poteva rimanere indifferente: nel 1924 fondò il “Giornalino”, che poneva in modo divertente i valori
cattolici. I racconti erano frutto solo di illustratori italiani, come il già citato Attilio Mussino. Altro periodico
cattolico fu il “Vittorioso” che scelse di avvalersi di autori italiani e che rifletteva ideali della società italiana
invece di quella americana. Anche il Vittorioso fu un grande successo, sebbene non contenesse solo
fumetti, ma anche racconti, novelle e inchieste.

2. Fumetto sì, fumetto no: le polemiche del fascismo agli anni 50

Nonostante il successo dell’avventuroso le polemiche non cessarono. Intellettuali ed insegnanti


attribuivano alla lettura dei fumetti un impoverimento lessicale, a cui si aggiungeva l’accusa di un
linguaggio gergale e volgare; le nuvolette avrebbero favorito la pigrizia intellettuale e le immagini, la
riflessione.

A queste critiche si sovrapposero, dal 1922, quelle legate all’avvento del fascismo. All’inizio del 38 venne
avviata una violenta campagna contro quei settimanali che pubblicavano fumetti provenienti dagli USA:
venivano giudicati troppo violenti e immorali e comunque lontani dal modello cui doveva aspirare il giovane
Balilla. Venne organizzato, nel 1938, un congresso a Bologna sulla letteratura infantile e giovanile
presieduto dal poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, che fu anche l’autore del manifesto della
letteratura infantile e giovanile, nel quale venivano fissati i canoni ispirati all’ideologia fascista. Venne
decisa la completa abolizione, in relazione ai comics, del materiale di importazione straniera, sono tanti
personaggi di Walt Disney si salvarono per il “valore artistico” e la “sostanziale moralità”. I periodici per
ragazzi dovettero adeguarsi alle norme ministeriali, sostituendo il materiale di importazione con quello
nazionale. I lettori protestarono a lungo, ma fu tutto inutile: i fumetti esteri tornarono a circolare in Italia
solo con lo sbarco degli alleati in Sicilia. Con la caduta del fascismo ci fu il risveglio dei giornali a fumetti:
nell’aprile del 45 all’avventura, si aggiunse Robinson, che era la riproduzione del supplemento domenicale
di Stars and Stripes, Il giornale a fumetti di cui erano dotate le truppe americane. Robinson introdusse altri
personaggi più realistici, come Dick Tracy. Molto interessante fu italo-americano illustrato. Settimanale
illustrato bilingue, pubblicava fumetti in inglese con didascalie in italiano e viceversa. Edito dal 1946 da
Nerbini a Firenze, segno anche l’avvio della contrapposizione tra USA e unione sovietica per l’egemonia in
Europa, con la pubblicazione di fumetti filoamericani e e antisovietici. I nuovi protagonisti dei fumetti però
usavano la violenza per risolvere le situazioni, così come le donne la seduzione. Si scatenarono polemiche
sull’inadeguatezza dei fumetti come lettura per ragazzi anche a seguito di un episodio di cronaca. Nel 1949
venne assassinato a Bologna il piccolo Lamberto Bonora della sedicenne Alessandro Marani; il quale
durante la confessione, giustifico il suo crimine dicendo di essere stato suggestionato dagli albi illustrati. Si
scatena una polemica sui giornali che portavano a riflettere sull’opportunità di una legislazione sui periodici
per bambini e adolescenti. Nel 1949 la deputata democristiana Maria Federici presentò al parlamento una
proposta di legge che però si fermò al Senato perché il parlamento fu sciolto. In Italia, dopo il breve periodo
di concordia in senso antifascista, c’era un forte scontro politico tra democrazia cristiana e partito
comunista e pure entrambi erano d’accordo nell’attribuire ai fumetti la responsabilità delle azioni criminali,
senza pensare alle atrocità che i bambini avevano visto durante la guerra. In campo comunista fu Nilde,
appoggiata da Togliatti e da Pajetta, a sostenere l’inadeguatezza Del fumetto in quanto soppressore della
lettura e dell’educazione ragionamento. Posizioni diverse all’interno dei due schieramenti provennero da
Gianni Rodari, col direttore del comunista pioniere e da Domenico Volpi redattore capo del cattolico
Vittorioso. Entrambi erano convinti che il fumetto non andava demonizzato, ma accolto, rivestendolo di

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contenuti educativi e messaggi positivi. Le polemiche sui fumetti continuavano fino agli anni 70 (metà)
quando gli strali si concentrarono sui cartoni animati, nuova fonte di interesse per i bambini.

3. Una scuola italiana del fumetto: gli anni 60 e 70

Durante il fascismo si Grow una scuola italiana di autori di fumetti: si può parlare di più illustratori che di
fumettisti, Infatti erano meno abili nelle dare all’immagine un senso di movimento, ma con più fantasia nel
disegno. A tale scuola subito un arresto durante la guerra per poi riprendere nel dopo guerra. Il vittorioso e
il giornalino divennero il lato vittoriosa del fumetto italiano e molto spesso vi lavoravano gli stessi
illustratori e nel dopo guerra abbracciarono il fumetto Tout court. I fumetti di avventura e storici
affascinarono sempre più i lettori. Ottimi illustratori come Franco Caprioli, Renato Polese, Carlo Boscavato
trasportarono i ragazzi in storie a sfondo biblico, ambientate nel risorgimento e perfino nella guerra del
Vietnam. Sono anche da citare i fumetti umoristi come Procopio di Lino Landolfi e Zoolandia di Sebastiano
Craveri e poi Jacovitti, per il Vittorioso, con il suo strampalato pistolero Tex Revolver antesignano di Cocco
Bill. Successo ebbe anche Capitan Walter, sempre legato alla scuderia del Vittorioso. Ma tra gli anni 50 e 60,
il Vittorioso, non riuscendo ad adeguarsi ai tempi, subì un netto calo delle vendite che nel 1967 lo porto alla
fusione con Vera Vita ed assunse il nome di Vitt, ed inizio ad importare le storie dall’estero fino alla sua
cessazione nel 1970. Frei personaggi del fumetto nati nel dopo guerra, grandissima fortuna ebbe Tex Willer
(1968) Ideato da Gianluigi Bonelli e illustrato da Galep (Aurelio Galleppini). Tex nasceva come fuorilegge ma
poi, per motivi educativi, divenne un ranger pronto ad assicurare alla giustizia i malfattori. Nel 1962
nasceva Milano Diabolik: il successo fu immediato nonostante le critiche perché era un geniale ladro e
assassino, seppure con suo codice morale, che risultava sempre vincente sul commissario Ginko. In più
c’era la sua compagna, non moglie, Eva Kant, complice del protagonista e i due rubavano per acquisire
ricchezza personale.

Nel campo cattolico l’eredità del Vittorioso fu raccolta dal Giornalino che, consapevole del suo ruolo
educativo, proponeva figure positive di eroi che utilizzavano l’intelligenza prima della forza, come il
commissario Spada, il cowboy Larry Yuma e il detective Dev Bardai. Nonostante dalla metà degli anni 60
intellettuali con Umberto Eco, Elio Vittorini ed Oreste Del Buono si schierassero a favore del fumetto, il
boom degli albi stava concludendosi, surclassato negli anni 70, da nuovi linguaggi mediatici.

4. Il fumetto al femminile

I fumetti vengono considerate letture inadatte per le bambine. Entrambi i principali generi del fumetto,
quello avventuroso e quello comico, non si confacevano all’educazione femminile, il primo perché le
bambine avrebbero dovuto trascorrere la loro esistenza nella tranquillità delle mura domestiche, lontano
da qualsiasi avventura, il secondo perché esulava dalla compostezza di una fanciulla per bene. Alcuni editori
però pensarono lo stesso di introdurre in Italia fumetti pensati per le bambine. Infatti, nel 1933 fu
pubblicato a Milano prima rosa in cui vennero presentate storie importate dall’Inghilterra come la celebre
Little Annie Rooney, tradotta come Fragoletta. La testata fu chiusa nel 1937 vittime del regime fascista.
Durante il fascismo alle bambine, pure spinte alla mobilizzazione sociale attraverso l’inquadramento nelle
piccole italiane, venne riposto il consueto ruolo di moglie e madre, con funzioni prevalentemente
procreativa. Ne è testimonianza il periodico La Piccola Italiana che riproponeva alle letture tale modello.
Dopo la caduta del regime si continuarono a preferire per le bambine periodici in cui il testo scritto
prevalesse sulle immagini e la matrice educativa fosse predominante. Nel 1947 la Vispa Teresa porta una
ventata di novità nel panorama della stampa per bambine, sia per l’utilizzo del fumetto sia per le
protagoniste, di sesso femminile. Grande successo te ne personaggio di Mimi Bum, un’intraprendente
ragazzina, anche molto sventata, che finiva sempre nei guai. Nel dopo guerra, con la ricomparsa dei comics
importati dall’estero, apparivano figure femminili con una forte sensualità esibita. La donna non era
mostrata come angelo del suo collare ma come oggetto sessuale, donne pronte a passare da un flirt

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all’altro, in balia dell’attrazione fisica e non di un sentimento profondo. Si cerco di correre ai ripari
proponendo nei fumetti modelli tradizionali che cominciavano però ad avere scarsa presa sulle ragazze. Il
68 portò un cambiamento anche in questo campo. Nel 69 fece la sua prima apparizione sul Corriere dei
Piccoli, Valentina Mela Verde, un undicenne alle prese con problemi adolescenziali e scontri generazionali.
Valentina era una ragazza moderna attenta al look e ansiosa di piacere ai compagni di scuola, ma senza
dimenticare i valori familiari e morali. Nel 69 anche sul Giornalino fecero la comparsa le prime protagoniste
femminili: Nelly, volontaria della Croce Rossa, e Susy una vivace ragazzina dai capelli rossi. Un altro anno di
svolta fu il 1975 dichiarato anno internazionale della donna. In quell’anno l’unione italiana stampa periodici
per ragazzi diffuse uno studio in cui si ribadiva il ruolo marginale delle donne all’interno delle storie. Il
Giornalino recepire appello e inizio a pubblicare una serie di fumetti che avevano come protagoniste
bambini o adolescenti intraprendenti e dinamiche.

5. Bambini fra le nuvole

I fumetti ebbero una grandissima incidenza della vita dei bambini del 900, ne sono testimonianza le alte
tirature, le lettere di ammirazione scritte alle radiazioni dei periodici, i blog di oggi dedicati ai personaggi
dei fumetti di ieri. Durante la resistenza alcuni partigiani scelsero come nome di battaglia quello del loro
fumetto preferito. Bisogna però sottolineare che non tutti i fumetti avevano per protagonisti i bambini,
nella maggior parte dei comics avventurosi, il protagonista era un adulto (Tex, Diabolick, Mandrake).
Questo può avere un duplice motivo: il 1º è che fumetti importanti, originariamente degli USA, erano nati
per gli adulti, il 2º è riconducibile alla capacità degli editori di intercettare il desiderio del bambino di
proiezione verso il futuro, immedesimandosi in una figura adulta in grado di affrontare e risolvere i
problemi. Nei fumetti comici invece era ricorrente il bambino terribile. In alcuni periodici nati con una
matrice educativa, e fino agli anni 30, i modelli finiscono per avere punizioni esemplari. In altri, come ad
esempio il Corriere dei Piccoli, i bambini riuscivano a tenere il sacco gli adulti, beffandosi di loro. Durante il
fascismo i bambini di “carta” vengono anch’essi militarizzati: bambini in divisa da Balilla che sfilano con
coraggio i pericoli. Dopo la caduta del Fascismo i bambini dei fumetti tornarono in abiti civili e pronti a
combinare marachelle. Nel 68 ci sarà un nuovo modello di fanciullo: un bambino vivace ma capace di
volgere al positivo i guai provocati. Si può parlare quindi di una maggiore fiducia nelle potenzialità del
bambino.

I lettori bambini nelle riviste per l’infanzia italiani di 1º 900

La centralità del bambino riconosciuta da Ellen Key all’inizio del novecento, attendo un grande favore in
Italia, sia da parte di specialisti sia della cultura in generale. Lo mostrarono gli studi di Maria Montessori,
ma anche alcuni salotti letterari come casa Lombroso. Era chiaro il monito della Key: Il novecento si
sarebbe qualificato secolo del fanciullo, se gli adulti fossero riusciti a penetrare nel regno quasi ignoto
dell’anima infantile. Questo pone lo studioso davanti al problema delle fonti: dal punto di vista
storiografico è più comune vedere i bambini del passato attraverso il filtro descrittivo dell’adulto che
sentirne la voce diretta. Ecco perché è complesso lo studio dei bambini come attori della storia. Rimane
importantissima dunque la riflessione di Egle becchi circa l’indecifrabilità Dell’infanzia come categoria E
la sua comprensione solo sotto il profilo fenomenologico. Da qui le indagini per ricostruire squarci di
infanzia in contesti socioculturali specifici che sono singoli tasselli del più ampio mosaico che riguarda
l’infanzia del passato. Le riviste per ragazzi costituiscono un ambito di ricerca storico-educativa e storico-
letteraria per comprendere il ruolo svolto dai lettori reali e ideali. Un cambiamento si registra nella
pubblicistica per l’infanzia nei primi 15 anni del 900 “l’età Giolittiana”.

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1. Un pubblico di lettori in via di espansione

Lo sviluppo del settore delle riviste italiane è legato al processo di industrializzazione. Gli anni della Belle
Époque furono anche i tempi in cui si diffusero supplementi illustrati dei quotidiani, come “l’illustrazione
italiana” e “la domenica del corriere” che avvicinare un pubblico eterogeneo di lettori, a volte digiuni di
lettere ma curiosi. I processi di alfabetizzazione dall’unità d’Italia avevano portato grossi miglioramenti
nelle percentuali di scolarizzazione infantile alfabetizzazione adulta, così che donne e bambini sono i nuovi
protagonisti della lettura. Ci fu, nelle riviste per ragazzi, una crescente presenza femminile di scrittrici quali
Laura Cantoni, Orvieto, Amelia Rosselli, Maria Pezzè Pascolato, Rosa e Anna Errera

Tra ottocento e novecento impegno femminile si evidenziò nella direzione di riviste e nella cura di rubriche
in modo da favorire la partecipazione dei lettori. Ecco allora Ida Baccini alla direzione di “Cordelia” ed il
“giornale dei bambini”, Sofia Bisi Albini a capo della “rivista per le signorine”, Pada Carrara Lombroso nella
rubrica “corrispondenza” sul “corriere dei piccoli”. Le infanzie borghesi alfabetizzate facevano ampio uso
dei periodici come spazio di lettura gratuita, “amena “, per distinguerla da quella scolastica, mentre i
bambini delle classi popolari erano esclusi, in quanto la rivista era considerata un bene non di primaria
importanza. Quindi esiste una forte divaricazione tra una élite di giovani lettori desiderosi di ampliare i
propri interessi letterari e una schiera di bambini per i quali la lettura era preclusa per le condizioni
socioeconomiche svantaggiate e per una stentatezza nel leggere. Nella maggior parte delle famiglie italiane
l’unico libro presente, a parte la Bibbia, era il testo scolastico della scuola elementare. Ci furono
allargamenti del pubblico di lettori tra le fasce meno abbienti quando rivisto come il “corriere dei piccoli” si
appoggiarono alla distribuzione dei quotidiani, il “Corriere della Sera”. Si sviluppò un acquisto anche
occasionale del giornalino, raggiungendo nuovi lettori. Nel ventennio Fascista i sistemi di produzione
editoriale divennero industriali, ciao porto a tirature più elevati e costi più contenuti e quindi ad una
maggiore diffusione e vendita di riviste per ragazzi, come l’avventuroso, Topolino, il giornalino della San
Paolo, il vittorioso dell’azione cattolica e il Balilla, in ambito scolastico.

2. Lettori in dialogo

Nella pubblicistica per l’infanzia dell’età Giolittiana il disegno educativo era volto a riconoscere la centralità
del bambino e quindi esso non era un fruitore passivo delle proposte, ma un interlocutore che donava la
rivista le proprie riflessioni su quelle letture che avevano nutrito la sua anima. Aprire il proprio cuore ad un
interlocutore adulto è un atto di fiducia che si alimenta se il proprio siro è deriso minimizzato. Così l’adulto
si mette in gioco parlando di sé non per assumere un ruolo di perfezione ma per esprimere consigli. Dalla
asimmetria educativa più autoritaria dell’800 si passa ad una relazione più paritaria nel 1º 900. Ovviamente
la distanza data dalle parole di carta permetteva di ricalibrare la relazione a distanza sui livelli della possibile
complicità anche se potevano sempre esserci i meccanismi di strumentalizzazione ideologica. Tale dialogo
avvenne principalmente nelle rubriche. La rubrica della “Posta” era già diffusa sulle riviste dell’ottocento.
Poi si diffusero rubriche destinate ad ospitare le prove letterarie dei lettori. Ad esempio, sul “Corriere dei
piccoli” nella “palestra dei lettori” si pubblicavano barzellette e giochi enigmistici. C’erano anche rubriche in
cui rispettivi curatori offrivano risposte ai quesiti di natura culturale. Sul corriere dei piccoli l’autorialità
infantile dei racconti rimase un’eccezione, in quanto permaneva la concezione che la scrittura, in quanto
arte, è propria degli adulti. La proposta letteraria rimaneva quindi nelle mani dell’adulto. La linea culturale
e l’originalità letteraria erano sotto il controllo del direttore, Silvio Spaventa Filippi, mentre nelle rubriche
c’era una maggiore polifonia di voci. La stretta sorveglianza favorì la longevità del periodico che attraversò
tutto il 900, cessando la pubblicazione nel 1995. Il giornalino della domenica fondato da Vamba (Alias Luigi
Bertelli) diede ampio spazio alla scrittura letteraria. Le sue pagine erano così dense del pensiero bambino,
che spinsero la direzione a pubblicare anche un supplemento “Il Passerotto”, gazzettino della maturità
presente e futura diretto da Omero Redi, pseudonimo bambino di Ermenegildo Pistelli. Il mensile ospitava
poesie, racconti e disegni di bambini che in molti casi sarebbero diventati autori per ragazzi come Mary
Tibaldi Chiesa, Milly Dandalo, Emilia Salvioni. Nel giornalino non erano ammesse presenze adulte al di fuori

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della redazione a tutela della genuina e spontanea espressività giovanile. Lungo tale itinerario si consolidò
un comune sentire all’interno del gruppo dei lettori e si infittirono i rapporti epistolari tra abbonati e
favorivano il processo di fidelizzazione dei lettori. Le occasioni di scambio si moltiplicavano grazie all’abile
regia del Vamba, che oltre ad avvicinare i lettori con concorsi e premi, prendendo spunto da giornali
francesi che proponevano gite fra gli abbonati, nel 1908 istituì la festa del Grillo. Erano dei veri e propri
raduni fiorentini in occasione dell’ascensione dove i lettori bambini potevano incontrarsi. Ciò portò alla
nascita della confederazione giornalinesca del girotondo (1908) cioè uno “stato balocco” presieduto da
Vamba e con un governo centrale fiorentino guidato da Giuseppe Fanciulli, un esercito sotto Filippo
Scarpelli e un organigramma di prefetti e sindaci bambini con cariche elettive nelle diverse città italiane.
Vamba voleva così proporre un modello utopico alternativo a quello trasformista dell’età Giolittiana,
criticato per malgoverno e corruzione, puntando sui cittadini del futuro che stavano crescendo tra le pagine
del “Giornalino della Domenica”. Si proiettava il lettore bambino nel futuro e si tingeva di valenze politiche
il suo percorso di crescita. Tra quei lettori cresciuti nella famiglia giornalinesca molti persero la vita per la
causa patriottica nazionalista, in altri la vittoria mutilata lascio un non sopito desiderio di rivincita. Ciò
condusse spesso a salutare con entusiasmo l’avanzata del fascismo con le sue promesse di ordine e stabilità
per il paese.

3. Tra lettore ideale e lettore reale

Nei periodici per ragazzi si introdussero cambiamenti anche dal punto di vista estetico come nuovo modo
per comunicare oltre alle forme più tradizionali di scrittura realistica. Spesso per gli scrittori questo costituì
un laboratorio per sperimentare nuove forme espressive. Tale rappresentazione dell’infanzia, il rimedio al
lettore reale, costituiva un’identificazione o un modello al quale ispirarsi. Sulle riviste fecero dunque la loro
comparsa fotografie di rampolli dell’aristocrazia nostrana, che con il loro aspetto distinto e ordinato, tra
merletti e nastri nei capelli, alimentavano l’immaginario del lettore reale. Questo permetteva anche
possibili confronti con i personaggi infantili che popolavano racconti e filastrocche. La rappresentazione
letteraria di bambini lettori non era una presenza specifica in riviste come il Giornalino della Domenica o il
Corriere dei Piccoli, che non si rivolgevano allo scolaro ma al lettore borghese abituato a leggere nella
quotidianità del tempo libero, che non necessitava di essere spronato della lettura. Ecco allora personaggi
come Gian Burrasca di Vamba, o omero Redi di Pistelli, irriverenti protagonisti di sagaci avventure, emblemi
di trasgressione, non inquadrabili nelle rigide regole della scuola. Entrambi sbeffeggiavano la cultura, della
quale però erano nutriti. Sul Corriere dei Piccoli l’infanzia disinvolta era presente nei fumetti provvisti di
didascalia. I personaggi di Antonio Rubino come Quadratino o Pierino, o Pino e Pina, si avvicinavano al
sapere senza mai abbracciarlo completamente. Ma l’assoluta novità di bambini di carta come Giannino
Stoppani o Omero Redi consisteva nella loro fisionomia multidimensionale; le loro personalità non erano
“flat”, ma “round” cioè avevano tratti positivi e negativi che non permettevano all’inizio di prevedere il
comportamento. Sia Giannino Stoppani che Omero Redi erano figure infantili spigliate, mentalmente
autonome dagli adulti, la loro crescita rimaneva nell’ombra, mentre risaltava l’imprevedibilità di un agire
sempre nuovo. Si mirava a formare un lettore dalla personalità decisa e intraprendente. I bambini
guardavano con complicità Gian Burrasca e Omero Redi, le bambine avevano Cavalletta, l’esempio di
bambina agile e dinamica, amante dei giochi in libertà, curiosa e un po’ resistente all’assiduità nell’impegno
scolastico. In questo modello potevano riconoscersi molte lettrici del tempo: si avverte la portata di un
cambiamento nella concezione di femminilità. Nel Corriere dei Piccoli ad esempio veniva valorizzata l’idea
di mobilità giovanile. In molte novelle era sottolineato il tema del viaggio come scoperta di luoghi e culture.
La narrazione divenne spinta all’uscita femminile dell’ambiente domestico. Racconti come “Oh che gioia
viaggiare da sola” o “Storia di un baule, di una torta e della Lodovica”, non erano esempi di spregiudicata
ribellione ma desiderio di autonomia e conoscenza.

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Anche il linguaggio utilizzato doveva rispondere ad un profilo estetico: ci doveva essere un equilibrio tra
densità di pensiero e scelta melodiosa delle parole. La bellezza presente nelle parole nutre l’animo verso
verità e bontà e muove verso un agire più responsabile. Da qui la lettura poteva diventare chiave d’accesso
anche popolare di elevazione culturale collettiva e di partecipazione. Sulla base di tali principi sul “Corriere
dei Piccoli” comparvero articoli informativi sulla lettura e sui libri: biblioteche per ragazzi, librerie
consentivano di conoscere le opportunità di incontro del libro anche presso bambini del ceto popolare. Sul
Corrierino vennero raccolti dei fondi necessari alla diffusione dei libri nelle scuole rurali. Nel Giornalino
della Domenica del Vamba veniva data importanza alla scrittura creativa come via di modellamento di sé.
Nei testi informativi era data la possibilità ai ragazzi di conoscere gli scrittori e le loro opere contribuendo
ad alimentare la curiosità verso l’arte letteraria e magari a ricaricarne le orme. Il bambino era dunque
tenuto in considerazione dalle redazioni e sempre più protagonista nel rappresentare il lettore ideale e i
lettori reali, rimanevano sempre ampi margini di scarto legati alla trasformazione del lettore reale nel
mutevole variare di gusti e nello sviluppo di nuove competenze che ciascuno man mano elaborava.

Nuove pratiche di lettura

L’analisi delle rubriche della posta ha rivelato i nomi dei lettori permettendo di rivelare che, spesso, non
erano lettori esclusivi di una testata giornalistica, ma di lettori trasversali. Ciò si verifica per il pubblico
femminile, in cerca di nuove legittimazioni anche in ambito giornalistico e letterario. Le bambine scrivevano
alle riviste raccontando di sé e, diventate ragazze, magari aspiravano alla direzione di un giornale come
Dedè Dore lettrice di vari periodici per ragazzi con l’intento di farne parte, o Marianna Montale, sorella di
Eugenio, che con svariati pseudonimi, pubblico versi opinioni personali. Nel 1910 divenne redattrice
responsabile di “Lucciolina” mensile per bambini tra 10-15 anni. Nasceva per volontà di Teresa Feltrinelli,
già abbonata a Lucciola, rivolta ad una élite di giovani donne. Erano periodici originali perché scritti a mano
su un’unica copia che circolava tra soci che scrivevano la loro parte per poi passarlo alla socia successiva.
Un modello analogo era già presente in Inghilterra, Francia e Germania. Lucciolina conteneva novelle,
poesie, fotografie, disegni, contributi più tradizionali come cucito e ricamo, recensioni di nuove opere
letterarie. Si riscontra anche la tendenza a seguire le riviste per essere aggiornati sulle novità letterarie
alimentando la lettura di altri libri e innescando una circolarità di lettura. Un altro aspetto importante è
quello di favorire pratiche di letture eterogenee. Ciascun fascicolo poteva essere letto in modo selettivo e la
lettura poteva essere interrotta e ripresa distanza di tempo. I bambini esercitarono sempre più la loro
libertà di scelta, attivando modalità di lettura personali. Nell’età Giolittiana, almeno in tale contesto, pare
iniziare il secolo del fanciullo come auspicato da Ellen Key nel suo celebre saggio.

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