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PEDAGOGIA GENERALE > libro: lezioni di pedagogia fondamentale

LEZIONE 1
EDUCAZIONE= fenomeno umano universale.

Ogni società umana ha prodotto una cultura ovvero un sistema di valori, comportamenti, norme, simboli
che per essere trasmessi, conservati e rinnovati hanno reso necessaria l’educazione. È stata assicurata
dunque la continuità tra le generazioni introducendo i più giovani alla cultura di appartenenza. Per
comprendere il ruolo dell’educazione, occorre avviare una prima indagine empirico-storica ovvero si
devono individuare le molte educazioni cui il genere umano ha dato vita nel corso della sua evoluzione,
interagendo con variabili sociali e culturali differenziate, in fasi specifiche e all’interno della loro storia e
geografia.

1.1 L’educazione nella preistoria le civiltà orali

L’educazione è intesa come cura e allevamento dei bambini in quanto nuovi membri di una comunità. Ciò
che caratterizzava queste antichissime civiltà preistoriche era un’educazione naturale, spontanea e
informale basata sul linguaggio (proverbi, racconti, canti...) e sull’imitazione. Queste prime forme di
educazione orale avevano un carattere comunitario (come in Africa). Infatti, al di là delle diversità fra popoli
alla cultura africana delle origini viene riconosciuta un’unità relativa. L’educazione era un processo di
socializzazione basato sulla conformazione>mirava ad integrare gli individui nelle norme e nei valori della
comunità del villaggio valorizzando la coesione e la solidarietà.

L’educazione alla parola dunque è centrale poiché il linguaggio non era solo un mezzo di comunicazione,
ma rappresentava anche il legame naturale della comunità (infatti la civiltà africana è nota come “civiltà
della parola”). Dal confronto con l’educazione africana vi sono alcune caratteristiche comuni a tutte le
società senza scrittura: era un’educazione informale che si realizzava attraverso la parola e rifletteva una
struttura sociale gerarchica basata sul dominio degli uomini sulle donne, dei primogeniti sui secondogeniti,
dei vecchi sui giovani> facendo dunque del sapere una forma di potere che detenevano maggiormente gli
anziani.

1.2 Le prime civiltà della scrittura e la nascita dell’educazione formale.

La nascita della scrittura viene attribuita alle civiltà fluviali della “Mezzaluna Fertile”, dove l’educazione
andò assumendo compiti, metodi e contenuti originali. All’interno di una rigida stratificazione sociale
nasceva un’educazione formale affidata a sacerdoti e scribi (destinata ai ceti elevati), mentre per i ceti più
umili era sufficiente un’educazione informale affidata alla famiglia. Quella degli scribi era un’educazione
basata su un modello autoritario che prevedeva punizioni corporee. Tra le più antiche tribù nomadi della
Mesopotamia troviamo anche gli Ebrei, la loro educazione si intrecciava strettamente con la religione ed
era basata sull’insegnamento biblico (Torah). Oralità e scrittura erano entrambe al servizio
dell’insegnamento religioso affidato: alla famiglia, alla società e alle scuole. Ciò che accomuna le differenti
educazioni delle prime civiltà è un modello educativo rigido e autoritario, basato su metodi di studio
coerenti con un immobilismo sociale presente per esempio nelle culture asiatiche, dove l’educazione era
legata a particolari visioni filosofiche e religiose. L’educazione indiana, per esempio, è affidata alla
trasmissione orale e ad un rapporto intimo tra il maestro e il discepolo. Un momento centrale del percorso
educativo era l’iniziazione, considerata una seconda nascita e riservata solo alle caste superiori. Rispetto
agli indiani, i cinesi davano maggiore peso all’educazione formale e alla scrittura come mezzo di
trasmissione culturale e come veicolo di civiltà destinata alla formazione d’élite. In seguito, l’educazione
cinese fu influenzata dal pensiero di Confucio, il quale sosteneva la necessità di uno stato educatore al
servizio del popolo.

1.3 L’educazione nel mondo antico: I Greci e i Romani


Durante il periodo arcaico l’educazione greca era affidata all’oralità e ispirata ai valori dell’aristocrazia
guerriera: la virtù e l’onore. Si trattava di un ideale educativo aristocratico, del quale i poemi omerici (Iliade
e Odissea) sono la più importante testimonianza. Con l’affermarsi e il diffondersi della polis, l’educazione fu
strettamente collegata alle questioni di ordine politico e sociale, anche se è bene ricordare che tra le poleis
ci furono conflitti come la lotta tra Sparta-Atene. Quella spartana fu un’educazione di stato e
prevalentemente guerriera, basata sull’addestramento militare dei giovani maschi e femmine. Sparta fu
eclissata da altre poleis, in primo luogo da Atene, che all’educazione del guerriero preferì la formazione del
cittadino, da cui erano escluse le femmine, per le quali era sufficiente l’educazione. Le fonti classiche ci
consegnano l’immagine di una società consapevole dell’importanza dell’educazione e del ruolo assegnato
alla cultura: è da questa consapevolezza che nacque il concetto di paideia> formazione integrale dell’uomo
e del cittadino. Con il declino della polis e l’ampliamento dell’impero greco, la paideia greca si diffuse in
tutta l’area mediterranea e orientale fino ad arrivare a Roma. Affidata alla famiglia per i primi sette anni
l’educazione diventava poi pubblica e veniva svolta da due importanti figure educative: il maestro aveva il
compito di insegnare a leggere, mentre il pedagogo aveva il compito di ripetere le lezioni del maestro
(questa era un’istruzione primaria). Solo i Romani appartenenti all’aristocrazia ricevevano l’insegnamento
secondario e superiore dedicato agli studi liberali. In età imperiale, lo Stato si fece sempre più attento al
controllo dell’istruzione, più di quella superiore che di quella elementare>scopo di favorire una coesione
culturale all’interno dell’Impero.

1.4 L’educazione cristiana dalla tarda antichità al medioevo

La paideia classica venne sostituita con la perfectio cristiana, incentrata sulla figura di Gesù Cristo: il nuovo
fine dell’educazione era visto nella salvezza dell’anima che si realizza nell’interiorità attraverso un percorso
di formazione. Si trattava di un’educazione che, dopo il battesimo, veniva rivolta ai bambini e adulti da
parte prima di persone che si improvvisavano maestri, poi di sacerdoti. Se l’educazione altomedievale era
organizzata in forme diverse e contrapposte> formale e raffinata nei ceti aristocratici, orale e legata
all’immaginario quella popolare; nel basso medioevo invece l’educazione subì una profonda trasformazione
in direzione borghese> nascono strutture educative come l’università, le botteghe che insieme alla famiglia
come primo luogo educativo caratterizzano poi l’Età Moderna.

1.5 L’educazione islamica

L’educazione islamica era finalizzata alla conoscenza del Corano ed era in primo luogo affidata alla famiglia
(primo ambiente educativo). Si trattava di un’educazione informale, religiosa, morale, sociale, affidata
all’oralità, al racconto di fiabe e favole che diventavano l’occasione per svolgere lezioni di morale; tutto era
finalizzato a trasmettere le regole della buona educazione rivolta ai bambini/e. Al compimento del 7imo
anno di età le bambine rimanevano a casa mentre i bambini continuavano l’istruzione di base e chi poteva
permetterselo continuava a studiare anche dopo i 13 anni.

1.6 L’ascesa dell’Occidente: l’educazione dalla modernità all’età contemporanea

L’educazione occidentale europea visse nell’età moderna una rivoluzione: con l’Umanesimo e il
Rinascimento cambiarono i fini dell’educazione che venivano ora rivolti al modello già classico dell’homo
faber, di un soggetto attivo nella società e capace di trasformarla. La famiglia e la scuola acquistarono
sempre più importanza poiché investite di un compito che non era più solo di cura e di istruzione, ma anche
di formazione personale e sociale. La rivoluzione industriale diede vita ad un mondo geograficamente e
socialmente diseguale. Nella seconda metà del 900, gli spazi e i tempi dell’educazione si sono allargati:
insieme all’educazione formale si diffuse sempre più un’educazione informale svolta dalla famiglia,
dall’ambiente, dal lavoro e dai media. Oggi nel terzo millennio da più parti si riconosce purtroppo una
diffusa “povertà educativa” e una crisi mondiale di apprendimento. Circa 57 milioni di bambini/e nel mondo
non hanno accesso all’istruzione e 250 milioni vivendo in contesti svantaggiati e disagiati sono analfabeti.
Oggi dunque, l’educazione, quale fenomeno umano universale di qualità, non si è diffusa in modo equo nel
nostro pianeta. Di questi fenomeni la comunità internazionale dovrà tener conto, promuovendo
un’apertura interculturale e inclusiva al di là della dimensione occidentale> così si potrà porre fine alla crisi
e raggiungere l’obiettivo di un’educazione universale, rispettosa delle differenze e rivolta a tutti come una
comune opportunità di sviluppo e di autentica crescita umana.

LEZIONE 2 > Le emergenze dell’educazione contemporanea


Facendo riferimento alle società occidentali post-industriali rintracciamo i bisogni educativi che nell’epoca
contemporanea assumono un carattere di maggiore emergenza rispetto agli altri.

2.1 Tra immagine e comunicazione

Le società post-industriali vengono definite da più parti società dell’immagine. Si verifica, che nella
comunicazione (soprattutto quella mediatica) l’informazione va smarrendo il suo contenuto verbale;
l’immagine diventa messaggio. Ora la società dell’immagine è anche riconosciuta come società della
comunicazione: la comunicazione è strettamente legata al nostro modo di conoscere la realtà, pertanto, il
dominio di una comunicazione visiva rende l’immagine la più importante forma di conoscenza (a discapito
della parola orale e scritta). Sempre più spesso il mostrare prende il posto del dimostrare in tal senso si
parla ad oggi di una politica e società della post-verità> ciò che è di facile accesso, l’immagine o le forme di
comunicazioni mediatiche e virtuali sono “la verità”. Le nuove generazioni vengono definite “native digitali”
proprio perché nate dentro una cultura tecnologica. Un altro aspetto delle società post-industriali è la
velocità nei consumi in corrispondenza alla velocità del flusso delle immagini, si è alla ricerca costante di un
godimento effimero attraverso gli oggetti. Inoltre, è avvertita diffusamente la pressione dovuto ad una
costante mancanza di tempo nelle attività che si svolgono durante il giorno (cultura della fretta che spesso è
causa della schizocronia). Il predominio dell’immagine e la “cultura della fretta” incidono in modo
significativo anche nei contesti educativi, in primo luogo in quelli familiari e scolastici.

2.2 il bambino “sovrano” /” adorato”


Le indagini psico-sociali svolte nel nostro Paese sottolineano come i bambini/e di oggi siano
sempre più soli, infatti l’andamento demografico ci indica che aumentano sempre di più i figli
unici. Possiamo osservare ancora altre trasformazioni, non è più scontato come una volta che la madre sia
housekeeper e il padre breadwinner; tanto la madre quanto il padre oggi si trovano impegnati nelle attività
di cura del bambino anche molto piccolo. Ciò causa il controllo della procreazione, insieme alla scelta e alla
programmazione (il “bambino programmato”) del momento in cui avere il bambino creando così un figlio
più adorato che amato. Nelle nuove famiglie adottive è il figlio che fa la famiglia in passato invece era la
famiglia che faceva il bambino. I bambini sembrano chiamati a mettere in gioco le loro abilità e capacità in
funzione di desideri prestabiliti dagli adulti, senza che il reale desiderio di creatività del bambino sia
realmente ascoltato e lasciato libero di esprimersi. Questa mancanza di ascolto è legata all’assenza di
empatia e denota che proprio la famiglia affettiva è segnata da una sorta di “emotivismo” che si traduce
paradossalmente in una difficoltà relazionale e comunicativa. In secondo luogo, la “regalità” del bambino
sovrano è uno dei fattori di un rifiuto da parte della famiglia di imporgli qualsiasi forma di norma. Tale
cambiamento nell’educazione si lega ad una trasformazione dei ruoli genitoriali: vi è uno slittamento dalla
“famiglia normativa” tipica delle generazioni del passato, all’attuale “famiglia affettiva”.

2.3 Preadolescenza, adolescenza e post-adolescenza: perché si è rotto il patto tra le generazioni.

L’adolescenza non è affatto un periodo della vita riconosciuto in tutte le culture e non lo era in passato.
L’adolescenza nasce contestualmente alla società industriale, che consenti ai bambini e ai giovani più lunghi
periodi di scolarizzazione rendendo più prolungata e complessa la transizione all’età adulta. Con l’avvento
della psicanalisi, l’adolescenza verrà considerata una vera fase “psicopatologica”. Quello a cui assistiamo
oggi, nelle società occidentali, è un tempo dell’adolescenza che si sta allungando sempre di più: un
prolungamento dell’adolescenza perlomeno di una decina d’anni, che viene definita post-adolescenza. Il
consumismo esperienziale sembra spingere gli adolescenti di oggi ad “essere” attraverso ciò che possono
possedere e mostrare; i più giovani sono particolarmente sensibili all’influenza di far prevalere l’immagine
su tutto, si tratta di un atteggiamento che si può definire “estetizzante”.
Non è da sottovalutare nemmeno però che vi è un desiderio genitoriale di perpetuare la protezione e la
dipendenza dei figli anziché promuovere e favorire la loro autonomia e indipendenza; i figli vengono
“protetti” dalla fatica dell’individuazione, unica via per una separazione. Secondo Charmer la cultura
adolescenziale di oggi può essere definita dalla figura di Narciso: i figli, sempre più spesso unici, sono
preziosi e rari e, quindi vanno protetti a qualunque costo. È facile intuire che l’adolescente “Narciso” è
l’esito del bambino “sovrano”. Per i genitori, esercitare la propria autorevolezza è vissuto come un
tentativo di limitare la libertà del figlio in crescita, evitando il più possibile di entrare in conflitto con lui.
Nasce così quella che è stata definita “la famiglia negoziale”, cioè un sistema familiare caratterizzato da una
contrattazione continua tra genitore e figlio. Nonostante questa negoziazione continua, assistiamo a forme
di totale incomunicabilità. Quindi c’è un problema educativo che possiamo individuare in una scarsa qualità
della comunicazione tra le generazioni che sembrano non ascoltarsi.

2.4 La condizione giovanile: frammentazione del lavoro, famiglia lunga e impegno nel volontariato.

Anche la società contemporanea sta attraversando diverse trasformazioni in ordine economico. La


disoccupazione giovanile si alterna spesso con l’occupazione a tempo determinato, comportando un
avvicendarsi di fasi lavorative e periodi di disoccupazione. Sia la disoccupazione sia la precarietà hanno
ormai assunto un carattere non solo giovanile. In Italia la crisi economica e i livelli di disoccupazione stanno
raggiungendo livelli preoccupanti, infatti, la popolazione giovanile italiana si caratterizza per la più alta
percentuale di Neet. Si tratta di giovani che non studiano e non lavorano la percentuale di questi giovani in
Italia è superiore alla media europea. È necessario, tuttavia, riflettere su un altro dato: la maggior parte dei
Neet si dichiara poco disponibile ad impegnarsi in talune attività lavorative o lo è solo ad alcune condizioni.
Questo avviene in risposta ai cambiamenti socioeconomici che sono fonte di profonda incertezza e
registrano un aumento della sfiducia del futuro percepito come una minaccia. Così sembra che a mitigare
questo quadro di incertezza rimanga ancora centrale la funzione di “rifugio” della famiglia d’origine nella
vita del giovane adulto; la famiglia, infatti, si configura come unico riferimento sicuro > fenomeno
tipicamente italiano della “famiglia lunga”. A fronte di questo quadro relativo alla condizione giovanile in
Italia, ce ne sono altri di segno opposto. Un esempio concreto è rappresentato dal volontariato in Italia che
presenta una tendenza in crescita. Il volontariato, con il suo grado di apertura all’altro e la sua carica
generativa, rappresenta un’esperienza che può sostenere il processo di costruzione dell’identità sociale e
civica e può essere un nodo fondamentale della rete relazionale in cui i giovani possono inserirsi.

2.5 Cambiamenti della famiglia

La precarietà lavorativa sembra legarsi anche ad altri cambiamenti, si parla ad oggi anche di una precarietà
affettiva. Molti giovani adulti lamentano di non riuscire a progettare una vita “in coppia” né tanto meno a
coltivare l’idea di diventare genitori, proprio a causa dell’instabilità lavorativa: i figli “costano”. Tra i giovani
adulti si riduce la transizione al ruolo di “genitori” e l’età media alla nascita del primo figlio tende a
spostarsi sempre più avanti di generazione in generazione. Tuttavia, il “il costo dei figli”, non è solo un costo
economico: le motivazioni si riferiscono al costo di un investimento temporale, ma anche al costo in termini
di opportunità di vita dei potenziali genitori. Si tratta, allora, più del costo emotivo di una scelta
“irreversibile” che di un costo puramente economico: intimorisce l’dea che la transazione genitoriale, a
differenza di tutte le altre pare, l’unica da cui non si possa più recedere. Oltre a questo, si aggiungono altri
cambiamenti che interessano la famiglia: il matrimonio non è più una scelta prevalente e si assiste ad una
pluralizzazione delle fonti familiari. I cambiamenti che interessano l’istituto del matrimonio sono
rintracciabili nella riduzione delle prime nozze, nell’aumento delle seconde e successive, in una crescita
della scelta della convivenza e in un aumento delle separazioni e divorzi. Tutto ciò ha modificato inoltre, un
vocabolario essenziale in cui le parole “famiglia” e “amore” assumono un senso differente per ciascuno di
noi, indebolendo i valori che si associano a tali parole.

2.6 Cambiamenti della scuola

Vi è una trasformazione della scuola che va nella stessa direzione di quella che abbiamo descritto per la
famiglia, entrambe sembrano aver perso un valore simbolico chiaro e condiviso; tale perdita pare aver
spezzato il patto di alleanza tra scuola e famiglia. I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella
più totale solitudine, la nuova alleanza tra genitori e figli in tal senso, disattiva ogni funzione educativa da
parte dei genitori. Da un lato gli insegnati sentono la richiesta sempre più pressante di dover rispondere alle
problematiche educative del bambino e dell’adolescente; dall’altro, temono di trascurare il raggiungimento
degli obbiettivi didattici, finendo per sentirsi inadeguati. Si assiste che molti insegnati, sentono svalutato il
loro ruolo professionale proprio dai genitori degli alunni. Gli insegnanti accusano i genitori delle loro
inadempienze educative e faticano a mantenere un’asimmetria relazionale che gli alunni non sempre
hanno già sperimentato nell’ambiente familiare. D’altra parte, la scuola viene accusata dalle famiglie di non
essere più in grado di preparare i giovani alla vita 3, pertanto, di essere venuta meno al suo mandato,
risultando inadeguata rispetto alla trasformazione in termini di conoscenze e competenze.
2.6.1 Il fenomeno migratorio e gli alunni stranieri
Chi sono gli alunni “stranieri”? Essi sono figli di immigrati nati del paese d’accoglienza; figli ricongiunti ma
nati nel paese d’origine; minori stranieri non accompagnati, rom, sinti, e caminanti e figli di coppie miste. I
giovani immigrati riportano risultati scolastici peggiori rispetto agli studenti italiani e smettono di andare a
scuola prima, soprattutto se arrivati in Italia in età più avanzata. Questo perché i ragazzi stranieri
presentano delle caratteristiche diverse rispetto a quelli giunti nel nostro paese a un’età maggiore: i primi
sono più simili agli italiani appartenenti al loro ceto sociale piuttosto che ai loro connazionali giunti in Italia
in un secondo tempo. I ragazzi stranieri si sentono più incerti rispetto ai loro coetanei italiani, in generale si
sentono meno capaci degli altri. Le ricerche sottolineano come l’elaborazione della propria identità sia più
problematica per i minori giunti in Italia già adolescenti, rispetto ai figli di immigrati nati in Italia o a quelli
giunti durante la prima infanzia. Tali problematicità sono collegate alle dinamiche che si sviluppano in
famiglia nel periodo dell’adolescenza del figlio, alle condizioni di vita trovate nel paese ospitante, alle
politiche sociali locali e alla visione che il contesto d’arrivo ha della realtà migratoria, cioè l’impatto del
pregiudizio; tutti questi aspetti delineeranno i diversi tipi di “appartenenza “che il minore adolescente
svilupperà. L’incertezza che cresce in loro è correlata al senso di appartenenza al paese ospitante e al paese
d’origine dei genitori; se questa doppia appartenenza è vissuta come valore, e non come difetto, diviene
una risorsa e il senso di incertezza diminuisce. Nella scuola italiana è una prassi inserire i minori stranieri in
una o più classi indietro rispetto a quella che dovrebbero frequentare ciò provoca un profondo disagio nei
ragazzi. Così, il ritardo accumulato comporta una sottovalutazione delle proprie capacità e spinge
all’abbandono degli studi. Un rischio sempre più reale è di creare classi o interi istituti scolastici
“polarizzati”: scuole dove prevale l’inserimento degli alunni stranieri, si rischia infatti di creare delle “scuole
ghetto”, dove l’idea di un’integrazione non è più pensabile. Il documento ministeriale afferma che quanto
riportato sopra non dovrebbe succedere richiamando spesso il concetto di “inclusione”.

LEZIONE 3 > La nostra epoca tarda


Chi guarda il rapporto tra le generazioni più giovani e quelle più anziane, si accorge che tale rapporto è
stato sempre segnato da una certa problematicità. In ogni epoca gli adulti considerano spesso i giovani
maleducati e irriguardosi (“ah i giovani di oggi”). Oggi sembra si stia verificando qualcosa di più della
difficoltà di comunicazione; infatti, appare rotto il patto tra le generazioni. Questa lacerazione non è
casuale bensì il segno di un cambiamento epocale.

3.1 Crisi della modernità


Negli ultimi quattro decenni sociologi e filosofi si sono soffermati sulla crisi della modernità. La modernità è
stata caratterizzata dall’accresciemnto delle conoscenze in tutti i campi;proprio queste hanno generato
proggressivamente una crescente frammentazione dei saperi. La fiducia ottimistica nella ragione come
strumento di progresso e di benessere per tutti gli uomini è stata irrimediabilmente compromessa quando,
come dice la celebre frase pronunciata da Oppenheimer, la scienza “ ha conosciuto il peccato”, ossia
quando l’uomo ha tragicamente scoperto quale potere di distruzione è incluso nelle possibilità della
ragione. I totalitarismi, gli stermini di massa e le forme di violenza di cui l’essere umano, proprio perche
razionale, è stato capace durante il 900, hanno messo in crisi il progetto moderno di progresso e
razionalizzazione del mondo. L’analisi della crisi della modernità ha condotto gli studiosi a parlare di
postmodernità, fino a definire l’epoca che stiamo vivendo “tardo moderna”. Per i teorici del post-moderno,
la modernità ha raggiunto il suo termine con l’ingresso della società post-industriale e con la
delegittimazione dei valori della cultura moderna. I fautori del post-moderno hanno valorizzato il prevalere
delle immagini sulla parola; hanno esaltato il nichilismo- secondo cui nulla esiste, non esiste una realtà vera
ma solo interpretazioni, Nietzsche-. Sarà un’epoca definita del “pensiero debole”> atteggiamento filosofico
che ha preso atto della dissoluzione delle forti certezze e dei valori assoluti. Se la modernità è stato il tempo
dei grandi sistemi di pensiero, della ricerca della verità, la postmodernità ha inteso essere l’esatto opposto:
il tempo del pensiero debole e delle interpretazioni, dove la ricerca della verità è del tutto priva di senso.

3.2 Valori e limiti della post-modernità


La riflessione sul post-moderno ha rappresentato il primo tentativo di pensare i mutamenti nel modo di
sentire e di vivere legati alla globalizzazione ai suoi cambiamenti politici ed economici. In tempi più recenti il
post-moderno è stato oggetto di numerose critiche. Molti autori hanno messo in evidenza, infatti, che
l’elaborazione del postmoderno è un segno dei tempi. Rischia di essere lo specchio della società
capitalistica contemporanea, basata sul consumo, sul culto dell’immagine e sulla spettacolarizzazione. Se
non esistono fatti, ma solo interpretazioni, come si possono avere strumenti per affermare con il logos
(cioè, con la ragione umana umanizzante) la maggior validità di una posizione piuttosto che di un’altra?
Quale spazio rimane per il dia-logos, per un’autentica comunicazione e condivisione tra gli esseri umani? E
quindi, per la loro emancipazione piena? Non è un caso che già da qualche tempo si osserva che il
pluralismo, come tale, è un fatto e non automaticamente un valore. Se fino ad un passato non lontanissimo
comunque la si concepisse, l’educazione aveva a che fare in modo determinante con l’alternativa
vero/falso, oggi questa alternativa pare spesso del tutto insensata, infondata dunque infondabile. Se
saremo capaci di guardare oltre e attraverso il nichilismo postmoderno, vedremo che nel progetto della
modernità c’è un’impresa ancora incompiuta di umanizzazione, che va rilanciata in nome della ragione e
della libertà autentica dell’essere umano. Habermas propone di pensare il nostro tempo come epoca
ultramoderna: piuttosto che pensare l’oggi nei termini di un dopo, di un post, emerge una continuità
possibile tra il nostro tempo e il tempo della modernità, come tempo di un uso critico della ragione.
Analogamente il sociologo tedesco Beck ha parlato della necessità di un illuminismo rinnovato per la
società globale, che egli considera una società tarda e legge soprattutto come “società del rischio”.

3.3 Verso un’epoca ultramoderna?


Per Beck il carattere principale del tempo che stiamo vivendo è quello della sempre più forte
“individualizzazione”. Se infatti la modernità si è aperta con l’esaltazione delle libertà dell’individuo, oggi
tale parabola pare compiuta fino all’estremo, nelle nostre società a modernità avanzata, dove sempre
maggiore è l’emancipazione del singolo dalle istituzioni e dalle apparenze tradizionali e sempre più netto
l’espandersi di un atteggiamento disincantato nei confronti delle credenze legate a queste appartenenze.
Beck parla del nostro tempo come di “seconda modernità”, legata alla “società del rischio”. Proprio perché,
in nome della crescente individualizzazione, le fondazioni ontologiche-cioè, i riferimenti forti- che in passato
sorreggevano la libertà del singolo, appaiono sgretolate e sembrano ne rimangano solo frammenti. Il rischio
globale di cui Beck parla non riguarda, solo i nuovi pericoli da cui tutti ci sentiamo minacciati (dalla crisi
economica ecc.), ma una condizione quotidiana e pervasiva che, potremmo dire è l’aria che respiriamo.
Tale incertezza diffusa nasce secondo Giddens, dal declino del valore proprio delle tradizioni. La nostra
società post-industriale è una società post-tradizionale dove le tradizioni vengono rinnegate, attraverso un
vero e proprio sradicamento dei rapporti sociali dai contesti locali e dagli orizzonti culturali che in essi
avevano luogo. A ben guardare, si può scorgere che, proprio quando tutto è incerto, prolifera facilmente la
paura. Quindi, irrigidirsi nelle tradizioni del passato senza tollerare che in alcun modo siano messe in
discussione, è una forma di difesa. Giddens parla del nostro tempo come “tarda modernità”, usando questa
espressione per indicare che i caratteri propri della modernità non sono stati superati, bensì si sono diffusi a
livello globale e hanno raggiunto la loro maturità. Da un punto di vista pedagogico possiamo osservare che
viviamo un’epoca di passaggio, dove è ben chiaro ciò che in futuro lo sarà. Non sembra che disponiamo
ancora degli strumenti per trovare nuovi riferimenti condivisi e tutto questo si riflette nelle tante incertezze
degli educatori.
3.4 La fatica odierna di costruire sé stessi
Nella storia sempre le epoche tarde sono momenti di maturità e di passaggio verso il nuovo. Sono momenti
di ansia diffusa, dice Giddens, perché questo “nuovo” verso cui si sta transitando ancora non si vede con
chiarezza. Appunto non si sa come andrà a finire. Del nostro tempo tardo, però, alcuni caratteri cominciano
a diventare evidenti. E possono essere qui sinteticamente presentati attraverso: la liquidità. Infatti, molti
autori avevano affermato che prima Auschwitz e poi la caduta del muro di Berlino hanno liquefatto la
modernità. Bauman successivamente ha parlato della società contemporanea come società liquida, egli ha
osservato che la nostra vita sociale, è segnata da una crescente imprevedibilità e velocità dei cambiamenti,
quindi da una sempre più profonda incertezza esistenziale degli individui. Per lo più, l’uomo
contemporaneo è liquido: incerto, precario e fluttuante; è incapace di fermarsi, restio a riconoscere confini
netti e forme “solide”. Le cause di questa liquidità dell’esistenza sono rintracciate da Bauman in alcuni
fenomeni inediti nella storia dell’umanità: la crisi dei sistemi politici, il flusso costante di merci, immagini
persone etc.…
Nella prospettiva della pedagogia, un aspetto della ricognizione problematica interessante è che nella
società liquida, la conquista dell’identità assume e costituisce un compito arduo. Possiamo dire che sempre
la building è per chi la compie, un cammino non semplice. Se usiamo le categorie di Bauman possiamo
riconoscere che i liquidi, a differenza dei solidi, non mantengono una forma propria ma assumono una
forma diversa in base al recipiente che li contiene. Ciò significa che ci viene chiesto -almeno dal mercato del
lavoro e delle conoscenze- di scrivere una biografia sempre riscrivibile, dunque, di rimanere costantemente
incompiuti, liquidi. Beck ha definito le biografie della contemporaneità destandardizzate, volendo intendere
che, mentre in passato le tappe di ogni percorso di vita erano simili e certe (dopo alcuni anni dedicati alla
propria formazione ed educazione si entrava nella vita professionale e vi si rimaneva a vita) oggi le biografie
sono sempre reversibili e flessibili (lo sono i percorsi lavorativi come quelli affettivi). Bauman afferma
proprio che la crisi della modernità (crisi delle modalità di appartenenza a gruppi e tradizioni) ha generato
l’identità come problema, cioè come compito difficile da affrontare. Nella società liquida,
l’autodeterminazione diventa un’impresa percepita come compulsiva e obbligatoria: spesso appare come
una condanna, piuttosto che una liberazione. Per questo, il soggetto si sente smarrito ed incapace di una
vita adulta e serena, consapevole e responsabile. Troppe sono le ansie e le incertezze, diffuso il senso di
abbandono, di vuoto e di solitudine. Bauman parla di un lavoro di bricolage con i materiali che ha, di volta
in volta, a disposizione: ciascuno costruisce la propria identità come un puzzle in cui, però l’immagine finale,
quella che dovrebbe emergere a termine del lavoro, non è fornita in anticipo. Sia ben chiaro: il fatto che le
appartenenze alle tradizioni del passato fossero dati indiscutibili non era un bene per le persone e, come si
è detto, ciò si legava a strutture sociali gerarchiche che permettevano il dominio dei forti sui deboli.
Tuttavia, oggi sembra impraticabile qualsiasi tradizione > etimologicamente indica proprio il passaggio di un
patrimonio culturale e valoriale, da una generazione all’altra. Viviamo in un tempo in cui è stata
estremizzata l’idea secondo cui “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro”, ovvero dove viene
dogmaticamente presentato come un bene il fatto che l’altro interferisce il meno possibile nel mio
personale piano di vita. Nella quotidianità dei mondi dell’educare, tutto ciò si rispecchia in quei
comportamenti di taluni genitori e presunti “educatori”: risulta impossibile e/o insensato segnare
differenze, limiti, regole. Il risultato generale è il soggettivismo morale tipico del nostro tempo, ovvero
“l’idea che le posizioni morali non siano fondate sulla ragione o sulla natura delle cose, ma siano in ultima
analisi adottate da ciascuno di noi solo perché ne siamo attratti”. Al soggettivismo morale si lega anche una
specifica eclissi dei fini: sono eclissati non solo i fini del passato, ma il senso stesso di avere un fine da
perseguire> si parla oggi anche di abbandono alla teologia perché sembra che una prospettiva finalistica
sull’esistenza come tale non possa che essere vana. Potremmo dire sinteticamente che oggi, in molti
contesti la domanda principale è: a che serve?” Seguita da interrogativi come a che costo? In quanto
tempo? Sottintendendo che- in un tempo in cui nessuno ha tempo e tutto deve essere veloce- sia il costo
sia il tempo devono essere, comunque, minimi. Una domanda pare invece rara: verso dove? Domanda
spesso angosciante. Qui si gioca la dissoluzione del soggetto, perché a questo si lega la presunta necessità,
che la costruzione di sé non possa che essere oggi un’impresa solitaria.

4.1 Una persona, tanti bisogni


Nonostante le società occidentali contemporanee appartengano a quella parte “fortunata” del pianeta in
cui i bisogni di sopravvivenza sono soddisfatti, sono tanti i fatti del nostro tempo che sembrano segnalare
che, spesso manca ancora qualcosa. Pensiamo ai casi più eclatanti di violenza ingiustificata su grande scala
e su piccola scala tutto il loro portato di infelicità. Questi eventi ci indicano con chiarezza che, sebbene molti
bisogni primari nella vita dell’essere umano siano colmati e soddisfatti, rimane un fondo di insoddisfazione.
Per “bisogni primari” intendiamo qui i bisogni legati alla vita fisica, il cui soddisfacimento è necessario per la
vita umana; tuttavia, per vivere una vita davvero umana, tale soddisfacimento pur essendo necessario, non
è sufficiente. Per aiutarci si fa riferimento alla Piramide di Maslow che descrive diversi bisogni, cioè le
mancanze di elementi necessari al benessere della persona, disponendoli in una gerarchia, che va dai
bisogni elementari fisiologici, fino al bisogno più alto e complesso che egli chiama “autorealizzazione”.
Secondo questa spiegazione della vita umana, l’individuo si realizza passando per i diversi livelli, perché i
diversi bisogni devono essere colmati in modo progressivo. I livelli più elementari sono quelli necessari alla
sopravvivenza dell’individuo, mentre i più complessi hanno anche un ineludibile carattere sociale. In primo
luogo, noi siamo esseri bisognosi, manchevoli. Ciò significa simultaneamente, che siamo dipendenti da altri,
dalle loro cure. Non siamo infatti, capaci di “farcela da soli”. Senza cura non c’è vita umana: nessuno viene e
rimane solo al mondo, senza che un altro essere umano si occupi di lui. La società umana è diversa dal
branco di animali perché qualcuno può sostenervi; tanto che storicamente la società umana potrebbe dirsi
nata insieme con la compassione e con l’aver cura. Tornando alla Piramide, possiamo notare un altro dato
di fatto della nostra esistenza: noi siamo esseri con una molteplicità di bisogni distinti ma interconnessi.
Quello che Maslow chiama bisogno di autorealizzazione non è immediatamente a disposizione: esso per
essere soddisfatto, richiede un percorso> ogni cammino di formazione personale è un progredire in questa
direzione. È utile per i futuri educatori, immaginare di rovesciare la piramide su un terreno così facendo si
vedrà solo la base e non il vertice. Spesso con le persone accade la stessa cosa: degli altri riusciamo a
vedere solo i bisogni più basilari ed elementari, ma anche più superficiali; e non prestiamo attenzione al
fatto che ci sono, anche bisogni più profondi > la persona è una anche se i bisogni sono tanti.

4.2 Tanti bisogni e tante forme di cura


Considerando i diversi bisogni che segnano la vita umana, ci limitiamo ad osservare che un educatore può
ipotizzare di curare la vita umana, avendo solo cura della vita fisica> ci sono genitori che si lasciano guidare
da preoccupazioni “pediatriche”, esclusivamente legate ai bisogni fisiologici e al benessere fisico del
bambino, alla sua salute: ma occuparsi della salute di un bambino,” sostenerlo” solo da questo punto di
vista, non basta a fare di un genitore un buon genitore. C’è poi ad un livello più profondo, una cura della
persona che si concentra sul suo benessere psicologico, quello che Maslow denomina “bisogno di
sicurezza” che segna il passaggio da una cura solamente fisica ad una cura psicologica. Preoccupazioni
importanti ma non ancora bastevoli, se si vuole educare la persona, infatti ci può essere una cura ancora
più profonda: la cura della vita interiore. Qui ci può essere utile il riferimento alla pedagogia
fenomenologica di Edith Stein, la quale, parla della vita come un progressivo approfondirsi di potenzialità.
Per lei ci sono viventi che hanno solo un’anima vegetativa: come le piante, le cui funzioni sono legate
unicamente al nutrirsi per crescere. Ci sono poi viventi che, insieme a quest’anima vegetativa possiedono
un’anima sensitiva: gli animali che sono capaci di provare sensazioni. Infine, ci siamo noi esseri umani che,
come le piante, abbiamo bisogno di nutrirci per vivere e crescere e che, come gli animali proviamo anche
sensazioni ma che, come nessun altro essere vivente, possediamo la ragione, che è sia capacità di
riflessione (che segna la nostra libertà di pensiero) sia la capacità di scelta (che rende possibile la nostra
libertà di azione). Noi possediamo quella che Stein chiama anima del corpo che è vegetativa, sensitiva e
cinestetica, ciò che ci distingue dagli altri esseri viventi è che possediamo un’anima nell’anima. Noi da
educatori ci dobbiamo chiedere: nell’educare teniamo presente questa struttura complessa della vita
umana? Nella prospettiva da Stein dischiusa, è possibile vedere che ogni persona è una totalità dove si
integrano più dimensioni: la sua corporeità, ovvero il suo possedere un corpo come un corpo animato e
vivente; la sua realtà psichica, cioè la dimensione interna che è “forma del corpo”; l’esistenza spirituale,
ovvero l’anima come dimensione interiore > è quest’ultimo proprio lo spazio del cammino formativo. La
fioritura umana è l’espressione che oggi da più parti viene accolta come la traduzione più adeguata
dell’espressione aristotelica eudaimonia, reso con la traduzione tradizionale felicità. Siamo felici solo
quando tutto ciò che ci rendere davvero noi stessi fiorisce e non quando “rami” importanti di noi
rimangono secchi. Fioritura umana diventa allora il nome pedagogico più adeguato alla realizzazione di sé.
La fioritura umana però non è scontata: qualcuno può scegliere di condurre la propria esistenza, facendo
fiorire di sé solo alcune parti, e non quelle davvero specifiche e personali (ad oggi il rischio di questo genere
di trascuratezza, cioè di mancanza di cura è particolarmente consistente).

4.3 Tra mezzi e fini


Oggi si riscontra da più parti l’abbandono del concetto di fine, ovvero l’aver perso di vista l’importanza di
avere un bersaglio, un obiettivo. Nel nostro tempo, siamo preoccupati dei mezzi e spesso dimentichiamo di
interrogarci sui fini, dimenticandoci che tra i mezzi e i fini c’è una differenza sostanziale. Questa
dimenticanza è uno dei motivi della cecità che riguarda i bisogni autenticamente educativi. Spaemann nel
testo “felicità e benevolenza”, descrive l’esperienza che forse tutti abbiamo fatto, almeno una vola: quello
stato d’animo che proviamo, inaspettatamente, quando abbiamo ottenuto qualcosa che volevamo
fortemente, per la quale abbiamo faticato tanto, ma che proprio nel momento in cui è stata finalmente
raggiunta, ci ha lasciato un senso di vuoto e di insoddisfazione. L’esperienza appena descritta è chiamata
dal filosofo “relativizzazione a posteriore di un fine”: quel tale obiettivo, ci era sembrato assolutamente
degno di ogni nostro sforzo, ma non avevamo colto che esso, forse, poteva anche avere un valore come
parte di una totalità della vita, nella quale quel fine andava correttamente inserito. Scambiamo per fine ciò
che poteva avere senso soltanto come mezzo. Spontaneamente diciamo che quel dato oggetto perseguito a
lungo come fine unico, o ultimo, è alla fine così deludente, non ha mantenuto quello che prometteva.
Questo rivela la convinzione, sia pure ingenua che le cose, devono in qualche modo promettere qualcosa
d’altro oltre sé stesse, qualcosa di più grande. Spaemann parla anche di una riuscita della vita, per indicare
che per rispondere ai suoi bisogni più profondi, la persona ha bisogno innanzitutto di riconoscere, una
prospettiva globale della sua esistenza. Per rispondere ai nostri bisogni, abbiamo bisogno di un progetto
che ci permetta di personalizzare la nostra esistenza. Ma per elaboralo, abbiamo bisogno degli altri> gli altri
sono essenziali per la nostra felicità (pedagogia= qualcuno che guida qualcun altro in un tratto di strada> gli
educatori). Per questo si può dire che avere un progetto che riguarda la totalità di sé è tutt’uno con l’aver
bisogno di educazione.

4.4 Si può costruire da soli la propria vita?


Abbiamo osservato che fino ad un passato non molto lontano, l’educazione aveva a che fare con
l’alternativa vero/falso: aveva a che fare con il dono di eredità che la generazione passata dava. Oggi questo
è entrato definitivamente in crisi: la crisi dell’autorità educativa. La filosofa Arendt evidenza i danni che si
generano, per la persona e per la società, quando si spezza il filo della tradizione, che tiene saldamente
legato il presente al passato e che sostanzia il patto tra le generazioni. La raccolta arendtiana è aperta da un
aforisma: la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento. L’autrice spiega che il testamento è ciò
che lega i tesori del passato al futuro: si sancisce ciò che sarà legittima proprietà degli eredi. Senza
testamento, non solo i beni si disperdono, ma soprattutto i figli, quelli che dovrebbero essere eredi, si
perdono perdendo sé stessi. Arendt osserva che la crisi dell’autorità educativa è perdita della memoria, del
senso e del tempo, quindi della profondità dell’esistenza. Potremmo dire che, se sulle prime sono i figli ad
apparire in crisi, in effetti, tale crisi riguarda maggiormente i padri> più di un autore lamenta la presenza di
una società senza padri. Se i “padri” delle generazioni precedenti avevano risposte precise, ovvero davano
ai “figli” dei riferimenti valoriali chiari, oggi questo non accade. Oggi, in un tempo segnato dal trionfo della
ragione strumentale-tecnologica e dalla spasmodica ricerca dell’efficienza, siamo molto bravi a riflettere
sulle cose che facciamo, meno su chi siamo e chi diventiamo facendole. Negli educatori questa lacuna è
particolarmente grave perché gli educandi trattengono del messaggio che viene loro dato non quello che
l’educatore dice o che fa, bensì più profondamente il tipo di persona che è> l’individualizzazione tipica della
tarda modernità. I giovani adulti di oggi appaiono, incapaci di formulare progetti esistenziali non reversibili
e di tenervi fede, per questo in loro abbondano i vissuti di sofferenza. Senza aver ricevuto nessuna eredità
dai padri, il compito di costruire sé stessi è immane quasi impossibile. Quello del padre appare come un
bisogno educativo specifico> il bisogno di esistere con un significato.

LEZIONE 5 > LA SITUAZIONE ORIGINARIA


La prima unità formativa ha il titolo di Ricognizione empirica e problematica; è la prima fase, si tratta della
riflessione pedagogica nel suo primo momento empirico.

5.1 L’appartenenza al mondo


La prima regola per il pensiero per la fenomenologia è condurre la riflessione mossi dal criterio
dell’evidenza. Ora, la prima evidenza che si offre quando s’inizia una riflessione è che, ci sono dei soggetti
che si pongono delle domande in prima persona. Non si tratta mai di soggetti generici, esistono sempre
soggetti singolari, definiti da coordinate temporali e spaziali ben determinate. Il nostro avvento nell’essere,
coincide con la nostra appartenenza ad una situazione originaria che non siamo stati noi a scegliere; un
tempo e uno spazio nel quale; già da sempre, ci troviamo immessi-immersi. Heidegger, descrive questa
appartenenza: egli parla di “effettività” dell’esser consegnati, dice della “finitezza” della condizione umana,
a significare che il nostro avvento nell’essere non dipende dal soggetto, presentandosi piuttosto come un
limite o un confine per la sua libertà; e parla di “infondatezza”, perché il nostro modo di abitare il mondo ci
sfugge nei suoi fondamenti.
Heidegger ad una prima lettura sembra solamente descrivere la condizione umana, però la descrizione
appare più un’interpretazione: egli denota la “fatticità” dell’esser gettati nel mondo, categoria
interpretativa che evoca un fatto casuale e a tratti senza senso. L’osservazione può risultare più chiara
facendo riferimento al pensiero di Stein, anche lei allieva di Husserl che invece parla di “esser offerti”, o un
“esser affidati” a chi ci accoglie o anche solo a noi stessi. Si tratta sempre di un’interpretazione ma di segno
opposto rispetto alla prima. Il riferimento all’analitica esistenziale di Heidegger è comunque illuminante, in
questo orizzonte l’esistenza umana è definita originaria appartenenza al mondo o semplicemente “esser-
ci”. Il mondo cui apparteniamo è un mondo di cose, di cui ci si prende cura. Col mondo delle cose, però, il
soggetto trova anche altri soggetti, che gli sono anch’essi familiari perché abitano lo stesso spazio
intramondano e condividono con lui molti significati.

5.2 La precomprensione
Come è originaria l’appartenenza, altrettanto originaria è per Heidegger la disposizione ad orientarci nel
mondo del quale siamo abitatori: il soggetto che è nel mondo già ha del mondo una “precomprensione”
che è la comprensione originaria che precede ogni altra comprensione acquisita nel concreto svolgersi
dell’esistenza. Un sapere spontaneo che si apprende sin dalla nascita, attingendolo dai mondi della sua vita,
innanzitutto quello familiare, poi quello del parentado, infine dai mondi sociali nei quali fa il suo ingresso e
in primo luogo dalla scuola. La precomprensione è sempre un sapere prospettico in ragione di
un’insuperabile “posizione” che egli occupa nello spazio, in quanto è corpo materiale animato vivente. Il
corpo del soggetto definisce una sorta di punto zero, a partire dal quale per lo sguardo si dispiega una
prospettiva aperta sul mondo, un punto di vista singolare dunque sempre relativo. Ponty afferma un
soggetto può intendere il senso del mondo, incontrandolo secondo una caratteristica modalità intenzionale,
da ultimo riconducibile alla condizione corporea. Heidegger, invece, vede ed intende il nesso tra
precomprensione e situazione storica, dal momento che per lui il soggetto “nel mondo” è storicamente
definito, non è una coscienza pura o trascendentale. A partire dalla precomprensione, ogni soggetto
dunque interpreta il mondo nel quale dimora; ogni interpretazione implica sempre una “prensione globale”
del mondo, una qualche percezione del proprio modo di “trovarsi” nel mondo. L’esistenza e la coscienza
sono segnate da un’istanza di trascendimento della situazione e della precomprensione originaria. Questa
istanza si presenta come tensione ad andare oltre quanto è dato o trovato. Ricouver vi vede una energia
“tesa a colmare una povertà che al soggetto appare intollerabile” e che, realizzandosi, sempre “produce un
effetto di senso” ovvero, dona e porta a coscienza un senso di sé e della propria realizzazione al reale. Il
termine più adeguato per intendere questa energia è “desiderio”. Se per un verso è sempre determinato, è
desiderio di qualcosa che il soggetto intende; per un altro verso, anche dopo aver trovato un
soddisfacimento, si ripropone sempre di nuovo. In questa strutturale duplicità del desiderare, si riflette una
più originaria duplicità intenzionale della coscienza: la quale sempre intende il reale nella sua
determinatezza e insieme sempre oltrepassa il finito in una dimensione che lo superi, che sia pertanto in-
finita. La coscienza per Gadamer “appartiene originariamente alla storia”, “è sempre esposta agli effetti
della storia”. La coscienza riflettente deve prendere atto che originariamente non è essa a conferire senso
alla realtà, è piuttosto costituita dal senso, che trova “ascoltando” per così dire i desideri e cercando
d’intendere quanto in essi è offerto. Tutto ciò significa che innanzitutto il soggetto sembra trovare sé stesso
più come un oggetto, definito all’interno di un orizzonte di senso si cui non è né origine né fondamento, in
breve che non ha scelto.

5.3 Un’introduzione adeguata alla fenomenologia e all’ermeneutica


Il fondatore della fenomenologia Husserl, in un’opera della maturità “La crisi delle scienze europee”
afferma che la fenomenologia è una posizione di principio che assume come punto di partenza di ogni
riflessione il mondo della vita, le convinzioni che in esso sono presenti. All’interno della nostra esistenza
quotidiana è possibile trovare la fonte, di tutte le forme del nostro sapere, delle “oggettività” delle scienze
e delle premesse dei nostri ragionamenti pratici. Ma perché la fenomenologia possa valere come istanza
critica, è necessaria una vera e propria “conversione” dell’intelligenza e del volere: una messa in questione
e una presa di distanza dalle certezze immediate irriflesse, che ci renda capaci di attenzione al reale e di
fedeltà alla ragione. La conversione dell’intelligenza è una vera e propria “purificazione”, un’ascesi grazie
alla quale essa sia mossa infine solo dall’evidenza; mentre l’ascesi del volere consente di esser attivati
solamente dalla ricerca del vero: considerata come bene desiderabile, segno di vivere bene preferibile
rispetto al semplice vivere. I soggetti sembrano trovarsi nello stato di “dormienti” (Eraclito): nessuno è mai
pienamente desto, presente a sé stesso, e la condizione umana è segnata da una sorta di sonnambulismo
esistenziale. È la condizione che Heidegger, nel suo capolavoro chiama ciò un “dimorare nella dimensione
della “esistenza inautentica”. Questa descrizione esistenziale della Humana conditio ci introduce, la
fenomenologia. La coscienza, è costituita dal senso, è relazione al senso e ritrova il senso interpretando
quanto incontra: gli enti e gli eventi, i segni e i testi. In ogni realtà, si offre e si dice, un senso delle cose; ogni
realtà è un linguaggio, in sé sempre specifico e che necessita di una specifica interpretazione. L’uomo,
quindi, originariamente è “donatario” del senso: il senso o la verità delle cose s’offre all’intelligenza di un
soggetto. Ma per essere donato, il soggetto è insieme “donatore” si senso: il senso delle cose si dona al
soggetto, che però piò intenderlo solo “mettendolo in forma” > il senso in breve viene accolto in quanto
viene interpretato e diventa un linguaggio. Per Ricoeur nella prospettiva “ermeneutica del testo”, ogni
linguaggio è una specifica oggettivazione del desiderio che costituisce il soggetto; i linguaggi sono opere che
intrepretano il/i desiderio/i.

5.4 Un’intuizione aurorale del senso dell’educare


È evidente che il radicamento della nostra riflessione sui fenomeni educativi nei mondi della vita conferisce
ad essa una caratteristica intonazione esistenziale, trattandosi di una ricerca su quanto è veramente
originario nell’esistenza umana, l’orizzonte dispiegato è innanzitutto filosofico. Nella situazione originaria
cui è consegnato, ogni soggetto trova sé stesso piuttosto come oggetto: egli parla parole parlate, è definito
da sintesi passive di senso; non parla parole parlanti, delle quali sia soggetto in prima persona. Col
progredire dell’analisi dell’esistenza nella sua dimensione inautentica, pare emerga con sempre maggiore
evidenza un compito che al soggetto sembra proporsi o forse imporsi: che egli, per essere autenticamente
un soggetto, debba rispondere di sé proprio nella qualità di attore protagonista delle proprie azioni e attivo
propositore delle proprie parole; per il soggetto non è un aspetto secondario, ne va anzi del suo stesso
esser-soggetto.
Si tratta, di “prendere in mano la propria vita” e di rispondere di sé in prima persona, tentando dunque
un’opera di personalizzazione della propria esistenza: rendendola l’esistenza di una persona che si ponga
ad essa come il soggetto. Ricoeur parla di ciò come “compito di “ap-propriazione di sé”, reinterpretando i
significati cui la coscienza è esposta: il passo preliminare del soggetto, è di riconoscere lo stato di
“alienazione”, una sorta di assenza di sé a sé e di volerne prendere distanza.

5.5 funzione metodologica della prima ricognizione empirica


Se riprendiamo le lezioni passate appare chiaro che in esse sono raccolti elementi di un’analisi della
condizione umana nelle società contemporanee, società della tarda modernità. Nel nesso con le precedenti
lezioni, appare in una prospettiva diversa anche la presente lezione: i contenuti delle prime lezioni, tentano
una ricognizione empirica e problematica, configurando un primo profilo percepito “ben concreto”, rispetto
ai contenuti della presente lezione che intendono essere un approfondimento di carattere più filosofico e
astratto. Possiamo parlare di una funzione metodologica della ricognizione empirica, dedicata al primato
della ragion pratica, costitutivo di tutte le scienze pedagogiche e, quindi, anche della pedagogia
fondamentale. Un ruolo speciale, per la ricognizione empirica e problematica, svolgono le indagini psico-
sociali delle lezioni precedenti. Esse fanno ricorso, a metodi di ricerca sia qualitativa sia quantitativa, e
possono assumere una funzione di rilievo. L’esperienza educativa si realizza sempre all’interno di relazioni
interpersonali, storicamente e culturalmente connotate; queste ricerche contengono spesso, piccoli
racconti di vita dei soggetti coinvolti in queste relazioni, che possono valere come ausilio per la
formulazione di ipotesi di lettura o di lavoro.

5.6 Un’evidenza d’ordine etico e assiologico


La dimensione prevalente nella percezione che i soggetti hanno oggi, nelle società della tarda modernità è
la dimensione dell’avere o del possesso. Essa sembra rendere assoluta la cosalità, la proprietà delle cose. Di
conseguenza, il soggetto/i tende a percepirsi e vengono percepiti dagli altri, in questa dimensione: come
oggetti, più che come soggetti. È un tratto che possiamo qualificare “reificazione dell’esistenza”: porta con
sé lo smarrimento del senso della qualità singolare dei soggetti, si rivelerà aspetto essenziale dell’esser-
persone delle persone. La reificazione tocca anche il sapere e il pensare, le facoltà dell’intelligenza e della
ragione. Il sapere tende allora a ideologizzarsi e a diventare “chiacchiera”; esso è ideologico, né vero e né
falso, diviene piuttosto in-significante. Il pensare conosce una mortificazione: l’intelligenza pare diventare
una potenza opaca e la ragione sperimenta una incapacità nel giudicare intorno all’infinito. Una persona
segnata da queste ferite sembra pronta per la “banalità del male”. Un’analisi come quella è segnata dunque
da presupposizioni. La prima di queste è quella del valore della persona, del soggetto come persona, che,
come tale, è irriducibile alla proprietà delle cose e alla dimensione dell’avere. La persona appare come una
realtà che si impone per sé stesse tanto da presentare il carattere di un’evidenza morale, a significare che la
persona in sé è un bene senza condizioni; ed evidenza valoriale, valore che è degno di essere riconosciuto
per il solo fatto di esserci. Finora, abbiamo parlato anche di soggetto; ora appare preferibile parlare di
persona, che è la proprietà reale del soggetto di diventare autenticamente soggetto, facendo esperienza di
sé. La pedagogia ha il vantaggio, rispetto alle altre scienze, di assumere, delle presupposizioni e di avviarsi
sul loro fondamento> essa si sostanzia del presupposto della persona, evidenza etica e assiologica in senso
eminente.

LEZIONE 6 > LA PEDAGOGIA SPONTANEA


È stato affermato che la coscienza che riflette si trova innanzitutto costituita dal senso, perché immersa nei
mondi della vita cui è consegnata con la nascita. In questi mondi, considerati “ovvi”, naturali e non
problematici, di affrontare e risolvere i problemi; essi sottendono gerarchie di priorità, quindi, di fondo
interpretazioni della realtà. Tutto questo “bagaglio simbolico” opera nei mondi della vita come un insieme
di certezze indiscusse e indiscutibili. Giungono, momenti in cui una riflessione sui fondamenti sul valore di
queste certezze si rende necessaria, ciò di cui sono certo è anche vero? Lo scopo di oggi è soffermarsi sul
valore che assume questo momento di passaggio quando il sapere umano è rivolto alla considerazione dei
fenomeni educativi. Cercheremo di vedere come il “bagaglio simbolico” costituisca non solo un punto di
partenza ineludibile, ma svolga una funzione metodologica specifica nell’ambito del sapere pedagogico.
Successivamente, chiariremo quando e perché soprattutto oggi ci troviamo di fronte all’esigenza di
esaminare criticamente il bagaglio di sintesi passive sull’educare, evidenziandone i limiti e le potenzialità.

6.1 Atteggiamento naturale e pedagogia spontanea: le certezze sull’educazione.


Ciò che è dato originariamente è un soggetto che abita il mondo e che cerca di orientarsi in esso, ricercando
un senso/significato. L’essere umano che abita il mondo ha con esso un commercio, dice Heidegger, con il
mondo di tipo pragmatico: molti impegni lo occupano e lo preoccupano; così, incontra le diverse realtà
come semplici mezzi da utilizzare. In tal senso il filosofo dice che l’Esser-ci ha cura di molte cose. Al
contempo, si prende cura di altre persone. In questo commercio pragmatico con il mondo, l’essere umano
è già da sempre accompagnato da un atteggiamento naturale ingenuo, pieno di certezze e di modi di fare, e
persino di ragionare, che sono in effetti automatici. Anche nelle pratiche educative è già da sempre
contenuto un sapere sull’educazione> PEDAGOGIA SPONTANEA. La pedagogia spontanea è quel sapere
immediato, di tipo pre-riflessivo automatico e spesso efficace (con il linguaggio usato essa raccoglie le
precomprensioni sull’ambito educativo > precomprensione= comprensione vitale e originaria che precede
ogni altra. Per lo studioso di fenomeni sociale Schutz, c’è sempre un dato per scontato nella sfera della vita
quotidiana. Si tratta di quell’atteggiamento naturale o spontaneo in cui si presume l’esistenza di un mondo
in comune e si vive nell’ovvio> questo si fa riferimento all’esistenza inautentica (il mondo che è caduto in
un profondo sonnambulismo e siamo soggetti dormienti). Dell’atteggiamento naturale fa parte anche una
pedagogia spontanea che accompagna chi, è impegnato in azioni di cura educativa. Nel tirar su i cuccioli
d’uomo ci si lascia guidare dall’atteggiamento naturale, senza problematizzare ciò che subito ne vediamo e
sappiamo. Quanto appena descritto può essere nuovamente presentato anche in altro modo. Infatti, la
pedagogia spontanea può anche essere intesa come quell’insieme di valori, opinioni, credenze,
atteggiamenti ritenuti certi che, in un dato contesto storico e geografico, di fatto strutturano l’idea di
educazione, quindi di persona ben educata, ma anche di buone prassi educative, infine di buon educatore.
L’aggettivo “buono” indica la conformità di una cosa alla sua interna essenza. Una cosa è “buona” quando
è, pienamente sé stessa. Molti educatori, impegnati ogni giorno sul campo, senza aver mai studiato filosofia
morale o pedagogia in loro vi è una pedagogia spontanea, un sapere dell’educare innato e spontaneo. È
una sorta di “pedagogia nascosta” ossia un sapere incorporato nella pratica e nelle comunità. Ciò implica
almeno due corollari: A) il criterio di validità di questo sapere, proprio perché sapere pre-riflessivo, è
innanzitutto l’efficacia pratica; B) se si vuol comprendere qualcosa della pedagogia spontanea, innanzitutto
bisogna guardarla operare; senza chiedere nulla. La pedagogia spontanea possiede un certo grado di
automatismo. Se la maestra, in ogni momento, stesse a problematizzare, a chiedersi se il suo dato per
scontato è affidabile o no, smetterebbe di fare la maestra: se si dubita continuamente della stabilità del
terreno in cui si cammina, non si fa più un passo (ciò non significa all’opposto però che non bisogna mai
dubitare). In secondo luogo, la pedagogia spontanea appare come un sapere condiviso e intersoggettivo,
che accomuna più persone. In senso diacronico: viene tramandata per così dire “di madre in figlia”
(l’espressione al femminile, trova ragione nel fatto che le pratiche educative sono sempre state “affare
delle donne”) e viene tramandata più con la condivisione pratica. In senso sincronico: possiamo pensare
che, quando una mamma dice “questo non è buono per il bambino” lo fa ad altre persone che sono come
lei mamme, se lo fa è perché percepisce che “non è buono per il bambino” significa per lei, in modo
immediato dunque automatico ciò che non è buono per il suo bambino non è buono per nessuno dei
bambini. Vi è un altro aspetto da non dimenticare della pedagogia spontanea, insieme al criterio
dell’efficacia della pratica, esso porta con sé un criterio etico-normativo. Infatti, insieme alle pratiche
educative viene trasmesso un certo ideale di umanità, ritenuto assiologicamente positivo> in ogni tempo e
luogo chi educa si fa guidare da una certa immagine dell’essere umano e della sua forma migliore. In tutto
ciò l’educatore, immerso nei contesti educativi, spesso non sé darne ragione, né chiarirne dettagli e
implicazioni> in quanto spontanea e ritenuta valida a prescindere- se si insegna qualcosa in un modo è
perché si fa così ed è così “da sempre”.
6.2 Le opinioni notevoli
Un ultimo aspetto della pedagogia spontanea merita di essere evidenziato: come ogni sapere condiviso in
modo automatico, esso si poggia sull’autorità indiscussa di alcune persone, che valgono come figure
esemplari. Per comprendere questo aspetto del sapere spontaneo, è utile richiamare il modo di concepire
la filosofia del filosofo Aristotele. Aristotele mostra che il ragionare filosofico, muove dal senso comune,
ovvero, nel suo linguaggio dagli endoxa> un particolare tipo di opinioni: le opinioni notevoli e autorevoli.
L’autore le definisce come ciò che appare a tutti, ai più o ai sapienti. Secondo lui, per trattare, in modo
filosofico con rigore, qualsiasi argomento si muove da esse. Egli parla di endoxa come dei fenomeni. Nelle
opere aristoteliche, espressioni come “sembra che” “pare che” sono molto frequenti: non indicano dubbi o
parvenze; piuttosto il filosofo si riferisce ai modi in cui le cose sembrano e si mostrano in modo evidente nei
modi di pensare spontaneamente presenti nella vita quotidiana. Per questo Aristotele esorta a salvare/
mantenere i fenomeni; quindi, a usarle “come testimonianze ed esempio e a non proporre mai elaborazioni
filosofiche che facciano violenza ad essi, bensì che vi risultino vicine e aderenti. Aristotele appare sempre
molto rispettoso delle opinioni e dei saperi spontanei, essi possono contenere qualcosa della verità.
Aristotele allude ad una esigenza di chiarezza e alla fiducia nel fatto che tutti gli uomini posseggono una
disposizione alla verità, cui si lega la corrispondente fiducia che la verità, per sé stessa si manifesta agli
occhi di chi si mette alla sua ricerca. Della ricerca della verità, il sapere spontaneo costituisce, però, solo il
punto di partenza: a partire come dice Aristotele dalle opinioni notevoli, bisogna andare avanti. Possiamo
dire che il rispetto per il senso comune e per il sapere spontaneo non è, per Aristotele, assoluto e senza
condizioni. Né può esserlo per noi, che ci occupiamo di educazione. Non è difficile pensare a molti esempi
in cui una certa pedagogia spontanea, sebbene condivisa ha fatto da premessa a ragionamenti pratici,
profondamente ingiuste e persino violente. Non tutto ciò che viene inteso e praticato come forma di
educazione, lo è davvero.
6.3 L’istanza veritativa: scoprire le incertezze e istituire il problema pedagogico.
Lasciandoci vivere, guidati solo come automi del “si” impersonale, siamo spesso noi soggetti mancanti.
Talvolta così si procede anche nel “far educazione” e si rimane intrappolati nella ricerca dei mezzi e si
dimentica di considerare i fini. La fenomenologia insegna che, occorre impegnarsi per andare alle cose
stesse, ovvero alle cose nella loro essenza. Questo genere di impegno implica un percorso non semplice e
un certo coraggio critico, che permette di non dare nulla per scontato. Il primo passo della fenomenologica
conversione dell’intelligenza e del volere è il gesto dell’epochè>ossia la sospensione del modo abituale di
giudicare e delle certezze che lo rendevano possibile. Occorre sospendere, mettere tra parentesi, ponendo
fuori circuito nella loro validità ciò che sul mondo dicono l’atteggiamento naturale e il senso comune. Solo
così il soggetto comincia a vivere in prima persona: non dà nulla per scontato e comincia a disporsi in modo
che l’essenziale si lasci vedere cominciando quindi la vita personale. Ma come nasce questo primo gesto= i
fenomenologi suggeriscono che non è improvvisamente e senza ragione che abbandoniamo tutte le nostre
certezze spontanee (il che ha una certa logica, perché si tratta di lasciare il noto/certo per l’ignoto/incerto).
Si tratta piuttosto della conseguenza dell’urto della realtà sulla nostra vita. Heidegger è in ciò molto chiaro:
è l’inutilizzabilità del mezzo che ci sorprende e ci mette dinanzi alla semplice presenza di qualcosa; se prima
eravamo appagati dal suo utilizzo, ora ci interroghiamo sulla sua significatività e cominciamo a chiederci
cosa sia e quale sia il significato di un mezzo proprio quando smette di funzionare. Un educatore mette in
questione il proprio modo di intendere l’educazione quando il suo solito modo di fare non funziona più,
non può più essere utilizzato. Il suo cammino abituale è interrotto, viene una crisi che, se percorsa fino in
fondo e in modo adeguato è innanzitutto rivelativa, perché porta allo scoperto ciò che rimaneva prima in
ombra, e può essere occasione di un nuovo inizio. L’esperienza di crisi delle certezze vissuta dall’educatore,
è “l’esperienza dello scacco e del dubbio esistenziale” che fa emergere nella sua essenzialità il problema
pedagogico. Un educatore si chiede: ciò di cui sono certo è anche vero? Attraverso questa domanda può
nascere la pedagogia come scienza. Essa manifesta l’istanza critica essenziale per un sapere che voglia
costituirsi come scienza: si tratta di un’istanza veritativa. Solo prendendo le distanze dal sapere preriflessivo
e spontaneo, un sapere può aspirare ad essere stabile, perché rigoroso. I greci usavano per dire “scienza” la
parola “episteme”, che indica il possesso stabile di una conoscenza, coincide con il non limitarsi a registrare
che una cosa è, ma saper dire perché è.
6.4 Pedagogia spontanea tra ieri e oggi
Da quanto detto finora, emerge che la pedagogia spontanea viene messa in discussione quando qualcosa
rompe gli equilibri abituali dell’educare, che la coscienza spontanea aveva, fino a quel momento ritenute
educative. Aristotele riconosce qualcosa di simile quando afferma che le opinioni, per quanto notevoli e
autorevoli, vanno comprovate e ne vanno sviluppate le aporie> l’aporia è quella situazione che si verifica
quando “non c’è via d’uscita”; sentiamo che ci mancano gli strumenti, vorremmo una soluzione ma sembra
proprio che non ci sia. Tutto e il contrario di tutto, ora appare valido. Nel nostro tempo in molte circostanze
mettono in questione la pedagogia spontanea. E ciò in ragione di quel cambiamento epocale di cui si è
detto, e della conseguente rottura del patto tra le generazioni che ha reso più complessa non solo la
trasmissione, ma innanzitutto la condivisione educativa. Se pensiamo, a qualche decennio fa, oggi c’è meno
consenso intorno ad una pedagogia spontanea condivisa: non a caso ordinariamente, ci sono conflitti più
che alleanze tra educatori (rapporto scuola-famiglia). Ci chiediamo allora: possono l’educazione e la
pedagogia spontanea sviluppata ad Atene esser dette migliori di quella incorporate nella vita di Sparta? Su
quale fondamento? Se come vuole fare intendere la post-modernità, non esistono fatti, ma solo
interpretazioni; se dobbiamo tollerare ogni opinione; se non esiste fondamento possibile, perché l’unico
fondamento è “l’assenza del fondamento”, allora quale possibilità rimangono per un sapere che aspiri ad
essere non più solo spontaneo, ma razionale e critico? Si osservi bene che nel passaggio dalla pedagogia
spontanea alla pedagogia critica, non è in gioco solo la possibilità dell’educazione. Se oggi davvero non
possiamo uscire dall’ambito delle certezze soggettive e se la verità è una questione di gusti, allora con quale
diritto, su quale fondamento, pensare di poter educare qualcuno? Con quale legittimità trasmetto ad un
individuo un sistema di valori piuttosto che un altro o nessuno.
6.5 Limiti e valori della pedagogia spontanea
L’impegno di conversione dell’intelligenza e del volere da cui solo può nascere la pedagogia come scienza,
comincia con la messa fuori-circuito della pedagogia spontanea, ovvero sospendere la validità. Ora, è
faticoso smettere di far uso di qualcosa per cercarne di considerarne l’essenza; non sempre si è disposti a
farlo. Spesso si tratta di esplicitare l’implicito e per gli educatori questo impegno di riflessione sulle proprie
pratiche e su di sé, non è semplice, né sempre piacevole. La pedagogia spontanea, quindi, è un’arma a
doppio taglio, in quanto racchiude rischi e insieme risorse per la pedagogia come scienza. Il primo rischio è
dato dalla sua stessa esistenza: poiché l’educazione è un fenomeno umano universale, tutti si sentono
abilitati a dirne qualcosa; avvertono di saperne qualcosa. Ne segue che spesso non si comprende che non
tutte le opinioni sull’educare hanno la medesima validità. Oggi è più facile, per il senso comune, dire ciò che
“l’educazione non è” piuttosto che dire e argomentare razionalmente, cioè, giustificare, ciò che
“l’educazione è”. Ma per l’educazione c’è vitale bisogno di saperi capaci di costruire, non solo di demolire.
Un altro limite è che la pedagogia spontanea, come tutti i saperi immediati, è poco accurata. Ad un certo
punto l’educazione ha bisogno di un sapere che dia nuove certezze o, meglio, certezze diversamente
fondate. Gli educatori vorrebbero un fondamento saldo a cui ancorare le loro pratiche: non una certezza
dogmatica, ma un criterio di senso. Gli educatori più accorti vorrebbero una prova, che sia capace di
portare la verità ad evidenza. Un tipo di prova che superi il ristretto criterio dell’efficacia immediata.
L’educatore a suo modo, e lo studioso di pedagogia in altro modo, avvertono la necessità di “percorrere un
itinerario di ricerca che problematizzi la precomprensione. L’ esigenza della prova di cui sentiamo il bisogno
per orientarci in questioni davvero pressanti per l’educare, rivela altresì che l’essere umano ha ancora, una
certa fiducia nelle capacità del sapere, della scienza: una fiducia che va rinnovata in forme nuove.

LEZIONE 7> UNA FORMA DI RAZIONALITA’ PRATICA


Molti studiosi affermano che la pedagogia è una scienza pratica ovvero una forma della ragion pratica: è
una scienza che muova dall’esperienza educativa e all’esperienza intende tornare. Lo studioso di pedagogia
è un uomo di “scienza” e ciò in ragione del suo oggetto di studio; infatti, intende studiare i fenomeni
“educativi” o legati ad un’esigenza di educazione: egli trova così già il suo oggetto non lo costituisce. Si
potrebbe dire che prima c’è l’educazione; e solo dopo la pedagogia. Questa affermazione registra una
regola interna alla pedagogia come scienza: se si smarrisce questa priorità ontologica dell’esperienza e della
realtà in cui l’educazione si realizza, viene di fatto smarrita la pedagogia come scienza specifica: la
razionalità pedagogica è una forma di razionalità pratica. La pedagogia avvia il suo percorso di riflessione
teorica a partire dall’esperienza viva dell’educare, un percorso che è svolto al fine di un cambiamento.
Infatti, la pedagogia come scienza non si occupa solo dell’essere dell’educare e delle persone coinvolte
nelle pratiche di cura educativa, ma anche del loro “poter essere”. Alcuni autori la definiscono una “scienza
proggettuale”.
7.1 Il significato dell’espressione “pedagogia fondamentale”: base empirica e fondamento teoretico.
La dizione “pedagogia fondamentale” viene preferita a “generale” perché essa si riferisce a un particolare
atteggiamento di ricerca circa i fenomeni educativi, volto a coglierne appunto i fondamenti. Eppure, si
tratta di un uso critico della razionalità di carattere eminentemente pratico. Ora, cosa significa che la
pedagogia fondamentale ha base ma non fondamento empirico? Significa che il fatto che la pedagogia
come scienza muove dai modi della vita dell’educare, perché la sua genesi nell’esperienza concreta, non
implica che la pedagogia fondamentale ponga come suo criterio di riferimento ultimo quello dell’evidenza
empirica o della ricorrenza statistica; tale scienza pedagogica non è una scienza empiriologica. Dunque,
riconoscere la priorità dell’esperienza come regola interna della pedagogia come scienza, non significa dire
che il suo termine di paragone ultimo è l’esperienza così come di fatto si dà. Piuttosto la pedagogia
fondamentale è mossa dalla “ricerca dell’essenza” di ciò di cui facciamo esperienza. Si tratta pertanto di
una scienza che potremmo definire eidetica, cioè, tesa a cogliere l’essenza (in greco Eidos). Volendo essere
precisi però va detto che la pedagogia non è una scienza puramente eidetica, infatti come abbiamo visto, la
scienza pedagogica ha la sua genesi propria e c’è necessariamente almeno un altro momento in cui il nesso
all’esperienza non è contingente: quello che riguarda la progettazione del poter essere. Rimane comunque
il fatto che non è nell’esperienza che la scienza pedagogica ha il suo fondamento. Husserl chiamerà la
pedagogia come scienza “di disciplina tecnico pratica; l’obiettivo di tutta la riflessione sull’etica di Husserl è
quella di gettare lo sguardo verso la vita spirituale: quella che si vive in prima persona. Dobbiamo tener
sempre presente due aspetti scorti dal padre della fenomenologia:
1)la pedagogia come scienza nasce da un orientamento originariamente pratico, cioè da quello di uomo
pratico, l’educatore (infatti “prima c’è l’educazione e poi la pedagogia” dunque prima c’è il sapere
dell’educatore e poi c’è il sapere del pedagogista);
2) la pedagogia come riflessione teoretica ( il termine teoretico non è qui sinonimo di teorico ,inteso come
astratto,piuttosto viene utilizzato in senso fenomenologico che è esattamente l’accezione greca:
l’atteggiamento teoretico è quello di chi si ferma e sostando, contempla in modo dis-interessato) nasce
nell’intento di portare un qualche giovamento a quest’uomo e alla sua pratica. Da questi due aspetti
emerge che nella pedagogia è frammisto, e molto extrateoretico, quindi di esperienza, ma che essa intende
offrire ancoraggi oggettivi alla pratica.
7.2 La pedagogia fondamentale e la filosofia pratica
Cosa significhi “atteggiamento teoretico” può esser ancora chiarito, esplicitando il nesso tra esso e il suo
“apparentemente “opposto ovvero la “ragion pratica”. Aristotele, usa l’espressione “ragion pratica” almeno
in due differente accezioni: per indicare sia la capacità di fare filosofia pratica, sia la capacità di esercitare la
saggezza pratica. Sulla prima la ragion pratica indica un ragionare sulla “prassi” - del pedagogista, come
specifico “uomo di scienza”, mentre sulla seconda possiamo pensare che la ragion pratica sia “ragionare
nella prassi”, di quel particolare “uomo pratico” che è l’educatore.
Occupiamoci ora della prima accezione aristotelica di ragion pratica ovvero quella che la intende come
sinonimo di “scienza pratica”. Innanzitutto, il filosofo greco distingue le scienze in pratiche-poietiche-e
teoretiche; le prime hanno per oggetto l’agir bene esemplificato dall’uomo buono; le seconde il saper fare,
di cui è modello il buon technico; le terze si sviluppano attraversi la contemplazione e la dimostrazione
delle realtà immutabili di cui si occupa il sapiente. Sia l’agire, sia il fare riguardano ciò che non rimane
sempre lo stesso, ma può essere diverso da come è: è la nostra concreta vita di esseri umani> molto
dipende da noi e molto altro no. Aristotele dice che la scienza pratica mostra la verità ma “per grandi
linee”, come facendo uno schizzo; infatti, non può essere rigorosa al modo delle scienze esatte. Aristotele
afferma che la scienza pratica deve far riferimento agli endoxa: trattando dei beni umani, ossia di cose che
riguardano tutti gli uomini, deve fare i conti con il modo di pensare della gente. Sono queste le notazioni da
applicare al profilo della pedagogia come scienza: non può essere rigorosa al modo delle scienze esatte, né
ciò sarebbe auspicabile; deve sempre fare i conti con il modo di pensare della gente.
7.3 La pedagogia fondamentale e la saggezza pratica
La seconda accezione aristotelica di “ragion pratica” è quella che la intende come “saggezza”, cioè come
quella specifica virtù che permette di realizzare di volta in volta le diverse virtù etiche. Per essere virtuosi
nella vita pratica infatti occorre ragionare e calcolare quali siano i mezzi migliori per raggiungerlo in un
contesto concreto e particolare. Il filosofo Gadamer ha esplicitamente riconosciuto il valore della saggezza,
in tal senso l’attualità ermeneutica di Aristotele, valorizzando la capacità del saggio di mettere in rapporto
l’universale e il particolare. L’uomo saggio come il bravo tecnico, e quindi anche l’educatore, sono uomini
pratici che si impegnano per cambiare in meglio le cose, incidere sulla realtà, trasformarla generando cose
nuove. Tuttavia, queste sono anche persone contemplative, perché devono conoscere la realtà
oggettivamente, nelle sue cause proprie e non solo nelle manifestazioni empiriche che di volta in volta si
presentano. Ora una scienza pratica può aiutare l’educatore ad approfondire il senso della sua esperienza,
allargarne le prospettive. Ma quanto più ci si avvicina alla vita pratica, tanto più è in gioco il saper e il fare
l’educatore. La pedagogia fondamentale può rendere l’educatore più capace di riflettere sul proprio
vissuto, personale e professionale e di compiere una lettura di essa orientata al coglimento del senso e di
nuovi significati e di nuovi interventi possibili. Se l’uomo pratico, il saggio o l’educatore esplica il suo sapere
dello scienziato che riflette sulla prassi, lo studioso di etica o di pedagogia; ciò lo aiuta innanzitutto a
considerare quale sia il fine da perseguire. la prossimità tra scienza pedagogica ed etica, intese entrambe
come forme della scienza pratica, non appare casuale perché- come di Husserl- l’etica è il modello di tutte
le scienze volte a orientare la capacità umana di scegliere e agire, sia perché- come di Stein- è compito
dell’etica, essa rappresenta una “scienza-base della pedagogia”. Non solo l’essere, non solo il poter essere,
a soprattutto il dover-essere emerge come “dimensione specifica della razionalità pratica della pedagogia”.
Qui si può intuire un dato: con l’educazione di una persona si tratta in qualche modo di un’impresa che ha a
che fare con una certa filosofia dell’essere della persona. Si noti però, che tale prossimità con una scienza
filosofica quale l’etica non deve fare pensare ad un’equiparazione tra la filosofia e la pedagogia
fondamentale> la pedagogia fondamentale non è filosofia. Se l’educazione ha sempre a che fare con una
certa filosofia dell’essere umano, trova giustificazione l’intonazione etica del compito educativo già
riconosciuta a livello della pedagogia spontanea. Infatti, che la pedagogia non possa che essere una scienza
pratica è già suggerito da caratteri della pedagogia spontanea: essa porta con sé, pur senza saperne dare
ragione, un certo criterio etico-normativo, un ideale di umanità, ritenuto positivo. Ciò significa che ogni
educatore, assume sempre una certa responsabilità etica.
7.4 I momenti della pedagogia fondamentale: primo schema
Veniamo allora al secondo aspetto in cui si vede, in modo ancor più determinato, l’essere pratica della
pedagogia fondamentale: il suo essere un logos integrato. Indichiamo qui i tre momenti sempre presenti in
una riflessione di pedagogia fondamentale:
-Il primo momento è detto “empirico” è quell’inventario che ha il carattere di una ricognizione empirica e
problematica: l’esperienza comincia ad essere descritta, con i suoi punti critici. A tal fine, ci si serve anche di
indagini statistiche e soprattutto, psico-sociali, che spesso rivelano qualcosa di non trascurabile dei vissuti
dei soggetti considerati e della loro pedagogia spontanea. In seguito alla prima ricognizione empirica lo
studioso di pedagogia fondamentale coglie l’esigenza di portare a chiarezza la problematicità; avverte la
necessità di mettere tra parantesi quanto emerso, sorge qui la domanda veritativa, la quale fa sentire
innanzitutto l’esigenza di attingere a uno studio di fenomeni specifici condotto con una logica specifica a
essi adeguata.
- il secondo momento detto “empiriologico” costituisce un tale approfondimento grazie all’epoche, lo
studioso di pedagogia fondamentale entra in una riflessione critica. I contributi di spiegazione dei fenomeni
offerti dalle scienze empiriologiche aiutano a prendere una prima distanza dall’atteggiamento spontaneo e
naturale, evitando stereotipi e generalizzazioni, infatti, questo secondo momento rappresenta una
riflessione di specificazione. Bisogna fermarsi, mettere tra parentesi e cercare di significare l’esperienza,
percorrendo il secondo momento, il pedagogista scorge domande e ipotesi di ulteriore lavoro di riflessione.
Nel logos integrato che la pedagogia fondamentale è, segue quindi un ulteriore momento di riflessione che
si può considerare pedagogico in senso più pieno e adeguato.
-il terzo momento detto di “fondazione pedagogica” si articola a sua volta in due momenti: il momento
teoretico e quello prassico-poietico. Nel suo insieme la fondazione pedagogica mira ad articolare una
radicale indagine di senso che possa rendere evidenti, i caratteri essenziali e costitutivi del fenomeno in
quesitone (ed è quanto si realizza nel momento teoretico, interessato a cogliere il “che cos’è”) e di
conseguenza, a esplicitare adeguatamente direzioni metodologiche per la prassi educativa (ed è quanto
realizzato nel momento prassico-poietico, interessato a esplicitare il “com’è”). Usiamo il termine prassico
piuttosto che pratico perché quest’ultimo può riferirsi a tutte le modalità della ragione e all’operare
concreto dell’educatore, mentre prassico indica ciò che nei discorsi del pedagogista è “volto a orientare la
prassi”, cioè appunto l’operare concreto dell’educatore impegnato, con la sua propria ragion pratica tra i
banchi di scuola. All’aggettivo prassico leghiamo poi poietico con riferimento alla “poiesis”, nome con cui la
filosofia greca classica indicava il fare>la poiesis per l’uomo greco, è il portare all’essere ciò che prima non
c’era.
7.5 Note sul ritorno prassico-poietico all’esperienza
La pedagogia fondamentale è una ricerca di senso e di metodo. Infatti, la finalità propria della pedagogia
fondamentale è duplice: tracciare profili essenziali dell’educare (il senso) e a partire da questi, direzioni per
la prassi (la teoria del metodo), che siano appropriate ai mondi vitali effettivi e storici in cui l’educazione, di
fatto ha luogo> una duplicità inscindibile, non si può perseguire una finalità senza l’altra. La pedagogia
fondamentale è, in ultima istanza, segnata da un “intrascendibile primato della ragion pratica”. Per rendere
più chiara e piena quest’ultima intuizione, argomentiamo cosa siano il momento teoretico e il momento
prassico-poietico (e il loro nesso). Esempio (come anche empatia vedi appunti)
Poniamo che lo studioso di pedagogia fondamentale voglia dedicare una ricerca al dialogo interculturale.
Per prima cosa farà un inventario delle maggiori questioni concernenti le migrazioni, il multiculturalismo
ecc.; si porrà in ascolto delle indagini psicosociali che fotografano la situazione attuale (momento empirico).
In un secondo momento, procederà con un’analisi dei contributi di spiegazione offerti da scienze come la
sociologia e la psicologia o la storia per attuare un’indagine libera da stereotipi (momento empiriologico).
Nel successivo momento di fondazione pedagogica si chiederà “che cos’è?” (momento teoretico) nella sua
essenza il dialogo interculturale, evidenziando così i tratti costitutivi. Da qui si innesterà una riflessione sul
“come”, (momento prassico-poietico) che sarà un’esplicitazione di quanto emerso. Questo secondo
passaggio sarà il punto culminante di tutta la riflessione condotta: si vedrà qui che il “logos” della pedagogia
fondamentale è segnato dal primato della ragion pratica. Nel rapporto che si instaura tra questi due ultimi
due momenti è racchiusa un’istanza preziosa, Husserl infatti diceva che la pedagogia fondamentale non può
essere solo ricerca sull’educazione, ma deve essere al contempo per l’educazione, esser di giovamento.
Non si tratta di dispensare “ricette” che sono impossibili se vogliamo generare autentica educazione,
compito dello studioso di pedagogia è evidenziare che le “ricette”, le soluzioni standard, sono più proprie di
saperi irriflessi che non vanno assolutizzati. Piuttosto, la pedagogia come scienza- in quanto discorso
rigoroso e oggettivo- può aiutare i “pratici” a fare una sua lettura critica e orientata a cogliere nuovi sensi.
Non va dimenticato ciò che diceva Aristotele: solo dall’unione dei diversi contributi alla ricerca della verità
può derivare “qualcosa di grande”. Husserl esprime ciò quando parla di una conoscenza della verità da
parte della coscienza, che si dà sempre in modo prospettico, mai in piena luce> richiedere l’integrazione di
punti di vista>interpretazioni. Ciò significa che per Husserl in un senso metafisico e fenomenologico, la
realtà rimane sempre più grande della nostra capacità di conoscerla.

LEZIONE 8: UN NUOVO CODICE EPISTEMOLOGICO


Tutto ciò di cui abbiamo parlato costituisce l’istituzione del problema pedagogico: con l’insorgere del
dubbio che abbiamo delle nostre convinzioni, siamo quasi costretti a domandarci se quanto ci appare certo
sia anche poi vero, in sé e per sé preferibile in ragione della sua oggettività. L’istanza critica ci dispone a
ricercare il vero: e si configura come istanza veritativa. Infatti, si tratta di andare a vedere come stanno le
cose e di saper dire perché stanno in un certo modo; oppure di rendere evidente ogni aspetto delle nostre
esperienze. È questa ricerca del vero che ci ha fatto parlare non più di pedagogia spontanea, ma di
pedagogia razionale. Ora, un primo dato subito s’impone con evidenza: non è praticabile sensatamente
nessuna concreta ricerca razionale, se non si tiene conto di quanto si può denotare con la nozione di codice
epistemologico. Con esso si intende un sistema, idealmente unitario ma sempre storicamente determinato,
di norme, che “regola il divenir scienza di una scienza” come è stato scritto. Grazie a questo codice, una
riflessione veritativa può svolgersi in senso critico e sistematico; un codice epistemologico è quanto rende
la riflessione pedagogica mossa dall’istanza di razionalità, pedagogia scientifica- sapere rigoroso, oggettivo.

8.1 Una rottura epistemologica


Iniziamo da due rilievi: il primo possiamo presentarlo, affermando che pedagogia oggi si dice in molti modi;
è un’affermazioni che descrive bene il fatto che, nel nostro tempo nelle società in cui si svolgono le nostre
esistenze, così si registra un massimo di convivenza tra paradigmi e forme. Le pedagogie sembrano saperi
variegati e direi compositi, quanto a pratiche e teorie, idee ideali e valori. Oggi la pedagogia ambisce a porsi
come scienza autonoma, distinta dalle altre scienze e soprattutto dalla filosofia. La pedagogia è stata
considerata parte della filosofia, una sorta di filosofia secunda o filosofia applicata, in ragione che con
l’educazione di una persona si tratta pur sempre di un’impresa filosofica> oggi questo paradigma è messo
molto in questione. Si parla dunque di una radicale messa in questione, perché “il fatto trascendentale” che
si è prodotto è una vera e propria “rottura epistemologica” nella storia della pedagogia del secolo
ventesimo. Da questa frattura, sono emersi i limiti critici di un paradigma puramente filosofico, di una
riconduzione della pedagogia alla filosofia; e la necessità di pensare u paradigma propriamente scientifico
che intenda la pedagogia come scienza specifica dell’educazione. In primo luogo, affrontandolo come
problema puramente filosofico, il problema educativo tende a non esser visto nella sua specificità; esso è
riportato ad una logica astratta, che non apprende dall’esperienza, ossia dalla realtà così come appare. Il
ricorso alla scienza, come logica specifica che s’oppone a quella astratta, è prima tappa necessaria per
elaborare un sapere critico; garanzia che consente di restare fedeli all’esperienza così come si offre ad
un’intuizione senza pregiudizi. La scienza in quanto è garanzia di fedeltà all’esperienza, può sostenere
l’impegno critico di “ridurre il fenomeno a sé stesso” permettendo di distinguere, nell’esperienza, aspetti di
carattere solo contingente e tratti che invece devono essere di necessità predicati del fenomeno, pena la
sua insignificanza. È quanto col linguaggio della fenomenologia e dell’ermeneutica si chiama definizione
dell’essenziale “è l’intuizione eidetica”, la quale permette di distinguere quanto appartiene in proprio al
fenomeno da quanto invece non gli è proprio.

8.2 Verso la configurazione di un nuovo codice


Nella storia della pedagogia moderna molti autori hanno cercato di pensare il discorso pedagogico e
didattico in autonomia rispetto alla filosofia. Nessuno di questi però ha rivoluzionato il modo d’intendere la
pedagogia e una novità epistemologica si è verificata solo nel corso del secolo scorso. Da un lato abbiamo
l’idealismo attualistico di Gentile con il tentativo di inglobare la pedagogia nella filosofia: di vedere l’essenza
della pedagogia in un atto filosofico; di pensare la formazione e l’educazione dell’uomo nell’orizzonte di un
sostanziale primato della ragione teorica. Dall’altro lato abbiamo la pedagogia pragmatistica di Dewey,
interpretata come un tentativo opposto a quello di Gentile: concepire la filosofia nella sua essenza come un
atto pedagogico, fondando la formazione e l’educazione esclusivamente sulla ragione pratica, senza il
riferimento al fondamento teoretico di cui se né parlato. Possiamo interpretare queste due impostazioni
come i poli di un’antinomia: l’espressione di due esigenze reali che non possono essere negate. Dovremmo
ricomprenderle in una sintesi che da un lato deve affermare l’autonomia della riflessione pedagogica e in
essa un peculiare primato del pratico (Dewey); ritrovare il significato costitutivo di un nesso con la filosofia
come sapere teoretico, poietico e pratico (Gentile).
Nella storia è possibile distinguere 4 momenti/tappe, reali ma anche considerate ideali> tessere che vanno
configurando il nuovo codice epistemologico della pedagogia:
-In un primo momento è sembrato che, per fare della pedagogia una scienza autonoma, fosse necessario
applicare il principio della sperimentazione alle azioni educative; allo stesso modo di quanto è accaduto per
la psicologia, che si è resa autonoma prendendo le distanze da una dottrina filosofica dell’anima. Per questa
posizione, la pedagogia diviene scienza distinta solo diventando pedagogia sperimentale.
- In un secondo momento è sembrato, che principio di scientificità di una scienza pratica dovesse essere il
principio della critica dell’ordine esistente. La pedagogia, verso la fine degli anni 60 e gli inizi degli anni 70 è
stata vista soprattutto nel suo aspetto di ideologia funzionale agli interessi del potere nelle società; è la
posizione critica della anti-pedagogia, che ha messo in questione l’esistenza stessa della pedagogia. La
pedagogia generale presenta solo un carattere ideologico, nel senso negativo di questo termine. Essa
costituirebbe la teoria e la prassi attraverso le quali si trasmettono i rapporti di produzione del sistema
dominante e l’assetto di potere di una società, mediante il controllo completo delle coscienze.
In un terzo momento, si è imposto il principio di specificazione. In questa prospettiva, sua irriducibile
complessità. È necessario accostarsi ad ogni suo aspetto specifico con un metodo specifico e anziché di
“pedagogia generale” si dovrà piuttosto parlare di “scienze dell’educazione”. Si danno in tal modo una
psicologia dell’educazione ossia molteplici differenziate scienze specifiche applicate allo studio dei
fenomeni educativi. Alla pedagogia generale resterebbe solo il ruolo di coordinamento fra i diversi ambiti
disciplinari, costituendone una sintesi di tipo formale. Solo in tempi più recenti, accettata la funzione
positiva insostituibile svolta dalle diverse scienze dell’educazione, è emersa in forma rinnovata l’esigenza di
una pedagogia generale come specifica scienza umana applicata allo studio dell’educazione, autonoma
rispetto alle altre scienze dell’educazione. È il quarto momento del nuovo codice epistemologico della
pedagogia; dopo la riduzione della pedagogia nelle singole scienze dell’educazione, si assiste a partire dagli
anni 90, ad un ritorno della pedagogia generale come “ontologia regionale”, il cui compito è la ricerca e la
giustificazione di senso dei fenomeni umani in quanto sono educativi.
8.3 Primo profilo di una pedagogia fondamentale fenomenologico-ermeneutica
Può inserirsi ora la nostra proposta di una pedagogia generale o preferibile, fondamentale, di stile
fenomenologico-ermeneutico. La riflessione posta sulla storia della pedagogia contemporanea, ci mette
nelle condizioni di poter cominciare a disegnare i tratti caratterizzanti/il profilo dell’educazione. È
preferibile parlare di pedagogia fondamentale perché oggetto proprio e adeguato di questa scienza sono i
problemi essenziali, di fondo, dell’educazione che sono quello del senso (o della verità) e quello del metodo
(o della pratica) dell’educazione. Sono problemi di fondo perché essi sono sempre presupposti dalle altre
scienze pedagogiche e dalle singole scienze dell’educazione. Sono presupposti che restano impliciti
all’interno di queste scienze e attendono di essere pensati in modo esplicito, da una scienza che li assuma
come i propri problemi. La pedagogia è una scienza umana distinta dalle altre e autonoma, non autarchica
perché si elabora e si sostanzia nel dialogo con le altre scienze pedagogiche e con tutte le scienze applicate
allo studio dell’educazione. È una scienza umana, una scienza umanistica. Essa assume la realtà umana
dell’educazione, in cui di fatto si offre; pensata o costruita secondo i principi della fenomenologia, essa
predilige l’esperienza personale dell’educazione, i fenomeni educativi vissuti in presa diretta.

8.4 Scienza si dice in molti modi


La pedagogia è segnata da una frattura ma per tutte le scienze del ventesimo secolo in realtà si è verificata
una “rivoluzione epistemologica”: ha portato alla messa in questione e al superamento del paradigma
prevalente nella modernità e alla ricerca di paradigmi nuovi. È rilevante il ruolo che in questa vicenda
hanno avuto le nuove scienze dell’uomo e la problematica epistemologica intesa a pensarne la proprietà.
Agazzi afferma che la scienza “si dice in molti modi”; tutti, devono esser tenuti come modalità differenziate
di un “analogato principale” ovvero di un significato comune originario, a definire il quale concorrono i
termini di rigore e oggettività. Nella pedagogia non in tutto si può ricercare lo stesso rigore. Possiamo
scorgere meglio che ogni sapere scientifico si ritaglia, per così dire, e visualizza un aspetto specifico della
realtà, assumendolo begli assiomi e nelle categorie che gli sono proprie e che ne definiscono la logica
specifica. Ogni scienza, pertanto, concepisce con un linguaggio e una logica specifica un aspetto specifico
del reale: allora la res (un tratto della realtà), è sussunta come objectum scientifico. Il rigore significa
l’offerta di una ragione di ciò che è affermato, rigore che non coincide con esattezza (es: esattezza
matematica) perché questa è solo un tipo di rigore ed è insensato cercare in tutto lo stesso rigore.
L’oggettività invece implica, da un lato, l’intersoggettività (la condivisione di un significato all’interno di una
comunità scientifica), dall’altro lato l’“oggettualità” (l’inerenza al reale di ciò che è affermato o negato). I
due significati devono essere correlati l’uno all’altro: invero, le condizioni che consentono di giustificare
l’intersoggettività di una proposizione coincidono con le condizioni che permettono ad essa di affermare o
negare qualcosa che pertenga alla realtà.

8.5 Oltre il paradigma positivistico


Vi è una veduta che aiuta a pensare un nuovo paradigma epistemologico per le scienze umane e per una
pedagogia fondamentale come specifica scienza umanistica dell’educazione. Diviene possibile, infatti,
superare la prima grossa ipoteca: l’ipoteca relativa al “metodo” che ha indotto a pensare l’oggettività della
conoscenza secondo il modello della ragione fisico-matematica> come verità chiara e distinta relativa ai
fatti qualificabili dei fenomeni. Ora, è diventato sempre più evidente (grazie anche alla fenomenologia) che
esistono forme di conoscenza vera, che restano tali, anche se non sono riconducibili al senso
dell’oggettivazione proprio delle scienze esatte. Essenza della scienza deve essere la ricerca della verità, che
è messa in atto nell’esperienza, nell’indagine di qualsiasi fenomeno, con l’imporsi della istanza critica. È
questa la ragione per cui è necessario vedere nella scienza una prima forma di riflessione critica. Ma poiché
per le scienze specifiche dell’esperienza restano interne all’esperienza, la loro prospettiva è empiriologica;
anche la ragione rende necessario oltrepassare il punto di vista delle scienze, traguardando un’altra forma
di riflessione che possiamo chiamare ulteriore o di secondo livello. È precisamente questa la ragione che
giustifica la necessità di un sapere fondamentale che assuma quanto vi resta implicito, tentandone una
fondazione strutturale. Il paradigma prevalente nella storia moderna delle scienze esprime così, l’essenza
della scienza moderna. Ha parte allo stesso paradigma una caratteristica concezione della tecnica moderna
come forma autentica di sapere pratico, che può essere designato essenza della tecnica moderna. La
modernità, come ha stimato la scienza fisico-matematica forma adeguata di sapere teoretico, ha
considerato la tecnica forma adeguata di sapere pratico intendendo la tecnica come tecnologia. Questo
presenta un nesso insuperabile con la sfera dei valori e del bene: è un universo di “verità umane”, che non
possono essere né “spiegate” né orientate da una ragione tecnologica. La ragion pratica ha smarrito il
nesso con la ragione poietica: l’eclissi dei fini ha qui la sua radice profonda. La pedagogia fondamentale è
fondata sul primato della pratica; esige pertanto una vera e propria “riabilitazione” della ragione pratica,
oltre il paradigma vigente nella modernità. Infatti, se la ragione teoretica moderna, segnata dall’oblio del
senso dell’essere, ha pensato il reale come oggettività senza verità; la ragione pratica moderna, che pensa
le azioni umane secondo il modello della tecnica, riesce in un ideale funzionalistico.

LEZIONE 9: BREVE STORIA DELL’EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA MODERNA


Qui verranno ricostruite le tappe storiche che, ha condotto la pedagogia per costruirsi sapere scientifico e
autonomo nel XX secolo.

9.1 L’età moderna: verso la pedagogia come sapere autonomo


Nel corso della storia, la pedagogia ha privilegiato un codice epistemologico di tipo filosofico, come sapere
di secondaria importanza rispetto alla filosofia. È bene ricordare come il passaggio dalla pedagogia
“filosofica” alla pedagogia “scientifica” sia stato in alcuni casi anticipato.
9.1.1 Comenio> 1600
Un primo tentativo di riflessione organica sull’educazione fu elaborato nel 600 da Comenio, la cui
preoccupazione era quella di migliorare l’istruzione e organizzarla in forme più razionali. Facendosi
interprete della rivoluzione scientifica del tempo, Comenio raccolse l’eredità di Bacone (che affermava il
primato dell’esperienza ponendo per la prima volta il problema del metodo) e di Ratke (che aveva tradotto
l’intuizione baconiana sul piano della didattica). Nella visione di Comenio la pedagogia non doveva essere
considerata un’appendice di altri saperi, ma doveva costituirsi come didattica, cioè come una metodologia
dell’educazione il cui fine era lo sviluppo della personalità dell’educando. Egli rielaborò la concezione
dell’uomo come microcosmo ribadendone la centralità e la dignità in un orizzonte religioso-teologico
ereditato dallo spirito della Riforma protestante (teocentrismo): mentre nella natura, l’ordine e l’armonia
sono dati, nell’uomo (anche lui creatura di Dio) vanno conquistati. Spetta pertanto ad una retta educazione
sviluppare facoltà umane che rendano l’uomo quanto Dio gli ha concesso di essere destinandolo “ad esser
partecipe della (Sua) eternità”. Per realizzare la concordia universale occorreva diffondere l’ideale della
“pansofia” (sapienza universale), finalizzata a una formazione integrale dell’uomo, e della “pampaedia”
(educazione universale) che, attraverso una nuova istruzione scolastica, rendesse concreto il principio
dell’“omnes omnia omnino docere” (insegnare tutto a tutti interamente). Si trattava di una pedagogia
inclusiva che introduceva un’educazione e un’istruzione rivolte a tutti. Il contributo maggiore offerto da
Comenio fu la sua teorizzazione didattica: ciò che andava ricercato era il fondamento di ogni possibile
educazione attraverso un’interpretazione razionale della didattica, che egli definiva “l’arte d’insegnare”> si
trattava di una costruzione intenzionale che comprendeva l’oggetto, cioè l’insegnamento, e le strategie
attraverso cui realizzare i propri obiettivi. Individuava il miglior modo per rendere facile ed efficace
l’insegnamento e l’apprendimento. Egli fissò i principi a fondamento del sapere pedagogico per formare
nell’educando una personalità autonoma: mediante la gradualità e la ciclicità veniva posta enfasi sulla
necessità di seguire i ritmi di maturazione dell’alunno e di arricchire l’apprendimento delle conoscenze
riferendole alle cose date dall’esperienza. Comenio diceva infatti che dal momento che “l’uomo per essere
uomo dev’essere formato” l’insegnante deve seguire l’armonia della natura, è la natura che mostra
all’uomo una via ciclica in base alla quale ogni apprendimento si realizza come sviluppo che porta al
miglioramento di capacità già presenti fin dall’inizio del processo. Questo spiega perché nella pedagogia
comeniana, il metodo ciclico prevedeva che nelle varie fasi della vita scolastica si proponessero sempre le
stesse discipline arricchite di volta in volta e approfondite. Comenio in un’epoca in cui l’educazione era
improvvisata definì il campo di studio della scienza pedagogica anche se lo stato di quest’ultima non subì
cambiamenti significativi almeno fino all’800.
9.1.2 Rousseau >1700
Nel corso del 700, sulla spinta dell’illuminismo, la riflessione pedagogica viveva un’altra occasione di
rinnovamento grazie all’opera di Rousseau, il quale viene considerato “il padre della pedagogia
contemporanea” intesa come sapere autonomo. Il suo più grande merito fu quello di aver saputo avviare
un processo di accusa alla società del tempo che gli costò inimicizie, ma gli procurò anche molti consensi in
tutta Europa, rendendolo il capostipite della moderna letteratura pedagogica. Rousseau differenziava
l’uomo naturale e l’uomo civile: il primo era quello che usciva dalle mani del Creatore e per questo era
“buono”; il secondo, invece, risentiva dell’influenza della società che trasforma tutto e non apprezza nulla
di come è stato fatto dalla natura, neppure l’uomo. Pertanto, per ristabilire l’eguaglianza tra uomo e uomo
in quanto cittadino, occorreva riorganizzare la società su basi nuove, individuando forme educative nuove.
Le prime furono presentate “nell’Emilio” con scopo di indicare il metodo educativo per conservare la bontà
naturale dell’uomo, le forme legislative invece venivano indicate ne “il contratto sociale”. L’Emilio non
doveva essere tanto un trattato di educazione quanto n “trattato sulla bontà originaria dell’uomo, destinato
a dimostrare come il vizio e l’errore, si introducano in lui dall’esterno alterandolo”> infatti l’ambiente scelto
da Rousseau per l’educazione di Emilio era la campagna, un luogo che si prestava a preservare la sua
originaria innocenza e la sua naturale bontà perché non contaminato. Rousseau assegnava alla pedagogia la
funzione di avviare la rinascita dell’uomo morale e il risanamento della società, indicando nel metodo
dell’educazione negativa, che riduceva ogni intervento esterno, e nell’educazione naturale, che poneva la
strada da percorrere. Rousseau, in questo modo, andò contro l’educazione del tempo che considerava il
bambino solo l’adulto che sarebbe diventato. Egli elaborava un metodo educativo “puerocentrico” ordinato
secondo tappe (la prima infanzia, la seconda infanzia, la fanciullezza, la preadolescenza, l’adolescenza)
ciascuna con propri caratteri e compiti. Il suo metodo educativo veniva costruito a partire dall’intuizione:
l’educazione era infatti scoperta autonoma dell’allievo> il precettore non doveva dare precetti ma farli
trovare al fine di uno sviluppo naturale. Nella prima educazione, il precettore non doveva imporre nulla in
modo diretto all’educando, ma aiutarlo ad eliminare le cattive influenze imposti dalla società così che egli
potesse fare esperienze in prima persona utili per la sua crescita. Si trattava di un’educazione, che non va
interpretata come permissiva, ma come un’educazione ad una libertà che non eliminava l’autorità del
precettore. Quest’ultimo aveva un ruolo di primo piano e decisivo nella seconda età educativa (12-15 anni)
per lo sviluppo delle conoscenze intellettuali attraverso la scoperta dell’ambiente, e nella terza età
educativa (15-20 anni) doveva svolgere il compito di preparare l’educando alla vita sentimentale. L’ultimo
compito era la formazione politica che avrebbe reso l’educando un buon cittadino capace di creare una
famiglia: solo dopo il matrimonio il precettore avrebbe rinunciato alla propria autorità. Il precettore però
svolgendo il ruolo di tutor, finiva col manipolare continuamente il suo allievo orientandone la spontaneità e
la libertà, che erano quindi categorie astratte piuttosto che frutto di un’educazione che si realizzava come
sviluppo concreto, reale, storico dello spirito umano. Il contratto sociale, che Rousseau scriveva
contemporaneamente alla stesura dell’Emilio, aveva il compito di chiarire i fini politici e giuridici della sua
pedagogia. Progetto pedagogico e progetto politico, erano intrecciati le sue due opere, infatti, si
integravano nell’utopia rousseniana di una rifondazione della società attraverso il rinnovamento
dell’individuo, perché solo dalla persona riscoperta nella sua natura originaria sarebbe potuto nascere un
cittadino capace di cambiare la società. Il più grande contributo offerto fu comunque l’Emilio: temi prima
considerati marginali come il sentimento dell’infanzia, il rispetto delle sue fasi evolutive, il metodo non
autoritario dell’educatore divennero centrali.

9.2 L’Ottocento pedagogico


Definito il secolo della pedagogia perché fu attraversato da una rivoluzione culturale: se da un lato prevalse
l’orientamento romantico, che vedeva nell’educazione il momento centrale della formazione dello spirito
(Bildung), non mancarono altre filosofie come quella del Positivismo che considerava la scienza pedagogica
una sintesi di più discipline, dell’herbartismo che dava invece centralità alla questione epistemologica della
pedagogia etc..

9.2.1 Pestalozzi
Pestalozzi seppe coniugare teoria e prassi al fine di realizzare un’educazione popolare. Influenzato dalla
pedagogia di Rousseau egli andò poi maturando, attraverso esperimenti educativi, l’idea di un’educazione
positiva, popolare, rivendicando l’importanza dell’istruzione, dell’origine esperienziale di ogni
insegnamento che deve affidarsi a dati osservativi psicologici e sociologici. La sua riflessione, pur mancando
di organicità fa della pedagogia un sapere sull’educazione intesa come formazione umana insieme
spirituale e socio-politica: poiché l’uomo è dato dall’unità di “cuore (attività etico-religiosa), mente (attività
teoretica), e mano (attività tecnico-pratica)” la sua formazione deve essere integrale. E poiché il fine
dell’educazione era quello di “abilitare l’uomo all’uso integrale di tutte le sue facoltà, la pedagogia in
Pestalozzi assumeva i tratti della scienza contemporanea nel tentativo di superare la sua tradizionale
derivazione dalla filosofia, privilegiando il ricorso all’esperienza, anche se la sua proposta era ancora legata
ad istanze filosofiche illuministiche e romantiche.
9.2.2 Herbart
Una tappa decisiva dell’ottocento sono le riflessioni di Herbart che elaborò una filosofia detta Realismo con
la quale prendeva le distanze dall’Idealismo. La necessità che la pedagogia si costituisse come scienza
caratterizzata da sistematicità, distinguendola da un’educazione intesa come arte. Infatti, in la Pedagogia
generale derivata dal fine dell’educazione, egli sosteneva che la pedagogia pur essendo una scienza
filosofica, aveva oggetto e fine diversi dalla filosofia, ovvero il “governo dei fanciulli”. Essa era una scienza
pratica applicata: una scienza filosofica che implicava il riferimento all’esperienza, elaborata grazie al
rapporto con la psicologia e con l’etica; la psicologia aveva il compito di studiare i mezzi per conoscere le
facoltà dell’intelletto e per comprendere il soggetto dell’educazione, l’etica aveva il compito di indicare il
fine morale della formazione. Herbart per psicologia intendeva una scienza dall’anima umana, cioè di un
ente metafisico (un reale) la cui vita è costituita da una serie di rappresentazioni, caratterizzate da momenti
di stasi e movimento, che nascono grazie all’incontro con altri reali. La fondazione della psicologia
herbartiana conteneva ricadute pedagogiche: poiché la cultura di associazione tra la massa appercipiente
(l’io) e le masse appercepite, è necessaria un’istruzione educativa basata sull’interesse> chiamata da
Herbart attenzione appercettiva che renda possibile la fusione tra le conoscenze già acquisite e le nuove
rappresentazioni. L’educazione non poteva quindi realizzarsi senza l’istruzione. L’interesse era considerato
da Herbart un fenomeno psichico che aveva una “sua capacità formativa” e che, presentandosi alla
“coscienza come attesa e aspettativa di qualcosa toccava all’educatore scorgere e orientare”. Vengono
indicati due gruppi di interesse:
1-il primo riguarda la conoscenza e si riferiva: all’attività teoretica sulla natura> interessi empirici, e alla
valutazione morale ed estetica>interessi estetici.
2- il secondo gruppo al rapporto con ogni singolo individuo>interessi simpatetici, con la
collettività>interessi sociali, e con Dio>interessi religiosi.
La crescita culturale dell’educando era basata su quattro concetti formali:
-la chiarezza> che riguardava un nuovo contenuto che il docente doveva presentare nei dettagli,
soffermandosi nell’ oggetto e negli obiettivi;
l’associazione>come sintesi di diversi elementi in una superiore unità;
-il sistema> che favoriva la fusione tra vecchie e nuove acquisizioni;
-il metodo> il cui compito di applicare le conoscenze e orientare la pratica in modo coerente era affidato
all’educatore.
Il fenomeno educativo aveva come suo centro l’incontro tra l’educatore e l’educando, ed aveva come sue
finalità la formazione totale del soggetto: un processo complesso che basava il rapporto tra educatore ed
educando sul governo (cioè sulla disciplina non ancora educazione) sull’insegnamento (l’istruzione che
avveniva grazie all’esperienza e il conseguimento della virtù) e sulla coltura morale (il compito di coltivare e
consolidare la virtù dell’educando).
La pedagogia Herbatiana concepiva la famiglia come il primo ambiente educativo che garantiva la crescita
indivuale del bambino; la scuola, pur essendo un ambiente educativo necessario perché assicurava a tutti
un’istruzione, non poteva comunque sostituirsi alla famiglia. La pedagogia di Herbart restò nell’ombra nel
corso del Novecento a causa dell’affermarsi dell’attivismo. Nonostante l’impianto fosse ancora metafisico,
le idee di Herbart costituirono una rottura con la tradizione: i motivi più innovativi della sua proposta
pedagogica furono, la necessità che l’aspetto pratico dell’educazione fosse sostenuto da quello teorico,
l’insistenza sulla priorità del rapporto tra l’educatore e l’educando, il ruolo formativo della famiglia e quello
educativo della scuola, il valore della persona dell’educando, l’attenzione ai suoi bisogni… una pedagogia
che sembrerebbe vicina a concezioni contemporanee.

9.2.7 La pedagogia cattolica> risorgimento


Tra i maestri piemontesi abbiamo Rosmini e Bosco. La riflessione di Rosmini ha come tematiche centrali: la
necessità di un’educazione unitaria e l’individuazione di una strategia di insegnamento fondata sui principi
della conoscenza umana. Egli ritrovava nella religione cattolica l’unità dei fini, poiché ogni insengamento
doveva essere rivolto a Dio; nelle scienze l’unità delle dottrine, poiché tutte le scienze sono volte a far
comprendere e ad accettare la religione; nelle dottrine apprese l’unità delle facoltà dell’uomo (potenze).
Per Rosmini per educare non bisognava partire dal singolo soggetto ( ad esempio una rosa) ma partire
dall’idea di pianta in generale per arrivare al concetto di rosa in particolare. Nell’atto dell’insegnamento
particolare e generale non dovevano essere separati ma il fanciullo doveva esercitare la capacità di cogliere
nel particolare anche i concetti più generali. Egli propose, una pedagogia che rispettasse la crescita
autonoma del fanciullo secondo regole proprie e non in conformità a regole adulte. Un contributo fu
offerto anche da don Bosco, fondatore dell’ordine dei Salesiani, il quale dedicò la sua opera all’educazione
dei giovani. La sua opera è un progetto pedagogico che mirava alla promozione nei giovani di una crescita
sul piano sociale, culturale, religioso, umano preoccupandosi di proteggerli dai pericoli dovuti a un diffuso
abbassamento delle moralità e alle condizioni di vita sempre più difficili dei luoghi di lavoro. Il metodo
preventivo era caratterizzato da una forte istanza progettuale poiché partiva dai bisogni reali dei giovani.
Egli valorizzò il lavoro come strumento di formazione della persona. lo scopo dell’educazione preventiva era
quello di suscitare nelle giovani energie positive. Si trattava di aiutare i ragazzi a ben vivere come buoni
cristiani e onesti cittadini attraverso un’educazione che si polarizzava attorno al trinomio: ragione, religione,
amorevolezza. Per realizzare un’educazione amorevole, l’educatore doveva creare un clima comunitario,
sereno e gioioso; infatti, egli aveva creato un ambiente che riproduceva quello della famiglia dove tutti
potevano dare il proprio contributo. Un ambiente amorevole e stimolante: l’Oratorio era “una gran casa
dalle porte sempre aperte e dai cuori più aperti ancora” che rendeva l’educatore grande amico di tutti.

LEZIONE 10> BREVE STORIA DELL’EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA CONTEMPORANEA


Questa lezione sarà dedicata al Novecento e alla sua svolta epistemologica: se fino all’Ottocento la
pedagogia era un sapere ancora fortemente identificato con la filosofia, nel XX secolo essa diventava una
scienza capace di riflettere criticamente sull’educazione e sulla formazione dell’uomo, assumendo le
caratteristiche di un sapere specifico, complesso e più articolato.

10.1 Ragione teoretica e ragione pratica nella pedagogia del Primo Novecento
Il primo Novecento vide contrapporsi idealmente due visioni che affermavano l’una, con Giovanni Gentile in
Italia, il primato della ragione filosofica, l’altra con l’americano Dewey il primato della ragione pratica.
10.1.1 Gentile
Con Gentile si impose la cultura dell’Idealismo che si opponeva in modo radicale al tentativo del Positivismo
di costruire una pedagogia come scienza empirica. Veniva invece riaffermata l’hegeliana centralità del
Soggetto che interpretava l’educazione come un processo di auto-formazione attraverso cui gli individui
esprimevano una libertà come processo necessario di una superiore unificazione spirituale. Per
“l’attualismo” elaborato da Gentile, la pedagogia non era un sapere autonomo ma coincideva con la
filosofia: essa era “scienza della formazione dello spirito”. È questa la tesi che egli elaborava nel “Sommario
di pedagogia come scienza filosofica” dove, affermando la risoluzione della pedagogia nella filosofia dello
Spirito, faceva dell’educazione un divenire dello Spirito che in questo modo, realizzava la propria
autonomia. L’ipotesi epistemologica avanzata da Gentile ricevette consensi ma fu criticata dagli esponenti
dello spiritualismo per avere vanificato la pedagogia “in un’astratta generica affermazione di un certo
concetto filosofico dell’educazione con lo smarrimento d’ogni concreto contenuto”. Il primato della ragione
teoretica non solo liquidava la questione della possibilità di una pedagogia come scienza autonoma, ma
anche ne ignorava l’istanza pratica ed empirica che invece stava prendendo campo in molti altri paesi. Fu
infatti tra la fine dell’800 e il primo 900 che in Europa e in America si affermarono il movimento delle scuole
nuove e l’attivismo pedagogico che avevano come comune obbiettivo quello di operare una rottura col
modello educativo autoritario e adultistico del passato, rivalutando la dimensione dell’esperienza educativa
concreta.
10.1.2 Dewey
Dewey elaborò la propria riflessione pedagogica che è preferibile definire la sua filosofia dello
Strumentalismo logico o Sperimentalismo. Quest’ultima è caratterizzata dall’interazione tra teoria e pratica
“la pratica è molto più vasta della teoria” essa è il banco di prova della teoria; sono le sperienze educative
concrete che sollecitano continue riflessioni teoriche e non viceversa. Di conseguenza egli considerava la
pedagogia una scienza insieme pratica e teorica in cui centrale era l’esperienza che è l’unica fonte di
conoscenza in Dewey. Quindi se per la tradizione l’esperienza era un conoscere, per Dewey era piuttosto un
fare che nasce dal rapporto tra l’uomo e la natura: l’uomo risponde a tutto quello che proviene dalla natura
perché la vuole dominare e trasformare. L’intervento dell’educatore è importante perché trasmettendo
cultura, aveva il compito di orientare l’educando verso esperienze formative che fossero occasione di
crescita. Venivano così indicati come criteri di scientificità la continuità dell’esperienza e l’interazione: il
primo fondava il processo di crescita del soggetto sul rapporto tra l’esperienza scolastica e l’esperienza
dell’educando; il secondo riguardava il rapporto tra la scuola e la società. Il tema che accomuna tutte le
opere pedagogiche di Dewey era l’idea di democrazia in risposta all’affermarsi dei totalitarismi europei: “la
democrazia è qualcosa di più di una forma di governo è un tipo di vita associata, di esperienza
continuamente comunicata”. L’esigenza di individuare un metodo scientifico a fondamento della pedagogia
orientò tutta la riflessione pedagogica deweyana, contribuendo in modo decisivo al dibattito intorno
all’epistemologia pedagogica del Novecento. Fin dal 1929 Dewey si impegno affinché la pedagogia si
costituisse come scienza autonoma dotata di un proprio statuto epistemico e legittimata dal riferimento ad
alcune fonti umane che si occupavano dell’uomo (come la pedagogia). Tali fonti andavano ricercate tra le
scienze umane, quali filosofia dell’educazione la psicologia e la sociologia. La psicologia forniva l’analisi delle
condizioni dell’apprendimento, mentre la sociologia interessava dei rapporti sociali. Sembrerebbe che alla
tradizionale dipendenza della pedagogia dalla filosofia Dewey sostituisse una nuova dipendenza,
esponendo la scienza dell’educazione al rischio di un riduzionismo scientista, come alcuni critici hanno
osservato. In realtà egli chiariva che era l’esperienza concreta svolta dall’educatore a costituire la fonte
primaria di ogni indagine perché, aveva il compito di collaudare o smentire le indicazioni offerte dalle
scienze umane. In questo modo Dewey privilegiava l’uso di una ragione pratica e gettava le basi affinché la
pedagogia, configurandosi come ricerca pedagogica che si basava sulla sperimentazione si costituisse come
sapere scientifico autonomo.

10.2 La pedagogia e la ricerca epistemologica nella seconda metà del 900


Nella seconda metà del XX secolo il modo d’intendere il sapere pedagogico fu rivoluzionato configurando
un nuovo codice epistemologico della pedagogia. La pedagogia italiana fu impegnata in un ripensamento
critico dell’ipotesi epistemologica gentiliana, c’era infatti chi rileggeva la proposta di Herbart e chi preferiva
adottare un approccio sperimentale. Non esisteva quindi un unico orientamento pedagogico, ma
coesistevano diverse posizioni che rendevano complesso il dibattito epistemologico, a riconoscere la
specificità del sapere pedagogico.
10.2.1 Nascita e sviluppi della pedagogia sperimentale
L’ipotesi più innovativa era quella di una pedagogia sperimentale destinata ad attraversare un cammino
tutt’altro che facile, non potendo prescindere, dal ricorso a “valutazioni etiche e deontologiche” sul
processo educativo visto nella sua interezza. A ben vedere si trattava di un panorama pedagogico in una
profonda trasformazione, in cui le diverse iniziative erano orientate a conferire uno statuto scientifico alla
pedagogia, anche se in alcuni casi si trattò di iniziative di pedagogia esperienziale, cioè prive di un metodo
rigoroso. I limiti dell’approccio sperimentale si fecero più evidenti nel dibattito degli anni 60 e 70 che da più
parti denunciava il fatto che le indagini empirico-sperimentali effettuate nelle pratiche educative non
avessero raggiunto i risultati sperati. La ragione di questo fallimento andava ricercata nella difficoltà di
adottare il metodo quantitativo delle scienze esatte per spiegare un fenomeno complesso ed “esistenziale”
come l’educazione che, a differenza della didattica riguardava variabili non misurabili. Questo fu il motivo
per cui la scienza pedagogica andò sempre più preferendo ricerche di tipo qualitativo orientate a
comprendere piuttosto che a spiegare i fenomeni educativi. Va osservato però come verso gli anni 70 la
ricerca empirica ottenne il riconoscimento sociale della sua dignità scientifica, sulla sperimentazione
scolastica che nel 74 dettava norme per la sperimentazione e l’innovazione didattica. Da quel momento in
poi, la pedagogia sperimentale si è separata dalla pedagogia generale ed ha acquistato una propria
autonomia costituendosi come scienza pedagogica che studia l’esperienza educativa e didattica in maniera
oggettiva. A suo modo essa parte dall’esperienza e a questa ritorna tentando di inquadrare i propri studi
entro un più vasto orizzonte di senso pedagogico.
10.2.2 Pedagogia critica, problematicismo e pedagogia cattolica
Nel periodo fine anni 60 inizio anni 70 l’identità della pedagogia subì un forte scacco, accusata di essere
veicolo di una ideologia autoritaria e conformista che aveva fatto dell’educazione uno strumento di potere.
Il 68 produsse un “anti-pedagogia” che proponeva nuove strade da percorrere per sottrrre la pedagogia ad
un’identità falsamente neutrale restituendola alla politica. Alla base delle pedagogie critiche del 68, c’era
una nuova concezione dell’uomo, considerato “buono per natura” ma oppresso dalla società : l’educazione
aveva pertanto il compito di “formare l’uomo nuovo”. Uno dei primi interpreti dell’anti-pedagogia in Italia
fu De Bartolomeis il quale invitava la pedagogia, accusata di essere conservatrice, a superare la propria
“dimensione apparentemente neutra che faceva il gioco di una politica di privilegio” e di adottare il metodo
della ricerca. Nasceva la pedagogia critica che dopo il 68 veniva elaborata secondo prospettive diverse. La
pedagogia cattolica non rimase indifferente alle suggestioni che provenivano dal movimento
antipedagogico e inaugurò una nuova stagione di dibattiti e di riflessioni sull’identità della pedagogia.
Contrastando l’antipedagogia laicista ed opponendosi a posizioni estremiste e nichiliste che finivano col
negare la stessa esistenza della pedagogia, erano molti gli studiosi che, riaffermarono l’autonomia della
pedagogia dalla politica e ribadivano la centralità della persona nella pratica educativa, pur riconoscendo
nel momento politico uno degli strumenti necessari per realizzare una società giusta. Questo dibattito
epistemologico poneva in risalto i dubbi nel definire l’identità della pedagogia come scienza autonoma. Si
arrivava così a negare la possibilità di un punto di vista che fosse proprio della pedagogia, come nella
cultura francese che in quegli anni proclamò la “morte della pedagogia”.
10.2.3 Dalla pedagogia alle scienze dell’educazione?
La pedagogia si era sempre trovata ad affrontare il “fenomeno dell’espropriazione” da parti di altri saperi:
ad analizzare i fattori educativi erano intervenute dapprima la filosofia, poi la politica e la scienza. Negli anni
80 si intensificò la ricerca di un approccio scientifico alle problematiche educative che rendessero la
pedagogia così solidamente fondata sul piano epistemologico “da sfuggire al rischio di ancillarità rispetto ad
altre discipline”. Paradossalmente nei fatti fu proprio questa ricerca di rigore scientifico a favorire
l’affermazione del paradigma delle scienze dell’educazione e ad aggravare la crisi identitaria della
pedagogia. Se da un lato il ricorso a discipline, come psicologia e sociologia, forniva alla pedagogia uno
statuto scientifico e liquidava ogni residuo metafisico, dall’altro lato le veniva conferito il ruolo piuttosto
marginale di coordinamento di altri ambiti disciplinari esponendola al rischio di espropriazione. Se fino a
quel momento aveva avuto confrontarsi col periodo del riduzionismo filosofico, la pedagogia rischiava ora
di ricadere in una nuova forma di riduzionismo naturalistico, dal momento che le scienze dell’educazione
adottavano il modello delle scienze esatte. La pedagogia come sapere a sé stante veniva in questo modo
eclissata e sostituita dalle scienze sperimentali: a cosa serviva se già esistevano la psicologia (per
l’apprendimento) e la sociologia (per l’aspetto sociale dell’educazione)?> Piaget si occuperà di educazione a
partire da un approccio non pedagogico. Introdusse due novità: il cognitivismo e lo sperimentalismo, grazie
a cui la pedagogia diventava più attenta alla realtà e adottava il metodo fornito dalle scienze della natura. Il
cognitivismo però comportò dei pericoli per la pedagogia: nel momento in cui la pedagogia storicamente
veniva “limitata, ridotta” essa si trasformava “in una dinamica tecnicista e prescrittiva”. L’incontro con la
psicologia e la sociologia finiva, con l’appiattire la pedagogia nella dimensione psicologico-didattica e
sociologico-organizzativa. Molti pedagogisti però preferivano rinunciare alla propria autonomia in cambio
di maggiori garanzie scientifiche. Testimonianza di questo orientamento fu, alla fine degli anni 80,
l’istituzione dei corsi di scienze dell’educazione (anziché istituti di pedagogia) e la trasformazione della
facoltà di Magistero in Facoltà di scienze della formazione (che comprendeva al suo interno oltre
pedagogisti anche psicologi, sociologi economisti…).
10.2.4 La pedagogia come ontologia regionale
Tra gli anni 80 e gli anni 90, il dibattito intorno all’epistemologia pedagogica si fece più acceso e
problematico, alcuni pedagogisti parlarono di “fine della pedagogia”. Significativo è a riguardo il
“Documento Granese-Bertin dell’86 dal titolo “Che cos’è la pedagogia? Un dibattito tra studiosi italiani. In
quest’opera si auspicava il ritorno della pedagogia generale come “ontologia regionale” che aveva per
oggetto i fenomeni educativi: essa era una scienza che si occupava dell’educazione e della formazione
dell’uomo. Superato l’antipedagogismo della stagione precedente, veniva ribadita l’autonomia del sapere
pedagogico rispetto alle scienze dell’educazione e la sua identità plurale di scienza che dialoga criticamente
con altri saperi: la pedagogia generale era “connessa intimamente e insieme, distinta e separata dalle
scienze dell’educazione.
PICCOLO RIASSUNTO DEL CAPITOLO
È stato chiarito come il 900 abbia inaugurato il dibattito intorno all’epistemologia pedagogica,
problematizzando il rapporto tra codice epistemologico della filosofia e il codice epistemologico delle
scienze positive e finendo col riconoscere alla pedagogia un’autonomia ed una specificità rispetto ad altri
saperi che nel corso del tempo hanno tentato di espropriarla. Grazie a questo confronto di opinioni che
hanno portato ad una rivoluzione epistemologica, la pedagogia generale oggi si caratterizza come una
specifica scienza umana dell’educazione che viene elaborata secondo forme diverse. In questo corso di
lezioni la pedagogia generale è intesa come scienza fondamentale, costituita da un momento teoretico e
uno pratico. Perciò essa non esclude il proprio nesso con la filosofia, pur avendo una base empirica in
quanto riflessione critica sull’esperienza educativa e sui mondi dell’educare ai quali essa mira a tornare.
LEZIONE 11> PROSPETTIVE E METODI DELLA RICERCA PEDAGOGICA
Con la parola “metodo” indichiamo il modo di procedere adottato per indagare il fenomeno oggetto di
studio e i suoi diversi momenti. Questo significato viene poi specificato diversamente nella ricerca teorica e
nella ricerca empirica. La scelta di un “metodo di ricerca” piuttosto che di un altro da parte di uno
scienziato è determinata dalle caratteristiche della scienza di cui egli si occupa e dal suo paradigma di
riferimento. Il paradigma è l’insieme di teorie sulla natura della conoscenza e della realtà che guidano
l’azione epistemica”. Il paradigma circoscrive le scelte del ricercatore, anche se egli non sempre ne è
pienamente consapevole. Nel complesso i paradigmi possono essere considerati le cornici di senso, ovvero
le prospettive che includono sia il modo di porre i problemi sia la modalità di procedere nella ricerca di
possibili risposte. Oggi la fenomenologia, specie nel suo nesso con l’ermeneutica, può essere considerata
un recente paradigma di ricerca. È necessario fare una prima distinzione sui modi di fare ricerca tra scienze
teoriche e scienze sperimentali, quindi tra ricerca teorica e ricerca empirica. La ricerca teorica analizza la
natura e i compiti della pedagogia o si interessa di un suo specifico settore e delle sue relazioni con altre
scienze; il metodo che la caratterizza è quello speculativo (giustificazione delle tesi attraverso procedure
argomentative razionali e coerenti). la ricerca teorica è pura, storica, e comparata. La ricerca empirica,
invece, si rivolge a tutti quei fatti educativi di rilevanza teorica e pratica accessibili all’osservazione;
pertanto, quando si fa ricerca empirica, il termine “metodo” si riferisce al processo di raccolta, analisi e
valutazione dei dati. La ricerca empirica può realizzarsi nei contesti in cui i fatti educativi si svolgono
spontaneamente (ricerca sul campo).

11.1 La ricerca teorica


La ricerca teorica si focalizza sulle visioni del mondo e della vita, sui bisogni educativi delle diverse società.
Si tratta del tipo di ricerca svolta prevalentemente dalla filosofia dell’educazione, dalla pedagogia generale
e dalla storia della pedagogia. Il metodo speculativo che caratterizza la ricerca teorica ha dato vita ad una
molteplicità di stili di ricerca teorica sull’educazione che richiamano diversi paradigmi e si articolano in
diverse prospettive di ricerca. Tra le prospettive pedagogiche alcune sono: il problematicismo pedagogico, il
personalismo pedagogico, la pedagogia fenomenologica, la pedagogia ermeneutica e la pedagogia critica.
11.1.1 Il problematicismo pedagogico
Il problematicismo ha come paradigma di riferimento il razionalismo critico. Il problematicismo pedagogico
è legato ai nomi di Banfi e Bertin. La riflessione sulla realtà educativa si realizza attraverso tre momenti o
articolazioni: trascendentale, dialettico e fenomenologico. Il primo rappresenta un recupero e una
valorizzazione delle antinomie che caratterizzano l’esperienza educativa. Il secondo dà spazio alle
dinamiche che caratterizzano l’esperienza educativa. Infine, l’approccio fenomenologico è inteso come
forma di riconoscimento della pluralità di aspetti che contraddistinguono l’esperienza educativa. Ciò che,
caratterizza il problematicismo pedagogico è l’idea di una forte interdipendenza tra il piano teorico
(l’universale e il possibile) e quello della prassi educativa (l’impegno e la scelta) pur nella loro distinzione
concettuale.
11.1.2 Il personalismo pedagogico
Anche il personalismo ha avuto una specifica influenza nella ricerca teorica in campo pedagogico. Il
personalismo è legato in Italia da un grande influenza tra pedagogisti cattolici. Il personalismo è stato un
punto di riferimento per tutto il pensiero pedagogico italiano. Gli indirizzi di ricerca che l’hanno
caratterizzato sono stati molteplici e talvolta anche contrastanti, ma possiamo individuare nel concetto di
persona, considerata specialmente nella sua realtà spirituale, il principio ontologico fondamentale. Il
personalismo pur non negando i bisogni primari dell’uomo e gli aspetti pratici dell’educazione, sottolinea
che sono i valori spirituali che definiscono l’essere persona. In tal senso, buona parte della ricerca teorica
del personalismo è volta allo sviluppo di un’educazione integrale. L’educazione per rispondere pienamente
alle esigenze formative della “persona “deve essere una “educazione integrale”, cioè, guardare sia al
bisogno di adattamento alla realtà sia alla dimensione etica e spirituale. È necessario che l’educazione
fornisca i mezzi per agire ma anche i fini per i quali agire.
11.1.3 La pedagogia fenomenologica
La ricerca dell’essenza dei fenomeni fa della fenomenologia sostanzialmente un metodo di uso critico della
ragione, il metodo fenomenologico ha trovato moltissime applicazioni e declinazioni, diventando un
paradigma. La pedagogia diviene studio della coscienza intenzionale del soggetto e il momento educativo si
sostanzia in un incontro di intenzionalità che apre alla costruzione collaborativa di significati tra educatore
ed educando. Si tengano presenti poi i contributi di Iori che mette in evidenza i principi fondamentali che
devono guidare una pedagogia fenomenologica. L’autrice approfondisce il concetto di epochè e quello di
corpo vissuto; quest’ultimo sembra rivestire un significato preciso all’interno dell’esperienza educativa
come contesto esistenziale vivo e dinamico, essenzialmente segnato anche da emozioni, affetti e
sentimenti. Altre riflessioni di Iori si concentrano sull’essere come “essere-in-relazione” e sul progetto
educativo come realizzazione del possibile, che si traduce nella sua concretizzazione più piena in scelte e
decisioni autonome da parte dell’educando. È in questo contesto categoriale che viene ripensato in qualche
modo ridefinito dalla pedagogia fenomenologica il concetto di persona.
11.1.4 La pedagogia ermeneutica
L’idea di una pedagogia ermeneutica nasce dall’esigenza di porre al centro della ricerca pedagogica
l’interpretazione della realtà sociale, economica, culturale e politica in cui si vive. Possiamo affermare che la
rilevanza di una pedagogia ermeneutica riguarda, un discorso epistemologico cioè la svolta di un paradigma
( quello ermeneutico, appunto) che restituisse alla scienza pedagogica un metodo circolare, interattivo,
problematico intenzionale ma anche singolare e situazionale. In tal senso, lo stesso agire educativo è
ermeneutico, in quanto interpretativo e storico. Quest’ultimo aspetto, cioè quello storico, è essenziale per
evitare che un discorso ermeneutico venga inteso come puro soggettivismo interpretativo. La pedagogia,
quindi, è un sapere storicissimo, cioè frutto del suo tempo ma anche del suo passato; il sapere pedagogico
è già frutto di interpretazioni precedenti e attuali con cui il pedagogista deve costantemente confrontarsi.
Questo esercizio, ci costringe a tenere in considerazione le prospettive altrui e quindi ad uscire da un puro
soggettivismo. Un ulteriore argine contro un’interpretazione soggettivistica dell’ermeneutica è dato
dall’innesto fenomenologico-ermeneutico che permette di vedere tanto le presupposizioni
fenomenologiche dell’ermeneutica quanto le presupposizioni ermeneutiche della fenomenologia.
11.1.5 La pedagogia critica
La nascita della pedagogia critica è collegata alla rivoluzione culturale del 68 che ha investito la società e le
sue istituzioni ma anche i modi del sapere e i luoghi della formazione. La pedagogia critica non costituisce
un modello teorico rigoroso e compatto, infatti al suo interno si raccolgono, impostazioni anche dissimili;
tuttavia, sono presenti degli elementi comuni che consentono di parlarne come di una prospettiva
pedagogica in qualche modo unitaria. Ciò che sembra caratterizzare questa prospettiva è l’attenzione
all’aspetto emancipativo del sapere pedagogico e della pratica educativa. In linea con le categorie
dell’autonomia e dell’emancipazione cominciano ad essere approfonditi i concetti di coscientizzazione e
alfabetizzazione per promuovere processi di formazione più aperti, rivolti ai più deboli, ai poveri agli
“ultimi”, per offrire a tutti, la possibilità di interiorizzare una precisa coscienza politica ed essere così
realmente autonomi; in modo da consentire anche ai meno fortunati una riappropriazione e una
conseguente partecipazione alla vita civile e sociale. Pur con tutti i suoi limiti, questa esperienza rimane un
esempio di un tentativo di un progetto educativo emancipativo ed ugualitario.

11.2 La ricerca empirica


La storia della ricerca empirica è caratterizzata dalla presenza di due paradigmi, uno, a lungo dominante,
positivista, normativo, deterministico, l’altro, inaugurato dalla rivoluzione paradigmatica del 900 di tipo
ecologico, idiografico e naturalistico. Il primo implica metodi di ricerca quantitativi, il secondo a metodi di
indagine qualitativa. La ricerca quantitativa ricerca le cause, pertanto essa è caratterizzata dalla spiegazione
e dal controllo; quella qualitativa interpreta gli eventi, mettendo in evidenza la complessità delle relazioni
dei fenomeni educativi ed è interessata alla comprensione dei fenomeni stessi. Il metodo sperimentale ha
individuato nelle metodologie quantitative le cui procedure siano replicabili, le migliori garanzie del rigore e
dell’attendibilità di una ricerca qualificabile come “scientifica”. La riuscita della sperimentazione dipende
dalla capacità/possibilità del ricercatore di controllare tutte le altre variabili che possono
intervenire/interferire. Successivamente, la ricerca qualitativa nelle scienze umane e sociali ha portato a
delle riflessioni che hanno contribuito notevolmente ad un cambiamento sia epistemologico che
metodologico; si tratta di una svolta verso un paradigma ecologico. Oggi, si tenta di superare le forti
antinomie che per anni hanno caratterizzato ricerca teorica vs ricerca empirica, metodi quantitativi vs
metodi qualitativi, approccio nomotetico vs approccio idiografico, per arrivare ad un punto di mediazione.
Questi approcci hanno validità spesso complementare a seconda dell’oggetto d’indagine e degli scopi della
ricerca che determinano la scelta dei metodi e le modalità di codifica dei dati.

11.2.1 I metodi di ricerca empirica quantitativa


I metodi di ricerca quantitativi sono associati alla misurazione dell’oggetto d’indagine attraverso l’impiego
di disegni che prevedono un’analisi statistica dei dati. La quantità è associata alla frequenza con cui è
possibile osservare il manifestarsi di un determinato fenomeno di solito in relazione alla presenza/assenza
di altri fenomeni. I metodi quantitativi, dunque, non spiegano i fenomeni, piuttosto descrivono “come sono
e funzionano gli oggetti studiati”. L’aspetto problematico sostanziale però, consiste nella distanza tra
l’oggetto/soggetto studiato (es: il comportamento umano) e la corrispondenza della complessità di questo
oggetto in un sistema simbolico esclusivamente numerico/quantitativo. Questi processi possono restituirci
informazioni utili sull’esperienza umana, se rimaniamo consapevoli dei limiti di tale operazione.
11.2.1.1 La ricerca sperimentale>quantitativo
Tale metodo individua una relazione di cause-effetto tra un fattore indipendente e un dipendente, tenendo
sotto controllo le altre variabili che potrebbero interferire. La formulazione dell’ipotesi consiste
nell’intuizione (da confermare con l’esperimento) che al variare di un fattore (variabile indipendente) nel
contesto di indagine, se ne modifica anche un altro (variabile dipendente). La sperimentazione ha la finalità
di trovare un rapporto di causalità, secondo una logica che potremmo chiamare “comportamentista”:
individuate le relazioni di causa-effetto, possiamo intervenire sulla realtà rimuovendo o modificando la
causa stessa. Nella prospettiva di un fenomeno come l’educazione, il limite di questo metodo di ricerca è
che non ci restituisce una comprensione del fenomeno stesso, ma ci aiutano ad individuare il
“funzionamento” di una sua parte, di un suo aspetto.
11.2.1.2 La ricerca quasi-sperimentale>quantitativo
Esistono poi disegni di ricerca quasi-sperimentali che vengono utilizzati nei casi in cui le variabili
indipendenti non possono essere manipolate liberamente. Si verifica, che, lo sperimentatore rinuncia ad un
controllo rigoroso sui trattamenti e sulla scelta dei soggetti e inserisce la sua ricerca all’interno di contesti e
situazioni “naturali”. Il ricercatore è costretto ad operare su gruppi precostruiti, è la non equivalenza che
implicherà delle conclusioni con un maggior grado di incertezza, più deboli, rispetto a quelle di una ricerca
sperimentale. Ci sono dei casi in cui il ricercatore è costretto ad intraprendere un percorso di ricerca quasi-
sperimentale (quando si fa ricerca a scuola, in cui le classi rappresentano dei gruppi precostruiti). Da ciò è
intuitivo che il metodo sperimentale e quello quasi sperimentale sono stati privilegiati dalla pedagogia
sperimentale che, nel corso degli anni 60 e 70 del 900, si è ispirata ai modelli del neopositivismo che
postulava l’idea di una scienza fondata sul dato empirico e su proposizioni sperimentalmente dimostrabili.

11.2.2 I metodi di ricerca empirica qualitativa


In primo luogo, la differenza consiste nel fatto che la qualità non è trasferibile in un ordine numerico,
piuttosto, il dato viene interpretato per farne emergere i significati. Ciò, però, non esclude che una ricerca
qualitativa possa includere dati numerici, cioè quantitativi. In un ambito di ricerca teorico ed empirico come
quello pedagogico, che prospetta l’approfondimento di fenomeni complessi, le situazioni specifiche della
metodologia sperimentale sono a volte improponibili; pertanto, molti studiosi prediligono metodi di ricerca
qualitativi. La ricerca qualitativa presenta delle strategie di ricerca e metodi molto diversificati.
11.2.2.1 Le strategie della ricerca qualitativa
“L’etnografia” è stata il primo modello che ha abbandonato il metodo sperimentale e fatto propria l’idea di
una ricerca sul campo che colloca il ricercatore all’interno della realtà indagata> ricerca partecipativa-
cogliere i processi dall’interno. Il metodo etnografico ha l’obiettivo di comprendere i significati sociali e le
attività delle persone in un dato ambiente. Il ricercatore non deve rimanere il più neutrale possibile rispetto
ai processi che avvia ma al contrario è egli stesso un partecipante alla ricerca. Partecipa per un periodo di
tempo alla vita del gruppo e cerca di conoscerne le interazioni tra i membri. Per tali aspetti, la ricerca
etnografica si applica bene ai contesti educativi, oltre che a quelli sociologici e antropologici.
Tra le proposte teorico-metodologiche di tipo qualitativo ricordiamo la “ricerca azione”> ricerca
partecipativa orientata sia alla produzione di conoscenza sia ad azioni di cambiamento e trasformazione
positiva della realtà oggetto della ricerca. Il disegno della ricerca si trasforma in un percorso di
focalizzazione progressiva in cui i risultati di ogni fase servono per le fasi successive. Le scienze umane, tra
cui la pedagogia, avendo come oggetto di studio “realtà umane” non devono solo preoccuparsi di utilizzare
strumenti di ricerca adeguati, ma anche comprensibili per tutti i partecipanti coinvolti. Ciò che conta, allora
non è più la ricerca di verità oggettive o di rapporti causali, piuttosto l’osservazione di aspetti che cambiano;
ricercatore e partecipanti qui non più “soggetti” co-costruiscono insieme nuovi significati. La ricerca azione
è un modello di ricerca la cui finalità è quella di indagare e risolvere i problemi della pratica educativa,
all’interno di un contesto formativo specifico. Le fasi che la caratterizzano hanno una ricorsività circolare:
analisi e definizione del problema, progettazione dell’intervento per la promozione di un cambiamento,
attuazione dell’intervento, analisi intermedie, eventuali modifiche metodologiche ed infine esame critico
dei risultati. La ricerca non ha un valore “universale” ma esemplare. Il ricercatore deve assumere
contemporaneamente una postura riflessiva e un atteggiamento di apertura al nuovo. La ricerca azione si
propone come alternativa epistemologica e non solo metodologica rispetto ad una ricerca di stampo
positivistico-sperimentale.
Infine, vi è lo “studio di caso” nel quale si propone di indagare una specifica situazione: casi singoli, casi
multipli a prescindere un tipo di ricerca che si occupa della singolarità (anche nei casi multipli le sotto-unità
vengono studiate singolarmente). A differenza della ricerca etnografica e della ricerca azione, nello studio
di caso, il ricercatore tende a non intervenire in alcun modo sul campo di indagine che lo vede coinvolto, al
fine di indagare seppur con differenti metodi, l’oggetto di studio.
11.2.2.2 I metodi della ricerca qualitativa
1-La Grounded Theory è un metodo di ricerca qualitativa e prevede un procedere in modo induttivo dai dati
alla teoria: la teoria emerge dai dati in cui è radicata (grounded). Il metodo coincide con una raccolta di dati
più ampia possibile su un’area d’indagine individuata; la rilevazione dei dati viene effettuata attraverso
alcune tecniche quali l’intervista. Man mano che dai dati viene estrapolata una prima teoria interpretativa,
questa è a sua volta utilizzata per la raccolta di altri dati, il cui successivo processo di analisi porta alla
ridefinizione della teoria in una logica circolare e ricorsiva. Le critiche mosse alla Grounded Theory sono
legate ad un’interpretazione dei suoi presupposti come di origine positivista (la realtà è data di già, il
ricercatore la deve solo trovare) infatti, si tratterebbe di una teoria non costruita ma “scoperta”.
2-Il metodo fenomenologico si colloca in una cornice qualitativa: l’esperienza umana, oggetto di studio
nella ricerca educativa, può essere conosciuta così come si presenta (come appare). Anche se il metodo
fenomenologico presenta dei punti di contatto con la Grounded Theory, a differenza di quest’ultima,
l’approccio fenomenologico prevede in una prima lettura dei dati raccolti una messa tra parentesi
(l’epochè) di tutti i saperi codificati compresi i propri pregiudizi, senza però avere la pretesa di fare ricerca a
prescindere da cornici teoriche accettate dalla comunità scientifica o da altre ricerche che hanno indagato
lo stesso fenomeno. L’obiettivo di un metodo fenomenologico è la ricerca di “strutture invarianti essenziali”
del fenomeno oggetto di studio. Questa esigenza di ritrovare degli elementi che si presentano con costanza,
molto differente da una rivelazione di tipo statistico, piuttosto mira all’esplicitazione di ciò che è rilevante
per poter definire l’essenza di un fenomeno.
3- l’approccio narrativo alla ricerca ha acquisito lo statuto di metodo da quando, la ricerca viene intesa
come un’esperienza che deve essere compresa, così narrare l’esperienza risulta essere il modo migliore per
poterne cogliere il significato. La ricerca narrativa, quindi, è un’attività ermeneutica e l’atteggiamento
riflessivo del ricercatore-ermeneuta ci rammenta che non bisogna guardare ai fatti in sé, ma a come questi
fatti vengono intenzionati dal soggetto, la ricaduta che essi hanno sul suo vissuto. In ultima analisi, la ricerca
narrativa si basa sul presupposto che raccontare la propria esperienza contribuisca a creare significato,
poiché raccontando si attribuisce un senso al proprio vissuto che è messo in relazione con altri vissuti, in un
preciso contesto di vita. Una volta raccolto il materiale narrativo, si inizia un processo di elaborazione del
significato attraverso il quale si mettono in evidenza nuclei tematici e si procede alla stesura del resoconto.
Sottolineiamo, infine, che la narrative inquiry non si riferisce soltanto alla ricerca che utilizza metodi
narrativi ma che racconta anche la stessa esperienza di ricerca, rendendo esplicita la storia di tutti i
momenti procedurali.
 Un metodo di ricerca può essere applicato all’interno di una delle strategie di ricerca che abbiamo
descritto sopra, per esempio, un metodo fenomenologico o un metodo narrativo possono essere
utilizzati all’interno di una ricerca azione.

11.3 Le tecniche
All’interno della ricerca empirica si essa sia quantitativa, o qualitativa ritroviamo delle tecniche di raccolta
dei dati:
- “l’osservazione partecipante e non partecipante” si basa su un’attenta osservazione che il ricercatore
effettua del comportamento di uno o più soggetti. L’osservazione partecipante si riferisce al caso in cui il
ricercatore è inserito all’interno del gruppo oggetto di studio, mentre quella non partecipante si realizza
quando il ricercatore è esterno al gruppo e lo osserva. L’osservazione può essere riportata secondo diverse
modalità quali diari e resoconti narrativi (osservazione non sistematica) oppure check list di osservazione
che prevedono la registrazione (osservazione sistematica).
- “le interviste” consistono nella richiesta ai partecipanti della ricerca di rispondere a determinate
domande, l’intervista è strutturata quando il ricercatore segue fedelmente una scaletta di domande
prevalentemente chiuse, semi-strutturata quando il ricercatore nasandosi su alcuni nuclei tematici pone sia
domande aperte che chiuse, non strutturata quando l’intervistatore non stabilisce le domande da porre.
- “i questionari” sono costituiti da un insieme di domande per una valutazione, le domande possono essere
sia aperte che chiuse, il soggetto deve compilare il questionario senza avere contatto con l’intervistatore. Il
vantaggio dei questionari è che possono essere somministrati contemporaneamente ad un elevato numero
di soggetti.
- “i diari” sono resoconti personali, documenti scritti che raccontano non solo ciò che accade ma anche il
vissuto di chi scrive, contengono riflessioni, pensieri e interpretazioni.
- “le storie di vita” il ricercatore può registrare, il racconto autobiografico può riguardare anche uno
specifico aspetto della vita di una persona.
- “i gruppi di discussione” sono caratterizzati da una discussione e un confronto riguardo all’atteggiamento
di un gruppo di persone nei confronti di un tema prefissato. Il cuore del processo è proprio la dinamica
dialogica e l’interazione tra i membri del gruppo.
Per concludere possiamo anticipare che un rigido tecnicismo (quale quello di una procedura di laboratorio),
non risponde alle esigenze del sapere pedagogico. Il ricercatore di pedagogia guarda al fenomeno meno
educativo nel contesto reale in cui esso si manifesta e interviene con la sua stessa ricerca nel contesto
educativo in cui si trova ad operare, senza ricreare in modo fittizio il fenomeno oggetto di studio.
LEZIONE 14> POSSIBILITÀ DI RICERCA EMPIRICA NELLA PEDAGOGIA FONDAMENTALE
La pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico aspira ad essere una scienza che è
definita eidetica> tesa alla conoscenza dell’essenza del fenomeno. Stiamo evidenziando due caratteri della
pedagogia fondamentale: il suo essere un modello di ricerca teorica e il suo mantenere sempre un carattere
eminentemente pratico. Infatti, la pedagogia fondamentale parte dall’esperienza concretamente vissuta e a
tale esperienza intende tornare e provare a trasformare. Proprio poiché si tratta di una scienza interessata
all’essenza dei fenomeni educativi, sebbene la sua base sia empirica, non lo è il suo criterio ultimo. La
pedagogia fondamentale è innanzitutto un approccio di ricerca teorica. In questa lezione si apre la
possibilità di fare ricerca sull’esperienza senza che il criterio di studio sia esclusivamente (come è per la
pedagogia sperimentale) quello empiriologico, ovvero quello della verifica: questo è particolarmente
importante per la pedagogia fondamentale. Questa lezione mira ad approfondire il diverso rilievo che, nella
pedagogia fondamentale, la ricerca sul campo può assumere.

14.1 Una diversa ricognizione dell’esperienza


La ricerca empirica offre una nuova possibilità di girare intorno al fenomeno e coglierne altri profili; infatti, i
metodi di ricerca sul campo sono accomunati dal rilievo riconosciuto ai vissuti dei partecipanti,
direttamente coinvolti nei fenomeni in esame, e alle relazioni con l’ambiente che si raggruppa intorno a
loro, considerati ciascuno un punto zero da cui si dischiude un’inedita prospettiva sul mondo. e poiché,
secondo l’approccio fenomenologico-ermeneutico, l’essere viene a manifestazione nel linguaggio, si
riscontra un’attenzione ai metodi narrativi. Nella struttura epistemologica della pedagogia fondamentale di
stile fenomenologico-ermeneutico, una ricerca sul campo può trovare due diverse collocazioni:
1)nella ricognizione empirica, come parte integrante del primo sguardo sull’esperienza da cui tutto lo studio
prende avvio;
2) nel passaggio dalla riflessione di prima istanza alla riflessione sul senso dei fenomeni indagati e alla
conseguente teoria del metodo educativo. Soffermandosi qui nell’approccio della pedagogia fondamentale,
la riflessione di seconda istanza coincide con la fondazione pedagogica: si tratta della riflessione che è
mossa dall’esigenza di comprensione e non solo di spiegazione dei fenomeni infatti finalizzata a evidenziare
i tratti fondanti del fenomeno su cui si pone l’attenzione.
Prima di una tale fondazione pedagogica, dopo aver attraversato la ricognizione empirica e problematica e
l’analisi empiriologica dei dati di fatto, è possibile un secondo tipo di ricognizione che può avere diversi
pregi epistemologici: costituisce un ulteriore fase esplorativa dell’esperienza che ha un diverso spessore
rispetto alla prima ricognizione empirica e problematica; si giova dell’aver attraversato la riflessione di
prima istanza. Dopo il percorso delle altre scienze e sperimentazioni emerge l’esigenza di ritornare
sull’esperienza dell’educare. Infatti, collocata dopo la riflessione di prima istanza, la ricerca qualitativa sul
campo permette di insistere e sostare nell’epochè fenomenologica: sospendere il giudizio per chiedersi se
le certezze raggiunte dicano qualcosa della verità dell’educare. Sia nella fase iniziale, sia nella fase centrale
come possibilità di ingresso nella riflessione di seconda istanza, una ricerca sul campo di stile
fenomenologico-ermeneutico aiuta a porre domande sulla realtà.

14.2 Le fasi di una ricerca sul campo di pedagogia fondamentale


La fenomenologia mira ad una descrizione eidetica che mira ad andare al cuore del fenomeno, pertanto in
una ricerca empirica, il principio metodologico che guida il fare del ricercatore è quello di fedeltà al
fenomeno: andare alle cose stesse, così come di danno in se stesse e da se stesse. Non è possibile
individuare con esattezza i passaggi da seguire nel caso di una ricerca empirica di pedagogia fondamentale;
tuttavia, facendo un’analisi si sono distinte 3 diverse fasi:
1)la raccolta dei materiali di esperienza vissuta>predilette le tecniche che permettono un accesso diretto ai
vissuti dei soggetti coinvolti e implicano un’apertura di ascolto e supporto alla verbalizzazione da parte del
ricercatore;
2) l’analisi del materiale raccolto;
3)La restituzione ai partecipanti e la co-elaborazione dei significati.
14.2.1 La raccolta
Nella prima fase, i ricercatori (anche i partecipanti nella terza fase lavorando in equipe diventano
ricercatori),hanno la consapevolezza che quando si tratta di esperienze vissute, spesso molto rimane non
detto. Essi lavorano come dei facilitatori: offrono strumenti per precisare quanto detto e far vedere nessi
non visti; riassumono quello che viene detto chiedono chiarimenti> i ricercatori sostengono, educano i
partecipanti a porre attenzione ai propri vissuti. Si può dire che i partecipanti sono aiutati a (Ricoeur)
“portare la loro esperienza al linguaggio”>lavorare sulle parole per trovare espressioni più adeguate
possibili per mantenersi fedeli alla realtà; dare un nome ai vissuti significa cominciare un cammino di
autenticazione e personalizzazione dell’esistenza.
14.2.2 L’analisi
Nella seconda fase si raggruppano i temi più ricorrenti e si costruiscono le “etichette”>le parole che si
devono usare per descrivere la realtà, i ricercatori cercano sempre di trovare quelle più adeguate anche qui
quindi, emerge l’importanza del saper portare l’esperienza al linguaggio. Da queste osservazioni, si
comprende che il metodo di ricerca è concepito come uno strumento flessibile>disegno emergente.
La postura di ricerca fenomenologico-ermeneutica è allocentrica: si tratta di praticare, una ricettività
accogliente (che non va scambiata con l’improvvisazione) fatta di metodico rispetto e sistematica
delicatezza (virtù dell’umiltà). Queste virtù del ricercatore rendono concreta un’attenzione che è differente
dall’attenzione autocentrica propria del metodo positivistico: quella autocentrica intrattiene con la realtà
studiata una relazione strumentale e a modalità di lettura e di codifica dei “dati” stabilite in anticipo; quella
allocentrica si qualifica come una disposizione ricettiva: i ricercatori restano disponibili a farsi interrogare
dalla realtà lungo il cammino, sempre leggendo e rileggendo i dati continuamente. Dopo aver raccolto il
materiale, nella seconda fase si procede facendo una lista dei temi più ricorrenti.
14.2.3 La restituzione
L’ultima fase è la restituzione che spesso è un’attività trasversale perché più volte lungo lo svolgimento
della ricerca la codifica di quanto emerge deve essere condivisa dai partecipanti ed eventualmente più volte
negoziata. I partecipanti sono così, formati e responsabilizzati come co-ricercatori ( da qui l’utilizzo del
plurale). I partecipanti sono coinvolti in un a ricerca che non solo è sull’educazione ma diventa per loro
stessi un’esperienza di educazione, un percorso formativo. D’altra parte, i ricercatori sono chiamati ad
essere anche educatori e lo dimostrano in alcuni atteggiamenti propriamente educativi durante le tre fasi.

14.3 La fecondità dell’innesto tra fenomenologia ed ermeneutica nel campo della ricerca
La pedagogia contemporanea si nutre di un dialogo e di confronto autentico con le altre scienze. La
pedagogia fondamentale in particolare vive di una particolare fiducia nei confronti dell’atteggiamento
scientifico, di cui riconosce il valore umano e umanizzante. Abbiamo avuto modo di osservare che
l’approccio fenomenologico-ermeneutico si colloca nell’ambito dei paradigmi post-positivistici o ecologici
che hanno fortemente messo in questione l’idea moderna di oggettività quantitativa. Nello spazio
epistemico aperto dalla fenomenologia, quando si parla di “oggettività”, si indica piuttosto il riferimento
intenzionale alla realtà e la costruzione di una conoscenza che non diventa mai possesso rigido di verità.
Per il fenomenologo, la verità, si coglie nei suoi profili, a patto che lo sguardo sia attento, “allenato” e a tal
fine formato. Se è vero che ci sono cose evidenti e cose che non lo sono affatto, l’evidenza più a portata di
mano è l’evidenza empirica. C’è poi un’evidenza più profonda, quella dell’essenza, che chiede di essere
“portata ad evidenza” e che non tutti riescono a vedere>è evidente che non tutto è evidente a tutti. Per il
fenomenologo, conoscere è saper vedere l’essenziale, ciò si regge su una precisa concezione ontologica: la
realtà è fenomeno e niente appare invano. Per la fenomenologia, non si può ritenere che l’apparire illuda.
Infatti, il fenomeno husserliano è la realtà stessa che si dona, manifestando proprio lì, le proprietà
essenziali della cosa, se lo sguardo è formato all’attenzione e sa andare dalla superficie alla profondità.
Quello che caratterizza la concezione fenomenologico-ermeneutica della persona umana è il suo essere-
nel-mondo e la sua capacità di intenzionare la realtà. Quindi occorre cogliere il valore della correlazione tra
le “manifestatività” della realtà e “la capacità di significazione”. Per ricapitolare
a) Il valore di una ricerca empirica concepita e praticata all’interno del percorso della pedagogia
fondamentale: una ricerca sul campo condotta con atteggiamento fenomenologico-ermeneutico
segna significative differenze tanto rispetto alla semplice rassegna di alcuni tratti di un aspetto,
quanto rispetto alle indagini delle altre scienze umane applicate allo studio dei fenomeni educativi.
Conducendo una ricerca sul campo di pedagogia fondamentale è evidente che miri ad affinare lo
sguardo con gradualità ed ordine a favore dell’emergere dell’essenziale/essenza del fenomeno.
b) Il superamento di ogni antinomia tra spiegazione e comprensione, tra scienze della natura e scienze
dello spirito: addentrandosi nello studio dell’educazione, diventa più evidente che la sola
spiegazione dell’esperienza non basta e senza di essa la comprensione è astratta e astorica, quindi
non pedagogica.
c) Il principio di fedeltà al fenomeno non è compreso se disgiunto al principio di trascendenza: il
fenomeno è ciò che si manifesta con evidenza, ma questa evidenza non è la limitata evidenza
empirica; piuttosto “ogni realtà si presenta alla coscienza come trascendenza”. Dalla profonda
unione del principio di trascendenza al principio di fedeltà discende la consapevolezza che “non
tutto si mostra, non tutto si mostra subito e ogni realtà ha dei profili che non si mostrano mai”.

LEZIONE 17> L’ESSER PERSONA DELLA PERSONA


Dalle nostre lezioni, emerge un dato costante che, s’impone nei mondi dell’educazione: è carattere
della persona l’essere aperto alla relazione>la persona è relazionalità. L’educazione è una forma
speciale di relazione.

17.1 L’incontro interpersonale


Ciascuno percepisce l’altro di fronte a sé con una speciale forma di apprensione: io mi percepisco
vivente, come “corpo animato vivente sessuato e percepisco l’altro come corpo animato vivente e
sessuato. La persona che è l’altro accanto a me, è il suo corpo e l’incontro interpersonale è
originariamente incontro “intercorporale”. Ciascuno vive “dall’interno” il proprio corpo, mentre vede
l’altro “dall’esterno”; il corpo animato vivente si presenta immediatamente come un oggetto ma
appare anche come soggetto>il corpo è insieme soggetto e oggetto (es: una nostra mano tocca l’altra:
una mano è toccata ( è oggetto) mentre l’altra è toccante ( è invece soggetto).
17.1.1 L’altro come un altro
Il corpo, dunque, è più che corpo ed occupa una posizione determinata nello spazio; possiamo
chiamarla il suo “punto zero”> il corpo permette al soggetto una visione prospettica sul reale che egli
dispiega attorno. La realtà appare sempre in una determinata prospettiva, mostra solo un suo
determinato aspetto. Un limite s’annuncia: mentre vediamo una regione del mondo attorno a noi, noi
non riusciamo a vedere il punto da cui la nostra visione s’origina> il punto zero è maggiormente un
punto cieco. Io come soggetto sono una originale apertura sul mondo. Il nostro corpo che è gesto è
segnato sempre da un’intenzionalità: “porta un significato che lo rende espressione dell’interiorità. Il
corpo è esteriorità di un’interiorità, mostra in superficie quanto si trova nel profondo di noi. A questo si
può legare un’altra riflessione: i mondi in cui si svolge la nostra vita possono essere mondi comuni,
possiamo di fatto abitarli insieme con gli altri soggetti che vi incontriamo. Ma dobbiamo parlare di
comune dimora, nel caso in cui con gli altri soggetti abbiamo parte ad imprese condotte insieme.
17.1.2 Una conoscenza oggettiva del mondo soggettivo
Il linguaggio originario col quale il nostro corpo “registra” nel proprio mondo la presenza di un’altra
persona con cui s’imbatte, è quello delle emozioni. Quando l’altro entra nel nostro campo visivo, il
nostro corpo subito si pronuncia, con una reazione emotiva favorevole oppure con una sfavorevole. Le
nostre emozioni possono rivelarsi effimere, durante solo un giorno, o possono approfondirsi e
permanere nel tempo, diventando affetti stabili o sentimenti forti. Dobbiamo riconoscere che è questo
linguaggio emozionale a rendere l’incontro con l’altro non impersonale e farlo diventare una relazione
vivente. Possiamo sentire chi ci sta accanto, diventando sensibili ai suoi bisogni, molto spesso senza
neanche rifletterci siamo indotte a pensare che delle emozioni sarebbe meglio diffidare. Avvertiamo
però subito un limite in questa posizione: se noi diciamo che le emozioni registrano la presenza
dell’altro, percepito appunto come tale e “in carne ed ossa”, noi stiamo chiaramente riconoscendo il
carattere intenzionale delle emozioni>le rende apertura del soggetto alla realtà che offre o rivela il
senso che la costituisce. Le emozioni non manifestano solo le nostre reazioni soggettive, dicono
qualcosa del reale e in questo senso hanno una referenza oggettiva. Questo accade in ragione del fatto
che esse presentano una specificità che la differenza. Le emozioni si presentano nella loro struttura
propria come forme di attrazione: sono mosse da un aspetto della realtà personale che ci si fa incontro,
innanzitutto dalla presenza fisica dell’altro, esse sono sempre forme di amore. In conclusione, se tutti
possiamo cogliere che molte delle nostre emozioni sono effimere e hanno vita breve, tuttavia,
possiamo cogliere che le emozioni possono anche approfondirsi, acquistando una nuova forma di
esistenza e diventano affetti. Anche gli affetti possono ulteriormente approfondirsi divenendo
sentimenti; ciò accade quando gli affetti, acquistando ulteriore tempo e spazio nella nostra esistenza, si
legano in modo essenziale ai nostri progetti di vita. Per il momento osserviamo che, se molti sono gli
incontri con l’altro che suscitano le nostre emozioni, solo alcuni di questi incontri conducono alla
maturazione di un affetto stabile; solo poche delle molte persone di cui siamo affezionati, possiamo
dire di voler veramente bene e di saper coltivare con loro una relazione autentica e generativa.
17.1.3 L’altro come volto
Nell’incontro con l’altro, la percezione del suo corpo appare una percezione complessiva e quasi
spontaneo imbattersi nel viso di chi ci sta di fronte e vedere in esso una forma di sintesi efficace, della
sua presenza personale. Il corpo animato vivente ci si presenta allora piuttosto come un volto, nel volto
l’altro ora diventa subito identificabile; nel volto ma soprattutto nel suo sguardo. Può accadere che
riconduciamo sia il volto sia lo sguardo ad immagini standard>mostriamo così di non avere interesse a
comprendere chi ci sta di fronte. In questo caso allora, il volto non è manifestazione di niente, appare
piuttosto come una maschera. Questa però è solo una possibilità d’approccio all’altro, va chiamata
inautentica quando non apre e non rende possibile alcuna esperienza di incontro è un “dis-incontro”.
L’esperienza ci rivela invece che con la persona che mi viene incontro e che ora mi sta di fronte, si tratti
di un altro da me, di un tu per l’io che sono> esperienza autentica e positiva. L’altro è un altro, posso
intendere il senso della sua presenza grazie ad una percezione analogica, l’altro appare ora e s’esprime
proprio come un altro da me, un “tu” per me: quanto costituisce il mio “tu”, rispetto a ciò che significo
ogni volta che dico “io”. L’altro è un altro mondo personale, un insieme di emozioni di pensieri e di
motivazioni sicuramente configurate in modo caratteristico, che io non posso assimilare a me. L’altro è
proprio un altro, e l’emozione che la visione del suo volto genera, desta interesse a una qualche
attrazione per la sua persona. Questa nuova modalità di incontro autentico con l’altro è l’empatia:
l’emozione intelligente che permette di vedere il volto come sintesi vivente di una persona altra, e il
suo sguardo come epifania di un mondo personale differente. Ora questo altro non è più un’immagine
standard frutto solo delle nostre proiezioni, l’altro è un volto: forse bisogna dire che è un’effige, forma
personale dell’essere; è un’anima, mondo singolare che solo il suo nome proprio intende; ed è un
cuore, nel quale alberga gli amori ma anche i non-amori della persona.
17.1.4 Il cuore come dimora
Tutto si serba memoria nel nostro cuore; questo ora ci appare quasi fosse un “luogo” in noi, un
contenitore nel quale si vanno raccogliendo tutte le nostre esperienze di vita. Il cuore è costituito dai
nostri amori, dalle preferenze che precedono e motivano scelte e decisioni. Esso custodisce ciò cui
accordiamo rilievo, e anche se sono cose di poco conto o oggettivamente non buone, a sua volta esso
viene custodito da quanto in qualche modo amiamo. Questi amori formano dunque il nostro cuore> ma
insieme alle cose che affermiamo di amare, vi dimorano altre che diciamo di odiare. Nel nostro cuore
c’è quello che c’è, ci può essere tutto e il contrario di tutto. L’identità delle persone che incontriamo nei
mondi della nostra vita, il loro volto e il segreto che ciascuna sembra custodire nel suo sguardo, tale
identità è costituita dall’ordine o, dal disordine dei suoi amori nei loro cuori.

17.2 Il rilievo dell’empatia


L’empatia, emozione simpatetica fortemente attrattiva, dischiude una forma di conoscenza immediata
dell’altro, proprio condividendone, anche solo per qualche istante, i pensieri, gli affetti o i sentimenti, le
motivazioni del suo agire. Assumendone il punto di vista, mettendoci nella sua situazione e vestendone
per così dire i suoi panni, noi perveniamo a condividere dell’altro la sua stessa esistenza. Si tratta di un
“riconoscimento dell’altro”, per questo suo essere percezione dell’altro in quanto è un altro da me. Le
emozioni condivise, in effetti, non sono le nostre emozioni originarie ma sono gli atti vissuti
originariamente dall’altro e che noi ri-viviamo. Dalla psicologia apprendiamo che ogni persona sin dalla
nascita è capace di empatia; possiamo chiamarlo comportamento empatico, attorno ai 24 mesi di età
esso si sviluppa in maniera più completa. Solo con l’adolescenza, però, soggetto diviene capace di
empatia matura. Sempre dalla psicologia apprendiamo che l’empatia matura non è una disposizione
spontanea; che empatici non si nasce, piuttosto lo si diventa. È necessario che il soggetto compia su di
sé un lavoro formativo. Con la psicologia però, non saremmo aiutati ad intendere quale sia la ragione
per cui una figura dell’empatia è autentica ( vera e propria empatia) e quando è inautentica ( che non
sono vere forme di empatia) e non sapremmo nemmeno il perché il fenomeno autentico dell’empatia
sia figura formativa.
Ridotta a sé stesso l’empatia va rivelando i tratti essenziali, quegli aspetti che sono costitutivi e che non
possono mancare. Ora, appartiene alla sua essenza, una disposizione contemplante dell’altro. È la
prima condizione che rende possibile il manifestarsi dell’empatia autentica ed è quella che permette di
istituirla come una virtù dianoetica> un abito che l’intelletto può acquisire stabilmente. Implica nel
soggetto un atteggiamento “onto-centrico”: un trascendimento di sé che dispone ad un pensare
veritativo ed implica anche una benevolenza> infatti l’empatia dal lato del soggetto è un atto di
intuizione intellettuale che affonda le sue radici nell’universo affettivo; dal lato dell’oggetto essa è
attratta da un tipo di evidenza che presenta quanto si manifesta come amabile. Inoltre, l’empatia per sé
sola dispone la persona all’altruismo che è segnato da un’intenzionalità etica. È questa la seconda
istanza strutturale, condizione che la rende virtù morale e non solo dianoetica. In quanto virtù essa è
generata da una percezione della realtà totale del soggetto: percezione dell’essere stesso del soggetto
inteso come un valore originario per il solo fatto di esserci. Prima abbiamo affermato che la coscienza
empatica autentica comprende la persona dell’altro; forse è meglio dire che la accoglie perché la ama e
nel modo dell’amore la conosce per il suo essere-persona. in effetti, intendere l’altro per il suo essere-
persona significa percepire l’intero del suo essere, tutta la sua con-cretezza. Infine, in sintesi l’empatia
autentica è la predicazione del termine persona come nome adeguato dell’altro.
17.2.1 Il primo acquisto
L’esperienza e la conoscenza empatica aiuta il soggetto a superare la sua solitudine, rendendo possibile
di riconoscere l’altro come un altro, come un volto singolare dell’essere. Questo riconoscimento si offre
solo diventando reciproco riconoscimento: questo rivela che l’empatia non è un atto solitario del
soggetto empatizzante, è un processo relazionale che coinvolge il soggetto empatizzato. La conoscenza
offerta dall’empatia, pare insieme contenga un’interpretazione dell’altro: che nello sguardo empatico
viene visto non soltanto per quello che effettivamente è, ma anche per quello che egli può essere.
Nell’incontro con la persona che ci vive accanto, abbiamo compreso che: mentre a noi è dato vedere
“dall’esterno”, la visione della realtà che forma il suo sguardo, questa stessa visione non è offerta alla
persona che stiamo incontrando, è sottratta sempre la possibilità di vedere il proprio vedere. Per tale
ragione, si parla di punto cieco. La novità annunciata dall’empatia autentica è che l’altro può vedere il
nostro vedere e offrirci con ciò la possibilità di guardarci con il suo sguardo. Al soggetto è offerta così la
possibilità di cogliere il suo io concreto; consente di percepire, nella realtà dell’altro, qualche tratto del
suo proprio poter essere: quanto dobbiamo dire si muove e può comprendersi nel senso del sé
autentico. Il sé autentico può essere momento iniziale e termine di una tensione dell’empatizzato verso
il bene personale.
17.2.2 Reciproco riconoscimento
Il soggetto empatizzato trova accanto a sé, dentro di sé una persona che sta facendo esperienza della
sua stessa esperienza di vita, che ri-vive il suo vissuto. Si tratta di una condivisione tra l’empatizzante e
l’empatizzato. Il riconoscimento personale al soggetto empatizzato appare come un dono: in nessun
modo essa può accadere come esito di un processo solitario, si riceve dall’altro incontrato qualcosa di
non atteso e non richiesto. Nessuno, perviene a conoscersi senza l’amore e la conoscenza, la coscienza
di sé è un dono; questo è la ragione per cui l’empatia, oltre che virtù etica e dianoetica, va definita virtù
dialogale/spirituale: a significare che si tratta di un fenomeno relazionale che ritrovare l’altro piuttosto
dentro di me, divenuto a me intimo. Ciò è per la persona un evento trasformante.
-In sintesi, di lezione: è evidente che la conoscenza di sé è, per ogni soggetto un dono gratuito, frutto di
una libera iniziativa dell’altro. Noi dobbiamo affermare che, poiché la conoscenza di sé è nell’essenza
stessa della persona, l’essere amato deve essere nell’essere della persona. l’essere personale è dunque
l’essere amato; e ciò è per ogni soggetto la condizione che rende possibile scoprire la bontà di una
persona: infatti solo scoprendo di essere termine di un amore gratuito, ci si conosce buoni e si scopre il
senso originario della bontà personale.
LEZIONE 18> IL BISOGNO EDUCATIVO
Nella lezione si elabora un’ontologia dell’educazione parlando si bisogno educativo.

18.1 Il diventar persona della persona


Lo abbiamo visto a più riprese che le nostre esistenze sono condotte in una dimensione inautentica:
quasi che il soggetto sia originariamente scelto dalle situazioni cui è consegnato, è più oggetto che vero
attore della propria esistenza. Viviamo in un sonnambulismo esistenziale nel qual accettiamo più di
lasciarci vivere che di vivere da protagonisti. L’educazione deve avere un nesso con la scelta di dimorare
nella dimensione dell’esistenza autentica; pertanto, deve essere virtù etica e dianoetica essenzialmente
connessa alla riappropriazione di sé. L’acquisto di una tale virtù deve essere per sé stessa preferibile,
essa si presenta desiderabile senza condizioni: è il viver bene che s’impone per qualità umana rispetto
al semplice vivere. Una tale conquista però non è semplice, perché si tratta di un’impresa che il
soggetto, non può gestire da solo in un percorso solitario; può avvenire solo all’interno di una relazione
e in un percorso di cui egli non può disporre. Si tratta di un processo interattivo, di un’azione reciproca:
l’appello è percepito realmente solo quando il soggetto intraprende a costruire una risposta alla
chiamata. La persona non è, diventa piuttosto se stesse; è una possibilità, non una necessità, quella che
le consente di pervenire ad una dimensione autentica dell’esistenza; sia tale processo sia la conquista
hanno un nesso essenziale con il riconoscimento di sé che avviene nella forma di una relazionalità
gratuita. Dunque, il riconoscimento di sé è istanza essenziale per il diventare persona della persona> il
riconoscimento di sé è ineludibile bisogno di essere e dunque del diventar persona della persona.
pertanto, l’espressione bisogno di riconoscimento significa che si parla di una relazione di reciprocità
fra i soggetti coinvolti e la massima presenza a se stessi di fronte al reale.

18.2 Bisogno di riconoscimento


Ogni uomo nasce piccolo, venire ad essere implica innanzitutto l’esser consegnati alla cura di una
madre e di un padre. Dalla psicologia apprendiamo che la qualità dell’accudimento di una madre è la
condizione che rende possibile, per un bambino, un forte attaccamento e una maturazione emotiva
equilibrata; la crescita della fiducia di base e dell’autostima e la socialità. Sul piano dello sviluppo
psichico denotiamo accudimento empatico, è fenomeno determinato che rivela una struttura
essenziale dell’esistenza umana: sul piano del divenir persona della persona denotiamo tale tratto
invariante riconoscimento personale. La persona, per esistere come persona ha bisogno, di essere
riconosciuta nell’essere e di riconoscere l’essere. Possiamo definire l’aspetto della realtà che stiamo
analizzando, lato affettivo del riconoscimento personale, e la tesi che propongo è che si tratta di un
bisogno fondamentale della persona. è un bisogno fondamentale della persona. è un bisogno
fondamentale, perché si tratta di un’istanza che sta alla base di altri aspetti della vita della persona. la
coscienza di sé, che il riconoscimento attiva, è parte essenziale dell’esser persona, e essa è la radice
della qualità speciale della persona. c’è però anche il lato etico del bisogno di riconoscimento, oltre che
quello affettivo. Mentre il primo, l’essere riconosciuti nell’essere, è un significato passivo; qui si tratta
del lato attivo> apprendere a riconoscere l’essere e sapersi introdurre nella realtà; la quale, per il
soggetto è sempre una realtà umana nella storia, un determinato universo simbolico. Il lato affettivo del
bisogno di riconoscimento può essere definito bisogno di intimità, il lato etico del bisogno di
riconoscimento va definito bisogno di dignità. Analizzando ciò affermiamo che bisogno educativo e
bisogno di riconoscimento coincidono, perché anche il bisogno educativo si rivela e si esprime come
bisogno d’intimità e bisogno di dignità.

18.3 I codici identitari


Possiamo affermare con certezza che un accudimento originario è imprescindibile per la sopravvivenza
umana. Questo tipo di accudimento deve essere caratterizzato da una tonalità empatica che può
autenticamente esprimersi solo se l’altro ovvero il figlio, viene riconosciuto come una persona, cioè
come un interlocutore competente rispetto alla relazione che chi lo accoglie e si prende cura di lui, il
genitore, va costruendo con lui fin dalla nascita. Per rispondere al bisogno di riconoscimento personale,
è necessario sperimentare relazioni educative autentiche: tutte le imprese umane di cura, sono
tentativi di assumere questo bisogno fondamentale di riconoscimento. Queste riflessioni preliminari ci
inducono ad affermare che le figure genitoriali, attraverso l’accudimento devono rispondere in modo
adeguato a questo bisogno originario e fondamentale della persona perché, se questo bisogno non
venisse soddisfatto, ne andrebbe della possibilità della persona di divenire tale. Si tratterebbe di un
danno antropologico, di proporzioni tali da comportare delle ferite educative che renderanno la
persona incapace di vivere in pienezza. Pertanto, i codici identitari materno e paterno rappresentano
tanto la fonte dell’energia psichica del soggetto, quanto l’impianto di un’autentica crescita educativa
intesa come piena umanizzazione della persona.

18.4 Il codice materno


La psicanalisi lacaniana afferma che la funzione materna si esprime soprattutto in un “interesse
particolareggiato” da parte della madre, per la singolarità del suo bambino che orienterà il modo di
prendersi cura di lui. Questa attenzione alla singolarità del bambino riflette una cura che è espressione
sempre di un desiderio dell’altro, che educa il bambino al desiderio e alla possibilità di poter desiderare
a sua volta. Così la cura materna non ha un carattere universale (non è sempre identica con ogni
bambino) ma singolare. Gli studi confermano, che sin dalla nascita il bambino sperimenta il valore della
dipendenza da qualcuno che si prende cura di lui e si prodiga per soddisfare i suoi bisogni. Questa cura
“incondizionata” risponde anche ad un bisogno d’appartenenza e di protezione, ad un bisogno che
Fromm chiama bisogno d’intimità. Quando il bambino è privato di un accudimento empatico,
assistiamo all’insorgere di un senso di abbandono che, provocherà rabbia e indifferenza verso il mondo,
forme di attaccamento insicuro, eccessiva dipendenza sia durante l’adolescenza sia nell’età adulta.
Attingendo a quella che definiamo “pedagogia spontanea” anche lei appare nella funzione materna. Un
modello riconosciuto a livello socioculturale vede nella madre biologica colei che deve prendersi cura
dei propri figli e così divenire una “buona madre”, quando ciò non avviene, si determina uno
sconvolgimento di tale modello. Quindi possiamo affermare che bisogno psichico primario è quello di
essere accuditi empaticamente accolti e amati incondizionatamente.

18.5 Il codice paterno


La psicologia dell’età evolutiva ci ha spiegato come il padre favorisca la nascita sociale dei figli e la loro
autonomia, ponendosi come figura che permette la rottura della diade simbolica madre-bambino.
Questo faticoso lavoro educativo si esprime nel mettersi in gioco nella gestione del conflitto con i figli
(soprattutto adolescenza), una gestione il cui peso spetta all’adulto educatore, che non può
sottovalutare l’importanza anche attraverso la pretesa del rispetto di determinate regole non
negoziabili, un’educazione al senso del limite esperienziale e morale. Queste funzioni educative, seppur
incarnate da entrambi i genitori, sono iscritte nel codice paterno: il padre è colui che introduce la
norma nella vita del bambino, consentendo la sua separazione della madre. Il “padre” è colui che
dovrebbe essere testimone di un modo di stare al mondo, che dovrebbe rappresentare un riferimento
sicuro attraverso un dono di sé costante. Il codice paterno, quindi, è inerente al polo etico. Il padre
deve consegnare al figlio un ideale etico perché egli possa vivere con un proprio significato la sua
esistenza. Il riferimento però è sia al padre reale sia a quello simbolico (anche altre figure educative
significative possono aderire ad uno dei due codici o entrambi). Ma affinché il padre assuma un
atteggiamento pedagogicamente corretto (cioè basato su un’autorevolezza e un dialogo empatico
finalizzati ad accompagnare la progressiva autonomia dei figli) è necessaria una buona qualità di
relazione coniugale (ciò significa che il modo di essere padre è influenzato dal modo di essere madre e
viceversa). Affinché questo codice di scambi parentali coincida anche con una crescita educativa
adeguata, l’azione educativa deve essere condivisa nella costruzione di un patto genitoriale> alleanza e
condivisione educativa tra i due adulti responsabili della crescita del bambino.

18.6. Un bisogno fondamentale reciproco


18.6.1 Il livello specifico della crescita educativa
Il modello pedagogico ritiene che per realizzare la crescita in pienezza sia necessario soddisfare un
bisogno fondamentale>essere riconosciuti nell’essere e quello di riconoscere l’essere. Ciò significa che
non è sufficiente un equilibrio psicologico, emergendo così il valore singolare dell’educazione, in primis
quella genitoriale, che unicamente può consentire questa personalizzazione dell’esistenza di cui stiamo
parlando. Abbiamo affermato, inoltre, che nel suo lato passivo e in quello attivo, il bisogno di
riconoscimento personale è caratterizzato da un bisogno d’intimità (essere riconosciuti nell’essere)
insieme a quello della dignità (riconoscere l’essere) bisogno che può essere soddisfatto nelle relazioni
educative primarie, in cui si esplica il sistema regolativo delle relazioni interpersonali inscritto nei codici
materno e paterno. L’amore incondizionato, la cura donativa, l’essere riconosciuti senza alcuna pretesa
ma solo per il fatto di esistere, appare prerogativa della figura materna (reale e simbolica). Il polo etico
appare prerogativa del padre (reale e simbolico). L’amore incondizionato che si dà ad un bambino non
può, da solo, umanizzarlo, ma le due istanze del bisogno di riconoscimento (bisogno di intimità e
bisogno di dignità) vanno integrate. Si tratta di un bisogno fondamentale reciproco. Questo discorso ha
un valore essenziale per il lavoro educativo di riconoscimento reciproco tra educatore ed educando. “la
domanda di riconoscimento esprime un’attesa che può essere soddisfatta solo in quanto mutuo
riconoscimento>non basta che sia l’altro a riconoscermi, occorre anche che io riconosca l’altro come
degno di riconoscermi.
18.6.2 Un codice relazionale duale
Secondo la prospettiva della psicanalisi, le funzioni della madre e del padre non possono essere
uniformate secondo un richiamo generico alla genitorialità che annulli la differenza tra le due funzioni
materne e paterne. Infatti, la madre non si limita ad elargire amore al suo bambino, ma crea lo spazio
fisico e mentale perché il figlio possa fiorire nel suo carattere unico. Così il padre, non si limita a
veicolare il senso della “Lecce”, la dimensione normativo-punitiva, il compito del padre è incarnare la
vocazione del suo desiderio che gli permette di sostenere anche la vocazione del desiderio del figlio. Le
due funzioni (materna e paterna) assumono un senso pieno solo nella loro integrazione, in quanto il
bisogno umano fondamentale va soddisfatto integrando intimità e dignità. In questo lavoro di
integrazione però ciascuno dei due coniugi è tenuto a favorire sempre la funzione genitoriale
dell’altro>codice relazionale duale e valorizzazione della differenza, il diverso è bello in quanto diverso.
18.6.3 Un bisogno di padri-testimoni
In ragione di quanto descritto nella lezione 2 noi abbiamo osservato una radicale aderenza al sistema
regolativo delle relazioni interpersonali iscritte nel codice materno, ma abbiamo altresì sottolineato la
difficoltà a rispondere ad un bisogno di dignità, alla consegna di significati e valori iscritti nel codice
paterno. Ecco perché si parla di un bisogno di padri o di un ritorno del padre in educazione. Ciò che
resta del padre nel tempo della sua evaporazione è un “atto di testimonianza singolare sul proprio
desiderio e si manifesta non più come ordine trascendentale della Legge, ma come ordine singolare ed
etico della testimonianza. La domanda di padre che accompagna le giovani generazioni non è una
richiesta di potere e di disciplina, quanto piuttosto la necessità di conoscere padri-testimoni. Un padre
che mostri con consapevolezza la scelta di un suo specifico modo di essere uomo nel mondo
contemporaneo.

LEZIONE 19 > LA CONSEGNA EDUCATIVA


Abbiamo visualizzato che bisogno educativo e bisogno di riconoscimento coincidono> il bisogno
educativo si rivela al contempo come bisogno d’intimità e di dignità. Noi intendiamo tutti i fenomeni
educativi se, in primo luogo, teniamo insieme tutti e due i lati del bisogno di riconoscimento; e se, in
secondo luogo, ammettiamo che nel concreto processo educativo, l’equilibrio è costruito dal versante
etico.

19.1 Un ideale di vita buona e la lotta per il riconoscimento


Possiamo sostenere che educare significa al fondo riconoscere l’ethos che forma le nostre evidenze
immediate, il verbo riconoscere> conoscere di nuovo tale ethos, prenderne atto e insieme ringraziare;
con una espressione sintetica: riappropriarsi dell’universo al quale apparteniamo. Ogni impresa
educativa rivela il bisogno di riconoscimento. Le certezze che abbiamo ricevuto formano l’ethos
singolare al quale già da sempre ciascuno è consegnato, costituiscono la propria originaria fisionomia;
ma tali certezze sono anche vere? Questo interrogativo è utile per intendere la figura originaria
dell’azione educativa. Tale azione allora implica un lavoro su di sé, riflessivo in senso eminente: tanto
un inventario di quello che si è, il riconoscimento dell’io concreto; l’esplorazione di ciò che si può
essere, il riconosciuto del sé autentico: di ciò che si può essere, dunque di ciò che si deve essere. La
situazione originaria, una consegna; ma anche il proporsi di un compito ovvero un appello ad una
responsabilità. Se la persona diviene sé stessa, essa non possiede ma ricerca l’esser proprio. Scegliere di
essere fedeli alle proprie convinzioni in ragione della loro verità appare un ben vivere (una vita buona)
ed è preferibile rispetto al semplice vivere (al lasciarsi vivere); la ricerca di riconoscimento è impegno, a
volte anche la lotta drammatica per affermare un valore di vita buona. Ogni persona è segnata nella sua
stessa struttura dal valore: ogni persona è relazione essenziale con quanto viene percepito ed
affermato come valore d’essere e di senso. Il nesso con il valore si mostra aspetto necessario della
persona riguardata nella sua essenza e quanto si presenta come valore si rivela sempre solo possibile
per il soggetto.
19.1.2 La testimonianza di un agire responsabile
Può accadere che la nostra memoria conservi traccia di qualche incontro speciale. Quest’incontro
speciale è speciale perché abbiamo ricevuto una testimonianza di vita buona. Una prima tesi è che
l’educazione appare e si può definire processo di consegna di un ideale etico di vita buona, interessante
per qualità umana> si tratta di una rel-azione, un’azione reciproca tra il consegnante (l’educatore) e il
consegnatario (l’educando). L’avvio del processo avviene grazie all’evento di una personalità morale
autentica> un tipo umano definito dalla ricerca e dalla scelta di un ideale etico, chi sceglie di esistere
ponendosi come impegno prioritario quello di comunicare il valore dell’essere e di senso che lo segna.
Se un soggetto s’interroga sulla verità delle convinzioni che ha assunto dalla sua comunità di
appartenenza, egli con ciò stesso va già oltre il piano della sua precomprensione. Questa esperienza di
libertà e di decisione rivela al soggetto la dimensione della possibilità propria, quanto abbiamo
chiamato l’autentico poter essere. Ora l’ideale etico è un ideale di umanità morale così come
originariamente è stato vissuto in una comunità che ne ha espresso o valorizzato alcune potenzialità
caratteristiche. La personalità morale vede e sceglie la nuova figura innanzitutto come una possibilità
per la propria vita personale, ed essa lascia trasparire il senso originario dell’ideale stesso. La
personalità segnata da questa esperienza può essere percepita come un testimone o educatore di agire
responsabile.
19.1.3 La condivisione di un comune orizzonte di senso
La consegna da parte dell’educatore però diventa educativamente significativa ed efficace a una
condizione: la proposta di una determinata figura dell’esistenza come autentico poter essere deve
esser offerta secondo un aspetto che la rende carica di fascino ed attraente. Una verità diventa
desiderabile quando appare come possibilità di piena fioritura della persona>quando essa porta la
promessa di una felicità. Nella persona è interpellato il desiderio di vivere e di vivere in pienezza: quella
originaria percezione di una mancanza intollerabile e la ricerca di qualcosa o di qualcuno che possa
colmarla in qualche modo. Un ideale di vita è desiderato e può esser scelto in quanto incarnato da una
persona, che trova in esso la fonte di un0interiore energia trasformante. Coinvolgersi allora con una
persona segnata così dall’ideale, significa per l’educando vivere un processo di modellamento etico. Per
l’educando deve essere desiderabile l’ideale di vita che ispira quella configurazione personale. Perché
ciò possa accadere, è necessario che l’educatore deve proporsi come personalità ontocentrica:
misurato dall’essere, più che centrato su di sé e sulle sue (parziali) realizzazioni storiche. C’è ancora una
seconda condizione che fa si che la consegna dell’educatore si significativa: un ideale di vita esige di
esser vissuto in una forma personalizzata da renderlo valore vivente> non può esserci esito educativo
senza l’impegno dell’educando a interiorizzare la consegna che ha ricevuto, per poterla personalizzare.
Si mostra capace d’impegnare e “legare” l’educando nella misura in cui tutti e due riconoscono un
orizzonte di senso comune e sono capaci di permanere al suo interno. Notiamo che in ogni momento
della consegna, ne va di un riconoscimento personale da parte dell’educando, il soggetto della
consegna: il quale, anche grazie alla mediazione simbolica dell’educatore, può riuscire a vedere lo
stesso ideale di vita buona. Il riconoscimento personale avviene nell’atto in cui si dona un
riconoscimento reciproco>presa d’atto e nell’affermazione della radice di senso comune, da cui il
riconoscimento personale dell’educatore e dell’educando ricevono significato fondante.
19.1.4 La virtù dell’educazione
La relazione educativa è un’edificazione comune o bilaterale ed è opera dell’agire responsabile tanto
dell’educatore quanto dell’educando. La relazione riconoscente è efficace quando avviene nel soggetto
un cambiamento, una trasformazione di sé assiologicamente ed eticamente positiva> il mutamento
personale può avvenire se l’educando si vede nella proposta offerta dall’educatore; dunque, se si
identifica con lui e se interiorizza la consegna> un reale cambiamento della persona c’è se egli fa vivere
dentro di sé l’ideale dal quale si sente attratto. Quindi l’educatore trova dimora nel cuore di chi si è
coinvolto nella relazione: far vivere dentro di sé non tanto il bene, quanto una persona percepita ed
accolta come buona e giusta, è l’inizio della vita morale: è il riempimento intuitivo della virtù
dell’educazione. Nel sapere spontaneo degli educatori, nel loro linguaggio si parla di riuscire a
“prendere in mano” la propria vita, diventandone attori protagonisti e autori, per realizzare un ideale di
vita positivo> non significa essere creatori di sé stessi ma significa riuscire nell’esercizio attivo
dell’essere e dell’esistenza ricevuti.

19.2 Intercettare il desiderio d’essere e di senso


I problemi della pedagogia fondamentale sono due: quello del senso ( del perché) e quello del metodo (
del come) dell’educazione. Va emergendo il nesso organico che tiene insieme i due problemi pedagogici
di fondo ( il problema del senso e del metodo vanno pensati unitariamente). La consegna in sostanza è
educativa se in essa si può fare un’esperienza di sé che orienti e muova i soggetti all’interno di un
orizzonte condiviso di senso. Ogni impresa educativa è sempre un tentativo di portare risposta ad un
bisogno di riconoscimento del soggetto. La riuscita dipende da due fattori:
1-dall’adeguatezza dell’ideale di vita buona, che tale sia veramente, dal punto di vista ontologico, etico,
assiologico;
2- risulta educativamente efficace ove riesca a porsi come termine del desiderio che costituisce il
soggetto e lo muove.
La prova della riuscita è innanzitutto pratica se è riconosciuto per la sua evidenza ma è anche teoretica
perché è una questione prettamente filosofica (di carattere ontologico, etico e assiologico). il dialogo
esistenziale è metodo educativo adeguato se riesce a intercettare il nome proprio del desiderio, che è
sempre desiderio d’essere in pienezza di vita e di senso. Il lavoro educativo consiste nel far fare
esperienza di sé al soggetto, aiutandolo a diventare consapevole di quello che è e ad esplorare
l’autentico poter essere.
19.2.1 Desiderio d’esser desiderati
Un’analisi fenomenologica del desiderare umano fornisce un’introduzione sul metodo educativo. La
prima osservazione parte da un dato fenomenologico elementare. Noi desideriamo sempre, a motivo di
una mancanza che diviene tensione e desiderare è sempre desiderare qualcosa: desidero ciò che mi
manca. In realtà, però, è esperienza che nessun oggetto determinato sazia mai pienamente la fame e la
sete del desiderare> la relazione desiderante è di natura trascendentale. Il desiderare va distinto dal
bisogno, che è sempre determinato e che per questa ragione può essere appagato, il desiderio infatti
nasce da bisogni, ma non coincide con essi. Esso non può esser fatto coincidere con l’amore il quale è
definito dalla presenza di un bene, di cui può saziarsi; il desiderio è costituito piuttosto da un’assenza
percepita sempre come incolmabile (il bisogno si può colmare). In terzo luogo, non coincide con la
volontà che puoi dire sì o dire no ad un oggetto desiderato, mentre il desiderio non può dir no.
L’aspetto veramente determinante per cogliere senso del desiderio è che il desiderio desidera un
soggetto desiderante un soggetto che lo desideri. Io desidero che qualcuno mi desideri, ma che l’altro
possa desiderarmi può essere per me solo un dono, presentandosi come libertà assoluta.
19.2.2 Acquisire una competenza esistenziale
Secondo questa prospettiva, tutti gli impulsi umani, appaiono forme o modalità differenti del
desiderare umano. Potremmo pertanto proporre di denotare il desiderio, impulso o emozione o
sentimento tipico dell’intera vita personale del soggetto; con l’avvertenza di tenere presente che esso
nasce sempre in ragione dell’assenza di un oggetto determinato. Gli impulsi sensoriali intesi come
modalità del desiderare sono sostenuti dalla ricerca di qualcosa o di qualcuno che possa colmare una
mancanza, avvertita dal soggetto, più o meno consapevolmente come insopportabile. Il primo risultato
di questa analisi è di vedere unitariamente la patosfera: tutto il vasto complesso di fenomeni che
definiamo universo emotivo si presenta con una certa unità organica. Si può dire che la patosfera sia il
mondo del desiderare e rivela quanto il soggetto intende a proposito del proprio essere nel mondo per
lo più in atti coscienziali sottratti alla consapevolezza. La consegna educativa dell’educatore deve
intercettare dunque il desiderio singolare dell’educando, solo così può esser percepita come adeguata:
solamente a questa condizione l’educando la interiorizza e diventa concreta. Allora motore segreto di
quest’opera diviene l’attivazione nell’educando della parte più viva della sua persona: di ciò che, in
questa, costituisce il “fondo” della sfera affettiva. Il “fondo” è la sua anima: meglio il suo spirito che è
piuttosto “anima dell’anima”. È il centro col quale il soggetto riesce a comunicare un atteggiamento di
massima concentrazione.

LEZIONE 20> VERSO UN NUOVO IDEALE PAIDETICO


Abbiamo detto che bisogno educativo e bisogno di riconoscimento coincidono; la persona, per essere,
ha bisogno di essere riconosciuta, valorizzata, accolta e stimata solo per il suo essere unica e irripetibile
e insieme ha bisogno di riconoscere l’essere, di essere aiutata ad introdursi nel reale. Tenendo ferma
questa verità antropologica possiamo ora proseguire la nostra riflessione sul senso dell’educare. Si
tratta di allargare l’orizzonte del nostro sguardo sull’educazione contemporanea, cogliendone, oltre agli
elementi di criticità e nel tentativo di trovare risposte adeguate ai bisogni educativi, anche alcuni
aspetti che possano indicarci delle direzioni di senso per gli educatori del nostro tempo. È un’attenzione
a quelle esperienze educative che spesso anche la coscienza comune avverte come esemplari. Vanno
intese anch’esse come “emergenze” però tutte di segno positivo. Eppure, sono segni e/o proposte di
ideali di vita “altri”, adeguati alla condizione umana nel nostro tempo che, li “nutre nel suo grembo”. La
pedagogia fondamentale ha il compito di ritrovare il senso, il valore e i limiti di una nuova proposta
paidetica rituffandosi, in media res, l’ideale di una nuova paideia va ricercato in qualcuno che lo incarni
in esperienze di vita reale.
20.1 Microcomunità, forme di socialità ristretta
Come anticipato, i giovani del nostro tempo si sentono meno preoccupati dei problemi della vita
collettiva e sembrano più interessati a coltivare rapporti interpersonali in forme di socialità ristretta:
famiglia, vita di coppia, gruppo di amici >microcomunità. Esse si presentano in diverse forme anche tra
gli adulti, assumendo i caratteri di reti di solidarietà, come nel caso del volontariato. Si tratta di piccole
comunità in cui si può rispondere al proprio bisogno di significato. L’elemento comune in queste
microcomunità è l’accettazione da parte dell’altro e la percezione che l’esperienza dell’altro sia analoga
alla propria: la risposta al bisogno di essere riconosciuti e accolti apre alla dimensione etica, alla ricerca
di una vita con un significato. La prima microcomunità in cui ci troviamo consegnati è innanzitutto la
famiglia che costituisce per la pedagogia fondamentale un esistenziale e luogo privilegiato per
consentire un’integrale fioritura della persona che in essa può trovare un potenziale di umanizzazione.
Ne sono esempi concreti i legami che le famiglie stringono con altre famiglie in modo informale o nella
forma di associazionismo, con la finalità di trovare spazi di senso, per costruire legami reciproci di
scambio, fiducia che qualificano l’appartenenza alla propria comunità nei termini di microcomunità
empatiche. Un altro esempio è dato dall’amicizia che sintetizza una forma di amore etico in cui
all’affettività si coniuga l’interesse autentico per l’altro, un interesse reciproco; consentendo di
sperimentare un’intimità spirituale che si traduce in una ricerca comune di significati. Le microcomunità
sono espressione di una nuova laicità aperte ad accogliere ogni realtà che s’incontra, in una posizione
etica che “consiste in una ricerca comune della verità e nel riconoscimento reciproco di beni oggettivi e
di valori personali condivisi. Queste forme di socialità assumono un grande valore per l’educazione
perché ispirano ideali di vita che appaiono più adeguati alla promozione della fioritura umana nel
nostro tempo.

20.2 Primato della relazione, un evento bidirezionale


La riflessione sulle microcomunità empatiche ci ripropone il primato della relazione come elemento
costruttivo dell’essere umano; una relazionalità che assume un carattere pieno solo quando
riconosciamo l’altro come “altro da noi” e quindi mai totalmente conoscibile. Il primato della relazione
ha assunto oggi il carattere del primato della dimensione affettiva di cui abbiamo colto alcuni limiti,
legati all’indebolimento della dimensione etica della relazione. Le nuove generazioni sentono come
elemento fortemente positivo l’essere stati amati e l’essere amati dai propri genitori. Quindi la
socializzazione caratterizzata dall’importanza data all’affetto rispetto ad altre dimensioni educative.
L’esempio delle microcomunità ci conferma che la relazione educativa deve imboccare la strada
dell’affettività che apra anche alla dimensione etica dell’impegno e della ricerca di significati condivisi.
Sentirsi accolti e amati è il punto di partenza di ogni relazione (psicologia) anche da un punto di vista
educativo, la difficoltà ad intraprendere un progetto educativo più ampio per un bambino, sta proprio
nel conciliare la dimensione dell’affettività con l’esigenza di stabilire delle regole e attribuire significati
nelle fasi successive di crescita dei figli. Avere dei limiti è rassicurante e aiuta a crescere iniziando da
alcuni punti di partenza; far pensare ad un bambino che è lui a decidere per sé crea solo una profonda
insicurezza e lo conducono verso una confusione mentale “indigeribile” che si trasforma
nell’ingannevole illusione di poter essere tutto, a fronte di un reale sentimento di forte inferiorità.
L’educando deve poter vedere il suo sé riflesso, vedere come l’altro lo vede, l’amore solo spontaneo
non educa, si nutre di un gioco di proiezioni narcisistiche che non permettono all’educando di
conoscersi e sperimentarsi pienamente, e all’educatore di comprendere e accogliere l’altro come altro
da sé e come un bene in sé. Il dialogo educativo tra le generazioni sembra si interrompa in questo
punto, in questo passaggio cruciale tra un amore puramente spontaneo e un amore che sia insieme
etico, segnato dall’impegno e dalla responsabilità per l’altro.

20.3 Logica del dono, gratuita e gratitudine


Il quadro descritto ci restituisce un’idea di famiglia ristretta, distinta e per alcuni aspetti, anche
opponibile alla sfera pubblica. Anche la genitorialità diviene una scelta privata: il figlio è un desiderio
privato di una coppia intimizzata. La genitorialità diventa un’esperienza personale e non più sociale ( il
controllo e la procrastinazione della transizione genitoriale> scelta e programmazione del figlio). Tutti
questi fenomeni dimenticano in parte, la logica del dono che ci connota come esseri umani e senza il
dono di una persona che liberamente e gratuitamente ci ama e che ci percepisce come un bene,
nessuno di noi è in grado di pervenire ad un’autentica conoscenza del suo proprio bene> l’educazione
non può realizzarsi senza questo tipo di dono. L’analisi fenomenologica ci permette di vedere che esiste
un’azione reciproca fra il dono e il debito che si manifesterà nella restituzione>momento in cui
sappiamo accettare tutti i limiti di coloro che si sono presi cura di noi. Lo scambio tra una generazione e
l’altra è il doppio versante dono-debito che riflette ancora una dimensione affettiva e una etico-
normativa (esempio: gratuità e gratitudine, la prima è più un dono per la mancanza dell’attesa di un
contraccambio, la seconda si riferisce al debito e ci preserva dal rischio di un “donare narcisistico”>
quest’ultimo si realizza nel caso dei genitori che, tenendo i figli ad oltranza, possono più facilmente
controllarli e condizionarli). In altri termini, se non riusciamo a riconoscere la nostra dipendenza
costitutiva come esseri umani, non saremo neanche in grado di donare una cura gratuita se non
l’esperienza di senso di una nuova vita generativa. Ciò non significa che il dono fatto all’altro sia fine a
sé stesso e non susciti gratitudine, ma la restituzione, come dono da una generazione a quella
successiva non è un processo affatto lineare. Allora i genitori dei giovani adulti devono saper gestire la
sofferenza per il distacco dai propri figli, devono imparare ad abbandonarli lasciando ai propri figli lo
spazio di diventare a loro volta, adulti.

20.4 Il valore educativo della solidarietà e del volontariato


Abbiamo rintracciato nelle microcomunità che il “noi” coltivato e costruito all’interno del “privato
sociale” si apre al “voi” divenendo luogo di pratica solidale. Ne è un esempio l’impegno di molti giovani
nel volontariato. L’associazionismo ha come protagonisti i giovani e costituisce un luogo di
socializzazione e di educazione. L’associazionismo e il volontariato svolgono un’importante funzione
educativa e formativa per i giovani. Oggi si può affermare che “il volontariato sia il deposito più
significativo di capitale sociale per la ricostruzione di legami comunitari e la costruzione di tutti quegli
aspetti dell’identità definiti come morali, sociali e civici”. La scelta dell’impegno in qualche forma di
volontariato si muove da una presa di coscienza critica dei propri bisogni e dalla capacità di uscire da sé
per riconoscere anche i bisogni degli altri. Tale passaggio porta il soggetto a guardare il benessere del
proprio contesto come il proprio benessere. In questo passaggio, sembra realizzarsi quanto affermato a
proposito della logica del dono. È necessario fare distinzione tra altruismo e impegno nel volontariato:
“lo specifico del volontariato è la generazione di nessi di relazionalità tra gli uomini. È proprio questa
caratteristica che differenzia il dono gratuito, tipico del volontariato, dalla beneficenza privata, tipica
dell’altruismo. Infatti, la forza del dono non sta nella cosa donata, ma nella speciale qualità umana che
il dono significa per il fatto di essere relazione”. Il volontariato non si configura come un
comportamento d’aiuto occasionale ma diviene nel tempo come un modo di essere, uno stile di vita.
Ma l’idea di un volontariato che può formare alla cura dell’altro, nasce anche dai risultati di altre
ricerche che hanno dimostrato come il volontariato possa divenire un percorso in cui sperimentare e
apprendere ciò che la famiglia non ha potuto dare. Il volontariato, allora, è un’occasione di crescita
personale che aiuta i giovani a “rispondere alla propria esigenza di significato, per vivere un’esperienza
umana significativa”, si pone quindi come utile strumento in grado di favorire e sviluppare una
formazione completa della persona solidale. A sintesi l’esperienza del volontariato è per il giovano
molto positiva, in quanto il gruppo di volontari, quando costituito anche da adulti “testimoni” di un
ideale di vita buona, diviene un ambito di autentica crescita educativa. Soprattutto la capacità gratuita e
di solidarietà dischiude alla dimensione della relazionalità riconoscente e apre possibilità di
restituzione. Una restituzione intesa non solo in senso letterale “ridare a chi ci ha fatto dono” ma anche
“donare perché si è ricevuto in dono” trasferire ad altri quanto abbiamo ricevuto e, oltre a ciò che
abbiamo ricevuto> ciò apre a nuove possibilità di dialogo tra le generazioni.

LEZIONE 21> AVER CURA


La pedagogia è una scienza pratica, la pedagogia fondamentale è costituita da diversi momenti di
progressivo approfondimento il cui termine ultimo è un ritorno alla concretezza dei mondi della vita
dell’educare, da cui riflessione aveva preso le mosse. Ne abbiamo parlato come di ritorno prassico-poietico
all’esperienza. Bertolini parla di una fase, anche in questo caso finale, metodologico-prassica
sovrapponibile a quella che noi chiamiamo momento teoretico, avente funzione cognitiva (volta ad una
migliore conoscenza del fenomeno educativo) e poi una conseguente riflessione avente funzione, appunto,
metodologico-prassica. Correlata a questa funzione di approfondimento teoretico, è appunto quella
metodologico-prassica, in essa sono individuate direzioni per l’educare che siano capaci di entrare nel
vissuto dell’educatore e orientare i suoi interventi, in modo che non siano generati dall’improvvisazione o
dall’urgenza del momento ma da un quadro di riferimento sensato. Poiché il senso dell’evento educativo
può essere accolto a partire dal suo avvio la prima “traduzione” pratica (disposizione formativa) verrà
individuata nell’aver cura. E questo impegno di valorizzazione e accompagnamento dell’altro nel cammino
di personalizzazione della sua esistenza verrà poi, specificato fino ad un dialogo davvero esistenziale.
21.1 I gesti dell’aver cura
Le forme dell’aver cura dell’altro sono quelle che più caratterizzano e arricchiscono la vita umana proprio in
quanto umana. E non ci stiamo qui riferendo al solo fatto biologico quindi alla necessità della cura per la
sopravvivenza; possiamo riferirci piuttosto a quella “premura di dare compimento al proprio e altrui
divenire possibile, stare in ascolto del proprio altrui desiderio”. È la cura per la persona nella totalità delle
dimensioni del suo essere. Jonas muove un’intuizione che è racchiusa in un’immagine che costituisce
“l’archetipo di ogni responsabilità”: l’immagine dei genitori che si prendono cura del proprio bambino.
Responsabilità= cura per un altro essere, accolto nella sua vulnerabilità e riconosciuta come un dovere. Che
cosa capiterà a quell’essere se io non mi prendo cura di lui? Il filosofo conclude con “tanto più oscura è la
risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità. Anche la filosofa dell’educazione Noddings
muove dall’osservazione della cura genitoriale come fatto originario della nostra umanità. Essa propone di
ripartire dall’esperienza del caring come relazione e dal ricordo di essere stati fruitori della cura di altri, che
ci hanno permesso di essere quello che siamo oggi. Ricordare di essere stati oggetto di attenzione è la base
per essere educati all’attenzione e all’empatia >vita morale. Come si realizza tutto questo?
-la prima modalità dell’aver cura è l’attenzione, intesa come una capacità di decentramento e di ascolto
dell’altro (anche quando non dice nulla). L’attenzione rappresenta “pulizia della mente e dell’anima” è una
virtù dianoetica> del pensiero, che poi si traduce in una specifica virtù etica, cioè del comportamento.
- dopo questo primo gesto, tutto interiore c’è né un altro, altrettanto interiore lo “spostamento della
propria energia dal sé altro”. Questi due primi gesti costituiscono il primo momento della comunicazione
autentica: per avere cura dell’altro, occorre distrarsi da sé ed essere disponibili all’ascolto. Spesso la
disattenzione per l’altro è evidente, più spesso sottilmente mascherata (es non mantenere il contatto visivo
con la persona ma guardare altro, sorridergli poco, non lasciare che l’altro termini di esprimere il proprio
pensiero tentando di anticiparlo). Se ribaltiamo questi atteggiamenti nel loro opposto, potremmo ricavare
buone attitudini che educano ad un atteggiamento di attenzione nei confronti dell’altro. Come abbiamo già
osservato Heidegger dice che il nostro essere è originariamente un con-essere, un essere con gli altri.
Tuttavia, la “semplice presenza” di qualcun altro accanto a noi può anche non significare e non generare
nulla. Heidegger ci suggerisce che la cura deve essere fatta di riguardo (Rucksicht) e indulgenza (Nachsicht)
>sicht “vista” = mantenere lo sguardo sull’altro è elemento imprescindibile della cura per l’altro. Invece,
quel tras-curarsi reciproco (o da parte di una sola parte), che porta lentamente all’estraneità, dissolve la
relazione educativa in forme di reticenza e di finzione, comincia innanzitutto con il non guardarsi (ovvero
con il non sentirsi visti dall’altro> per lui/lei sono invisibile spesso si dice). Di fronte al limite dell’altro,
l’educatore si sforzerà di accoglierlo (e per farlo, dovrà accoglierà al contempo il proprio limite, costitutiva
del nostro essere persone). All’ascolto fa seguito allora il gesto dell’accoglienza per far sentire a proprio
agio. Tutti questi gesti di cura saranno autentici se gli educandi sentiranno (Don Bosco dice) di “essere
amati e sentiranno di essere amati nelle cose che a loro piacciono”. A volte infatti l’incapacità di
comprendersi, dervis dal percepire che l’altro non conosce, né intende conoscere, ciò che per noi è
importante. La dinamica della comprensione può essere bloccata se l’educando percepisce un’invadenza
che pretende di svelare ogni cosa e che non rispetta tempi e ritmi personali. Tra i gesti di cura non vi è la
comprensione ma la “ricerca di comprensione”. Da una parte, l’educando deve sentire che l’educatore
intende farsi a lui vicino senza volerlo possedere o dominare> piuttosto deve percepire accanto a sé un
educatore che è capace di dirgli “tu che non sarai mai mio”. Dall’altra parte, l’educatore deve essere
sempre consapevole che il comprendere non equivale necessariamente a “capire” tutto, a “capire” l’altro>
la ricerca di comprensione si regge sul desiderio di accoglienza incondizionata. Nella teoria del metodo della
cura educativa che stiamo delineando c’è l’effettiva azione di cura che deve essere delicata e mai eccessiva.
Ogni educatore dovrebbe tener a mente che sia la trascuratezza sia l’ipercura sono una forma di
maltrattamento. Oggi molti genitori sono incapaci di dire un “no” prendendone la responsabilità. Questi
“educatori” non sanno porre limiti e fare rimproveri e sono di fatto incapaci di far fare l’esperienza feconda
per ogni persona del suo proprio limite; di conseguenza i bambini a loro affidati diventano “selvaggi” e
“sovrani”. Un bambino a cui non vengono imposte delle regole è un bambino che manifesta in più modi di
averne proprio bisogno. Si allude ad un’eclissi di autorevolezza che oggi si manifesta soprattutto nel
concepire ogni relazione come simmetrica e contrattuale. Risulta difficile esercitare un ruolo educativo
perché genitori e insegnanti, in nome del rispetto della libertà individuale, si sentono continuamente tenuti
a giustificare tutte le loro scelte, fino a scusarsi con il bambino. Senza esser rassicurati e contenuti, questi
bambini sono lasciati soli di fronte alle proprie emozioni e il rapporto con gli educatori, ma anche con i pari,
diventa teso e ansioso. Se oggi, i gesti dell’accoglienza e del contenimento ovvero del contatto affettivo
appaiono desiderabili e praticabili, meno desiderabili e praticabili appaiono quelli del controllo e della guida
educativa, se quest’ultimi mancano la cura educativa diventa inautentica.

21.2 Gli stili dell’aver cura


Per definire uno stile educativo bisogna fare riferimento almeno a due variabili: la variabile del controllo e
del contatto. Lo stile educativo autoritario è quello dove il controllo (dare indicazioni, regole e disciplina che
è la traduzione pratica del codice paterno) è massimo, mentre è minimo, quasi assente il contatto
(traduzione del codice materno). Sono in questo punto collocabili gli educatori severi e intransigenti del
passato. Lo stile educativo permissivo è quello dove il controllo è quasi assente, quando il controllo è
minimo il contatto è massimo; tuttavia, nel caso di un educatore permissivo, il contatto pure può essere
minimo, come avviene per molti adulti permissivi trascuranti. Infine, lo stile educativo autorevole ed
empatico è quello in cui la misura di controllo è in una saggia medietà, mentre massimo è il contatto. È lo
sbilanciamento proprio di quel darsi reciprocamente fiducia, che genera comunità davvero educative.
Osservazioni:
-in primo luogo, nello stile educativo autorevole empatico, si compenetrano i due codici materno e
paterno. Viceversa, nello stile autoritario e nello stile permissivo non c’è questo richiamo a questa
strutturante reciprocità di controllo e contatto: questi due stili spesso bloccano l’avvenimento della
persona. essere un educatore autoritario è una decisione che è esercizio di potere, nessuno può decidere di
essere autorevole; l’autorevolezza è una qualità che l’altro, l’educando, riconosce all’educatore: un dono di
riconoscimento. Quel bambino che non riceve né dai genitori né dagli altri educatori alcuna indicazione è
incapace di selezionare il gran numero di informazioni che riceve e di comprendere ciò che lo circonda è
incapace di formarsi. Dove, il principio di autorità è inteso come autorevolezza educativa, viene offerto al
bambino un mondo simbolico comprensibile, una mappa di sgnificati dalla quale partire> io ti ubbidisco
perché tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso questo obbiettivo comune, perché so che questa
ubbidienza ti ha permesso di diventare l’adulto che sei oggi, come io lo sarò domani. L’arte dell’educazione
è un’opera di riforma “prima di tutto di noi stessi”, un impegno al “vigile e continuo miglioramento” di sé
che gli educatori innanzitutto devono intraprendere per trasmettere qualcosa di autentico poi.

21.3 La risposta all’aver cura


Noddings afferma che l’educatore, il genitore non può aspettarsi una simmetria, che permetta di riavere
indietro dalla persona di cui ha cura una risposta che riequilibri la relazione. Un bambino piccolo, quando
viene accudito dalla madre, smette di piangere e sorride; uno studente, se ben curato dal suo insegnante,
intraprende i progetti con energia e sicurezza. Si tratta di risposte di riconoscimento che costituiscono un
feedback prezioso, di cui il datore di cura deve tener conto: continuare sempre ad essere attento e
osservare la persona che è affidata alle sue cure, aiuta affinché la cura si adatti al divenire, alla crescita e al
cambiamento della persona> questa attenzione è la condizione perché la cura non soffochi il necessario e
progressivo coinvolgimento in prima persona dell’educando. Attraverso la cura, viene perseguito il bene
dell’altro, ma in un modo per cui l’altro promuove egli stesso il proprio bene, di aver cura di sé. Tre sono le
dimensioni costitutive della cura: cura di sé- cura degli altri- e cura del mondo. lo psicologo Hoffman
valorizza lo stile educativo induttivo, caratterizzato dall’impegno dell’adulto a spiegare, trarre conseguenze
da fatti e scelte. In esso sono decisivi gli incontri disciplinari, cioè le occasioni di “rimprovero”, che
diventano incontri morali: Hoffman, infatti, spiega che attraverso il dialogo e il ragionamento, gli educatori
possono offrire significative ragioni per l’azione, che saranno poi interiorizzate. Spesso un “no” non detto,
come un rimprovero non fatto, rappresenta un’occasione formativa mancata. Se opportunatamente
guidato nel graduale superamento del suo fisiologico egocentrismo, un bambino, grazie all’incremento
delle sue capacità cognitive e linguistiche, modifica il suo modo di relazionarsi agli altri: può diventare più
capace di tener conto della prospettiva dell’altro. Da preadolescente e da adolescente sarà chiamato in
modo sempre più maturo a instaurare legami e a decentrarsi da sé: si innesta qui la necessaria formazione
dei ragazzi alle relazioni autentiche. L’educazione va intesa e praticata affinché le persone in formazione
imparino ad esser grati delle cure ricevute per diventare a loro volta capaci di dare cure.

LEZIONE 22> EDUCARE LE EMOZIONI, EDUCARE IL SENTIRE


Ciascun esser umano, solo se viene innanzitutto accolto come un tu da qualcuno, che lo riconosce e lo fa
sentire non superfluo ma prezioso, può cominciare a essere un io. Il tema dell’educazione delle emozioni è
molto discusso. Molti studiosi di educazione sottolineano le ferite che ha prodotto il cosiddetto “errore di
Cartesio” (separazione tra regno della ragione e della conoscenza con quello delle emozioni e affetti); non
vanno dimenticate le tante forme di apatia del nostro tempo, rintracciabili in vite spente, che non riescono
a fiorire.

22.1 Educazione della vita emotiva, educazione alla vita morale


Ora, possiamo cercare di esplicitare in che modo le emozioni possano essere educate come modi della
nostra capacità di intendere il reale e il suo valore. Abbiamo osservato che le emozioni, ci danno preziose
indicazioni per comprendere il mondo e gli altri. Le emozioni costituiscono innanzitutto il linguaggio con il
quale il corpo registra la presenza di una realtà esterna a sé; infatti, non parlano in generale ma
dischiudono universi soggettivi. Ognuno ha “a cuore” in modo particolare un determinato insieme di cose,
che per lui valgono perché ad esse tiene più di altre. Diversi fenomenologi hanno evidenziato che, per ogni
persona, la capacità di sentire e le conseguenti tonalità emotive svolgono diverse funzioni: armonizzano e
non armonizzano tra loro le parti dell’esistenza; sono le condizioni del rivolgersi dell’attenzione verso una
persona o verso un contenuto da conoscere> sono aspetti da valorizzare nella pratica educativa dunque
nella formazione morale. Dunque, il bene non entra nella mia esperienza concreta e personale senza il
contributo del mio sentire. Viceversa, l’apatia, come incapacità di sentire la vita e il suo valore è correlata a
tante forme di incapacità morale. “l’essere umano ha la capacità di sentire i valori e ha la possibilità di
aprirsi ad essi, cos+ come dischiudervisi”. Il sentire è costituito dalla relazione con l’altro (gli altri a cui
destiniamo i nostri gesti, atti e parole, i valori e i significati infine il divino). In tal senso, possiamo dare una
prima indicazione di metodo educativo: un’appropriata educazione delle emozioni deve aiutare ciascuno a
vedere che proprio nella capacità di percepire- non solo a livello corporeo, ma poi anche interiormente-
può dischiudersi “un affinamento e un ampliamento dell’esperienza”. La vita emotiva viene pienamente
attivata e vissuta se viene scoperto il suo carattere intenzionale, cioè “attraverso un atto di messa in
relazione, di percezione dell’altro. Non si pone attenzione a quella caratteristica delle emozioni che è
connaturale ad esse, che cioè è costitutiva ma va formata perché possa dispiegarsi: la loro potenzialità di
dirci qualcosa del reale di ampliare l’esperienza che ne abbiamo. Oggi spesso un ingenuo psicologismo
porta a declinare la cura delle emozioni nella sola dimensione del benessere tralasciando l’orizzonte morale
della vita buona. È invece proprio in questo orizzonte che la pedagogia fondamentale di stile
fenomenologico-ermeneutico esplicita le forme possibili della cura delle emozioni: l’educazione delle
emozioni allora si amplia nell’educazione del sentire, che è in sé stessa una forma di educazione alla vita
buona, una forma di educazione morale. Le nostre emozioni ci dicono qualcosa di noi e della struttura di
valore della realtà. qualcosa di non trascurabile, ma appunto qualcosa, cioè non tutto e non tutto ciò che è
davvero importante. Quando non si matura nella consapevolezza della necessità di intraprendere un
cammino di approfondimento del sentire, si cade nell’emozionalismo tipico del nostro tempo, una ricerca di
autenticità inadeguata perché si finisce con il conferire alle emozioni il compito, per esse sproporzionato di
dirci tutto ciò che è davvero importante. Quando impariamo a chiederci se e come le nostre emozioni ci
aiutano a conoscere l’altro a promuovere il bene; a chiederci se e come le emozioni dell’altro, ci aiutano a
conoscere meglio non solo l’altro, ma anche noi stessi e, così, ad avere più strumenti per costruire insieme
un mondo comune. Le spiegazioni psicologiche ci indicano che affinché le emozioni possano crescere in
profondità, abbiamo bisogno di progredire in 4 classi di competenze: riconoscere le emozioni,
comprenderle, esprimerle comunicarle. Passo essenziale dell’alfabetizzazione emotiva è quello di valore sul
lessico del sentire sul “vocabolario emotivo”: chiarire la natura di fenomeni che, non sono intercambiabili,
di riconoscerli e di nominarli. Questo permetterà di lavorare sull’ordine del cuore: ecco il terzo
orientamento per l’educazione delle emozioni intesa come educazione del sentire. Il cuore spesso pieno di
ferite e lacerazioni verificherà un’esistenza inautentica, l’unica virtù che conosce il cuore frantumato è la
sincerità. Ma il cuore può aprirsi ad un amore che porta con sé un ordine inedito, al cui centro c’è la
persona riconosciuta e amata; forma di esistenza autentica la cui virtù è piuttosto la verità. Tra le
esperienze relazionali, maggiormente nell’esperienza amorosa, si rivela che il sentire non si lega solo ad un
vissuto passivo e disimpegnato, ma può legarsi a un atto impegnativo e voluto, ad una paziente costruzione
di sé e della relazione con l’altro, in cui il versante affettivo e quello etico non possono essere scissi: proprio
per questa ragione, nel sentimento- che non è solo emozione ma anche impegno morale- la vita emotiva
fiorisce pienamente.

22.2 Educare le emozioni nella vita di famiglia


Il dialogo emotivo familiare, con la semantica che genera, assume un’importanza nell’educazione dei figli,
molte ricerche psicologiche dicono che nell’apprendimento del linguaggio i genitori si sforzano di ascoltare i
primi vocalizzi del bambino; è l’impegno degli adulti di riferimento che si relazionano al piccolo come se
queste espressioni fossero parole dotate di un preciso significato, che rende quel bambino capace di
entrare nella comunità linguistica. La psicologia afferma che si realizza una vera e propria socializzazione
delle emozioni. A volte senza che l’adulto sia consapevole, sempre tra le mura domestiche si instaura un
vero e proprio dialogo emotivo. Al contrario, ciò che è dall’adulto anche solo una parola, uno sguardo
troppo distratto, non potrà mai acquisire una fisionomia adeguata nel mondo interno del bambino, o lo farà
più tardi e con più difficoltà. Dunque, decisiva per la fioritura umana del bambino è la possibilità di
esplorare le proprie emozioni, riconoscerle, nominarle e condividerle. Chi si prende cura di un bambino, usa
sin da quando è molto piccolo un lessico appropriato, supportandolo e guidandolo gradualmente
nell’interpretazione degli eventi che scatenano le emozioni e gli permette di accedere al proprio mondo
interno. Comincia così la ricerca, che dovrebbe durare tutta la vita, di una mappa interiore di sé. Se la
metaemozione dei genitori influisce in modo basilare, ma nascosto, sulla formazione del bambino, vi
influisce, in modo più facilmente individuabile, lo stile emotivo degli adulti di riferimento. Gottman
distingue uno stile di guida (coaching) e uno stile di messa al bando (dismissing). I genitori che hanno uno
stile di guida sono dei genitori autorevoli che cercando di essere consapevoli delle proprie emozioni e
attenti a quelle altrui, accettano le emozioni del bambino sia quelle positive che quelle negative. Opposto
allo stile di educazione delle emozioni è lo stile caratterizzato da una messa al bando delle emozioni
(genitori autoritari/trascuranti). I genitori che lo praticano non sanno esplorare la propria dimensione
interna (molto probabilmente perché non sono mai stati educati a farlo) di fronte alle emozioni negative,
tendono a minimizzare, a negare, a scegliere le strategie più sbrigative per rimuovere la situazione che le ha
generate prima possibile. Risultano troppo duri o troppo teneri. In genitori come questi, i codici relazionali
paterno e materno non risultano ben integrati. Le ricerche empiriche indicano non solo che un adulto
emotivamente competente e attento genera un figlio capace di comprendere meglio le emozioni, ma anche
che ciò vale sia per le emozioni proprie, sia per quelle altrui. Hoffman, osserva che, poiché un individuo ha
più probabilità di rispondere empaticamente a un’emozione altrui se l’ha sperimentata, le relazioni familiari
devono permettere al bambino di esplorare anche le emozioni negative. Coltivare la vita emotiva del
bambino, però, non è facile, perché richiede tempo e soprattutto il coraggio di fare un lavoro formativo su
sé stessi> costante miglioramento di sé in cui l’educatore si deve impegnare se vuole essere davvero tale.
Tutto ciò sarà possibile con un lavoro di educazione dell’immaginazione: il bambino deve immaginare come
si sentirebbe se fosse al posto di vittime sconosciute. Per fare ciò, due sono gli strumenti educativi principali
di cui l’educatore può servirsi:
1- Si possono valorizzare i giochi di finzione: il bambino piccolo ha la tendenza a far finta; con ragazzi e
adulti si può utilmente far ricorso a giochi, esercizi, laboratori di vita interpersonale.
2- Si può fare – a qualsiasi età- un uso intenzionalmente educativo delle narrazioni, come i romanzi,
che spingono i lettori a mettersi al posto di altre persone, anche lontane da loro, partecipando alle
loro esperienze. Ascoltando storie, il bambino impara a porre attenzione alla vita nascosta degli
altri. L’immaginazione nutre l’attenzione e allarga lo spazio dell’esperienza emotiva e morale.
La narrazione poi (dall’adolescenza e nell’età adulta), diventa risorsa formativa attraverso l’autobiografia:
raccontarsi aiuta a riscoprire, l’intenzionalità propria di emozioni. Se vogliono offrire una consegna, gli
educatori devono offrire in primo luogo se stessi come modello di competenza emotiva e di
comportamento empatico, sono chiamati ad essere testimoni attendibili (esempi).

22.3 Educare le emozioni a scuola


Numerose ricerche psicologiche e pedagogiche evidenziano che, non solo in famiglia, ma anche a scuola,
l’educazione autorevole, con il suo elevato grado di contatto- ovvero di cura- ha effetti molto positivi sulla
formazione di una persona non solo autonoma. Rispetto allo sviluppo morale recenti studi hanno fatto
emergere l’impatto positivo sia della conoscenza effettiva che gli insegnanti hanno dell’educando, sia
dell’espressione concreta della stima nei suoi confronti. La correlazione è molto positiva con stili educativi
dove all’espressività emotiva e alla vicinanza affettiva si aggiunge un buon grado di controllo, inteso come
capacità di offrire norme e indicazioni chiare. Viceversa, un modello di adulto aggressivo, poco capace di
rispondere al duplice bisogno di riconoscimento ( intimità e dignità) del bambino e che, cerca di ottenere e
mantenere la disciplina sempre e solo con la forza ( tono di voce o sguardo) insegna al bambino che con
l’aggressività si possono raggiungere i propri obiettivi: questo stile educativo non solo non ottiene ciò che
cerca, ma influisce negativamente sullo sviluppo della sensibilità del bambino. Le diverse proposte di
educazione delle emozioni si concentrano principalmente sull’acquisizione di 3 abilità di base: riconoscere
le emozioni; comprenderle; esprimerle.
- Riconoscere le emozioni significa saperle nominare, comprenderle saper formulare spiegazioni e
interpretazioni; esprimerle significa saperle comunicare e gestire in modo appropriato alle diverse
situazioni e relazioni.
Non solo tra le mura domestiche, ma anche tra quelle scolastiche, il dialogo sulle emozioni è innanzitutto
un dialogo intriso di emozioni e di esperienza di umanità nella sua interezza, quindi anche di corporeità. Le
diverse proposte educative delle emozioni a scuola possono essere distinte a partire dai diversi costrutti
teorici che le caratterizzano. I principali costrutti sono 4: l’intelligenza emotiva; la metacognizione; la teoria
razionale emotiva e la competenza emotiva.
1- il riferimento “all’intelligenza emotiva” si traduce nella volontà di “insegnare ai bambini le “capacità
fondamentali del cuore” che sono al tempo stesso evidenziate come “capacità interpersonali
fondamentali”. Attraverso la conoscenza delle emozioni, l’obbiettivo formativo è la capacità di
regolare, controllare e usare le emozioni. Questo approccio contiene strumenti che possono essere
molto utili, come i diversi programmi formativi che offrono strumenti di valutazione delle abilità di
percepire e comprendere le emozioni espresse in volti, in figure astratte o in brani musicali (TEC
test di comprensione delle emozioni). Altri strumenti basati sull’intelligenza emotiva permettono di
utilizzare le emozioni per facilitare il problem solving emotivo: di gestire le proprie emozioni sia sul
piano individuale sia su quello relazionale.
2- Il secondo costrutto da considerare è quello della metacognizione esso può aiutare a regolare tanto
abilità intellettuali quanto abilità emotive: sono stati strutturati percorsi metacognitivi che
promuovono l’identificazione delle emozioni in sé stessi e negli altri.
3- La teoria razionale emotiva (RET) mette in risalto l’influenza del pensiero sulla genesi delle emozioni
ed evita pensieri che alimentano stati d’animo distruttivi per la persona. di conseguenza, si valorizza
il cosiddetto “dialogo interiore” = imparare ad ascoltare i propri pensieri, a rielaborarli a pensare in
modo positivo e costruttivo, sviluppando un crescente senso di autoefficacia emotiva.
4- L’ultimo costrutto è la competenza emotiva. Se la matrice dei percorsi centrati sull’intelligenza
emotiva, sulla metacognizione e sulla RET è di tipo cognitivista, quest’ultimo costrutto è di matrice
sociocostruttivista. Il sociocostruttivismo ha merito di aver sottolineato che dire emozioni significa
nominare immediatamente le relazioni interpersonali. Per “competenza emotiva” si intende
diverse abilità quali: essere consapevoli delle proprie emozioni; saperle esprimere anche in base al
contesto; saper interpretare i comportamenti altrui e riconoscerne le emozioni; saper distinguere
l’espressione provata da quella espressa; essere empatici. Un lavoro educativo centrato sulla
competenza emotiva è dato dall’uso sistematico della discussione in classe negli altri contesti
formativi; alla base vi è la consapevolezza che il parlare di emozioni non è cosa facile, ma costituisce
un’abilità decisiva per la formazione, che può essere appresa. La competenza emotiva è un
costrutto ricco e complesso, che porta a sintesi anche approcci precedenti.
La fenomenologia permette di riconoscere che nelle emozioni, può scorgersi il segno di legami con l’altro:
“c’è sempre relazione e cioè costruzione sia pure fragile e frammentaria di ascolto e di dialogo, di
intersoggettività e di reciprocità”. Ciò significa che nell’educazione delle emozioni nella direzione di una
affettività piena si apre una possibilità morale, di decentramento dal proprio io e di apertura all’altro.
Infatti, nella pratica educativa, formare la competenza emotiva apre un accesso al valore del dialogo, della
parola condivisa. È allora all’educazione alle relazioni e al dialogo che la nostra teoria del metodo educativo
deve volgersi in modo da considerare anche l’età adulta.

LEZIONE 23> EDUCARE ALLA RELAZIONE, EDUCARE ALLA GENERATIVITÀ


La pedagogia fondamentale deve impegnarsi in una riflessione sull’educazione degli adulti e sulle relazioni
educative familiari, in ragione della fragilità che abbiamo osservato nella vita dei preadolescenti,
adolescenti e giovani-adulti che abitano il nostro tempo. Tale fragilità trova la sua origine in un
indebolimento di alcune dimensioni essenziali (quelle iscritte nel codice paterno) che dovrebbero
caratterizzare le relazioni familiari e sociali. Educare alla relazione sembra, la logica conseguenza del nostro
argomentare. Ma come si può educare alla relazione?

23.1 Educare al senso dell’alterità


È necessario, partire da un altro punto interrogativo: com’è possibile, nella relazione con l’latro cogliere il
senso dell’alterità, se l’altro rimane altro da me e quindi mai totalmente conoscibile?
L’altro estraneo, può sollecitarci due atteggiamenti di segno opposto: la paura, il disagio, l’allontanamento,
oppure il rispetto, il desiderio di conoscere, l’ospitalità; questi ultimi costituiscono il segno di una tensione
verso il senso più acuto dell’alterità. Nelle città contemporanee, assistiamo sia a forme di mixofobia (paura
dello straniero) sia a forme di mixofilia (curiosità e stimolo verso ciò che è diverso, estraneo). Per cercare di
colmare la distanza tra queste due posizioni è necessario approfondire un metodo educativo che si basi su
un dialogo interculturale che passi sempre da un riconoscimento reciproco. Rifiutare questo confronto
significherebbe rimanere ostaggi di una mixofobia sempre più dilagante, non cogliendo l’altro come una
risorsa, perdo la possibilità di un apprendimento reciproco che può condurci verso un riconoscimento
reciproco, cioè verso una relazione che possa definirsi come realmente umana. Se vogliamo costruire un
metodo dialogico interculturale, è inevitabile lavorare sulla gestione dei conflitti per arginare atteggiamenti
propri di colui che tenta di dominare l’altro. Educare giovani e meno giovani alla relazione, significa
acquisire un metodo responsivo, un’ascesi da parte del soggetto che permetta di acquisire come
disposizione abituale un decentramento da sé, affinché si possa riconoscere l’altro proprio come un altro.
Una “disposizione abituale” che deve appartenere, in primo luogo, all’educatore che si dispone ad
accogliere e riconoscere l’altro, l’educando. Da un riconoscimento reciproco, confermando l’esistenza e
l’importanza dell’altro, e attraverso un autentico dialogo interculturale, può nascere la ricerca di ciò che è
comune appartenenza, di ciò che è essenzialmente umano e che quindi per analogia mi fa cogliere la
comunione con l’altro, che però, interpellandomi con le sue domande, mi fa percepire autenticamente
anche la sua alterità.
(importante) l’educazione alla relazione può avvenire solo per il tramite della relazione stessa. Viviamo in
una società interculturale, in cui il confronto/scontro con l’altro diviene ogni giorno sempre più
“inevitabile”. Il lavoro educativo si esprime attraverso la costruzione di spazi di incontro tra culture giovanili
diverse, uno spazio di “ascolto” dove è possibile pervenire ad una condivisione di valori e significati
universali. Tuttavia, il rischio è quello di finire per promuovere un ideale di umanità universale che metta
fuori campo le differenze. Al contrario, un concreto lavoro educativo finalizzato a sensibilizzare le nuove
generazioni alle differenze che connotano la singolarità dell’altro e insieme a far cogliere la comune
umanità da cui originano queste differenze; un’educazione alla relazione spinge ad interrogarsi sul perché e
sul senso delle differenze> bellezza del diverso. Educare, attraverso comportamenti prosociali anche allo
sviluppo di qualità prosociali> educazione inclusiva. La scuola può assumere un ruolo centrale nell’attivare
processi di contatto e incontro tra bambini e adolescenti provenienti da contesti culturali differenti e gli
aspetti che possono definire una scuola inclusiva e di qualità saranno la comunicazione interculturale e il
riconoscimento reciproco.

23.2 Educare alla generatività


Abbiamo affermato come sia possibile educare alla relazione solo per il tramite della relazione stessa, ma
abbiamo anche ribadito che per “stare” nella relazione riconoscendo l’altro nella sua unicità e differenza,
dobbiamo prima imparare a sostare presso di noi. Un’educazione alla generatività è come una forma di
educazione alle relazioni familiari, grazie alla quale possiamo aspirare anche ad un’educazione alle relazioni
sociali. La generatività si esplica, nella procreazione e nella genitorialità. Le energie di base che muovono la
generatività sono l’impegno e un senso di responsabilità assunto nel prendersi cura della generazione
successiva alla propria. Erikson considerò il concetto di generatività come un costrutto completo che
connota l’adultità. Tra gli anni 80 e gli anni 90 la generatività diviene frutto di uno scambio tra le
generazioni che si realizza attraverso un nutrimento reciproco, attraverso le relazioni educative familiari. La
generatività è intesa come un costrutto relazionale familiare e intergenerazionale in quanto risiede proprio
nella relazione tra le generazioni, divenendo responsabilità morale di legarsi-a e di prendersi cura-di. Nella
letteratura italiana, il costrutto di generatività la intendono come essenzialmente relazionale. Insieme alla
coniugalità e alla genitorialità una terza condizione speculare spesso troppo dimenticato è la filialità.
“integrare i tre versanti identitari è il compito dell’adulto-genitore”, egli è quindi sia dalla parte del dono (è
donatore di vita) sia dalla parte del debito ( in quanto l’ha ricevuta in dono da altri). Il tema del dono si lega
inevitabilmente alla dimensione della generatività anche se la generatività si riceve dal passato per essere
offerta al futuro, è un’eredità che va elaborata dalla coppia per poi essere rilanciata in modo adeguato. E
seppure abbia origine da fonti donative carenti, può essere feconda se la coppia è in grado di assumere su
di sé il peso dell’ingiustizia subita. Se da un lato la famiglia è il luogo per eccellenza della cura del legame
affettivo che sostiene la persona nel suo processo di crescita psicologico e umano, dall’altro è che il luogo di
relazioni educative che influenzano le scelte di vita familiare future. Diventare generativi significa offrire
uno spazio ospitale all’altro, ma insieme si tratta anche di custodire ciò che si è generato. Allora, le relazioni
educative familiari dovrebbero essere segnate dall’accoglienza, dalla solidarietà, dalla gratuità e dalla
reciprocità. Se tutto ciò si respira all’interno della famiglia, possiamo essere capaci di uno spazio ospitale
che divenga espressione di una generatività sociale. Oppure possiamo richiamare anche forme familiari che
siano espressione di una generatività sia sociale che familiare come le famiglie adottive e l’adozione
internazionale> accoglienza dell’estraneo. In questi casi, l’alterità diviene pienamente un componente
familiare.
Uno sguardo attento alla possibilità concreta di un’educazione alla generatività richiama la dimensione
etica della responsabilità: “se gli uomini non si assumono responsabilità, possono arrivare a negare il
legame o ad abolirlo rappresentando così la costante relazionale dell’antigeneratività. Il controllo delle
nascite, la procrastinazione della genitorialità, l’instabilità affettiva nella coppia e uno status di single
diffuso, sono tutti fenomeni che fanno pensare, ad una distorsione del legame; il contesto sociale attuale
sembra piuttosto aderire ad una deriva antigenerativa sia nelle scelte di vita familiare sia nelle relazioni
sociali.
Com’è possibile allore, educare la famiglia alla generatività?
È necessario partire da un’educazione alla vita di coppia. Per comprendere il cammino verso un amore
maturo i giovani hanno bisogno di testimoni credibili con cui confrontarsi. L’educazione alla generatività
richiama un’educazione alla coppia e alla genitorialità. Il riferimento è ad una preparazione al matrimonio
che renda chiari ed espliciti due elementi: la valutazione della cultura familiare del partner e la maturazione
della coppia verso la disponibilità a progettare la sua apertura alla vita. Cultura familiare e apertura alla vita
sono, i due aspetti che sembrano estromessi nella scelta di coppia che poggia solo sugli aspetti affettivi. Alle
giovani coppie deve essere chiarito che il matrimonio postula l’unione anche delle due famiglie d’origine (è
necessario valutare il sistema valoriale di cui la famiglia del partner è portatore). Le difficoltà maggiori di
una relazione di coppia risiedono nella capacità reciproca di assumere il punto di vista dell’altro e di
impegnarsi nel promuovere il bene della relazione che ne scaturisce. Ancora una volta, un lavoro sul
riconoscimento delle differenze tra me e l’altro, è alla base di un’educazione alla relazione, grazie alla quale
la coppia acquisisce una maggiore consapevolezza delle differenze da cui è segnata al suo interno. Ed è
proprio attraverso un confronto dialogico sulle differenze che può nascere un “innesto generativo”.
(sintesi) l’educazione alla genitorialità consiste nel sostenere e stimolare il padre e la madre a crescere
come persone impegnate in un comune progetto di vita, a riflettere sulle proprie risorse, i propri limiti e le
aspettative nei confronti dei figli, ad imparare costantemente dall’esperienza e dai propri errori, a ridefinire
o a costruire nuovi aspetti della propria identità di adulti, a restituire fiducia alle proprie capacità genitoriali.
Questo tipo di approccio al sostegno alla genitorialità sembra concretizzarsi nell’esperienza formativa
promossa dalle “Scuole per genitori”. Si tratta di “spazi” in cui i genitori possano accrescere la percezione
delle proprie capacità educative e competenze genitoriali, e apprendere nuovi modi di relazionarsi, per una
realizzazione piena del loro compito educativo. Anche in questo caso, la condivisione di vissuti ed
esperienze con altri genitori, diviene mezzo e fine dell’azione educativa: grazie ad una riflessione comune è
possibile riscoprire nuovi significati che connotano le relazioni educative.

LEZIONE 24 >IL DIALOGO ESISTENZIALE CENTRATO SULL’EMPATIA


In questa lezione conclusiva si parlerà del dialogo esistenziale centrato sull’empatia> una forma particolare
di dialogo interpersonale tra l’educatore e l’educando, che qualifichiamo come esistenziale perché rivolto
ad aiutare i soggetti nella comprensione del proprio modo di abitare il mondo. si tratta di un lavoro di
elaborazione del senso, nel quale è determinante il “paragone” con l’ideale di vita consegnato. Se per un
verso, per entrambi i soggetti, la posta in gioco è la crescita della consapevolezza del modo ricorrente di
affrontare la realtà; per un altro verso, l’esperimento cruciale è tentare di cogliere la rispondenza, la
“convenienza” dell’ideale di vita buona proposto con il desiderio singolare del soggetto. È un’opera di vera
e propria decifrazione di ricognizione dell’io concreto e di esplorazione del sé autentico.

24.1 La proposta di un metodo educativo


Il dialogo esistenziale può essere visto come un atteggiamento filosofico in senso adeguato. Per avviarlo si
può prendere spunto anche da questioni in apparenza futili, perché emerge sempre qualche aspetto della
personale collocazione nel mondo, l’atteggiamento che si assume di fronte all’essere e all’esistenza. Il
dialogo esistenziale è un’azione pedagogica in senso proprio: un dialogo coinvolgente, dal punto di vista
intellettuale ed affettivo. Quando la consegna esercita sull’educando una forte attrattiva, questi si mette in
movimento, s’attiva; allora il dialogo empatico può riuscire in una sorta di esperimento esistenziale, può
costituire un’esperienza trasformante di sé. In questo momento della pedagogia fondamentale, viene
esaltato il contributo specifico dell’ermeneutica, come analisi di struttura rivolta a comprendere il senso
esistenziale dei testi. La riflessione ermeneutica ci fa comprendere come la consegna non sia un gesto
astratto: la consegna è una pratica e può essere una buona pratica. Nel metodo, l’empatia resta elemento
equilibrante tra i diversi fattori che lo determinano, concorrendo a configurare la pratica dialogale come un
caratteristico sistema relazionale. Il dialogo esistenziale di cui sto parlando non va assimilato ad altri metodi
segnati dall’empatia (come quelli nei workshop psicoterapeutici); di certo costituisce una relazione d’aiuto
in ragione di una differenza essenziale che rende preferibile parlarne piuttosto come relazione di cura. Con
tutte le differenze vi è un punto di prossimità tra psicoterapia e relazione educativa: il cammino che porta
una persona a conquistare e acquisire la virtù dell’educazione implica che il soggetto sappia trovare da sé
una stima di sé. Il momento di convergenza diviene però subito massima distanza: lo scopo della
psicoterapia è promuovere nel soggetto una certa funzionalità psichica e una situazione di benessere;
mentre, nella prospettiva dell’educazione il ben-essere è perché la mente si disponga al bene, per
consentire al soggetto di ricercare e attuare una forma d’essere di maggiore pienezza. D’altronde, uno
studio sistematico dello sviluppo psichico evidenzia come la realizzazione di una personalità psichicamente
matura non è mai semplicemente frutto di un’evoluzione spontanea del soggetto. Una tale maturità implica
l’acquisizione graduale di competenze, cognitive, affettive relazionali che possono essere solo esito di un
lavoro educativo svolto con un metodo.

24.2 Il codice empatico


Come appena detto questo tipo di dialogo può essere assunto come un processo in cui sempre è questione
dell’elaborazione di un testo; meglio di un quasi testo. Il riferimento al linguaggio proprio dell’ermeneutica
del testo di Ricoeur è evidente. L’analisi sarà, in primo luogo, analisi del registro strutturale del quasi testo,
ossia> strutturazione. In secondo luogo, l’indagine dovrà rivolgersi a prendere in esame il senso offerto e
significato da questa specifica configurazione del dialogo > è il momento della riflessione sulla referenza
ontologica ed esistenziale del quasi-testo. Ecco la prima tersi, il presupposto dell’analisi: ogni dialogo si
struttura secondo un codice di funzionamento, compito della nostra analisi è di vedere come funziona, lo
specifico sistema di regolazione relazionale empatico. In generale in ogni stile educativo, possiamo
distinguere due elementi costitutivi:
1 il fattore di controllo (fattore C)> considerando le relazioni educative esso riguarda gli aspetti di autorità e
di competenza nell’educazione.
2 il fattore emotivo-affettivo (fattore E) > comprende i tratti del contatto socioaffettivo dei partner in
interazione. Questo è molto importante, perché due o più persone entrano realmente in dialogo perché
l’elemento che dispone al dialogo è quello emotivo-affettivo; costituisce il clima propizio ad esprimersi e
soprattutto ad ascoltare l’altro che si narra.
Nel concreto effettuarsi dei comportamenti educativi, ad essi va aggiunto un terzo fattore che possiamo
indicare come fattore di autenticità espressiva e comunicativa (pertanto fattore A). Riguarda il linguaggio
impiegato dall’educatore, più la sua congruenza che la sua efficacia, va distinto dai primi due perché si
tratta di una variabile che non può essere rilevata col massimo di oggettività e di rigore. I linguaggi
dell’educatore sono condizionati infatti, da fattori riconducibili alle differenze individuali. Ù
Tutti e tre i fattori distinti concorrono a definire il sistema dialogale, come struttura e dinamismo di
relazione e di comunicazione. La polarità specifica della dimensione di controllo, il fattore C è tra
dominanza e sottomissione; mentre quella specifica della dimensione emotivo- affettiva il fattore E è tra
distacco e fusione. Quando l’incontro, il riconoscimento e la comunicazione educativa sono segnati
dall’empatia, il sistema dialogale è determinato da un fine: diviene da una struttura teleologicamente
determinata, il cui termine è la virtù dell’educazione. L’empatia autentica è tale da rendere il controllo della
relazione minimo, prossimo al grado zero. Qui, è evidente, la dialettica tra le opposte polarità del fattore C
è superata, in un atteggiamento che non è né di dominanza (dell’educatore nel relazionarsi all’educando)
né di sottomissione (dell’educando di fronte all’educatore). Tale atteggiamento che dobbiamo chiamare
empatico è piuttosto quello dell’autonomia. La dialettica, invece, tra le polarità del fattore E è oltrepassata
in un atteggiamento che non è né distaccato (d’indifferenza) né fusionale (o confusivo). In effetti, l’empatia
unisce al calore, una stima oggettiva che esige una qualche forma di distanza acquisita. Anche qui,
l’atteggiamento empatico è quello della preoccupazione benevolente e fornisce al sistema dialogale la
norma che proporrei di chiamare dell’amorevolezza educativa. Questa regola e quella prima enunciata
riescono nel linguaggio della trasparenza comunicativa. Concludendo questa breve analisi del codice
empatico quanto emerge offre il vantaggio critico di precisare ulteriormente la classificazione dei diversi
stili educativi> tutti possono trovare il criterio della loro classificazione nel tipo empatico e nello stile
autorevole. E ciò permette di opporsi sia allo stile autoritario (controllo massimo) sia allo stile permissivo
(controllo minimo). Interessante notare che l’amorevolezza, l’autonomia e la trasparenza educative
concorrono a formare nella persona un atteggiamento di docilità: vedendosi conosciuto e amato,
l’educando diventa egli stesso capace di generarsi da sé, egli rivolge infatti quello stesso amore e stima che
riceve, tanto a sé stesso quanto all’altro e alla sua proposta educativa. La testimonianza dell’educatore può
essere avvertita allora come un dono e accolta come un compito; in sintesi come una consegna.

24.3 La poietica dell’esistenza


24.3.1 un’esperienza trasformante di sé
Dobbiamo cogliere il senso dell’empatia. Abbiamo concluso dicendo che la consegna di fatto può
concretizzarsi in una pratica, un’esperienza veritativa e valoriale. È la prassi dialogale empatica che coglie
come può avvenire per i soggetti coinvolti un esperimento trasformante. Buona pratica è quella in cui sia
possibile comprendere il nome del proprio desiderio d’essere e d’essere in pienezza di vita e di significato.
Studiando bene il fenomeno, emerge con evidenza come in tutte le relazioni, i nostri desideri siano sempre
messi a tema, anche se normalmente non ci facciamo caso. Per certi versi pare sia l’unica cosa che ci preme
conoscere davvero; se noi venissimo a capo del nostro costitutivo desiderio d’essere e di senso,
apprenderemmo allora il nostro nome proprio, la nostra destinazione in questo mondo. acquisteremmo
una vera e propria competenza esistenziale, pervenendo ad una contezza di noi stessi e del nostro singolare
dimorare nel mondo. ma un’esperienza di perfetta trasparenza di noi ci è preclusa e ciò non solo perché
non c’è mai la luce che consenta di vedere adeguatamente la realtà, ma anche in ragione di una cecità, la
quale abita nel seno stesso del vedere. Infatti, noi siamo innanzitutto e per lo più espropriati del nostro
autentico desiderio. Siamo in una condizione di espropriazione e forse bisogna scrivere di sonnambulismo:
come dormienti. La novità di vita e di senso può aiutarci, può segnare l’inizio di una veglia: una relazione
dialogale autentica può destare la parte più viva di noi, facendoci interrogare su noi stessi. Già questo
comprendersi e ricomprendersi innesca nel soggetto una ricerca di sé, lo impegna a sperimentarsi, a
mettersi in gioco e alla prova, per riappropriarsi del nome dell’autentico desiderare.
24.3.2 L’archeologia del soggetto
Senza la ricerca di pienezza d’essere e di significato non è possibile che il mondo diventi una dimora degna
per le persone; ma la ricerca non è semplice, a volte può impegnare l’intera esistenza. L’ideale proposto è
un appello e esso intende attivare una risposta, ha come termine un’esistenza responsabile. Il lavoro
educativo i suoi metodi e i suoi contenuti, trovano in questo la prova cruciale: aiutare i soggetti in crescita
ad elaborare un progetto di vita personalizzato, che abbia una misura singolare. Un tale lavoro implica che
l’educatore innanzitutto aiuti l’educando a fare un inventario del suo essere concreto, così che l’educando
possa esprimersi e raccontarsi. Quella che diventa una vera e propria ricognizione esistenziale dell’io
concreto registra di fatto l’oggettivazione del desiderio d’essere del soggetto nel linguaggio di una
determinata comprensione, la quale sempre si struttura come un’originale configurazione d’essere e di
senso. È presente la storia del desiderio, le sue forme “antiche “così come concretato ed espresso nei
progetti di vita che il soggetto va facendo.
24.3.3 La teleologia del soggetto
Conosciamo una tesi fondamentale della fenomenologia, principio di senso della prospettiva del nostro
corso di pedagogia fondamentale: la coscienza è, nella sua essenza, intenzionalità, relazione significante
con altro, con il reale nella sua determinatezza e col reale come totalità, e l’intenzionalità è costituzione o
donazione di senso, accoglie il senso della realtà che si offre e a significarlo configurandolo in un’unita di
senso. Ma, la lezione fondamentale che abbiamo appreso dall’ermeneutica- la coscienza costituente è essa
stessa già da sempre costituita: la coscienza di sé è strutturata da un’originaria comprensione del proprio
essere nel mondo. si tratta di una precomprensione sempre parziale perché determinata; pertanto, essa è
sempre esposta alla possibilità di risultare illusoria. Mettendosi di fronte a queste opere, ai quasi-testi come
li abbiamo chiamati, il soggetto può leggersi intendendone il senso, spiegandolo e interpretandolo. Nel
dialogo esistenziale i soggetti coinvolti, l’educatore e l’educando si raccontano e di fronte al teso sono
chiamati a far crescere la consapevolezza di sé. Anche in questo dialogo centrato sull’empatia, possiamo
distinguere due momenti: quello ironico/dialettico; e il momento maieutico/poietico.
Il primo momento è dialettico perché già una semplice oggettivazione di sé in realtà segna una presa di
distanza dalla propria coscienza spontanea. Definire dialettico questo momento vuol dire significare che
un’interpretazione, di noi, dell’altro e della relazione, nasce sempre come critica ad un’interpretazione già
data che è vista e giudicata astratta: relativa ma tale da pretendere l’assolutezza. Per cogliere in che senso il
momento maieutico è piuttosto poietico, è utile riflettere sulla portata referenziale del testo. Si dà, in ogni
segno e in ogni testo, una referenza di primo grado o diretta; è quanto immediatamente è significato dalla
letteratura del testo. Questo parla sempre di qualcosa di determinato e già da sempre a questo livello è
rappresentato un certo modo di sentire o di abitare il mondo che è condiviso con altri soggetti. L’empatia
mentre vuole essere condivisione che ri-vive in proprio quanto l’altro vive, essa sempre intende nell’essere
concreto dell’altro qualche tratto del suo poter essere. Pertanto, qui, la referenza di secondo grado, mentre
insiste in quella di primo grado apre una comprensione ulteriore. Si può scrivere che questa referenza altra,
sia l’ambito del nostro desiderare? Certamente di questo di tratta, quando si parla di poter essere viene
sempre evocata la mancanza che costituisce il desiderio come desiderio della persona nella sua singolarità.
Allora, se nella referenza diretta si tratta del desiderio concreto e delle sue forme attuali; appare con
evidenza che il desiderare eccede sempre le figurazioni dei singoli desideri e le risposte per essere trovate.
Appare con evidenza, che il desiderio non è mai pago, perché ha una misura sempre più grande che
trascende le sue forme concrete: la sua realtà è sempre più grande delle sue forme attuali. Il desiderio è
anche costituito da potenzialità d’essere; spazio del progetto o di una poietica dell’esistenza.

24.4 La gemmazione del senso


L’educazione è avvenimento della persona e questo evento speciale appare insieme come un dono e come
un compito. Il momento iniziale è il dono, di una persona che sceglie di essere definita dalla comunicazione
dell’ideale di vita buona. Questa persona si attesta come educatore e compito principale è presentare
l’ideale di vita etica che lo ha conquistato come realmente tale: il suo compito, in breve, è di offrire
all’educando un “punto di partenza”. In quanto educatore egli sa che la prova che deve offrirne è
innanzitutto pratica ma sarà anche teoretica. Per l’educando il dono è per un altro compito. Il compito
impegnativo dell’educando è riuscire a percepire che l’ideale di vita proposto rende possibile
un’interpretazione minimamente adeguata del suo desiderio: tale da prospettare una nuova configurazione
della sua esistenza. Il punto di partenza offerto dall’educatore esige dunque dall’educando di affrontare
una prova cruciale, affinché l’impresa abbia una riuscita: l’ideale di vita per l’educatore buono in sé, deve
essere per l’educando buono per il sé singolare.
Il coinvolgimento dell’educatore e dell’educando nella relazione educativa è un’esperienza forte, un
esperimento trasformante. Nel dialogo esistenziale, il lavoro da compiere insieme è quello di disegnare una
mappa interiore dell’educando, un inventario delle configurazioni possibili. Nel dialogo esistenziale
centrato sull’empatia, le parole dette acquistano il senso di una comunicazione personalizzata, diventano
comunicazione personale proprio perché messe in forma rivolgendole all’altro: esse diventano una
comunicazione personale proprio in quanto comunicazione interpersonale. Tutte le parole acquistano uno
spessore, semantico ma anche logico; allora il processo di significazione che alle parole è consegnato
appare opera di co-significazione. Un processo di significazione è sempre processo di donazione di senso,
esso riesce in una novità, in un evento d’essere e di senso. Significare vuol dire innanzitutto cogliere il senso
del reale che apparendo si offre e si dice. In questa prassi di comunicazione autentica che per noi è il
dialogo empatico, il processo di significazione si pone piuttosto come contemplazione, accoglimento
partecipante e coinvolto del senso; così i soggetti riescono ad intenderlo, così possono metterlo in forma
per comunicarlo.
Per entrambi i soggetti del dialogo empatico, l’evento d’essere e di senso può essere descritto come
un’esperienza valoriale>esperienza o gemmazione del senso. Le parole pronunciate dall’educatore, la
consegna storica e personale di un ideale etico di umanità che esse portano, possono essere accolte
dall’educando in un atteggiamento di reciproca empatia intenzionale. Le stesse parole comunicano lo
stesso ideale, e insieme evocano altro, una nuova e originale configurazione personale dello stesso ideale.
L’esperienza della gemmazione del senso, infine, appare esperienza del riconoscimento reciproco di una
comune, condivisa radice di senso, è il fondamento dell’autentico poter esser personale e dell’esistenza
comunitaria.

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