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LEZIONE 1
EDUCAZIONE= fenomeno umano universale.
Ogni società umana ha prodotto una cultura ovvero un sistema di valori, comportamenti, norme, simboli
che per essere trasmessi, conservati e rinnovati hanno reso necessaria l’educazione. È stata assicurata
dunque la continuità tra le generazioni introducendo i più giovani alla cultura di appartenenza. Per
comprendere il ruolo dell’educazione, occorre avviare una prima indagine empirico-storica ovvero si
devono individuare le molte educazioni cui il genere umano ha dato vita nel corso della sua evoluzione,
interagendo con variabili sociali e culturali differenziate, in fasi specifiche e all’interno della loro storia e
geografia.
L’educazione è intesa come cura e allevamento dei bambini in quanto nuovi membri di una comunità. Ciò
che caratterizzava queste antichissime civiltà preistoriche era un’educazione naturale, spontanea e
informale basata sul linguaggio (proverbi, racconti, canti...) e sull’imitazione. Queste prime forme di
educazione orale avevano un carattere comunitario (come in Africa). Infatti, al di là delle diversità fra popoli
alla cultura africana delle origini viene riconosciuta un’unità relativa. L’educazione era un processo di
socializzazione basato sulla conformazione>mirava ad integrare gli individui nelle norme e nei valori della
comunità del villaggio valorizzando la coesione e la solidarietà.
L’educazione alla parola dunque è centrale poiché il linguaggio non era solo un mezzo di comunicazione,
ma rappresentava anche il legame naturale della comunità (infatti la civiltà africana è nota come “civiltà
della parola”). Dal confronto con l’educazione africana vi sono alcune caratteristiche comuni a tutte le
società senza scrittura: era un’educazione informale che si realizzava attraverso la parola e rifletteva una
struttura sociale gerarchica basata sul dominio degli uomini sulle donne, dei primogeniti sui secondogeniti,
dei vecchi sui giovani> facendo dunque del sapere una forma di potere che detenevano maggiormente gli
anziani.
La nascita della scrittura viene attribuita alle civiltà fluviali della “Mezzaluna Fertile”, dove l’educazione
andò assumendo compiti, metodi e contenuti originali. All’interno di una rigida stratificazione sociale
nasceva un’educazione formale affidata a sacerdoti e scribi (destinata ai ceti elevati), mentre per i ceti più
umili era sufficiente un’educazione informale affidata alla famiglia. Quella degli scribi era un’educazione
basata su un modello autoritario che prevedeva punizioni corporee. Tra le più antiche tribù nomadi della
Mesopotamia troviamo anche gli Ebrei, la loro educazione si intrecciava strettamente con la religione ed
era basata sull’insegnamento biblico (Torah). Oralità e scrittura erano entrambe al servizio
dell’insegnamento religioso affidato: alla famiglia, alla società e alle scuole. Ciò che accomuna le differenti
educazioni delle prime civiltà è un modello educativo rigido e autoritario, basato su metodi di studio
coerenti con un immobilismo sociale presente per esempio nelle culture asiatiche, dove l’educazione era
legata a particolari visioni filosofiche e religiose. L’educazione indiana, per esempio, è affidata alla
trasmissione orale e ad un rapporto intimo tra il maestro e il discepolo. Un momento centrale del percorso
educativo era l’iniziazione, considerata una seconda nascita e riservata solo alle caste superiori. Rispetto
agli indiani, i cinesi davano maggiore peso all’educazione formale e alla scrittura come mezzo di
trasmissione culturale e come veicolo di civiltà destinata alla formazione d’élite. In seguito, l’educazione
cinese fu influenzata dal pensiero di Confucio, il quale sosteneva la necessità di uno stato educatore al
servizio del popolo.
La paideia classica venne sostituita con la perfectio cristiana, incentrata sulla figura di Gesù Cristo: il nuovo
fine dell’educazione era visto nella salvezza dell’anima che si realizza nell’interiorità attraverso un percorso
di formazione. Si trattava di un’educazione che, dopo il battesimo, veniva rivolta ai bambini e adulti da
parte prima di persone che si improvvisavano maestri, poi di sacerdoti. Se l’educazione altomedievale era
organizzata in forme diverse e contrapposte> formale e raffinata nei ceti aristocratici, orale e legata
all’immaginario quella popolare; nel basso medioevo invece l’educazione subì una profonda trasformazione
in direzione borghese> nascono strutture educative come l’università, le botteghe che insieme alla famiglia
come primo luogo educativo caratterizzano poi l’Età Moderna.
L’educazione islamica era finalizzata alla conoscenza del Corano ed era in primo luogo affidata alla famiglia
(primo ambiente educativo). Si trattava di un’educazione informale, religiosa, morale, sociale, affidata
all’oralità, al racconto di fiabe e favole che diventavano l’occasione per svolgere lezioni di morale; tutto era
finalizzato a trasmettere le regole della buona educazione rivolta ai bambini/e. Al compimento del 7imo
anno di età le bambine rimanevano a casa mentre i bambini continuavano l’istruzione di base e chi poteva
permetterselo continuava a studiare anche dopo i 13 anni.
L’educazione occidentale europea visse nell’età moderna una rivoluzione: con l’Umanesimo e il
Rinascimento cambiarono i fini dell’educazione che venivano ora rivolti al modello già classico dell’homo
faber, di un soggetto attivo nella società e capace di trasformarla. La famiglia e la scuola acquistarono
sempre più importanza poiché investite di un compito che non era più solo di cura e di istruzione, ma anche
di formazione personale e sociale. La rivoluzione industriale diede vita ad un mondo geograficamente e
socialmente diseguale. Nella seconda metà del 900, gli spazi e i tempi dell’educazione si sono allargati:
insieme all’educazione formale si diffuse sempre più un’educazione informale svolta dalla famiglia,
dall’ambiente, dal lavoro e dai media. Oggi nel terzo millennio da più parti si riconosce purtroppo una
diffusa “povertà educativa” e una crisi mondiale di apprendimento. Circa 57 milioni di bambini/e nel mondo
non hanno accesso all’istruzione e 250 milioni vivendo in contesti svantaggiati e disagiati sono analfabeti.
Oggi dunque, l’educazione, quale fenomeno umano universale di qualità, non si è diffusa in modo equo nel
nostro pianeta. Di questi fenomeni la comunità internazionale dovrà tener conto, promuovendo
un’apertura interculturale e inclusiva al di là della dimensione occidentale> così si potrà porre fine alla crisi
e raggiungere l’obiettivo di un’educazione universale, rispettosa delle differenze e rivolta a tutti come una
comune opportunità di sviluppo e di autentica crescita umana.
Le società post-industriali vengono definite da più parti società dell’immagine. Si verifica, che nella
comunicazione (soprattutto quella mediatica) l’informazione va smarrendo il suo contenuto verbale;
l’immagine diventa messaggio. Ora la società dell’immagine è anche riconosciuta come società della
comunicazione: la comunicazione è strettamente legata al nostro modo di conoscere la realtà, pertanto, il
dominio di una comunicazione visiva rende l’immagine la più importante forma di conoscenza (a discapito
della parola orale e scritta). Sempre più spesso il mostrare prende il posto del dimostrare in tal senso si
parla ad oggi di una politica e società della post-verità> ciò che è di facile accesso, l’immagine o le forme di
comunicazioni mediatiche e virtuali sono “la verità”. Le nuove generazioni vengono definite “native digitali”
proprio perché nate dentro una cultura tecnologica. Un altro aspetto delle società post-industriali è la
velocità nei consumi in corrispondenza alla velocità del flusso delle immagini, si è alla ricerca costante di un
godimento effimero attraverso gli oggetti. Inoltre, è avvertita diffusamente la pressione dovuto ad una
costante mancanza di tempo nelle attività che si svolgono durante il giorno (cultura della fretta che spesso è
causa della schizocronia). Il predominio dell’immagine e la “cultura della fretta” incidono in modo
significativo anche nei contesti educativi, in primo luogo in quelli familiari e scolastici.
L’adolescenza non è affatto un periodo della vita riconosciuto in tutte le culture e non lo era in passato.
L’adolescenza nasce contestualmente alla società industriale, che consenti ai bambini e ai giovani più lunghi
periodi di scolarizzazione rendendo più prolungata e complessa la transizione all’età adulta. Con l’avvento
della psicanalisi, l’adolescenza verrà considerata una vera fase “psicopatologica”. Quello a cui assistiamo
oggi, nelle società occidentali, è un tempo dell’adolescenza che si sta allungando sempre di più: un
prolungamento dell’adolescenza perlomeno di una decina d’anni, che viene definita post-adolescenza. Il
consumismo esperienziale sembra spingere gli adolescenti di oggi ad “essere” attraverso ciò che possono
possedere e mostrare; i più giovani sono particolarmente sensibili all’influenza di far prevalere l’immagine
su tutto, si tratta di un atteggiamento che si può definire “estetizzante”.
Non è da sottovalutare nemmeno però che vi è un desiderio genitoriale di perpetuare la protezione e la
dipendenza dei figli anziché promuovere e favorire la loro autonomia e indipendenza; i figli vengono
“protetti” dalla fatica dell’individuazione, unica via per una separazione. Secondo Charmer la cultura
adolescenziale di oggi può essere definita dalla figura di Narciso: i figli, sempre più spesso unici, sono
preziosi e rari e, quindi vanno protetti a qualunque costo. È facile intuire che l’adolescente “Narciso” è
l’esito del bambino “sovrano”. Per i genitori, esercitare la propria autorevolezza è vissuto come un
tentativo di limitare la libertà del figlio in crescita, evitando il più possibile di entrare in conflitto con lui.
Nasce così quella che è stata definita “la famiglia negoziale”, cioè un sistema familiare caratterizzato da una
contrattazione continua tra genitore e figlio. Nonostante questa negoziazione continua, assistiamo a forme
di totale incomunicabilità. Quindi c’è un problema educativo che possiamo individuare in una scarsa qualità
della comunicazione tra le generazioni che sembrano non ascoltarsi.
2.4 La condizione giovanile: frammentazione del lavoro, famiglia lunga e impegno nel volontariato.
La precarietà lavorativa sembra legarsi anche ad altri cambiamenti, si parla ad oggi anche di una precarietà
affettiva. Molti giovani adulti lamentano di non riuscire a progettare una vita “in coppia” né tanto meno a
coltivare l’idea di diventare genitori, proprio a causa dell’instabilità lavorativa: i figli “costano”. Tra i giovani
adulti si riduce la transizione al ruolo di “genitori” e l’età media alla nascita del primo figlio tende a
spostarsi sempre più avanti di generazione in generazione. Tuttavia, il “il costo dei figli”, non è solo un costo
economico: le motivazioni si riferiscono al costo di un investimento temporale, ma anche al costo in termini
di opportunità di vita dei potenziali genitori. Si tratta, allora, più del costo emotivo di una scelta
“irreversibile” che di un costo puramente economico: intimorisce l’dea che la transazione genitoriale, a
differenza di tutte le altre pare, l’unica da cui non si possa più recedere. Oltre a questo, si aggiungono altri
cambiamenti che interessano la famiglia: il matrimonio non è più una scelta prevalente e si assiste ad una
pluralizzazione delle fonti familiari. I cambiamenti che interessano l’istituto del matrimonio sono
rintracciabili nella riduzione delle prime nozze, nell’aumento delle seconde e successive, in una crescita
della scelta della convivenza e in un aumento delle separazioni e divorzi. Tutto ciò ha modificato inoltre, un
vocabolario essenziale in cui le parole “famiglia” e “amore” assumono un senso differente per ciascuno di
noi, indebolendo i valori che si associano a tali parole.
Vi è una trasformazione della scuola che va nella stessa direzione di quella che abbiamo descritto per la
famiglia, entrambe sembrano aver perso un valore simbolico chiaro e condiviso; tale perdita pare aver
spezzato il patto di alleanza tra scuola e famiglia. I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella
più totale solitudine, la nuova alleanza tra genitori e figli in tal senso, disattiva ogni funzione educativa da
parte dei genitori. Da un lato gli insegnati sentono la richiesta sempre più pressante di dover rispondere alle
problematiche educative del bambino e dell’adolescente; dall’altro, temono di trascurare il raggiungimento
degli obbiettivi didattici, finendo per sentirsi inadeguati. Si assiste che molti insegnati, sentono svalutato il
loro ruolo professionale proprio dai genitori degli alunni. Gli insegnanti accusano i genitori delle loro
inadempienze educative e faticano a mantenere un’asimmetria relazionale che gli alunni non sempre
hanno già sperimentato nell’ambiente familiare. D’altra parte, la scuola viene accusata dalle famiglie di non
essere più in grado di preparare i giovani alla vita 3, pertanto, di essere venuta meno al suo mandato,
risultando inadeguata rispetto alla trasformazione in termini di conoscenze e competenze.
2.6.1 Il fenomeno migratorio e gli alunni stranieri
Chi sono gli alunni “stranieri”? Essi sono figli di immigrati nati del paese d’accoglienza; figli ricongiunti ma
nati nel paese d’origine; minori stranieri non accompagnati, rom, sinti, e caminanti e figli di coppie miste. I
giovani immigrati riportano risultati scolastici peggiori rispetto agli studenti italiani e smettono di andare a
scuola prima, soprattutto se arrivati in Italia in età più avanzata. Questo perché i ragazzi stranieri
presentano delle caratteristiche diverse rispetto a quelli giunti nel nostro paese a un’età maggiore: i primi
sono più simili agli italiani appartenenti al loro ceto sociale piuttosto che ai loro connazionali giunti in Italia
in un secondo tempo. I ragazzi stranieri si sentono più incerti rispetto ai loro coetanei italiani, in generale si
sentono meno capaci degli altri. Le ricerche sottolineano come l’elaborazione della propria identità sia più
problematica per i minori giunti in Italia già adolescenti, rispetto ai figli di immigrati nati in Italia o a quelli
giunti durante la prima infanzia. Tali problematicità sono collegate alle dinamiche che si sviluppano in
famiglia nel periodo dell’adolescenza del figlio, alle condizioni di vita trovate nel paese ospitante, alle
politiche sociali locali e alla visione che il contesto d’arrivo ha della realtà migratoria, cioè l’impatto del
pregiudizio; tutti questi aspetti delineeranno i diversi tipi di “appartenenza “che il minore adolescente
svilupperà. L’incertezza che cresce in loro è correlata al senso di appartenenza al paese ospitante e al paese
d’origine dei genitori; se questa doppia appartenenza è vissuta come valore, e non come difetto, diviene
una risorsa e il senso di incertezza diminuisce. Nella scuola italiana è una prassi inserire i minori stranieri in
una o più classi indietro rispetto a quella che dovrebbero frequentare ciò provoca un profondo disagio nei
ragazzi. Così, il ritardo accumulato comporta una sottovalutazione delle proprie capacità e spinge
all’abbandono degli studi. Un rischio sempre più reale è di creare classi o interi istituti scolastici
“polarizzati”: scuole dove prevale l’inserimento degli alunni stranieri, si rischia infatti di creare delle “scuole
ghetto”, dove l’idea di un’integrazione non è più pensabile. Il documento ministeriale afferma che quanto
riportato sopra non dovrebbe succedere richiamando spesso il concetto di “inclusione”.
5.2 La precomprensione
Come è originaria l’appartenenza, altrettanto originaria è per Heidegger la disposizione ad orientarci nel
mondo del quale siamo abitatori: il soggetto che è nel mondo già ha del mondo una “precomprensione”
che è la comprensione originaria che precede ogni altra comprensione acquisita nel concreto svolgersi
dell’esistenza. Un sapere spontaneo che si apprende sin dalla nascita, attingendolo dai mondi della sua vita,
innanzitutto quello familiare, poi quello del parentado, infine dai mondi sociali nei quali fa il suo ingresso e
in primo luogo dalla scuola. La precomprensione è sempre un sapere prospettico in ragione di
un’insuperabile “posizione” che egli occupa nello spazio, in quanto è corpo materiale animato vivente. Il
corpo del soggetto definisce una sorta di punto zero, a partire dal quale per lo sguardo si dispiega una
prospettiva aperta sul mondo, un punto di vista singolare dunque sempre relativo. Ponty afferma un
soggetto può intendere il senso del mondo, incontrandolo secondo una caratteristica modalità intenzionale,
da ultimo riconducibile alla condizione corporea. Heidegger, invece, vede ed intende il nesso tra
precomprensione e situazione storica, dal momento che per lui il soggetto “nel mondo” è storicamente
definito, non è una coscienza pura o trascendentale. A partire dalla precomprensione, ogni soggetto
dunque interpreta il mondo nel quale dimora; ogni interpretazione implica sempre una “prensione globale”
del mondo, una qualche percezione del proprio modo di “trovarsi” nel mondo. L’esistenza e la coscienza
sono segnate da un’istanza di trascendimento della situazione e della precomprensione originaria. Questa
istanza si presenta come tensione ad andare oltre quanto è dato o trovato. Ricouver vi vede una energia
“tesa a colmare una povertà che al soggetto appare intollerabile” e che, realizzandosi, sempre “produce un
effetto di senso” ovvero, dona e porta a coscienza un senso di sé e della propria realizzazione al reale. Il
termine più adeguato per intendere questa energia è “desiderio”. Se per un verso è sempre determinato, è
desiderio di qualcosa che il soggetto intende; per un altro verso, anche dopo aver trovato un
soddisfacimento, si ripropone sempre di nuovo. In questa strutturale duplicità del desiderare, si riflette una
più originaria duplicità intenzionale della coscienza: la quale sempre intende il reale nella sua
determinatezza e insieme sempre oltrepassa il finito in una dimensione che lo superi, che sia pertanto in-
finita. La coscienza per Gadamer “appartiene originariamente alla storia”, “è sempre esposta agli effetti
della storia”. La coscienza riflettente deve prendere atto che originariamente non è essa a conferire senso
alla realtà, è piuttosto costituita dal senso, che trova “ascoltando” per così dire i desideri e cercando
d’intendere quanto in essi è offerto. Tutto ciò significa che innanzitutto il soggetto sembra trovare sé stesso
più come un oggetto, definito all’interno di un orizzonte di senso si cui non è né origine né fondamento, in
breve che non ha scelto.
9.2.1 Pestalozzi
Pestalozzi seppe coniugare teoria e prassi al fine di realizzare un’educazione popolare. Influenzato dalla
pedagogia di Rousseau egli andò poi maturando, attraverso esperimenti educativi, l’idea di un’educazione
positiva, popolare, rivendicando l’importanza dell’istruzione, dell’origine esperienziale di ogni
insegnamento che deve affidarsi a dati osservativi psicologici e sociologici. La sua riflessione, pur mancando
di organicità fa della pedagogia un sapere sull’educazione intesa come formazione umana insieme
spirituale e socio-politica: poiché l’uomo è dato dall’unità di “cuore (attività etico-religiosa), mente (attività
teoretica), e mano (attività tecnico-pratica)” la sua formazione deve essere integrale. E poiché il fine
dell’educazione era quello di “abilitare l’uomo all’uso integrale di tutte le sue facoltà, la pedagogia in
Pestalozzi assumeva i tratti della scienza contemporanea nel tentativo di superare la sua tradizionale
derivazione dalla filosofia, privilegiando il ricorso all’esperienza, anche se la sua proposta era ancora legata
ad istanze filosofiche illuministiche e romantiche.
9.2.2 Herbart
Una tappa decisiva dell’ottocento sono le riflessioni di Herbart che elaborò una filosofia detta Realismo con
la quale prendeva le distanze dall’Idealismo. La necessità che la pedagogia si costituisse come scienza
caratterizzata da sistematicità, distinguendola da un’educazione intesa come arte. Infatti, in la Pedagogia
generale derivata dal fine dell’educazione, egli sosteneva che la pedagogia pur essendo una scienza
filosofica, aveva oggetto e fine diversi dalla filosofia, ovvero il “governo dei fanciulli”. Essa era una scienza
pratica applicata: una scienza filosofica che implicava il riferimento all’esperienza, elaborata grazie al
rapporto con la psicologia e con l’etica; la psicologia aveva il compito di studiare i mezzi per conoscere le
facoltà dell’intelletto e per comprendere il soggetto dell’educazione, l’etica aveva il compito di indicare il
fine morale della formazione. Herbart per psicologia intendeva una scienza dall’anima umana, cioè di un
ente metafisico (un reale) la cui vita è costituita da una serie di rappresentazioni, caratterizzate da momenti
di stasi e movimento, che nascono grazie all’incontro con altri reali. La fondazione della psicologia
herbartiana conteneva ricadute pedagogiche: poiché la cultura di associazione tra la massa appercipiente
(l’io) e le masse appercepite, è necessaria un’istruzione educativa basata sull’interesse> chiamata da
Herbart attenzione appercettiva che renda possibile la fusione tra le conoscenze già acquisite e le nuove
rappresentazioni. L’educazione non poteva quindi realizzarsi senza l’istruzione. L’interesse era considerato
da Herbart un fenomeno psichico che aveva una “sua capacità formativa” e che, presentandosi alla
“coscienza come attesa e aspettativa di qualcosa toccava all’educatore scorgere e orientare”. Vengono
indicati due gruppi di interesse:
1-il primo riguarda la conoscenza e si riferiva: all’attività teoretica sulla natura> interessi empirici, e alla
valutazione morale ed estetica>interessi estetici.
2- il secondo gruppo al rapporto con ogni singolo individuo>interessi simpatetici, con la
collettività>interessi sociali, e con Dio>interessi religiosi.
La crescita culturale dell’educando era basata su quattro concetti formali:
-la chiarezza> che riguardava un nuovo contenuto che il docente doveva presentare nei dettagli,
soffermandosi nell’ oggetto e negli obiettivi;
l’associazione>come sintesi di diversi elementi in una superiore unità;
-il sistema> che favoriva la fusione tra vecchie e nuove acquisizioni;
-il metodo> il cui compito di applicare le conoscenze e orientare la pratica in modo coerente era affidato
all’educatore.
Il fenomeno educativo aveva come suo centro l’incontro tra l’educatore e l’educando, ed aveva come sue
finalità la formazione totale del soggetto: un processo complesso che basava il rapporto tra educatore ed
educando sul governo (cioè sulla disciplina non ancora educazione) sull’insegnamento (l’istruzione che
avveniva grazie all’esperienza e il conseguimento della virtù) e sulla coltura morale (il compito di coltivare e
consolidare la virtù dell’educando).
La pedagogia Herbatiana concepiva la famiglia come il primo ambiente educativo che garantiva la crescita
indivuale del bambino; la scuola, pur essendo un ambiente educativo necessario perché assicurava a tutti
un’istruzione, non poteva comunque sostituirsi alla famiglia. La pedagogia di Herbart restò nell’ombra nel
corso del Novecento a causa dell’affermarsi dell’attivismo. Nonostante l’impianto fosse ancora metafisico,
le idee di Herbart costituirono una rottura con la tradizione: i motivi più innovativi della sua proposta
pedagogica furono, la necessità che l’aspetto pratico dell’educazione fosse sostenuto da quello teorico,
l’insistenza sulla priorità del rapporto tra l’educatore e l’educando, il ruolo formativo della famiglia e quello
educativo della scuola, il valore della persona dell’educando, l’attenzione ai suoi bisogni… una pedagogia
che sembrerebbe vicina a concezioni contemporanee.
10.1 Ragione teoretica e ragione pratica nella pedagogia del Primo Novecento
Il primo Novecento vide contrapporsi idealmente due visioni che affermavano l’una, con Giovanni Gentile in
Italia, il primato della ragione filosofica, l’altra con l’americano Dewey il primato della ragione pratica.
10.1.1 Gentile
Con Gentile si impose la cultura dell’Idealismo che si opponeva in modo radicale al tentativo del Positivismo
di costruire una pedagogia come scienza empirica. Veniva invece riaffermata l’hegeliana centralità del
Soggetto che interpretava l’educazione come un processo di auto-formazione attraverso cui gli individui
esprimevano una libertà come processo necessario di una superiore unificazione spirituale. Per
“l’attualismo” elaborato da Gentile, la pedagogia non era un sapere autonomo ma coincideva con la
filosofia: essa era “scienza della formazione dello spirito”. È questa la tesi che egli elaborava nel “Sommario
di pedagogia come scienza filosofica” dove, affermando la risoluzione della pedagogia nella filosofia dello
Spirito, faceva dell’educazione un divenire dello Spirito che in questo modo, realizzava la propria
autonomia. L’ipotesi epistemologica avanzata da Gentile ricevette consensi ma fu criticata dagli esponenti
dello spiritualismo per avere vanificato la pedagogia “in un’astratta generica affermazione di un certo
concetto filosofico dell’educazione con lo smarrimento d’ogni concreto contenuto”. Il primato della ragione
teoretica non solo liquidava la questione della possibilità di una pedagogia come scienza autonoma, ma
anche ne ignorava l’istanza pratica ed empirica che invece stava prendendo campo in molti altri paesi. Fu
infatti tra la fine dell’800 e il primo 900 che in Europa e in America si affermarono il movimento delle scuole
nuove e l’attivismo pedagogico che avevano come comune obbiettivo quello di operare una rottura col
modello educativo autoritario e adultistico del passato, rivalutando la dimensione dell’esperienza educativa
concreta.
10.1.2 Dewey
Dewey elaborò la propria riflessione pedagogica che è preferibile definire la sua filosofia dello
Strumentalismo logico o Sperimentalismo. Quest’ultima è caratterizzata dall’interazione tra teoria e pratica
“la pratica è molto più vasta della teoria” essa è il banco di prova della teoria; sono le sperienze educative
concrete che sollecitano continue riflessioni teoriche e non viceversa. Di conseguenza egli considerava la
pedagogia una scienza insieme pratica e teorica in cui centrale era l’esperienza che è l’unica fonte di
conoscenza in Dewey. Quindi se per la tradizione l’esperienza era un conoscere, per Dewey era piuttosto un
fare che nasce dal rapporto tra l’uomo e la natura: l’uomo risponde a tutto quello che proviene dalla natura
perché la vuole dominare e trasformare. L’intervento dell’educatore è importante perché trasmettendo
cultura, aveva il compito di orientare l’educando verso esperienze formative che fossero occasione di
crescita. Venivano così indicati come criteri di scientificità la continuità dell’esperienza e l’interazione: il
primo fondava il processo di crescita del soggetto sul rapporto tra l’esperienza scolastica e l’esperienza
dell’educando; il secondo riguardava il rapporto tra la scuola e la società. Il tema che accomuna tutte le
opere pedagogiche di Dewey era l’idea di democrazia in risposta all’affermarsi dei totalitarismi europei: “la
democrazia è qualcosa di più di una forma di governo è un tipo di vita associata, di esperienza
continuamente comunicata”. L’esigenza di individuare un metodo scientifico a fondamento della pedagogia
orientò tutta la riflessione pedagogica deweyana, contribuendo in modo decisivo al dibattito intorno
all’epistemologia pedagogica del Novecento. Fin dal 1929 Dewey si impegno affinché la pedagogia si
costituisse come scienza autonoma dotata di un proprio statuto epistemico e legittimata dal riferimento ad
alcune fonti umane che si occupavano dell’uomo (come la pedagogia). Tali fonti andavano ricercate tra le
scienze umane, quali filosofia dell’educazione la psicologia e la sociologia. La psicologia forniva l’analisi delle
condizioni dell’apprendimento, mentre la sociologia interessava dei rapporti sociali. Sembrerebbe che alla
tradizionale dipendenza della pedagogia dalla filosofia Dewey sostituisse una nuova dipendenza,
esponendo la scienza dell’educazione al rischio di un riduzionismo scientista, come alcuni critici hanno
osservato. In realtà egli chiariva che era l’esperienza concreta svolta dall’educatore a costituire la fonte
primaria di ogni indagine perché, aveva il compito di collaudare o smentire le indicazioni offerte dalle
scienze umane. In questo modo Dewey privilegiava l’uso di una ragione pratica e gettava le basi affinché la
pedagogia, configurandosi come ricerca pedagogica che si basava sulla sperimentazione si costituisse come
sapere scientifico autonomo.
11.3 Le tecniche
All’interno della ricerca empirica si essa sia quantitativa, o qualitativa ritroviamo delle tecniche di raccolta
dei dati:
- “l’osservazione partecipante e non partecipante” si basa su un’attenta osservazione che il ricercatore
effettua del comportamento di uno o più soggetti. L’osservazione partecipante si riferisce al caso in cui il
ricercatore è inserito all’interno del gruppo oggetto di studio, mentre quella non partecipante si realizza
quando il ricercatore è esterno al gruppo e lo osserva. L’osservazione può essere riportata secondo diverse
modalità quali diari e resoconti narrativi (osservazione non sistematica) oppure check list di osservazione
che prevedono la registrazione (osservazione sistematica).
- “le interviste” consistono nella richiesta ai partecipanti della ricerca di rispondere a determinate
domande, l’intervista è strutturata quando il ricercatore segue fedelmente una scaletta di domande
prevalentemente chiuse, semi-strutturata quando il ricercatore nasandosi su alcuni nuclei tematici pone sia
domande aperte che chiuse, non strutturata quando l’intervistatore non stabilisce le domande da porre.
- “i questionari” sono costituiti da un insieme di domande per una valutazione, le domande possono essere
sia aperte che chiuse, il soggetto deve compilare il questionario senza avere contatto con l’intervistatore. Il
vantaggio dei questionari è che possono essere somministrati contemporaneamente ad un elevato numero
di soggetti.
- “i diari” sono resoconti personali, documenti scritti che raccontano non solo ciò che accade ma anche il
vissuto di chi scrive, contengono riflessioni, pensieri e interpretazioni.
- “le storie di vita” il ricercatore può registrare, il racconto autobiografico può riguardare anche uno
specifico aspetto della vita di una persona.
- “i gruppi di discussione” sono caratterizzati da una discussione e un confronto riguardo all’atteggiamento
di un gruppo di persone nei confronti di un tema prefissato. Il cuore del processo è proprio la dinamica
dialogica e l’interazione tra i membri del gruppo.
Per concludere possiamo anticipare che un rigido tecnicismo (quale quello di una procedura di laboratorio),
non risponde alle esigenze del sapere pedagogico. Il ricercatore di pedagogia guarda al fenomeno meno
educativo nel contesto reale in cui esso si manifesta e interviene con la sua stessa ricerca nel contesto
educativo in cui si trova ad operare, senza ricreare in modo fittizio il fenomeno oggetto di studio.
LEZIONE 14> POSSIBILITÀ DI RICERCA EMPIRICA NELLA PEDAGOGIA FONDAMENTALE
La pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico aspira ad essere una scienza che è
definita eidetica> tesa alla conoscenza dell’essenza del fenomeno. Stiamo evidenziando due caratteri della
pedagogia fondamentale: il suo essere un modello di ricerca teorica e il suo mantenere sempre un carattere
eminentemente pratico. Infatti, la pedagogia fondamentale parte dall’esperienza concretamente vissuta e a
tale esperienza intende tornare e provare a trasformare. Proprio poiché si tratta di una scienza interessata
all’essenza dei fenomeni educativi, sebbene la sua base sia empirica, non lo è il suo criterio ultimo. La
pedagogia fondamentale è innanzitutto un approccio di ricerca teorica. In questa lezione si apre la
possibilità di fare ricerca sull’esperienza senza che il criterio di studio sia esclusivamente (come è per la
pedagogia sperimentale) quello empiriologico, ovvero quello della verifica: questo è particolarmente
importante per la pedagogia fondamentale. Questa lezione mira ad approfondire il diverso rilievo che, nella
pedagogia fondamentale, la ricerca sul campo può assumere.
14.3 La fecondità dell’innesto tra fenomenologia ed ermeneutica nel campo della ricerca
La pedagogia contemporanea si nutre di un dialogo e di confronto autentico con le altre scienze. La
pedagogia fondamentale in particolare vive di una particolare fiducia nei confronti dell’atteggiamento
scientifico, di cui riconosce il valore umano e umanizzante. Abbiamo avuto modo di osservare che
l’approccio fenomenologico-ermeneutico si colloca nell’ambito dei paradigmi post-positivistici o ecologici
che hanno fortemente messo in questione l’idea moderna di oggettività quantitativa. Nello spazio
epistemico aperto dalla fenomenologia, quando si parla di “oggettività”, si indica piuttosto il riferimento
intenzionale alla realtà e la costruzione di una conoscenza che non diventa mai possesso rigido di verità.
Per il fenomenologo, la verità, si coglie nei suoi profili, a patto che lo sguardo sia attento, “allenato” e a tal
fine formato. Se è vero che ci sono cose evidenti e cose che non lo sono affatto, l’evidenza più a portata di
mano è l’evidenza empirica. C’è poi un’evidenza più profonda, quella dell’essenza, che chiede di essere
“portata ad evidenza” e che non tutti riescono a vedere>è evidente che non tutto è evidente a tutti. Per il
fenomenologo, conoscere è saper vedere l’essenziale, ciò si regge su una precisa concezione ontologica: la
realtà è fenomeno e niente appare invano. Per la fenomenologia, non si può ritenere che l’apparire illuda.
Infatti, il fenomeno husserliano è la realtà stessa che si dona, manifestando proprio lì, le proprietà
essenziali della cosa, se lo sguardo è formato all’attenzione e sa andare dalla superficie alla profondità.
Quello che caratterizza la concezione fenomenologico-ermeneutica della persona umana è il suo essere-
nel-mondo e la sua capacità di intenzionare la realtà. Quindi occorre cogliere il valore della correlazione tra
le “manifestatività” della realtà e “la capacità di significazione”. Per ricapitolare
a) Il valore di una ricerca empirica concepita e praticata all’interno del percorso della pedagogia
fondamentale: una ricerca sul campo condotta con atteggiamento fenomenologico-ermeneutico
segna significative differenze tanto rispetto alla semplice rassegna di alcuni tratti di un aspetto,
quanto rispetto alle indagini delle altre scienze umane applicate allo studio dei fenomeni educativi.
Conducendo una ricerca sul campo di pedagogia fondamentale è evidente che miri ad affinare lo
sguardo con gradualità ed ordine a favore dell’emergere dell’essenziale/essenza del fenomeno.
b) Il superamento di ogni antinomia tra spiegazione e comprensione, tra scienze della natura e scienze
dello spirito: addentrandosi nello studio dell’educazione, diventa più evidente che la sola
spiegazione dell’esperienza non basta e senza di essa la comprensione è astratta e astorica, quindi
non pedagogica.
c) Il principio di fedeltà al fenomeno non è compreso se disgiunto al principio di trascendenza: il
fenomeno è ciò che si manifesta con evidenza, ma questa evidenza non è la limitata evidenza
empirica; piuttosto “ogni realtà si presenta alla coscienza come trascendenza”. Dalla profonda
unione del principio di trascendenza al principio di fedeltà discende la consapevolezza che “non
tutto si mostra, non tutto si mostra subito e ogni realtà ha dei profili che non si mostrano mai”.