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PREFAZIONE

Il popolo guaranì e l'antropologia

INTRODUZIONE
un concetto multidimensionale
scuole e culture
concetti locali di cultura
intenti, metodi e teorie della ricerca
dalla prospettiva antropologica del linguaggio
contenuti e forme del testo
area e tempi della ricerca

CAPITOLO 1
Il contesto della ricerca
il pueblo guaranì: definizioni e autodefinizioni
Organizzazione territoriale e organizzazione politica
Nande Reko, stratificazioni sociali e karai: costruzioni della cultura e dell'identità guaranì
il pueblo guaranì e l'educazione coloniale: breve storia della scuola boliviana
il contesto attuale della Reforma Educativa e della Educacion Intercultural Bilingue
la scuola Guaranì
Mboarakuaguasu: il Consejo Educativo del Pueblo Guaranì

CAPITOLO 3
Palmarito: dalla scuola materna alla scuola di computer.
Mito e matematica come strumenti politici
una comunità in costruzione permanente
la comunità e le scuole
rapporti tra insegnanti e comunitari: stratificazioni socioeconomiche
Acqua ed economia: interazioni e mito-logiche politiche
pedagogie e culture: Freinet a Palmarito
interazioni in classe: contenuti e strategie linguistiche
linguaggi della storia, linguaggi dell'interazione
'coscientizzazione' matematica
lettere 'culturali' della letteratura

CAPITOLO 5
(Dal pag. 282-295)
attacchi pragmatici e attacchi armati al paradigma sciamanico
un paradigma linguistico- costruttivo: sciamani come costruttori di mondi
sciamani nella scuola: il sistema-mondo nel mondo-locale

RIFLESSIONI
tra agentività e strutture: tras-formazioni della cultura e della scuola
lo sviluppo separato dei due paradigmi
paradigmi poteri: strumenti politico-culturali
postmodernità e 'potere' del paradigma sciamanico
tra 'modo di essere' e 'cultura'
interculture, 'sviluppismi' e post-sviluppo
un'intersoggettività culturale, attraverso l'exotopatia.
Trasformazioni guaranì, tra paradigma sciamanico e scuola; Silvia Lelli

PREFAZIONE
Nella prefazione del libro “Trasformazioni Guaranì, tra paradigma sciamanico e scuola” Silvia
Lelli ci spiega come il suo percorso parta da una ricerca preliminare sulla costruzione culturale in
rapporto alle istituzioni educative scolastiche nella società guaranì boliviana, condotta a seguito
della richiesta, nel 2002, da parte dell’associazione boliviana Teko Guaranì verso la cattedra di
Antropologia Culturale della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze, di
formare antropologi guaranì. Tale richiesta appartiene al Progetto Educativo che il popolo guaranì,
grazie alle sue politiche di autodeterminazione, inserisce nel proprio Programma di Sviluppo e che
prevede azioni mirate al rafforzamento culturale e identitario, come l’estensione dell’educazione
scolastica al maggior numero possibile di comunità rurali guaranì, campagne di alfabetizzazione, la
formazione di insegnanti indigeni e la costituzione di un centro di ricerca etnoantropologica.
In questo processo è focale il sapere etnoantropologico, che ha portato alla luce riflessioni sia
culturali sia politiche, ponendo in primo piano i rapporti tra conoscenza e potere: un primo aspetto
che molti sottolineano è il fatto che gli stessi guaranì, le loro famiglie e i loro antenati non fossero
nemmeno al corrente di questa produzione culturale, un altro aspetto riguarda invece la necessità di
produrre un'etnografia soggettiva e priva di errori e incongruenze. Difatti, il rapporto tra i guaranì e
l'antropologia è stato quasi esclusivamente un rapporto di “sudditanza”, dove essi venivano
considerati meri soggetti di ricerca e dove era del tutto assente una prospettiva autocritica,
autoriflessiva e postmoderna. Melià, antropologo che si è occupato a lungo dei guaranì, afferma che
quello che sappiamo oggi su questo popolo dipende dalla relazione che gli europei hanno avuto con
esso e distingue gli studi etnologici sui Guaranì in cinque categorie: un'“etnologia di conquista”, che
mostra il loro iniziale inserimento nel progetto coloniale e ciò che da questo subirono, un'“etnologia
missionaria”, secondo la quale si tratta soltanto di una popolazione da convertire, un' “etnologia dei
viaggiatori”, che vede il popolo come un oggetto da conservare e vi costruisce attorno un
immaginario esotico, un' “etnologia antropologica”, che grazie ad esperienze avvenute sul campo
pone le basi per un vero cambiamento di prospettiva nei confronti della cultura guaranì, ed infine
un'“etnologia etnostorica”, di cui Melià è uno dei maggiori esponenti.
Secondo Silvia Lelli, la visione dell'antropologo non prescinde sicuramente dalla storia coloniale
del popolo, che vede schierarsi da una parte gli indigeni e dall'altra i non-indigeni, i quali hanno
prodotto “la nostra conoscenza di loro”, che, come sottolinea l'autrice, non è bastevole, in quanto
esclude tutta la parte di conoscenza elaborata dai gruppi studiati sugli “occidentali”, dunque non è
reciproca. A suo avviso, la richiesta dell'Associazione Teko Guaranì rivela una consapevole o
inconsapevole visione occidentalista dell'antropologia, un mancato riconoscimento di
un'antropologia guaranì e l'accettazione dell'idea che la conoscenza indigena debba assumere
sembianze occidentali. In tal senso, Silvia Lelli ci fa notare che il rischio è proprio quello di
riprodurre, attraverso la formazione stessa, un rapporto di potere/sudditanza, dove il potere è
detenuto dal sapere occidentale. Spinta dall'idea secondo la quale ogni popolazione deve trovare il
suo modo di fornire e intendere qualsiasi tipo di conoscenza che ben si inserisca e rispetti
l’immaginario e la cultura della popolazione stessa, la ricercatrice vuole che il suo progetto sia
intercultuarle e che medi le modalità e le teorizzazioni occidentali con l’orizzonte culturale guaranì.
La sua sfida diviene dunque quella di trovare modalità di approccio capaci di creare una effettiva
interazione interculturale tra forme di conoscenza antropologica occidentale e forme di costruzione
della conoscenza tipiche guaranì, che arricchiscano l’antropologia occidentale “dis-
occidentalizzandola” e che non, viceversa, occidentalizzino ed appiattiscano le visioni
dell’antropologia guaranì. È da questa prospettiva che nasce nell'autrice la necessità di svolgere,
prima di intraprendere il suo percorso, una ricerca sul campo sull’educazione scolastica locale,
volontà mossa da almeno due ragioni principali: il fatto che la richiesta di formazione in
antropologia si situa all'intersezione tra educazione e cultura e il fatto che oggi la relazione tra
educazione scolastica e costruzione socioculturale guaranì è molto stretta. Dopo un anno di studio e
di ricerca, l'autrice sostiene l'importanza di strumenti di auto-monitoraggio delle relazioni, sia nelle
vesti di formatori che di ricercatori, quali registrazioni ed analisi del linguaggio, utili a monitorare i
ruoli di potere che si assumono durante le interazioni ed a migliorare l'interazione stessa la volta
successiva.
INTRODUZIONE

Un contesto multidimensionale
In tutta l'America Latina i processi culturali, sociali ed educativi sono collegati alla storia della
colonizzazione; ciò rende imprescindibile approcciarsi ad essi tenendo in considerazione che i
gruppi di indigeni sono inseriti in una società dominante i cui i modelli sono di stile occidentale,
coloniali o post-coloniali. La scuola, costrutto della comunità socio-scientifica occidentale, è un
modello di costruzione dell’educazione e della conoscenza, della cultura e di relazioni sociali; per
questo si può definire anche “prodotto e produttore di cultura”. Secondo Silvia Lelli, per parlare di
cultura utile è il concetto di paradigma, definito da Thomas Khun come l'intera costellazione di
credenze, valori, tecniche, e così via, condivise dai membri di una data comunità, mentre il
sottoparadigma indica adesioni particolari a sottogruppi (modelli, soluzioni, esempi ecc.) del
paradigma. Da queste due definizioni emergono gli importanti concetti di soggettività ed
intersoggettività durante il processo di costruzione di conoscenza (in quanto i valori di cui parla la
definizione possono essere condivisi da persone che differiscono nella loro applicazione) e quello di
conoscenza tacitamente incorporata, ossia di una conoscenza che non si costruisce verbalmente,
bensì attraverso esempi, esperienze e vissuti concreti. Inoltre, laddove ammette il problema
dell'interazione tra comunità che costruiscono conoscenza secondo paradigmi differenti, il
paradigma è utile anche nella trattazione di questioni di commensurabilità/incommensurabilità
trans-culturale. Come abbiamo detto, la scuola è un prodotto culturale occidentale, è per cui vissuto
nella società guaranì da persone che, al di fuori di essa, vivono processi di costruzione della
conoscenza, dell’educazione e di socializzazione “culturalmente” diversi. Per addentrarsi in tali
processi, la Lelli utlizza due categorie analitiche, il paradigma sciamanico e il paradigma
occidentale: il primo indica l'insieme dei modi della costruzione socioculturale guaranì rurale,
mentre il secondo l'insieme dei modi occidentali di creare il mondo. La contrapposizione tra i due
paradigmi trova particolare configurazione sul territorio guaranì, tant'è vero che esistono due diversi
termini per indicare da un lato ciò che loro chiamano “il nostro modo di essere” e dall'altro tutto ciò
che è “non-indigeno”; nella prima categoria rientrano anche due termini che designano due diverse
forme di sapere che ancora una volta ben esemplificano la contrapposizione: il primo si può tradurre
con “il sapere del paradigma sciamanico”, mentre il secondo con “il sapere del paradigma
scolastico”. Esiste addirittura un mito, nella tradizione guaranì, per differenziare i due paradigmi, in
cui si narra che il creatore del mondo abbia chiesto agli esseri umani di scegliere tra uno strumento
musicale simbolico nella cultura guaranì ed un foglio di carta e secondo cui gli indigeni avrebbero
scelto il primo, preferendo la parola sonora, mentre i non-indigeni il secondo, optando per la parola
scritta.

Scuole e culture
I due paradigmi differiscono per le forme di interazione in cui i contesti socio-culturali sono
costruiti: se, difatti, i contesti socio-culturali relativi al paradigma sciamanico, anche chiamato
“paradigma del dono”, si costruiscono su forme di interazione cooperativa basate su relazioni
socioeconomiche di reciprocità, quelli relativi al paradigma occidentale si fondano invece su forme
di interazione utilitaristiche, basate su relazioni socioeconomiche capitalistiche caratterizzate e
riprodotte dalla cosiddetta “visione scolastica”, la quale produce relazioni decontestualizzate,
individualistiche e competitive. La scuola è un prodotto occidentale esportato, ma al contrario di
quanto affermano le generalizzazioni che tendono a considerarla un fenomeno singolo, essa è anche
una zona di frontiera multidimensionale che in ogni luogo si configura con specifiche connotazioni
sociostoriche; di ciò ne sono esempi le scuole indigene. Difatti l'“opzione di default” (“modello di
funzionamento standard”), interferendo con le culture locali, produce un doppio “flusso culturale”:
da un lato “occidentlizza” le socioculture ospitanti, ma dall'altro viene “indigenizzato” da queste.
Da questo emerge che, a dispetto di certe visioni occidentali funzionali al mantenimento di
un’immagine di potere assoluto, le culture indigene esistono, non sono state del tutto sterminate e
hanno il loro potenziale creativo-inventivo che influenza i modelli culturali occidentali. Dunque,
come accade nella metafora del “flusso culturale”, secondo la quale guardando un fiume da lontano
esso sembra un'uniforme striscia blu, ma da vicino se ne vedono le varie sfumature, anche nel caso
dell'interazione tra il modello-scuola occidentale e quello indigeno, da lontano, può sembrare che
solo il primo, ben pubblicizzato e pervasivo, influenzi il secondo, ma da vicino ci accorgiamo di
quanto i “flussi” siano simultanei.

Concetti locali di cultura

Tuttavia, secondo l'autrice, le concettualizzazioni coloniali ed evoluzioniste, come la distinzione tra


“popoli arretrati” e “popoli modernizzati” (la seconda condizione più auspicabile, relativa
all'Occidente e raggiungibile attraverso la scolarizzazione), influenzano, tramite le istituzioni
educative e politiche locali, le società guaranì che più sono in contatto con queste ultime. È in
questo modo che esse cadono nella contraddizione per cui vogliono recuperare e salvare qualcosa
dal valore fondamentale ma che riconoscono appartenere ad una condizione gerarchicamente
“inferiore” rispetto a quella dalla quale il recupero verrebbe effettuato. Secondo una visione non
evoluzionista, possiamo invece distinguere due dimensioni della cultura guaranì: la “cultura agita”,
quella appresa nella vita quotidiana, quindi dal vissuto reale, dalla maggior parte della popolazione
nelle comunità rurali, e la “cultura panificata”, gestita da intellettuali, associazioni ed istituzioni
politiche guaranì e non-guaranì. Entrambe le dimensione fanno parte del “nostro modo di essere”,
ma sicuramente con connotazioni differenti; difatti, se la prima, esplicandosi in norme e strategie
non studiate a tavolino dopo la distruzione coloniale ma che hanno resistito ad essa, è quella di cui
tradizionalmente si occupa l'antropologia e si può riferire al “paradigma sciamanico”, la seconda,
occupandosi di “rafforzare” (l'autrice utilizza il termine “costruire”) la cultura guaranì,
promuovendo però politiche per farla passare ad una condizione “modernizzata”, rientra senza
dubbio nel “paradigma occidentale”.

Intenti, metodi e teorie della ricerca


Nel delineare i rapporti tra modello scolastico-occidentale e costruzione socioculturale guaranì,
Silvia Lelli trova difficoltà nell'avvicinarsi alla dimensione del “paradigma sciamanico”; questo
perché, dopo circa cinque secoli di colonizzazione in cui è stato fatto di tutto per delegittimarlo,
esso vive adesso un vero e proprio stato di “apartheid” rispetto al pubblicizzato “paradigma
scolastico-occidentale”. Per questo, la ricercatrice ha privilegiato una strada più accessibile,
effettuando un'etnografia sulla scuola, che, se da un lato non fornisce conoscenze dettagliate sul
“paradigma sciamanico”, dall'altro è stato apprezzato da molti soggetti, tra cui insegnati, i quali
sostengono che rivelare “los secretos” del “paradigma sciamanico” smuinuirebbe la loro
importanza, producendo l'effetto opposto al rafforzamento della cultura guaranì. Ammettendo che la
teoria, utilizzando un linguaggio che tende a rissumere piuttosto che a scomporre, non è all'altezza
di analizzare la complessità di contesti come questo, la Lelli ha costruito un composito sostegno
teorico per analizzare i dati raccolti sul campo, che si articola in diversi ambiti etnoantropocentrici:
l'entonografia della scuola e l'antropologia dell'educazione (le quali relazionano la scuola alla
società), l'antropologia del linguaggio (che pone l'attenzione sull'effetto performativo del
linguaggio), l'antropologia socioculturale e cognitiva (che considera la dinamicità del concetto di
cultura), l'etnoantropologia relativa al gruppo guaranì e ad altri gruppi indigeni (che mette a fuoco il
contesto socioculturale indigeno) e un'antropologia attenta alla situazione coloniale, post-coloniale e
alle tematiche di sviluppo. Questa prospettiva teorica, che possiamo chiamare “sociolinguistica”,
crea una rete tra i processi socioculturali ed educativi e le modalità linguistiche ad essi correlati,
affermando la capacità del linguaggio, dell'interazione, di produrre la cultura. Lo spostastamento da
una prospettiva di “studi processo-prodotto” ad una “prospettiva sociolinguista” permette di
liberarsi dalla rigida distinzione tra “oggetti materiali” ed “oggetti simbolici” e da definizioni
concettuali poco flessibili, come quella di “cultura”. Tuttavia, Silvia Lelli si associa a Hennerz nel
mantenere il termine “cultura”, ma piuttosto decostruendolo sulla base degli eventi linguistici,
indentificando al suo interno le “microculture”, i “flussi non liberi”, gli “habitat” di significato, i
contesti e i paradigmi che lo compongono. In questo senso, capiamo bene come il concetto di
“flusso culturale” assuma particolare importanza: sul versante della teoria questo permette di
contestualizzare visioni generalizzate, mentre sul versante della pratica consente di analizzare i
micro-flussi o agentività che si realizzano nelle interazioni tra le persone, che sono dunque fatti di
linguaggio e rappresentano i modi con cui i soggetti influenzano le strutture sociali e politiche e
veciversa.

Dalla prospettiva antropologica del linguaggio


Silvia Lelli ci spiega come la prospettiva dell'antropologia del linguaggio ben si addica ad una
ricerca nella scuola, dove molto di ciò che si fa si fa con le parole. Infatti, adottare tale prospettiva
significa ritenere che una buona parte di risorsa materiale è negoziata dal linguaggio. Quest'ultimo è
il mezzo che veicola le connessioni tra pensiero (contesto ideologico-cognitivo) e azione (contesto
dell'attività fattuale) e consente di tracciare collegamenti tra contesti (sia micro che macro). Il
contesto è invece il luogo in cui avvengono le interazioni, che creano il contesto stesso, ed indica
sia il luogo fisico sia quello simbolico dell'elaborazione concettuale e di quella pratica, le quali sono
simultanee e dunque non separabili. L'analisi del linguaggio usato nelle interazioni è fondamentale
per capire i modi in cui le agentività (capacità umana costruttiva di agire attraverso gli scambi
linguistici) costruiscono i contesti. Silvia Lelli sottolinea anche la relazione tra linguaggio e identità,
riportando lo studio di Valentina Pagliai, che evidenzia come la costruzione di una conoscenza
condivisa attraverso il linguaggio sia allo stesso tempo la costruzione di un'identità etnica comune.
L'agentività linguistica incide su ciò che è concepito come strutturale, concorre dunque alla
costruzione socioculturale. Per questo la studiosa, per affrontare le peculiarità della scuola, decide
di concentrare la sua attenzione sulle micro interazioni linguistiche, seguendo un approccio
antropologico-linguistico, coniugando metodologie classiche della ricerca antropologica con
strumenti di antropologia del linguaggio. Non ha potuto utilizzare però metodologie specifiche di
analisi conversazionale, richiedendo queste la trascrizione rigorosa di ogni scambio, avendo accesso
solo alla comprensione delle interazioni che avvenivano in spagnolo e non a quelle in lingua
guaranì, avvenute perlopiù in costesti familiari; ha dunque selezionato gli scambi significativi che
ha annotato durante la sua osservazione partecipante. Ciò le ha comunque consentito
un'osservazione accurata delle intenzionalità soggettive e socioculturali nell'atto delle loro
negoziazioni, avvicinandosi alla comprensione delle visioni altrui del mondo, ad esempio
analizzando le interazioni tra allievi e insegnanti. Difatti, l'antropologia del linguaggio non si
occupa tanto del linguaggio in sé quanto di chi lo parla, che costruisce con esso le proprie forme di
vita e le azioni collettive; in questo senso, il linguaggio in questa ricerca rappresenta un elemento
pragmatico che costruisce l'agentività educativa. La ricercatrice ha poi costruito il testo presentando
brani di conversazioni alle quali ha partecipato come interlocutrice o ascoltatrice e relazionandole
ad altre osservazioni e opinioni manifestastate oralmente sul campo o nella letteratura. Ha osservato
con cura l'uso di modi e tempi verbali e utilizzato concetti linguistici utili, come quello di “comunità
di parlanti”, un insieme di persone che condividono una o più lingue ma solo in parte i “significati
culturali” che danno ai concetti che usano (ad esempio, possono dare significati diversi alla parola
“benessere” o “poveri”); nei contesti guaranì accade spesso che persone che condividono una lingua
non condividano la stessa “cultura”. La “comunità di parlanti” crea il contesto nel quale essa esiste,
i suoi paradigmi, la sua cultura e rispecchia la confluenza tra micro e macro-contesti, in quanto può
fare riferimento sia a piccoli gruppi di persone sia a vaste regioni.
Contenuti e forma del testo
Nei Guaranì l’educazione scolastica e quella familiare-comunitaria convivono in maniera non
uniforme (talvolta in accordo, talvolta in disaccordo) da circa cinque secoli, a causa del fatto che il
loro status viene sociopoliticamente negoziato attraverso i paradigmi sciamanico e scolastico-
occidentale, i quali entrano in relazione fra loro in maniera diversa da contesto a contesto. L'intento
dell'autrice è quello di rendere, attraverso studi di situazioni specifiche, la complessità dei contesti
socioculturali guaranì, riportando brani del diario di campo in cui ella assume posizioni differenti,
con vari gradi di parecipazione, a cui aggiunge delle precisazioni. Nel primo capitolo Silvia Lelli
espone la situazione politico-educativa del macro-contesto boliviano in riferimento alla società
indigena guaranì nel quadro nazionale e trasnazionale della Riforma Educativa dell’Educazione
Interculturale Bilingue, mostrando la tensione a livello storico tra le retoriche del dirittto alla
diversità e le politiche nazional-colonialiste di uniformazione. Nel terzo capitolo, invece, grazie
all'osservazione partecipante, la ricercatrice si concentra sulla relazione tra allievi e insegnanti e, in
minor misura, tra insegnanti e abitanti della comunità. In particolare, descrive la situazione atipica
della comunità di Palmarito, dove sono presenti tutti i livelli di scuola, dalla materna fino alla
“scuola di computer”, il liceo. In questa comunità convivono da un lato processi appartenenti al
paradigma scolastico-occidentale, quello di globalizzazione e di appropriazione dei linguaggi
matematici e informatici non-guranì, e dall'altro processi appartenenti al paradigma sciamanico,
come la presenza di linguaggi mitoligici guaranì. Inoltre nelle scuole vengono usati modelli
pedagogici occidentali, quello attivista e partecipativo di Freinet e quello di coscientizzazione di
Freire, che, se da un lato portano all'affrancamento da regimi di schiavitù, dall'altro inscrivono gli
allievi in cornici “silenziosamente imposte” e in cui non si riconoscono e che, pertanto, secondo la
studiosa, non portano a risultati scolastici soddisfacenti a livello generale.
Area e tempi della ricerca
La ricerca sul campo è stata svolta in comunità dell'area centrale dell'ava guaranì, nel Chaco
boliviano, principalmente nelle Zone Kaaguasu (“bosco-vegetazione grande”) e Kaami (“bosco-
vegetazione piccola”), nelle quali sono situate le comunità studiate.
[La cittadina Camiri è il più importante centro urbano dell'area. Nel luogo dell'attuale cittadina
esisteva una comunità guaranì; dal 1800 al 1810 vi ebbe sede una missione francescana; nel 1810
divenne un forte militare al servizio della “prima indipendenza boliviana”; da allora alla fine della
Guerra del Chaco (1932-35) tra Bolivia e Paraguay vi fu nuovamente una comunità guaranì; Camiri
è il nome dato da un proprietario terriero italiano, David Vannucci, all'hacienda che insediò in
questa area. Nel 1922 un emissario dell'azienda nota come “Esso” vi installò un accampamento
petrolifero. Si assume come data di fondazione della cittadina il 12 Luglio 1935, data del decreto di
espropriazione di 300 ettari del terreno della famiglia Vannucci a favore dell'urbanizzazione
dell'accampamento. Nel 1942 la popolazione era di circa 2000 abitanti, ma ne vennero ufficialmente
dichiarati 4000 per ottenere servizi pubblici dal governo centrale. Attualmente la popolazione è di
30.000 abitanti]
Lo studio ha avuto una durata di quattro anni e il lavoro sul campo nel contesto guaranì di quattro
mesi.
CAPITOLO 1: IL CONTESTO DELLA RICERCA

Il pueblo guaranì: definizioni e autodefinizioni


La popolazione guaranì proviene dalle regioni amazzoniche e la sua diffusione sui territori attuali
risale a circa 3000 anni fa. Vive oggi tra il Brasile sud-occidentale, il Paraguay, l'Uruguay, il nord-
ovest dell’Argentina, il sud-est Bolivia. Le composizioni attuali delle popolazioni guaranì sono la
fase seguente della colonizzazione e dell'organizzazione degli Stati nazionali. La storia relativa alle
migrazioni è narrata nella mitologia guaranì sulla ricerca della “Tierra Sin Mal”. L'identità guaranì
può essere definita “un'identità meticcia”: la sua cultura è ibrida, non è cioè costituita da una
semplice sovrapposizione di sincronie distribuite in diversi luoghi geografici con denominazioni e
dialetti diversi, ma si identifica con una lingua e intorno a precise tradizioni e memorie. In Bolivia,
dove la popolazione guaranì si situa nella parte sud-orientale del paese, denominata Oriente
Boliviano, essa costituisce il quarto gruppo linguistico dal punto di vista della consistenza
numerica. Secondo l'antropologo Riester le popolazioni indigene dell'Oriente Boliviano
appartengono a 40 gruppi e 17 famiglie linguistiche. La famiglia guaranì appartiene al gruppo
linguistico amazzonico del tupì-guaranì e in Bolivia è rappresentata da quattro varietà (ava, isoceno,
tapiete e simba). Inizialmente la letteratura si riferiva alla popolazione guaranì sia con il termine
Guaranì che Chiriguanos (da chiri, migranti), ma con la fondazione delle nuove istituzioni politiche
locali si è optato per la prima denominazione. Complessivamente, l'estensione dell'area
“ufficialmente guaranì” si estende tra la zona del Chaco e le pendici orientali della Cordillera delle
Ande, dove possiamo distinguere tre fasce principali, parzialmente coincidenti con la distinzione
linguistica: una centrale, più in contatto con le istituzioni nazionali, che occupa la parte sud del
Dipartimento di Santa Cruz, dove si parla la varietà ava; quella dell'Isoso, che occupa la parte
orientale dello stesso Dipartimento estendendosi fino alla frontiera con il Paraguay, dove si parla il
guaranì isoceno; ed infine la parte che occupa il Sud del Dipartimento di Santa Cruz, il
Dipartimento di Chuquisaca e quello di Tarija, dove si parlano il tapiete e il simba. L'attuale
definizione di “area guaranì” comprende anche altri gruppi indigeni, il più consistente dei quali è
quello Weenayek. Secondo il censimento del 2001, in riferimento al Dipartimento di Santa Cruz e a
quello di Chuquisaca, dunque senza contare quello di Tarija, circa 49.000 persone parlano il
guaranì, tra cui quasi 39.000 persone lo hanno appreso come prima lingua, mentre ben 63.000 si
autodefiniscono guaranì; come emerge dai dati, la complessità di questo popolo si può intuire anche
dal fatto che circa 10.000 persone apprendono la lingua guaranì solo dopo la prima socializzazione
e che circa 14.000 persone che non la parlano si autodefiniscono guaranì. Stabilendo la quasi
impossibilità a censire i Guaranì con esatezza, dalla comparazione di più censimenti si registra un
aumento consistente della popolazione, che si oppone alla credenza secondo la quale si assiste ad
una lenta scomparsa della “razza” indigena a causa della tendenza all'alcolismo, della peste, della
siccità e della fame, che risulta dunque solo il frutto di un mito evoluzionista.

Organizzazione territoriale e organizzazione politica


I guaranì sono organizzati in circa 320 comunità rurali, dette “tenta” ("comunità, luogo della vita").
Esse si sono formate grazie alle relazioni di reciprocità e di scambio instauratesi nel tempo tra le
famiglie, divenendo talvolta, sotto tutela di capi politici che gestivano la loro posizione di potere
attraverso alleanze inter-razziali e matrimoniali con le famiglie dei latifondisti, Zone, o
“Capitanias”. Queste ultime non corrispondono alla suddivisione territoriale dello Stato boliviano
(diviso in dipartimenti, province, cantoni, municipi), ma a quella politica del popolo guaranì, che è
gestito, dunque, da autorità non sottoposte ad un governo centrale. Attraverso un processo di
negoziazione con il governo nazionale iniziato negli anni '80, il popolo guaranì sta cercando di
rivendicare le sue forme di autonomia politica e il diritto alla terra, inteso, in particolare, come
riconoscimento da parte dello Stato delle Zone Politicamente organizzate, le “Tierras Comunitarias
de Origen" (TCOs). Tuttavia, dal momento in cui è in atto il riconoscimento delle Zone (1996) al
momento in cui Silvia Lelli scrive, quasi nessuna TCO è stata riconosciuta: la trattativa è difatti
strategicamente rallentata poiché gran parte delle terre appartiene ad allevatori e agricoltori di
origine europea. L'economia guaranì si basa principalmente sull’agricoltura autonoma, quasi
esclusivamente di sussistenza, solo in rari casi ancora praticata su terreni comunitari. L'altra parte
dell’economia, che spesso prevede migrazioni temporanee, si basa invece sul lavoro all'esterno
delle comunità, svolto per haciendas o industrie, o sul lavoro nelle città. Le differenze
nell'organizzazione interna delle comunità sono dovute alle diverse vicende storiche che le
contraddisguono. Per quanto riguarda gli interessi religiosi, le differenze sono dovute alle recenti
influenze dei gruppi di confessione protestante ed evangelica e alle antiche influenze di confessione
cattolica. La diversità socioculturale dipende anche dai rapporti con i proprietari delle terre; ad
esempio, la relazione di “peonazgo” è un grave caso di inosservanza dei diritti umani da parte dei
proprietari terrieri nei confronti dei guaranì, i quali venivano sfruttati in cambio del permesso di
risiedere sulle terre delle “haciendas”: i lavoratori percepivano un compenso insufficiente ai fini
della sussistenza ed erano così costretti a ricevere prestiti “concessi” dai “padroni”, con l'obbligo di
poterli lasciare solo una volta saldato il debito, eventualità matematicamente impossibile. Ad oggi,
il 50% di queste persone è stato riscattato da questa condizione di vita, attraverso un'opera di
alfabetizzazione-educazione-coscientizzazione rivolta ai lavoratori sotto ricatto e ad una lotta legale
diretta contro i proprietari terrieri. Adesso le relazione tra questi ultimi e i guaranì si sviluppano
intorno allo stato di servitù e a difficili negoziazioni sindacali per la tutela dei lavoratori giornalieri
e stagionali. L'autorità nelle comunità è costituita dall'Assemblea Comunitaria di tutti i capi
famiglia, tra i quali è eletto un “mburuwicha” (“grande uomo”), una figura divenuta
necessariamente stabile dopo l'invasione europea. Egli non rappresenta la maggioranza, ma è il
depositario della decisione consensuale raggiunta dall'Assemblea e ha il ruolo di gestire le relazioni
politiche della comunità verso l'esterno, mentre l'autorità interna è costituita dall'Assemblea
Comunitaria. Se inizialmente gli “mburuwicha” erano affiancati dai "signori del sapere" (anziani,
saggi, consiglieri), oggi sono affiancati da 5 Consiglieri, ognuno dei quali è responsabile di un
settore per la gestione della comunità. Tra gli “mburuwicha” appartenenti alla stessa Zona, viene
nominato un “capitan grande”, che si occupa delle relazioni tra comunità della stessa Zona e tra
Zone. Tra i “capitan grande” sono eletti i rappresentanti dell'Asamblea del Pueblo Guaranì (APG), il
primo organo politico centrale del popolo guaranì. Esso costituisce una forma di organizzazione
politica moderna, frutto di un adeguamento alla forma dello Stato-nazione centralizzato coloniale al
fine della legittimazione e del riconoscimento, che fa capo a un presidente con carica elettiva,
anch'esso affiacato da 5 Consiglieri. L'APG rappresenta le comunità guaranì-ava e tapiete-simba del
Chaco Boliviano, mentre le comunità dell'area isocena sono rappresentate dalla Confederazione
Indigena dell'Oriente Boliviano (CIDOB); entrambe le organizzazioni lavorano per la definizione e
il riconoscimento delle TCOs, della proprietà delle terre e per altre rivendicazioni politiche.

Nande reko, stratificazioni sociali e karai: costruzioni della “cultura” e dell'“identità guaranì”
Cultura e identità guaranì sono concetti elaborati localmente attraverso due tipi di lavoro sociale
linguistico: uno non esplicito, che ha luogo nelle interazioni della vita quotidiana della popolazione
guaranì rurale, inscrivibile nel paradigma sciamanico, e un altro esplicito, svolto all'interno delle
istituzioni culturali, politiche ed educative guaranì, in particolare del “Consiglio Educativo del
Pueblo Guaranì”, che promuove la costruzione socioculturale al fine di potersi interfacciare con le
istituzioni dello Stato nazionale. Esplicitazioni e non esplicitazioni sono due forme di vita diverse
che compongono il “nande reko” (“nostro modo di essere”), termine generalmente tradotto con
“cultura”, che indica uno strumento di distinzione identitaria da altri gruppi, ma oggi usato più
come un neologismo dalle istituzioni, con un senso diverso rispetto a quello inteso nel “paradigma
sciamanico”. Ciò ci pone di fronte a due paradossi: lo Stato-nazione boliviano, nonostante sia
costretto dalla molteplicità linguistico-culturale ad abbandonare la retorica di un insistente
omogeneità, continua ad adottare lo stesso concetto cristallizzato di cultura, con la differenza di
frammentarlo; il concetto di cultura e identità promosso dalle istituzioni guaranì è fisso e ben
definito, cioè, in realtà, in linea, e non contrapposto, con quello concepito dalle politiche statali. La
visione di cultura e identità derivante dalla costruzione implicita quotidiana risulta invece più
dinamica perché costruita di giorno in giorno nell'interazione tra le persone. La maggior parte dei
guaranì tende a distinguersi dalla popolazione non-guaranì e a definire la propria identità in maniera
forte rispetto a quella non indigena, con la quale i rapporti non sono buoni. Difatti, i nativi
utilizzano un termine specifico per indicare gli europei (o in generale i non-indigeni): "karai"; i
numerosi significati attribuiti alla parola nel corso del tempo ruotano attorno a personaggi
dall'immagine positiva, come profeti che proclamavano la necessità per il popolo di cercare la
“Tierra sin mal” ( luogo simbolico della mitologia guaranì), la divinità Sole, grandi sciamani che
affiancavano gli “mburuwicha” o sciamani dotati di un potere carismatico eccezionale. Ciò,
secondo Melià, ci fa prendere in considerazione due ipotesi: quella secondo la quale il termine è
stato attribuito inizialmente ai non-indigeni per la “decisa volontà di migrazione” dei missionari
cristiani, interpretata dai nativi come “carisma di karai”, o quella per cui sarebbero stati gli stessi
cristiani ad attribuirselo, per accrescere il proprio status.

Il pueblo guaranì e l'educazione coloniale: breve storia della scuola boliviana


Il contesto culturale ed educativo guaranì è caratterizzato oggi da un'impostazione in continuità con
l'assetto coloniale. Esso deriva dalla presenza plurisecolare di istituzioni scolastico-religiose
installate in una vasta area fin dalla seconda metà del 1500 da missionari gesuiti e, più tardi, da
francescani. Tali istituzioni hanno influenzato profondamente la cultura dei guaranì, i quali si sono
differenziati tra coloro che hanno rifiutato la religione e la scolarizzazione e coloro che invece
hanno assecondato i paradigmi europei per sfuggire agli stermini compiuti dai colonizzatori. Nel
1553 i gesuiti avevano già completato la prima grammatica tupì-guaranì allo scopo di apprendere le
lingue e poter tradurre i testi della religione cattolica per convertire le popolazioni. Le politiche
linguistiche, durante i primi due secoli di colonizzazione, erano contradditorie, a causa degli
interessi conflittuali tra Chiesa, Corona Spagnola ed amministratori coloniali: questi ultimi usavano
le lingue indigene in opposizione politica alla Corona, la quale decise allora di attuare dei tentativi
di “castiglianizzazione” (insegnamento forzato del castigliano) del popolo, ma l'idea di avere a che
fare con una popolazione indigena scolarizzata non piacque agli amministratori coloniali, che
cercarono a loro volta di non applicare i decreti. Con l'indipendenza della Spagna e la fondazione
delle Repubblica Boliver (1825), la situazione dell'educazione indigena non cambia: l'intento,
basato sulla distinzione razziale, è quello di mantenere una “Repubblica degli indios” separata, da
usare come forza lavoro nell'impero coloniale spagnolo. Nel 1874 si organizzò il primo sistema
scolastico “pubblico”, che escludeva le donne, gli indigeni e i meticci. I missionari avevano già dato
avvio a una sorta di “educazione bilingue”, intesa come "progetto civilizzatorio", in cui era prevista
una “trasformazione dell'identità” che lavorava anche a livello simbolico, ad esempio attraverso
proibizioni relative all'abbigliamento e alle acconciature indigeni, l'imposizione di abiti occidentali
e del taglio di capelli per gli uomini o il divieto e la rimozione di piercing e tatuaggi. Agli inizi del
'900 alcuni politici “liberal” iniziarono a pensare alla scolarizzazione come a un mezzo per
convertire gli indigeni in effettiva forza-lavoro, con una nuova proposta civilizzatoria, a cui gli
“haciendados” e le autorità locali si opposero. Nella medesima epoca, sembra che lo Stato boliviano
concepisse il rapporto con gli indigeni secondo tre possibilità: liberarsene attraverso il genocidio o
la misgenazione, isolarli e separarli in una sorta di “società parallela” (modello di “Doppia
Repubblica”), “migliorarli” attraverso l'educazione da esso stesso impartita. Il timore delle ribellioni
spinse lo Stato ad optare per una combinazione delle ultimi due possibilità (separazione ed
educazione). Difatti gli indigeni furono esclusi dalla scuola per la durata di un secolo ed educati
attraverso l'organizzazione militare, che permetteva al tempo stesso di “migliorarli” e tenerli
appartati nella classe inferiore degli “indio”. Quando le guerre di indipendenza spinsero lo Stato a
stabilire il servizio militare obbligatorio per tutti gli uomini abili, compresi gli indigeni, sorsero con
questi ultimi le difficoltà comunicative dovute alla lingua, alle quali furono attribuite diverse
sconfitte militari, e si decise così di operare una “castiglianizzazione interna”. Nel 1917 il capo del
Dipartimento della Pubblica Istruzione lanciò una Riforma che prevedeva l'inserimento delle donne
"bianche" nel sistema educativo e, più tardi, aprì la prima scuola Normale per gli Insegnanti. Ma la
diffusione dell'educazione a livello popolare ebbe luogo a partire dall'educazione impartita ai
militari, alcuni nativi dei quali la diffondevano clandestinamente una volta congedati. In
opposizione ai circuiti di educazione clandeastina, fu fondata nel 1931 la grande e ben visibile
Scuola Rurale di Warista, che coniugava la filosofia socialista occidentale con principi organizzativi
e culturali del posto, dove si introdusse una metodologia pedagogica molto innovativa, e che
divenne ben presto il simbolo della lotta contro lo sfruttamento degli indigeni. Ciò non piacque alle
comunità di “mestizos” (meticci) e “haciendados” (ladifondisti) vicine, le quali sollevarono una
grande rivolta, formata da rapimenti, torture, incendi e assassinii, che portò alla chiusura della
scuola. Negli anni '40 il governo sponsorizzò un sistema scolastico rurale, non ancora definibile
“pubblico”, in cui si esaltavano l'agricoltura, le competenze professionali e l'igiene (i tre punti, con
particolare enfasi per l'igiene, facevano parte di una strategia per infondere le pratiche urbane, anche
con riferimento ad atteggiamenti rivolti al corpo e alla sessualità); non a caso l'unica lingua
ammessa a scuola era lo spagnolo.
Negli anni '50 la rivoluzione operaia e contadina guidata dal Movimento Nazionalista
Rivoluzionario (MNR) portò alla nazionalizzazione delle miniere, ad una Riforma Agraria (che
indebolì parzialmente gli “haciendados” in alcune zone non guaranì) e alla prima Riforma
Educativa (con relativo “Codigo de la Educacion Boliviana”), la quale si basava su una pedagogia
compotamentista che riconosceva solo l'autorità dell'insegnante, segnando l'inzio dell'ennesimo
progetto civilizzatore omologante. Negli anni '60 gli indigeni iniziarono ad entrare nel sistema
educativo nazionale anche in qualità di insegnanti formati secondo il modello comportamentista e lo
spagnolo rimase l'unica lingua ammessa per l'educazione; tant'è vero che gli studenti indigeni
venivano puniti fisicamente se pronunciavano male lo spagnolo o parlavano le loro lingue in classe.
Sempre in questo periodo ci furono esperimenti relativi all'educazione bilingue, i cui programmi, se
da un lato accrebbero l'alfabetizzazione nazionale, dall'altro, non avevano come scopo quello di
mantenere l'uso della lingua nativa, bensì quello di inserire il prima possibile gli allievi nelle scuole
monolingui-spagnolo.
Nella popolazione guaranì, data la sua collocazione periferica sia geografica che economica e la sua
struttura organizzativa acefala, che non si opponeva direttamente alle forze politiche statali, ci
furono risvolti diversi: se nelle zone andine la Riforma Agraria del MNR portò giovamento agli
agricoltori della zona, presso i guaranì rafforzò la posizione degli “haciendados” (latifondisti), che
possedevano le terre e continuavano così a sfruttare i lavoratori.
Nella zona guaranì la prima scuola Normale di Formazione per Insegnanti fu aperta negli anni '60,
sotto un governo militare di destra interessato al petrolio, che promulgò la sua Riforma Educativa.
Vi fu poi un alternarsi di governi populisti e di destra che non si occuparono di educazione, se non
in rare eccezioni. Negli anni '70, durante il regime dittatoriale militare, che reinstallò le norme
basate sui concetti di “razza” e di “lavoro” e sostituì i soprintedenti scolastici con ufficiali europei,
la violenza fisica e verbale nelle scuole delle zone guaranì erano amplificate per vari fattori (la
mancata conoscenza dello spagnolo, l'essere inseriti nella categoria “indiani”, l'appartenere ad una
classe associata alle condizioni di “peones”, non avere le condizioni economiche minime per
procurarsi materiali necessari alla frequenza); ciò portò a livelli di abbandono scolastico tali da da
abbassare ulteriormente lo status sociale dei guaranì, i quali si accontentavano ormai di essere
considerati solamente come una mera forza-lavoro. In questi anni il padagogista Tamayo tentò di
costruire una "pedagogia nazionale autenticamente boliviana", nonché in linea con il pensiero
colonialista europeo. Tra il 1982 e il 1985, quando sale al potere il Movimento Nazionale
Rivoluzionario della Sinistra (MNRI), sorgono la CIDOB (“Confederaciòn Indìgena del Oriente
Boliviano”), nella Capitania dell'Isoso, e la APG (“Asamblea del Pueblo Guaranì”), attorno alla
città di Camiri; due istituzioni che segnano l'inizio del movimento politico guaranì e dell'attivismo
di associazioni implicate nell'educazione bilingue. Dal 1985, anno che precede quello in cui il
Ministero dell'Educazione dichiarò ufficiale la lingua guaranì, al 1989, tornò al potere il Movimento
Nazionalista Rivoluzionario, che intraprese la "Nuova Politica Economica" neoliberista (tagliò i
finanziamenti pubblici, chiuse o privatizzò le industrie di stato, aprì il mercato boliviano agli
investimenti stranieri). Dal 1989 al 1993 prese il potere “Accordo patriottico”, una coalizione
costituita da un partito di sinistra e da uno di destra, che affidò le questioni educative in mano
all'UNICEF e alla Banca Mondiale. In quegli anni il Ministero dell'Educazione, appoggiato
dall'UNICEF, lanciò un progetto sperimentale di educazione interculturale bilingue, attuato in 114
scuole elementari rurali della Bolivia con la collaborazione delle istituzioni culturali indigene, che
per la prima volta avevano una parte nel controllo dell'educazione ufficiale.
Nel '90, presso l'Associazione “Teko Guaranì” di Camiri, inizia la produzione di nuovi testi
scolastici in guaranì e castigliano, con la collaborazione dei primi guaranì che hanno acquisito una
formazione superiore (i maestri di lingua guaranì nel 1990 erano solo 12, tutti appartenenti a
famiglie di “Capitanes Grandes”). Il 1992 è un anno dal valore simbolico per il popolo guaranì, in
quanto segna l'inizio di una campagna di alfabetizzazione degli adulti sia in spagnolo che in guaranì
e commemora sia il cinquecentenario dell'arrivo degli europei sul continente sia il centenario della
battaglia di Kuruyuki, l'ultima battaglia armata contro i colonizzatori da parte dei guaranì, che qui
furono sconfitti in maniera decisiva dall'esercito boliviano. Negli anni seguenti ripresero il potere il
MNR, poi l'ADN e poi ancora il MNR, che venne rimosso con una sanguinosa rivolta popolare.
Nel 1994 si emanò una nuova Riforma Educativa, che in parte modificò e in parte preservò alcuni
elementi dei precedenti regimi educativi.

Il contesto attuale della Reforma Educativa e della Educacion Intercultural Bilingue


A seguito della discussione nel Congreso Nacional de Educacion (organo che rappresenta tutte le
componenti sociali coinvolte nell'educazione e che si rifà al Progetto di Educazione Bilingue), il 7
luglio 1994 il governo di Sanchez de Lozada emana la Ley de la Reforma Educativa.
Tuttavia, sembra che la legge non contenga alcuni dei punti accordati dal Congreso e venga
approvata precipitosamente in modo non democratico a causa della pressione degli enti finanziatori
(Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, UNICEF e altre organizzazioni afferenti alle
Nazioni Unite). Il pedagogista gesuita Codina mette in luce come questa sia emanata in un contesto
globalista politico-economico neoliberista, evidenziando che la Banca Mondiale non è
un'organizzazione di beneficenza. Ciò nonostante, essa rappresenta un salto qualitativo rispetto al
precedente sistema educativo. Difatti, se il modello pedagogico precedente era condiducista e
assimilazionista, questo è costruttivista e partecipativo: promuove modalità di relazione
democratiche e orizzontali, si basa sull'interazione attiva tra insegnanti e allievi e su teorie secondo
le quali la scuola deve essere un “system building”, nonché un sistema in grado di costruire.
Inoltre, la Riforma è basata sui principi dei Diritti Umani (l'equità di accesso all'educazione,
l'attenzione alla partecipazione femminile ecc.) e si prepone di tutelare le specificità culturali. In
questo clima, la Bolivia ammette ufficialmente per la prima volta di essere una paese pluriculturale.
Al fine di concretizzare tali principi viene emanata la Ley de Participacion Popular, nella quale si
delibera, sulla base del PEIB, l'applicazione del programma di Educazione Interculturale Bilingue
(EIB): un programma nato dalla collaborazione tra istituzioni locali e organismi di cooperazione
iternazionale diventa statale. La prima esperienza PEIB, che prevedeva l'assunzione delle lingue
originarie come lingue ufficiali di insegnamento, conferendogli un certo status, non conteneva
un'esplicita collaborazione locale, piuttosto la consapevolezza da parte di alcuni insegnanti riguardo
la necessità di usare la lingua originaria per comunicare con gli allievi indigeni. Difatti, essa
presenta dei punti deboli: essa ha successo solo in ambito contestuale, dunque se si intrattengono
reali legami con i contesti locali, ma non produce risultati se de-constetualizzata, traslata, cioè, a
livello statale (difatti gli insegnanti locali non concorrono più direttamente alla gestione alla base
dell'esperienza, la quale diviene così un processo istituzionalizzato); lo Stato non possiede gli
strumenti per mettere in pratica le disposizioni sancite nella legge: esso riesce ad applicare
l'Educazione Biligue nei casi migliori fino alla terza elementare, pur la legge affermi che debba
essere adottata per tutte le elementari e nei corsi successivi; inoltre la legge, pur essendo nazionale,
non è applicata in maniera uniforme in tutto il territorio, sia per la mancanza di strutture e di organi
statali sia per la mancanza della volontà politica. Oggi l'applicazione della legge riguarda l'80%
delle scuole e sono in atto i programmi di Trasformacion e di Mejoramento, affinché il maggior
numero di strutture scolastiche sia in grado di fornire questo tipo di educazione. L'insegnamento
Interculturale Bilingue si pone gli obbiettivi principali di garantire l'applicazione delle modalità
partecipative e democratiche previste della riforma, fornire una competenza sia dello spagnolo che
della lingua originaria, fornire una preparazione “interculturale” ed assicurare la partecipazione
degli abitanti della comunità. Ad oggi, la lingua e la cultura guaranì sono proposte come elementi
uffiiciali nella scuola, dunque il miglioramento sembra evidente. Il compito di tradurre in pratica le
parole della Riforma (pedagogia partecipativa, didattica bilingue, educazione interculturale) è
affidato agli insegnanti, i quali hanno ricevuto però una formazione monolingue spagnolo nella
modalità precedente alla Riforma (tuttora in atto in alcune scuole) che non hanno quindi una
formazione su come costruire, condurre e monitorare relazioni didattiche partecipative. Per supplire
a questa mancanza, è stato organizzato il “Programma Guaranì de Formacion Docente” (PGFD),
che fornisce agli insegnanti corsi di aggiornamento, materiale pedagogico prodotto da
organizzazioni internazionali (ad esempio l'UNICEF) e da associazioni locali di impianto
occidentale (come Teko Guaranì) e libri di testo prodotti da enti transnazionali. Il modello educativo
proposto dalla Legge è senza dubbio più democratico rispetto ai modelli proposti precedentemente;
tuttavia, alcuni autori hanno evidenziato i problemi riguardanti l'applicabilità della Legge della
Riforma, dunque, la sua democraticità. Secondo Luykx alla base del progetto boliviano sta una
grave contraddizione, quella secondo la quale, nell'idea di fondo, esso tenderebbe alla costruzione
di un nazionalismo unitario e unificatore; in questo senso, la diversità linguistico-culturale boliviana
viene vista secondo una duplice visione: da un lato, è considerata come una ricchezza culturale e un
diritto umano, dall'altro, come il maggior ostacolo all'unità nazionale. Secondo Luykx, la difesa
delle lingue e delle culture è stata abbracciata dai popoli originari per rivendicare la propria
esistenza in ambito politico e i propri diritti sociali, ma tali rivendicazioni cozzano con la visione di
uno stato-nazione unitario e con le politiche economiche statali. Difatti, la scuola statale, la cui
cultura viene vista come un utile elemento unificatore, diffonde i programmi dal centro verso le
periferie e tende a trasformare le culture locali viventi in “teoriche culture libraie”; lo fa attraverso
sofisticate strategie, come la “ri-significazione” politica di termini usati nella quotidianità; primo fra
tutti il termine "nande reko”, il cui significato è “modo di essere” ma a cui viene associata la
traduzione “cultura”. Simili visioni, che vedono le “culture” locali come “elementi destabilizzatori”
dell'unità nazionale, non ammettono che in realtà il problema sia costituito dalle differenze di
accesso ai diritti umani, politici ed economici. Per questo, molti gruppi indigeni rifiutano che i loro
diritti vengano tutelati in quanto diritti delle minoranze, insistendo sull'impostazione per la quale
questi vengono considerati diritti primari, di autodeterminazione e di autonomia. In conclusione,
con la Riforma, le cose assumono sicuramente un altro orientamento teorico, ma i risultati e gli
intenti sono problematici sia in presenza di una buona volontà politica, a causa della scarsezza di
strumenti in grado di decostruire gli stereotipi e le analisi essenzialisti, sia in assenza di questa;
come dimostra Luykx, tali risultati sono boicottati dall'interno stesso del progetto politico boliviano,
che risulta essere nazionalista e omologante.

La scuola guaranì
Nell'oriente boliviano gli obbiettivi che l'insegnamento Interculturale Bilingue si pone sono molto
spesso contrastati dal rapporto problematico tra scuola e socioculture. Per quanto concerne la
comunità guaranì, ad esempio, la concretizzazione dell'educazione bilingue si scontra con una realtà
estremamente frammentata (c'è chi parla solo lo spagnolo, chi solo il guaranì, chi li parla entrambi
ma con vari gradi di competenza e con diverse varietà). Sia nelle comunità nelle quali lo spagnolo è
la lingua maggioritaria sia in quelle nelle quali è maggioritario il guaranì, la popolaizione si divide
tra coloro che vogliono potenziare soltanto lo spagnolo per implementare le relazioni verso
l'esterno, da cui si suppone arrivi il benessere, e coloro che invece desiderano fortificare il guaranì,
ritenendo che il benessere possa essere prodotto dall'interno. Davanti a tanta diversità, l'unica
soluzione per mantenere il progetto omologante sembra quello di tagliare dalle statistiche i dati
relativi al malfunzionamento, all'insuccesso e all'abbandono. Questa situazione si affronta solo
recentemente, a conclusione del primo decennio di Educazione Interculturale Bilingue, quando un
primo bilancio sociale negativo dà modo di parlare a coloro che caldeggiano per un ritorno di
modelli educativi evoluzionisti, autoritari, monolingui-spagnolo e “conducisti”. È inevce nel '900
che nasce la riflessione sulla discrepanza tra scuola e realtà sociale, di cui si occupano
l'antropologia dell'educazione e l'etnografia della scuola. Il difficile rapporto tra la scuola, vista
come qualcosa di esterno, e la società guaranì dà luogo ad una costruzione della conoscenza
guaranì, fatta sia di adattamenti che di appropriazioni, che si discosta dal modello unitario proposto.
Tale costruzione culturale viene mediata dall'interazione faccia a faccia, poiché, data la presenza
incostante delle scuole nel territorio e nonostante le campagne di alfabetizzazione intraprese dal
governo, la comunicazione guaranì rimane orale (motivo per cui non esiste in Bolivia una
produzione letteraria in lingua guaranì). Tuttavia, senza dubbio, la diffusione nelle scuole del
programma statale di Educazione Interculturale Bilingue porterà a dei massicci cambiamenti. Nella
lingua scritta, ancora ai suoi inizi, si cerca di mantenere le caratteristiche della forma orale
originaria. Secondo alcuni dati tratto da uno studio effettuato nel 1998 dall'Associazione Teko
Guaranì su 18 Zone (su un totale di 21), 288 insegnanti su 670 parlano guaranì, dunque,
potenzialmente, il 43 % dell'educazione scolastica nelle comunità è bilingue; il 62 % di bambini e
giovani che abitano nelle comunità è iscritto a scuola; l'educazione interculturale bilingue viene
applicata in un 59 % delle scuole. In alcune comunità esistono le Juntas Escolares, organi attraverso
i quali i genitori sono tenuti a partecipare alle attività della scuola. L'educazione boliviana si svolge
poi anche attraverso altri due sistemi educativi alternativi al “default” (modello scolastico standard):
il modello dell'educazione radiofonica (IRFA) e il modello dell'educazione degli adulti nelle zone
rurali (CEMA Rural). Il primo è un sistema di educazione a distanza importato dai missionari
cattolici spagnoli e usato in vari paesi dell'America Latina, che, incaricato dai municipi rurali
dell'educazione a distanza a livello elementare, copre le necessità scolastiche nelle periferie dove
non esiste la scuola “classica” in presenza. Il CEMA Rural (Centro di Educazione Media-superiore
Accellerata) è una forma di insegnamento statale, gestita di fatto da organizzazioni educative locali
non statali, rivolta agli adulti che vivono nelle zone rurali, dove il programma delle scuole superiori
viene svolto in due anni anziché in quattro; è organizzata in strutture situate in determinate
comunità, dove le persone si spostano per periodi di frequenza residenziale intensivi di circa un
mese e mezzo (seguendo le lezioni mattina, pomeriggio e sera) e ai quali si alternano periodi nei
quali tornano a casa per il lavoro nei campi. Molti educatori di questi percorsi alternativi e molti
insegnanti delle scuole guaranì provengono dal percorso IRFA-CEMA. Le scuole statali guaranì
sono invece organizzate in base alla ripartizione territoriale e le loro relazioni con le municipalità
vengono negoziate dai Direttori Distrettuali.
Mboarakuaguasu: il Consejo Educativo del Pueblo Guaranì
A seguito all'emanazione della Legge della Riforma Educativa, il “Consejo Educativo del Pueblo
Guaranì” (CEPOG) o “Mboarakuaguasu” acquista importanza e nel 1998 viene riconosciuto come
organo ufficiale copartecipante alla gestione delle scuole statali bilingui guaranì. Il suo ruolo è
quello di controllare e incoraggiare l'applicazione delle forme educative partecipative, interculturali
e bilingui previste dalla Riforma e di farle accettare nelle comunità, dove talvolta sono sentite come
invasive. In particolare, il CEPOG promuove politiche di rivalorizzazione identitaria: incoraggia
all'uso della lingua guaranì; invita i genitori a partecipare alle attività scolastiche; lavora sulla
costruzione di neologismi per l'insegnamento di tutte le materie scolastiche in guaranì, elaborando
nuovi significati tra quelli proposti dall'esterno delle comunità e quelli proposti dall'interno di esse;
e studia le forme di scrittura più adatte ad una lingua tradizionalmente orale. La proposta
Consensuale deliberata dal CEPOG nel 2003 prevede, tra le principali attività proposte per il futuro,
l'organizzazione di un programma di alfabetizzazione permanente, la creazione di un centro di
ricerca specializzato sulla cultura guaranì e di una università indigena, la decentralizzazione
dell'Educazione Interculturale Bilingue e la messa a punto di progetti educativi indigeni. L'autorità
del Mboarakuaguasu è formalmente riconosciuta e apprezzata dalla maggior parte degli abitanti
delle comunità, ma il suo ruolo di mediatore tra “cultura guaranì” e “cultura occidentale” risulta
talvolta ambiguo, in particolare quando le persone si sentono proporre progetti o concetti in
conflitto con la loro visione del mondo. In alcune comunià, difatti, è difficile radunare gli abitanti
per un seminario e comunicare, all'interno di essi, concetti estranei alla cultura guaranì. Le
opposizioni nascono, tuttavia, non tanto per i contenuti espressi, quanto per il modo in cui vengono
proposti, che veicola relazioni di potere. Inoltre, essendo la costruzione della conoscenza guaranì
rurale basata sul paradigma sciamanico, mentre la “cultura guaranì” proposta dalle istituzioni basata
sul paradigma aristotelico-cartesiano, spesso quest'ulltima non è accolta e accettata acriticamente
nelle comunità. Talvolta, le decisioni prese dall'élite intellettuale che dirige il CEPOG creano
stratificazioni e differenziazioni interne alla società guaranì, una parte della quale, come abbiamo
detto, vede ambigua la posizione di questa istituzione che propone soluzioni dall'alto, anch'essa
finanziata da organismi di cooperazione internazionale. D'altro canto, Silvia Lelli evidenzia come
anche i promotori facciano fatica a rispettare le forme partecipative non rappresentative di
costruzione del consenso collettivo del “nande reko”, le quali, per essere attuate, richiedono tempi
più lunghi rispetto alle forme rappresentative, tempi “non-occidentali”. Il CEPOG, come l'APG,
sono istituzioni in continuità con l'organizzazione politica guaranì del passato, ed i ricordi più
recenti di questo passato fanno capo alla colonizzazione; dunque, come sostiene Silvia Lelli,
attingervi può portare a procedimenti non rispettosi nei confronti delle comunità, come la
produzione di schemi di potere di stile occidentale (nel migliore dei casi democratico) o la
creazione di nuove élite il cui potere contrasta con l'organizzazione poltica e la visione del mondo
delle comunità rurali.
CAPITOLO 3: PALMARITO: DALLA SCUOLA MATERNA ALLA SCUOLA DI COMPUTER,
MITO E MATEMATICA COME STRUMENTI POLITICI
Una comunità in costruzione permanente
La comunità di Palmarito, nella Zona Kaaguasu, è un esempio di comunità dinamica, poiché
fondata in maniera progressiva da gruppi familiari guaranì usciti dallo stato di servitù delle
“haciendas”. In particolare, negli anni '30, l'area della comunità era posseduta da una famiglia di
“haciendados” di origine spagnola, ma, quando tra il 1932 e il 1935 alcuni guaranì che vi
lavoravano in stato di “peonazgo” vennero reclutati dall'esercito boliviano impegnato nella guerra
del Chaco, conobbero altre opportunità lavorative e considerarono la possibilità di organizzarsi
autonomamente; così, al loro ritorno, molti di essi, insieme alle famiglie, si staccarono dall'
“hacendado”. Alcune fonti fanno risalire il momento di fondazione della comunità al momento del
distacco dall'hacienda, altre, invece, al momento in cui l'hacienda è stata venduta (1959); essa fu
venduta secondo la tradizione degli “haciendados” (vendendo terra, strutture costruite su di essa e
persone che vi abitavano), ma fu acquistata da un'associazione cattolica che si appropriò delle terre
per restituirle agli indigeni e iniziò un'attività di “coscientizzazione”. Così, grazie ad una graduale
aggiunta di abitanti che uscivano dallo stato di “cautivos, nel 1964, la nuova comunità si spostò a
vivere sul territorio di sua proprietà; alcuni informatori assumono questa come data di fondazione,
collegandola anche al momento simbolico in cui, dal nome dell'hacienda, la comunità venne a
chiamarsi “Palmarito”. Da quel momento, altri gruppi provenienti da zone “cautivas” hanno
continuato ad unirsi alla popolazione, che oscillava, al momento della pubblicazione del libro, tra i
400 e 500 abitanti, residenti in circa 80 “viviendas” (residenze delle famiglie estese); parte del
territorio, afferma l'autrice, è a disposizione di altri gruppi che decidono di abbandonare
“haciendas” di altre zone o migrano per altri motivi. La popolazione vive di agricoltura, secondo
una distribuzione basata sull'uso, e non sulla proprietà privata, e regolata nelle assemblee della
comunità: in accordo con le migrazioni stagionali, i campi, sui quali generalmente si lavora in
gruppo, vengono distribuiti alle singole famiglie in base alla consistenza e alle necessità delle
famiglie. Nel periodo più intenso dei lavori nei campi, in particolare nel momento della raccolta del
mais, sono fissate tre settimane di vacanze scolastiche per permettere alla maggior parte degli
allievi di poter dare il loro contributo. Il problema al primo posto per la comunità riguarda l'accesso
all'acqua, in quanto questa è lontana dai corsi d'acqua e non possiede sorgenti; l'unica sua risorsa
erano due “iupa” (pozze d'acqua ferma), che si riempivano nella stagione delle piogge (tuttavia
Silvia Lelli ci mette al corrente del fatto che, nell'anno in cui scrive il libro, una di queste era già
seccata a causa del fango e che, all'altra, gli abitanti attingevano nonostante stesse anch'essa
riempiendosi di fango, fosse invasa da piante acquatiche e portasse spesso gravi problemi intestinali
causati dalla contaminazione dell'acqua da parte degli animali). Non molto tempo fa è stato scavato
un pozzo dal quale si estrae acqua potabile, che si collega però direttamente al Municipio di
Gutierrez, alla cui giurisdizione appartiene la comunità; l'acqua del pozzo non viene distribuita a
Palmarito poiché il servizio, insieme al diesel e alla manutenzione, è a pagamento e gli abitanti della
comunità non hanno disponibilità economica né accettano di dover pagare un bene comune come
l'acqua, estratto dalla loro terra. La comunità è costituita da due nuclei, Palmarito Vieja
(corrispondente al primo insediamento), nel quale si trova la scuola elementare, e il più recente
Palmarito Nueva (costituito in seguito all'arrivo di nuove famiglie e allo spostamento di vecchie,
principalmente causato da fenomeni di erosione che coinvolgono parti del territorio). La struttura
della comunità è difatti doppiamente circolare: dai due centri (nuovo e vecchio) si espandono a
raggiera, in maniera abbastanza irregolare, le abitazioni.

La comunità e le scuole
Il primo nucleo scolastico, fino al terzo grado, è stato costituito a Palmarito Vieja nel 1983, in
lingua spagnola, secondo il modello di educazione omologante e autoritario. Da allora, la
popolazione si batte per ottenere un'educazione sempre migliore; difatti, di anno in anno si
costruiscono locali per rispondere alle nuove necessità. I locali che ospitano i livelli intermedio e
superiore sono stati costruiti, invece, nel centro di Palmarito Nueva. Nel 2000 è stata completata la
cosidetta “scuola di computer”, una costruzione in mattoni abbastanza grande, dove sono installati
una decina di computer, che funziona anche come bibblioteca e sala riunioni. Nel 2002 vengono
completate le quattro aule della superiore (una per ogni grado) e l'anno successivo già escono i
primi diplomati della comunità. Nel 1990 la comunità ha aderito al progetto pilota di educazione
bilingue (PEIB). La scuola elementare comprende tutti e cinque i livelli, senza classi multigrado,
dato che ogni classe è composta da almeno 20 allievi, numero minimo per avere un insegnante
pagato dallo Stato. Anche la scuola materna ha il suo maestro. Lo spazio sociale centrale di
Palmarito Nueva è occupato dal fabbricato del Servizio di Salute (circondato da un recinto di legno)
e dalle scuole materna, media e superiore (costituite da aule isolate le une delle altre e circondate da
un recinto di filo spinato). Il filo spinato serve per delimitare lo spazio ed è un efficace strumento di
potere usato in America per frantumare l'organizzazione comunitaria, poiché permette di iscrivere
nello spazio le relazioni di potere; basato sull'idea che per proteggere l'interno si debba minacciare
l'esterno, l'uso del filo spinato segnala una netta separazione delle relazioni tra insegnanti e
comunitari. Le otto costruzioni all'interno dei due recinti sono così formate: la struttura del Servizio
di Salute è in laterizio; la parte inferiore delle pareti delle quattro aule delle scuole medie e superiori
è in legno, mentre quella superiore è formata da una rete di plastica anti-insetti e tetti vegetali; l'aula
della scuola materna (pre-basico), la costruzione più simile alle abitazioni, è in adobe con il tetto di
lamiera; la “scuola di computer” è in laterizio con pianta ad “elle” (classica planimetria delle scuole
della Riforma); infine il casotto del generatore elettrico è in adobe. Adiacente alla recinzione si
trova uno spazio aperto che assolve due funzioni: quella di spazio sociale centrale, attraversabile
dagli sguardi e dai corpi dei comunitari, e quella di campo da calcio; quest'ultima introduce una
dimensione di socialità che si sovrappone a quella della socialità tradizionale, in cui si può notare
anche un atto propagandistico (le porte sono dipinte di rosa, il colore del partito di governo, il
Movimento Nazionale Rivoluzionario). Subito fuori dal recinto sono situate le abitazioni dei
professori, la maggior parte dei quali non abita stabilmente nella comunità. Il corpo insegnante è
costituito da 15 persone: un maestro per il pre-basico, quattro maestre e un maestro per ognuno dei
cinque anni delle elementari, la “profesora unica” del sesto grado (prima media) e gli insegnanti, fra
cui tre donne, delle medie e delle superiori. Sono molti gli allievi che abbandonano gli studi per
motivi economici, si sposano, coltivano i campi, vanno a lavorare nelle “haciendas” o emigrano;
anche se i direttori e gli allievi con cui la nostra autrice ha conversato affermano che coloro che
prendono questa strada preferirebbero studiare. La scuola occupa una buona parte della vita di
Palmarito. Difatti, la presenza di tutti i livelli di scuola coinvolge anche coloro che non hanno figli
che frequentano la scuola all'interno delle pratiche scolastiche; basti pensare alla formula dell'
“internato aperto”, che già all'epoca della pubblicazione del libro riguardava 45 studenti: la pratica
di ospitare, durante i mesi di scuola (da febbreio a novembre), ragazzi e ragazze che abitano in
comunità nelle quali non è presente il grado che sono tenuti a frequentare. Le famiglie ospitanti,
scelte sulla base di legami di parentela o conoscenze, ricevono una piccola quota a titolo di
rimborso per le spese di solo vitto. Questa pratica rende possibile la frequenza scolastica ad un
numero maggiore di giovani guaranì.
Rapporti tra insegnanti e comunari: stratificazioni socioeconomiche
Nell'analizzare il rapporto tra comunari e insegnanti, Silvia Lelli incontra qualche difficoltà dovuta
al fatto che i professori e i direttori delle scuole rispondono alle sue domande circa l'argomento solo
da un punto di vista istituzionale, avanzando il silenzio ogniqualvolta l'attenzione venga spostata
sull'aspetto spontaneo e quotidiano della relazione. In quanto alle sue osservazioni, la ricercatrice
registra che le relazioni sponatee tra insegnanti e comunari siano scarse e problematiche. Dal punto
di vista istituzionale, ella riporta, invece, come le stesse relazioni vengano definite “non continue”
dal direttore della scuola, che afferma che, nonostante i genitori partecipino alle riunioni della
“Junta Escolar”, non si sia fino ad allora concretizzata l'idea espressa nella “Ley de Patecipaciòn
Popular”, secondo la quale gli abitanti della comunità e gli insegnanti dovrebbero lavorare “gli uni
per gli altri”. L'autrice evidenzia come anche gli ambiti del sapere si presentino in maniera
nettamente separata, indentificati con due diversi termini: la famiglia è il luogo di ciò che
letteralmente si traduce con “ciò che si impara dal mondo” , sapere di un ordine non solo umano,
del quale si parla con cautela; la scuola è invece il luogo del “sapere relativo al mondo”, unicamente
umano e del quale si può parlare pubblicamente. Anche la relazione tra comunità e scuola è
abbastanza conflittuale e presenta posizioni contrapposte; l'atteggiamento che i comunari assumono
nei confronti della scuola è diverso da quello che assumono nei confronti degli insegnanti: se della
prima, infatti, sebbene alcune famiglie preferiscano non mandarci i figli per motivi come la distanza
o la necessità di farli lavorare, si parla generalmente molto bene e, nonostante la sua presenza fisica,
se ne abbia una visione idealizzata e teorica costruita dal CEPOG (“Consejo Educativo del Pueblo
Guaranì”) e da altre associazioni locali, gli ultimi vengono spesso criticati. L'esperienza scolastica
attuale non è vissuta da molte persone, provenienti da situazioni di “peonagzo” o da persone che
hanno conosciuto solo la sua versione autoritaria. Un fattore problematico è senza dubbio l'attività
quotidiana svolta all'interno della comunità da una classe elitaria che non ne fa parte, che spesso
non conosce neppure la lingua, che non condivide la visione culturale indigena e gode di privilegi
economici ai quali i comunari non hanno accesso. La presenza di una scuola completa e articolata è
un elemento di prestigio per la comunità di Palmarito, sia dal punto di vista relativo all'immagine
che essa offre all'esterno, sia da quello socio-economico relativo alle speranze per il futuro dei
ragazzi. Tuttavia, le aspettative economiche della comunità riguardo alla scuola al momento in cui
la nostra autrice scrive non sembrano soddisfatte: i comunari fanno osservare come i vantaggi
economici derivanti dalla pratica dell' “internato aperto” vadano a beneficio solo degli insegnanti e
delle famiglie che possono ospitare un ragazzo esterno; inoltre della comunità con la scuola
beneficiano principalmente gli esterni (essa offre lavoro agli insegnanti, la maggior parte dei quali
risiede all'esterno della comunità e non reinveste all'interno di essa; a molti allievi esterni che
ritornano ai loro luoghi di provenienza o si spostano nelle città; infine anche la maggioranza degli
allievi interni, se vuole applicare le competenze acquisite a scuola, deve spostarsi all'esterno delle
comunità).
Acqua ed economia: interazioni e mito-logiche politiche
Alcuni fattori econimici, quali il problema dell'acqua, hanno creato attriti tra comunari e insegnanti.
Questi ultimi, oltre a possedere un'informazione relativa ai danni della salute provocati dall'acqua
infestata, hanno, diversamente dai comunari, la possibilità di pagare la fornitura di acqua potabile di
un pozzo. Nei periodi in cui ne hanno usufruito, anche i comunari lo hanno fatto, nonostante le
spese fossero sostenute solo dagli insegnanti, i quali, pur comprendendo in parte la condizione dei
comunari, non erano contenti di essere i soli a pagare; essi ritenevano che il problema fosse di
natura organizzativa e che, se la spesa della fornitura fosse divisa tra tutti i membri della comunità,
essa sarebbe stata sostenibile. Silvia Lelli ha indagato la vera natura del problema dalla prospettiva
dei comunari, grazie ad un ex-insegnante che ha intervistato il figlio dello “mburuwicha”. Il giovane
ha sostenuto che nella riserva ritenuta malsana, lo “iupa”, vive lo “iiya” (“spirito dell'acqua”) e che,
finché questi vi abiterà, la riserva non si prosciugherà e la gente potrà continuare a usare e bere
quell'acqua; solo se la riserva si seccasse, si potrebbe discutere di usare l'acqua del pozzo, a
pagamento o meno, ma prima non se ne vede la necessità. L'ex-insegnante, per il quale il problema
può definirsi “un misto di mito e politica” (a differenza dell'autrice, che lo definisce “un diritto
indigeno”), sostiene che sarebbe bene che la riserva si prosciugasse, così i comunari sarebbero
costretti ad organizzarsi. Delle riunioni dove si discute questo argomento sono organizzate da un
gruppo di donne guidato dalla moglie dello sciamano. Chiedendo al giovane informazioni
aggiuntive sullo spirito dell'acqua, la ricercatrice ha potuto apprendere da questo il senso del
discorso mitologico, per cui “ad ogni forma di vita corrispondono certe forme di morte”: egli spiega
che i bambini che si ammalano sono vittime che lo “iiya” esige da sempre in cambio della vita che
dà; osserva che l'acqua è sempre stata usata da uomini e animali insieme e che anche quando i
comunari pescavano nel lago e l'acqua era più pulita qualche bambino vi annegava preso dallo
“iiya”. La logica culturale presentata dal giovane, in cui si include ad esempio l'altissima resistenza
agli antibiotici sviluppata nelle comunità guaranì, spiega alcune motivazioni di ciò che spesso viene
superficialmente definito con l'espressione “resistenza allo sviluppo”. Silvia Lelli spiega come
alcuni limiti relativi all'insufficiente quantità di significati sociali condivisi fra lei e la comunità
abbiano fermato la possibilità di approfondire la visione dei comunari. L'ex-insegnante, che faceva
da mediatore linguistico, ha difatti deciso di non tradurre una domanda posta dalla ricercatrice al
giovane, esattamente “se oltre ai bambini anche gli adulti potessero essere “presi” dallo spirito
dell'acqua”, ritendendola sconveniente e spiegando alla studiosa, in un secondo momento, ridendo,
che non voleva che l'”iiya” si prendesse anche lui che è adulto. Con questo gesto l'ex-insegnante ha
mostrato come il contenuto mitologico alla base della visione dei comunari, sebbene metta in luce
due interpretazioni differenti creando così contrasti di posizioni e non rendendo realizzabile
l'applicazione del progetto di privatizzazione dell'acqua, sia un elemento pragmatico di
negoziazione dell'interazione tra comunari e insegnanti che permette il mantenimento della
relazione sociale. L'autrice mette in evidenza proprio il fatto che lei e il comunario non
costituiscono una comunità di parlanti, mentre il comunario e l'insegnante condividono una visione
comune, seppur con qualche sfumatura economico-culturale diversa.

Pedagogie e culture: Freinet e Palmarito


Nelle relazioni pedagogiche tra allievi e insegnanti Silvia Lelli ha osservato qualche somiglianza tra
la metodologia didattica usata nel pre-basico di Palmarito e quella occidentale proposta da Célestin
Freinet. Al momento in cui la studiosa svolge la ricerca, il pre-basico è al suo secondo anno di vita
e, quell'anno, per la prima volta, è assunto un insegnante qualificato. Nello specifico, è guaranì, ha
una formazione di Tecnico Agronomo, ma per migliorare la sua situazione lavorativa ha intrapreso
anche una formazione universitaria a distanza, conseguendo il titolo di “Asesor Pedagògico”
(funzione statale abolita). È la prima volta che lavora come maestro e con i bambini è dolce,
accogliente e paziente; dice che questo lavoro gli dà soddisfazione, mentre mostra e commenta con
affetto i disegni dei bambini.
Diario di campo
(Nel diario di campo relativo al pre-basico la nostra autrice riporta...)
I 23 bambini del pre-basico arrivano nell'aula molto piccola con la loro borsa di stoffa, la ciotola ed
un cucchiaio ad essa appesi. Si accomodano dove preferiscono intorno ai banchi di legno. La
ricercatrice nota che non esiste una direzione precisa dove guardare, poiché la lavagna, il cartellone
con la lista dei loro nomi e i disegni dei bambini sono disposti in pareti diverse; inoltre non c'è la
cattedra. La prima attività è costituita dal maestro che scrive su un foglio appeso alla lavagna i nomi
dei bambini in ordine alfabetico; dopodiché chiede ai bambini chi vuole riconoscere e indicare con
le dita tutte le “a” minuscole. Poco a poco davanti alla lavagna ci sono tutti i bambini. Finita
l'attività, i bambini tornano ai banchi, dove dovranno scrivere una serie di “a” minuscole e
maiuscole sui quaderni. È l'ora della ricreazione e i bambini corrono fuori verso la signora che
distrubuisce la merenda, una zuppa di miglio dolce. Passando sotto il filo spinato, si allontanano
dalla scuola e sparisce anche il maestro. Dopo circa quindici minuti sono tutti di nuovo riuniti e il
maestro spiega alla ricercatrice che i bambini ancora non distinguono se l'uscita dalla classe
corrisponda all'intervallo o alla fine delle lezioni, così molte volte tornano verso casa e lui deve
andare a riprenderli uno per uno. Ricominciata la lezione, il compito è quello di andare alla lavagna
e scrivere il proprio nome uno ad uno. Ai bambini meno disciplinati il maestro non dice niente, non
dando importanza ai loro comportamenti. Dopodiché si svolge una lezione all'aperto, in cui si
osservano gli alberi e l'insegnante spiega alcune cose. La classe si divide poco a poco in piccoli
gruppi uniti da ciò che gli interessa, non da quello che dice il maestro. Alcuni bambini salgono su
un albero, allora il maestro si preoccupa e li chiama, senza arrabbiarsi, convincendoli a scendere.
Quando si rientra in classe qualche bambino rimane fuori e il maestro non insiste a farlo entrare.
Una signora porta una scatola di matite colorate e una scatola di pupazzi, chiaramente doni
dell'occidente. Il compito è ora quello di disegnare un albero. Così l'insegnante distribuisce fogli e
matite da usare a turno. Un bambino rientra, attratto dall'attività, e si mette a disgnare sotto il banco
con un altro gruppetto. Da chi ha finito il disegno il maestro si fa portare il quaderno, su cui scrive
una “tarea” (compito) per i genitori: la loro convocazione ad una riunione per l'organizzazione della
festa commemorativa della fondazione della scuola. Per mantenere il controllo, mentre scrive,
l'insegnante dice sottovoce ai bambini più vicini di andare al cartellone a leggere i propri nomi e
intona, sempre sottovoce, dei canti che i bambini conoscono e sui quali lo seguono. I bambini che
non riescono ad avvicinarsi alla maestro si dedicano a varie attività, tra cui la riparazione di un
sandalo rotto di una bambina.
Il maestro lascia spazio alla modalità internazionale partecipativa, cooperativa tra i bambini,
applicando una metodologia didattica in linea con i principi proposti dalla Riforma Educativa. In
particolare, la sua didattica presenta delle affinità con la filosofia del ''mouvement Freinet'', la
filosofia della Riforma dell'Educazione Interculturale Bilingue e la filosofia socio-educativa
guaranì. Nel “mouvement Freinet” l'educazione è un processo nel quale la personalità del bambino
si sviluppa con l'aiuto del contesto ambientale e dell'adulto e l'educazione, la crescita individuale,
l'ambiente sociale e l'ambiente naturale sono inscindibili. Questa visione è presente sia nel
paradigma sciamanico, manifestandosi nelle pratiche socio-educative familiari e comunitarie
guaranì e non scomparendo mai dalla scuola guaranì (si manifesta nella didattica del pre-basico e,
seppur attenuandosi, anche nelle classi scolastiche successive), sia nel discorso del
“Mboarkuaguasu” relativo all'educazione scolastica, in linea con i principi teorici della Riforma,
dove però l'accento è posto più sul lavoro agricolo che sull'interazione con l'ambiente naturale.
Silvia Lelli approfondisce la visione di Freinet, notando che il pedagogista considera il rapporto tra
educazione, comunità e ambiente come un potenziale che permette di superare un'insoddisfacente
condizione economico-politica, attraverso la creazione di istituzioni politiche, sindacali ed
educative. Dunque il modello freinetiano non si collega ad uno “spontaneismo naturalistico”, ma ad
un progetto politico auto e socio educativo prodotto da studiosi che privilegiano l'apprendimento
come pratica e nella pratica piuttosto che come pratica esclusivamente intellettuale. Secondo il
modello, il metodo del “tatonnement expérimental” è lo strumento base per la costruzione di
conoscenza e di forme cognitive specifiche in linea con specifici progetti di vita; idea che si fonda
sull'impossibilità di separare la costruzione di “forme” e “contenuti” mentali, verificata da psicologi
e antropologi cognitivisti. La ricercatrice spiega come lei abbia incontrato forme evidenti di
“experiénce tatonnée” nel pre-basico, esattamente messe in atto dai bambini nel momento in cui si
soffermano a toccare fisicamente le lettere sulla carta, salgono sull'albero, riparano il sandalo; a
questa ultima attività partecipa anche il bambino più “dissidente”, cedendo una strisciolina di stoffa
della sua cartella: ciò che evidenzia l'autrice è il fatto che è come se bambini avessero costruito un
piccolo “motiro”, secondo relazioni di reciprocità tipiche dei legami socioculturali guaranì.
Tuttavia, queste attività che veicolano modalità socioculturali guaranì non sono programmate o
previste ufficialmente; difatti i bambini si comportano secondo i modi appresi nella socializzazione
extrascolastica nel tempo in cui il maestro è impegnato o durante le attività previste. Nel pre-basico
si assiste, dunque, ad una gradazione complessa di allontanamenti e avvicinamenti dalla e alla
cultura guaranì, a decontestualizzazioni e ricontestualizzazioni di esperienze acquisite con il tatto
(dal gioco al lavoro, dall'indicare segni sulla carta alla scrittura, fino agli autoritratti). Si assiste, in
pratica, all'inizio di un processo di auto-decontestualizzazione dall'ambiente per esservi ri-inclusi
attraverso mediazioni più astratte, un processo che spinge l'autrice a chiedersi se si possa parlare
veramente di ri-inclusione nel contesto di partenza. Queste tecniche di costruzione di una
conoscenza e di una realtà offerta-imposta in un “paradigma scolastico partecipativo” si traducono,
nel modello freinetiano, in modalità relazionali relativamente condivise con quelle in uso nel
paradigma sciamanico (si parla di “educazione del lavoro” e “modalità del lavoro cooperativo”).
Nella filosofia dell'educazione guaranì tali modalità si apprendono, ad esempio, nel lavoro sociale
del "motiro", che costituisce sia la pratica che il modello dell'educazione e della costruzione socio-
familiare-comunitaria guaranì; esso rende la complessità del reale a misura di bambino, inserendola
nella sua propria esperienza sotto il controllo degli adulti situati nel contesto attraverso compiti
accessibili alle sue capacità, permettendo di evitare gli eccessi di decontestualizzazione e di non
ricorrere alla creazione di un ambiente separato dalla società (la scuola).
Il pedagogista francese Vial, che come Freinet possiede un'esperienza di lavoro non intellettuale,
afferma che tale dimensione sia la dimensione dei problemi complessi e aperti, come sono i
problemi reali della vita degli uomini, e non dei problemi a una sola soluzione, come sono i
problemi scolastici. Vial definisce “dédicace” (dedizione) lo scambio attivo, concreto e cooperativo
nel quale il binomio teoria-pratica diventa altamente operativo; ciò è in atto nella cultura guaranì,
sia nel momento del gioco nella scuola che nel momento del “motiro” comunitario tra adulti. Silvia
Lelli nota come i bambini del pre-basico di Palmarito, nel passare da un'attività all'altra, pongano la
stessa attenzione: i bambini maneggiano i pupazzi con la stessa serietà con la quale aggiustano il
sandalo o studiano il funzionamento delle matite; questo ricorda il gioco-lavoro freinetiano, per cui
separare “gioco” e “lavoro” è un errore che categorizza il secondo come sofferenza. L'antropologa
Helena De Biase ritene la pedagogia di Freinet il modello più adatto per un progetto di scuola
indigena guaranì di Sao Paulo e rintraccia, come Vail, nell'origine contadina di Freinet le basi della
sua filosofia educativa. De Biase sostiene che la scuola formale ha lasciato a desiderare nei risultati
per quanto riguarda la formazione di cittadini critici e partecipativi e sostiene che, al contrario, la
pedagogia freinetiana, promuovendo il lavoro cooperativo e considerando l'educazione come
sviluppo globale e non come accumulo di conoscenze, riesce a trasformare in studi e ricerche gli
interessi degli alunni, nella convivenza cooperativa, nella socializzazione e nella solidarietà. Per
mezzo dell'educazione attraverso il lavoro l'alunno sviluppa progetti pratici alla sua realtà e alle sue
necessità. Sperimentare e procedere per tentativi sono forme di trasmissione della conoscenza simili
al metodo guaranì, che avviene con l'osservazione e la sperimentazione. Questa affinità si basa
sull'apprezzamento dei vantaggi di un'educazione non astratta alla vita reale. Tra le loro forme di
vita però appaiono molte diversità: per alcuni può essere importante diventare cittadini, mentre per
altri data la loro collocazione è importante mantenere delle forme di vita non urbana.
DISTIZIONE TRA “INDIO” E CAMPESINO”
Alcuni autori hanno fatto una distizione tra i concetti di indio e campesino perché le precedenti
analogie si sono rivelate inadeguate per la comprensione delle situazioni reali e alla formazione di
un'educazione che rispetti sia il diritto di uguaglianza sia quello di differenza. Il termine campesino
oscura le differenze culturali tra coloro che abitano nei centri urbani e gli altri. Le applicazioni di
benintenzionati e astratti schemi basati sull'uguaglianza della natura umana dimenticano che non
esite una natura umana indipendente dalla cultura, come sostiene Geertz. I programmi scolastici
guaranì hanno molti contenuti occidentali, giustificandosi che i contenuti guaranì sono conosciuti da
tutti e dicendo che a scuola si va per imparare cose che non si conoscono. Questa scelta non tiene
conto di molte conseguenze sul rendimento dei bambini. Una maggiore legittimazione dei contenuti
reali della cultura guaranì porterebbe a vantaggi psicologici cognitivi, psicologici identitari e
politici.
Interazioni in classe: contenuti e strategie linguistiche
L'omologia tra “culture rurali”, immaginata e generalizzata, sembra parte di una visione che
comprende in un'unica ampia categoria classi sociali, stratificazioni, gruppi e popolazioni che
subiscono forme diverse di sfruttamento socio-economico da parte di minoranze ed élite più potenti.
Essa è rintracciabile sia nel senso comune sia nelle logiche di molte organizzazioni che si occupano
di sviluppo e sembra derivare dalla congiunzione di “un cattivo universalismo illuministico”, un
marxismo semplicisticamente generalizzato e interpretazioni di matrice cristiana, che postula
l'uguaglianza di tutti gli esseri umani, sebbene dovremmo sapere che “non esiste una natura umana
indipendente dalla cultura”. Tale congiunzione sta alla base della visione che fonda in America
Latina la Teologia della Liberazione e i modelli della “pedagogia degli oppressi” con le pratiche di
“coscientizzazione” elaborate da Paulo Freire. Per “coscientizzazione” Freire intendeva un'azione
pedagogica capace di produrre un'emancipazione delle coscienze dei ceti più desiderati, in modo
che essi divenissero soggetti-autori della propria educazione. Secondo Silvia Lelli da tale
descrizione scaturiscono dei problemi: l'emancipazione di cui si parla è di chiara impostazione
eurocentrico-evoluzionista, in quanto non si riconosce la molteplicità delle diverse emancipazioni
culturali locali; lo spostamento dell'agentività dagli educatori agli educandi è concepito in maniera
più utopica che concreta. Il metodo della coscientizzazione consiste, in pratica, nel mettere in atto
un programma partecipativo di alfabetizzazione basato su delle “parole-chiave” usate dagli
educandi ma identificate dagli educatori, che, accompagnato da una sensibilizzazione socio-
politico-filosofica, induce gli educandi a un'autoriflessione che mostra un quadro della situazione
sociale alla quale appartengono da un punto di vista occidentale. Tale metodologia è stata adottata
localmente nel 1992 nella campagna di “guaranizaciòn”, che, fornendo alla popolazione
insegnamenti sulla scrittura della propria lingua, avrebbe, a detta dei coscientizzatori, risvegliato nei
guaranì una consapevolezza linguistico-identitaria che gli avrebbe permesso di superare
“l'invisibilità e il silenzio”. Questi modelli, applicabili all'interno del paradigma costruttivista-
attivista previsto dalla Riforma Educativa, orientano la filosofia educativa di molti insegnanti nelle
scuole delle comunità. Tuttavia, la loro azione nell'esperienza brasiliana sembra caratterizzata da
una maggiore indipendenza dal “default” europeo rispetto all'azione degli stessi nell'esperienza
boliviana, dove le potenzialità di un pensiero indipendente da quello “occidentalista” non vengono
sviluppate appieno.
Diario di campo
Silvia Lelli riporta poi alcune pagine del diario di campo riguardante la scuola elementare di
Choroqueti (vicina a Palmarito), nella quale gli allievi della quarta hanno vissuto la prima infanzia
in stato di servitù, e le scuole media e secondaria di Palmarito, con allievi che hanno vissuto una
parte della loro vita in stato di servitù e i cui genitori hanno usufruito della campagna di
“guaranizaciòn”.
SCUOLA ELEMENTARE (SOPRTT. CLASSE QUARTA) DI CHOROQUETI
La comunità di Choroqueti, a pochi chilometri da Palmarito, è stata fondata nel 1996 da una ventina
di famiglie liberate da una “hacienda”. Il piano dei “coscientizzatori” era quello di aggregare queste
famiglie alla comunità di Palmarito, facendo frequentare ai giovani le stesse scuole, ma le famiglie
hanno deciso di mantenere le loro strutture sociali e politiche, fondando un'altra comunità. Così, il
municipio non ha fornito le infrastrutture per la scuola e per il “posto di salute” e questi servizi si
svolgono in una stanza costruita da un'associazione ecclesiastica. Inoltre, nonostante i ragazzi in età
scolare siano 40, divisi in un multigrado (che va dalla prima alla terza elementare) e in una quarta
elementare, solo il multigrado ha diritto all'insegnante pagato dallo stato, in quanto il municipio ha
fornito un solo insegnante, continuando a sostenere che i ragazzi possono benissimo frequentare la
scuola di Palmarito; per un certo periodo, infatti, i ragazzi di Choroqueti hanno frequentato la
scuola di Palmarito, ma erano discriminati a causa della loro più recente origine di “cautivos” e le
ragazze hanno addirittura perso qualche anno di scuola perché venivano offese. Per quanto riguarda
la quarta elementare, la maestra è pagata con una colletta organizzata dalle famiglie dei ragazzi.
Silvia Lelli racconta la sua esperienza nella classe quarta, con allievi che hanno vissuto la prima
infenzia, fino al 1996, in stato di servitù. Quando arriva, è in corso un lavoro di gruppo che consiste
nel fare un preventivo per la festa della fondazione della scuola; si tratta di un genere di lezione in
linea con l'educazione attiva, considerata dai coscientizzatori una “perdita di tempo”. I ragazzi
riconducono la presenza europea della ricercatrice alla figura della “karai” e inizialmente le
rivolgono, con durezza, domande in guaranì, tradotte dall'insegnante, sapendo che lei non lo
capisce. Come suggerito dalla maestra, cantano una canzone per la ricercatrice e poi chiedono che
anche lei ne canti una per loro. L'insegnante prosegue la conversazione dicendo che i ragazzi erano
“esclavizados” e che per questo la loro “durezza” può essere interpretata come “timidezza”; in
realtà l'autrice non ha avuto questa impressione, ma ciò che è certo è che a seguito di questo
intervento, i ragazzi si sono chiusi in un timido silenzio, cessando di domandare. Secondo la Lelli
questo atto linguistico (evocare una “timidezza” ricordando un'origine umiliante) è usato
dall'insegnante per riportare il silenzio e il rispetto in classe. Difatti, a seguito dell'atto linguistico, i
ragazzi esibiscono una sorta di paura nei confronti della ricercatrice: alla fine della lezione alcuni
fanno un giro largo per uscire in fretta dalla porta alla quale lei è vicina e addirittura le ragazze più
grandi si avvicinano a lei e le danno la mano con un inchino, che probabilmente è quello che si
doveva fare alle signore “karai” dell'“hacienda”.
SCUOLA SUPERIORE DI PARMARITO: TERZA LICEO
Silvia Lelli racconta la sua esperienza nella terza liceo, dove la giovane e impeccabile professoressa
originaria della Bolivia occidentale insegna a 14 allievi di età compresa tra i 15 e i 30 anni, che non
hanno potuto iniziare le scuole prima a causa della loro condizione di “cautivos”. I temi che stanno
affrontando sono “la struttura e le classi sociali” con una netta distinzione tra “classi dominanti” e
“classi dominate”. La professoressa cerca contestualizzare i contenuti del libro mettendo in
relazione domande-risposte prestabilite alla realtà locale e chiede se a Palmarito esistano “artigiani”
e “commercianti”, aspettandosi una risposta immediata. La domanda è più complessa di quanto si
possa pensare, in quanto riferita ad una realtà sfaccettata, dove esistono ruoli solo vagamente simili
a quelli del commerciante e dell'artigiano. A causa di questa complessità, gli allievi sono costretti ad
attenersi alla risposta più semplice e decisa del libro. Anche alle altre domande relative all'esistenza
di “peones”, di “campesinos” e alla distinzione tra “classi sociali” e di categorie come “mestizo”,
“indigeno”, “blanco” risponde sempre la professoressa attenendosi al testo, con una
generalizzazione che riproduce stereotipi e riduce la complessità della realtà.
SCUOLA SUPERIORE DI PARMARITO: QUARTA LICEO
Il professore guaranì della quarta liceo fa lavorare in gruppi. Il primo gruppo deve spiegare
l'impatto della mondializzazione sulla società e i cambiamenti che comporta nella struttura sociale.
Il professore interrompe colui che ha la parola, dicendo che non sta spiegando, ma leggendo. Il
gruppo resta in silenzio, così il professore chiede alla classe di fare delle domande e un allievo
monopolizza l'interazione verbale. Dopodiché il professore chiede perché la società guaranì è una
società “semplice” e, davanti al silenzio del gruppo interrogato, chiede di rispondere in guaranì.
Dopo l'intervento di uno degli interrogati, l'insegnante chiede un contrubuto alla ricercatrice, che
dice che la distinzione tra società “semplici” e “complesse” è eurocentrica e funzionale al dominio
colonialista e aggiunge che le società non europee per le quali è stata coniata l'espressione non sono
affatto “semplici”, ma che anzi la loro organizzazione è molto complessa, tanto che gli europei
hanno deciso di risolvere il problema definendo queste società “semplici”, sulla base dei parametri
della tecnologia e dell'economia monetaria, ambiti nei quali si sentono “più forti”. Il discorso della
ricercatrice contrasta con il testo del “Teko Guaranì” e il risultato è il silenzio; lo studente che usa
prendere la parola conclude dicendo che i guaranì possedevano certamente armi e tecnologie più
semplici. Il professore continua l'interrogazione e si arriva a dire che prima della mondializzazione
la cultura guaranì era diversa, in quanto si facevano previsioni sulla pioggia, sul tempo e sull'entità
del raccolto, attraverso lo sciamano. A questo punto alcuni allievi ridacchiano e arrivano altre
risposte timide anche in lingua guaranì (le frasi sono senza forme verbali, non indicano il tempo al
quale ci si riferisce, lasciando aperte le possibilità sull'uso delle pratiche sciamaniche). Il clima
incerto che si è venuto a creare disturba il ragazzo che ha menzionato “lo sciamano”, il quale si
sente in dovere di precisare che si tratta di miti degli antenati. Dopodiché si va avanti con le
interrogazioni e la ricercatrice nota il frequente uso della formula “almeno, io la penso così”, che
mostra un'altra competenza nella conversazione partecipativa e “orizzontale”. Le donne parlano
raramente. Da questa classe sono usciti i primi diplomati di Palmarito.

PALMARITO: INTERMEDIO (SCUOLA MEDIA) E SUPERIORE


Nel settimo grado intermedio (corrispondente alla seconda media) il professore guaranì di religione,
che precedentemente ha insegnato anche antropologia e filosofia, ripropone ai suoi studenti la
formazione decontestualizzata che egli stesso ha ricevuto; egli non è conoscenza di una storia
dell'antropologia o di studi etnografici e non riesce a concepire una relazione tra “filosofia” e
“cultura”. Nella comunità di Palmarito ci sono sia cattolici che protestanti, molti comunari
professano sia i riti cattolici che quelli protestanti e al tempo stesso mantengono la religione
guaranì. Mentre coloro che non hanno il libro vanno nella biblioteca adiacente a procurarselo, gli
studenti che rimangono in classe sono invitati dal professore ad indicare la Palestina sulla carta
geografica e fingono di non trovarla per prolungare il tempo nel quale gli è concesso guardare la
cartina da vicino. Dopo circa quindici minuti gli allievi tornano a posto e il professore fa alcune
domande a cui rispondono con frasi imparate a memoria. Quando l'insegnante chiede un volontario
per leggere un libro sul Vangelo, nessuno si offre; allora il professore fa fare un gioco dove chi
sbaglia deve, per penitenza, leggere chiaro e forte. La punizione tocca ad una ragazza che, una volta
alzata in piedi, legge sottovoce e con incertezza, con il professore che le ricorda di “leggere chiaro e
forte”. Alla fine della lettura, il professore chiede alla classe se ha capito ed essa risponde con un
bel “no” corale; così il professore fa rileggere il brano da capo. Il professore, soffermandosi su un
pezzo del brano che dice che i palestinesi prendevano l'acqua dalla fonte, cerca di creare un
collegamento tra “testo” e “contesto”, chiedendo agli studenti da dove le famiglie della loro
comunità prendessero l'acqua; la risposta è unanime e perfettamente adattata alle aspettative del
professore (“dal pozzo”); la maggior parte delle famiglie, infatti, preleva invece l'acqua dallo
“iupa”. Evocando questa divergenza e il fatto che a Palmarito non vi è una fonte, la comunicazione
diventa forzata: il professore tenta di creare un collegamento indessicale tra testo e contesto che
non è quello che il testo indica. Dopodiché il professore legge alcune frasi pronunciate dall'angelo
Gabriele e chiede agli studenti cosa dice l'angelo, ma essi rispondono con il silenzio, mettendolo in
difficoltà. Anche dopo aver riletto più volte il testo, gli studenti continuano a non rispondere o a
dare risposte “non giuste”. Così l'insegnante finisce per rispondersi da solo e cambia poi argomento,
facendo domande su Gesù, alle quali i ragazzi rispondono anche ironicamente. Riprende la lettura
del testo e cerca di costruire un altro collegamento tra testo e contesto, in particolare sulla povertà di
Maria e Giuseppe, i quali, però, sembrano essere comunque più ricchi rispetto a loro; il professore
insiste per farli identificare, ma i ragazzi non sembrano intenzionati ad identificarsi con dei poveri
che rispetto a loro sono ricchi: con questa operazione logica la percezione della propria condizione
risulta ancora peggiore.
Silvia Lelli assiste ad un'altra lezione dello stesso professore, questa volta nella quarta liceo. Anche
qui gli studenti cercano la Palestina sulla carta geografica e usano la strategia del fingere di non
trovarla per restare più a lungo di fronte alla cartina. Il professore usa lo stesso testo e pone la stessa
enfasi sul tema della povertà. Disegna poi un albero alla lavagna definendolo “albero della vita” e
chiede se qualcuno se lo ricorda, ma nessuno risponde. In corrispondenza della chioma scrive
“società boliviana”, entro il confine della chioma “hambre, miseria, subordenados, analfabetos
ecc.”, al livello del tronco “sistema” e sotto “empresarios, capitalistas”. Infine, in basso, in
corrispondenza delle radici, scrive “nostros sin dinero, empleados, obreros”. Mentre il professore
scrive e domanda i ragazzi rispondono con piccole frasi e silenzi; con questi atti linguistici stanno
negoziando la loro posizione sociale e il ruolo di poveri che sentono imporsi performativamente.
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Ciò che emerge dal diario di campo riguardante la scuola elementare di Choroqueti e le scuole
media e secondaria di Palmarito è un'ibridazione tra modalità di relazione indigene e modalità
imposte dal “default” scolastico: elementi di cooperatività guaranì si fondono con una pedagogia
partecipativa. Senza dubbio la metodologia d'insegnamento basata sulla ripetizione mnemonica di
risposte "corrette" rimanda alla pedagogia non partecipativa, mentre gli sforzi degli insegnanti di
creare collegamenti tra testo di scuola e contesto di vita appaiono, secondo la Lelli, tentativi di
correggere la decontestualizzazione dei contenuti; tali insistenti tentativi, dove testo e contesto non
sembrano corrispondersi, infatti, riportano ad una pedagogia di stile evoluzionista-colonialista. La
cultura degli “ipaye” (sciamani), emersa durante le lezioni, solleva un chiaro interesse, ma sembra
costituire per la maggioranza un argomento sospeso e relegato al passato. L'allievo che tende a
monopolizzare l'interazione verbale introduce i riferimenti temporali relativi all'argomento,
affermando che si tratta di “miti degli antenati”; tale affermazione sospende il discorso anche al
livello della società guaranì, con due diverse interpretazioni: se gli antenati appartengono al passato
la questione del loro sapere può essere intesa come non attuale; se, come per molti nella comunità,
gli antenati riguardano il presente la questione della loro conoscenza viene sospesa nella
discussione in classe ma rimane valida nel presente. Tenendo anche in considerazione che a
Palmarito risiede uno sciamano e che, però, la richiesta di incontrarlo da parte della ricercatrice ha
sempre suscitato sospetto, anche il silenzio in classe può avere molti significati: può essere una
strategia per liquidare l'argomento ma allo stesso tempo mantenere il segreto di una credenza viva e
pratica, può indicare qualcosa a cui non si crede più, oppure una confusione di idee sul tema. Per
quanto concerne i contenuti, è evidente la linea evoluzionista, anche esplicita, adottata nei testi,
testimoniata anche da vecchie e superate distinzioni riduzioniste come quella tra “società semplice”
e “società complessa” o dalla presenza non motivata di rappresentazioni che usano il concetto di
“razza”, che si dicono senza basi scientifiche la cui presenza nel testo non è motivata. Inoltre, le
rigide definizioni di parole (“criollo” “mestizo” “indigeno” “blanco”) che riportano una forma
comune di percezione dell'assetto sociale latinoamericano di impostazione colonialista-razzista, in
uso sia nel mondo occidentale che nei paesi sudamericani, vengono fatte imparare a memoria agli
allievi senza essere spiegate e, in questo modo, rimangono degli strumenti che semplicemente
riproducono una visione razzista della realtà. Anche nei testi di Educazione Civica gli elementi
forniti per uno sviluppo della riflessione, ad esempio le informazioni relative alle culture indigene,
sono scarsi e non aggiornati e finiscono per costruire decontestualizzazioni. In quanto alle relazioni
socio-scolastiche, nel contesto-scuola c'è una distribuzione abbastanza fissa dei ruoli (chi parla, chi
legge, chi spiega, chi risponde, chi tace) e le donne hanno ruoli più passivi, a differenza di quanto
avviene nel contesto-comunità, dove le donne sono attive sia nella vita quotidiana sia nei processi
decisionali (come nella discussione sul problema dell'acqua); l'autrice ci invita a riflettere sul fatto
che la passività femminile possa essere un aspetto portato avanti dal modello di partecipazione in
maniera “occulta” e si mostra interessata ad approfondire l'argomento tramite degli studi che
possano valutare in che misura un modello di interazione scolastico come questo possa modificare
le relazioni di genere locali. Nel contesto europeo la realizzazione degli obbiettivi scolastici è vista
come un'impresa individuale e questo porta alla costruzione di personalità centrate sull'individualità
piuttosto che sulla cooperazione. Tale visione influenza la sociocultura guaranì, anche se nelle
scuole guaranì il merito è valutato in base allo svolgimento di ruoli diversi all'interno di gruppi di
lavoro indipendetemente dall'importanza che ogni ruolo individuale assume secondo tassonomie
occidentali; perciò possiamo dire che permane comunque una modalità socioculturale
cooperativistica guaranì. Ne un esempio il lavoro di gruppo nella scuola elementare di Choroqueti,
dove ai bambini spettava il compito di fare un preventivo per la festa di fondazione della scuola;
questa attività presenta caratteristiche comuni sia dei modelli attivisti-costruttivisti alla Freinet sia
della cooperatività guaranì: agli esercizi di organizzazione, di scrittura e di calcolo si unisce, infatti,
l'emozione legata alla festa. In un anno scolastico ci sono circa 20 feste istituzionali, funzionali al
progetto di uniformazione dello stato nazionale; esse vengono ritenute da alcuni intellettuali
educatori dei modi per ritardare lo svolgimento del programma e mantenere a un basso livello i
ragazzi guaranì rispetto ai “karai”. Ciò che è certo, e viene aggiunto dall'autrice, è che il rendimento
scolastico nelle scuole guaranì è molto più basso rispetto a quello delle scuole urbane e, perciò,
diffcilmente i ragazzi guaranì possono essere competitivi sul mercato del lavoro nel sistema
economico occidentalizzato. Nel momento in cui il professore di religione cerca di forzare il
collegamento indessicale tra il testo (“i poveri”) e il contesto (“gli allievi guaranì”) sta attuando una
strategia linguistica di costruzione dell'indentificazione che rientra fra le tecniche di
“coscientizzazione”, ma gli studenti, con i loro atti linguistici (lo stare in silenzio, il contrastare la
collocazione assegnatagli dal professore nell'”albero della vita”, il non rispondere ad alcune
definizioni standardizzate durante la lezione di Educazione Civica ecc.) dimostrano di non accettare
incondizionatamente tali identificazioni. Gli atti linguistici quali l'uso di appellativi come “pobres”,
“esclavos” “ex peones” ecc., derivanti dai testi, hanno il potere, ogni volta che vengono pronunciati
dagli insegnati nelle classi guaranì, di ricreare un contesto che riproduce i rapporti capitalistici del
sistema economico occidentale, e non un allontanamento da esso. I concetti di “povertà” e di
“ricchezza” non esistono nella visione indigena (paradigma sciamanico), appartengono piuttosto
alla teologia cristiana (paradigma occidentale): la prima, a differenza della seconda, che è
caratterizzata dalla “staticità”, è contraddistinta dalla “dinamicità” e per questo nelle comunità
indigene si prediligono termini che indicano condizioni temporanee, come “donatore” e “ricevente”.
Trattandosi, dunque, di termini culturalmente costruiti, quelli di “ricco” e “povero”, insieme agli
altri pronunciati nelle classi guaranì, non sono da vedersi come innocui, ma come dei veri e propri
atti linguistici finalizzati a negoziare una posizione sociale che gli allievi guaranì sentono imporsi
performativamente ogni giorno.

Linguaggi della storia, linguaggi dell'interazione


L'intento, nelle operazioni di coscientizzazione, è quello di esplicitare agli interessati la condizione
socio-politica nella quale si trovano e certamente quella di farli reagire; secondo Silvia Lelli questa
operazione nel linguaggio delle interazioni traduce degli atti che propongono identità. Costruire
identità è un'azione che avviene in contesti di interazione, mentre costruire storia necessita di una
certa distanza e un certo livello di astrazione. Queste operazioni, pur essendo distinte, sono
strettamente associate nelle culture indigene, dove i processi intersoggettivi (come le interazioni
linguistiche tra allievi e insegnanti) occupano un ruolo di primo piano nella rappresentazione della
storia locale. L'intento coscientizzatore di costruire una consapevolezza socio-storica sembra
ostacolato da ciò che avviene nella realtà, cioè la riproposta linguistica di una continuità con le
relazioni coloniali autoritarie e di una definizione soggettiva emarginata dell'altro. Secondo
l'autrice, se confrontiamo il contesto guaranì con i contesti nordamericano e caraibico, ci
accorgiamo che in questi ultimi due, sopratutto in un ambiente istituzionale come una scuola,
pronunciare atti linguistici del tipo di quelli che vengono pronunciati nelle scuole guaranì comporta
gravi conseguenze; basti pensare che nel contesto nordamericano termini come “immigrati” o “caffè
nero” non sono pronunciabili nella conversazione quotidiana senza spiacevoli ripercussioni. Questa
osservazione ci porta a riflettere sul fatto che, nonostante tali termini possano essere pronunciati da
educatori, insegnanti e pedagogisti a fin di bene nelle scuole guaranì, essi producono effetti
pragmatici e performativi che non aiutano i soggetti della storia a liberarsi della pesante eredità e a
costruire autostima, autoaffermazione e identità nuove, libere di pensarsi secondo modalità proprie.
Tali effetti pragmatici nel presente sono stati riscontrati dalla ricercatrice nella classe quarta della
scuole elementare di Choroqueti, i cui allievi hanno vissuto la prima infanzia, fino al 1996, in stato
di servitù: la maestra, per spiegare la durezza, a sua detta traducibile in timidezza, con la quale gli
alunni rivolgono le domande alla ricercatrice ospite bianca, la cui figura può essere ricondotta a
quella della “karai”, ricorda che i ragazzi erano “esclavizados”; questo atto linguistico, con il quale
l'insegnante ha ricordato un'origine umliante, ha l'effetto pragmatico di mettere a tacere gli alunni,
provocando un silenzio di timidezza e paura nei confronti della ricercatrice (alla fine della lezione
alcuni fanno un giro largo per uscire in fretta dalla porta alla quale lei è vicina e addirittura le
ragazze più grandi si avvicinano a lei e le danno la mano con un inchino, che probabilmente è
quello che si doveva fare alle signore “karai” dell'“hacienda”). Queste categorie diventano dunque,
come nel caso della maestra di Choroqueti, strumenti per riportare il silenzio e il rispetto in classe,
nonché strumenti di controllo, piuttosto che semplici mezzi per descrivere un contesto storico-
politico. Secondo Silvia Lelli non ignorare la permormatività delle definizioni attribuite alle persone
non significa “dimenticare la storia”, bensì contribuire ad una corretta co-costruzione storica
quotidiana e nel lungo periodo. Oltre al fatto che raccontare vicende storiche a persone che ne sono
tuttora i veri protagonisti è un'azione eticamente discutibile, gli educatori nel contesto guaranì non
discutono con gli interessati le definizioni che gli attribuiscono, ma le offrono come implicitamente
oggettive, producendo atti linguistici implicitamente definitori. Silvia Lelli riprende le parole di
Diane Coben, la quale afferma che gli educatori freiriani, contrastando con le idee di Freire, non
instaurano con gli educandi una relazione democratica, non inserendoli nell'elaborazione del
processo educativo e creando così un rapporto di dipendenza basato sulla fiducia e la buona fede
che gli studenti ripongono negli educatori, e afferma che anche nel contesto guaranì è riscontrabile
lo stesso meccanismo. I coscientizzatori parlano di dialogo, ma le teorie antropologiche e
pedagogiche partecipative affermano che un buon risultato dialogico si ha solo quando sono i
membri del popolo stesso a raccontare la propria storia e a costruire la propria identità nei termini e
con le categorie che ritengono migliori. Considerando che la partecipazione alla costruzione del
discorso non è equamente distrubuita, un presunto dialogo tra educatori ed educandi diviene
facilmente uno strumento di riproduzione di vecchi schemi politici autoritari. Possiamo dire che
dell'educazione del popolo guaranì se ne occupa un'elite di intellettali composta da membri dello
“mboarakuaguasu” e insegnanti guaranì e non-guaranì; questi ultimi, tuttavia, rientrano nella
categoria più ambigua dei “coscientizzatori”, che si sovrappone solo in parte a quella degli
intellettuali. A rendere più difficoltoso di quanto già non lo sia il rapporto tra educatori e abitanti
delle comunità contrubuisce anche l'impossibilità per i primi di accedere a strumenti alternativi a
quelli ricevuti nella formazione, come ad esempio contenuti guaranì. La critica avanzata da Silvia
Lelli non intende occultare le mete raggiunte nelle scuole guaranì, anche attraverso le
“coscientizzazioni”, come ad esempio il riscatto dei gruppi in stato di servitù, bensì evidenziare i
punti problematici stimolando una riflessione. Secondo l'autrice gli aspetti problematici si insediano
nel sistema educativo scolastico, dove vengono portate avanti, nell'interazione linguistica tra
insegnanti e allievi, negoziazioni implicite e paternalistiche. Il problema delle metodologie di
coscientizzazione è spesso quello di non ascoltare approfonditamente le voci e quindi le potenzialità
delle logiche socioculturali locali, scartandole prima di averle ascoltate, analizzate e comprese e
dando per scontato che sia bene indirizzarle verso ideologie occidentali. In questo processo le varie
“decontestualizzazioni” socioculturali che avvengono nelle scuole restano in continuità con
l'impresa coloniale, trasformando pragmaticamente i gruppi indigeni in classi di lavoratori da
sfruttare nel sistema capitalistico. Per l'autrice questo processo ben esemplifica la correlazione tra
educazione e condizioni socio-economiche, che risulta evidente nel fatto che i guaranì cercano
lavoro al di fuori delle comunità.
“Coscientizzazione” matematica
Diario di campo
SCUOLA SUPERIORE DI PALMARITO
L'insegnante di matematica che insegna nella classe prima del liceo di Palmarito è un professore
“karai” non guaranì che viene da Camiri e parla solo castigliano. Gli allievi vanno a prendere i libri
senza perdere tempo. Rispondono attivamente e ripetono a memoria regole matematiche. I più
grandi, che hanno al massimo 22 anni, aiutano il professore controllando che i compagni più
giovani svolgano le attività richieste in maniera corretta. Il professore risolve un'espressione alla
lavagna e chiede ad una ragazza se è ben fatta; lei risponde correttamente. Poi vuole fare un altro
esempio alla lavagna, ma i ragazzi dicono di aver capito e di voler fare le espressioni da soli, uno
alla lavagna e gli altri sul quaderno, a turno. Un ragazzo dice di aver terminato l'espressione non
appena il professore ha finito di dettarla: è sbagliata e l'insegnante glielo dice con gentilezza.
Quando comincia a riguardarne alcune, molte sono sbagliate, così il professore dice a tutti di rifarla
insieme a lui e la scrive alla lavagna; molti concordano ad alta voce che hanno sbagliato e che lui (il
professore) la sta facendo bene. Un ragazzo propone di fare un'espressione più lunga, il professore
dice di no, che quella non entra nella lavagna: sembra una strategia per frenare l'entusiasmo degli
allievi, che forse è un po' eccessivo rispetto ai risultati. Ne svolgono un'altra e un ragazzo si offre
volontario per risolverla alla lavagna, visto che non ha capito; infatti la sbaglia e torna a posto
dicendo tranquillamente a se stesso e agli altri di non aver ancora capito. Il professore va a parlare
con la ricercatrice e alcuni ragazzi vanno ad ascoltare: dice che in area rurale incontra sempre
problemi, che non vorrebbe dirlo ma è per la scarsa qualità dell'insegnamento negli anni precedenti;
i ragazzi si mostrano dispiaciuti di essere “indietro” e Silvia Lelli afferma, nel suo diario, di non
aver mai visto un tale entusiasmo per la matematica.
Silvia Lelli definisce bella la lezione di matematica a cui ha assistito nella prima liceo di Palmarito:
per l'entusiasmo dei ragazzi nei confronti della materia, la dedizione dell'insegnante e la relazione
distesa e aperta tra gli allievi e il professore. La ricercatrice osserva, in particolare, forme di
interazione collaborativa guaranì adattate al contesto scuola, una relazione intergenerazionale
rispettosa dei ruoli ma paritaria e una distribuzione non competitiva delle competenze. Tuttavia,
nella lezione, come in tutti i curricula delle scuole guaranì, è assente la matematica guaranì, una
mancanza al livello della “cultura”, di cui la studiosa prova ad indagare, con difficoltà, i significati.
Infatti, se gli insegnanti e gli altri responsabili dell'educazione indigena non sanno neppure
dell'esistenza di questo tipo di matematica, i guaranì hanno ricordanza di una matematica “dei
nonni”, fatta di elenchi di nomi e immagini mentali diverse dai numeri, ma ne sostengono l'unitilità
oggi. Tale “povera” percezione di questa produzione culturale è senza dubbio da ricondurre per
l'autrice alla colonizzazione e all'educazione etnocentrica statale e religiosa. A tal proposito, viene
menzionata l'antropologa brasiliana Mariana Fereira, che evidenzia l'importanza dell'operazione
matematica della divisione nella vita dei popoli prevalentemente cacciatori e raccoglitori e mostra
che la percezione della difficoltà delle operazioni dipende dall'uso culturale che ne viene fatto nella
vita quotidiana. Un'altra riflessione antropologica ha messo in evidenza l'importanza dei diversi
significati che i termini “più” e “meno”, in matematica, assumono in contesti culturali diversi; nel
contesto indigeno, ad esempio, si verifica la necessità di comprendere il funzionamento del sistema
del debito innescato dagli “haciendados”, secondo il quale quanto “più” le persone lavorano tanto
“meno” guadagnano, che Ferreira descrive a proposito del gruppo indigeno Terana: i lavoratori
nella condizione di “peones” percepiscono un salario insufficiente per mantenere la famiglia e sono
così costretti ad accettare prestiti “concessi” dai “padroni”, come la possibilità di coltivare un orto
sulla terra dello stesso padrone per la propria sussistenza; questa eventualità è, tuttavia,
matematicamente impossibile dato l'orario della giornata lavorativa (dall'alba al tramonto) e fa sì
che il debito contratto, sempre crescente, possa essere saldato solo con altro lavoro, perpetuando la
relazione di dipendenza. La proposta pedagogica adottata nelle scuole indigene brasiliane studiate
da Ferreira, e alla quale essa stessa ha contribuito, si può definire “antropologicamente sensibile”,
poiché tiene di conto di queste realtà socioculturali e avviene secondo i principi dell'educazione
attiva: in queste scuole, la matematica indigena è stata mantenuta e inserita nei curricula accanto a
quella “occidentale”, a differenza delle scuole boliviane, dove, come abbiamo detto, i curricula
presentano esclusivamente forme di matematica adottate in Europa. Per appropriarsi del passaggio
dalla matematica guaranì a quella “occidentale”, lo “Mboarakuaguasu” ha creato negli anni '90 una
serie di neologismi che designano tutti i numeri e termini matematici, limitata a pochi termini base e
usata nelle prime classi delle elementari come strumento di passaggio in attesa che i ragazzi
imparino i termini spagnoli. Tale procedimento, da un lato, è una conseguenza della colonizzazione
ideologica eurocentrica operata dai responsabili dell'educazione guaranì nei confronti della cultura
locale e, dall'altro, costituisce un'appropriazione da parte dei guaranì di strumenti esterni ritenuti
utili e dunque inseriti nella propria cultura. Silvia Lelli definisce la matematica come un vero
strumento di “coscientizzazione”, in quanto aiuta i guaranì a comprendere lo stato di dipendenza
economica del “peonazgo”, a muoversi nelle questioni relative alla negoziazione e al mantenimento
delle superfici delle terre delle aree indigene (TCOs), a capire quando acquistare qualcosa
all'esterno della comunità e a controllare le paghe e i salari. L'entusiasmo mostrato dai ragazzi della
prima liceo rappresenta la sicurezza data dall'avere a disposizione uno strumento funzionale al
mantenimento di una condizione di libertà e al conseguimento di situazioni economicamente e
tecnologicamente migliori nel contesto attuale. Difatti, lo stesso entusiasmo a presente durante le
lezioni di uso del computer. La presenza dei computer nella comunità costituisce un'eccezione
interessante, poiché da un punto di vista socio-cognitivo i computer possono agire da “amplificatori
cognitivi” e possono moltiplicare gli accessi degli studenti di minoranza a quelle esperienze che
favoriscono una maggiore crescita intellettuale; tuttavia, come accade su scala globale, il problema
è l'equità di accesso a tali strumenti. Inoltre è evidente che le competenze acquisite durante le
lezioni di matematica e di uso del computer non sono ad oggi applicabili nelle comunità ruarali,
dalla quali, se si vuole coltivare la passione per esse, si è costretti ad emigrare. Questo solleva una
grande contraddizione: l'apprendimento della matematica e della “computaciòn” è un forte
strumento di “coscientizzazione”, ma allo stesso tempo crea il desiderio e la necessità di uscire dalla
comunità, fatto che va proprio contro le aspettative e le esortazione degli educatori, i quali
definiscono questo problema “una sfida”. Infatti, uno dei maggiori obbiettivi dell'APG e dello
“Mboarakuaguasu” è che, attraverso l'educazione, la società guaranì resista nel tempo, rafforzandosi
nella sua identità comunitaria rurale, in modo da evitare un'emigrazione di massa verso le zone
urbane, che comporterebbe una inevitabile proletarizzazione e un indifferenziato sfruttamento dei
suoi membri, data la qualità pedagogica non allo stesso livello delle scuole urbane. I direttori della
scuola, d'accordo con le politiche dello “Mboarakuaguasu”, si augurano che i primi diplomati di
Palmarito vogliano tornare a lavorare nella comunità come professori, di fatto unico sbocco
lavorativo possibile nelle comunità per i diplomati guaranì.

Letture “culturali” della letteratura


Diario di campo: TERZA LICEO DI PALMARITO LEZIONE DI LINGUA
Nella terza liceo di Palmarito, durante la lezione di Lingua, quella spagnola, gli allievi sono divisi in
quattro gruppi e devono rispondere per scritto a delle domande relative ad un pezzo di romanzo di
una scrittrice boliviana. Il romanzo parla di una donna che vive in una città e, a causa di problemi
che la tengono lontano dall'auomo che ama, si chiude in se stessa, allontanandosi da parenti e amici.
La domanda a cui gli allievi sono tenuti a rispondere è “quale può essere una via d'uscita da questa
situazione?”. Il gruppo costituito dagli allievi più anziani (trentenni circa) non comprende la
domanda e chiede spiegazioni al professore, il quale ripete quello che ha già detto senza poter
ricorrere al guaranì, dato che parla solo guarayo e castigliano; Silvia Lelli capisce che il contesto di
quel romanticismo-psicologismo è estraneo. Gli allievi continuano a non capire, ma l'avvicinarsi
della fine dell'ora li costringe a eseguire il compito affidandosi ai suggerimenti dell'insegnante. La
seconda domanda è “a chi nuoce questa situazione?”. Anche in questo caso il professore è costretto
a dare dei suggerimenti per la risposta, che a sua volta è già suggerita dal testo. Lavorano tutti
seriamente, tranne un allievo, di età media, che mostra chiaro disinteresse per l'attività (canta, gioca,
parla a voce alta ecc.), ma nessuno commenta il suo comportamento. Dopo la lezione, l'insegnante
dice alla ricercatrice che molto spesso gli allievi non comprendono la storia dei romanzi, nonostante
stia adottando, per questa terza liceo, un testo che corrisponde alla nostra seconda/terza media.
Aggiunge che la mancata comprensione è dovuta al fatto che i libri parlano di cose che non
accadono in quel contesto e chiede alla ricercatrice di portare un messaggio agli autori dei testi,
quello di prendere in considerazione la realtà delle comunità.
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Nel commento dell'autrice relativo a questo diario di campo si stabilisce che il professore parlando
di decontestualizzazioni mostra di conoscere il rapporto tra lingua e cultura, il fatto che, se la
competenza sociolinguistica non è condivisa tra scrittore e lettore, quest'ultimo non può
comprendere lo stato d'animo dei personaggi. Per di più, nelle società indigene, le manifestazioni
degli stati psicologici non sono intese come oggetti conoscibili a meno che non siano codificate in
linguaggi culturalmente significativi. L'effetto pragmatico di insegnamenti di questo tipo sembra
tradursi con atteggiamenti di incertezza o di obbedienza nei confronti del testo e dell'insegnante; la
ricercatrice si chiede quale possa essere l'effetto a lungo termine nella costruzione delle forme di
vita guaranì. A Palmarito gli allievi stanno negoziando all'interno della scuola impostazioni della
realtà che provengono dall'Occidente, cercando di costruire significati propri e posizioni sociali più
confacenti con la propria visione; Silvia Lelli dice che stanno costruendo la propria identità.
DA PAG. 282 A 295.
Attacchi pragmatici e attacchi armati al paradigma sciamanico.
Bartomeu Melià fornisce un'interpretazione più ampia sull'articolazione dei concetti di bene e di
male in relazione alla ricerca della “Terra senza Male”, spesso definita solo in termini mitologico-
religiosi, e collega ambiti di agentività che di solito vengono separati nelle scienze sociali
“occidentali”. L'aspetto mistico della fuga spirituale attraverso il cerimoniale è legato,
nell'interpretazione di Melià, ad un aspetto sociologico ed economico, quello della ricerca di una
nuova terra “buona” mai stata coltivata, quindi percepita in tutta la sua potenzialità economica;
questa visione, che collega il male alla mancanza di questo spazio, deriva da una dinamica innescata
dal colonialismo. Da questa analisi, che mostra come per i guaranì l'equilibrio avvenga tramite
un'integrazione dell'economia nella simologia, emerge il nesso politico tra l'ambito culturale del
mito, l'uso dello spazio naturale, la disponibilità di terra e le relazioni socioeconomiche locali
caratterizzate dalla reciprocità.
Nelle zone a contatto con l'evangelizzazione sono avvenuti conflitti politici tra “ipaye” (sciamani) e
missionari, i cui domini di competenza si scontrano sia sul piano spirituale che socio-politico. Non
mancano, infatti, critiche e ingiurie lanciate dai missionari agli “ipaye”; in particolare, il missionario
francescano Doroteo Giannecchini ne esprime una serie in una sua opera, di cui l'autrice cita un
pezzo che mostra la complessa relazione tra “ipaye” (sciamani), guerrieri, “mburuwicha” o
“cacique”, missionari francescani e coloni meticci. Il frammento descrive, dal punto di vista
dell'autore, la ribellione degli sciamani e dei guerrieri nei confronti di un “cacique” alleato con i
missionari, che, istigati dal demonio, sollevano la tribù contro di lui, costringendolo a fuggire dai
suoi alleati “meticci”. Il conflitto, interno ed esterno alla comunità, raggiunge il suo apice nelle
battaglie guidate dai “tumpa” o “tupa”, persone considerate semi-dei che assumevano il ruolo
temporaneo di leader politico-spirituali. I missionari attuano ciò che Silvia Lelli chiama “attacchi
pragmatici socioculturali”, degli atti linguistici che, perpetuati nel tempo, annullano l'informazione
veicolata dai concetti originali guaranì, che viene lentamente sostituita da una nuova interpretazione
che conferisce a questi concetti connotazioni cristiane; si tratta di un “intento di sottomissione
ideologica” del paradigma sciamanico attraverso paradigmi della conoscena occidentale. La
strategia è testimoniata da innumerevoli esempi, come la traduzione “missionaria” della stessa
parola “tupa”, fatta coincidere con “Dio”, ma che in guaranì significa “ogni divinità o essere
spiritualmente potente”; un altro esempio è costituito dalla parola “mbaekua”, paragonata al
“demonio”, e così classificata totalmente dalla parte del male; la parola che indicava il foglio per
scrivere è stata rimaneggiata in una parola molto simile che letteralmente si traduce con “pelle di
Dio”, con l'intento di impregnare l'alfabetizzazione di potere spirituale. L' “occupazione
ideologica”, materiale e armata del territorio guaranì da parte dei missionari cattolici e dei coloni
parte nel XVI secolo ed è caratterizzata da alcune tappe principali: nel XVII secolo francescani e
gesuiti deportarono dal Paraguay un gruppo di guaranì già convertiti affinché convincessero anche
gli altri a convertirsi; nel XVIII secolo l'intento di conquista si manifestò più apertamente e la
resistenza guaranì divenne più forte; dal 1715, con il rietro del Gesuiti, iniziarono le guerre
chiriguane contro la colonizzazione (occupazione delle terre e istituzione delle missioni), che
miravano sia al recupero dei territori che al recupero delle proprie forme di vita spirituali e culturali
(in questo senso la figura del “tupa” incarna sia le forze spirituali/culturali sia quelle politiche);
negli anni '20 i missionari-medici anglicani istallano nel territorio guaranì dell'Isoso i servizi di
salute e nel 1980, dopo l'ingresso della Croce Rossa Svizzera, è stato costituito il “Comité de Salud
Isoseno”. In merito a quest'ultimo punto, a far parte del Comitato sono stati invitati alcuni
“mburuwicha” e comunari formati alla maniera “occidentale” (e nessun “ipaye” o figura ad esso
correlata), i quali, però, si dimisero pochi anni dopo per il fatto che il Comitato era stato imposto
dall'alto, e non nato da esigenze della base. Gli stessi furono sostituiti da funzionari del tutto
estranei alle pratiche mediche; inoltre, il Comitato, per avere gli accessi ai finanziamenti, continua a
dichiarare la partecipazione delle comunità al programma, nonostante non garantisca lo sviluppo di
una politica di salute in accordo con la cultura e con le necessità del popolo. Talvolta, in alcune
occasioni, il sistema di salute occidentale e quello sciamanico si trovano ad interagire, ma la
relazione risulta totalmente asimmetrica: nonostante gli agenti di salute tradizionali sappiano che la
medicina occidentale non corrisponde al complesso dei problemi di salute della loro gente,
riconoscono la sua validità ed è per loro possibile intrattenervi rapporti, ma la medicina occidentale
chiude le proprie posizioni, mostrandosi assoggettatrice nei confronti della medicina tradizionale.
Così, la segretezza con cui quest'ultima viene praticata può anche essere vista come “reazione” nei
confronti degli agenti della medicina occidentale, ma non solo, in quanto essa è una caratteristica
intrenseca del paradigma sciamanico.
Un paradigma linguistico-costruttivo: sciamani come “costruttori di mondi”

Secondo gli antropologi Zollezzi e Lòpez lo sciamanesimo guaranì è un “sistema esplicativo” che
rende la realtà intelliggibile attraverso miti e costruzioni simbolico-culturali del passato e rende
possibile mantenere il controllo socio-politico e del patrimonio culturale. Silvia Lelli aggiunge che,
dato che tale sistema influisce sugli ambiti sociale, politico e identitario attuali, non è sufficiente
definirlo soltanto “esplicativo”, ma è necessario definirlo anche “creativo” e “costruttivo”. Difatti,
antropologhe come Manuela Carneiro e Joanna Overing, che hanno studiato il paradigma da vicino,
hanno definito gli sciamani “costruttori di senso” e “costruttori di mondi”. In particolare,
quest'ultima definizione, data da Overing, si riferisce al complesso sciamanico piaroa, che dichiara
di aver compreso solo dopo averlo interpretato con il paradigma filosofico di Goodman. Per
“costruttori di mondi” Overing intende agenti di una costruzione che avviene attraverso il
linguaggio del canto. Ogni canto è una “versione del mondo” che proietta la sua propria realtà
letterale e morale, mostrando gli effetti di costruzione della conoscenza e della realtà del linguaggio
degli sciamani. Nella filosofia di Goodman si parla di “versioni di mondi”, poiché per il filosofo i
“mondi” e le loro “versioni” (interpretazioni) coincidono, dato che ogni mondo è conosciuto e
costruito necessariamente in base ad ogni interpretazione (versione) di esso. Questo ragionamento
spiega perché tra linguaggio e contesti/mondi esista un rapporto costruttivo e perché esistano molti
mondi: le diverse versioni di mondi costruiscono, attraverso procedimenti linguistico-costruttivi
simili, mondi diversi che possono legittimamente coesistere, come ad esempio i mondi costruiti
nelle versioni del paradigma sciamanico e i mondi costruiti nelle versioni del paragidma
occidentale. Da un lato, Goodman afferma di poter chiamare “verità” soltanto le descrizioni di ciò
che chiamiamo “realtà”, le “versioni di mondi”; dunque un giudizio di verità può riguardare
soltanto i sistemi di descrizione e non ciò che è descritto, poiché di questo non ne abbiamo
interpretazioni dirette ma sempre mediate da interpretazioni nostre o altrui. Dall'altro, però,
considera “reali” anche i mondi che suggeriscono le versioni/interpretazioni umane, sebbene di essi
possiamo conoscere solo versioni. Secondo Goodman ciò che può essere definito “vero” può
appartenere solo all'ambito del linguaggio e può essere definito solo in base a un processo di
“correttezza di adattamento” di una “versione del mondo” ad una particolare “cornice di
riferimento”. In quanto alla verità linguistiche, Goodman mette in crisi alcuni assunti oggettivisti
del sistema di pensiero occidentale, come la credenza in una corrispondenza oggettiva tra fatti e
parole. Credere in una corrispondenza oggettivista, infatti, nasconde i rapporti indessicali e
pragmatici tra fatti (mondi) e parole (versioni di mondi/cornici di riferimento) e fa spesso dirottare
verso improbabili corrispondenze materiali che impediscono di comprendere gli effetti performativi
dei linguaggi degli sciamani, i quali, attraverso di essi, danno forma, influenzano, modificano i
contesti/mondi. Tramite i propri linguaggi della cura, gli sciamani costruiscono pragmaticamente
anche i processi di cura, con effetti pragmatico-simbolici che si verificano nell'ambito fisico. Anche
Baray fa riferimento al processo degli effetti pragmatici delle parole e sostiene che se il popolo
capisse tale procedimento potrebbe sollevarsi dallo stato psicologico di oppressione, con
conseguenze anche in ambito politico. Il rapporto pragmatico-linguistico tra parole e fatti
assomiglia a quello che Goodman ha definito “naturalismo nascosto”. E' diverso perché Goodman
rifiuta di occuparsi di realtà diverse dalle parole, ma è somigliante perché secondo lui ''le versioni
dei mondi'' influenzano davvero l'organizzazione dei ''mondi reali/la vita di tutti i giorni''. Questo
'Naturalismo' ammette innanzitutto l'esistenza materiale dei 'mondi', dei fatti di tutti i giorni,
condizione che permette appunto di darne più visioni, ma ammette anche che tali versioni possano
essere più o meno corrette a seconda della loro pertinenza alla 'cornice' cui fanno riferimento. In
questo caso la cornice di riferimento delle versioni dei mondi è quella socioculturale del paradigma
sciamanico guaranì.
Secondo l'autrice l'approccio goodmaniano 'permette di comprendere le soluzioni dello sciamano
come un buon esempio di ordine e di conoscenza e il funzionamento del lavoro sciamanico di
cultura e di protezione si basa sulla precisione e sul rigore.
Come afferma Canani, nel paradigma sciamanico guaranì, la relazione con la medicina occidentale
è praticabile: esso può includere elementi nuovi. L'inequità dei rapporti tra paradigma sciamanico e
paradigma 'occidentale scolastico' dunque non sono incompatibilità dovute ai paradigmi in sé, ma al
fatto che la versione occidentale dominante è da secoli 'assoggettatrice'

Sciamani nella scuola: il sistema-mondo nel mondo locale


Silvia Lelli, al fine di fornire un esempio diverso del rapporto tra paradigma scolastico e paradigma
sciamanico rispetto alle esperienze dei guaranì boliviani, cita, nel suo libro, il caso del popolo
Maxacalì, illustrato dall'antropologa Myriam Martins Alvares. Il popolo, un gruppo indigeno
brasiliano del nord est dello Stato di Minas Gerais, mostra una forte consapevolezza dell'importanza
del proprio sistema culturale. Difatti, i Maxacalì hanno inserito il sistema scolastico nella propria
“versione del mondo”, tanto che sono gli stessi sciamani ad aver assunto il ruolo di insegnanti, che
perdipiù, trattano contenuti scelti da loro stessi. Le lezioni, che non prevedono l'uso della parola
scritta, ma piuttosto il ricorso al canto, a danze rituali e a narrazioni di miti, sono relative soprattutto
all'insegnamento dello sciamanesimo, della cosmologia e dell'ambiente. Di fondamentale
importanza sono le lezioni di canto, che si svolgono nella Casa degli Uomini per i bambini e nelle
case domestiche per le bambine, ma sempre all'interno dell'orario scolastico, a causa di una
particolare ragione: gli spiriti sono canti e, dopo la morte, ogni persona si trasforma in canto, ma
affinché si realizzi il destino di ogni persona è necessario un lungo processo di formazione che si
compie attraverso il canto stesso. Queste opzioni pedagogiche ci mostrano come sia il contesto-
scuola a venire modificato dal popolo e ad essere inserito all'interno del paradigma sciamanico, e
non vicersa. Il popolo ha assunto una forma scolastica differenziata, ammessa dalle politiche
federali brasiliane, negoziando i contenuti, le forme di insegnamento e di frequenza e deformando
ampiamente, in questo modo, il “default” della struttura secondo le proprie esigenze culturali e
sociali. Questa strategia di appropriazione, molto diversa da quella dalla maggioranza delle
comunità guaranì, che o amette la scuola all'interno delle comunità modificandone gradualmente il
“default” o la rifiuta, permette dunque di negoziare forme e contenuti esterni e di rileggerli secondo
la “cornice di riferimento” propria dei Maxacalì, che riescono a costruire nuove “versioni di mondi”
senza perdere il proprio paradigma.
RIFLESSIONI
Tra agentività e strutture: tras-formazioni della cultura e della scuola
Il percorso etnografico attraverso alcuni eventi linguistici in atto in contesti scolastici guaranì
boliviani mette in evidenza agentività che costruiscono assi culturali, relazioni sociali, identità,
forma di conoscenza, relazioni di potere e mostra come una parte importante di tale costruzione
avvenga in contesti educativi e socioculturari legati alla scuola nell'intersenzione tra la dimensione
situazionele e quella istituzionale-strutturale. In tale intersezione hanno luogo interazioni faccia a
faccia nelle quali le persone negoziano quotidianamente soggettività, significati, poteri e
costruiscono “versioni del mondo” che Silvia Lelli ha sintetizzato nel concetto filosofico di
“paradigma”. Nella società guaranì boliviana parlare di “scuola” significa parlare di una relazione
interculturale assimetrica e complessa, che si sviluppa tra il “paradigma sciamanico” e il
“paradigma occidentale”, i quali costruiscono in maniera diversa conoscenza e relazione. Le forme
di rapporto tra i due paradigmi sono visibili nelle interazioni tra le persone, poiché è qui che le
agentività danno forma ai contesti quotidiani, incorniciati da contesti simbolici e concreti più ampi.
Sebbene i due paradigmi si sviluppino principalmente separatamente, essi talvolta si
sovrappongono. Nella scuola guaranì boliviana sono visibili soltanto poche tracce del paradigma
sciamanico e tale limitata sovrapposizione tra paradigma scolastico e sciamanico appare costruita
tra una Riforma Educativa che attualmente ammette relazioni partecipative nella scuola e le forme
di relazione sociale partecipativa guaranì. Queste ultime appaiono “culturalmente resistenti”: hanno
resistito a circa cinque secoli di colonizzaizione e sono visibili nelle agentività che costituiscono la
“struttura sociale” delle comunità, realizzata a livello pratico, simbolico e politico. Le forme di
interazione cooperativa attive nella scuola costituiscono una categoria “fuzzy”, poiché non sono
accompagnate da pratiche o forme di pensiero specificatamente sciamaniche, ma vanno comunque a
modificare il modello-scuola occidentale, formando localmente un modello nuovo, peculiare della
scuola guaranì boliviana, che in parte riforma, attraverso gli studi antropologici, anche il modello in
atto in Occidente. Diversamente, le forme del paradigma sciamanico che appaiono
incommensurabili con quelle ammesse nel paradigma scolastico sono escluse dai contesti-scuola: se
vi entrano, fuori programma, assumono la forma di vere e proprie irruzioni (come il rifiuto della
danza nel programma scolastico) incomprese da chi non adotta il paradigma sciamanico come
cornice di riferimento ma protette da ulteriori interferenze occidentali.
Lo sviluppo separato dei due paradigmi
Un certo grado di separazione tra culture locali e culture della scuola è sempre nel mondo. Più alti
sono i gradi di resistenza e di allontanamento del “default”, più bassi sono gli standard di
rendimento riferiti a uno standard globale calcolato dal punto di vista dei paesi industrializzati,
minori sono le possibilità di lavoro qualificato per chi frequenta. Ciò riguarda in particolar modo le
scuole indigene americane, la cui distanza dallo standard è notevole per motivi politici e culturali.
La situazione della popolazione guaranì si colloca appieno in questo quadro e ciò non indica una
mancata integrazione nel sistema socio-capitalista, ma piuttosto un'integrazione con determinate
caratteristiche di subalternità. La scuola indigena boliviana appare per molti aspetti un dispositivo al
servizio di un sistema economico svantaggioso per i cittadini: induce a emigrare dalle comunità
rurali verso le città, indirizzando a riprodurre il modello di consumo occidentale e contribuendo
all'inserimento delle persone al gradino più basso del suo sistema economico; un risultato che
contrasta apertamente con le politiche di “rafforzamento culturale” interno alla società guaranì.
L'insuccesso scolastico e la conseguente posizione marginale nel sistema socio-economico
capitalista inducono ripensamenti relativi alla scuola e ai modi possibili di partecipare alla
“globalizzazione” senza andarne ad occupare i gradini più bassi. Ciò che nel paradigma occidentale
è chiamato “globalizzazione” non è affatto la diffusione di ciò che “esiste”, bensì di soli alcuni
valori, azioni e idee inscritti nel paradigma socioeconomico neoliberalista, che diffondono solo
questo potere. Tale ripensamento avviene sia nelle famiglie e nelle comunità sia nelle istituzioni
guaranì, ma le due forme non vanno nelle stesse direzioni, costruendo disomogeneità: le istituzioni
guaranì sono spesso accusate di aver interiorizzato troppo il modello occidentale, mentre le strategie
meno pianificate di resistenza o di appropriazione di elementi occidentali mostrano le più varie
soluzioni. In ogni situazione locale attraversata da un flusso diffuso attraverso canali di origine
coloniale, l'interazione tra modelli culturali e educativi socio-familiari e modelli scolastici produce
nuovi particolari flussi culturali, culture scolastiche e culture sociali che non vanno solo nel senso
immaginato dai sostenitori del sistema economico imposto dall'Occidente. Uno di questi flussi di
agentività, che modifica la visione delle comunità, è individuabile all'interno della scuola, dove
domina il paradigma occidentale, ed è costruito dalle relazioni tra allievi ed educatori e dalle loro
interpretazioni della scuola e dei suoi contenuti. Un altro flusso è invece identificabile all'esterno
della scuola ed è rappresentato dal corpus di conoscenze costruite all'interno del paradigma
sciamanico e dalle interpretazioni della scuola e dei suoi contenuti secondo questa prospettiva; esso
si esplica nelle relazioni tra i membri delle comunità e gli insegnanti. Entrambi i flussi sono
caratterizzati dalla tensione tra i due paradigmi: se un paradigma domina in un contesto non
significa che esso coincida con quel contesto, poiché i due paradigmi si sovrappongono sia in
misura diversa nei contesti scuola e comunità sia nelle persone, che possono usare l'uno o l'altro
come cornici di riferimento a seconda dei contesti o forme ibride di entrambi. Nella scuola, dove il
paradigma sciamanico è quasi assente, la tensione tra paradigmi si sviluppa in parte nelle forme di
relazione cooperativistiche, in parte nella tensione tra le forme cooperativistiche e quelle più
utilitaristiche, individualiste e autoritarie, previste dal “default” occidentale. A livello psicologico-
cognitivo, le interazioni tra paradigmi si esplicano all'interno di gruppi e di persone che adottano
come cornice di riferimento entrambi. Sia nelle comunità che nelle scuole, il rapporto tra i due
paradigmi è decisamente sbilanciato: nelle scuole, nella scelta e nell'elaborazione dei contenuti,
domina il paradigma occidentale (i contenuti sciamanici sono assenti), mentre nelle comunità
domina il paradigma sciamanico. La tensione tra i due paradigmi è evidente principalmente nella
scuola e si risolve netta separazione fisica, tramite recinzioni e fili spinati, tra i due ambienti e tra le
persone, nella non- integrazione degli insegnanti nella comunità in cui lavorano e nelle tensioni tra
questi e gli abitanti. Ma, anche nelle comunità in cui la scuola è stata ufficialmente accettata, le
agentività delle persone operano aggiustamenti delle sue strutture, costruite nel paradigma
occidentale. Questo lavoro di reciproca modificazione tra agentività e strutture e tra agentività
costruite secondo paradigmi diversi costituisce quelle “strategie di convivenza” linguistico-
comportamentali tra allievi e tra allievi e insegnanti, che spesso contrastano con il modello di
relazione autoritaria e di creazione di una personalità individualista implicito nell'educazione
scolastica “standard”, costringendo ad aggiustamenti. Tali strategie e aggiustamenti producono il
contesto scuola-guaranì e avvengono nel quadro che si estende dalle strutture partecipative della
Riforma Educativa alle agentività spontanee delle persone, in parte in aderenza con il modello, in
parte in contrasto con esso, ma in maniera non ufficiale. Il modello di formazione degli insegnanti
indigeni esclude il paradigma sciamanico dalla scuola boliviana, anche attraverso l'esclusione dei
contenuti guaranì dai programmi: questi, nel paradigma sciamanico, devono necessariamente essere
affiancati a delle pratiche, mentre il modello scolastico prevede la decontestualizzazione. Gli
insegnanti stessi agiscono contemporaneamente attraverso “due flussi culturali”: uno
“occidentalizzante”, che, ad esempio, decontestualizza danze sciamaniche demolendo la cultura
vivente; e uno di derivazione sciamanica, che permette relazioni cooperative in misura molto
maggiore rispetto a quelle previste dal modello occidentale (modifica gli orari, le frequenze,
permette un'ampia collaborazione e l'aiuto nello svolgimento dei compiti in classe, dà molto spazio
ai lavori di gruppo, inoltre le valutazioni sono date anche in base alla relazione con lo studente e
con la famiglia). Alcune agentività degli allievi che contrastano con il modello scolastico si
mostrano più vicine al paradigma sciamanico, nonostante vadano attenuandosi con lo scalare di
grado nelle classi e dipendano molto dalla permissività degli insegnanti: il rifiuto di eseguire le
danze a scuola e i compiti a casa, il silenzio di fronte a domande dal loro punto di vista mal poste.
Le agentività dei genitori che osteggiano il paradigma scolastico si manifestano, invece, nel non
presentarsi alle riunioni e ai seminari, nel non mandare i figli a scuola o nel rifiutarsi di apportare
ufficialmente modificazioni alle norme e agli orari scolastici ma modificandoli di fatto nel
comportamento quotidiano. Questi eventi non sono altro che strategie di relazione e di co-
costruzione socioculturale quotidiane e politiche che modificano il modello di costruzione della
conoscenza imposto dall'altro sia nel micro-contesto situazionale sia nel lungo termine, influendo
sulle “strutture”. I prodotti di tale “lavoro sociale” sono trasformazioni socioculturali: la scuola
guaranì boliviana trasforma la società guaranì e la società guaranì trasforma la scuola. I modelli di
costruzione socioculturale comunitaria delineano, attraverso la scuola, una nuova “comunità
linguistico-culturale guaranì” che le persone costruiscono di giorno in giorno. Questa nuova
comunità linguistica è attualmente visibile in alcune scuole, non è legata alla lingua guaranì e si
crea anche quando all'interazione partecipa un non guaranì, come nel caso della prima liceo di
Palmarito. Qui la relazione è “interculturale”, condotta secondo la modalità “cooperativa ibrida” (tra
pedagogia partecipativa occidentale e co-operatività del “nande reko”) e riguarda un contenuto
culturale occidentale, la matematica-non-guaranì: mostra un processo di appropriazione attiva, non
subita, di un contenuto culturale non-guaranì, tramite una modalità relazionale di “derivazione
guaranì”, che sarà usato per difendere i diritti alla terra e a pretendere un salario equo. La relazione
tra modalità cooperative guaranì e modalità ammesse dalla Riforma è circolare, dialettica: se è vero
che nella struttura scuola sono le seconde che permettono le prime, è altrettanto vero che lo Stato è
stato costretto a varare una Riforma che ammettesse tali modalità sotto la pressione di richieste
almeno vicine a quelle indigene.

Paradigmi poteri: strumenti politico culturali


Oltre alle modalità “cooperativa ibride”, riconducibili “alla lontana” al paradigma sciamanico, non
appaiono nella scuola guaranì altre modalità derivate da tale paradigma. Tale assenza è data per
scontata e dunque viene discussa. Le uniche espressioni di una mancata discussione sono forse gli
attriti tra comunità e scuola. Tuttavia, sviluppare il paradigma sciamanico fuori dalla scuola,
separatamente dal paradigma scolastico-occidentale, può delinearsi come una scelta che permette
una sua produzione più indipendente. Lo squilibrio del rapporto tra i due paradigmi deriva dal fatto
che la visione occidentale si abbina meglio ad un potere economico, tecnologico, politico e di
rappresentazione di se stesso e dell'altro: ciò permette all'Occidente di costruire e di imporre in tutti
gli ambiti, in maniera circolare, la propria come la “migliore” cornice di riferimento. Tale squlibrio
si è stabilito nel processo di colonizzazione, nel quale il paradigma sciamanico è rappresentato
come inesistente, negativo e marginale, e ad oggi sembra riprodurre lo stesso rapporto di potere del
processo di colonizzazione. Secondo molti studiosi post-moderni, l'Occidente produce gli oggetti
del proprio discorso: ha inventato l'immagine della propria modernità attraverso la rappresentazione
contrastiva tra “l'Occidente e il Rimanente” e su di essa costruisce la propria superiorità globale
rispetto alle rappresentazioni di altre forme di vita. Nonostante le forme di vita inscritte nel
paradigma sciamanico non siano, in questo momento storico, abbinate a poteri tecnologici,
economici e politici, si tratta di un paradigma in atto: come ogni linguaggio, dà forma, produce gli
oggetti del proprio discorso e lo fa attraverso parole, suoni, immagini, corporalità, in relazioni
faccia a faccia e in contesti lontani dalla visibilità occidentale. Secondo l'autrice, il fatto che nella
scuola guaranì non vi è quasi nessuno spazio per espressioni e performance inscritte nel paradigma
sciamanico rivela la cornice evoluzionista e colonialista del rapporto tra società guaranì e scuola.
Dunque, la cultura guaranì è oggi esclusa dalla scuola e ciò non è simmetrico con la situazione nel
contesto occidentale, caratterizzata da una continuità culturale almeno relativa tra interno ed esterno
della scuola. Tale situazione non dà buoni risultati poiché facendo a meno dell'esposizione alla
cultura si fa a meno anche dell'insegnamento che essa dà a vivere e interagire in un determinato
ambiente sociale e naturale. Tuttavia, assistiamo ad un paradosso: nonostante il paradigma
sciamanico venga escluso dalle scuole, esso entra “silenziosamente” attraverso le cognizioni e le
socializzazioni acquisite prima e fuori dalla scuola, nelle famiglie e nelle comunità, dagli allievi e
dagli insegnanti indigeni.
Questo paradosso ha effetti culturali e sociali a breve e lungo termine sull'apprendimento, sulla
costruzione di conoscenza, sulla costruzione della relazione sociale tra insegnanti, allievi, comunari
e “karai” e sulla costruzione dei rapporti con il potere. Le forme e i contenuti del paradigma
culturale occidentale vengono acquisiti ed elaborati tramite gli strumenti cognitivi costruiti con
forme e contenuti del paradigma sciamanico, poiché è con questi che si comunica e si ragiona a
scuola. Questo accade in virtù del fatto che nuove logiche e nuovi contenuti possono essere inclusi
in un sistema di pensiero solo se sono leggibili entro paradigmi noti, a partire dai quali si possono
avviare processi di elaborazione e di appropriazione e si può produrre attivamente nuova cultura. Il
potere (dell'identità e dell'autostima, di costruire visioni attive e soggettive relativamente
indipendenti da quelle imposte) è dato dall'usare agevolmente i propri strumenti cognitivo-
concettuali. Ciò che ostacola l'accesso al potere nella sfera di influenza del paradigma scolastico-
occidentale per i guaranì è la mancanza di continuità tra strumenti pre- o extra-scolastici e strumenti
richiesti a scuola: questo rende più difficile l'apprendimento, favorendo una preparazione carente
nei contenuti e nella costruzione di autostima e un rendimento scolastico inferiore a quello standard.
Secondo alcuni l'intercultura della scuola guaranì non è di proposito “vera intercultura” e questo al
fine di riprodurre lo stato socio-economico subalterno della popolazione indigena e di non dargli
vero potere. In questo quadro, in cui non sono concesse uniformazioni socioculturali, il fatto che il
paradigma sciamanico si sviluppi silenziosamente a scuola e separatamente da essa sembra qualcosa
di non casuale, che porta verso risultati minori di quelli immaginati. La separazione del paradigma
sciamanico dal contesto scuola permette uno suo sviluppo indipendente dal paradigma occidentale;
questa indipendenza, sebbene relativa, è sufficiente a impedire la prevedibilità dei suoi esiti.
L'imprevedibilità del paradigma, costruita dentro e fuori dalla scuola, fa sì che gli occidentali,
compresi i “karai” locali, abbiano pochissimo accesso alla cultura guaranì attuale, il cui discorso ha
luogo esclusivamente in guaranì e, secondo alcuni, non è esprimibile in altre lingue. Dall'altro lato,
la parte di cultura guaranì attuale relativamente accessibile ai non guaranì si inscrive e costruisce un
ulteriore paradigma, derivante dell'interazione tra il paradigma sciamanico e quello occidentale:
quello del “malinteso reciproco”. Emerge un altro aspetto del paradosso dell'Educazione
Interculturale Bilingue: essa può essere definita “interculturale” (nel senso che vi è un “incontro tra
culture”), come anche l'incontro tra paradigma occidentale e paradigma sciamanico iniziato cinque
secoli fa, ma non nel senso previsto dai suoi promonitori; difatti risultati scolastici stanno andando
in sensi molto diversi da quelli pianificati dalle istituzioni ufficiali guaranì, dalle agenzie
transnazionali di sviluppo e dallo Stato. Tale imprevedibilità è da un lato negativa, in quanto non
conduce al successo scolastico, non inserisce i giovani a un livello accettabile nel sistema
dominante, non porta l'arricchimento culturale e identitario che le istituzioni guaranì e le agenzie di
sviluppo perseguono; dall'altro lato l'imprevedibilità presenta anche aspetti positivi: l'insuccesso
scolastico può essere usato attivamente sia come strategia di resistenza e di rifiuto sia come modo di
perseguire uno sviluppo indipendente dal paradigma evoluzionista occidentale. Lo sviluppo
separato e parallelo dei due paradigmi non è ritenuto negativo dagli studiosi che si sono occupati dei
gruppi la cui educazione scolastica avviene entro cornici culturali e sociali diverse da quelle
d'origine: in tali contesti, gli allievi imparano due lingue, due linguaggi, e imparano a vivere con più
cornici di riferimento; il silenzio relativo al paradigma sciamanico assume così un aspetto positivo
per i guaranì, i quali riescono a sfuggire alle possibilità di pianificazione-gestione occidentali. Il
paradigma sciamanico è, dunque, performativo (produce gli oggetti del proprio discorso): la “cura
individuale e insieme collettiva” elaborata in questo paradigma costituisce, ad esempio, un potere
politico “interno” alla comunità, che non si interfaccia direttamente con il potere politico dello
Stato, ma esiste e spiega la sua azione in altre forme, ad esempio “sabotando” i progetti di sviluppo
e la scuola. La non coincidenza tra questa identità e quella pianificata dalle istituzioni guaranì si
manifesta negli attriti tra scuola e comunità e si delinea sul piano della gestione del potere (da una
parte il potere della leadership guaranì, che ha una formazione scolastica, che crea il linguaggio
condiviso con le forme di potere esterne alla comunità, che continuano così ad essere introdotte al
suo interno, e dall'altra il potere della gente, costruito nel paradigma sciamanico, che non si
interfaccia con il potere esterno, ma che spesso contrasta il potere intermedio degli insegnanti e
delle istituzioni guaranì). La scelta, da parte delle istituzioni guaranì, di sviluppare i propri modelli
culturali separatamente dalla scuola risulta strategica, in quanto permette di inserire nel linguaggio
quotidiano elementi del discorso mitologico-sciamanico non decontestualizzati dalla scuola e di
trasformarli in strumenti politici (ciò accade ad esempio nel discorso sugli “iiya”, “signori
dell'acqua”, a Palmarito). I collegamenti tra mito ed eventi attuali mostrano la vitalità e la
potenzialità politica del paradigma sciamanico, che include concetti e idee provenienti da altri
paradigmi nella propria forma di vita, in modalità di ibridazione che non si configurano come
adeguamenti a forme esterne, ma come “appropriazioni”, dunque inserimenti di elementi; un
esempio ne è la lotta contro la privatizzazione dell'acqua o l'inserimento di alcuni elementi della
medicina occidentale congiunti a quella sciamanica (quest'ultima congiunzione non è possibile nella
scuola, che situa i suoi programmi all'interno del paradigma medico e pedagogico occidentale,
secondo il quale non è possibile un'interazione tra i due paradigmi ma un'esclusione dell'uno o
dell'altro, mentre lo è nel paradigma sciamanico). L'interazione dei due paradigmi appare infatti
possibile lontano dalla scuola, come mostra l'esperienza a Tetayapi, la comunità senza scuola, dove
lo sciamano interagisce con gli operatori di salute, mostrando un assorbimento di alcuni elementi
del paradigma scolastico-occidentale nel paradigma sciamanico, senza che quest'ultimo venga
annientato.
Postmodernità e “potere” del paradigma sciamanico
Il rapporto tra potere e paradigma sciamanico sembra condividere alcune caratteristiche con il
paradigma post-moderno; ad esempio, l'importanza assunta dalla parola, dal linguaggio e dalla sua
capacità costruttiva nel paradigma sciamanico è una qualità post-moderna. Tale importanza si
esplica nella capacità di alcune persone, in particolare degli sciamani, di modificare la realtà
attraverso le parole, di “fare cose con le parole” collegandosi al potere, ad esempio curare gli
individui. Il paradigma sciamanico stesso è un linguaggio e, come ogni sistema linguistico, presenta
potenzialità costruttive, pragmatiche e cognitive. La stessa consapevolezza dell'esistenza di tali
possibilità linguistico-costruttive è a sua volta uno strumento di potere poiché dà la possibilità di
individuare “rappresentazioni” e distinguere ad esempio tra “rappresentanti politici di un popolo” e
“costruttori di rappresentazioni”, che non lo rappresentano. Un'altra caratteristica post-moderna del
linguaggio nel paradigma sciamanico è la multivocalità, ossia la capacità, caratteristica dell'arena
politica, di convogliare molte voci, anche discordanti, presenti in un contesto e ricomporle nel
“discorso individuale”, nonché la possibilità del discorso di essere allo stesso tempo individuale e
collettivo. La multivocalità del paradigma sciamanico non si limita all'espressione dei contenuti, ma
si estende ai mezzi che li veicolano, i diversi linguaggi con cui si esprimono diverse connotazioni e
denotazioni, l'intertestualità. L'intertestualità, la cui forza è saper intrecciare simultaneamente
diversi linguaggi individuali e collettivi, svolge varie funzioni: orchestra i diversi linguaggi (della
narrazione, del canto, del suono, del movimento, della danza), codifica a livello cognitivo la
corporalità e organizza occasioni sociali per condividere i messaggi. I riti del sogno e degli stati di
trance, ad esempio, non comprendono logiche solo razionali. Il paradigma sciamanico, dal punto di
vista occidentale, sembra esprimersi in una frammentazione deliberata e ricomporsi in un
“montage” (“montaggio”) multivocale e intertestuale imprevedibile disorientante, che non permette
il controllo del paradigma sciamanico; fatto che spiega l'accanimento storico-politico-religioso
contro di esso. Nella capacità di convogliare efficacemente più voci anche tra loro contrastanti, il
“montage” ha il potere di costruire una base di consenso ampia e può fornire risposte senza ridurre
troppo le domande, includendo le logiche contraddittorie dei casi empirici della vita.
L'assemblaggio di logiche diverse ha il potere di decostruire la riduttiva razionalità unica ammessa
dal paradigma dominante e di affermare l'esistenza di altre razionalità, di “razionalità al plurale”. Il
lavoro politico coloniale di circoscrizione e delegittimazione del pensiero sciamanico sembra
consistere nel cercare di mantenere tale temuta possibilità delegittimante all'interno delle comunità
linguistiche in cui esiste, delimitandone la diffusione all'esterno e introducendo al loro interno flussi
di pensiero occidentale. La “frammentazione deliberata” del linguaggio sciamanico è anche quella
che gli permette di includere elementi provenienti da altri paradigmi senza rinunciare alla propria
struttura, come accade nel caso di elementi religiosi, matematici o medici. Le attività in cui svolgere
la propria parte, oltre che utile, è anche significativo e socialmente coesivo, quali i riti, il motiro, le
assemblee ecc., hanno sia significato identitario che potere politico.
Tra “Modo di essere” e “Cultura”
Gli oggetti del paradigma sciamanico sono performance, rappresentazioni, versioni e mondi che in
questo momento storico costruiscono poteri che si attuano quasi esclusivamente in relazioni faccia a
faccia; molti di questi oggetti sono disseminati in Occidente, ma non sono legati al paradigma del
sistema politico ed economico dominante. Lo squilibrio tra i due paradigmi è spesso riprodotto da
istituzioni occidentali, in programmi talvolta occulti talvolta palesi, attraverso la scuola o progetti di
sviluppo che spesso forniscono inconsapevolmente il luogo per interazioni inscrivibili nel
paradigma evoluzionista. In questa complessa situazione esiste la convinzione diffusa che
l'educazione di una società debba basarsi sulla cosiddetta “propria cultura”, convinzione che però
appare in-formata da scarse conoscenze della dinamicità, della complessità delle culture “non-
occidentali” e delle interazioni tra queste e i poteri coloniali. Difatti, l'idea di un rispetto e di
un'utilità delle culture indigene assume termini molto decontestualizzati indicati dalle convenzioni
internazionali di cooperazione e produce spesso risultati e relazioni insoddisfacenti. Secondo Silvia
Lelli, come affermano altri studiosi, bisognerebbe “sbarazzarsi del concetto di cultura come termine
chiave di un discorso alienante” e recuperarlo come concetto di potenziale culturale e socio-politico.
Le filosofie e le modalità di costruzione della conoscenza e delle forme di vita inscritte nel
paradigma sciamanico sono state spesso ignorate, non riconosciute, ritenute scomparse o distrutte,
ma è stato necessario prenderle in considerazione perché emergono a livello della rivendicazione
politica e mettono in crisi l'applicazione e il funzionamento del modello educativo scolastico
europeo. Esse non sono state riconosciute perché il riconoscimento “culturale” richiede anche un
riconoscimento concreto, politico-economico e poi perché il concetto stesso di “filosofia” è
eurocentrico e fatica a riconoscere concetti di filosofia diversi da se stesso. Per un occhio
occidentale le filosofie inscritte nel paradigma sciamanico non sono di facile comprensione: esse
lavorano per il mantenimento di un patrimonio sacro-storico-naturale che include l'essere umano e
non separano la simbologia dalla fisicità, dalla corporalità, concetto base di tale paradigma.
L'esperienza “embodied” (“incorporata”) consiste in quelle tecniche del corpo, nonché linguaggi
espressivi, processi costitutivi della persona, atti fisici legati alla coscienza, che collegano
l'individuo all'ambiente, al gruppo. La “filosofia incorporata”, non decontestualizzata, non astratta
dalle pratiche si può collegare alle osservazioni di Rosaldo, Hill e Irvine sulla definizione di “atto
linguistico”: quando esso è attuato in paradigmi non occidentali non indica stati psicologici
interiori, ma relazioni sociali, ricollegandosi ad una “corporeità”, ad un'esistenza fisica
nell'ambiente che vede l'azione individuale sempre in funzione di quella sociale. Esiste dunque un
rapporto tra decontestualizzazione e pensiero utilitarista-individualista-occidentale: un'azione
decontestualizzata induce ad adottare forme di vita competitive, individualiste e utilitaristiche;
mentre un'azione contestualizzata, più vicina alla sensibilità corporea delle azioni nel contesto, è più
legata alla sperimentazione dell'efficienza di un'azione collettiva. È da questa differenza che si
creano infelici interazioni educative o addirittura infelici relazioni socioeconomiche, come l'uso
della manodopera indigena o la vendita di terra da parte di comunità indigene alle multinazionali.
Nei concetti che vengono tradotti secondo un'approssimativa visione occidentale stanno le ragioni
per le quali i progetti e l'intercultura spesso non funzionano. Di queste forme di costruzione della
conoscenza e della relazione con l'ambiente sociale e naturale ha iniziato ad occuparsi anche il
mondo occidentale, nella necessità di ricostruire le Ecologie Culturali locali, dopo aver esportato
nel mondo il suo modello “cultura”. L'autrice sostiene che già dalla semplice osservazione della
differenza etimologica tra il concetto di “cultura” (paradigma occidentale) e il concetto di “nande
reko” (paradigma sciamanico guaranì) si evidenzino due processi diversi di sviluppo socioculturale.
Il concetto occidentale di “cultura”, dal participio passato del verbo “colere” (“coltivare”), è basato
sul legame con la coltivazione della terra, rivelando una costruzione socioculturale basata sulla
coltivazione-agricoltura e su strutture sociali costruite a partire da questa; secondo alcuni studiosi la
cultura costruita in un'ambiente coltivato non è adatta all'esportazione ma piuttosto alla sedentarietà.
La logica della “cultura” fatica a compredere costruzioni estranee al proprio paradigma dominante
(ad esempio categorizza come inferiore il concetto di “corporeità del sapere” rispetto a quello
astratto) e si sviluppa nel senso di un allontanamento dall'ambiente e dalla natura, implica piuttosto
una sua manipolazione, modificazione, deforestazione, addomesticamento, la creazione di confini,
di proprietà private ecc., rivelandosi distruttiva nelle zone tropicali e amazzoniche. Diversamente, il
concetto guaranì di “nande reko”, impropriamente tradotto “cultura”, significa qualcosa del tipo
“nostro modo di essere” ed è un complesso di termini che esprime dinamicità e non pone l'enfasi
sulla processualità, sulla modalità dell'essere. “Nande” è il pronome personale noi/nostro; “reko” è
composto da due morfemi: “re”, che significa “relazione locale che esprime il contatto che risulta da
un movimento verso un oggetto” (per, con, verso, in direzione di ecc.), e “ko”, che è un rafforzativo
delle affermazioni. “Reko”, tradotto come forma verbale, assume il senso di “avere”, “stare”,
“esistere”, “vivere con” ecc. e in forma sostantivata può significare “costume”, “natura”, “stato di
vita”, “esistere”, “maniera di essere” ecc.; la metafora occidentale più adeguata è forse quella di
“esserci”. Il fatto che “reko” venga tradotto “cultura” è sia un errore linguistico che antropologico,
che nasconde la differenza tra i due paradigmi e nasconde la dinamicità del modo stesso “di
pensarsi” del paradigma guaranì. Pierre Bourdieu sostiene che l'esportazione del concetto di
“cultura” molto spesso non ha riconosciuto gli ambienti sociali e naturali come risorse alle quali
rapportarsi diversamente da come la “cultura”, sostenuta dalla scuola (suo prodotto e suo
riproduttore), insegna, producendo artifici intorno a pratiche relative a visioni che discostano da
quella scolastica. Secondo Laura Rival questi procedimenti demoliscono le risorse naturali e,
attraverso la scuola, “despecializzano” i bambini dal loro ambiente, cercando di trasformarli in
“cittadini moderni”, negando la loro identità. Per fortuna, l'esistenza stessa del paradigma
sciamanico si oppone a queste “deculturazioni” e “decontestualizzazioni” e, anche quando è
silenziosa, lavora in modo non ufficialmente pianificato in direzioni diverse da quelle dei
“programmi occulti”, difendendo la corporalità che la contraddistingue, dunque il rapporto con la
realtà sociale e naturale.
Interculture, “sviluppismi” e post-sviluppo
Sembra che nella costruzione dei progetti educativi e di sviluppo l'importanza dei paradigmi locali e
del loro rapporto con le culture coloniali non assuma una posizione centrale e che nell'applicazione
di tali progetti ci si dimentichi che si sta operando con una dimensione “interculturale”. Secondo
l'autrice tale dimenticanza può essere veicolata dal concetto stesso di “cultura”, che implicitamente
nasconde “cornici di riferimento” diverse adatte a “versioni del mondo” altrettanto diverse. Lo
stesso Freinet manifestava un atteggiamento scettico nei confronti delle vere ragioni che spingevano
i governi alle “azioni umanitarie”, sostenendo che le scuole fossero state costruite per la crescente
complicazione delle tecniche di lavoro, che apriva la necessità dare un minimo di formazione al
popolo, e per piegare gli uomini a nuovi sistemi di vita. Secondo Maria Teresa Quispe,
coordinatrice di un gruppo per l'organizzazione indigena nell'Amazzonia venezuelana, gli interventi
a favore dei popoli indigeni sono fondati su definizioni occidentali di “povertà” e “diritti”, sulle
quali si basa anche la diffusione dell'educazione occidentale e l'insediamento della scuola nelle
comunità indigene. Riguardo al concetto di “povertà”, in effetti, durante l'esperienza sul campo,
come quella a Palmarito, Silvia Lelli ha osservato che nei microcontesti educativi esistono delle
pressioni linguistiche, legate al macrocontesto del sistema economico dominante, che inscrivono le
persone in un “paradigma della povertà”; tale paradigma viene performato tramite il linguaggio
verbale di testi e insegnanti, ma anche in eventi come quello di distrubuire doni provenienti
dall'Occidente. Ciò su cui riflette la ricercatrice è il fatto che, indipendentemente dalla povertà
presente, se gli interventi sono fatti all'interno di tale paradigma, con più probabilità riprodurranno
povertà, anziché produrre un cambiamento. Inoltre, il concetto di “povertà” usato dagli “esperti” è
basato sulla propria cultura, cioè su quella globalizzata-occidentale, ed essendo estremamente
riduttivo, poiché fondato su un calcolo meramente quantitativo e non qualitativo, assume che i
popoli indigeni debbano “sopravvivere”, e non “vivere”. Il concetto secondo il quale il benessere
può essere raggiunto anche secondo criteri locali viene, così, completamente trascurato dai progetti
di “sviluppo”. Riguardo al concetto di “diritti”, Quispe afferma che i gestori dei progetti non si
chiedono se tale concetto venga interpretato allo stesso modo in tutte le comunità e se sia veramente
basato sulle necessità delle popolazioni; se esista una legislazione che vincoli le autorità nazionali e
internazionali a garantire il rispetto dei diritti indigeni e quello che le comunità considerano
“benessere”; se sia possibile, in contesti diversi da quello occidentale, far divenire realtà diritti
applicabili alla maniera occidentale. In Occidente non c'è spazio per rispondere a interrogativi di
questo tipo e le comunità native rischiano di accettare un “benessere” imposto per la società. Quispe
sostiene che non si possa parlare di una vera “educazione interculturale”, in quanto i metodi
educativi occidentali impiegati non sono collegati ai concetti tradizionali, e ritiene che, affinché le
popolazioni indigene possano relazionarsi alla pari rispetto al resto della società, gli insegnanti delle
scuole “interculturali” indigene dovrebbero essere più preparati sul sapere occidentale. Difatti, il
problema della qualità della formazione dei maestri non sembra dovuto solo alla mancanza di
investimenti finanziari, ma anche alla mancanza di una formazione occidentale, che permetta ai
leaders indigeni di prepararsi sui temi oggetto di discussione (educazione, salute, ambiente ecc.) e
di partecipare realmente alla presa delle decisioni.
Il problema è che le operazioni educative trascinano con sé implicazioni politiche e di potere.
Quispe riporta un esempio venezuelano che riguarda anche alcune delle terre di origine guaranì
boliviane: dopo aver lottato per il riconoscimento delle “terre originarie” e aver acquisito il diritto di
proprietà, alcune comunità hanno venduto le terre a multinazionali straniere, con scarsa
consapevolezza dei termini di negoziazione e delle conseguenze ambientali, sociologiche e
politiche. Quispe sostiene l'importanza di una preparazione anche degli esperti occidentali sulle
specifiche realtà indigene, soprattutto sui metodi della pianificazione consultiva e partecipativa. La
formazione riguarda dunque entrambi i mondi, indigeno e occidentale, la conoscenza reciproca dei
loro modi e saperi; una formazione che fornisca ad entrambe le parti strumenti per capire scelte
complesse. La questione delle proposte interculturali si prospetta quindi in maniera circolare: finché
le pianificazioni dello sviluppo sono guidate più dalle logiche occidentali che da quelle indigene,
restano in continuità con il paradigma coloniale evoluzionista e la possibilità di uno sviluppo
esterno ad esso sono poche; è solo da culture non dominanti, esterne al paradigma occidentale, che
possono giungere linee per uno sviluppo nuovo diverso anche per l'Occidente. La globalizzazione
delle stratificazioni sociali e di potere dovrebbe essere delineata combinando le riflessioni sugli
sviluppi occidentali con quelle sugli sviluppi indigeni. I progetti educativi del post-sviluppo
dovrebbero riguardare i contenuti culturali, le modalità di costruzione della conoscenza e i modelli
educativi ed etici indigeni, dando priorità ad essi al fine di creare sostenibilità e limitare gli
interventi in cui i programmi occulti producono despecializzazione e decontestualizzazione. Un
simile progetto interculturale indicherebbe la presa di coscienza sia dei limiti della logica della
pianificazione, sia di un approccio “partecipativo” impigliato nel paradigma
dell'occidentalizzazione.

Un'intersoggettività culturale, attraverso l'exotopia


L'esistenza stessa della scuola esportata sui territori indigeni è un intervento non privo di
conseguenze e, anche quando questa viene richiesta dalle popolazioni, sono necessarie delle
riflessioni. Queste ultime possono essere sintetizzate su tre livelli: uno relativo alla scarsa
conoscenza delle culture indigene; un altro relativo alla scarsa conoscenza della relazione tra culture
indigene e culture coloniali; e un altro ancora relativo alla possibilità di auto-osservazione per le
persone impegnate in interazioni, che quindi condividono qualcosa, ma i cui paradigmi di
riferimento non coincidono. Ciò che emerge da tali riflessioni è l'impossibilità di rilevare le
decontestualizzazioni socioculturali compiute implicitamente e paradossalmente dal modello scuola
“interculturale”, che destabilizzano e destrutturano proprio le forme di vita che si vorrebbe ottenere
con tale modello. Anche quando sono le popolazioni a richiedere la scuola indigena, i modelli
pedagogici “interculturali” vengono applicati all'interno del paradigma occidentale, non andando a
realizzarne gli intenti che dovrebbero stare alla base, ma tendendo a riprodurre lo squilibrio
socioeconomico, nonché il “malinteso coloniale”. Difatti, nonostante molti studi occidentali
concepiscano i modelli che prevedono principi pedagogici quali il riconoscimento della differenza
delle culture e dell'alterità non assimilabile all'altro, in realtà, gli studi antropologici riportano come
essi rimangano applicati all'interno dello stesso paradigma dominante, attraverso processi di “de-
specializzazione”. La difficoltà che il paradigma occidentale incontra nell'interazione con il
paradigma sciamanico deriva anche dalla visione occidentale che basa il proprio modello educativo
su una riduttiva razionalità, prevedendo di tenere lontani, tramite rigidi sistemi difensivi, l'ignoto e
l'irrazionale e concependo come “anormale” tutto ciò che vi si accosta; in questo quadro risulta
facile comprende come l'esperienza dell' “ekstasis” (fuoriuscita) venga ritenuta temibile e pericolosa
nella visione occidentale. Questo perché la visione occidentale, adottando forme di pensiero
inclusiviste e oppositive, non è capace di “pensare insieme unità e diversità”. Secondo Camargo, un
intellettuale guaranì, una costruzione interculturale è molto difficile poiché i bambini non devono
essere sottomessi, ma devono trarre bene beneficio dalle informazioni per creare un'immagine
positiva di se stessi e iniziare ad aprirsi verso altre culture. Un altro intellettuale guaranì, Guido
Chumiray, afferma che l'interculturalità è raggiungibile attraverso l'accettazione della nostra cultura,
poiché solo così si può accettare globalmente l'altro come diverso. Secondo Chumiray la vera
democrazia è quella nella quale la maggioranza ascolta le minoranze e il processo interculturale non
può avanzare se prima non vengono distrutte le barriere costituite dai due concetti occidentali su cui
si basa la costruzione dell'Intercultura, la “democrazia” e i “diritti umani”, che, costruiti nel
paradigma occidentale, sbilanciano l'intercultura verso questo polo, non garantendo equità. Per
l'intellettuale due sono gli obiettivi: ottenere lo status paritario tra cultura guaranì e cultura
dominante sia a livello sociale che politico, mantenere il monitoraggio sull'andamento di questa
relazione, definita “sviluppo con identità”. La discussione ruota intorno al fatto che le istituzioni
guaranì sono eccessivamente “occidentalizzate”, dunque improntate su politiche accentratrici statali
che non garantiscono una vera democrazia. Il problema dell'organizzazione di una democrazia
interculturale è diviso in due parti: l'impostazione in termini di “maggioranza-minoranza”, che,
però, è, in realtà, malposta, in quanto occulta il fatto che in Bolivia, anche nelle zone rurali guaranì,
la popolazione indigena è la maggioranza; e la difficoltà di conciliare le forme esistenti della
democrazia “diretta” guaranì con le forme della “democrazia rappresentativa occidentale”, dovuta al
fatto che i guaranì e pochi intellettuali ritengono scorrette le seconde. Alla base delle barriere allo
sviluppo di un'interazione e di un'interculcura equa ci sono l'interculturalità decontestualizzante e
l'impostazione reificata, razziale ed evoluzionista del concetto di cultura nel senso comune, nelle
istituzioni statali e guaranì e nei testi scolastici. Al mantenimento di queste barriere contribuisce il
tentativo, da parte delle istituzioni guaranì, di coinciliare l'articolazione di uguaglianze e differenze
all'interno del paradigma occidentale, fatto che paradossalmente riproduce il potere politico da una
parte sola. Gli insuccessi dell'Educazione Interculturale Bilingue risentono degli stessi problemi del
rapporto tra paradigma sciamanico e paradigma occidentale. Niente sembra garantire attualmente
l'uscita dal paradigma egemonico occidentale, ma lo studio antropologico delle culture indigene”,
delle forme relazionali socio-interculturali, della nuova cultura che la negoziazione tra culture sta
producendo. Gli strumenti antropologici possono essere utili per comprendere in maniera non
assimilatrice le complesse situazioni micro e macro-contestuali nelle quali siamo immersi e il
metodo dialogico può aiutare a non procedere per analogie, attenuando il malinteso. Il
coinvolgimento delle culture indigene nella costruzione della conoscenza rende necessaria molta
delicatezza: di fondamentale importanza è non essenzializzare la cultura , cadendo nel
“differenzialismo culturale”, e non incasellare le persone in “vecchie” culture o “nuove” culture
inventate, ma piuttosto distinguere la loro vitalità, ricordando che se i sistemi di senso proposti dalla
scuola non hanno rapporti con quello che le persone alle quali vengono proposti vivono, essi non gli
permetteranno di costruire se stesse. Occorre rendersi conto che la presenza decontestualizzante di
elementi culturali nei programmi ufficiali cosiddetti “interculturali”, la negazione delle capacità
cognitive dei nativi (ad esempio fingere che la matematica indigena non esista), l'intrinsecità
dell'espressione “un'educazione occidentale per tutti” all'interno di quella “un'educazione per tutti”
ed il trasferimento di sole conoscenze scientifiche e tecniche utilitaristiche costituiscono parte
integrante dello sfruttamento e dello sterminio indigeno da parte dei gestori locali degli interessi
commerciali internazionali. Per questo si rendono utili strumenti che rilevano i dettagli;
un'intercultura equa potrebbe configurarsi allora come “interculture al plurale”, sviluppate sulla
base delle culture non dominanti, esterne al paradigma occidentale, dove gli apporti delle culture ai
progetti dovrebbero riguardare, oltre che i contenuti, anche il paradigma, quindi le forme e i modi
relazionali socio-educativi e le forme non verticistiche di costruzione dell'autorità. Al fine non
appiattire i contributi provenienti dalle culture locali nelle analogie assimilatrici del paradigma
evoluzionista, il modello più adeguato è quello dell'exotopia proposto da Michail Bachtin. Il
modello prende in considerazione i “dettagli” nella loro interazione e permette di concepire “la
differenza nell'eguaglianza” secondo una configurazione non verticistica, promuovendo
un'intersoggettività che non annulla le diversità, né quelle individuali né quelle culturali. Il modello
è realizzabile nella pratica soprattutto con l'apporto di una consapevolezza offerta da strumenti di
conoscenza antropologica, di auto-osservazione critica e di auto-monitoraggio etnografico. Silvia
Lelli definisce Bachtin un “esperto di confini”, per la sua dimestichezza con molteplici identità
acquistata per motivi politici, per la sua “cultura di confine” tra il paradigma orientale e paradigma
occidentale e per la sua visione sulla costruzione degli atti culturali (per il filosofo ogni atto
culturale vive solo in prossimità dei confini, dove può aver luogo l'interazione tra diversità, mentre
muore disolto da essi). Bachtin è anche una figura fondativa del “dialogismo” e, nello studio della
costruzione delle soggettività nel romanzo, produce un'analisi della relazione sia personale sia
culturale: osserva la presenza di qualità sciamaniche nella cultura occidentale, come l'eteroglossia
(la non-opposizione tra individuale e sociale nel linguaggio), e afferma che, per rimanere creative,
le persone e le loro culture, nell'incontrarsi, devono rimanere diverse. Per esprimere questo
concetto, Bachtin inventa un neologismo: in russso “vnenachodimost” (“il fatto di trovarsi al di
fuori”), che Todorov traduce in francese con il termine “exotopie”. L'exotopia si configura come
quella tensione dove per comprensione dell'altro non si intende indentificazione e integrazione
(dunque fusione con l'altro), ma piuttosto conservazione della propria posizione, che non viene vista
dall'altro come qualcosa di riducibile a se stesso, ma di autonomo e distinto. Secondo Bachtin
l'exotopia è la più possente leva per la comprensione nel campo della cultura, poiché una cultura si
svela in modo più completo e profondo solo agli occhi di un'altra. Inoltre, se per molto tempo si è
potuto seguire la via illusoria per cui la comprensione si riduce all'identificazione è perché ogni
conoscenza è stata ricondotta alla conoscenza scientifica, che ha a che fare con oggetti e mai con
soggetti. Il modello dell'exotopia è quindi un modello non assimilatore (che non basa la
comprensione del diverso sull'analogia e, invece di annullare le diversità, le mantiene
nell'interazione) e “dialogoco bidirezionale” (in quanto potrebbe essere letto come un'etica
linguistica della reciprocità, dove l'interazione diventa il luogo della costruzione di un contesto nel
quale esplicitare le soggettività nelle reciproce differenze, che sono irrununciabili, negoziabili,
dinamiche, non reificabili, ma soprattutto non gerarchizzabili). Nella comprensione non riduttiva
della complessità, il modello dell'exotopia mostra un'aria di famiglia con il paradigma di Goodman,
dove le versioni del mondo e le loro cornici di riferimento, pur essendo diverse le une dalle altre,
coesistono e non sono trasformabili l'una nell'altra; esse sono tutte ugualmente “corrette per i mondi
ai quali si adattano”, in base alla loro coerenza descrittiva interna, che, essendo interazionale (i
mondi si fabbricano continuamente a partire da altri mondi), è anche instabile e dinamica. In queste
due visioni, negare l'esistenza di un mondo unico oggettivamente reale e al quale altri dovrebbero
assomigliare significa ammettere la possibilità delle molteplici visioni del mondo e delle loro
trasformazioni indipendenti seppur interazionali, costituendo una posizione interculturale. Per il
fatto di ammettere il principio di contraddizione conciliando i suoi elementi senza annullarli e di
ammette lo scambio di elementi tra paradigmi senza che essi si fondano, mantenendo distinzioni
identitarie e culturali sentite come necessarie, il paradigma sciamanico sembra un buon modello
exotopico, interculturale. Questi modelli di interazione possono contribuire a decostruire il
malinteso storico, delineando possibilità di uscita dall'epoca coloniale, dalla modernità e dalla post-
modernità: attraverso le potenzialità politiche alternative dei gruppi minoritari, le culture ad essi
relativi potrebbero fornire un senso diverso della direzione alle tendenze fallimentari dello sviluppo.
Tali modelli permetterebbero ad altre pratiche, altre filosofie, altri paradigmi, altri concetti di
“benessere” non collegati al progresso tecnologico e all'economia di mercato di entrare nel discorso
globale, nel quale finora le scienze sociali hanno dato per scontato la validità del paradigma
“moderninazzione uguale occidentalizzazione” e di un concetto di “sviluppo tecnologico” confuso
con quello di “progresso civile”. Quando Silvia Lelli conclude la stesura del suo libro, in Blovia
viene eletto il primo presidente indigeno, Evo Morales. L'autrice gli augura di avere la capacità di
gestire saggiamente i paradigmi del suo popolo e ritiene di buon che il fatto che i movimenti
indigeni boliviani abbiamo riportato la prima vittoria mondiale contro privatizzazione dell'acqua sia
di buon auspicio.

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