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Humanitas e

Oratoria
Durante la conquista della Magna Grecia, Roma ebbe diversi contatti con la civiltà
ellenistica, comportando un risveglio culturale nella società romana. Essendo la cultura
greca importante, migliaia di intellettuali greci si traferirono a Roma per trasmetterla
e anche numerosi schiavi divennero ben presto maestri.
La lingua greca era parlata e compresa dai conquistatori romani, poiché
riconoscevano e rispettavano la superiorità intellettuale del popolo conquistato.
Inoltre, la conoscenza della lingua greca era fondamentale per la comunicazione e i
commerci.
In campo pedagogico, gli ideali della paidéia greca-ellenistica si estesero in tutto
l’Occidente conquistato dalla potenza romana e divennero prìncipi fondamentali di
riferimento.

Precedentemente al risveglio culturale, verso il IV sec. a.C. a Roma la cultura era fondata
sui pilastri di un’aristocrazia di proprietari terrieri, i cui principali ideali educativi erano
relativi alla famiglia, alla vita contadina, alla tradizione, ma soprattutto al mos
maiorum, ovvero le usanze e i costumi degli antenati.
Il diritto, inizialmente, era fondato sulla consuetudine, ovvero una legge trasmessa
oralmente dal re; successivamente per un’esigenza di maggiore certezza e di limitazione
del potere di magistrati e patrizi, vennero scritte delle vere e proprie leggi.
Nel 451 a.C. venne eletto un decemvirato denominato legibus scribundis, che consisteva
in un gruppo di dieci uomini incaricati di trascrivere le leggi e le norme fondamentali, con
lo scopo di renderle pubbliche, immodificabili e consultabili. Il risultato fu la nascita di
una lista di prescrizioni perentorie, primitive e crudeli raccolte nelle Leggi delle XII
Tavole. Questa raccolta venne distrutta durante l’invasione gallica tra il 390 a.C. e il 387
a.C., ma noi ne abbiamo conoscenza mediante le citazioni dei giureconsulti, le opere di
Cicerone e altre fonti storiche.

I plebei benestanti, prevalentemente artigiani e commercianti, proposero l’istituzione


dei concili, ovvero assemblee presiedute dai tribuni della plebe, capi della plebe eletti
annualmente. I tribuni, attraverso i plebisciti (votazioni), fecero approvare diverse
normi vincolanti per tutti grazie alla lex hortensia ( legge Ortensia) del 287 a.C.
Questo fu soltanto la prima mossa per il riconoscimento della funzione sociale dei
tribuni, ai quali venne anche concesso il diritto di veto, cioè il diritto di opporsi a
qualsiasi decisione ritenuta avversa agli interessi della plebe.

Tra il II e il III sec. a.C. Roma avviò il suo progetto espansionistico, intraprendendo
lotte di conquista per il predominio sul Mediterraneo. ù
La cultura romana venne, così influenzata, macchiata, da quella greca che era allora
primeggiata nelle regioni sottomesse e assimilò forme e metodi della paidéia ellenistica.
La tradizione romana, di conseguenza, entrò in una profonda crisi.
Gli effetti che preannunciarono il contagio culturale cominciarono ad apparire dopo la
sottomissione dell’Impero macedone, durante la trasportazione della monumentale
biblioteca del re Perseo. Questo evento rese possibile ai Romani la lettura e la
conoscenza diretta di numerose opere letterarie e filosofiche greche che
diventeranno fondamentali per la cultura occidentale. In questo periodo vennero
inviati a Roma dei Greci filomacedoni per essere processati , tra cui anche celebri
storici e filosofi.
La necessità politica ed economica di comprendere e adoperare la lingua greca, allora
la più diffusa nella metà del mondo civile, stimolò i Romani a istituire dei veri e propri
corsi di greco tenuti da docenti madrelingua. Roma cominciò a riempirsi di maestri e di
schiavi che fornivano lezioni a pagamento per i figli delle ricche famiglie romane, i patrizi.
La convivenza non fu sempre pacifica: i più conservatori, tradizionalisti, disprezzavano
alcune caratteristiche dei Greci e la loro predilezione per l’astrazione e le speculazioni
filosofiche. I Romani, contrariamente, preferivano una formazione legata ai valori
tradizionali che consideravano come modello dei loro comportamenti e agli elementi
fondanti della loro cultura e della loro società: onestà, integrità e severità morale.
Per comprendere il termine Humanitas è necessario risalire alla sua prima formulazione
che ritroviamo in un’opera di Terenzio. In questa opera, però, non viene mai utilizzato il
temine Humanitas, ma bensì l’aggettivo humanus, che qualifica colui che è in grado di
relazionarsi sia nell’unità famiglia sia nelle interazioni politiche e social, consapevole di
poter realizzare pienamente sé stesso solo con questa modalità. Perciò, la humanitas
viene trasmessa tramite una formazione tale che l’individuo sia indotto ad agire in
modo solidale e con un profondo rispetto degli altri uomini, della loro condizione e della
loro sensibilità.

 HUMANITAS  Humanitas si riferisce all’umanità propria di tutto il genere


umano. È aperta verso una prospettiva universale e portatrice di una nuova
fiducia verso l’uomo e4 nelle sue capacità di evolversi come individuo. L’uomo ha una
piena autorealizzazione soltanto interagendo positivamente e solidariamente
con gli altri. La sua humanitas si caratterizza da:
o BENIGNITAS- generosità
o PATIENTIA- capacità di sopportare le sofferenze
o VIRTUS- virtù
o PIETAS- fedeltà e devozione ai legami famigliari e religiosi
 PAIDÉIA  nel mondo greco l’uomo ha la convinzione che il cittadino si realizza
completamente solo nella pòlis. L’apertura all’Ellenismo lo porta oltre i confini
della città-stato, ma non gli fa oltrepassare il limite e la concezione locale.
L’educazione è strettamente legata a questa visione culturale e al concetto di
areté

Nella cultura romana il mezzo che permette al fanciullo di diventare vero uomo e di
acquisire la capacità di esprimere la propria indole è la virtus. La virtus si acquisisce
attraverso un percorso educativo e formativo formato da rigore, serietà e
applicazione nello studio con la finalità di ottenere un ampio corredo culturale in
diverse discipline.
L’uomo virtuoso è un uomo colto e istruito, avente un insieme di doti intellettuali, fisiche
e morali che esprimono la sua vera umanità. L’humanitas hominis, letteralmente,
significa l’umanità dell’uomo, comprende l’intelligenza, la sapienza, l’impegno sociale e
l’onestà, la giustizia e la compassione nella politica.
Il termine mos (mores) indicava l’insieme di costumi, credenze, tradizioni, riti e cerimonie
degli antenati. Gli antichi Romani consideravano la conoscenza dei mores fondamentale
ed essenziale per la formazione dei giovani, poiché questi costumi rappresentavano gli
ideali che dovevano essere rispetti e posti all’origine di ogni azione e pensiero. Erano
leggi comuni, non scritte, precetti di natura etica, valori connessi all’agire umano,
indicazioni sui comportamenti da adoperare nel contesto famigliare e sociale che
dovevano essere praticati e che garantivano equilibrio nella collettività.

L’humanitas romana, eppure, possedeva un limite: infatti, non era prerogativa a tutti,
ma soltanto agli uomini liberi e alle classi più nobili. Questo limite creava così un
paradosso, dato che questa visione esclusiva e aristocratica non concordava con il
significato proprio di humanitas, umanità. Nella cultura latina l’humanitas, raggiungibile
con percorsi educativi e di formazione, è elitaria, cioè formata a una élite, ristretta
cerchia di persone.
Catone era un politico, oratore e scrittore romano tradizionalista, soprannominato
proprio per questo come “il Censore”. Catone fu profondamente legato all’antica
tradizionale educazione romana, fondata sui mores maiorum, come evidenziato nelle
sue opere. I princìpi e i valori dell’educazione tradizionale, tramandati dalla famiglia,
imponevano dedizione, rispetto e sacrificio per lo Strato e per la salvezza del popolo
romano. Catone, volgendosi direttamente al figlio, gli dedicò due libri: “Libri per il figlio
Marco” e “Precetti per il figlio Marco”. Il loro contenuto era di vario genere, dalla storia
degli Antichi Romani e dei loro usi e costumi, per la letteratura o per il diritto, ancora
per l’arte oratorio e per concludersi fino all’agronomia, efficienti per l’educazione di un
ottimo cittadino. La formazione intellettuale era affiancata da una fisica, necessaria
per l’addestramento militare e consisteva nella disciplina dell’equitazione, del nuoto e del
pugilato. Il programma di Catone, inoltre, aveva anche una finalità morale che veniva
acquisita mediante lo studio memonico delle Leggi delle XII Tavole. Particolarmente
rilevante, era che lo studente conoscesse al meglio e senza alcun tentennamento gli
argomenti di discussione, poiché questo era l’unico modo per poterne parlare con
estrema maestria. Dunque, se l’unica educazione efficiente da impartire era fondata
sulla tradizione romana, si comprende che Catone era un oppositore della cultura greca
e del suo insegnamento, essendo estranea ai Greci la conoscenza dei mores maiorum.
Secondo Catone, gli insegnanti greci dovevano essere considerati individui di minima
condizione simili agli schiavi.

Publio Cornelio Scipione l’Emiliano era stato educato da Polibio e di conseguenza divenne
grande cultore della lingua greca, fino a fondare un circolo molto popolare a Roma: il
Circolo degli Scipioni. Gli associati erano nobili, che pur non rinnegando l’educazione
tradizionale romana, furono promotori di attività culturali, letterarie e filosofiche
aventi un orientamento ellenistico. Gli Scipioni erano convinti che un confronto tra la
cultura tradizionale romana e la cultura greca, considerata più complessa e avanzata,
avrebbe permesso una crescita sociale. Per questa
motivazione diventarono mecenati e sostenitori
dei grandi personaggi della cultura greca del tempo.
Ciò permise loro di influenzare notevolmente lo
sviluppo della letteratura e della cultura latina,
opponendosi ai conservatori del Senato.
Tra il II sec. a.C. e il II sec. d.C. crebbero e si diffusero gli ideali di un pensatore attivo in
Grecia, Zenone di Cizio. Costui istituì una scuola che prese il nome dal luogo dove si
riunivano abitualmente i giovani, la stoà- il portico e stoici furono chiamati coloro che
la frequentavano: Gli stoici affermavano che qualunque avvenimento accade all’uomo
non può essere modificato o evitato. Colui che è in grado di accettare con calma e
serenità, in modo imperturbabile, nel bene e nel male, ciò che gli accade. La saggezza è
posseduta dall’individuo che riesce a dominare con la razionalità le proprie passioni, le
proprie pulsioni/istinti e le proprie emozioni incontrollabili. L’uomo virtuoso e libero, a
livello stoico, ha la capacità di affrontare la vita seguendo la ragione, di non lasciandosi
turbare dalle avversità e di accettare il destino.

La stoà successiva a quella di Zenone di Cizio ha come massimo esponente Seneca, il quale
si occupò di problematiche relative alla vita pratica, agli aspetti psicologici individuali e
di questioni etiche. Le sue riflessioni influenzarono la concettualizzazione di humanitas.
Nelle sue celebri “Lettere a Lucilio”, insieme di suggerimenti e riflessioni personali su
diverse tematiche psicologiche ed esistenziali. Per farla breve un elenco di regole e
prescrizioni che gli uomini saggi dovrebbero praticare. Secondo Seneca, solo l’uomo che
ha raggiunto la saggezza possiede una tranquillità d’animo che gli permette di scovare
la forza per respingere le malvagità che affiggono l’umanità. Il fine è il raggiungimento
del bene supremo, ovvero una vita serena, estranea alle preoccupazioni, senza affanni
né passioni e in perfetta sintonia con gli altri. La forma epistolare utilizzata da Seneca
ha un forte impatto, poiché ha la funzione di esprimere la sua dottrina in modo
informale attraverso un dialogo confidenziale che incide sulla sensibilità del lettore. Ciò
sottolinea la convinzione che l’educazione e la formazione spirituale devono
comprendere momenti di autoriflessione e . Soltanto in questo modo l’uomo
potrà essere educato al bene, una vita seguendo la propria natura. L’uomo
deve dare premura a sé stesso cominciando dalla profonda conoscenza
della sua anima, grazie all’introspezione, all’esame critico di sé fino
all’equilibrio e l’autocontrollo. La felicità è una meta raggiungibile soltanto
dall’uomo che ha la volontà, con la sua autoeducazione, di scoprire il suo
mondo interiore e seguire la propria natura, modo di essere .
La famiglia romana era gestita dall’uomo più anziano , che non avendo più ascendenti
vivi di linea maschile, assumeva il potere assoluto sul nucleo famigliare fino alla sua
morte, diventando il pater familias. Il suo ruolo consisteva nell’amministrazione degli
affari finanziari, delle attività commerciali e dei riti religiosi.
Il pater familias aveva il controllo sui suoi famigliari, sui domestici, sugli schiavi e sui
bambini, poiché era l’unico soggetto giuridicamente autonomo.
I figli maschi, dai sette anni in poi, accompagnavano il padre nelle attività extrafamiliari,
mentre le bambine rimanevano in casa per occuparsi dei lavori domestici o per la
lavorazione dei tessuti. I ragazzi, raggiunti i 16 anni, indossavano la toga virilis e
venivano mandati al tirocinio della vita pubblica e al servizio militare. L’educazione
basilare consisteva nell’acquisizione dell’abilità di lettura e scrittura, negli esercizi
fisici, nella guida del cocchio e nell’uso delle armi, fondamentali per la guerra.
Il rapporto padre- figlio era molto problematico ed era opprimente dal punto di vista
psicologico. Di conseguenza, erano frequenti i parricidi, tipologia di reato comune a quel
tempo.

La donna, nella Roma arcaica, era completamente emarginata. Per qualsiasi azione
volesse intraprendere, aveva bisogno della presenza di un tutore, ovvero un soggetto
di linea maschile che la potesse tutelare. La donna doveva tacere, poiché sapeva che la
parola era esclusivamente prerogativa all’uomo, assumendo un ruolo di subalternità.
La sua educazione era basata sulla cura della casa, sulla tessitura e sulla formazione di
doti, come la riservatezza, la castità, la modestia e la pietà. Successivamente, la donna
incominciò a emanciparsi mediante la frequentazione alle scuole pubbliche, ma,
nonostante ciò, il suo compito rimaneva comunque il riordino della casa e la custodia
della famiglia. Diversamente, le donne appartenenti a famiglie agiate e di alta
formazione culturale potevano diventare vestali, donne vergini che dovevano
custodire il fuoco della dea Vesta, oppure approfondire gli studi di letteratura greca e
latina ( doctae puellae)- Sulpicia. L’occupazione lavorativa femminile era molto limitata
e relativa alle attività commerciali e artigianali oppure alle professioni tipicamente
femminili, come la levatrice, la nutrice, la massaggiatrice , la sarta…
La matrona, mater familias, aveva una limitata capacità giuridica e se, in mancanza di
figura maschile, doveva avere un tutore. Era molto
rispettata sia internamente sia esternamente al
nucleo famigliare, essendo considerata una donna di
elevato rango sociale e di onestà di costumi. Era
anche la domina, ovvero la padrona della casa poiché
svolgeva un lavoro di cura della famiglia, sia nella
gestione della famiglia, sia nell’educazione dei figli.
A Roma tra il VI e il V sec. a.C. vennero istituite
le scuole primarie che fornivano un
’alfabetizzazione di base, mentre nel III sec.
nacquero le scuole secondarie in lingua
latina. Dopo il 26 a.C. il liberto Cecilio Epirota
prese l’iniziativa di proporre un curricolo di
studi di letteratura latina, che prevedeva la
lettura e l’analisi di opere di autori latini.
Grazie a Terenzio Varrone e alla sua opera
“De lingua latina “ iniziò a esserci lo studio
della grammatica latina, e poi con
“Disciplinarum libri IX” diversi studi del trivio-
materie umanistiche e del quadrivio- materie
scientifiche.

Lo studio della lingua greca, indispensabile per la formazione di un intellettuale (


letterato, filosofo, oratore, politico) fu introdotto nel II sec. a.C.
Gli uomini politici romani adottavano il greco con grande padronanza e raffinatezza,
siccome divenne una lingua franca, ovvero una lingua di comunicazione globale. Inoltre,
i Romani scoprirono che il greco era un grande vantaggio per l’arte oratoria, poiché
l’uomo politico poteva utilizzare la versatilità , la profondità e la complessità delle frasi
greche per persuadere, consigliare e argomentare.
Il Circolo degli Scipioni favorì, con la presenza di maestri e filosofi greci, l’ascesa di
questa tendenza culturale ellenistica. Anche il teatro risentì di questa influenza e
sempre più giovani amavano ascoltare conferenze tenute da dotti ellenistici. Plutarco
descrisse, nella sua opera “Vita Parallele”, la diffusione della lingua e della cultura greca
come un vento che riempì la città. Catone, tradizionalista, fece approvare dal Senato un
decreto per l’espulsione dei retori greci. Nonostante ciò, la cultura greca continuò a
diffondersi.
Marco Tullio Cicerone, scrittore e oratore latino, in una sua opera i Topica, nei quali si
occupa dei luoghi comuni e strutture applicabili a ogni soggetto e a ogni discussione,
adottabili per argomentazioni e dimostrazioni, descrive la retorica come l’ars
inveniendi, ovvero l’arte dell’inventare concetti ed elocuzione( combinazione delle
parole).
Tutti i suoi manuali di retorica latina contengono:
 INVENTIO: tecniche di innovazione delle argomentazioni per affermare la tesi, per
assecondare o per sviluppare un’antitesi.
 DISPOSITIO: ordinamento e la distribuzione degli argomenti
 ELOCUTIO: uso di parole e frasi adeguate.
Cicerone scrisse un’opera didattica riguardante questo argomento, il De inventione,
adoperata come manuale dai suoi discepoli per la costruzione di una struttura
argomentativa versatile. Cicerone considerava fondamentale l’acquisizione e il
potenziamento delle capacità d’invenzione del retore. La comunicazione si otteneva solo
se si era divergenti, se si possedeva la capacità di trovare soluzioni inaspettate, ma
utilizzando sempre una struttura argomentativa, evitando un modello fisso e rigido.
Cicerone distingue nel libro De oratore la struttura e il modello:

− MODELLO: va riprodotto, imitato e di conseguenza non può essere adottato a


diverse situazioni. È rigido e potrebbe rivelarsi controproducente
− STRUTTURA: schema articola che prevede soluzioni o integrazioni in base alle
necessità. È dinamica e multiforme.
L’oratore, perciò, deve essere educato all’uso della struttura argomentativa e al
perfezionamento dell’ars inveniendi mediante un percorso formativo rigido, che
richiede impegno e doti personali che non tutti possiedono.

Cicerone inizia da una constatazione di fatto: la retorica richiede al retore di


possedere l’eloquenza, virtus fondamentale. L’eloquenza non è legata alla personale
competenza comunicativa, ovvero l’abilità nell’uso del linguaggio e il possesso dell’ars
inveniendi, acquisibili ed esercitabili, ma è essenzialmente il modo d’essere personale di
colui che la esercita.
Le 3 caratteristiche del modo d’essere sono:

 CULTURA: conoscenza e comprensione dell’animo umano


 ECCELLENTE EDUCAZIONE: uso delle tecniche retoriche, della voce, della gestualità e
della postura
 INNATE DOTI DI INTELLIGENZA
Cicerone, nel De oratore, evidenzia come il perfetto oratore, mediante al suo modo di
essere, sia colui avente al massimo grado l’humanitas- homo humanissimus. In lui
convivono diversi doni come la benevolenza, la fratellanza, la magnanimità e la
filantropia. Grazie a questo modo d’essere egli saprà insegnare, commuovere e piacere
(doceo, movere, delectare), ovvero gli scopi che dovevano essere prefissati
equilibratamente in ogni sezione dell’orazione.
Il maestro di retorica possiede una grande responsabilità nell’educazione, in quanto si
deve preoccupare che tutti gli aspetti siano eccellenti. Durante il suo percorso
formativo, il giovane deve comprendere che non bisogna utilizzare l’arte della parola
come strumento di persuasione e manipolazione. Ma, deve acquisire la consapevolezza
che far uso di un elegante discorso, chiaro, congruente, ben argomentato serve per
sostenere e dimostrare da bontà dalla propria prospettiva.

L’Institutio oratoria è un trattato composto da 12 libri sull’oratoria scritto da


Marco Fabio Quintiliano pubblicò nel 96 a.C.
L’opera raccoglie l’esperienza di docente di Quintiliano ed è considerata come un vero e
proprio manuale pedagogico. Essa si colloca nella concezione che si aveva a Roma della
retorica, come riferimento pedagogico, ed è considerata la più completa trattazione
sistematica di tematiche psicopedagogiche del mondo classico. Secondo Quintiliano,
l’obiettivo principale della formazione dell’oratore è il pieno raggiungimento
dell’eccellenza.

L’insegnamento deve consentire al giovane di acquisire una solida formazione


integrale/multiforme, ovvero sia umanistica sia scientifica.
Nel percorso scolastico-formativo, che deve iniziare fin dalla tenera età e giungere fino
a quella adulta, non bisogna trascurare gli aspetti psicologici e le scelte metodologiche
adeguate.
I precettori devono impartire un insegnamento perfettivo, ossia che porta al
miglioramento, per raggiungere la piena maturazione personale e il completo sviluppo
individuale. Secondo questo principio, i genitori e i precettori non devono avere
pregiudizi e condizionamenti, poiché tutti possono apprendere. Ciò è in completa
opposizione al pensiero di Cicerone. La sua pedagogia non repressiva e passiva, ma
stimolante e prudente alle esigenze e ai bisogni degli studenti, senza esclusione, risulta
perfettamente conforme al concetto di humanitas.
Inoltre, Quintiliano conferma la visione del retore come intellettuale dotato di un
eccellente formazione personale, costituita da profonde nozioni multidisciplinari e
competenze comunicative, retoriche e dialettiche. Queste caratteristiche lo
contraddistinguono come una figura autorevole di riferimento a livello sociale e
politico.

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