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DIDATTICA

LINGUE, SCUOLA, CITTADINANZA

1. Alle origini del rapporto tra lingua e cittadinanza: Grecia e Roma

Lingua e cittadinanza sono concetti strettamente legati fra loro: la nozione di cittadinanza ha come
fondamento storico e teorico la polis, ovvero la città, perché come affermava anche Aristotele è
nella polis che si afferma e si sviluppa una comunità  perché la polis non rappresenta un semplice
aggregato di individui, bensì una vera e propria comunità organizzata socialmente e politicamente
attraverso leggi e regolamenti. E questo è possibile perché l’uomo, a differenza degli altri animali
che pure possono vivere in gruppo, è un animale politico e di conseguenza questo è possibile
perché l’uomo a differenza degli altri animali possiede una lingua e la lingua ovviamente
permette agli uomini e quindi ai cittadini di parlare, discutere, proporre e redigere testi che hanno
valore per l’intera comunità la lingua è quella condizione naturale che permette agli uomini di
riconoscersi e di organizzarsi in una comunità politicamente ordinata.
Grecia e Roma, seppur in maniera diversa, rappresentano le origini del rapporto tra cittadinanza e
lingue, educazione, culture, etnie, quindi modelli di riferimento per l’età moderna, anche per i
protagonisti della rivoluzione francese.

La prima esperienza della polis la troviamo nel mondo greco: furono loro a scoprire l’arte della
politica cioè l’arte di conseguire decisioni necessarie alla convivenza della comunità mediante la
discussione pubblica. Ma ovviamente la polis greca presenta differenze sostanziali con le
democrazie moderne proprio nella concezione di questo rapporto tra lingua e cittadinanza:
- Nella polis greca non era contemplata l’uguaglianza dei cittadini che invece è il presupposto
degli attuali stati democratici.
- Il ruolo di partecipare alle discussioni, alle assemblee era riservato ai maschi adulti con
capacità contributiva e militare
- Le donne non avevano alcuna possibilità di rivestire un ruolo politico pur essenso parte
della comunità e nemmeno i meteci, gli stranieri e gli schiavi nonostante avessero una
funzione essenziale x l’economia della polis
- La polis greca selezionava i suoi membri x nascita, censo e sesso.
- La capacità linguistica era requisito essenziale x la partecipazione alla vita della polis quindi
coloro che possedevano tali requisiti potevano esercitare cariche altrimenti erano esclusi.
- Ma in generale tali capacità rimanevano prerogativa di una selezionata classe sociale,
membri di famiglie aristocratiche mentre il resto dei cittadini si limitava ad alzare la mano,
soprattutto perché la capacità linguistica era intesa come un requisito x la vita politica ma
non necessaria x la formazione di un buon cittadino.
- Altra caratteristica è il rapporto tra i greci e gli altri popoli che loro definivano barbari:
termine che i greci usavano proprio x scandire la differenza di valore tra loro e gli altri
popoli con cui avevano un rapporto di superiorità scaturiva dal maggior grado di civiltà che
loro avevano raggiunto proprio in relazione al valore che per loro aveva il linguaggio nella
vita della polis. Quindi i barbari o stranieri detti anche parlanti un’altra lingua non
potevano far parte della polis proprio perche non condividevano la stessa lingua.
- Ma l’appartenenza alla polis si basava proprio su un rigido ius sanguinis perché i meteci,
pur essendo molti di loro greci, pur vivendo regolarmente nella polis, pur essendo
importanti x l’economia della polis perché molti di loro sono artigiani, mercanti, uomini
d’affari, non erano cittadini della polis a pieno titolo. L’appartenenza alla polis andava ben
oltre la condivisione della lingua.
La nozione di polis si trasferisce dai greci ai romani dove però assume una traiettoria diversa 
sarebbe errato far corrispondere l’esperienza greca a quella romana ma c’è comunque un legame
perché l’influenza greca è stata determinante nella formazione della cultura romana che però
presenta delle differenze.
- La cittadinanza romana è caratterizzata da una maggiore apertura rispetto alla chiusura del
mondo greco in cui la cittadinanza coincideva con l’appartenenza etnica. Una testimonianza
di questo è l’epistola di Filippo 5 il Macedone del 214 avanti Cristo indirizzata ai cittadini di
Larissa in cui ammira la lungimiranza di Roma x la concessione della cittadinanza agli
schiavi  Roma considerava la concessione della cittadinanza come uno strumento politico
funzionale allo sviluppo e al consolidamento del proprio potere. Questa idea venne portata
avanti anche con la Constitutio Antoniniana del 212 dopo Cristo che concedeva la
cittadinanza romana a tutti i peregrines cioè a tutti i popoli stranieri presenti all’interno del
territorio imperiale.
- La civis di Roma aveva un atteggiamento diverso anche per quanto riguarda le lingue. Per i
romani il concetto di barbaro non era associato alla lingua. La civis romana stessa era
bilingue, greco-latina, ma non aveva un atteggiamento di ostilità e chiusura nei confronti
delle altre lingue ne a Roma dove si concentravano molte comunità straniere (egizi, siriani,
spagnoli, celti ecc) ne nei territori periferici dell’impero. Roma non imponeva la propria
lingua e nessun popolo era costretto ad abbandonare la propria. Naturalmente il latino era
la lingua ufficiale e quella più funzionale a ogni tipo di attività sociale, politica eccetera ma
non uno strumento impositivo.
- La cittadinanza romana consente l’inclusione di soggetti diversi
- La cittadinanza romana non è soggetta ad esempio ad un diritto di nascita.
- Nella civis romana le differenze etniche indicavano semplicmente uno status.

2. Stato e lingua nell’età moderna

Lo stato moderno rappresenta un nuovo ordinamento politico secondo cui è al sovrano che spetta il
potere e tutte le funzioni di sintesi della comunità. Quindi mentre nella polis era il cittadino ad
impegnarsi nella vita politica, sociale della comunità, nello stato moderno è tutto concentrato nelle
mani del re e quindi lo stato rappresenta un potere politico che non è più espressione di tutti i
cittadini ma del singolo sovrano. Con lo sviluppo dello stato moderno c’è stata anche una nuova
prospettiva del rapporto lingua e cittadinanza perché secondo questa impostazione dello stato
moderno, la condivisione di caratteri comuni, come la lingua, non è essenziale ad individuare una
realtà politica e amministrativa ma al contrario l’appartenenza ad una stessa comunità discende
dalla sudditanza cioè l’assoggettamento del cittadino al potere del sovrano il requisito x essere
cittadini di una stessa comunità è proprio quello di riconoscersi e sottostare a uno stesso potere
sovrano lo afferma anche Jean Bodin (importante teorico dello stato moderno) secondo il quale
affinchè ci sia cittadinanza bisogna condividere le stesse leggi e non la stessa lingua.
In questa prospettiva quindi la lingua assume un aspetto secondario, rispetto invece alla polis in
cui parlare la stessa lingua era fondamentale per poter partecipare alla vita della polis e x assumere
cariche pubbliche. Nello stato moderno i cittadini possono avere lingue diverse, anche religione e
cultura diversa, purchè siano governati dalle stessi leggi e da un sovrano unico x tutti.
Però è proprio sul piano delle leggi che si sviluppa l’esigenza di una lingua unitaria all’interno dello
stato il primo documento di regolamentazione giuridica sulla lingua fu l’ordinanza del re di
Francia Francesco 1 – ordinanza di Villers Cotterets 1539 – con cui affermava che tutti gli atti
giuridici dovessero essere redatti nella lingua materna francese. Ciò fece nascere profonde
discussioni perché questa ordinanza poteva avere interpretazioni diverse, chi intendeva la lingua
francese come la lingua d’obbligo degli atti giuridici e chi invece intendeva che questi atti si
potessero redigere in tutte le lingue materne della Francia che allora poteva essere il bretone, il
provenzale.
Ad ogni modo, l’unificazione linguistica riguardava soltanto la lingua del diritto (atti giuridici,
leggi, sentenze…) e non aveva niente a che vedere con le lingue effettivamente parlate dai cittadini,
quindi le lingue quotidiane non esisteva alcuna condanna esplicita delle altre lingue il cui uso
veniva comunque ritenuto ammissibile.
Successivamente invece furono prese posizioni nella direzione di unificazione linguistica
(riguardanti i territori dell’Alsazia, Corsica e Roussillon) perché si riteneva che attraverso la lingua
si potesse agire x formare dei buoni sudditi che si riconoscano nel potere sovrano in questo
svolse un ruolo fondamentale la scuola individuata appunto come strumento x l’assimilazione
linguistica in questo senso invece la lingua assunse maggiore rilievo perché non bastava più
avere le stesse leggi ma bisognava far sentire ai sudditi di appartenere a uno stesso gruppo, proprio
attraverso la condivisione della lingua.
Nonostante ciò, fino a metà 700 ancora il tema della lingua e della scuola non rivestiva un ruolo
primario all’interno degli stati moderni che continuavano ad essere plurilingue e l’unico dato certo
era che la sovranità apparteneva al re e quindi tutto discendeva dalle sue prerogati diventano
prioritari invece con la rivoluzione francese.

3. La rivoluzione francese

La rivoluzione francese costituisce uno dei momenti più importanti nella storia dell’umanità perché
per la prima volta viene riconosciuto con chiarezza il rapporto lingua, scuola e cittadinanza, ovvero
l’importanza della conoscenza di una lingua nazionale quindi ufficiale dello stato come requisito
essenziale di partecipazione alla vita pubblica e quindi di conseguenza x la realizzazione di
un’effettiva uguaglianza tra i cittadini e dell’importante ruolo svolto dalla scuola in questo
processo.
Con la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 viene espressa una nuova
concezione di cittadinanza i principi che vengono proclamati con la rivoluzione francese di
libertà, uguaglianza e fraternità instaurano un rapporto tra individuo e stato che non è più quello di
una volta cioè un rapporto tra dominatore e dominato, ma un rapporto a pari livello la nuova
cittadinanza implica una partecipazione attiva del cittadino, un impegno diretto del cittadino alla
vita economica, sociale, politica della nazione, attività quindi che non è più prerogativa del solo re
ma della volontà di tutti i cittadini, che in egual modo devono e possono avere la possibilità
dell’esercizio di cittadinanza, di accedere a ogni impiego secondo le proprie capacità in questa
prospettiva quindi, alla base dell’esercizio di cittadinanza c’è anche il princio di uguaglianza e
libertà l’articolo 10 di questa dichiarazione afferma nessun cittadino deve essere molestato per le
sue opinioni, anche religiose, l’articolo 11 afferma invece che la libera comunicazione dei pensieri e
delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo e dunque ogni cittadino può parlare, scrivere,
stampare liberamente, èurchè non se ne faccia un abuso e inoltre nell’articolo 14 viene anche detto
che tutti i cittadini hanno il diritto di constatare il potere pubblico, quindi di approvarlo e
controllarlo nelle sue funzioni.
È proprio qui però che emerge la necessità di una lingua nazionale, unitaria, uguale per tutti
infatti l’abbè Gregoire, politico linguista francese, considerava le diversità linguistiche francesi, il
francese era minoritario, un ostacolo all’affermazione dei principi della rivoluzione perché i
cittadini non conoscendo il francese non avrebbero potuto comprendere i decreti emanati, i
principi affermati pericolo che manteneva la popolazione nell’ignoranza. Quindi secondo
Gregoire bisognava programmare una educazione linguistica unitaria perché la lingua nazionale
rende l’uomo libero e lo rende cittadino a pieno titolo. È qui che entra in gioco la scuola è la
scuola a mettere fine all’ineguaglianza diffondendo quindi una lingua unitaria, la lingua della
costituzione, delle leggi eccetera.
Inoltre affinchè i cittadini siano davvero eguali, la scuola deve essere anche obbligatoria, gratuita e
soprattutto pubblica quindi laica svincolata dall’egemonia ecclesiastica ciò venne stabilito con la
costituzione del 1791 e anche con quella del 1793.
Un ruolo importante su questo tema lo ebbe Nicolas de Condorcet, scienziato ed enciclopedista
rivoluzionario, che in un discorso del 1792 denuncia l’inefficacia dell’istruzione affidata alla chiesa
evidenziando una grave situazione di analfabetismo della popolazione, in cui soltanto il 37% degli
uomini e solo il 25% delle donne sapevano firmare l’atto di matrimonio. Condorcet auspicava a una
istruzione obbligatoria, gratuita e pubblica perché l’istruzione è un diritto, uno dei fattori per una
vera eguaglianza e parità tra i cittadini per questo motivo estese la gratuità dell’istruzione non
solo alla scuola elementare ma ai primi 4 gradi della scuola, fino al liceo, solo in questo modo si
potevano dare reali opportunità formative, superando la prima alfabetizzazione per fornire ai
cittadini indipendenza di giudizio utile ad esercitare il proprio ruolo in rapporto alla cittadinanza.
Il merito della rivoluzione francese è stato proprio questo: far emergere il rapporto lingua-scuola-
cittadinanza.

4. L’Italia fino alla 2° guerra mondiale


Anche in Italia, così come in Francia, c’era l’idea di nazione come condivisione di caratteri
omogenei a un popolo tra cui anche la lingua è l’elemento più evidente di unità nazionale Mazzini
avvalorava questa idea sostenendo le parole di Napoleone Bonaparte secondo il quale l’Italia è una
sola nazione, l’unità di costumi, lingua, letteratura deve riunire i suoi abitanti sotto un solo
governo, ma già prima nel Risorgimento era diffusa l’idea che la lingua fosse simbolo di nazione e
unità.
Il problema è che fino all’unità d’Italia 1861 l’analfabetismo era molto diffuso, pari al 75%, per cui
la conoscenza della lingua italiana riguardava soltanto le classi colte ed elevate, a livello popolare
invece era totalmente sconosciuta e si parlavano esclusivamente i dialetti o lingue di minoranza
questo perché una buona conoscenza e un buon uso della lingua, soprattutto della lingua scritta e
formale, presupponeva una formazione scolastica almeno post elementare che solo le classi più
agiate potevano permettersi. Un segnale positivo in questo senso si ebbe nel Lombardo Veneto
durante il periodo napoleonico 1797-1814 con programmi di istruzione laica e gratuita, poi durante
il periodo austriaco con l’incremento delle scuole primarie mentre nel resto d’Italia la situazione
era ancora piuttosto negativa, ma comunque la scuola rimaneva ancora un’istituzione marginale.
Però permaneva l’idea che per la costruzione di un’identità nazionale, la lingua era un fattore
indispensabile.
Dopo l’unità, l’azione politica mosse dei passi verso la situazione scolastica seppur con grande
fatica.
Il nuovo stato basò la politica scolastica su:
- Legge Casati 1859 prevedeva l’obbligo di istruzione per due anni e sanzioni x l’evasione da
questo obbligo.
- Legge Coppino 1877 obbligo di istruzione per tre anni mantenendo sanzioni x l’evasione
dall’obbligo.
In realtà però queste leggi ebbero scarsa efficacia, principalmente per un problema socioeconomico
perché molte famiglie vivevano in condizioni precarie, difficili e quindi erano costretti a non
frequentare la scuola perché la sopravvivenza quotidiana era ovviamente prioritaria, ma c’era
anche il problema che l’organizzazione scolastica faceva fatica ad offrire strutture e personale
adeguato, le condizioni materiali delle scuole erano precarie spesso si trattava di stanze buie, prive
di libri o strumenti didattici e a ciò si aggiungeva anche un corpo insegnante malpreparato 
quindi quasi cinquanta anni dopo l’unificazione ancora non si riuscì a garantire un’istruzione
generalizzata. Altro grande problema era il rapporto tra la lingua italiana e i dialetti perché
nell’Italia post unitaria si parlava della necessità di estirpare i dialetti, cioè c’era una posizione di
avversione nei confronti della diversità linguistica che si accentuò durante il fascismo soprattutto
nei confronti di quelle di confine come quella slovena in Friuli x cui ogni traccia della tradizione
linguistica veniva combattuta con ferocia cambiando i nomi delle città o delle strade, obbligando i
cittadini a italianizzare i propri nomi e cognomi il problema è che non essendo ancora diffusa
l’istruzione, il dialetto rimaneva l’unica lingua possibile x comunicare.
Durante il periodo giolittiano le condizioni migliorarono:
- Legge Orlando 1904 l’obbligo venne esteso a 12 anni e vennero istituite scuole serali per
analfabeti.
- Legge Credaro 1911 le scuole elementari passarono sotto la cura dello stato, vennero istituite
scuole reggimentali x i soldati, scuole carcerarie, vennero stanziati fondi x biblioteche
scolastiche e popolari.
Queste riforme ebbero effetti positivi, l’analfabetismo cominciò piano piano a diminuire anche se la
situazione non era uniforme in tutta Italia le scuole funzionavano meglio nei grandi centri
piuttosto che in campagna e avevano maggior efficacia nelle regioni settentrionali dove cominciò
anche un progresso industriale. Quindi l’Italia viaggiava su due binari, accrebbe il divario tra Nord
e Sud e anche le disuguaglianze sociali perché l’accesso alla scuola secondaria era proprio un
contrassegno di classe.
L’analfabetismo che ancora persisteva impediva ai cittadini di svolgere a pieno l’azione di
cittadinanza e impediva un vero processo di democratizzazione perché ad esempio non potevano
difendere i propri diritti a partire dalle condizioni di lavoro, non potevano partecipare alle elezioni:
- nel 1861 il diritto di voto era riconosciuto agli uomini maggiori di 25 anni che sapevano
leggere e scrivere e che avevano pagato le imposte.
- Nel 1882 venne riconosciuto a tutti gli uomini dai 21 anni, o che avevano superato il biennio
elementare obbligatorio oppire che avevano frequentato una scuola reggimentale
- Nel 1912 ci fu un suffraggio quasi universale perché potevano votare tutti gli uomini di 21
anni capaci di leggere e scrivere, chi era analfabeta invece poteva votare dai 30 anni. Il voto
venne esteso anche a chi aveva prestato servizio militare.
Ma anche in questo modo il diritto di voto copriva solo un 24% della popolazione, quindi la
conoscenza della lingua procedeva ancora a rilento.

5. Scuola e cittadinanza nei totalitarismi del ‘900

I tre regimi totalitari del 900 hanno adottato politiche differenti per quanto riguarda le diversità
linguistiche seppure c’è un elemento in comune, ovveo il fatto che per i tre regimi totalitari la
scuola e l’educazione sono essenziali per la realizzazione dell’ideologia politica e quindi diventano
strumento a servizio del potere, del programma politico elemento comune a tutti i regimi anche
se ovviamente poi hanno operato in maniera differente.
- Il regime sovietico fu abbastanza unico nel panorama delle politiche linguistiche del ‘900
basato sul partito unico perché si poneva in linea con la dichiarazione dei diritti universali
del 1789 quindi agiva verso una maggiore libertà e uguaglianza, cercando di garantire
l’accesso a tutti quindi ci furono grandi risultati nella lotta contro l’analfabetismo. In
Unione Sovietica invece c’erano tante etnie e lingue diverse, alcune molto parlate, altre
meno ed altre ancora erano prive di una tradizione scritta, ma l’Urss diede valore a queste
diversità decidendo di rispettarle, appogiarle e unificarle, quindi le molte lingue parlate ad
esempio vennero normalizzate attraverso dizionari, grammatiche, usandole x libri, giornali
e altri mezzi di comunicazione. Anche per quanto riguarda l’istruzione ci fu una scelta
plurilingue perché veniva garantita a tutti l’educazione iniziale nella prima lingua e al
contempo lo studio del russo ciò ovviamente comportò notevoli sforzi economici, di
ricerca, di organizzazione e formazione però fu senz’altro un fatto positivo.
- Il fascismo e il nazismo invece non erano portatori di valori universali ma al contrario
utilizzavano la scuola e l’istruzione per esaltare le specificità nazionali, fino
all’esasperazione nazista della razza pura la Germania non ha represso le differenze
culturali e linguistiche regionali, anzi le ha esaltate considerandole una ricchezza dell’ethos
del popolo tedesco, fermo restando però il valore superiore della lingua nazionale legata
all’ideologia politica. Non si celebravano le diversità linguistiche, si celebrava l’unicità della
nazione, della razza e questo era espresso anche attraverso la scuola la scuola nazista si
basava proprio sull’educazione razziale e fisica oltre all’esaltazione della figura del Fuhrer,
quindi la scuola doveva formare le menti verso quell’ideologia della razza pura, doveva
addestrare alla battaglia e all’eroismo patriottico quindi ogni forma del sapere veniva
declinata in funzione dell’educazione nazista. Anche la scuola fascista aveva come unico
scopo l’esaltazione dell’italianità fascista, del valore della nazione e del suo duce, esaltare il
mito della guerra come presupposto eroico della nazione Le persone dovevano essere
educate a quell’ideologia e alla concezione dello stato-partito questa scelta si rivelò già nel
1931 quando fu imposto ai professori di firmare un giuramento di fedeltà al regime fascista,
che solo pochi ebbero il coraggio di rifiutare e si ripropose poi nel 1938 con le leggi razziali,
quando l’accesso all’istruzione venne proibito a tutti gli ebrei.
La scuola in generale non aveva tanto una funzione educativa quanto piuttosto di
propaganda.

6. Dichiarazione dei diritti del 1948

La dichiarazione universale dei diritti del 1948 rappresentò un grande cambiamento


essenzialmente perché i diritti che esprime vengono riconosciuti alle persone in quanto esseri
umani e non in quanto cittadini, come accadeva precedentemente. Inoltre va a definire un nuovo
concetto di cittadinanza che ora si definisce in relazione con la democrazia e i diritti di ciascun
uomo.
Ebbe come scopo quello di assicurare la convivenza pacifica tra gli stati e garantire a tutti gli
uomini i diritti espressi nella dichiarazione, diritti alla cui base c’è il principio di uguaglianza 
infatti con questa dichiarazione le diversità individuali sono poste sullo stesso piano, sia quelle
naturali come il sesso, la razza, sia quelle culturali tra le quali anche la lingua.
Il primo diritto enunciato è proprio quello dell’uguaglianza linguisticac’è una differenza: mentre
nella dichiarazione del 1789 non c’era alcun riferimento alla lingua ed era fondamentale solo x
l’esercizio di cittadinanza, ora nella dichiarazione del 1948 l’articolo 2 afferma che la diversità
linguistica non deve costituire forma di discriminazione, non è elemento di distinzione tra i
cittadini di uno stato perché a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà senza alcuna
distinzione di razza, colore, sesso, religione, lingua, opinione politica o altro genere di
conseguenza c’è il riconoscimento di uno stato plurilingue.
Fu emanato anche il diritto all’istruzione fino ad allora la scuola era vista come strumento dello
stato x poter affermare il suo potere, la sua ideologia, insomma era strumento finalizzato
all’affermazione di una identità nazionale. Con la dichiarazione invece l’istruzione diventa un
diritto di ciascun cittadino affinchè possa partecipare attivamente alla vita politica e sociale. Tra
l’altro diventa un diritto sociale diverso dal diritto civile i diritti civili riguardano le libertà
individuali come la libertà di proprietà, di espressione che non presuppongono l’intervento dello
stato, i diritti sociali invece come il diritto al lavoro, alla previdenza, all’istruzione, sono diritti che
presuppongono l’intervento dello stato, c’è un impegno diretto dello stato affinchè tutti possano
realmente esercitare questi diritti, articolo 26.
Un altro aspetto rilevante della dichiarazione del 1948 è l’affermazione della democrazia come
nuovo ordinamento statale proprio perché basato sui diritti e sulle libertà espresse dalla carta.
7. La costituzione

Nella costituzione ci sono diversi articoli che riguardano il rapporto con la lingua e che evidenziano
un orientamento verso il plurilinguismo, quello più esplicito è l’articolo 6 che dice che “La
Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”, ma quello che è particolarmente
rilevante della costituzione italiana e che la caratterizza in senso innovativo rispetto alle altre
costituzioni è che quella italiana non si limita ad enunciare il principio di uguaglianza e di non
discriminazione come afferma l’articolo 2 secondo cui i diritti umani devono essere garantiti a tutti
sia come individui sia come appartenenti a un gruppo sociale, ma va oltre come afferma anche
Pizzorusso, la costituzione italiana cerca anche di dare valore alle diversità linguistiche e culturali e
di mettere in atto delle azioni x eliminare tali differenze ad esempio attraverso l’articolo 3 secondo
cui tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di
sesso, razza, lingua e così via ma afferma anche che è compito della repubblica rimuovere tutti gli
ostacoli, le difficoltà che impediscono la piena libertà e uguglianza tra i cittadini, quindi la
costituzione presuppone l’impegno diretto dello stato in questo senso.
Per quanto riguarda le minoranze linguistiche, inizialmente nei lavori della seconda
sottocommisione si parlava soltanto delle autonomia regionali come Sicilia e Sardegna e delle
regioni di confine come Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli proprio x il loro essere
mistilingue e quindi era una questione prettamente specifica delle regioni successivamente
grazie soprattutto a Oliviero Zuccarini repubblicano la questione delle minoranze si affermò come
una esigenza di carattere generale, cioè questa problematica non deve poggiare su leggi diverse da
una regione all’altra bensì con leggi uguali su tutto il territorio nazionale quindi una questione
regolata da valori universali perché la tutela delle minoranze non può riguardare soltanto quelle
garantite da specifici trattati ma deve essere estesa a tutte quelle presenti e che ci potranno essere
anche in futuro quindi la costituzione riconosce le minoranze linguistiche come parte integrante
dello stato, hanno un valore fondativo e la loro tutela è uno dei principi fondamentali in questo
ebbe un ruolo importante anche Ernest Renan secondo cui appunto le minoranze linguistiche non
rappresentano un pericolo proprio perché la nazione si forma su basi diverse x convergere però in
valori e principi comuni.
Anche in questo la costituzione italiana si differenzia dalle altre, come ricorda Paolo Carrozza
secondo cui quella italiana è una delle rare costituzioni a proteggere le minoranze perché ad
esempio di esse non c’è nessun riconoscimento nella costituzione francese del 1946 o in quella
tedesca della Germania dell’Ovest del 1949, ma proprio in generale nelle costituzioni dell’ Europa
occidentale di allora non si va oltre un generico principio di non discriminazione.
Per quanto riguarda invece la lingua italiana e i suoi dialetti, nella costituzione non c’è alcuna
specificazione non c’è nessun articolo che dichiara la lingua italiana come lingua ufficiale e non si
fa menzione nemmeno dei dialetti questo perché è una questione che verrà sviluppata più sul piano
didattico pedagogico piuttosto che su quello giuridico. Con la nuova costituzione nasce quello che
verrà poi chiamato diritto allo studio con l’articolo 34 lo studio diventa un principio inderogabile,
è un diritto inviolabile perché essenziale x lo sviluppo della persona, viene stabilito l’obbligo per
otto anni comprendendo quindi anche la scuola postelementare e viene stabilito anche l’intervento
attivo dello stato, quindi la scuola va sotto il controllo dello stato perché l’istruzione è uno di quei
diritti sociali.

8. Primi programmi educativi e la grande Riforma della scuola media unificata


Con la nascita della repubblica e della costituzione l’istruzione non viene più vista solo come
strumento di appartenenza a una comunità, come accadde x tutto l’800 e metà del ‘900 ora viene
vista come un diritto dell’uomo e la scuola rappresenta un’istituzione, al pari delle altre, volta ad
affermare i principi costituzionali. In realtà però questi principi costituzionali si scontrano con
fattori oggettivi come le condizioni materiali ed economiche che non favorivano l’accesso
all’istruzione, e anche la necessità di elaborare nuovi programmi educativi che corrispondono alle
finalità educative dell’era democratica. L’Italia repubblicana infatti doveva ancora far fronte a
diversi problemi  il censimento del 1951 rivelava un paese statico, in ritardo rispetto alle altre
nazioni più sviluppate, un paese ancora essenzialmente rurale, un paese che presentava ancora
enormi disomogeneità che si manifestavano anche a livello di istruzione nel 1951 gli analfabeti e
senza titolo erano oltre il 65% della popolazione con squilibri drammatici perché gli analfabeti
erano dieci volte superiori nel Sud rispetto al Nord e questo come denunciava Giuseppe Lombardo
Radice continuava a costituire elemento di disuguglianza e quindi andava contro i principi
costituzionali.
L’esigenza di riformare la scuola venne affrontata già prima della costituzione, nel 1945 con i
programmi Washburne  programmi che essenzialmente vedevano la centralità della scuola come
istituzione libera, aperta a tutti e paritaria (venne eliminata quindi anche la distinzione tra scuola
rurale e scuola urbana) perché doveva essere espressione della democrazia infatti l’istruzione
elementare era la base x la formazione del cittadino in vista della sua attività di cittadinanza, in
vista di una sua più consapevole partecipazione politica. La scuola non doveva solo sconfiggere
l’analfabetismo ma garantire anche conoscenze più durature e consapevoli, cioè proprio un insieme
di qualità civili e politiche inoltre doveva svegliare negli alunni un senso di responsabilità e per
questo la scuola proponeva la diretta collaborazione degli alunni nel governo della classe affidando
loro determinati incarichi o lasciandoli liberi di prendere decisioni. In realtà questi programmi non
ebbero mai modo di realizzarsi perché l’Italia del dopoguerra era ancora una realtà complessa e
arretrata.
I primi programmi educativi ad essere messi in pratica furono i programmi Ermini del 1955
presentavano un arresto nella visione della scuola x la cittadinanza perché se teoricamente la
scuola doveva educare le capacità dell’uomo indistintamente ed avere quindi un carattere laico,
nella pratica veniva indicato come fondamento dell’educazione la religione cattolica. Inoltre non
c’era nessuna apertura alle diversità linguistiche, anzi c’era la volontà di eliminare i dialetti, infatti
gli insegnanti non dovevano mai rivolgersi agli alunni in dialetto ma dare sempre l’esempio di un
uso coretto della lingua nazionale, aspetto però difficile da attuare visto che ancora oggi è
conosciuto ed usato pochi accenni della scuola come formazione del cittadino. Questi programmi
rimasero in vigore fino al 1985 ed in generale ebbero un effetto positivo nella scolarizzazione
perché aumentò la frequenza, aumentarono le licenze elementari, crebbe anche il numero della
frequenza al livello post elementare anche perché la costituzione impose l’obbligo per 8 anni ma i
problemi non furono completamente risolti mancava un concreto percorso di cittadinanza x tutti
gli alunni.
In questa prospettiva infatti ci fu la riforma della scuola media unificata nel 1962 con la legge n.
1859, una delle più importanti riforme scolastiche del dopoguerra nasce x mettere in pratica i
principi costituzionali  infatti precedentemente il trienno dell’istruzione post elementare
prevedeva percorsi distinti per chi era destinato al lavoro e quindi sceglieva un avviamento
professionale e chi invece voleva proseguire gli studi, c’era quindi un divario formativo che andava
contro il principio di uguaglianza con la riforma venne abolito perché significava mantenere un
divario di conoscenze che avrebbe di fatto impedito l’uguaglianza, soprattutto un egualitaria
partecipazione democratica. Questa riforma aveva anche l’esigenza di combattere il lavoro minorile
e la delinquenza cercando proprio attraverso l’istruzione obbligatoria di inserire i bambini in un
percorso di scolarizzazione e cittadinanza di fatto fu difficile da combattere perché in Italia lo
sfruttamento del lavoro minorile aveva proporzioni notevoli. Con questa riforma vennero istituite
anche le classi differenziali cioè percorsi formativi appositi per i portatori di handicap che prima di
fermava solo alle elementari nella realtà queste classi venivano destinate anche ad alunni che
presentavano disagi sociali, provnienti ad esempio da ambienti familiari privi di mezzi economici o
i dialettofoni ciò aveva spesso una conseguenza negativa dal punto di vista psicologico,
dell’autostima perché anziché integrarli in un percorso unitario venivano differenziati.
9. Gli anni del cambiamento nella definizione di scuola (dopoguerra, Don Milani)

Nei primi anni del dopoguerra era cominciato un percorso di grande cambiamento a livello sociale
ed economico che interessò i paesi occidentali ma inevitabilmente si ripercosse in tutto il resto del
mondo, fu un periodo di grande prosperità dovuta ad una crescente industrializzazione, a un
importante sviluppo economico, allo sviluppo delle attività terziarie che di conseguenza
contribuirono ad un aumento medio del reddito e questo a sua volta consentì alla popolazione di
dedicarsi maggiormente allo studio per la diffusione della scolarizzazione contribuì anche la forte
urbanizzazione e senza dubbio anche lo straordinario sviluppo tecnologico e scientifico perché i
mezzi di comunicazione di massa hanno avuto un importante effetto sulla diffusione della lingua.
Tutti questi cambiamenti inclusa la maggior frequenza scolastica spinsero ad una concreta
riflessione sul significato di scuola democratica quindi una scuola che doveva includere tutti nel
percorso di formazione anche coloro appartenenti a quelle classi sociali che nel passato ne erano
state sempre escluse, come i ceti più popolari a livello pratico bisognava proprio ridefinire le
pratiche scolastiche perché x come era impostata la scuola non favoriva ne l’accesso ne la
permanenza degli alunni indistintamente, ma era più elitaria bisognava creare una scuola più
inclusiva che tenesse conto anche delle condizioni sociali delle famiglie dei bambini perché erano
proprio quelle condizioni a determinarne l’esclusione infatti il Movimento di cooperazione
educativa MCE portava avanti le idee del maestro francese Celestin Freinet, fondatore della
pedagogia popolare, bisognava creare una didattica che si ispiri ai principi costituzionali come
uguaglianza dei diritti e delle possibilità, rispetto e valorizzazione delle diversità, libertà di
espressione e partecipazione democratica perché altrimenti il principio di eguaglianza restava una
mera parola senza importanza.
Questo concetto era alla base anche della denuncia di Don Lorenzo Milani, denuncia contro una
scuola classista e antidemocratica lui realizzò a Barbiana una scuola diversa da quella
tradizionale in cui accolse figli di operai e contadini che erano stati bocciati nella scuola pubblica x
dimostrare che il loro insuccesso era dovuto a metodi didattici e pedagogici sbagliati, inefficaci e
non causato invece dalle loro condizioni sociali. Da questa esperienza infatti poi nacque un libro “
lettera a una professoressa” in cui si dimostra attraverso statistiche ufficiali come la scuola lasciava
ai margini della vita sociale migliaia di bambini solo perché meno abbienti venivano bocciati o
rinunciavano alla scuola, andando quindi a lavorare all’età di 13 anni restando semianalfabeti o
comunque disamorati. Al contrario i figli di persone agiate finivano la scuola senza intoppi. La
discriminazione principale era di tipo linguistico, la scuola ignorava del tutto le diverse condizioni
di partenza degli alunni e dei loro bisogni formativi perché la lingua della scuola coincideva con
l’italiano formale praticato a livello borghese ma sconosciuto per le altre classi sociali che di
conseguenza venivano respinte e non avevano le opportunità di progredire socialmente e
civilmente così Don Lorenzo Milani evidenzia l’importanza del rapporto lingua e cittadinanza, di
come è la lingua a renderci uguali perché senza le capacità linguistiche adeguate si rimane isolati
dalla partecipazione alla cittadinanza democraticala marginalizzazione linguistica coincide con
uno svantaggio sociale e in questo ha un ruolo importante la scuola, x cui bisognava rivalutare il
modo in cui si insegna e si apprende nella scuola.

10. Tullio De Mauro e le dieci tesi


Nella seconda metà del ‘900 si assiste a importanti riflessioni critiche sul sistema scolastico portato
avanti fino ad allora, considerato classista, antidemocratica, denunciata anche da Don Lorenzo
Milani, c’era bisogno di creare una nuova scuola, una nuova didattica, una didattica che fosse più
inclusiva, democratica, che consenta l’acquisizione di quelle competenze necessarie alla
partecipazione, alla cittadinanza democratica e che consenta quindi di eliminare le disuguaglianze
sociali.
Si capì anche che un fattore essenziale per una scuola con queste finalità è l’apprendimento della
lingua, fattore determinante x la lotta alla disuguaglianza. In questo ebbe un ruolo importante
Tullio De Mauro con le Dieci tesi x un’educazione linguistica democratica. Già nel libro “storia
linguistica dell’Italia unita” aveva trattato il tema della lingua come aspetto centrale della
dimensione educativa. Questione che venne portata avanti anche dalla Società di linguistica
italiana, anche sugli aspetti sociolinguistici, di come la condizione economica e sociale degli alunni
ha un ruolo importante nella dinamica di apprendimento della lingua. Ma il passaggio più maturo
si ebbe proprio con le dieci tesi di De Mauro, documento che definisce le linee di intervento
dell’educazione linguistica e connettere l’educazione linguistica alla cittadinanza perché la
conoscenza della lingua la padronanza del lessico della sintassi non sono obiettivi educativi fini a se
stessi ma essenziali x la formazione del cittadino, x l’esercizio pieno dei suoi diritti.
1. Centralità del linguaggio verbale, di come sia importante nella vita sociale e individuale.
2. Il suo radicamento nella vita biologica, emozionale, intellettuale e sociale nel senso che
permette contemporaneamente uno sviluppo intellettuale, fisico, affettivo, sociale.
3. Pluralità e complessità delle capacità linguistiche  perché permette abilità comunicative,
cognitive, emotive.
4. I diritti linguistici nella costituzionespiega la relazione tra lingua, scuola e cittadinanza, la
scuola è essenziale x lo sviluppo di quelle competenze linguistiche necessarie ad ogni
cittadino x svolgere l’esercizio di cittadinanza. Di conseguenza la scuola è realmente efficace
se realizza i principi espressi dalla costituzione soprattutto negli articoli 3 e 6 che
riconoscono l’uguaglianza di tutti senza distinzioni di lingua e propone tale uguaglianza
come traguardo dell’azione della repubblica la scuola deve tutelare le diversità
linguistiche siano esse idiomi diversi o forme diverse dello stesso idioma, non devono
costituire ostacoli, forme di discriminazione o esclusione.

7. Limiti della pedagogia linguistica tradizionale trasformava in svantaggio le diversità


linguistiche perché spesso non teneva conto della situazione di partenza degli alunni che spesso
era più colloquiale e dialettale e quindi non andava ad individuare i bisogni formativi di ciascun
alunno. Quindi dal punto di vista pedagogico è fondamentale e necessario partire dal ruolo
della lingua materna che in molti casi era il dialetto.

8. Principi dell’educazione linguistica democratica che è una didattica più esplorativa delle
diversità linguistiche, lo sviluppo delle capacità linguistiche parte proprio dall’aspetto
linguistico culturale personale, familiare dell’alunno perché così facendo si arricchisce il suo
patrimonio linguistico perché ad esempio in questo modo riesce a capire la funzionalità
comunicativa di un testo parlato o scritto a seconda degli interlocutori, del contesto imparare
a capire e apprezzare queste varietà è il primo passo x imparare a viverci in mezzo senza
esserne succubi.

Le idee educative espresse nelle Dieci tesi prendono atto della necessità di acquisire la lingua
italiana, ma allo stesso tempo di modificare alla radice l’impostazione didattica tradizionale che
trasformava in svantaggio la diversità linguistica. Le Dieci tesi si riferivano a un momento storico
in cui la diversità linguistica era rappresentata dai dialetti e dalle minoranze linguistiche di antico
insediamento. A distanza di anni la situazione è notevolmente cambiata. L’italiano è diventata
finalmente la lingua più usata da tutti, e tuttavia i dialetti continuano a essere parte attiva della vita
sociale e culturale italiana. In realtà, l’ulteriore e decisivo elemento di mutamento è rappresentato
dalle nuove lingue dei migranti.
Nonostante i miglioramenti, l’Italia era un paese ancora a bassa scolarità. Vi è una pratica di
educazione linguistica non ancora in grado di rispondere alla trasformazione significativa
dell’accesso all’istruzione degli anni Sessanta e Settanta, alla maggiore richiesta di partecipazione
sociale e ai conseguenti bisogni educativi, era necessario dunque un generale riassetto dei
programmi scolastici. Nasce così un’intensa attività di rinnovamento dei programmi, che si
realizzerà intorno tra la fine degli anni ‘70/’80 la scuola afferma il suo ruolo prioritario per la
democrazia delineando una formazione unitaria e coerente dei cittadini, con al fondo una rinnovata
idea di educazione linguistica.

I programmi della scuola media del 1979 I primi ad essere riformati furono i programmi
della scuola media unificata. I programmi per la scuola media del 1979, che si ispirano ai principi
fondamentali presenti nelle Dieci tesiLa scuola veniva dunque ufficialmente chiamata a prendere
atto dell'esistenza di una realtà socioculturale e sociolinguistica, fatta di dialetti e di lingue di
minoranza, di cui tenere necessariamente conto per evitare esiti formativi ed educativi fallimentari,
per evitare situazioni di marginalità come fattore di esclusione dal processo formativo  questo
perché la scuola assume un valore sociale, l’istruzione è legata ai principi democratici e
costituzionali, è in ogni sua parte integralmente correlata allo sviluppo delle capacità di
orientamento e di scelta personale, di autonomia e partecipazione alla vita sociale e democratica,
infatti all’interno vi si trova per la prima volta l’insegnamento dell’educazione civica che non si
ferma allo studio della costituzione ma investe la conoscenza di tutte le istituzioni pubbliche, sociali
e della scuola stessa un’idea di scuola democratica, fondata su principi generali e universali. Si
ponevano così le basi per un superamento delle disparità tra gli alunni provenienti da ambienti
sociali e culturali diversi. Ancora una volta si ribadisce un’idea di scuola democratica, fondata su
principi generali e universali. In questo senso ha ruolo decisivo l’educazione linguistica  nei
programmi del 1979 si ribadisce che una buona conoscenza e padronanza del linguaggio in tutte le
sue funzioni è uno dei requisiti essenziali della cittadinanza democratica, ma anche un diritto
individuale e universale di ciascun essere umano. Ma perché questo diritto si eserciti realmente
deve essere garantita a tutti l’opportunità di conoscere la lingua nazionale, la lingua delle leggi,
della scuola, della discussione democratica ma al tempo stesso bisogna tenere conto del diverso
retroterra socioculturale degli alunni, adottare una didattica della lingua italiana che tenga conto
del fatto che molti alunni hanno come lingua abituale il dialetto o una lingua di minoranza.
I programmi del 1979 sanciscono inoltre una nuova concezione dell’educazione linguistica, da
intendere come un unico concetto che mette insieme italiano e lingue straniere, anche in ottica
internazionale.
I programmi per la scuola primaria del 1985 programmi che seguono la scia teorica, politica
e pedagogica di quelli delle scuole medie del 1979. Anche qui è centrale il richiamo alla Costituzione
, soprattutto l’articolo 3 della Costituzione rappresenta il fondamento dell’azione scolastica,
dedicando anche una specifica attenzione al tema della diversità. Dal punto di vista interno al
percorso educativo la scuola elementare è vista, in relazione alla scuola media, come un momento
essenziale del percorso della formazione del cittadino. I principi di cittadinanza, quali la convivenza
democratica, la partecipazione e la crescita consapevole sono anche qui il cardine del percorso
educativo. Scompare il richiamo alla dottrina cristiana come “fondamento e coronamento” della
formazione dell’alunno dei programmi del 1955 e si afferma la natura laica ed egualitaria della
scuola.
Si afferma che la scuola elementare deve dare “consapevolezza delle varie forme di ‘diversità e di
emarginazione’ allo scopo di prevenire e contrastare la formazione di stereotipi e pregiudizi nei
confronti di persone e culture” si riflette nell’educazione linguistica cerca di sviluppare tutte le
capacità linguistiche, scritte e orali, dei vari usi e registri per una buona competenza comunicativa
e al contempo viene riconosciuta l’importanza delle diversità linguistiche e culturali di cui è
portatore l’alunno, al fine di elaborarla positivamente nel percorso formativo. In questo senso, è
costante l’attenzione specifica per i dialetti, sia come patrimonio linguistico e culturale, sia come
punto di partenza per una didattica efficace. Un’attenzione più esplicita al plurilinguismo si ha
nella sezione dedicata alla Lingua straniera. L’apprendimento di lingua straniera è un momento
indispensabile anche per il percorso di integrazione europea.
11. Lingue, scuole e cittadinanza dagli anni ‘90 a oggi
A partire dagli anni ’90 ma già prima negli anni ’80, l’importante sviluppo industriale e
tecnologico intrapreso dall’Italia determinò un nuovo assetto sociale quindi una maggiore crescita
economica, professionale e una maggiore scolarizzazione con un incremento dello studio e della
conoscenza dell’italiano dato che non era più un elemento estraneo nella vita quotidiana perché
non ci si avvicinava alla lingua solo attraverso la scolarizzazione ma anche grazie
all’urbanizzazione, alla televisione.
Quindi ci fu un nuovo equilibrio tra italofonia e dialettofonia: se nel 1955 i dialettofoni costituivano
il 64% della popolazione, dagli anni ’80 era maggiore il numero di coloro che parlavano solo
italiano, dagli anni ’80 entrò stabilmente nell’uso comune, lingua della quotidianità, dell’esperienza
privata, pubblica, scientifica, letteraria eccetera i dialetti continuavano comunque ad esistere
perché si trovavano a convivere generazioni più anziane che conoscevano poco l’italiano accanto a
figli e nipoti con livelli di istruzione più elevati italiano e dialetto coesistonocambiò la struttura
sociolinguistica dei parlanti se prima dialetto e italiano costituivano un’alternativa di codice solo
x pochi che sceglievano in base alla situzione comunicativa (code-switching), dagli anni ’80 si
registra il fenomeno del code-mixing cioè un uso misto, contemporaneo di italiano e dialetto , non
sono codici alternativi ma risorse espressive concrete avendo una sicurezza linguistica
nell’italiano, i dialetti e le lingue di minoranza non vengono più percepiti come una condizione di
inferiorità bensì come un’alternativa di comunicazione il dialetto è una possibilità espressiva che
non contrasta con la competenza comunicativa, ma che, anzi, agisce nel senso di rafforzarla e
consolidarla.
La questione delle minoranze linguistiche si colloca su un piano diverso rispetto ai dialetti. I
dialetti sono percepiti prevalentemente come segno di arretratezza ma comunque un aspetto
interno alla tradizione linguistica italiana e, perciò, innocui sul piano dell’unità nazionale.
Le minoranze linguistiche invece sono sempre viste con sospetto il primo riconoscimento
avvenne in ambito Onu con il Patto internazionale sui diritti civili e politici dove si dichiara il
diritto all’uso della propria lingua x gli appartenenti alle minoranze, in Europa nel 1992 ci fu la
Carta delle lingue regionali o minoritarie e nel 1995 la Convenzione quadro sulle minoranze
nazionali nonostante ciò c’era ancora molta chiusura e resistenza. Come abbiamo visto, la
Costituzione italiana è una delle poche che riconosce nei suoi principi la tutela delle minoranze
linguistiche assumendole come parte costitutiva della Repubblica democratica, non si limita
dunque a dichiarare l’eguaglianza tra le lingue, ma si dichiara esplicitamente la necessità di
apposite leggi per la tutela delle minoranze linguistiche (articolo 6).
Fu approvata nel 1999 una legge sulle “norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche”  legge che però non fu in grado di superare le resistenze e diffidenze nei confronti delle
minoranze e di questo ne è prova innanzitutto l’articolo 1 che recita “la lingua ufficiale della
Repubblica è l’Italiano”  contraddizione esplicitare ciò serve semplicemente a rassicurare del
fatto che le minoranze non costituiscono una minaccia x l’unità della nazione.
L’aggettivo storiche nell’intestazione della legge serve inoltre a rendere chiaro che il principio di
tale tutela non può estendersi alle cosiddette ‘nuove minoranze’, rappresentate dalle comunità
linguistiche degli immigrati, anche se in teoria l’articolo 6 della Costituzione ne consentiva
l’inclusione infatti l’articolo 2 della legge delimita l’ambito di applicazione della tutela alla lingua
e alla cultura delle popolazioni albanesi, catalane, greche, germaniche, slovene, croate e di quelle
parlanti il francese, franco-provenzale, friulano, occitano e sardo viene ad esempio esclusa la
minoranza Rom anche se storicamente radicata nella tradizione italiana esclusione motivata per
un criterio della non territorialità, cioè che non fosse possibile attribuire loro un territorio di
riferimento in realtà l’esclusione era dovuta solo a pregiudizi nei confronti di queste minoranze
rom o zingare.
Alla scuola è dedicato l’articolo 4., il quale riguarda sostanzialmente quattro aspetti:
- la possibilità che la lingua e le tradizioni culturali delle minoranze possano essere insegnati
nelle scuole elementari e medie;
- la possibilità dell’ampliamento dell’offerta formativa agli adulti;
- la possibilità che nelle scuole materne l’educazione linguistica preveda, accanto all’uso della
lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività
educative;
- nelle scuole elementari e medie sia previsto l’uso anche della lingua di minoranza, come
strumento dell’insegnamento. Oltre al riconoscimento simbolico dell’importanza del
plurilinguismo nella scuola e nella società italiana, offrono strumenti concreti di intervento
di tutela e promozione delle minoranze. Si mette in rilievo come la scuola sia il terreno
decisivo per la realizzazione di una cittadinanza che non rinunci alla propria identità
linguistica e culturale, si rafforza l’idea di una scuola orientata a un effetto pluralismo, che
rispetta positivamente la diversità linguistica.

12. La prospettiva della cittadinanza europea


Un aspetto di rilevante novità riguarda la diversità linguistica posta come fondamento
dell’istituzione europea. Si dichiara fin dall’inizio un’istituzione basata sul multilinguismo, quindi
pone fin da subito tutte le lingue nazionali su un piano di parità e riconoscendole come lingue
ufficiali dell’istituzione. Attualmente le lingue ufficiali dell'Unione europea sono 24.
Più complessa è invece la questione che riguarda gli atti amministrativi e di varia natura prodotti
dall’Unione europea: riunioni, bandi di concorso, pubblicazioni e altri importanti documenti
pubblicati anche online.
In questo contesto, vengono definite cosiddette ‘lingue di lavoro (o di servizio) l’inglese, francese e
tedesco, con un’evidente predominanza dell’inglese già questo dato rappresenterebbe di per sé
un limite all'accessibilità a documenti e atti di importanza pubblica per quei cittadini che non
hanno una delle tre lingue  si tratta di una sorta di limitazione dell’eguaglianza dei diritti
linguistici dei cittadini europei. Così, la diversità linguistica diventa in un certo modo un ostacolo,
poiché preclude una reale possibilità di accesso a tutti gli atti politici e amministrativi.
Nei documenti europei vi è una distinzione efficace tra i termini multilinguismo e plurilinguismo
Multilinguismo indica la coesistenza di più lingue in uno stesso territorio o ambito sociale; per
plurilinguismo si intende la capacità di usare una o più lingue da parte di un soggetto. In questo
caso, la politica linguistica europea ha promosso un’educazione orientata al plurilinguismo. Nella
prospettiva della formazione di una cittadinanza europea, le lingue e l’educazione rivestono un
ruolo decisivo. In passato, la cittadinanza si era definita all’interno di ciascuno Stato, mentre ora
deve rimodularsi in rapporto a un’istituzione sovraordinata.
L’Unione europea elabora una forte politica educativa come strumento strategico per favorire
l’integrazione dei cittadini europei, politica educativa che riguarda il mondo del lavoro e
dell’industria, sia per ciò che concerne lo sviluppo della coscienza europea dei suoi cittadiniIn
particolare, il sistema dell’istruzione e della formazione deve fornire solide basi nelle competenze
scientifiche, culturali e linguistiche quindi si pone attenzione all’insegnamento delle lingue; occorre
lottare contro l’emarginazione, migliorando le pratiche educative per evitare l’abbandono scolastico
e inserire o reinserire gli adulti nel circuito dell'educazione e della formazione.
In generale, emerge, infine, un’esigenza fondamentale anche per la ‘formazione permanente’, che è
diventata uno dei temi più importanti nelle politiche educative europee Tutto ciò si esprime
efficacemente nel concetto di lifelong learning si intende un processo volto a creare in ogni
ambiente educativo le condizione per una formazione continua, permettere cioè il rinnovo delle
conoscenze e all’acquisizione di nuove conoscenze, quindi creare un solido bagaglio di conoscenze e
competenze. Tutto questo insieme allo sviluppo economico e la partecipazione alla cittadinanza
europea, costituiscono le basi teoriche e politiche di tutti i successivi programmi europei tra i quali
possiamo ricordare i programmi Socrate, Erasmus e Comenius x l’istruzione oppure il programma
Leonardo per una formazione professionale.
A ogni modo, l’educazione è un fattore cruciale per la costruzione della cittadinanza europea.
L’Unione europea rafforza progressivamente il suo ruolo in questo ambito, sviluppando due
programmi specifici, il primo è stato Lisbona 2010, al quale è seguito Europa 2020, in cui si
ribadiscono sostanzialmente le finalità della cittadinanza democratica come principio guida.
Tra gli obiettivi strategici vi troviamo:
• “fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà”,
• “migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione”
• “promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva”.
• il miglioramento della capacità di lettura degli alunni di 15 anni;
• la riduzione degli abbandoni scolastici;
• l’aumento dei giovani che completano il ciclo di istruzione superiore;
• l’aumento dei laureati in matematica, scienze e tecnologia;
• una maggiore partecipazione degli adulti all’apprendimento permanente;
• una maggiore partecipazione all’istruzione pre-elementare.
In un’ottica di una cittadinanza europea più ampia e basata sul pluralismo linguistico e culturale.

Tullio De Mauro, il quale scrisse un libro intitolato “In Europa son già 103. Troppe lingue per una
democrazia” che, già dal titolo, fa capire quali sono i temi principali della questione. “Se vogliamo
che l’Europa a 28 si trasformi in uno Stato federale democratico, la questione della lingua come
questione politica di democrazia, di partecipazione paritaria delle popolazioni al governo
dell’Unione non si può più escludere”.
Egli propone l’adozione dell’inglese come possibile soluzione. Questa scelta viene motivata anche
con argomentazioni di tipo linguistico e culturale, ma si basa soprattutto sulla constatazione che
l’inglese è divenuta ormai la lingua di comunicazione internazionale ed è la lingua più conosciuta e
usata in tutti i paesi d’Europa.

13. Immigrazione lingue e cittadinanza

Un elemento nel panorama linguistico italiano è rappresentato dalle nuove lingue dei migranti.
L’ Italia è diventata una delle principali mete di milioni di immigrati che portano con sé le loro
lingue e le loro culture. Si è venuta così a creare una misto di idiomi, e il plurilinguismo
tradizionale si è allargato ancora di più accogliendo in maniera stabile e permanente tradizioni
linguistiche e culturali insolite per il nostro paese.
Gli immigrati regolari sono invece passati da quasi 300 mila nel 1980 per arrivare poi a circa 5
milioni nel 2019.
Tuttavia, se fino agli anni ‘90 l'immigrazione sembrava essere favorevole ad una fase di sviluppo e
benessere, a partire dal Duemila, le cose cambiano profondamente per ragioni varie
specialmente in seguito alla crisi economica del 2008, quando, in tutti gli stati europei si genera un
senso di precarietà e di insicurezza sia dal punto di vista sociale che economico e in questa
situazione di crisi, che riduce anche le possibilità di lavoro e i redditi medi, il crescente afflusso di
migranti viene percepito come un fattore decisamente negativo, che causa la riduzione delle risorse
sociali e delle opportunità di lavoro. Per di più, si aggiunge anche l'aspetto del terrorismo, le cui
radici rimandano all'attacco delle torri gemelle a New York nel 2001 e ai successivi attentati in
Europa che ha prodotto una diffidenza generale verso gli stranieri e soprattutto verso gli immigrati
islamici.
Un altro aspetto ancora riguarda i flussi migratori provenienti dal nord Africa attraverso il
Mediterraneo, i quali vengono spesso dipinti come un processo di invasione e/o destabilizzazione
dell'unità nazionale. (La propaganda politica dei partiti di destra e di estrema destra, influenzano
negativamente in questo senso).
Gran parte del fenomeno migratorio è dovuta a storici squilibri economici e sociali tra la parte più
ricca del mondo e le poche risorse a disposizione del resto dell'umanità; squilibri che si sono
rinnovati e che soprattutto non sembrano diminuire.
Il cambiamento tra il fenomeno migratorio e la crisi economica ci permettono però, di ragionare
sugli effetti hanno prodotto nel rapporto tra lingua e cittadinanza.
L'idea di cittadinanza che era parsa orientarsi verso una matura accettazione del plurilinguismo
entra in crisi, facendo emergere nuove problematiche.
Quindi si ha una ridefinizione del rapporto tra lingua e cittadinanza in cui assume un ruolo decisivo
la lingua anche dal punto di vista giuridico.
Mentre i capitoli precedenti mettono in evidenza il fatto che la scuola aveva, e ha sempre come
obiettivo quello di garantire a tutti i cittadini le competenze linguistiche necessarie e sufficienti per
partecipare attivamente alla vita pubblica. Sostanzialmente si tratta di una prospettiva
completamente politica e non giuridica.
In passato, la conoscenza della lingua italiana e il livello di competenza linguistica non avevano mai
rappresentato un requisito indispensabile per la cittadinanza.
Questa situazione cambia nell'ultimo decennio, quando, per la prima volta nella storia italiana, il
legame lingua- cittadinanza non si collega più solamente alla dimensione politica, ma assume
importanza anche sul piano giuridico, in relazione alla concessione della cittadinanza agli stranieri.
Inoltre, bisogna dire che questa scelta non è solamente italiana, in quanto, tra gli Stati dell'Unione
Europea un certo numero di essi richiede una prova di conoscenza della lingua come requisito per
l’acquisizione della cittadinanza.
Per l'esattezza, da un'indagine su 36 paesi europei emerge che 9 paesi richiedono conoscenze
linguistiche per l'ingresso; 23 richiedono un requisito linguistico per il rilascio del permesso di
soggiorno; e 26 richiedono un requisito linguistico per ottenere la cittadinanza.
Per quanto riguarda l'Italia, questo requisito fu introdotto per la prima volta nel 2009 su grazie
Ministro dell’Interno del governo Berlusconi, Roberto Maroni in quell'occasione, vi furono
numerosi dissensi su quel provvedimento ritenuto punitivo e discriminatorio. In effetti, le posizioni
ideologiche di quel partito, il quale non può definirsi propriamente favorevole agli immigrati,
generavano alcuni dubbi ma, si può dire però che quello fu uno dei rari momenti in cui veniva
formalmente affermato il legame tra la conoscenza linguistica e la cittadinanza. In realtà si fece
anche di più: si stabili, cioè, che la conoscenza della lingua fosse una condizione essenziale per
diventare cittadino di uno Stato.
Questa presa di posizione, per l'Italia, la cui popolazione è stata oltre un secolo in maggioranza
dialettofona, si tratta di un vero e proprio stravolgimento. Infatti, al momento dell'unificazione,
l'italiano era conosciuto, secondo le stime di De Mauro da appena il 2,5% della popolazione; ma
anche coloro che formavano il restante non lo parlava ne lo comprendeva, erano ugualmente
cittadini italiani. Fino agli anni 80 (del XX secolo) gli italofoni furono sempre in numero inferiore
rispetto ai dialettofoni, così come la metà degli adulti italiani non aveva mai superato un livello
elementare di istruzione. Nonostante tutto, ai cittadini italiani, né allora né dopo, è stata mai
richiesta alcuna prova di conoscenza della lingua italiana.
A questo proposito la questione che diventa di importanza giuridica non solo politica per gli
stranieri e non per gli italiani.
Nel 2018 il governo italiano ha emanato un decreto, poi tramutato in legge, fortemente voluto dal
Ministro dell’Interno leghista Matteo Salvini (ma condiviso anche dal Movimento 5 Stelle), il quale
restrinse considerevolmente le possibilità di ottenere la cittadinanza da parte di migranti, rifugiati
e richiedenti asilo.
Ciò ovviamente ha solo peggiorato le norme nei confronti degli stranieri immigrati.
Oltre alla lingua italiana, le conoscenze richieste nel decreto riguardano anche i principi su cui si
basa la democrazia italiana, in primis quelli costituzionali è importante conoscerli ma è chiaro
che se fosse richiesta a tutta la popolazione italiana una prova di questo tipo, molti si troverebbero
nella situazione imbarazzante nel riconoscere di non possedere quel requisito che è esplicitamente
richiesto agli immigrati.
Un altro aspetto importante da considerare è che questo decreto è passato con il nome di decreto
Sicurezza Al suo interno, infatti, si trovano anche disposizioni contro la criminalità organizzata
 mettere nello stesso decreto indicazioni sulla lingua per la concessione della cittadinanza volte al
contrasto delle organizzazioni criminali, come la Mafia, la Ndrangheta e la Camorra, è come
stabilire un rapporto diretto tra immigrazione e criminalità in realtà tale accostamento non è
insolito nella storia Europea, anzi, ne costituisce una delle caratteristiche più evidenti. Fin
all'incirca dall'800, infatti, si considera i cittadini portatori di lingue diverse come una potenziale
minaccia per l'unità dello Stato. Sotto questo punto di vista, dunque, si potrebbe pensare che tale
atteggiamento sia dovuto ad un sentimento comune che si è andato consolidando nel corso del
tempo e che sembra riemergere anche in questa circostanza.
Inoltre è richiesto anche un determinato livello di conoscenza della lingua, ulteriore fattore che
determina una volontà di rendere più difficile questo percorso infatti, se nel precedente decreto
del 2010 era richiesta una conoscenza pari al livello A2 del quadro comune europeo di riferimento,
nel decreto del 2018 si richiede una conoscenza pari al livello B1.
La scala dei livelli del QCER non costituisce solamente una scala di valutazione della competenza,
ma fa corrispondere ad ogni livello un profilo di parlante in base alle concrete capacità di uso della
lingua. Vengono identificati i vari livelli, dall’A1 al C2. (A, corrisponde al Basic user, ossia al “
livello elementare”; mentre il segmento B (B1,B2) identifica l'Independent user, in italiano “ livello
intermedio”. Questi segmenti interessati dai decreti 2010 e 2018. Il livello A2 viene tradotto con
“sopravvivenza” e il livello B1 “ livello soglia”).
Il passaggio dal livello A2 al livello B1 segna una differenza importante perché implica il progresso
da un uso elementare della lingua ad un primo livello di uso indipendente (sebbene non
sufficientemente elaborato). In questo senso, il livello A2, livello di “sopravvivenza”, risulterebbe
inadeguato ma allo stesso tempo, però, la richiesta del livello B1 risulta essere decisamente elevata.
Basti solamente pensare al fatto che il livello B1 è in molti casi richiesto agli studenti Erasmus per
poter seguire i corsi universitari nel paese in cui vanno a studiare. Per quanto riguarda gli
immigrati che giungono in Italia, non possono essere minimamente paragonabili agli studenti
universitari.
Inoltre, oltre alla distanza delle lingue di molti immigrati rispetto all'italiano, l'apprendimento
dell'italiano avviene solitamente in modo spontaneo e in maniera orale. L’acquisizione di tale
livello, che presuppone elaborate capacità linguistiche, anche di lingua scritta e di riflessione
grammaticale, si ottiene di solito a seguito della frequenza di specifici corsi di lingua e per un arco
di tempo prolungato. Per garantire l'apprendimento di tali capacità manca però una strategia
politica e educativa coerente; infatti, questi tipi di corsi di lingua per immigrati, soprattutto adulti,
sono in realtà spesso gestiti dal volontariato civile e religioso.
Infine, anche gli orari e i tipi di lavoro svolti dagli immigrati, prevalentemente nell'agricoltura,
nell'industria e nell'edilizia, ostacolano questo tipo di apprendimento.
Se si volesse veramente favorire un percorso di cittadinanza di questo genere, si dovrebbero
istituire dei corsi specifici, in orari fruibili e con insegnanti specificamente formati.
Ciò implicherebbe quindi un impegno pedagogico e finanziario, insieme ad un organizzazione
scolastica e all'elaborazione di un sistema educativo che abbia realmente come scopo principale
l'integrazione degli stranieri nella società italiana. Solo ciò potrebbe dare nel tempo risultati
positivi. Tuttavia non sono state stabilite delle linee politiche linguistiche ed educative orientate a
questo scopo.
Conoscendo bene la situazione degli immigrati, il requisito di un livello così elevato vuol dire fare
un uso punitivo della lingua, utilizzata come barriera e come strumento di esclusione.
Se finora il rapporto tra lingua e cittadinanza era orientato a favorire la partecipazione alla vita
democratica, ora la lingua non è più un mezzo per la cittadinanza volto all'inclusione.
C'è anche da considerare un altro aspetto: dato che la cittadinanza può essere richiesta solo dopo
una permanenza di dieci anni con regolare permesso di soggiorno, l'indicazione del livello B1
diventa un elemento di ulteriore incertezza. È una vera e propria discriminazione, Specialmente se
si pensa che il 70% dei già cittadini italiani si trova ad un livello di analfabetismo funzionale al di
sotto di quelle stesse competenze richieste agli immigrati.
Queste norme sulla cittadinanza appaiono contraddittorie anche perché mettono insieme due
aspetti che finora sono stati sempre separate: l'aspetto politico e quello giuridico.
Lo status di cittadino proveniva da una condizione di nascita e prescindeva sia dalla lingua
conosciuta sia dal livello di conoscenza della lingua nazionale
Nella recente legge che regola l'acquisizione della cittadinanza, le competenze linguistiche
diventano un requisito giuridico per la cittadinanza. Esse vengono richieste come necessarie
proprio per la partecipazione alla vita democratica. Quindi ora le conoscenze linguistiche non sono
più intese come percorso inerente alla cittadinanza democratica ma come
presupposto/precondizione.
L'inserimento del requisito linguistico nel decreto sicurezza e le dichiarazioni politiche successive a
questo decreto, tutte volte a qualificare lo straniero come un invasore, un parassita e un potenziale
delinquente, ha portato a rafforzare l'idea di una comunità in pericolo. Così facendo, senza la
lingua, o meglio, senza un livello adeguato di lingua non si può diventare cittadini anche se si è
residenti e si lavora regolarmente in Italia da molti anni e anche se molti italiani non possiedono
quel requisito richiesto.
Il concetto di seconda generazione è abbastanza controverso, perché viene trasferita l'idea di
emigrazione anche a coloro che in realtà non sono immigrati e non hanno fatto nessun viaggio; la
nozione si usa infatti indistintamente sia per chi è nato nei paesi di arrivo dei propri genitori, sia
per chi è arrivato nella prima infanzia.
Utilizzando l'aggettivo “ seconda” si mette in evidenza il legame etnico originario, lasciando però
in ombra il legame con il luogo in cui si vive, si studia e si lavora. (In questo modo, bambini e
ragazzi sono costretti a portare con sé la denominazione di un posto inferiore in una gerarchia,
perchè appunto “seconda” generazione).
C’è da dire anche che i bambini e i ragazzi di seconda generazione frequentano le scuole,
l'università e parlano bene in italiano. Tuttavia ciò non evita aspetti problematici relativi al
successo e all'abbandono scolastico e al quadro psico-sociale.
Una delle prime difficoltà è stata la definizione, trovare una denominazione univoca per gli alunni
con cittadinanza non italiana, per evitare di incappare in una connotazione che stabilisca un “noi” e
un “loro” già nel nome (di categorizzare questi alunni).
Una delle prime denominazioni è stata “alunni stranieri”, ma chiamare “stranieri” questi alunni,
nati in Italia, che hanno frequentato le scuole italiane e che spesso conoscono meglio la lingua
italiana che quella della loro origine, appariva profondamente ingiusto e discriminatorio. In effetti,
sentirsi chiamare straniero nel paese in cui si nasce, è oggettivamente contraddittorio.
Nonostante ciò, sono stati chiamati “stranieri” per molto tempo, persino da istituzioni/organi come
il Miur, il quale intitolava i dossier statistici es. “Notiziario Stranieri”. Poi si è passati ad una
denominazione più “ neutra”, definendoli “alunni con cittadinanza non italiana”, dalla quale però
appare una differenza nella (loro) condizione giuridica. (Queste denominazioni si trovano anche
nell'ultimo dossier ministeriale del Miur del 2009 con alternanze di vario tipo tra cui “ alunni
stranieri”, “alunni con background migratorio” e anche “ alunni di origine migratoria”.
Per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche di tipo linguistico, pedagogico e si usa spesso la
denominazione “ alunni immigrati”, anche se essi non lo sono; “ figli di migranti/immigrati”.
Più recentemente è stata aggiunta una definizione che, pur non essendo comunque perfetta, si
avvicina almeno di più alla realtà: “ nuovi italiani”. anche in questo caso, però, la denominazione
non appare adeguata, dal momento che viene evocata una successione temporale, un prima e un
dopo Tuttavia, la difficoltà sarebbe qui quella di spiegare ad un bambino che lui è “ un nuovo
italiano”.
Per quel che riguarda la legge sulla cittadinanza finora, per i minori, essa è regolata dal cosiddetto
ius sanguinis, cioè (giuridicamente) ne hanno diritto i figli di almeno un genitore con cittadinanza
italiana. Ne sono escluse quindi tutte le seconde generazioni.
Per quanto riguarda la seconda generazione, chi è nato in Italia può ottenere la cittadinanza solo al
compiere del 18 anni e solo se è stato residente ininterrottamente in Italia.
Dai 18 si ha poi un anno a disposizione per richiedere la cittadinanza, ma le cose possono cambiare
perché anche se nati in Italia, devono rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno e non
possono trascorrere periodi di tempo all'estero, nemmeno per motivi di studio, perché essi
interromperebbe il periodo di residenza continua necessaria.
Al momento, in Italia, si discute riguardo la modifica delle norme per l'acquisizione della
cittadinanza, legandola non alla lingua ma all'istruzione. Una delle proposte di legge prevede sia lo
ius soli, cioè l’acquisizione da parte dei bambini nati in Italia da genitori stranieri aventi regolare
permesso di soggiorno nel paese, sia lo ius culturae, cioè la possibilità di acquisizione della
cittadinanza, su richiesta del genitore, da parte del minore che abbia frequentato un corso di
istruzione o formazione professionale. (Infatti viene evidenziato che si tratterebbe di un diritto
corrispondente a un “ fatto” naturale, in quanto parte nati in Italia e parte integrante della nostra
società.
La mancanza della cittadinanza per gli italiani di seconda generazione non condiziona tuttavia il
diritto all'istruzione. Ci sono Infatti numerose norme nazionali e internazionali che garantiscono
questo diritto; Innanzitutto vi è la Costituzione italiana, che, ARTICOLO 34 che afferma che << la
scuola è aperta a tutti>>esplicitando il diritto all'istruzione come universale. Questo diritto è poi
rafforzato da alcune Convenzioni internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti
umani del 1948, dalla Carta dei diritti dell'Unione Europea del 2000 e da vari altri documenti
internazionali. Il non possesso della cittadinanza sul piano giuridico non comporta nella scuola
italiana una minore attenzione alle esigenze di conoscenze linguistiche e culturali necessarie per la
partecipazione democratica. In questa prospettiva, la scuola è una delle istituzioni più
democratiche ed egualitarie poiché ha alla base, come principio e obiettivo a un tempo, la crescita
culturale e sociale di tutti gli alunni, “senza distinzione”. Lo sviluppo delle competenze linguistiche
e la scolarizzazione sono indici importanti al fine di favorire il processo di inclusione.
Tuttavia, il rapporto tra il ritardo scolastico degli alunni di origine migratoria e alunni con genitori
italiani, è consistente.
Il discorso sulla cittadinanza come partecipazione implica perciò una presa di consapevolezza
dell’importanza della questione educativa, e in particolare dell’educazione linguistica, dato che in
molti casi il ritardo scolastico è dovuto a difficoltà linguistiche.
In particolare, i principi presenti nelle Dieci tesi per un’educazione democratica, che sottolineano il
valore della diversità linguistica in quanto realtà individuale, sociale, culturale, sono da
considerarsi presupposti fondamentali in chiave pedagogica, didattica e democratica, validi anche
in questo contesto.
L’elaborazione di questi principi è avvenuto in un contesto nel quale il tema degli alunni con
background migratorio non era ancora presente. Tuttavia, la sostanza teorica e politica individuava
un valore più generale, applicabile all’attuale contesto plurilingue e interculturale. In questo senso,
particolare rilievo hanno da un lato l’importanza del retroterra linguistico e culturale degli alunni
come punto di partenza dell’azione didattica e, soprattutto, dall’altro lato, il richiamo all’esigenza di
“imparare a capire e apprezzare” il valore del patrimonio linguistico come “espressione dei
componenti di una stessa società” per “imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza
calpestarla”.
13.7 Il nuovo patrimonio linguistico e il valore educativo e sociale delle lingue materne
Nonostante l’articolo 6 della Costituzione in teoria non lo escluda, le lingue delle comunità
immigrate, dette anche ‘minoranze linguistiche di nuovo insediamento’, non godono in realtà di
alcuna tutela. La scuola riconosce un valore generale al plurilinguismo e alle lingue degli alunni,
ma non prevede l’insegnamento di nessuna delle centinaia di diverse lingue materne che costellano
l’universo linguistico degli studenti italiani.
Il rispetto e la tutela della diversità linguistica è un tratto caratterizzante della nostra democrazia,
che rischia però di rimanere una mera dichiarazione di principio se non trova una sua applicazione
concreta. Da questo punto di vista, la strada forse più efficace è affermare il diritto alla propria
lingua come un diritto educativo collegato strettamente al diritto all’istruzione. Occorre elaborare
una decisa politica di educazione linguistica interculturale. Negare o soffocare questa dimensione è
controproducente sia a livello glottodidattico, dato il ruolo che ha la lingua materna
nell’apprendimento di un’altra lingua, sia a livello pedagogico e culturale.
In altre parole, l’apprendimento della lingua materna non ha solo valore culturale e identitario, ma
costituisce un fattore determinante per il successo scolastico e per un’integrazione reale senza
fratture. In questa direzione, è stata affermata l’esigenza di estendere il diritto all’apprendimento
della lingua materna anche ai figli di immigrati di seconda e terza generazione, senza alcuna
distinzione riguardo allo status giuridico della famiglia, perché si ritiene, giustamente, che la
separazione tra lingua materna e lingua del paese ospitante possa provocare abbandoni, insuccessi
scolastici, conflitti interiori, marginalità sociale, ecc.
Questa consapevolezza ha spinto molti paesi a elaborare programmi specifici per l’insegnamento
della lingua e della cultura di origine nei vari livelli scolastici.
In Italia, non esiste una politica linguistica sistematica su questo aspetto. Ma questo è un punto
fondamentale per lo sviluppo della cittadinanza. Senza il riconoscimento e la valorizzazione della
lingua e della cultura di origine si rischia di alimentare, a scuola e nella società, un senso di
estraneità e di discriminazione che perdura nel tempo.
L’educazione interculturale dovrebbe andare in questa direzione.
E’ cresciuta enormemente negli ultimi anni la mole di studi e ricerche incentrati proprio
sull’educazione interculturale e in particolare sul processo di insegnamento-apprendimento
dell’italiano come seconda lingua. Cosicché grazie anche ai progressi della teoria glottodidattica
nell’insegnamento delle seconde lingue, la cui diffusione è cresciuta nelle scuole e nelle università,
sono premesse positive per giungere a una più efficace educazione plurilingue, per formare
cittadini liberi e uguali. Il “termine ‘cittadinanza’ ha acquisito un significato più ampio”, che va
nella direzione di includere tutti gli individui. Per sottolineare questa dimensione di partecipazione
dei cittadini, anche di nazionalità diversa, intesi come portatori di diritti universali di cittadinanza,
si è soffermata la locuzione cittadinanza attiva. Vi è una certa difficoltà di definizione di questa,
poiché essa sembra sovrapporsi a quella di cittadinanza tout court, intesa cioè come partecipazione
democratica.
In questa prospettiva le crisi in atto e i movimenti istituzionali, politici, economici e sociali degli
ultimi anni hanno portato a rielaborare in senso moderno il concetto di cittadinanza collegandolo
alla democrazia e alla partecipazione e ritenendo marginale quel senso tradizionale che veniva dato
di l’appartenenza a uno Stato. Allo stesso tempo, tuttavia, è stato possibile eliminare il legame con
il vincolo di appartenenza, che rimane un concetto giuridico-politico rilevante, come si è visto in
relazione alla possibilità o meno di accesso alla cittadinanza da parte dei migranti e delle seconde
generazioni.
Tuttavia, il ruolo delle lingue e dell’educazione linguistica risulta praticamente assente o trattato
molto marginalmente. Maggiore spazio viene dato in genere all’istruzione, ma anch’essa, tuttavia,
viene spesso vista come una categoria teoricamente funzionale all’elaborazione dell’idea di
cittadinanza.

14. Cittadinanza e scuola italiana oggi


La scuola è lo strumento necessario alla formazione generale dei cittadini infatti la nozione di
cittadinanza è presente in tutta la scuola di base: infanzia, primaria e secondaria di primo grado, e
in tutte le discipline di apprendimento. Essa è intrinsecamente collegata allo sviluppo delle
competenze disciplinari e a ogni attività di apprendimento, costituendone inoltre il principio
regolativo per tutta la scuola del primo ciclo.
L’espressione “cittadinanza attiva” è divenuta un’espressione più esplicita della cittadinanza intesa
come partecipazione e non come appartenenza. Tuttavia, è primariamente attraverso l’educazione
linguistica che si possono sviluppare le competenze “per l’esercizio pieno della cittadinanza”. Lo
sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per l’esercizio
pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e linguistici.
Con la stessa accezione, la parola ‘ cittadinanza’ compare nelle Indicazioni nazionali per le scuole
secondarie di secondo grado, ovvero licei, istituti professionali e istituti tecnici.
Ad esempio, nelle Indicazioni per i licei si sottolinea quanto sia importante individuare alcuni
nuclei comuni, legati non solo al primo biennio, al fine di garantire il raggiungimento di alcune
conoscenze e competenze comuni (anche al fine di fornire a tutti gli strumenti culturali utili ad
esercitare la propria cittadinanza, ad accedere all'istruzione superiore, a poter continuare ad
operare lungo l'intero arco della propria vita) e di favorire il passaggio da un percorso all'altro ai
fini della lotta alla dispersione scolastica e del successo formativo.
In particolar modo, come punto essenziale per lo sviluppo delle competenze, viene individuato
l'ambito denominato “Cittadinanza e Costituzione”. Esso è presente in tutti gli indirizzi della scuola
superiore, con riferimento all'organizzazione della formazione di una cittadinanza europea e avente
lo scopo di acquisire dei requisiti per una partecipazione attiva, ma anche in riferimento alla lingua
italiana e alla dimensione interculturale dell'istruzione e al valore della diversità linguistica.
Costruire una dimensione interculturale nella scuola, come indicato nei relativi documenti
nazionali, ha il fine di coniugare la capacità di conoscere e apprezzare le differenze tra le persone e
le culture con la ricerca di una coesione sociale aperta al contesto culturale del territorio, secondo
una visione della “cittadinanza” coerente con i valori della Costituzione. Per questo è indispensabile
la promozione delle competenze chiave di cittadinanza, a partire dalla lingua italiana. La
conoscenza della lingua italiana e spesso uno dei primi scogli da superare per gli studenti stranieri.
L’insegnamento dell'italiano come seconda lingua è essenziale per il processo di integrazione,
condizione di base per capire ed essere capiti.
In tutti questi testi si fa riferimento, oltre che alla Costituzione, a vari documenti europei e, in
particolare, agli obiettivi (strategici) individuati dalla cosiddetta Strategia Europa 2020. In essa,
viene più volte ribadito, appunto, come la cittadinanza rappresenti il fondamento delle politiche
educative e di formazione. (Questa posizione viene sottolineata ancora di più nel recente
documento del Miur intitolato Indicazioni nazionali e nuovi scenari (2018), Il quale traccia un
bilancio delle Indicazioni 2012 e indica le prospettive future, ovvero prendendo la nozione di
cittadinanza come il criterio principale di analisi per valutare l'efficacia delle Indicazioni anche in
prospettiva futura.
Le Indicazioni nazionali per ogni ordine e grado di scuola sanciscono, sotto forma di testi ufficiali,
che a dimensione linguistica sia un fattore determinante per la cittadinanza. Tuttavia, nelle
Indicazioni relative alle scuole superiori non si fa riferimento specifico al ruolo e al valore delle
diverse lingue moderne o prime lingue degli studenti, come momento pedagogicamente e
didatticamente importante. Si hanno solamente dei cenni generici riguardanti il valore della
diversità culturale e delle “diverse identità”, senza accenni alla lingua degli alunni. Solamente nelle
Indicazioni per il primo ciclo, le lingue materne assumono un adeguato rilievo educativo. In realtà,
per via del suo grande valore pedagogico e didattico, la prima lingua di ciascun alunno dovrebbe
avere diritto di cittadinanza ad ogni livello scolastico; e, questo aspetto, sembra essere almeno
teoricamente condiviso, anche se non sia stato sufficiente per intraprendere un'azione educativa
adeguatamente efficace.

14.3 Cenni conclusivi e prospettive

Come abbiamo visto, la grande varietà di lingue presenti in Italia ha avuto un ruolo importante
nella riflessione sul rapporto tra diversità linguistica e la realizzazione di cittadinanza democratica.
In Italia, sotto questo punto di vista, esiste una forte tradizione, la quale è cresciuta grazie anche
agli studi teorici riguardanti l’importanza della pratica didattica e dell'impegno civile.
Tuttavia, restano ancora aperti molti aspetti problematici; essi (evidenziati nei capitoli precedenti)
si collocano su piani diversi:
 dall’ abbandono scolastico, all'educazione degli adulti,
 all'esigenza di fornire pari opportunità agli alunni di origine migratoria,
 al potenziamento e consolidamento delle capacità linguistiche degli adolescenti.
Riguardo a tali questioni, i dati statistici non sono affatto rassicuranti in quanto sebbene sia vero
che il livello di istruzione generale della popolazione sia notevolmente aumentato nel corso degli
ultimi decenni, continuano ad esserci difficoltà molto estese di lettura e di comprensione. Allo
stesso modo, aumenta la percentuale di laureati e di diplomati, ma, allo stesso tempo, permane un
numero elevato di abbandoni e cala il livello di competenze linguistiche dei giovani.
In realtà, come ha dimostrato l'indagine Ocse-Pisa ( +capitolo 11) non si tratta di un dato
solamente italiano ma più generale, che riguarda anche altri paesi europei, nonostante alcuni di
essi, come la Francia, siano ritenuti tra i più avanzati nelle politiche educative e linguistiche.
Infine, per quel che riguarda l'inserimento e il successo scolastico degli alunni figli di immigrati e le
questioni relative alle “seconde generazioni”, non si è tuttora giunti ad una politica di azione ben
precisa e decisa; È un processo ancora in evoluzione.
Come si è cercato di dimostrare, il legame tra lingue, scuola e cittadinanza è un legame che dipende
dall’idea stessa di cittadinanza democratica. Per questo motivo va inteso come un principio
dinamico, che va di pari passo con i mutamenti sociali ed economici della società, con conseguenti
possibili arretramenti nei processi di democratizzazione e con nuove dimensioni quali il pluralismo
e il multiculturalismo; il che significa favorire a tutti la possibilità di una partecipazione
consapevole e attiva nella democrazia.
Per questo scopo, è fondamentale avere un'educazione linguistica democratica, la quale
presuppone il rispetto e la valorizzazione di tutte le diversità linguistiche, Indispensabili nel
percorso di cittadinanza.
Ovviamente ciò non è sufficiente, poiché non basta semplicemente enunciare dei principi , ma
occorre una loro realizzazione (quelli che in termini giuridici sono definiti “diritti di carta” = quei
diritti solo enunciati ma che non giungono a concreta realizzazione). Dunque l’aspetto critico è
quello che riguarda la dimensione applicativa:
L’organizzazione scolastica, la ricerca scientifica, la formazione dei docenti e la cura della
dimensione pedagogica e didattica. In questo senso, la realizzazione della cittadinanza va intesa
come un impegno da rinnovare costantemente nei confronti di ogni classe, di ogni alunno, di ogni
essere umano senza distinzione di sesso, di lingua, di razza, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali e (dato l’impulso migratorio sia interno che dall'estero) di qualunque
provenienza geografica. (E, ovviamente, questo impegno non riguarda solo le istituzioni, poiché la
cittadinanza coinvolge tutti, nessuno escluso).
DIDATTICA DI BASE DELL’ITALIANO L2

1.Gli apprendenti

Ci sono 3 categorie di apprendenti di italiano come L2 attualmente diffuse in Italia e nel mondo,
categorie divise in base all’età:

1. Bambini e adolescenti 2-17 anni


2. Giovani adulti 18-35 anni
3. Adulti e senior

Per quanto riguarda la prima categoria: i bambini più piccoli dai 2 ai 5 anni hanno una plasticità
cerebrale x cui niente è difficile da apprendere. Ad esempio la pronuncia, l’intonazione vengono
apprese senza difficoltà e nella maniera più duratura, al pari della lingua madre. Apprendono
proprio per imitazione, socializzazione e attraverso il gioco quindi film, cartoni animati, canzoni
sicuramente aiutano notevolmente l’apprendimento di una lingua straniera.
I bambini da 6 a 11 anni si trovano in una fase in cui hanno già una buona competenza nella lingua
madre, per questo ha più difficoltà ad apprendere il lessico e gli aspetti prosodici, intonativi della
L2. In compenso però è molto più consapevole delle caratteristiche morfosintattiche delle lingue.
Per loro esistono materiali didattici specifici per l’italiano come L2 ma anche videogiochi, letture,
film sono utili x l’apprendimento.
Gli adolescenti dai 12 ai 17 anni hanno una buona facilità nell’acquisire i suoni della nuova lingua e
anche una crescente sensibilità x gli aspetti morfosintattici. Anche x loro ci sono materiali didattici
specifici che toccano aspetti della cultura italiana, sport, moda, cucina, cinema, arte.
La seconda categoria comprende principalmente studenti universitari e persone che si affacciano
sul mondo del lavoro. Sono persone che si avvicinano alla lingua per motivi di lavoro come chi si
occupa di turismo o di import-export, o per scelta di percorso accademico. Qui possiamo anche
trovare giovani adulti stranieri residenti in Italia che si sono trasferiti per motivi di studio, lavoro o
anche x sfuggire a situazioni di povertà del loro paese di origine. Ad esempio i flussi migratori
dall’Africa, dal sud America che hanno interessato l’Italia negli anni 90 del XX secolo e per loro, i
motivi che li spingono ad apprendere la lingua italiana sono principalmente di integrazione sociale.
Per questa categoria di apprendenti esistono numerosi materiali didattici x l’apprendimento, così
come manuali x immigrati che riguardano sia la prima alfabetizzazione sia il raggiungimento di
livelli di competenza più elevati, fondamentali x un’autonomia comunicativa (A1, B1 del QCER).
La terza categoria comprende invece gli adulti e senior tra 36 e over 55. Fuori dall’Italia questi
apprendenti sono presenti soprattutto nei corsi offerti nelle scuole private, aziende, associazioni
quindi si avvicinano alla lingua per motivi di lavoro, famiglia o semplicemente tempo libero per cui
hanno una forte motivazione. Ovviamente essendo persone di una certa età non hanno più la
memoria e la facilità di apprendimento che può avere una persona più giovane ma al contempo
hanno conoscenze più ampie, un impegno e un interesse molto forte proprio perché hanno chiari i
loro bisogni di apprendimento.

Ci sono delle variabili che concorrono a identificare questi apprendenti e che influiscono
sull’apprendimento:
- Variabili individuali: caratteristiche su cui l’insegnante può influire poco come l’età, la
motivazione all’apprendimento, le situazioni in cui userà la L2, la personalità e le
preconoscenze. L’età influenza tanto l’apprendimento che è più rapido e senza sforzo nella
prima infanzia e difficoltoso invece nell’età adulta, anche a causa di interferenze dalla
madrelingua. Anche la motivazione è fondamentale: può essere strumentale come superare
un esame, ottenere un buon voto, culturale come la passione x il Paese che si studia e la sua
cultura, o integrativa quindi il desiderio di integrarsi. Anche le situazioni d’uso della lingua
sono importanti nell’apprendimento: ogni apprendente in base alle proprie motivazioni ha
bisogni comunicativi diversi e userà la lingua in contesti diversi. Anche la dimensione
psicologica influisce perché ad esempio imparare una lingua che non ci piace, trovarsi male
con l’insegnate possono rallentare l’apprendimento. Anche le preconoscenze sono
importanti perché un soggetto che studia l’italiano dopo aver studiato il latino o un’altra
lingua romanza è più avvantaggiato rispetto a chi non ha studiato.
- Variabili linguistiche: ovvero le caratteristiche delle altre lingue come anche la
madrelingua note all’apprendente su cui lui si appoggia quando va a studiare una lingua
come L2. Ad esempio l’italiano è una lingua flessiva, con un sistema verbale piuttosto
complesso se paragonato alle altre lingue, pronomi sia atoni che tonici che si posizionano
sia prima che dopo il verbo tutte caratteristiche che possono risultare difficili in rapporto
ad altre lingue o alla lingua madre note all’apprendente, soprattutto se la madre lingua o le
altre lingue appartengono ad una famiglia linguistica diversa dall’italiano in questo caso
l’apprendente deve riorganizzare i proprio schemi mentali.
- Variabili ambientali: il luogo in cui avviene l’apprendimento, il contesto in cui vive
l’apprendete, variabili che influenzano gli esiti dello studio. In un contesto educativo tutti
hanno un ruolo fondamentale, quindi se l’apprendente ha un rapporto positivo con gli altri
studenti, con il docente, ha interesse x gli argomenti trattati sono tutti aspetti a favore
dell’acquisizione della L2. Anche il contesto sociale è importante: se l’apprendente che
studia italiano ha poche occasioni di contatto con questa lingua al di fuori della classe,
l’apprendimento sarà più lento.

2. La metodologia e il manuale

Nel processo di apprendimento/insegnamento di una L2, è importante considerare sì i bisogni e le


caratteristiche degli apprendenti, ma anche gli strumenti e le strategie che il docente sceglie x
favorire l’apprendimento il docente agisce come agente, analizza sia i metodi attraverso i quali
realizza l’insegnamento, sia gli strumenti di cui avvalersi x svolgere la sua attività, come i manuali
finalizzati all’insegnamento dell’italiano L2.

Nel corso degli anni si sono affermati diversi metodi e approcci per l’insegnamento delle lingue.
Inizio ‘800 c’era il metodo grammaticale-traduttivo metodo che per l’apprendimento
prende in esame solo la lingua scritta, come testi classici, letterari, in cui il fulcro dell’insegnamento
è la grammatica, la presentazione deduttiva delle regole. Si avvale di tecniche come la traduzione, il
riempimento di spazi, l’individuazione di errori. Metodo in cui l’apprendente ha un ruolo passivo,
solo quello di memorizzare le regole x un uso corretto della lingua.
Alla fine dell’800 subentra il metodo diretto vede l’apprendimento di una seconda lingua
come un processo naturale, al pari della lingua madre per cui è una metodologia che si concentra
molto sull’uso orale, di conseguenza la grammatica non viene più insegnata bensì appresa in
maniera induttiva, ascoltando e parlando. L’apprendente ha quindi un ruolo attivo, apprende le
regole x induzione e il docente fornisce modelli attraverso conversazioni e non ci sono manuali
specifici per questo metodo.
Negli anni 40 del 900 si afferma il metodo audio-orale facendo riferimento allo
strutturalismo considera la lingua come una serie di blocchi di strutture, di chunk, da unire e
modificare x formare nuove frasi. È un metodo che si concentra sull’uso orale della lingua in cui
l’apprendente ha il ruolo di ripetere e memorizzare i modelli che il docente gli fornisce attraverso
lezioni esercitazioni.
Negli anni 60 del 900 si afferma invece il metodo situazionale e nozionale-funzionale
metodo che intende la lingua come strumento di comunicazione quindi si abbandonano in parte le
tecniche basate dulla memorizzazione e si prediligono invece attività che spingono gli studenti a
interagire in diverse situazioni comunicative. Lo studente ha qui un ruolo primario, apprende
interagendo e utilizzando modelli diversi in base ai contesti diversi e il docente abbandona invece il
suo ruolo autoritario e guida gli studenti a interagire nelle diverse situazioni comunicative. Con
questi metodi ci sono tanti strumenti dei quali il docente può avvalersi e anche il genere di attività
da proporre si possono utilizzare manuali, tecnologie.
Tra i più significativi modelli operativi x l’apprendimento della lingua c’è il modello comunicativo,
ovvero la lezione intesa come semplice trasferimento di informazioni dal docente all’allievo viene
abbandonata in favore dell’unità didattica introdotta da Freddi un modo nuovo di insegnare che
prevede non solo la trasmissione di regole da imparare e applicare, ma un processo che ruota
attorno a un testo a partire dal testo l’apprendente viene guidato alla scoperta di nuove regole,
sulla loro applicazione all’interno di varie situazioni eccetera. Le unità didattiche sono raggruppate
in moduli, cioè insiemi con un filo conduttore, un tema specifico che può essere un argomento, un
personaggio, un periodo temporale e così via.
Possiamo trovare.
- Unità in riferimento all’oggetto, cioè tutte le competenze che bisogna acquisire.
- Unità in riferimento all’agente, cioè le modalità che il docente adotta per l’insegnamento
perché per ogni contesto di apprendimento, per ogni tipo di apprendente si possono usare
metodi diversi.
- Unità in riferimento al soggetto, cioè lo studente che acquisisce la lingua grazie a entrambi
gli emisferi cerebrali l’emisfero destro è il primo ad attivarsi con cui si ottiene una prima
comprensione globale del testo, poi l’emisfero sinistro predisposto per una comprensione
più analitica, e poi con entrambi si arriva alla comprensione totale e completa.
Le unità didattiche seguono infatti proprio delle fasi:
- Motivazione si esplora il contenuto del testo
- Globalità si comprende globalmente un testo: personaggi, luogo, argomento
- Analisi in cui ci si sofferma sugli aspetti linguistici, culturali, funzionali del testo, le regole.
- Sintesi con cui l’apprendente riutilizza le regole imparate
- Riflessione cioè sistematizzazione delle regole
- Controllo si verifica la buona acquisizione dell’apprendente.
A queste fasi se ne possono aggiungere altre che prevedono attività supplementari volte ad una
maggiore acquisizione come il modello proposto da Balboni.
In ogni caso, il punto fondamentale della didattica è l’apprendente e quindi anche l’elemento sul
quale bisogna concentrarsi x la scelta del manuale deve rispondere il più possibile ai bisogni e
alle caratteristiche dell’apprendente, al suo livello di competenza linguistica, della sua età, della sua
motivazione allo studio eccetera. C’è differenza quindi fra un manuale di studio x adulti e quello x
bambini, vengono presentate tematiche, attività differenti con scelte metodologiche opportune.
Diverse case editrici hanno pubblicato testi x l’insegnamento dell’italiano come L2: Mondadori,
Hoepli, Bulzoni, Zanichell, Guerra nel 1883, Bonacci nel 1939.

3.I testi

I testi sono un elemento importante nell’insegnamento delle lingue perché attraverso essi lo
studente entra in contatto con la lingua che sta imparando, esercita le attività di comprensione,
produzione e riflessione metalinguistica.
Un testo però per essere efficace sul piano comunicativo, per comprenderlo affinchè ci sia una
buona acquisizione da parte dello studente deve avere determinate caratteristiche:
- Coerenza quindi nelle frasi che compongono il testo deve esserci continuità, i diversi
elementi del testo devono realizzare coerentemente l’informazione.
- Coesione cioè le diverse parti del testo devono essere connesse linguisticamente, questi
legami agiscono su più livelli come il legame tra le parole ad esempio tra articolo e nome,
aggettivo e nome, soggetto e verbo, oppure il legame tra le frasi come le congiunzioni che
permettono di collegare le frasi.
- Appropriato alla situazione in cui è prodotto un sms troppo lungo è poco adeguato
- Funzionale alle intenzioni comunicative di chi lo produce perché può avere lo scopo di
raccontare, esporre, descrivere, dare degli ordini, esprimere una opinione.
In relazione alla funzione che il testo ha, sono classificati in Tipi assumendo forme e organizzazione
diversa:
- Narrativo, racconta un evento o una storia quindi richiede di saper cogliere la dimensione
temporale degli eventi.
- Espositivo, trasmette informazioni quindi richiede di saper individuare i concetti.
- Descrittivo, illustra caratteristiche di un oggetto, un ambiente, una persona quindi richiede
di saper individuare tali caratteristiche.
- Scenico, mette in scena un evento o una storia e richiede di saper comprendere gli atti
linguistici, saperli collocare nella dimensione temporale.
- Regolativo, ha la funzione di indicae, determinare e imporre come fare qualcosa, richiede di
saper mettere in successione le azioni.
- Argomentativo, ha lo scopo di convincere il lettore della validità di una opinione quindi
richiede di saper valutare i concetti.
Le caratteristiche formali di un testo sono determinate anche dal mezzo con cui il testo è espresso.
Un testo orale si realizza in un contesto in cui gli interlocutori sono presenti quindi nella
comunicazione influiscono anche l’ambiente, lo spazio, i gesti, la postura, a volte basta uno sguardo
x modificare o completare il significato delle parole. Anche il tono della voce, il ritmo, i silenzi
contribuiscono al significato del messaggio. Nei testi orali possiamo trovare anche l’uso di segnali
discorsivi, cioè parole ed espressioni che svolgono funzioni in relazione al contesto servono ad
esempio a prendere tempo x pensare, controllare se l’interlocutore abbia capito o meno eccetera.
Caratteristiche che invece non troviamo nei testi scritti che al contrario sono pianificati, quindi
presentano un vocabolario ampio, ricercato, frasi sintatticamente complesse e articolate. Possono
però essere integrati dal paratesto cioè immagini, grafici, note che contribuiscono a far
comprendere meglio il significato. La lingua scritta fa uso di segni grafici per segnalare pause, per
indicare alcuni aspetti intonativi, oppure x dare ulteriori significati alle parole si ricorre agli stili
grafici (grassetto, corsivo, sottolineato). La relazione tra scritto e parlato caratterizza i testi
trasmessi attraverso un mezzo di comunicazione la radio, la televisione si avvalgono di testi
scritti che però vengono detti per cui possono presentare aspetti tipici della lingua orale (i film) o
caratteristiche della lingua scritta (i notiziari).

Affinchè un testo possa essere efficace nell’insegnamento della lingua deve possedere dei requisiti.
Innanzitutto deve considerare i bisogni comunicativi degli studenti perché ogni apprendente in
base alle proprie motivazioni allo studio della lingua, la userà in contesti diversi  Uno studente
Erasmus ha necessità di imparare a comprendere le lezioni, mentre un immigrato avrà necessità di
imparare a interagire sul posto di lavoro. La motivazione ha un ruolo determinante sugli esiti
dell’apprendimento Un bambino impara volentieri la lingua se si diverte nel farlo quindi
attraverso giochi, canzoni, filastrocche. Altro requisito è l’accessibilità del contenuto riguarda tutti i
profili di apprendenti prendere un espresso al bar x gli italiani è qualcosa di breve, un piacere
anche individuale ripetuto più volte al giorno. Per un greco è invece un momento conviviale che
richiede del tempo libero quindi uno studente greco può avere difficoltà a comprendere la
comunicazione di una situazione in un bar.
I testi che si utilizzano nell’insegnamento devono sviluppare aspetti della competenza linguistico-
comunicativa. Pertanto un testo deve contenere forme che lo studente è in grado di elaborare a quel
livello di apprendimento, in modo da far progredire la competenza in direzione degli obiettivi
didattici che sono stati individuati. Il lessico riveste un ruolo centrale nell’apprendimento di una
seconda lingua. Nel lessico è in primo luogo possibile distinguere parole semanticamente piene,
come nomi, verbi, aggettivi e alcuni avverbi, che rimandano quindi a oggetti, persone e azioni, e
parole semanticamente vuote come preposizioni e articoli usate per legare fra loro le parole piene.
Il lessico di una lingua è ampio x cui quando si sceglie un testo bisogna considerare la competenza
dell’apprendente, il lessico è composto:
- vocabolario fondamentale, che comprende poco più di 2000 parole conosciute da tutti i
parlanti nativi e usate con un’elevata frequenza.
- Vocabolario di alto uso, che include circa 2500 parole, usate in misura minore e note a chi
ha un livello di istruzione superiore.
- Vocabolario di alta disponibilità, formato da circa 2000 parole che cambiano nel tempo
perché legate alle trasformazioni sociali e alle tendenze del momento.
- L’insieme di questi tre strati costituisce il vocabolario di base della lingua italiana, composto
dunque da poco più di 6500 lemmi.
- Vocabolario comune composto più o meno da 47mila parole, conosciute da persone con alto
livello di istruzione.
- Vocabolari specialistici cioè quelli legati alla matematica, alla chimica, alla biologia
eccetera.
Una nozione utile per selezionare testi sulla base del lessico è quella del campo semantico, si
intende un insieme di parole che appartengono alla stessa area di significato parole come
raffreddore, febbre, mal di gola rientrano nel campo semantico della malattia.
Accanto al lessico, la selezione del testo deve prendere in considerazione anche le strutture
frasali perché le subordinate, possono richiedere un grande sforzo elaborativo dello studente.
Anche strutture apparentemente semplici possono ostacolare la comprensione del testo. È il
caso delle nominalizzazioni che trasformano un verbo in un nome. Un ulteriore criterio di
selezione dei testi è la struttura discorsiva, che rinvia innanzitutto alla dimensione semantica
del testo. Dato che la comprensione è guidata dalla coerenza del testo, il contenuto dei testi da
selezionare deve essere organizzato in modo che ci sia continuità di significato, che le
informazioni siano prevedibili e non contraddittorie e che siano strutturate tematicamente.
Un importante criterio in base al quale selezionare un testo da usare come input per la
realizzazione di un percorso didattico è il canale di comunicazione con cui il testo viene
espresso. Per lo sviluppo delle abilità orali dovranno essere scelti generi usati nella
comunicazione orale da presentare attraverso mezzi per la riproduzione audio o audiovisiva.
Anche per lo sviluppo della abilità scritte, il testo da selezionare deve appartenere a generi usati
nella comunicazione scritta, in modo da poterne mostrare le caratteristiche e le convenzioni, e
avere una lunghezza tale da poter rientrare nei tempi di attenzione ricettiva degli studenti.

4.Le attività

Per insegnare una lingua straniera sia i docenti sia i manuali fanno ricorso ad attività da svolgere
perché è attraverso le attività che l’apprendente entra in possesso delle competenze e abilità
necessarie per comunicare in maniera corretta. Queste abilità vengono definite dal QCER come
abilità linguistico-comunicative che comprendono la ricezione, la produzione, l’interazione e la
mediazione ciascuna di esse viene sviluppata attraverso precise attività e tecniche didattiche.
La ricezione può essere orale, scritta e audiovisiva. L’abilità di saper ricevere un messaggio orale
varia in funzione del numero dei parlanti, del ruolo dell’ascoltatore e anche dello scopo x il quale si
ascolta perché si può ascoltare semplicemente x capire di cosa si sta parlando o x acquisire
informazioni specifiche e quindi varia anche la difficoltà di ricevere un messaggio. Di conseguenza
le attività x sviluppare questa abilità prevedono diverse modalità di ascolto e finalizzate a scopi
diversiad esempio si può richiedere una ricezione globale ossia capire l’argomento trattato, come
in una conversazione, in altri casi come in un discorso pubblico è richiesta una comprensione più
analitica incentrata su informazioni specifiche, su dettagli. La ricezione scritta avviene attraverso la
lettura, attraverso la visione del testo scritto però anche in questo caso ci sono diversi gradi di
difficoltà perché si può leggere per informarsi, per seguire delle istruzioni, per argomentare e la
difficoltà sta proprio nella lunghezza del testo, nella sua complessità, nel grado di specificità
dell’argomento. Nella comprensione audiovisiva si utilizzano attività che prevedono sia la capacità
dell’ascolto che di visione quindi la comprensione può risultare più o meno facile a seconda della
velocità del parlato, del tipo di lingua utilizzato, dal saper individuare dettagli, sfumature,
significati impliciti. Le tecniche x le attività volte alla comprensione sono tante:
- vero e falso, si richiede di individuare la correttezza dell’affermazione
- scelta multipla, si richiede di rispondere scegliendo fra più opzioni e la difficoltà varia in
base al numero delle opzioni possibili e alla scelta del distrattore, cioè l’opzione molto vicina
a quella corretta.
- Matching, attività in cui bisogna unire delle frasi a delle immagini
- Griglia/schema, attività in cui l’apprendente deve inserire le informazioni richieste
- Domanda, domande a cui l’apprendente deve rispondere apertamente.
- Riconosciemento, si chiede agli apprendenti di cercare e capire alcune specifiche
informazioni.
L’abilità di produzione consiste nel saper sviluppare un messaggio e si divide in scritta e orale. Tra
le attività di produzione orale ci sono i monologhi: di carattere descrittivo, descrivere esperienze
che possono essere sia semplici informazioni personali sia descrizioni più articolate, monologo a
carattere informativo quindi dare informazioni precise che il destinatario può interrompere x
chiedere chiarimenti e precisazioni, monologo argomentativo, complesso perché richiede di
esporre una propria tesi. Le attività di produzione scritta sono molteplici e non hanno lo stesso
livello di competenza: attività di compilazione di questionari è sufficiente un livello base, per
scrivere articoli, saggi, relazioni è necessario un livello maggiore di competenza.
L’interazione è l’abilità di saper interagire, comunicare all’interno dei diversi contesti sociali e dei
diversi domini privato, pubblico, occupazionale, educativo. Si divide in orale, scritta e online.
L’interazione orale prevede uno scambio fra due o più persone all’interno del quale ognuno assume
di volta in volta il ruolo di emittente e destinatario, quindi ogni parlante deve tener conto di quanto
detto dall’interlocutore affinchè la conversazione possa essere chiara e di successo. Tra le attività ci
sono le conversazioni quotidiane e interpersonali, le attività valutative come i dibattiti o le attività
transazionali come le interviste, lo scambio di informazioni. Tra le attività dell’interazione scritta
troviamo la corrispondenza epistolare, i forum, le chat, la negoziazione di accordi, attività che
variano il livello di difficoltà, ad esempio la corrispondenza può essere formale o informale quindi
la difficoltà è legata al tipo di messaggio. Le tecniche che meglio consentono lo sviluppo della
capacità di interazione sono il pattern drill, la drammatizzazione attività più o meno guidate e il
roleplay attività più libera e autonoma. Utili per l’interazione orale sono poi anche la
conversazione, la discussione, i task.
La mediazione è la capacità di intervenire fra interlocutori che non sarebbero altrimenti in grado di
comprendersi, ad esempio fra persone di diversa lingua e cultura. Con mediazione, però, il QCER
non intende solo il passaggio da una lingua a un’altra ma anche la trasformazione di un testo in uno
equivalente nella stessa lingua, tramite ad esempio riassunto e parafrasi. La mediazione può essere
orale con attività di interpretariato simultaneo, consecutivo informale e scritta con attività di
traduzione letterale, letteraria, sommari e parafrasi. Individuiamo diversi livelli di mediazione. Il
primo livello riguarda la mediazione a livello testuale, ovvero la trasmissione dei contenuti di un
testo a chi non potrebbe comprenderlo autonomamente per ragioni anche non solo linguistiche. Si
tratta quindi di mediare per trasformare informazioni specifiche, spiegare e rielaborare. La
mediazione a livello concettuale che ha un valore educativo e formativo, cioè strumento x imparare
meglio, x accedere con facilità a diverse conoscenze. Le attività possono essere: facilitare
l’interazione collaborativa tra pari, collaborare al processo di costruzione del significato, gestire le
interazioni. Il terzo livello, quello della mediazione a livello comunicativo, fa specifico riferimento a
figure che hanno il delicato compito di creare le condizioni favorevoli affinché interlocutori con
difficoltà di comprensione, non solo per problemi di tipo linguistico, possano comunicare tra loro.
Si tratta quindi di facilitare la creazione di uno spazio pluriculturale, di agire come intermediari per
facilitare la comunicazione in situazioni delicate o conflittuali. Le tecniche didattiche x lo sviluppo
della mediazione sono le parafrasi, le traduzioni o anche il pairing cioè esercizi di vario tipo che poi
vedono il confronto con altri individui.

5.La grammatica

I diversi approcci e metodi che si sono susseguiti nella didattica delle lingue hanno dato
un’importanza diversa al ruolo svolto dalla grammatica nell’apprendimento della L2. Alcuni metodi
hanno ritenuto centrale la conoscenza della grammatica, altri hanno invece privilegiato la
competenza d’uso della lingua e assegnato un peso marginale alla conoscenza esplicita delle regole
linguistiche. A partire dagli anni Settanta, si è affermato l’approccio comunicativo che ha
revisionato gli scopi e le modalità con cui si sviluppa la competenza metalinguistica
nell’insegnamento delle L2.
L’attività metalinguistica (capacità di svolgere una riflessione sulla lingua) è strettamente connessa
all’apprendimento della lingua, perché l’apprendente si avvale delle regole x l’interazione
comunicativa. In un contesto spontaneo, dove l’apprendente non dispone di alcun supporto
didattico utilizza conoscenze relative alla lingua madre e ad altre lingue conosciute per scoprire il
funzionamento della lingua che sta imparando. È però una conoscenza implicita perché
l’apprendente infatti non è in grado di spiegare le regole formulate alla conoscenza implicita può
essere utile affiancare una conoscenza esplicita questo processo alla conoscenza consapevole delle
regole della lingua. Attraverso la conoscenza esplicita ovvero la conoscenza consapevole del
funzionamento delle forme linguistiche.
Il QCER ha individuato nell’apprendimento di una lingua diverse competenze linguistico-
comunicativo:
- Competenza linguistica, che comprende le conoscenze morfosintattiche, il lessico,
l’ortografia, fonologia ecc;
- Competenza sociolinguistica, che consiste nella capacità di gestire la comunicazione in
diversi contesti comunicativi;
- Competenza pragmatica, che include la capacità di utilizzare la lingua per conseguire degli
scopi, organizzare un discorso dal punto di vista tematico con coesione e coerenza, gestire
turni di parola.
L’approccio comunicativo ha individuato dei criteri su come condurre una riflessione sulla lingua
alla base di questi criteri ci sono gli studenti e i loro bisogni di apprendimento cioè gli scopi per cui
apprendono la lingua. Uno studente universitario ha bisogni legati al percorso di studio, un
immigrato ha esigenze diverse legate al lavoro, all’integrazione, un turista ha solo esigenze di
sopravvivenza di conseguenza cambia l’importanza della riflessione grammaticale quindi si
parte dal sillabo funzionale cioè capire in che situazione userà la lingua, sillabo lessicale ovvero
conoscere il lessico x poter realizzare le azioni che si vogliono e sillabo grammaticale x conoscere le
strutture e le funzioni di quella lingua.
Sulla competenza grammaticale influiscono anche altri fattori:
- L’età con i bambini non è opportuno insistere con l’analisi esplicita della lingua che
invece può risultare utile con adolescenti o adulti perché più propensi a riflettere sul
funzionamento della lingua e hanno anche più consapevolezza delle regole.
- Anche il grado di istruzione degli apprendenti gioca un ruolo importante. Persone con un
elevato grado di istruzione, che già hanno studiato altre lingue straniere in ambito guidato,
ricercano e utilizzano informazioni esplicite sul funzionamento della lingua.
- Lo stile di apprendimento dello studente ossia il modo in cui sono elaborati i compiti di
apprendimento. Gli studenti che prediligono uno stile analitico sono maggiormente portati
a interessarsi alla scoperta delle regole di funzionamento della L2, quelli che preferiscono
imparare in modo globale hanno meno sensibilità a questi aspetti.
- Il contesto di insegnamento All’estero lo studente è meno esposto alla lingua quindi
l’apprendimento dipende fortemente dal percorso didattico. Chi invece impara l’italiano sul
posto è continuamente esposto alla lingua e quindi la riflessione grammaticale può essere
solo incidentale rispetto alla comunicazione.
Gli strumenti utili allo sviluppo delle capacità grammaticali sono in primo luogo le sezioni dedicate
alle forme e agli usi linguistici contenute nei manuali didattici. Sezioni realizzate con un linguaggio
piuttosto semplice con cui si guida lo studente ad aquisire le conoscenze grammaticali. Spesso
queste sezioni di riflessione sulla lingua sono affiancate da schede riassuntive, poste al termine
dell’unità o in un’appendice alla fine del volume, in cui sono riportati i paradigmi delle strutture
analizzate e annotazioni sull’uso. Altre risorse a cui il docente può ricorrere per sviluppare la
conoscenza esplicita della lingua sono le grammatiche di consultazione o di riferimento che
possono essere usate per approfondimenti e ulteriori esercitazioni alla classe oppure x indirazzare
lo studente ad uno studio autonomo. Le grammatiche di consultazione descrivono in modo più
sistematico le forme linguistiche.
Nell’insegnamento x condurre la riflessione sulla lingua e sviluppare questa competenza,
l’apprendente viene esposto a un input linguistico, costituito dal testo. Dopo attività volte
principalmente alla comprensione del testo si passa in modo graduale all’induzione delle regole.
L’attenzione viene quindi spostata dal significato del testo alle forme utilizzate. Inizialmente lo
studente è in genere guidato a notare aspetti funzionali, successivamente vengono proposte attività
di fissazione che conducono lo studente al riutilizzo delle espressioni identificate. Si ha una
combinazione tra procedimento induttivo e deduttivo per la riflessione sulle forme linguistiche, in
quanto all’osservazione guidata segue l’esplicitazione della regola attuata dallo studente e poi la sua
applicazione.

6.La lingua e la cultura

Quando si studia una lingua è fondametale anche conoscere e apprendere la cultura della lingua
straniera. Il QCER ha indicato le conoscenze socioculturali che uno studente di L2 dovrebbe via via
acquisire in relazione ai propri obiettivi di studio. Accanto alle conoscenze pragmatiche,
linguistiche ecc bisogna alimentare parallelamente anche le conoscenze socioculturali, avere
consapevolezza interculturale.
Una delle riflessioni più note sul rapporto tra lingua e cultura è quella degli antropologi
statunitensi Edward Sapir e Benjamin Whorf, che alla metà del Novecento, studiando le lingue
native americane, notarono che spesso lo stesso concetto veniva espresso in modi
grammaticalmente diversi nelle varie lingue. La loro ipotesi è che ci sia un forte collegamento fra il
modo in cui ci esprimiamo e la mente (e dunque la cultura) e che anzi sia proprio la lingua a
influenzare quest’ultima. Più recente è il modello interpretativo dell’antropologo e psicologo
olandese Geert Hofstede che propone di considerare la cultura come una “programmazione
collettiva della mente” cioè la cultura determina il modo in cui le persone pensano e agiscono.
Secondo Hofstede il soggetto elabora nel corso della vita le proprie manifestazioni culturali a
diversi livelli di profondità. Lo strato più profondo è quello dei “valori” (cioè gli ideali considerati
desiderabili); questi possono manifestarsi in una serie di pratiche via via più superficiali: i “rituali”
(ad esempio i saluti), gli “eroi” (figure vere o immaginarie) e i “simboli” (parole e gesti). La più
superficiale e osservabile di queste pratiche è quella della comunicazione verbale e non verbale,
peraltro intimamente connessa con gli strati più profondi che caratterizzano l’individuo come
attore sociale.
Uno dei primi studiosi che ha messo in risalto l’importanza della cultura nell’insegnamento della
lingua è stato il linguista statunitense Robert Lado che sosteneva che ogni lingua è una componente
della cultura e allo stesso tempo il mezzo con il quale si esprimono le altre componenti.
L’insegnante deve confrontarsi con 4 ambiti:
- cultura in senso estetico, come la letteratura, l’arte, la scienza.
- cultura in senso storico-sociale e antropologico molto più pervasiva in quanto riguarda ogni
individuo e ogni attività quotidiana come la cultura alimentare, le festività.
- cultura lessicale e identitaria perché fa emergere referenti caratteristici e connotazioni
specifiche che possono variare nel tempo e nelle culture  pensiamo ai regionalismi, ai
dialettismi l’oggetto x appendere gli abiti a seconda della zona viene chiamato gruccia,
ometto, stampella, attaccapanni.
- cultura comunicativa cioè le competenze sociolinguistiche, gli usi della lingua in base al
contesto lo stesso messaggio può essere espresso in modo cortese, scherzoso, con mezzi
verbali, non verbali x cui in questi casi non basta capire le parole servono altre
conoscenze che toccano la sfera culturale proverbi, espressioni idiomatiche, metafore,
tutte cose che fanno parte del patrimonio culturale di una lingua.

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