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LE LETTERE / UNIVERSITÀ • ???


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Federica Giardini

L’ALLEANZA INQUIETA
Dimensioni politiche del linguaggio

Le Lettere
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Copyright © 2010 by Casa Editrice Le Lettere – Firenze


ISBN 978 88 6087
www.lelettere.it
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INTRODUZIONE

A ridosso del secolo appena concluso, con la memoria ancora se-


gnata dalla svolta linguistica, che stabilisce la nostra irriducibile na-
tura di esseri dotati di parola e dunque destinati allo scambio e alla
convivenza, sembra evidente che politica e linguaggio siano legati
da rapporti intimi, quando non siano perfettamente coincidenti. Ep-
pure l’innegabile rapporto tra queste due dimensioni dell’essere
umano è ben lontano dallo stabilire una regione pacifica e costante
attraverso la nostra storia. È sufficiente uno sguardo al presente per
registrarne la natura inquieta e instabile: il conflitto che si genera
nella compresenza di tante lingue diverse, il che significa tante sto-
rie, tanti racconti, che pretendono di essere veri per chi li pronuncia
e chi li dovrebbe ricevere, è una realtà, più spesso drammatica o tra-
gica, che attraversa, non solo le singole società ma tutto il pianeta.
Persino nelle relazioni tra singoli difficilmente il linguaggio può as-
sumersi il ruolo di indiscutibile facilitatore del riconoscimento re-
ciproco e della partecipazione alle cose comuni: equivoci, effetti re-
torici, menzogne volontariamente costruite, irrilevanza delle paro-
le che pure vengono pronunciate, ci mostrano come la nostra natu-
ra linguistica sia ben lontana dal rappresentare una garanzia per la
convivenza. Per la politica il linguaggio sembra piuttosto costituire
la cura e il veleno insieme.
Ma è proprio grazie a questa instabilità che si apre uno spazio di
esplorazione per precisare i singoli momenti di contatto e di attrito,
gli usi che di questo rapporto si può fare, i rischi che si corrono.
L’armonia tra politica e linguaggio conosce il suo culmine agli
inizi della tradizione occidentale, quando Aristotele stabilisce, per
l’essere umano, un’essenziale natura associativa e linguistica: gli es-
seri umani sono quelli che vivono insieme, e che non potrebbero fa-
re altrimenti, e che si distinguono dagli altri esseri viventi proprio
per le loro capacità linguistiche. La coincidenza tra vivere insieme
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e parlare mostra la sua zona d’ombra fin da questo gesto inaugura-


le: altri popoli, donne e schiavi – che pure all’apparenza parlano –
non per questo vengono contati come una parte da tenere in conto
nella convivenza. Si tratta di un gesto originario – una coincidenza
presunta, perentoriamente affermata, che al contempo genera inclu-
sioni ed esclusioni – che ricorrerà attraverso i secoli, della tradizio-
ne occidentale, ma non solo. La ritroviamo all’epoca delle Dichia-
razioni, quando uguaglianza e fratellanza pretendono di includere
tutti gli esseri umani e, ancora una volta, non sanno evitare di met-
tere a tacere o rendere irrilevante la parola e la partecipazione di al-
tri, di altre. Ritorna nella pretesa dell’Occidente di costruire grandi
racconti a nome di tutta l’umanità e, così facendo, non solo toglie la
possibilità alle singole tradizioni di raccontare la propria storia, ma
attribuisce loro un ruolo predefinito, non sempre onorevole, nell’in-
treccio della Storia. Ricorre ogni volta che un soggetto politico pre-
tende di parlare a nome di un’altra, di un altro, gesto che sembra ac-
comunare l’umanità al di là delle partizioni tra Occidente e Oriente.
Un altro punto di forte instabilità tra linguaggio e politica si tro-
va quando guardiamo al rapporto tra verità e giustizia. L’inizio del-
la storia è, in questo caso, un conflitto estremo: la ricerca di Socra-
te, che considera il percorso verso la verità quale condizione per
conseguire un ordinamento politico giusto, gli varrà la pena di mor-
te. Hannah Arendt, a commento di questo crimine originario, deci-
de per un’eterna inimicizia tra verità e politica: non possono incon-
trarsi o intrattenere rapporti pacifici, dato che la prima ricerca il co-
stante, l’eternamente vero, e la seconda non può che riconoscere co-
me propria materia la mutevolezza delle vicende umane e delle so-
luzioni che si possono trovare per la convivenza. Tuttavia la gran-
de pensatrice, insieme ad altre, apre una strada per sottrarsi al di-
lemma: rendere conto della realtà è la via per non lasciare che la pre-
tesa di verità produca idee “fisse” – con tutte le sue metamorfosi, fi-
no a quelle orribili delle ideologie dei totalitarismi, dei razzismi e
dell’antisemitismo - e che la politica sia abbandonata all’ambito
dell’indefinitamente opinabile, quando non del falso.
Il giudizio reciso di Arendt ci permette un’altra precisazione sul
rapporto tra verità e politica: quando la pretesa di verità entra nel-
l’ambito degli affari umani, quando distinguere il vero dal falso de-
termina chi entra e chi non entra a far parte della convivenza, dob-
biamo saper rintracciare chi stabilisce tali criteri. Friedrich Nietz-
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sche e Michel Foucault ci mostrano come le vicende della vita co-


mune discriminino di epoca in epoca, di cultura in cultura, cosa è ve-
ro e cosa è falso, cosa è giusto da cosa non lo è, chi è autorizzato a
dirne qualcosa da chi no. È questa una precisazione dirimente: quan-
do parliamo, quando entriamo nello scambio linguistico, che costi-
tuisce il tessuto della nostra vita associata, il significato e il peso del-
le parole pronunciate non è la semplice risultante di quel che sta av-
venendo in quel momento. Esistono altre scene, accanto e precedenti
allo scambio puramente linguistico, che determinano il valore e le
posizioni dei singoli parlanti. È la politica, il vivere insieme, i con-
flitti, gli accordi, il prevalere di una parte, che decide delle possibi-
lità della comunicazione.
Ecco allora che si profila un altro nodo del problema. L’acces-
so allo scambio, la competenza linguistica, l’autorevolezza della
parola pronunciata rivelano come l’equivalenza tra parlare e parte-
cipare, prendere parte alla vita comune, non vada da sé. Il dialogo
tra i Meli e gli Ateniesi, nel V secolo a.C., ne è l’esempio più oscu-
ro. Per quanto la situazione si presenti come un momento di me-
diazione per eccellenza – ambasciatori e governanti che discutono
sul da farsi – in realtà la parola scambiata mostra tutta la sua impo-
tenza di fronte all’alternativa che i rapporti di forza hanno già sta-
bilito, o la guerra o la schiavitù. Il valore decisivo e preliminare dei
rapporti di forza si ripete di secolo in secolo, in modo talvolta me-
no patente e tragico ma non meno violento. Ogni volta che la man-
cata istruzione elimina la possibilità stessa di una partecipazione
competente alla vita comune, anche quando l’analfabetismo non è
un dato di partenza ma il risultato di una vita che si impoverisce pro-
gressivamente. Oppure quando l’ordine della convivenza ha già
pregiudicato la possibilità di parlare in modo da essere ascoltati –
cittadine e cittadini già definiti come interlocutori improbabili o in-
capaci. O ancora tutte le volte che le regole dello scambio sono sta-
bilite secondo modi che non tengono conto delle esigenze dei par-
lanti o della possibilità di esserne informati.
Queste considerazioni ci portano a un’ultima precisazione, di ri-
lievo. Concepita nel suo rapporto con il linguaggio, la politica non
può più essere concepita come quel che si esprime esclusivamente
attraverso le leggi, le istituzioni e la rappresentanza. Come aveva-
no già capito le Preziose nel XVII secolo, esiste uno spazio decisi-
vo per la convivenza che si fa lontano dai luoghi del potere e dalle
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sue grammatiche. Inventrici della civiltà della conversazione, que-


ste donne sono le antesignane di un’idea della convivenza che av-
viene nel qui e ora delle relazioni, dei comportamenti, della cura del-
la parola e dello scambio, alimentata dall’educazione, che non si ri-
duce alla capacità tecnica di manipolare informazioni, e che è ben
più impegnativa: né etica privata, né politica delegata alle istituzio-
ni preposte, è uno stile di comportamento che coltiva l’attenzione al
singolo e alla singola nell’orizzonte del vivere comune.

* * *

Dato l’argomento è stata riservata una particolare attenzione alla


qualità e alla singolarità del linguaggio degli autori e delle autrici
che hanno dato contributi importanti per individuare gli incontri e
scontri tra politica e linguaggio. I passi riportati, quando più lunghi
del consueto, sono pensati per restituire lo stile singolare, la voce,
di chi ha affrontato problemi e possibili soluzioni, quando non gli in-
ciampi incontrati nel percorso di ricerca. Colgo l’occasione per rin-
graziare Paolo Virno, collega di Filosofia del linguaggio, che mi ha
segnalato i commenti a Aristotele di F. Lo Piparo e il testo di A.
Gramsci Note per uno studio della grammatica.
Al diario di Carla Lonzi et al., Taci, anzi parla (Milano 2010) è
ispirata la struttura di questo lavoro.
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PRIMA PARTE

TACI…
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1.

IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE

L’arte di raccontare storie è nata quasi in contemporanea


con la nostra comparsa sulla terra
Christian Salmon

In questo primo decennio del XXI secolo come pensare i processi


che vanno sotto il titolo di globalizzazione, come pensarli nella lo-
ro dimensione politica e secondo l’inquieta alleanza che politica e
linguaggio intrattengono? Se è vero che una buona parte delle de-
scrizioni di quel che accade all’umanità e al pianeta sembra porsi in
termini spaziali e geografici, secondo la figura del globus – lo spa-
zio omogeneo, composto di punti sempre più equidistanti da un
centro incollocabile, dotato di un tempo che si restringe fino quasi
ad annullarsi, istantaneità della comunicazione, degli scambi e del-
l’informazione – esiste e resiste l’idea che questa epoca sia un’epo-
ca a tutti gli effetti, che abbia un suo tempo interno e una sua pro-
venienza, il globus è mundus.

Canonico, se assumiamo il termine mondializzazione, il riferimento al


passaggio d’epoca rappresentato dall’emergere, dal tessuto ancora de-
scrittivo e sinottico della Universalgeschichte, del concetto di storia-
mondo (Welt-Geschichte): di una storia intesa come un processo orien-
tato che si mondializza. Passaggio cruciale dell’universalismo occi-
dentale che, partendo dalla modernità illuministica di Voltaire, Rous-
seau e Kant, giunge – attraverso il contrappunto “romantico” di Her-
der – alla filosofia della storia di Hegel.
Ma non mancano, come si sa, genealogie più profonde, proiettate a ri-
troso alla ricerca di antecedenti illustri quanto remoti della storia-
mondo: quali per esempio la teologia agostiniana della storia con la sua
idea di civitas peregrinans (basti qui ricordare le celebri interpretazioni
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prospettate con accenti diversi da Karl Löwith e da Étienne Gilson, per


i quali le ideologie e utopie moderne non sarebbero che trasposizioni
secolarizzate dell’éschaton giudaico-cristiano e “metamorfosi della
Città di Dio”); ovvero – risalendo ancora più indietro nel tempo – l’i-
dea di unità dei pragmata delineata, in riferimento alla potenza roma-
na, dalle Storie di Polibio: dove Roma diviene la cifra politico-sim-
bolica di quel piano di interconnessione mondiale degli eventi che tro-
viamo oggi alla base di significative rivisitazioni teoriche del concet-
to di Impero (Marramao 2003, 23-24).

Non è una semplice opzione tra geografia o storia. Se la politica è


una questione di geografia – ora e tanto più il secolo scorso –, pos-
siamo anche dire che la politica è intimamente legata al senso del-
la vita comune – o alla sua mancanza. Tale senso ha una forza e de-
gli effetti: dare un senso a quel che ci accade orienta l’azione in una
direzione, in un senso per l’appunto, o in un’altra. Si tratta di opzioni
che organizzano i valori in gerarchie, danno priorità a questioni e ur-
genze, forniscono indicazioni su come affrontarle.
A seconda del senso che darò e avrò ricevuto quanto al mio es-
sere una donna, ecco che si apriranno per me una serie di valori, di
alternative alla scelta, di percezione della mia identità e posizione,
di immagini e prefigurazioni su ciò che è buono, giusto, ingiusto –
sono una vittima, sono un individuo al pari di tutti gli altri, sto di-
ventando qualcuno che non può essere definito qui e ora, etc. –, a se-
conda della storia in cui mi trovo, per scelta, per inclusione, per im-
posizione. Raccontare una storia è dare senso a dove e chi si è. Al-
la fin fine raccontare una storia significa collocarsi, prendere parte,
avere parte, dentro un quadro, uno spazio più ampio, che non ri-
guarda solo se stesse.

La fine delle grandi narrazioni

Alla fine del secolo scorso Jean François Lyotard pone il problema
su grande scala, in effetti: pone il problema delle “grandi narrazio-
ni”, i grandi romanzi con cui l’Occidente dell’epoca moderna ha co-
struito la propria immagine, i propri valori e fini, dotandosi di una
Storia. In cosa consistono queste grandi narrazioni? Innanzitutto
sono “narrazioni a funzione legittimante” (Lyotard 1986, 29), non
sono storie nel senso della finzione, tutt’altro.
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 13

Questi racconti non sono miti, nel senso di favole (il racconto cristia-
no non fa eccezione). [Ma] come i miti essi mirano a legittimare isti-
tuzioni e pratiche sociali e politiche, legislazioni, etiche, modi di pen-
sare (ivi, 27).

Tocchiamo così un primo nodo tra linguaggio e politica. La Storia,


le “grandi narrazioni” occidentali, anziché rimanere confinate nel-
l’ambito delle discipline storiche, intrattengono un rapporto stretto
con le nostre vite, ovvero con le istituzioni, le leggi, le pratiche so-
ciali e politiche, gli stili di vita, i modi di pensare. Le legittimano.
Legittimare consiste in un processo che autorizza un ‘legislatore’ a
prescrivere le condizioni che garantiscono che l’enunciato appar-
tenga al discorso corretto e che dunque possa essere preso in consi-
derazione dalla comunità che lo condivide e cui è rivolto (Lyotard
1979, 19).
È una questione di verità (v. capitolo 3): la storia legittima è
quella che viene riconosciuta come vera, condivisa, utilizzata e svi-
luppata. Lyotard ha qui in mente il processo di legittimazione del sa-
pere scientifico ma, sostiene, la legittimazione della scienza è in-
dissolubilmente legata a quella della legittimazione del legislatore
(ibidem). In altre parole, stabilire i criteri e le condizioni di una sto-
ria vera è indissolubilmente legato all’atto di stabilire i criteri e le
condizioni di una storia giusta, o perlomeno condivisibile. Al pun-
to che questa legittimità finisce per avere come criterio – essendo
vera – di essere vera e valida per tutti, cioè universale.
A differenza dei miti, tuttavia, queste grandi narrazioni, più che
cercare la loro legittimità in un atto originale fondatore, si rivolgo-
no a un futuro di cui si vuole l’avvento, a un’idea da realizzare. La
libertà, i “lumi della ragione”, il socialismo, il progresso economi-
co, ecc. hanno un valore legittimante perché vero, dunque valido per
tutti, dunque universale. L’idea orienta, dà senso e direzione a tutte
le realtà umane (Lyotard 1986, 27).
La Storia con cui l’Occidente si racconta – e racconta tutti i suoi
altri non Occidentali – è dunque come un romanzo: ha un inizio, uno
svolgimento, forse non una fine, ma senz’altro un fine, per giunta si
tratta generalmente di un lieto fine.

Questo modo moderno di organizzare il tempo prende forma, nel


XVIII secolo, nell’Aufklarung. Il pensiero e l’azione dei secoli XIX e
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XX sono retti da un’idea (e parlo di un’idea in senso kantiano): quel-


la dell’emancipazione. Essa si argomenta certo in modo diverso a se-
conda di quelle che chiamiamo le filosofie della storia, cioè i grandi
racconti a partire dai quali si tenta di ordinare la folla egli eventi: il rac-
conto cristiano della redenzione dal peccato di Adamo attraverso l’a-
more, il racconto aufklärer dell’emancipazione dall’ignoranza e dalla
schiavitù attraverso la conoscenza e l’egualitarismo, il racconto spe-
culativo della realizzazione dell’idea universale attraverso la dialetti-
ca del concreto, il racconto marxista dell’emancipazione dallo sfrut-
tamento e all’alienazione attraverso la socializzazione del lavoro, il
racconto capitalista dell’emancipazione dalla povertà attraverso lo
sviluppo tecno-industriale. In questi racconti c’è materia di lite e per-
sino di dissidio. Tutti però situano i dati prodotti dagli eventi nel cor-
so di una storia il cui termine, pur restando fuori della nostra portata,
prende il nome di libertà universale, di assoluzione dell’umanità tutta
(Lyotard 1986, 34).

Gli antecedenti

A detta di Lyotard, questo modo di organizzare il tempo prende


forma, nel XVIII secolo, con l’Illuminismo – anche se vedremo
che l’inclinazione a raccontare un grande romanzo ha un illustre pre-
cedente del V secolo, Agostino che, nella Città di Dio, scrive il ro-
manzo di formazione e redenzione dell’umanità cristiana.

Immanuel Kant

Il testo che rappresenta il paradigma di questo modo di organizza-


re il tempo dell’umanità intera è Idea per una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico di Immanuel Kant (1784).
A pochi anni dalla Rivoluzione francese, il filosofo compendia
la fede che il secolo dei Lumi nutre nei confronti della ragione uma-
na. Diversamente dalla ragione di Thomas Hobbes, che un secolo
prima la concepiva come uno strumento di calcolo dei costi e be-
nefici in vista della sopravvivenza del singolo individuo, per Kant
e per gli Illuministi la ragione ha una dimensione accomunante, ab-
braccia perché contraddistingue tutta l’umanità in quanto tale. La ra-
gione è una facoltà generosa, per quanto non onnipotente, che mira
al raggiungimento della felicità e della giustizia su scala mondiale.
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 15

Non è un caso dunque che Kant sia diventato, agli inizi del XXI se-
colo, uno dei punti di riferimento, per pensare all’umanità su scala
globale – la ripresa odierna del concetto di “cosmopolitismo” – se-
condo un’idea della politica che includa tutti gli essere umani in
quanto cittadini del mondo (vedi capitoli 4 e 6).
Kant parte dall’assunto che le azioni umane siano determinate
da leggi universali e che la storia che le narra fa sperare che, nel gio-
co della libertà umana, si possa

scoprire un ordine per cui ciò che nei singoli individui si rivela con-
fuso e irregolare, nella totalità della specie possa riconoscersi come
sviluppo continuato e costante, anche se lento, delle sue tendenze ori-
ginarie. Così i matrimoni, le nascite che ne derivano, le morti, che so-
no fatti in così larga misura influenzati dalla libera volontà umana, non
sembrano sottoposti a regola alcuna che permetta di calcolarne in pre-
cedenza il numero; eppure le registrazioni annuali compiute nei gran-
di paesi dimostrano che tali fatti avvengono secondo leggi naturali co-
stanti al pari delle variabili condizioni atmosferiche, le quali, anche se
prese singolarmente non possono prevedersi, nell’insieme non man-
cano di mantenere in un corso uniforme e continuo il crescere delle
piante, lo scorrere dei fiumi e altri fatti della natura (Kant 1784, 19).

Da grande pensatore sa anticipare dubbi e obiezioni:

È certamente un calcolo strano e all’apparenza assurdo voler redigere


una storia secondo un’idea di ciò che dovrebbe essere il corso del
mondo umano qualora esso dovesse adeguarsi a certi fini razionali:
sembra che con un tal proposito si possa solo fare un romanzo (ivi, 31).

Ma, risponde, dato che è lecito ammettere “un disegno e uno sco-
po finale”, ecco che il brogliaccio di questa storia viene tratteggia-
to. Attraverso le nove tesi che lo illustrano, il filosofo di König-
sberg costruisce gradualmente l’edificio di una storia comune a
tutta l’umanità.
Le disposizioni di ogni essere tendono al proprio sviluppo e
compimento, nell’essere umano tra queste è eminente la facoltà ra-
zionale (I-II), che si sviluppa nella specie e non al livello indivi-
duale. Lo sviluppo avviene attraverso l’antagonismo tra singoli
(IV), cosa che pone il problema di una forma di convivenza, la so-
cietà, che permetta la sua regolazione (V). La storia diventa così il
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processo di realizzazione politica di tale forma, sul piano naziona-


le e nei rapporti tra stati (VI-VIII). Il passaggio verso una società ci-
vile che faccia valere universalmente il diritto rappresenta “il più
grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie
umana” (titolo della quinta tesi), “problema che è ad un tempo il più
difficile e quello che la specie umana impiega più tempo a risolve-
re” (titolo della sesta tesi).
Tuttavia questa storia, a una prima apparenza strana e assurda,
non è un mero esercizio mentale, tutt’altro. Avere una visione d’in-
sieme può diventare uno strumento per accelerare e potenziare l’ef-
ficacia di tale realizzazione storico-politica (tesi IX). Ritroviamo qui
l’effetto pratico-politico attribuito da Lyotard alle grandi narrazio-
ni: legittimano istituzioni, forme di governo, pratiche sociali e po-
litiche, legislazioni, etiche, modi di pensare.
Kant rimanda il compimento di questo difficile compito a un
tempo infinitamente da venire – il tempo più lungo per risolvere
quel problema – e tuttavia auspica che gli effetti della sua visione
comincino a manifestarsi nell’immediato. Non serve leggere tra le
righe per intravedere qui la preparazione del terreno su cui si im-
pianterà Hegel con la sua storia universale, Kant formula un auspi-
cio non si potrebbe più esplicito per un’opera come la sua:

Noi vogliamo vedere se ci riesce di trovare un filo conduttore di que-


sta storia e vogliamo poi lasciare alla natura di far sorgere l’uomo che
sia in grado di valutarla secondo questo principio direttivo. Così la na-
tura ha prodotto un Keplero, che sottomise in maniera inattesa il cor-
so eccentrico dei pianeti a leggi determinate, e un Newton, che queste
leggi spiegò con una causa naturale universale (Kant 1784, 20).

Georg F.W. Hegel

Un Newton delle leggi della storia. Così, in risposta all’auspicio di


Kant che Lyotard avalla, Hegel e la sua Fenomenologia dello spiri-
to (1807), insieme agli scritti e alle lezioni sul tema della filosofia
della storia, totalizzano tutti i racconti dell’Occidente moderno. Al-
la stregua di un romanziere ottocentesco – capace di una visione on-
nisciente – Hegel organizza folle e singoli personaggi, collega luo-
ghi distanti sulla terra, in un unico ordine che culmina nello scio-
glimento dell’intreccio.
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 17

Noi vediamo un enorme quadro di eventi e di azioni, di infinitamente


varie formazioni di popoli, stati, individui, in un succedersi instanca-
bile... dappertutto vengono proposti e perseguiti fini... Diffuso su tut-
ti questi eventi e casi noi vediamo un umano agire e soffrire, una real-
tà nostra dovunque e perciò dovunque una inclinazione o un’avver-
sione del nostro interesse... Talora vediamo il più vasto corpo di un in-
teresse generale procedere con maggior difficoltà, e disgregarsi la-
sciato in preda a un infinito complesso di piccoli rapporti; talora ve-
diamo nascere il piccolo da un enorme spiegamento di forze, e l’e-
norme da ciò che appariva insignificante... e se una vien meno, ecco
che un’altra ne prende il posto (Hegel 1830, 41)

La Storia dell’umanità sembra mescolare due temporalità diverse:


quella ciclica, di nascita, crescita e morte, che sempre si ripete – e
geograficamente si sposta, secondo il percorso del sole, da Est ver-
so Ovest – e quella lineare di un progressivo e crescente sviluppo
delle civiltà, l’ultima nata è più avanzata della precedente.

Con quei risultati si può comporre uno dei più terribili quadri senza ne-
cessità di accentuazioni oratorie, solo mettendo insieme esattamente le
calamità sofferte da quanto di più splendido è esistito in fatto di popoli
e di stati, di virtù private e di innocenza, e in tal modo si può spinge-
re il sentimento sino al più profondo e inconsolabile cordoglio, che non
è compensato da nessun risultato conciliante, e nei riguardi del quale
noi organizziamo la nostra difesa o ricuperiamo la nostra libertà, solo
pensando: – è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci... Ma pu-
re quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui so-
no state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli
stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a
chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati
compiuti così enormi sacrifici (ivi, 57).

Di fronte alla costante mutevolezza delle vicende umane, diversa-


mente da Kant – che, pur entusiasta sostenitore della ragione uma-
na, si prende il compito di individuarne i limiti – Hegel si chiede
“perché?” e vuole una risposta concreta, dettagliata: la sua Storia de-
ve contenere una morale ben precisa e definita, che è in suo potere
di formulare. Se Kant affida il divenire dell’umanità, e la relativa
questione “se il genere umano sia in costante progresso verso il
meglio”, a un andamento “asintotico” – l’asintoto essendo il punto
all’infinito, inverificabile, impercepibile, in cui due rette si con-
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giungono; Hegel vuole sapere, si chiede: a vantaggio di chi e di qua-


le finalità ultima? e si dà una risposta che riguarda l’ordine del
mondo intero.
La differenza tra l’universalismo kantiano e la storia universa-
le di Hegel consiste anche in una trasformazione del dispositivo nar-
rativo: il punto di vista del romanziere, che tutto vede, passa da Dio
all’Uomo, meglio, alla razionalità umana, tratto essenziale di ciò che
può definirsi umano:

Il principio hegeliano della traduzione secolare del principio cristiano


“nella forma della ragione umana e della libertà” è comune a tutte le
filosofie della storia dell’Illuminismo. Tuttavia Hegel si distingue dai
suoi predecessori come dai suoi discepoli radicali per aver ricondotto
il concetto teologico del compimento del tempo attraverso Cristo alla
fede illuministica nel progresso. Nella sua filosofia della storia il pro-
gresso non è rivoluzionario esso tende alla perfetta elaborazione e
perfezione di un principio in sé compiuto dell’intero processo storico.
Per il razionalista tipico del secolo XVII e del secolo XVIII il pro-
gresso rappresenta invece un illimitato progredire verso una sempre
maggiore razionalità libertà e felicità, poiché il il tempo non è ancora
compiuto. Nel suo volume The Idea of Progress, J. B. Bury ha posto
in luce come essa sorga nel mondo. La fede in un progresso terreno e
illimitato si sostituisce sempre più a quella nella provvidenza di un dio
trascendente. Ma infine proprio l’idea del progresso doveva assumer-
si la funzione della provvidenza, cioè quella di prevedere e provvede-
re per il futuro (Löwith 1949, 81).

Perché non arrestarsi, di fronte a catastrofi e guerre, alla constata-


zione che “la storia è un tessuto di assurdità per il pensatore supe-
riore”, come ha occasione di dire Goethe? Per quale ragione non ci
si dovrebbe fermare qui, invece di ricercare oltre a quale “scopo fi-
nale” siano avvenuti questi immani sacrifici? La risposta storica e
interna alla tradizione occidentale la dà lo stesso Hegel: se il primo
moto di fronte alla mancanza di senso dei fatti umani di distruzio-
ne è di organizzare la nostra difesa o recuperare la nostra libertà,
pensando: è andata così, è il destino – la forma mentis occidentale,
depositatasi nei secoli, diversamente da altre storie e altre culture,
non sa rassegnarsi ad accettare il destino. Se la Storia consiste in un
incessante mutamento, dove generazione e morte si avvicendano,
nei singoli corpi come nelle diverse civiltà, tuttavia l’idea di un ci-
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clo di generazione e distruzione che infinitamente si ripete è un


concetto “orientale”, in cui si rappresenta la vita della natura che, al
pari della mitica fenice, eternamente si prepara il rogo e vi si di-
strugge, risorgendo dalle sue ceneri a nuova vita. Per L’Occidente,
“per noi” dice Hegel, la storia è una storia dello spirito che di fase
in fase non si ripresenta tuttavia mai nella stessa forma, bensì riap-
pare “accresciuto e trasfigurato”.
In questa diagnosi storica Hegel compie un doppio movimento
rispetto al “romanzo” kantiano: da una parte, accentua il valore del-
la fine, che assume il potere di dare senso a ritroso alle catastrofi e
assurdità del presente – si tratta di momenti preparatori allo stadio
successivo – e, dall’altra, stabilisce una gerarchia tra il passato e il
presente: è quest’ultimo che rappresenta il grado massimo di evo-
luzione della storia umana. La storia spirituale dell’uomo si eleva in
gradi sempre più alti di compimento.

La provvidenza

La concezione hegeliana della storia, che presuppone una direzio-


ne irreversibile e univoca verso un fine futuro, ha a sua volta alcu-
ni antecedenti. A cominciare dalla concezione tipicamente biblica
che la storia sia diretta verso un fine ultimo e guidata dalla volontà
divina. Questa però travalica la capacità di comprensione dei singoli
– Giobbe subisce senza comprendere le sofferenze che gli vengono
inflitte, ma con il pensiero rivolto alla volontà del Signore, che tut-
to vede. Come può Hegel conciliare la sua fede nella ragione uma-
na, l’idea che esista un disegno definito, un processo dall’esito cer-
to, e le assurdità e sofferenze nel mondo? Questa possibilità avvie-
ne in tre mosse, ripartendo diversi gradi di consapevolezza tra per-
sonaggi, storia e romanziere attraverso il concetto di “astuzia della
ragione” che agisce entro e dietro i suoi agenti, le passioni degli gli
uomini.

Non è affatto un caso, ma è inerente all’essenza stessa della storia che


il risultato finale delle grandi azioni storiche sia sempre diverso dalle
intenzioni degli uomini. Cesare e Napoleone non sapevano e non po-
tevano sapere ciò che facevano quando consolidavano il loro dominio.
Essi attuarono inconsapevolmente un fine universale nella storia del-
l’occidente. La libertà apparente delle loro azioni è la libertà equivo-
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ca delle loro passioni, che perseguono con cecità quasi bestiale un fi-
ne particolare, ma in modo che il conseguimento dei loro interessi per-
sonali è promosso da un impulso anonimo che determina la loro vo-
lontà e le loro decisioni […]. Infatti, la meta concernente gli individui
storici non è l’oggetto di una volizione cosciente, bensì qualcosa che
essi debbono volere, per un impulso che sembra cieco e tuttavia vede
più lontano degli interessi personali coscienti. Perciò gli uomini rea-
lizzano con una comprensione istintiva il fine di cui sono strumento.
Essi agiscono storicamente, in quanto sono spinti dalla potenza e dal-
l’“astuzia della ragione”, che è il concetto razionale della provviden-
za. Così le passioni e gli interessi sono effettivamente ciò che sem-
brano a prima vista, cioè il sostrato umano della storia, ma nell’ambi-
to di uno scopo universale che li trascende e che promuove un fine non
contemplato dalla intenzionalità cosciente […] Popoli e individui non
sanno dove effettivamente si dirigono: sono strumenti nelle mani di
Dio, sia che obbediscano o che si oppongano alla sua volontà. Così i
risultati ultimi delle azioni storiche sono sempre qualcosa di più, e an-
che di meno, delle intenzioni degli agenti (ivi, 76-77).

I personaggi dunque agiscono nella storia ma in modo inconsape-


vole, la storia è teatro delle azioni dei personaggi, ma non com-
prende se stessa. È solo il romanziere – un tempo Dio, ora la facol-
tà umana di ragione, e dunque il filosofo – che comprende la storia
nel suo complesso, aldilà delle singole vicende dei personaggi, e che
ne conosce la fine. E la fine determina a ritroso lo svolgimento del-
la storia: sebbene Hegel dia al suo romanzo dell’umanità un inizio
che coincide con l’antichità, il percorso del senso della storia parte
dalla fine.
Nelle sue linee fondamentali questa visione distribuisce il pro-
gresso umano nel modo seguente: la storia del mondo ha inizio in
Oriente e finisce in Occidente. Ha inizio con i regni orientali della
Cina, dell’India e della Persia. Con la vittoria dei Greci sui Persia-
ni, la storia universale si trasferisce nel Mediterraneo e si conclude
con i regni Cristiano-germanici dell’Occidente. L’Europa è “sem-
plicemente la fine della storia”. In questo movimento da oriente a
occidente lo spirito perviene alla realtà e alla coscienza della liber-
tà. Mentre in Oriente uno solo era libero nel senso dell’arbitrio illi-
mitato: il sovrano dispotico; in Grecia e a Roma alcuni erano libe-
ri: i cittadini nati liberi, in antitesi agli schiavi; nel mondo Germa-
nico, che riprende l’eredità del Cristianesimo, l’uomo in quanto ta-
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 21

le diventa libero. L’Oriente rappresenta l’infanzia della Storia del


mondo, la Grecia e Roma l’adolescenza e la virilità, i popoli Cri-
stiano-germanici costituiscono la vecchiaia.
Così Hegel riprende esplicitamente il percorso secondo cui si
svolge la storia umana tracciato da Agostino nel V secolo: il cri-
stianesimo libera l’individuo dal rapporto con l’autorità esterna,
mettendolo in rapporto diretto con l’assoluto – che solo alcuni sa-
pranno pensare pienamente –

Con l’apparire del principio cristiano, si è circumnavigata la terra che


è divenuta per gli europei rotonda. Con Cristo il tempo trova la sua at-
tuazione e il mondo storico è compiuto in linea di principio. Infatti sol-
tanto il Dio cristiano è veramente spirito e insieme uomo. Questo
principio è il cardine su cui ruota la storia del mondo. “Fin qui e di qui”
procede ogni storia significativa, razionale ed intelligibile (ivi 77-78).

Esiste però una differenza fondamentale tra Agostino e Hegel: la tra-


sformazione della provvidenza in un’astuzia della ragione che con-
duce al compimento dello spirito umano. Tutti i sacrifici fatti in ogni
tempo su tutti gli altari della terra sono giustificati in forza di que-
sta conciliazione finale. La storia universale raccontata da Hegel ap-
pare dunque, secondo l’interpretazione di Löwith, la secolarizza-
zione dello spirito cristiano. Trasferisce l’attesa cristiana di un com-
pimento finale nel processo storico in quanto tale. La storia del
mondo trova la propria legittimità – è vera e giusta per tutti – in se
stessa. “La storia del mondo è il tribunale del mondo”.

Le immagini del mondo

Löwith era stato allievo di Martin Heidegger che in un breve scrit-


to – L’epoca dell’immagine del mondo (1938) – aveva precisato
quale sia la posizione conoscitiva e d’esistenza da cui è possibile
avere una visione unitaria del mondo.

Che cos’è un’immagine del mondo? Evidentemente una raffigurazio-


ne del mondo. Ma che significa qui “mondo”? E che significa “imma-
gine”? Mondo è qui la denominazione dell’ente nella sua totalità. Il ter-
mine non equivale a “cosmo” o a “natura”. Del mondo fa parte anche
la storia […] Col termine “immagine” si intende in primo luogo la ri-
produzione di qualcosa. Di conseguenza, l’immagine del mondo sa-
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rebbe, per così dire, una pittura dell’ente nel suo insieme. Ma “imma-
gine del mondo” significa qualcosa di più […] “Immagine” non signi-
fica qui qualcosa come imitazione, ma ciò che è implicito nell’espres-
sione: aver un’idea [Bild] fissa di qualcosa. Il che significa: la cosa sta
così come noi la vediamo. Aver un’idea [immagine] fissa di qualcosa
significa: porre innanzi a sé l’ente stesso così come viene a costituirsi
per noi e mantenerlo costantemente così come è stato posto. […]
“Farsi un’idea fissa di qualcosa” non significa soltanto rappresentarsi
in generale l’ente ma anche porlo innanzi a noi come sistema, cioè nel-
l’unità di ciò che è proprio di esso e si raccoglie in esso. L’espressio-
ne: “aver un’idea fissa di qualcosa” significa anche: esser al corrente,
esser pronto per, orientarsi nella cosa. Quando il mondo diviene im-
magine, l’ente nel suo insieme è assunto come ciò in cui l’uomo si
orienta, e quindi come ciò che egli vuoi portare innanzi a sé e avere in-
nanzi a sé; e quindi, in un senso decisivo, come ciò che vuoi porre in-
nanzi a sé [vor-stellen], rappresentarsi (Heidegger 1938, 86-87).

Una visione unitaria del mondo nella sua totalità implica una fissi-
tà, l’aver colto i tratti essenziali di un’epoca. Con intuizione Hei-
degger coglie il restringimento dello spazio a mezzo della tecnica e
insieme l’aumento della scala delle grandezze. Sono convocati non
internet ma la radio, non i bit ma la fisica atomica, eppure l’analisi
ha il sapore di un’anticipazione.

Un segno di questo processo è costituito dal fatto che ovunque, nelle


forme e nei travestimenti più diversi, si fa innanzi il gigantesco. Ciò
avviene anche nella direzione del sempre più piccolo. Basta pensare ai
numeri della fisica atomica. Il gigantesco avanza in una forma che
sembra voler dissolverlo: con l’annullamento delle grandi distanze
per mezzo dell’aeroplano, con la rappresentazione – mediante una
semplice manopola radiofonica – di mondi lontani nella loro quoti-
dianità. Si cadrebbe però nel superficiale pensando che il gigantesco
sia semplicemente il vuoto indefinitamente esteso del quantitativo pu-
ro. […]Si sarebbe ciechi del tutto se si credesse di aver trovato una
spiegazione all’avanzata del gigantesco pronunciando una semplice
parola: americanismo. Il gigantesco è invece ciò attraverso cui il quan-
titativo si costituisce in una sua propria qualità, divenendo in tal mo-
do un modo eminente del grande. […] Appena il gigantesco della pia-
nificazione, del calcolo, dell’organizzazione e dell’assicurazione por-
ta il quantitativo a capovolgersi in una sua propria qualità, ecco che il
gigantesco e ciò che apparentemente è sempre interamente calcolabi-
le si trasformano, proprio perché tali, nell’incalcolabile (ivi, 100).
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 23

Diagnosi, fallimenti e punti di non ritorno

Dice Löwtih che “a cento anni di distanza da Hegel sarebbe facile


mostrare i limiti della sua visione storica e rilevare la stravaganza di
alcune sue applicazioni, ad esempio riguardo alla monarchia prus-
siana e al protestantesimo liberale. Il mondo di Hegel era ancora
l’occidente cristiano, la vecchia Europa” (80). Più analiticamente
Heidegger sembra accogliere la tecnica come nuovo senso del mon-
do, assumendosene però l’imponderabilità, l’indeterminatezza, con
un accento ben diverso dall’onniscienza hegeliana. Per parte sua,
Nietzsche, già sul finire dell’Ottocento – malgrado la morte avve-
nuta nel 1900 non gli abbia dato occasione di alimentare la sua in-
credulità con gli eventi traumatici che si sarebbero svolti di lì a
qualche decennio – manifesta tutta la sua insofferenza per il registro
trionfalistico del romanzo hegeliano.

Riguardare la natura come se essa fosse una dimostrazione della bon-


tà e della perfezione di un dio; interpretare la storia in onore di una ra-
gione divina come costante testimonianza di un ordinamento etico del
mondo e di finali intenzioni etiche; spiegare le proprie esperienze di
vita come le hanno abbastanza a lungo spiegate uomini religiosi, co-
me se tutto fosse una disposizione, tutto fosse un cenno, tutto fosse
concepito e preordinato per amore e per la salute dell’anima: questo ha
ormai fatto il suo tempo, ha la coscienza contro di sé, è per tutte le co-
scienze sensibili qualcosa di sconveniente, di disonesto, una menzogna
[…]; grazie a questo rigore, se non altro, noi siamo appunto buoni Eu-
ropei ed eredi del più lungo e più valoroso superamento dell’Europa
(Nietzsche 1887, 155).

Il filosofo rovescia lo spirito di Hegel: proprio l’estrema consape-


volezza porta a denunciare ogni narrazione edificante, che sia la ver-
sione religiosa della provvidenza o le sue versioni secolarizzate, di
una storia illimitatamente votata al progresso. Al contrario, l’Euro-
pa per portarsi a compimento deve dissolvere questo edificio di fa-
vole e menzogne.
I successivi eventi storici non hanno mostrato solo stravaganze
e limiti del romanzo occidentale, arrivano a mettere in dubbio la
possibilità stessa di scrivere un romanzo assumendosi la visione
onnisciente che un tempo era stata di Dio. La diagnosi di Lyotard ha
così un appoggio in più, e di peso. Quando si chiede, più sommes-
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samente di Nietzsche, se l’Occidente e il suo compendio, l’Europa,


possono ancora “continuare a organizzare la folla degli eventi che
ci vengono dal mondo, umano e non umano, ordinandoli sotto l’i-
dea di una storia universale dell’umanità?” (1986, 33), la risposta
non può che essere negativa. Ma, diversamente da Nietzsche, non si
tratta di un nichilismo dettato dall’eccesso di consapevolezza, ben-
sì di una vera e propria diagnosi a fronte del fallimento che è spet-
tato ad ogni grande narrazione, meglio, alla forma stessa del Ro-
manzo dell’umanità:

Ognuno dei grandi racconti di emancipazione, a qualunque genere


abbia dato l’egemonia, è stato per così dire invalidato nel suo fonda-
mento dagli ultimi cinquant’anni.
– Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale:
“Auschwitz” confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine,
che è reale, non è razionale.
– Tutto ciò che è proletario è comunista, tutto ciò che è comunista è
proletario:
“Berlino 1953, Budapest 1956, Cecoslovacchia 1968, Polonia 1980”
(e la serie non è completa) confutano la dottrina del materialismo sto-
rico: i lavoratori insorgono contro il Partito.
– Tutto ciò che è democratico viene dal popolo e va verso il popolo, e
viceversa: il “Maggio 1968” confuta la dottrina del liberalismo parla-
mentare. Il sociale quotidiano mette in crisi l’istituzione rappresenta-
tiva.
– Tutto ciò che è libero gioco della domanda e dell’offerta favorisce
l’arricchimento generale, e viceversa: le “crisi del 1911 e del 1929”
confutano la dottrina del liberalismo economico mentre la “crisi degli
anni 1974-1979” confutano la versione postkeynesiana di essa
(Lyotard 1986, 38).

La Shoah

La diagnosi pur sommessa suona chiara: “I grandi racconti sono di-


venuti poco credibili” (ivi).
In particolare, la smentita del grande romanzo della provviden-
za secolarizzata, la favola benintenzionata che la ragione umana ten-
da a un fine superiore, benefico per l’umanità intera, che illumina
qualsiasi vicenda, per quanto ingiusta possa apparire ai singoli, ri-
ceve una smentita devastante. Il “Tutto ciò che è reale è razionale,
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tutto ciò che è razionale è reale: “Auschwitz” confuta la dottrina spe-


culativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale” di
Lyotard – viene individuato come un esito che segna un punto di non
ritorno. Dopo Auschwitz è l’Occidente intero, la sua storia, ad esse-
re messo in questione. È celeberrima la sentenza di Adorno: “scrivere
una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” (1949, 22), una sen-
tenza che condanna le vicende e pretese della razionalità occidenta-
le, fatto di spirito di sistema, di soggettivismo metafisico – il “noi oc-
cidentali” eletto a protagonista. Ma chi è “noi”? equivale a dire “noi
tutti”? e “tutti, chi?” – e di volontarismo. Auschwitz non è un inci-
dente, è l’esito, la fine della storia che ha portato fino a quell’even-
to e che, se non opportunamente individuato, rischia di ripetersi in-
consapevolmente. Per parte sua Hannah Arendt trova le parole per in-
dividuare i tratti essenziali del trauma storico, che definisce senza
precedenti – non è un episodio in una serie, bensì un acme storico di
violenza – e di cui delinea caratteristiche e articolazioni.

I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalita-


rio come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio asso-
luto sull’uomo […] Il dominio totale, che mira a organizzare gli uo-
mini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme co-
stituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona vie-
ne ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno
di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro.
Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umano si-
mile agli animali, la cui unica “libertà” consisterebbe nel “preservare
la specie”.
I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a
compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientifi-
camente controllate, la spontaneità stessa come espressione del com-
portamento umano e di trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa
che neppure gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com’è no-
to, era ammaestrato a mangiare, non quando aveva fame, ma quando
suonava una campana, era un animale pervertito. In circostanze nor-
mali ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può mai es-
sere interamente soffocata, connessa com’è non solo alla libertà uma-
na, ma alla vita stessa in quanto semplice rimaner vivo. Solo nei cam-
pi di concentramento un esperimento del genere diventa possibile; e
perciò essi sono, oltre che “la société la plus totalitaire encore réalisée”
(David Rousset), l’ideale sociale che guida il potere totalitario. Come
la stabilità del regime dipende dall’isolamento del suo mondo fittizio
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dall’esterno, così l’esperimento di dominio totale nei campi richiede


che questi siano ermeticamente chiusi agli sguardi del mondo di tutti
gli altri, del mondo dei vivi in genere. Tale isolamento spiega la pe-
culiare irrealtà e incredibilità che caratterizza tutti i resoconti su di es-
si e costituisce una delle principali difficoltà che si frappongono al-
l’esatta comprensione del dominio totalitario, le cui sorti sono legate
all’esistenza dei campi di concentramento e di sterminio; perché que-
sti, per quanto inverosimile possa sembrare, sono la vera istituzione
centrale del potere totalitario (Arendt 1948, 599-600).

Il totalitarismo

In particolare, per la pensatrice, la Shoah non è l’ennesimo episodio


della storia di persecuzione del popolo ebreo. Proprio perché av-
viene entro le coordinate di un gigantismo tecnico e ideologico, ap-
partiene a pieno titolo al Novecento e alla sua forma politica più ca-
ratterizzante, il totalitarismo. Questo non è assimilabile né alla dit-
tatura né alla tirannide né a forme precedenti di esercizio assoluto
del potere, è una forma politica radicalmente nuova, che produce
istituzioni inedite, trasforma le classi in masse, impone valori che
non hanno nessun precedente filosofico, giuridico o morale, rispet-
to ai quali né il buon senso né alcun altra facoltà umana può per-
mettere l’esercizio del giudizio e della previsione.
Si danno così gli elementi per porre un interrogativo inquietan-
te: raccontare una storia su grande scala, che ha per protagonista l’u-
manità intera, per via della sua stessa pretesa totalizzante, ha per
conseguenza un ordine politico totalitario? Hannah Arendt che, co-
me Löwith, si forma nella filosofia di Martin Heidegger, intrapren-
de l’analisi del funzionamento delle grandi narrazioni novecente-
sche ma, mentre il primo, come abbiamo visto, ne sottolinea il ca-
rattere di continuità con i modelli di spiegazione della Storia di ra-
dice teologica, Arendt ne constata gli effetti devastanti sul piano mo-
rale e politico.

L’ideologia

È dunque attraverso la lente di un trauma della politica senza pre-


cedenti che Arendt declina il significato di “ideologia” come lato
oscuro delle grandi narrazioni. In effetti, i campi di concentramen-
to servono a laboratori di verifica della pretesa di dominio incondi-
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zionato, che viene conseguito attraverso due strumenti principali, il


terrore assoluto dei Lager e l’indottrinamento ideologico. La con-
nessione è tracciata in modo preciso: le atrocità commesse nei cam-
pi di concentramento diventano l’applicazione dell’indottrinamen-
to ideologico e, di converso, lo spettacolo dei campi ha la funzione
di una conferma teorico-scientifica dell’ideologia (ivi, 600).
L’ideologia, menzogna sulla scala dell’enormità, per via di que-
sta sua grandezza diventa pervasiva credibile e, per una transizio-
ne tragica, condivisa. In virtù di quali dinamiche può accadere che
un racconto, peggio, una menzogna diventi vera al punto da con-
dizionare il comportamento di masse ed eserciti? Nella risposta di
Hannah Arendt ritroviamo i singoli elementi individuati dai pen-
satori citati in precedenza: l’ideologia ha una pretesa di validità, si
legittima sulla base di un richiamo alla scientificità dei propri enun-
ciati e delle connessioni tra di essi (Lyotard); è l’uso di una singo-
la idea per spiegare in modo sistematico la realtà (Kant e Heideg-
ger); ha per materia la Storia dell’umanità e, in virtù della propria
scientificità, vanta una capacità predittiva (Hegel). Tuttavia, nel-
l’analisi arendtiana, l’idea diventa strumento di realizzazione del-
la storia stessa, in una revisione prometeica dell’auspicio kantiano
e illuministico che la consapevolezza accelerasse il processo di
emancipazione.
Un’ideologia è innanzitutto un pensiero che mira al generale,
pretende di cogliere il complesso della realtà umana, utilizzando la
storia, la geografia e, soprattutto, la logica: ogni fatto può essere
spiegato grazie a una singola premessa iniziale.

Le ideologie sono note per il loro carattere scientifico: esse combina-


no l’approccio scientifico con “risultati di rilevanza” filosofica e pre-
tendono di essere una filosofia scientifica. La parola “ideologia” sem-
bra implicare che un’idea possa divenire materia di studio di una scien-
za, come gli animali lo sono per la zoologia, e che il suffisso -logia di
ideologia, come in zoologia, non indichi altro che i logoi, le afferma-
zioni scientifiche in proposito. Se ciò fosse vero, un’ideologia sarebbe
in verità una pseudoscienza e una pseudofllosofia, infrangendo al tem-
po stesso le limitazioni della scienza e quelle della filosofia (ivi, 641).

Tuttavia l’ideologia non si limita a produrre affermazioni scientifi-


che. Attraverso lo sviluppo delle conseguenze che dovrebbero deri-
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vare dalla premessa, entra nell’ambito dlele vicende umane, della


Storia, dove interviene e orienta.

L’“idea” di un’ideologia non è l’eterna essenza di Platone, afferrata da-


gli occhi della mente, né il kantiano principio regolativo della ragione, ma
è diventata uno strumento di interpretazione. La storia non appare alla lu-
ce di un’idea (quindi sub specie di eternità ideale al di là del movimento
storico), ma come qualcosa che può essere calcolato per mezzo di essa.
Quel che adatta l’“idea” al nuovo ruolo è la sua logica intrinseca, il pro-
cesso che scaturisce da essa ed è indipendente da qualsiasi fattore esterno
(ivi, 642).

Il racconto delle razze…

Il Novecento è dunque il secolo che compie il processo delle narra-


zioni su grande scala, su scala totale. Tra le ideologie che si svilup-
pano nel XX secolo Arendt individua anche il razzismo che colle-
ga alla politica degli stati novecenteschi, la cui politica estera è
orientata all’espansione coloniale. Nei primi decenni di questa
espansione la razza è un nuovo strumento di organizzazione politi-
ca – la connessione di una categoria biologica alle esigenze di co-
struzione di un ordine sociale e politico dimostra ancora una volta
la dimensione produttiva, performativa delle ideologie – che ha la
funzione di legittimare le nuove forme di convivenza, per così dire,
nate da questa nuova realtà politica internazionale. La gerarchia tra
razze, superiori e inferiori, più o meno avanzate nel percorso del
progresso umano, giustifica la ragione del più forte nella lotta per il
dominio sul mondo. L’ideologia ha dunque una presa su stili di vi-
ta, scelte, comportamenti, non per il suo grado di veridicità, ma
piuttosto perché viene a mettere ordine e a imprimere una direzio-
ne a qualcosa di materiale, di già avvenuto: l’ideologia parte da e
orienta il senso di elementi di un’esperienza particolare, quella dei
rapporti di forza e di dominio.
Sebbene qualsiasi ideologia contenga elementi totalizzanti, è
solo nella concreta realizzazione storica di tali rapporti che ideolo-
gie come il razzismo e l’antisemitismo entrano in relazione con
l’ordine politico per un reciproco potenziamento totalitario (ivi,
642-644).
Con grande talento e orecchio letterario Arendt descrive le vite
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 29

di dominatori e di dominati, dove appare chiaro che i primi sono, a


loro modo, dominati a loro volta, vite coinvolte e conformate dalla
grande narrazione della razza, e ci offre un saggio esemplare di
contronarrazione: non il trionfo di avventure e vittorie, ma la deso-
lazione di miserie e rivincite violente.
A cominciare dai personaggi della gloriosa Storia dell’Europa,
Arendt li rinomina “uomini superflui”, che non si erano decisi per
un esodo dalla società, ma ne erano stati espulsi.

Gli uomini superflui, “i bohémiens dei quattro continenti” che accor-


sero nella colonia del Capo, avevano ancora molto in comune con gli
avventurieri di vecchio stampo. Avrebbero potuto cantare con Kipling:
“Mandatemi in qualche posto a est di Suez dove il meglio è come il
peggio, / dove non ci sono Dieci Comandamenti, e un uomo può aver
sete”. La differenza non stava nella loro moralità o immoralità, ma
piuttosto nel fatto che la decisione di unirsi alla ciurma “di ogni na-
zione e colore” non dipendeva più da loro; che essi, lungi dall’uscire
spontaneamente dalla società, ne erano stati scaraventati fuori; che lun-
gi dallo spingersi o!tre i limiti consentiti dalla civiltà per spirito d’av-
ventura, erano semplicemente delle vittime senza uso o funzione. La
loro scelta era stata, casomai, negativa, una decisione contro l’arruo-
lamento nel movimento operaio, in cui i migliori fra gli uomini su-
perflui o minacciati di superfluità costituivano una specie di contro-
società che, coi suoi ideali e valori, poteva riportare gli individui in un
mondo umano di finalità e cameratismo. Essi non erano l’espressione
della propria natura, bensì i simboli viventi del processo che li aveva
travolti, la testimonianza dell’assurdità delle istituzioni sociali. Non
erano individui dello stampo dei avventurieri, ma solo l’ombra di av-
venimenti con cui non avevano nulla a che fare (ivi, 263).

La comune condizione di sradicamento li modella anche piscologi-


camente, un impasto di crudeltà senza coraggio, di avidità senza au-
dacia. Il disorientamento non è uno stato dell’anima, bensì una con-
dizione – quella di paria – che già contiene in sé la promessa di
azioni terribili.

Al pari di Kurtz in Heart of Darkness di Conrad, erano “vuoti fin nel


profondo”, “avventati senza fermezza, avidi senza audacia e crudeli
senza coraggio”. Non credevano in nulla e “potevano indursi a crede-
re ogni cosa, qualsiasi cosa”. Espulsi da un mondo legato a valori so-
cialmente riconosciuti, erano stati abbandonati a se stessi e non ave-
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vano nulla su cui contare tranne qua e là, un pizzico di talento […] I
più dotati erano l’incarnazione del risentimento come il tedesco Carl
Peters (probabilmente preso a modello per la figura di Kurtz), che am-
metteva apertamente: “Ero stufo di essere annoverato fra i paria, e vo-
levo far parte di un popolo di dominatori”. […] C’erano indubbia-
mente anche nelle loro file degli autentici gentiluomini, come quel Jo-
nes, in Victory di Conrad, che, spinto dalla noia, era disposto a paga-
re qualsiasi prezzo pur di vivere nel “mondo del rischio e dell’avven-
tura”, o come Heyst, che era così ebbro di disprezzo per ogni cosa
umana da lasciarsi portare “come una foglia staccata... senza mai fis-
sarsi su nulla” […] Il perfetto gentiluomo e il perfetto furfante veni-
vano a conoscersi molto bene nella “grande giungla selvaggia senza
legge”, e constatavano di essere “bene accompagnati nella loro enor-
me dissomiglianza, anime identiche sotto maschere diverse” (ivi, 264).

Tuttavia, diversamente dal paria, reietto di una società che, proprio


perché dotata di un ordine, lo espelle ai propri margini, questi paria
occidentali si spostano in una regione che, apparentemente, non ha
più né ordine né legge. La mancanza di orientamento, la memoria
del torto subito, apre un mondo irreale dove cercare risarcimento per
la loro posizione di ultimi. L’idea di una superiorità su altri, e i
comportamenti che ne conseguono, nascono in realtà dalla sconfit-
ta e dal bisogno di rivalsa.

Ma quel che in Europa richiese un processo di decenni, a causa del-


l’azione ritardatrice dei valori etici della società, esplose con la sub-
itaneità di un corto circuito nel mondo spettrale dei tropici. Fuori di
ogni inibizione sociale e ipocrisia, contro lo sfondo della vita indige-
na, il gentiluomo e il criminale sentivano, oltre che l’affinità costitui-
ta dallo stesso colore della pelle, il contatto con un mondo irreale in cui
i delitti potevano venir commessi come in un gioco senza conseguen-
ze, in una combinazione di orrore e risata. Non si assassinava un uo-
mo se si uccideva un indigeno, bensì una larva, nella cui realtà viven-
te quegli individui non potevano in ogni caso credere. La vita indige-
na assumeva ai loro occhi la parvenza di un “mero gioco d’ombre. Un
gioco d’ombre, attraverso il quale la razza dominatrice poteva proce-
dere imperturbata e inosservata nel perseguimento dei suoi fini e bi-
sogni incomprensibili”. Il mondo selvaggio costituiva uno scenario
perfetto per individui che erano evasi dalla realtà della civiltà (ivi
265).
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 31

La descrizione di Arendt tocca il culmine, quando descrive la rela-


zione – la mancata relazione – tra i coloni presi nel loro sogno raz-
zista e gli indigeni. Per quanto questi possano, non parlare, ma in-
vocare o inveire, quella emessa non sarà mai una parola ascoltabi-
le, piuttosto un “selvaggio e appassionato trambusto”. Non è la
mancanza di pietà che può essere attribuita ai coloni, ma qualcosa
di persino più terribile: chi avevano davanti non era un umano do-
tato di un linguaggio, ma un essere che, eventualmente, emetteva
suoni incomprensibili.

Sotto un sole spietato, circondati da una natura ostile, essi si trovava-


no di fronte esseri umani che, vivendo senza il futuro di uno scopo e
il passato di una realizzazione, rimanevano incomprensibili come i ri-
coverati di un manicomio. “L’uomo preistorico ci malediva, ci prega-
va, ci gradiva: chi poteva dire? Eravamo tagliati fuori dalla compren-
sione dell’ambiente circostante; gli passavamo davanti scivolando co-
me fantasmi, stupefatti e segretamente sgomenti, come potrebbe es-
serlo un uomo sano davanti a un tumulto esaltato in un manicomio.
Non potevamo capire perché eravamo troppo lontani e non potevamo
ricordare perché stavamo camminando nella notte di età primordiali,
di quelle età che sono trascorse lasciando a malapena un segno, e nep-
pure un ricordo. La terra sembrava non terrena,.., e gli uomini... No,
non erano inumani. Ebbene, sapete, questa era la cosa peggiore, que-
sto sospetto che non fossero inumani. Si insinuava lentamente. Essi ur-
lavano saltavano, e si rigiravano, e facevano smorfie orrende; ma quel
che vi faceva trasalire era proprio il pensiero della loro umanità – co-
me la vostra – il pensiero della vostra remota parentela con questo sel-
vaggio e appassionato trambusto” (J. Conrad, Heart of darkness) (ivi,
266).

È tempo allora di riflettere sui motivi per cui un’umanità, racconta-


ta come protagonista illuminata, votata a un lieto fine generalizza-
to, abbia potuto realizzare l’esatto rovescio di quella promessa: la
soppressione dell’umanità di tanti per una volontà determinata, or-
ganizzata e legittimata.

… ovvero l’orientalismo

Nella seconda metà del Novecento si apre uno spazio per appro-
fondire ed estendere la diagnosi sulle grandi narrazioni. In partico-
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32 FEDERICA GIARDINI

lare, a fronte di un nuovo stato delle relazioni internazionali e di ri-


volgimenti politici interni alle società occidentali – i movimenti
studenteschi e operai, i movimenti femministi, le lotte di emanci-
pazione e liberazione dei neri – vengono materialmente messi in
questione il posto e il ruolo dei personaggi del romanzo d’Occi-
dente. Se le donne si sottraggono al destino domestico e alla ripar-
tizione tra domestico(femminile) e politico(maschile), producendo
mutamenti che hanno luogo ed effetti ancora oggi (vedi capitolo 5),
il “romanzo della razza” tende a perdere le sue forme tragiche e to-
talitarie, ma permane come ideologia. Infatti, come già Arendt ave-
va notato, l’ideologia – come altre ideologie, vedremo a conclusio-
ne di questo capitolo – non condivide il destino dei regimi politici
totalitari, può sopravvivere alla loro fine e continuare ad avanzare
pretese narrative.
È quel che registra Edward W. Said che, nel suo testo classico
Orientalismo (1978), delinea quel grande racconto che, attraverso i
secoli, costruisce l’idea di Occidente in una sorta di contrappunto
con il proprio alter ego, l’Oriente. Abbiamo nella memoria le Mille
e una notte, catena di racconti e immagine fantastica e magica del-
l’Oriente che Antoine Galland riporta dai suoi viaggi e traduce: tra-
duce, vale a dire, rivede, corregge, castiga per le orecchie delle gen-
tildonne di Versailles (1707-1717). Scopriamo così che quell’O-
riente non è una semplice favola, bensì una favola potente, perfor-
mativa, che costruisce per noi l’immagine, l’“idea fissa” delle cul-
ture mediorientali e, per converso, della nostra rispetto a loro.

Muovo dall’assunto che l’Oriente non sia un’entità naturale data, qual-
cosa che semplicemente c’è, così come non lo è l’Occidente. […]
“Oriente” e “Occidente” sono il prodotto delle energie materiali e in-
tellettuali dell’uomo. Perciò, proprio come l’Occidente, l’Oriente è
un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e lin-
guaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l’Occidente. Le due
entità geografiche si sostengono e in una certa misura si rispecchiano
vicendevolmente (Said 1978, 14).

L’orientalismo consiste dunque in un complesso di modi di relazio-


ne con l’Oriente, che occupa un “posto speciale” nell’esperienza eu-
ropea occidentale. L’orientalismo, dice Said, è un immaginario e at-
teggiamento più proprio dell’Europa che di altre regioni occidenta-
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 33

li. Scopriamo così un secondo aspetto della questione, Oriente e Oc-


cidente costringono sotto un solo termine unificante realtà diverse.
In questo caso, a partire dalle relazioni con l’Oriente, l’Occidente è
almeno due: da una parte l’immaginario americano per cui il termi-
ne Oriente genera associazioni con l’Estremo oriente, la Cina e il
Giappone e, dopo le guerre, con la Corea e la regione indocinese.
Una breve notazione va fatta a margine della frase di Said – “il
ruolo via via più importante del Vicino Oriente (Medio Oriente) ren-
de sempre più necessaria una conoscenza più approfondita” (12) –
che alla luce degli eventi del XXI secolo impone di considerare le
rapide trasformazioni del regime di narrazione sull’Oriente. Da una
crescente conoscenza politica circostanziata, si arriva al riprodursi
di un sapere ideologico in senso stretto, che vede compartecipi i
nuovi personaggi che incarnano l’Occidente e l’Oriente (vedi capi-
tolo 6).
Diversamente va per le culture europee (francese, inglese ma an-
che tedesca, spagnola, portoghese, italiana). La differenza che pas-
sa tra due regioni geografiche cui spetta il nome di Occidente – Usa
ed Europa – è di ordine storico: l’espansione coloniale.

L’Oriente non è solo adiacente all’Europa; è anche la sede delle più an-
tiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e del-
le sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale, e uno dei
più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. Nulla, si badi, di questo
Occidente è immaginario: esso è una parte integrante della civiltà e
della cultura europee persino in senso fisico. L’orientalismo esprime
e presenta tale parte, culturalmente e talora ideologicamente, sotto
forma di un lessico e di un discorso sorretti da istituzioni, insegna-
menti, immagini, dottrine, e in certi casi da burocrazie e politiche co-
loniali (ivi, 11).

L’orientalismo è dunque un’ideologia – sul finire degli anni Settan-


ta – più europea che americana, che Said illustra secondo una tri-
partizione. L’orientalistica come insieme di discipline che studiano
costumi letteratura e storia dei popoli orientali, espressione e svi-
luppo di un interesse che ciclicamente ritorna nelle fasi di espan-
sione occidentale. Il missionario, lo storico, l’antropologo o il filo-
logo indagano e organizzano un ordine del discorso che organizza
posizioni, relazioni e valori tra Oriente e Occidente. Questo aspet-
to, sebbene meno legato all’atteggiamento di superiorità, che con-
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34 FEDERICA GIARDINI

traddistingueva l’imperialismo europeo del XIX e XX secolo, ri-


mane nelle nuove formulazioni disciplinari anglosassoni degli “stu-
di orientali” o degli “area studies”. Una seconda e più ampia acce-
zione di orientalismo si esprime in una netta distinzione ontologica
ed epistemologica, una distinzione “forte”, individuante, tra Orien-
te e Occidente: poeti, romanzieri, filosofi, – Said cita Eschilo, Dan-
te Alighieri, Victor Hugo e Karl Marx, ma potremmo anche pensa-
re all’incipit della Politica di Aristotele e a come ripartisca la capa-
cità razionale e la vocazione politica tra Greci e Barbari (vedi capi-
tolo 2) – adottano tale ripartizione per fondare e legittimare un or-
dine e un’organizzazione. Infine, la terza articolazione dell’orienta-
lismo, che accentua e dispiega la seconda, si manifesta come l’in-
sieme delle istituzioni create dall’Occidente per gestire le proprie re-
lazioni con l’Oriente, secondo rapporti di forza economici, politici
e militari e fattori culturali – cioè, ideologici, un insieme di discor-
si, fittizi ma normativi, a uso strumentale –, nell’esercizio dell’in-
fluenza e del predominio occidentale su altri popoli (ivi, 12-13).

Inizi del XXI secolo

A fronte delle diagnosi del tardo XX secolo, che danno l’Occiden-


te come affetto da una sindrome dannosa per sé e per gli altri, gli av-
venimenti del primo decennio del XXI secolo trova sistemazioni che
conservano memoria e traggono le conseguenze di tali indicazioni,
accanto ad altre che, hegelianamente, vedono nella morte di quel-
l’Occidente l’occasione di una rigenerazione, oppure portano a con-
statare sviluppi non previsti.

Il lutto

Nella prospettiva del compimento del processo, gli esiti della filoso-
fia della storia imperniata sulla categoria di Weltgeschichte presenta-
no un profilo ancipite: a seconda che li si assuma in chiave dissoluti-
va (come nella tesi postmoderna dell’indebolimento-esaurimento dei
“grandi racconti”) e irenica (come nella versione banalizzante del mo-
tivo hegeliano della “fine della storia” fornita da Francis Fukuyama),
oppure catastrofica (come, per esempio, nella trasposizione messiani-
ca del tempo storico operata da Walter Benjamin – e, sulla sua scia, da
Jacob Taubes – a partire dalla nozione schmittiana di “stato d’ecce-
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 35

zione”, nel “principio disperazione” di Günther Anders o nella “dia-


lettica negativa” dell’ultimo Adorno). In una diversa declinazione del-
la tesi, la mondialisation du monde (Derrida, Nancy) realizzata dal co-
smopolitismo della teletecnica si presenta nella forma di un pensiero
della fine. Ma in un senso inconciliabile con le varie figure dell’esca-
tologia e del millenarismo secolarizzato. Fine sta qui per “compiutez-
za”: definitivo compimento di quel processo di mondializzazione
(Marramao 2009, 24)

Lyotard appartiene al pensiero della fine dell’Occidente e, a partire


dal trauma, dai fallimenti storici, politici, economici, che accompa-
gnano la fine delle speranze occidentali in un progresso illimitato,
avanza l’invito a un’elaborazione di tale lutto. Elaborazione che
come lavoro di presa di coscienza dovrebbe aprire uno spazio di
azione e di pensiero che eviti la ripetizione cieca degli eventi trau-
matici. L’invito è a rivedere lo statuto del noi che pone la domanda
“possiamo ancora noi continuare a organizzare la folla degli eventi
che ci vengono dal mondo, umano e non umano, ordinandoli sotto
l’idea di una storia universale dell’umanità?” (Lyotard 1986, 33). Il
lutto da fare è per l’unanimità universale su valori e principi, ma per-
sino sulla descrizione definitiva, fissa, dei tratti essenziali in cui con-
sisterebbe un’idea fissa e generale dell’essere umano.

“lavorare”, in senso freudiano, non soltanto la perdita di questo oggetto


ma anche quella del soggetto al quale questo orizzonte era promesso.
Non si tratterebbe soltanto di riconoscere la nostra finitudine ma di ela-
borare lo statuto del noi, la questione del soggetto. Di sfuggire in-
somma e alla ripulsa senza appello del soggetto moderno e alla sua ri-
petizione parodistica o cinica (la tirannia). Questa elaborazione, cre-
do, può condurre solo ad abbandonare preliminarmente la struttura lin-
guistica comunicativa (io/tu/egli) che, più o meno consapevolmente,
i moderni hanno accreditato come modello ontologico e politico (ivi,
36).

Dagli anni Ottanta del XX secolo in cui scrive, all’orizzonte Lyotard


intravede una nuova fase di espansione mondiale del mercato che
tuttavia non apre alcuna prospettiva di cosmopolitismo; oppure il ri-
torno di un’epoca favorevole alla religione che con la sua peculia-
re grande narrazione racconti la ferita del trauma e la cicatrizzi; o an-
cora l’apertura, nella forma della resistenza a una nuova fase di
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espansione, di una molteplicità di mondi, della diversità insormon-


tabile tra culture, che ostacolerebbe i processi di assimilazione ge-
rarchica propri delle grandi narrazioni occidentali.

L’oblio

Il risvolto implicito dell’invito di Lyotard rientra però nel non dia-


gnosticato: la ripetizione in virtù della mancata elaborazione, la man-
cata assunzione del trauma come evento spartiacque. Tra i fallimenti
con cui fare i conti abbiamo visto elencato anche le crisi economiche
del 1929 e del 1974-1979 – come non aggiungere anche quella anco-
ra in corso? – che “confutano la dottrina del liberalismo economico”.
L’autore che più trascura questa diagnosi è Francis Fukuyama
che, in La fine della storia e l’ultimo uomo (1992) – testo scritto so-
lo sei anni dopo quello di Lyotard, ma che già appartiene a pieno ti-
tolo alle dinamiche del XXI secolo –, riparte da Hegel per dare una
versione liberista e liberale della fine della storia. La Storia è finita
sì, ma perché si è compiuta, lo svolgimento finalizzato a una meta
di progresso pieno è arrivato al suo punto di arrivo che consiste nel-
la forma politica della democrazia liberale, così come si è realizza-
ta negli Stati Uniti.
Anche Fukuyama svolge il proprio lavoro in forma di risposta a
una domanda: “ha ancora senso per noi, alla fine del XX secolo, par-
lare di una storia coerente e direzionale dell’umanità?”, ma l’accen-
to non cade sulla possibilità di raccontare una grande storia, tutt’al-
tro. Agli antipodi del pensiero di Lyotard, per Fukuyama la grande
narrazione occidentale non ha più luogo non perché constata i pro-
pri limiti, ma esattamente per il contrario: si è affermata come lieto
fine promesso a tutta l’umanità, ha portato e porterà con certezza “la
grande maggioranza della medesima alla democrazia liberale” che
“rimane la sola aspirazione politica coerente per regioni e culture di-
verse dell’intero pianeta” (Fukuyama 1992, 11). Torna così, secon-
do le diverse posizioni di chi ancora solo aspira a tale compimento
e chi lo ha già realizzato, la distinzione tra diversi tipi di società uma-
ne, come “progredite”, “tradizionali” o “moderne” (ivi).
Il lieto fine si annuncia attraverso

buone notizie. L’avvenimento più notevole di quest’ultimo quarto del


secolo XX è stato il manifestarsi di enormi debolezze nel cuore stes-
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 37

so di dittature che sembravano molto forti, sia che si trattasse dei re-
gimi militari di destra che dei regimi totalitari comunisti di sinistra.
Dall’America Latina all’Europa Orientale, dall’Unione Sovietica al
Medio Oriente e all’Asia, negli ultimi tre decenni i regimi autoritari
non hanno più retto. Ed anche se non hanno in tutti i casi ceduto il pas-
so ad una stabile democrazia liberale, quest’ultima rimane la sola aspi-
razione politica coerente per regioni e culture diverse dell’intero pia-
neta. Oltre a questo i princìpi economici liberali – il “libero mercato”
– si sono diffusi e sono riusciti a produrre livelli di prosperità mai co-
nosciuti sia in paesi industrialmente sviluppati che in quei paesi poveri
che alla fine della seconda guerra mondiale facevano parte del Terzo
Mondo. Una rivoluzione liberale nel pensiero economico ha a volte
preceduto, a volte seguito, lo sviluppo di un movimento per la libertà
politica (ivi, 11-12).

Scienza tecnica economia sono le madrine che assistono a questo


lieto fine, che si sviluppa come un processo che, avrà pure i suoi
costi, ma il cui risultato finale li riscatterà e ne illuminerà la giu-
stezza:

Questo processo assicura una crescente omogeneizzazione di tutte le


società umane indipendentemente dalle loro origini storiche e dalle lo-
ro eredità culturali. Tutti i paesi in cui è in atto un processo di moder-
nizzazione sono destinati ad assomigliarsi sempre più: essi dovranno
unificarsi nazionalmente sulla base di uno stato centralizzato, dovran-
no urbanizzarsi, sostituire le forme tradizionali di organizzazione so-
ciale come la tribù, la setta e la famiglia con altre forme economica-
mente razionali basate sulla funzionalità e l’efficienza, e infine do-
vranno provvedere all’istruzione dei loro cittadini. Grazie ai mercati
globali e alla diffusione di una cultura universale dei consumi (ivi, 13).

La dissipazione

Come già aveva visto Hannah Arendt, un’ideologia totalizzante –


con le sue pretese di spiegare tutta la realtà dallo svolgimento di
un’unica premessa, di leggere la storia come applicazione di un’i-
dea e di chiamare a soccorso di questa costruzione la scienza e la
tecnica – non necessariamente ha luogo nella forma politica del re-
gime totalitario. Per leggere gli aspetti ideologici e narrativi che cir-
colano agli inizi del XXI secolo, epoca in cui se le grandi narrazio-
ni non sempre sono diventate “poco credibili” non per questo han-
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38 FEDERICA GIARDINI

no esaurito la spinta e il bisogno di storie, basta rivolgersi alla co-


siddetta società di massa o del consumo:

L’ideologia risuona, per così dire, dal meccanismo di una prassi a cui
non si può sfuggire […] È presumibilmente assai meno importante
quali particolari teorie ideologiche un film inculchi negli spettatori del
fatto che questi rincasando siano interessati al nome degli attori e al-
le loro beghe matrimoniali […] la cultura è divenuta ideologica […]
in quanto sfera della vita privata […] ideologia significa oggi: la so-
cietà come fenomeno […] nella prigione all’aria aperta che il mondo
sta diventando, non importa già più che cosa dipenda da cosa, tanto si
è impresso su tutto il marchio dell’unità […] non ci sono più ideolo-
gie, ma unicamente la réclame del mondo attraverso la sua duplica-
zione (Adorno 1949, 16-22).

L’analisi di Theodor W. Adorno è in realtà mirata alla nascente so-


cietà di massa del secondo dopoguerra, ma contiene gli elementi di
quella massificazione – e, ricordiamo, la massa è il corrispettivo del-
l’ideologia che nel suo effetto totalizzante e unificante trasforma le
articolazioni della vita sociale nel corpo amorfo della massa – tec-
nica ed economica attraverso i consumi, constatata e predetta su sca-
la mondiale dallo stesso Fukuyama.
Il bisogno di storie rimane dunque, ma come tutti i bisogni non
assicura alcuna garanzia su come verrà soddisfatto. Se nel capitolo
6 vedremo come sia possibile assistere alla nascita di una nuova for-
ma di romanzo, polifonica, l’Occidente continua tuttavia ad ali-
mentare questo bisogno con dei surrogati delle grandi narrazioni, lo
storytelling (vedi anche capitolo 3), che orientano l’azione e crea-
no un senso di appartenenza a un piano più che individuale.

Per le strade di una città devastata dalla guerra, un gruppo di bambini


vicino a un campo da calcio ti avverte che la zona è minata. Una don-
na ti accusa di aver ucciso suo marito. Ti chiedi se l’uomo che si av-
vicina su un carretto tirato da un asino è lo stesso individuo che il tuo
comandante ricerca per contrabbando di esplosivi. I graffiti in arabo
sui muri dei palazzi colpiscono la tua attenzione con le loro strane let-
tere. Come reagire? Ti restano cinque minuti. La radio ti ricorda che
bisogna fare in fretta. Richiami alla mente la tua missione: “Diffida di
tutto e di tutti. Non credere in niente e in nessuno. Ma loro devono sa-
pere che ci sei e che sei all’erta”.
Non è la sceneggiatura di un film di guerra. È un videogioco destina-
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 39

to all’intrattenimento dei militari americani in Iraq. È stato concepito


dall’Institute for Creative Technology, un centro di ricerca fondato
dal Pentagono nel 1999 presso l’Università della California del Sud.
Obiettivo: mettere al servizio del Pentagono le competenze di Holly-
wood alfine di sviluppare nuove tecniche di intrattenimento. Al mo-
mento della creazione del nuovo istituto, il segretario alla Difesa Louis
Caldera non nascondeva le sue ambizioni: “Rivoluzioneremo il modo
di addestrare i soldati” (Salmon 2008, 3).

O, ancora, lo storytelling commerciale dà forma a desideri, aspira-


zioni, orienta le azioni:

Ci sono neomamme persuase che la felicità stia nell’ultimo prodotto


uscito per la cura del bambino, ci sono appassionati di body building
convinti che il nuovo integratore nutrizionale permetterà loro di ave-
re un corpo perfetto. Ci sono ambientalisti certi che la prossima inno-
vazione scientifica sarà anche l’ultima e xenofobi convinti che doma-
ni stesso i neri elicotteri dell’ONU invaderanno gli Stati Uniti. Ognu-
no di questi gruppi desidera ascoltare storie che confermino la propria
visione del mondo. Ogni gruppo [...] si considera al centro, non al mar-
gine, e desidera essere soddisfatto nei propri desideri, dice il guru
Seth Godin.
La Disney, così, ha avuto l’idea di mettere in commercio video edu-
cativi intitolati Baby Einstein, destinati a stimolare le capacità cogni-
tive dei neonati, che dovrebbero assicurare loro un vantaggio compe-
titivo sugli altri bambini, ovvero trasformani in “piccoli Einstein”. I vi-
deo, prodotti da una sottomarca della Disney, hanno incontrato un
grande successo e fatto guadagnare quattordici milioni di dollari alla
società, nonostante la loro più che dubbia efficacia. Il motivo è sem-
plice: erano rivolti piuttosto alle madri che ai loro bambini e rispon-
devano alle legittime ambizioni intellettuali che esse nutrivano nei lo-
ro confronti (ivi, 31-32).

Da sempre considerato una forma di comunicazione riservata ai


bambini e analizzata fino a qualche anno fa solo dagli studi lettera-
ri, lo storytelling, il raccontare storie conosce negli Stati Uniti una
rinascita che travalica gli ambiti disciplinari e la destinazione pe-
dagogica per l’infanzia, per estendersi a tutti i campi della vita pub-
blica, dalla psicologia all’educazione, dalle scienze sociali alle
scienze politiche, dalla teologia alle scienze cognitive. Nel condur-
re una trattativa commerciale o un trattato di pace, nel lanciare un
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nuovo prodotto o nel gestire un cambiamento nel rapporto con un


gruppo di lavoratori – compreso il loro stesso licenziamento –, nel
concepire un videogioco o curare i sintomi dei soldati di ritorno dal-
la guerra, raccontare storie è diventato il mezzo per eccellenza per
conseguire un risultato effettivo. È metodo di insegnamento, terapia
di cura, risposta alla crisi delle organizzazioni, mezzo di propagan-
da, meccanismo di coinvolgimento e di partecipazione, tecnica per
visualizzare le informazioni e dunque potente arma di disinforma-
zione.
Dopo l’epoca della fine delle grandi narrazioni, i sociologi con-
statano dunque l’apertura di un’“epoca narrativa” che mantiene la
caratteristica della finzione delle favole e delle grandi narrazioni che
hanno il potere di influire e organizzare percezioni e comporta-
menti. Il crinale che distingue il funzionamento di questi nuovi tipi
di storie dalle precedenti è che non passano attraverso il racconto fi-
losofico, che si vuole esplicitamente e intenzionalmente egemone –
il filosofo come saggio e romanziere onnisciente che rivela ai sin-
goli ignari la trama in cui sono presi e collocati. Tutt’altro, lo story-
telling agisce in forma frammentaria, si moltiplica per tutte le si-
tuazioni in cui è chiamato a produrre i propri effetti, non si ricom-
pone mai nell’unità di una grande narrazione, non esponendosi dun-
que al giudizio sulla sua tenuta, alla validità e verità, rispetto alla
realtà.

Così, l’arte della narrazione, che fin dalle origini racconta e spiega l’e-
sperienza dell’umanità, è divenuta grazie allo storytelling lo strumen-
to della menzogna di Stato e del controllo sulle opinioni: dietro le mar-
che e le serie televisive, ma anche all’ombra delle campagne elettora-
li vincenti, da Bush a Sarkozy, e delle operazioni militari in Iraq o al-
trove, si nascondono i tecnici specializzati dello storytelling. L’impe-
ro si è appropriato della narrazione. Questo è l’incredibile blocco del-
l’immaginario che mi accingo a raccontare (ivi, 16).

Esiste un modo per rispondere a un bisogno fondamentale come


quello di raccontare e sentirsi raccontare, e dunque sentirsi parte di
una storia, senza stare nel dilemma di un’adesione smemorata alle
grandi narrazioni oppure di un uso delle storie quale strumento di
management delle emozioni? La risposta non è immediata, richie-
de un lavoro di elaborazione della posta in gioco delle grandi nar-
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 41

razioni – autorizzazione alla parola, partecipazione, cittadinanza –


per capire le strette e instabili relazioni tra verità e politica. È ne-
cessario, e in questo consiste la prima parte di questo percorso, ta-
cere, riflettere, studiare, accusare il colpo della “passione del pre-
sente”,

dove per passione s’intende non solo il coinvolgimento della rifles-


sione filosofica nel destino del proprio tempo, ma anche il modo in cui
la stessa soggettività filosofica, come del resto ogni altra soggettività,
è implicata dal presente nel patirne il peso e le logiche necessitanti
(Marramao 2008, 10).

Riferimenti bibliografici

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Hannah Arendt (1948), Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009
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Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), in Id., Sentieri in-
terrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968
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2.

PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO

Chi parla in città?

All’inizio è un problema di descrizione: nel mondo esistono molti


esseri, umani e non, il problema è capire come funzionano e come
funzionano in particolare quelli che si ritrovano a vivere insieme e
a organizzarsi a tal fine. Diversamente da Platone, Aristotele non
concentra le sue attenzioni sulla città, scrive opere di biologia, di fi-
sica, è un osservatore del cosmo. Non gli si potrebbe mai attribuire
l’approccio di Socrate che, nel Fedone, racconta della sua delusio-
ne per le indagini del naturalista Anassagora e considera vera solo
l’indagine filosofica rivolta al logos (XLVII-XLVIII), mentre nel
Fedro, al suo interlocutore, che si stupisce che non esca mai dalla
città, risponde: “Io sono appassionato a imparare: ma la campagna
e gli alberi non sono disposti ad insegnarmi alcunché, mentre im-
paro dagli uomini in città” (V, 230d).
Filosofia e scienza della natura in Aristotele concorrono a deli-
mitare l’ambito umano della politica. Tant’è vero che, quando si ac-
cinge a trattare della vita comune in città, ecco che il filosofo di Sta-
gira definisce l’abitante della polis un vivente politico (zóon politi-
kón). Perché pensare agli animali, dovendo trattare degli esseri uma-
ni? Innanzitutto perché esseri umani e altri viventi appartengono a
un medesimo ambito, regolato dalle stesse costanti: la natura e le sue
leggi stabiliscono conformazione e fine di ogni organismo: “La na-
tura non fa nulla con la povertà con la quale gli artigiani fabbrica-
no il coltello di Delfi, ma destina ogni cosa a una sola funzione”
(Aristotele, Politica, I, 1252a-b).
Il cosmo intero è governato da un disegno finalistico, ogni cor-
po tende allo sviluppo della propria funzione. La vita comune in cit-
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 43

tà, la koinonía politiké, è il tratto essenziale dell’essere umano, la cui


funzione, e lo scopo cui mira il suo organismo è di vivere insieme
ad altri. Non è dunque un caso se il testo di Aristotele parte proprio
dalla città – e non da un singolo individuo – perché la città è iscrit-
ta nel corpo umano, è il luogo dove questo può sviluppare la propria
specifica funzione e tendere al proprio fine. Tanto più che il pieno
compimento dello scopo cui tende l’organismo umano altro non è
che la felicità.
Vivere insieme ad altri è organicamente connaturato all’essere
umano e contiene una promessa di felicità, se adeguatamente svi-
luppata. Riprendendo le analisi di La Repubblica di Platone, Ari-
stotele illustra come la polis sia segnata dall’interdipendenza per il
soddisfacimento dei bisogni: il contadino ha bisogno dell’artigiano
per i propri attrezzi da lavoro, viceversa l’artigiano ha bisogno del
contadino per nutrirsi, il medico ha bisogno dei prodotti del primo
e degli strumenti fabbricati dal secondo, mentre entrambi hanno bi-
sogno del medico, tutti hanno bisogno del costruttore di case, e via
dicendo. L’animale politico umano non è autosufficiente e dunque
vive in costante e necessaria dipendenza da altri. “Da ciò dunque è
chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un
animale che per natura deve vivere in una città (ivi, 1253 a).
La spinta ad aggregarsi, presente nell’essere umano, trova il
suo ambiente appropriato nell’unione di famiglie e villaggi della po-
lis, che costituisce il dispiegamento di quella pulsione originaria.
Tuttavia Aristotele si accorge di aver descritto l’umano come
una specie che condivide la caratteristica essenziale della pulsione
aggregativa con altre specie. Nella Historia animalium Aristotele di-
stingue gli animali tra quelli che vivono in gruppo e i solitari, e nel
primo tipo include i colombi, le gru, i cigni, per i volatili, e per gli
acquatici, i tonni. Ma non esistono solo gli animali che vivono ge-
nericamente in gruppo, quelli che fanno vita di gruppo con forme di
organizzazione complesse meritano la definizione di “animali poli-
tici”: l’umano, l’ape, la vespa, la formica, la gru, si adoperano per
un determinato fine comune (Historia animalium, 487b-488a). Non
basta dunque la spinta necessitante alla vita comune per capire lo
specifico umano, va individuata una caratteristica ulteriore, unica.
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44 FEDERICA GIARDINI

Animale politico più linguaggio uguale umano

È il logos che fa da discrimine tra l’alveare e la polis: è questo che


distingue in modo definitivo l’animale umano politico da tutti gli al-
tri animali politici.

Forse ci sono funzioni e azioni proprie del falegname e del calzolaio,


mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo? L’uomo è forse nato
senza alcuna specifica funzione naturale? Oppure come c’è, manife-
stamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del pie-
de e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si de-
ve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste?
Quale dunque potrebbe mai esser questa funzione? È manifesto infat-
ti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando
ciò che è specie-specifico dell’uomo. Bisogna dunque escludere la
vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi,
ma essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni
altro animale. Rimane la vita intesa come quel determinato e specifi-
co agire proprio <dell’animale> che ha linguaggio: sia nel senso che
si lascia persuadere col linguaggio sia nel senso che ha linguaggio e ra-
giona […] Poniamo come funzione specie-specifica dell’uomo una de-
terminata vita, ossia l’attività dell’anima e le azioni che si compiono
col concorso del linguaggio (Aristotele, Etica Nicomachea, 1097b 28-
1098a 14, nella traduzione di Lo Piparo 2003, 7-8).

Ma questo significa che nella descrizione dei tratti essenziali del-


l’essere umano rientrano, apparentemente a pari merito, sia la ca-
ratteristica linguistica e razionale sia la caratteristica politica. In ef-
fetti è così, ma appare subito chiaro che è il logos ad essere la pro-
prietà essenziale dirimente:

l’uomo è l’unico animale che abbia il logos: la voce è segno del piacere
e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro na-
tura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del pia-
cere e del dolore. Invece logos serve a indicare l’utile e il dannoso, e per-
ciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli
altri animali: esser l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giu-
sto e dell’ingiusto e così via. E proprio la comunanza di queste cose che
costituisce la famiglia e la città (Aristotele, Politica, I, 1253a 9-18).

Attraverso il logos, ciò che è comune non è soltanto la vita aggre-


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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 45

gata e organizzata in vista del conseguimento di un fine, ma molto


di più. Con i giudizi sull’utile e sul dannoso le cose in comune si
estendono all’ambito dell’etica, ciò che bene e ciò che è male, e del-
la giustizia, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, e anche a ciò che
è vero e ciò che è falso, ma sotto una forma particolare, come ve-
dremo. L’umano diventa politico come altre specie ma più di altre
specie, perché il legame è sostanzialmente più esteso e dunque più
forte. Tanto che Aristotele, citando Omero, lega la spinta alla guer-
ra a chi è “senza parenti, senza leggi, senza focolare” (1253a). Con-
clude dunque: “Perciò è chiaro che l’uomo è animale più politico di
qualsiasi ape e di qualsiasi animale che viva in greggi” (ivi).
Il logos in Aristotele è dunque una proprietà che stringe ed
estende il legame associativo. La sua tesi innovativa è che senza la
facoltà comunicativa e linguistica l’umano non è tale: il linguaggio
non si usa, lo si vive, l’umano è politico ma in quanto specifica-
mente umano è vivente dotato di linguaggio (zóon lógon échon).
Dire che il linguaggio è caratteristica essenziale dell’essere uma-
no significa che è parte del suo stesso funzionamento, non è uno
strumento esterno che possa essere preso e lasciato all’occorrenza.
Se fosse strumento, come il martello, la penna, l’automobile, po-
trebbe essere deposto, una volta terminato il compito per cui lo si
impiega, e martello, penna e automobile rimarrebbero lì fino all’u-
so successivo. Il linguaggio sarebbe dipendente dalla volontà del
soggetto che lo usa. Tuttavia

non esiste una ideale cassetta degli attrezzi espressivi e/o comunicati-
vi da dove ad libitum un utente possa estrarre lo strumento linguaggio
e riporvelo una volta eseguito il compito prefissato. L’umano non sce-
glie il linguaggio. A partire dal momento in cui comincia a parlare non
è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le distanze.
Il tacere non è un mettere da parte il linguaggio, un riporlo per così di-
re nella cassetta degli attrezzi. Il silenzio è una scelta interna al lin-
guaggio: tace solo chi, potendo parlare, sceglie il silenzio come modo
di parlare. Tacciono solo gli animali che parlano […] Il linguaggio non
è strumento ma attività vitale specie-specifica dell’animale uomo. At-
tività vitale come lo sono, ad esempio, il battito cardiaco, il ritmo re-
spiratorio, la pulsazione sinaptica del cervello. Prendere le distanze dal
linguaggio (rimetterlo nella cassetta degli attrezzi e passare ad altra oc-
cupazione è impresa impossibile quanto l’allontanarsi dal cervello, dal
cuore o dai polmoni e continuare a vivere. Lo Piparo 2003, 3-4).
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46 FEDERICA GIARDINI

La descrizione di Aristotele non si ferma qui. Anzi, partita come una


descrizione della vita associata, tale descrizione è diventata com-
parativa – con altre forme viventi associate – e si è sviluppata in ba-
se a criteri di distinzione e già intuiamo che si sta svolgendo in una
classificazione gerarchica “l’uomo è animale politico più di qual-
siasi ape”. Vedremo poco sotto come questa descrizione compara-
tiva che si fa classificazione gerarchica, oltre a permettere delle di-
stinzioni, aprirà la strada a delle esclusioni.
Infatti il logos, descritto nella comparazione per somiglianza e
dissomiglianza con altri animali, non è una facoltà semplice, ha
una serie di sottoarticolazioni che permettono delle sottodistinzio-
ni. Diversamente da Platone che lo individua come facoltà intellet-
tuale e concettuale, per Aristotele il logos è strettamente connesso
al corpo, dunque alla voce. È voce, come per altri animali, quale ca-
pacità di emettere suoni articolati; è voce che significa e dunque co-
munica, anche questa è facoltà comune con altri animali; ma tale
processo di significazione va oltre la comunicazione del piacere e
del dispiacere, degli stati strettamente corporei. Ecco dunque che il
logos, più della voce, caratterizza la vita politica: non basta emette-
re suoni con intento di significare e comunicare per vivere insieme
(vedi capitolo 5).

Umano diviso deliberazione uguale polis con il resto di umano-


animale

Il grado più basso della comunanza di significato è quello disponi-


bile agli animali, la capacità di significare il dolore e il piacere.
Tuttavia nella vita associata propriamente umana entrano in gioco
dei gradi ulteriori.
L’umano è l’unico a poter svolgere, attraverso la voce, un ra-
gionamento verbale, che pertiene all’anima. L’anima è il principio
di tutti gli esseri viventi, da cui il termine latino di animali, e l’u-
mano, da un lato partecipa del regno animale – con la parte dell’a-
nima che non è legata al logos, che permette il rapporto con l’am-
biente circostante, rapporti di nutrimento e di movimento – dall’al-
tro, è specificamente umano per quella parte di anima che è dotata
di logos. A questa parte dell’anima sono legati i desideri generati dal
linguaggio: mentre avere fame genera un desiderio di cibo a pre-
scindere dal linguaggio, se non dalla voce articolata, altri desideri
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 47

possono nascere solo in virtù del linguaggio, sono i desideri di ve-


dere o possedere cose perché ce ne hanno parlato o ce ne hanno per-
suaso (cfr. Aristotele, Rhetorica, 1370a 18-27), perché ce ne siamo
formati un’opinione, per via diretta o indiretta.

All’opinione segue la persuasione (non è possibile, infatti, che chi ha


una opinione non sia persuaso di ciò di cui ha opinione) […] Ad ogni
opinione si accompagna la persuasione, alla persuasione si accompa-
gna il lasciarsi persuadere, alla persuasione si accompagna il linguag-
gio: la capacità di formare rappresentazioni mentali si trova in altri ani-
mali non umani, il linguaggio invece no (De anima, 428a 20-24, nel-
la traduzione di Lo Piparo 2003, 11).

A ritroso il linguaggio guadagna anche la sfera dell’anima non do-


tata di logos, la spinta a nutrirsi può essere modificata nel caso si sia
stati persuasi che mangiare un determinato cibo è dannoso, ad esem-
pio. Ma gli effetti del logos procedono anche in avanti, nel momento
in cui è presi in una rete di opinioni attivamente formulate o che ci
giungono attraverso la persuasione, ecco che siamo chiamati a va-
lutare, e dunque a giudicare. Giudicare è un movimento, una volontà
che viene orientata dal ragionamento, cosa di cui è capace l’uomo
adulto, ma non gli animali e nemmeno i bambini, che si limitano a
volere senza valutare.

La scelta ponderata è scelta non in senso generico ma di una cosa piut-


tosto che di un’altra. Ciò non è possibile senza un’indagine e una de-
cisione. Perciò la scelta ponderata deriva da un’opinione che è il risul-
tato di una decisione. […] Se dunque nessuno può scegliere qualcosa
senza prima aver esaminato e deliberato che cos’è peggio e che cos’è
meglio, o se si possono volere soltanto quelle cose possibili la cui esi-
stenza o non esistenza dipende da noi e che sono utili allo scopo, è chia-
ro che la scelta ponderata è desiderio deliberato di cose che dipendono
da noi. Tutti vogliamo le cose che abbiamo scelto ma non tutto quello
che vogliamo l’abbiamo scelto in maniera ponderata. Chiamo deside-
rio deliberato quello il cui principio e causa è una deliberazione e che
si desidera in seguito all’azione del deliberare (Aristotele, Etica Eude-
mea, 1226b 7-20, nella traduzione di Lo Piparo 2003, 15-16).

In un passaggio ulteriore e del tutto conseguente, Aristotele lega la


capacità deliberativa alla capacità di distinguere il vero dal falso,
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48 FEDERICA GIARDINI

collegando così, in un grado ulteriore del logos, l’etica alla cono-


scenza.

Quello che nel ragionamento sono il dire sì e il dire no, nel desiderio
sono il perseguire e il fuggire <qualcosa>. Pertanto, poiché la virtù eti-
ca è una condizione determinata per scelta e la scelta è desiderio sor-
retto da deliberazione, bisogna che il discorso sia vero e il desiderio sia
corretto se la scelta è buona, e <bisogna anche> che ciò che <il di-
scorso corretto> dice e <il desiderio> persegue siano la stessa cosa
(Etica nicomachea, 1139a 21-26, trad. Lo Piparo 2003, 22).

L’etica, dunque, è l’ambito dei desideri espressi linguisticamente e


sorretti da una deliberazione corretta. Ma questo passaggio ha dei
costi alti, in termini di partizione tra umano e animale, tra gli uma-
ni stessi e per i confini di ciò che si intende per politica. La scelta
ponderata che caratterizza l’etica sarà di competenza dei soli animali
umani, che sanno orientare l’azione con il giudizio: dagli umani, co-
sì definiti, saranno esclusi i bambini e, come vedremo, dissennati,
stranieri e schiavi; infine, tra quelli dotati della facoltà di discerni-
mento quale capacità di distinguere il vero dal falso nell’orientare
la volontà e l’azione, verranno escluse le donne.
Quest’ultimo grado del logos ha una forza di classificazione,
dunque di distinzione e di ordinamento gerarchico, particolarmen-
te cogente rispetto a chi può a buon titolo e diritto può essere defi-
nito animale abitante la polis e non lega politica e linguaggio nella
sola forma politica dell’ordinamento democratico. In breve, politi-
ca e linguaggio possono trovare un legame a prescindere dalla de-
mocrazia (v. capitolo 3). Il linguaggio in politica

non riguarda cose ‘che sono sempre allo stesso modo’ – come succe-
de alle scienze teoretiche che hanno per oggetto verità incontroverti-
bili – bensì […] riguarda cose ‘che sono per lo più’. La politica, come
l’etica, è una scienza pratica, ossia una scienza legata alla sfera con-
tingente dell’azione: agire in modo giusto implica una conoscenza del
giusto che ha un carattere non necessario bensì solo probabile e, per-
ciò, opinabile. Quando molti sono chiamati a deliberare su ciò che è
giusto per la polis, si apre così per la parola uno spazio di confronto e
di discussione.
Sintomaticamente, nella pagina che collega lo zoon politikon e lo zoon
logon echon, l’accento non cade però sulla funzione comunicativa
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 49

della parola in quanto medium privilegiato della discussione pubblica


ed elemento caratteristico della democrazia. In prima istanza, secon-
do Aristotele, l’uomo non è politico perché parla e mobilita così l’in-
trinseca comunicatività del linguaggio. L’uomo è politico perché, es-
sendo in grado di percepirle, parla di cose che pertengono, di per sé,
alla comunità politica. Generata dal naturale processo aggregativo,
questa può avere molte forme, fra le quali, la democrazia. Discutendo
e deliberando, il cittadino della polis democratica mostra di essere
uno zoon logon echon che sa valorizzare appieno il ruolo politico del-
la parola, ma la parola si inscrive nello statuto naturale dello zoon po-
litikon anche a prescindere dalla democrazia (Cavarero 2003, 201-
202).

Chi parla, chi ha voce, chi fa rumore

Se dunque fuori dalla vita organizzata della polis greca vivono es-
seri che, “per loro natura, non per caso”, sono inferiori agli umani
– le bestie – ne sono fuori anche quelli che, essendo autosufficien-
ti, posso fare a meno dei rapporti con gli altri, gli dei.

Chi non vive in città per la sua natura e non per caso, o è un essere in-
feriore o è più che un uomo (I, 1253 a ) […] perciò chi non può entrare
a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a
se stesso, non è una parte della città, ma o una belva o un dio (Aristo-
tele, Politica, 1253a).

Lungi però dall’assimilare gli altri popoli con le loro peculiari for-
me di convivenza a degli dei – Aristotele è contemporaneo nonché
mentore di Alessandro il Grande che, nel IV secolo a.C., muove
guerra alle popolazioni che si trovano a Oriente della Grecia, arri-
vando fino in India –, li assimila a degli umani parziali, quando non
a delle bestie. In questa operazione è autorizzato dalla correttezza
del ragionamento e dall’osservazione fisica e biologica. Quel che
potrebbe essere registrato come un segno di civiltà – la mancanza
dell’istituto della schiavitù e la partecipazione delle donne alla vita
comune – diventa invece la conferma della distinzione e superiori-
tà della politica greca.

Presso i barbari la femmina e lo schiavo hanno la medesima posizio-


ne perché per natura essi non hanno il principio del comando, ma la lo-
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50 FEDERICA GIARDINI

ro comunità è quella di uno schiavo con una schiava. Perciò dicono i


poeti “che sui barbari i Greci imperino è naturale” [Euripide, Ifigenia
in Aulide, 1400] come se per natura fosse la stessa cosa essere barba-
ro ed essere schiavo (Politica, 1252b).

Come altri animali, le formiche, che si organizzano in comune ma


non istituiscono distinzioni gerarchiche, i barbari non conoscono la
verticalità dei rapporti di proprietà e schiavitù su un simile. Gli schia-
vi ricevono una particolare attenzione da parte di Aristotele che sta-
bilisce all’interno della polis una serie di distinzioni, prima tra tutte
quella tra “animali fonici” e “animali logici” (Rancière 1995, 42).
Il criterio per individuare i vari gruppi di esseri che vivono nel-
la polis è, come abbiamo visto, il logos, che nel suo ultimo grado è
la capacità di deliberare, una capacità che si ha per natura, in quan-
to umani. Ma anche tra gli umani esistono delle gradazioni. “È
schiavo per natura chi […] partecipa al logos soltanto per quel che
può coglierla, senza possederla propriamente” (Aristotele, Politica,
I, 1254b).
Ora, poiché la capacità di deliberare, cioè di operare una scelta
ponderata, è dirimente per la vita della città, chi ne è dotato piena-
mente sarà nella posizione – per natura, ossia per la propria confor-
mazione d’anima, che ne individua funzione e scopo all’interno
della rete di relazioni e di interdipendenze – di comandare, ovvero
di decidere per altri e di mettere altri nella posizione di contribuire
alla realizzazione della decisione presa.

È necessario unire i termini che non possono sussistere separatamen-


te […] chi è naturalmente disposto al comando a chi è naturalmente
disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui en-
trambi possono sopravvivere, perché chi per le sue qualità intellettua-
li è in grado di prevedere per natura comanda e per natura è padrone,
mentre chi, per le doti inerenti al corpo, è in grado di eseguire deve es-
sere comandato […] per natura dunque sono distinti la femmina e il
servo (1252 a).

Ne consegue che lo schiavo ha lo statuto ibrido di strumento e di es-


sere vivente, è una “proprietà animata” (1253b).
Abbiamo visto come la classificazione aristotelica, basata sul
linguaggio nei suoi vari gradi e articolazioni, tratti gli altri, esterni
e interni, della polis greca. Oggetto di classificazione in base al cri-
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 51

terio della facoltà deliberativa, sono anche le donne, ma in un mo-


do specifico. Come esseri umani, al pari degli altri, uomini e donne
“non possono sussistere separatamente” (1252a), ma in questo ca-
so particolare Aristotele unisce la classificazione etica e quella po-
litica – “il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore, l’u-
no è per natura atto al comando, l’altra ad obbedire” (1254b e
1259b) – e procede istituendo una distinzione tra la femmina e lo
schiavo:

i modi in cui il libero comanda allo schiavo, il maschio alla femmina


e l’uomo al fanciullo sono diversi. Tutti hanno le varie parti dell’ani-
ma, ma in modi differenti, perché lo schiavo non ha affatto la facoltà
deliberativa (tò bouleutikón), la femmina ce l’ha ma incapace e il fan-
ciullo ce l’ha, ma imperfetta (1260a).

È così che, senza contraddizione, Aristotele poco sotto può affer-


mare che “le donne infatti costituiscono la metà degli esseri liberi”
(1260b). Sono umani, umani politici, dotati di voce e persino di ca-
pacità di deliberare, ma solo parzialmente e – diversamente dai
bambini che nel crescere svilupperanno appieno tale capacità – que-
sta limitazione è naturale, dunque permanente, corrispondendo a una
certa organizzazione dei rapporti di comando e di obbedienza.
Abbiamo ora gli elementi per comporre un quadro degli effetti
politici prodotti dal riconoscimento della capacità di linguaggio,
nei suoi vari gradi.
La capacità fonativa, l’emissione di suoni – la comunicazione in
vista di un fine – presuppone una naturale destinazione alla vita as-
sociata.
La capacità linguistica di formulare un’opinione e di essere per-
suasi dalle opinioni altrui rende questa convivenza eminentemente
linguistica e razionale, dunque umana.
La ripartizione tra voce e giudizio è quella che determina l’or-
ganizzazione della convivenza e le posizioni dei diversi esseri che
vi si trovano.
In base al criterio di attribuzione di voce e giudizio, non tutti gli
esseri che vivono nella polis sono pienamente umani.

Tra il linguaggio di coloro che hanno un nome e il muggito degli es-


seri senza nome, non vi è possibilità di istituire uno scambio lingui-
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52 FEDERICA GIARDINI

stico, né regole, né un codice per la discussione. Questo verdetto non


riflette soltanto la cocciutaggine dei dominanti o il loro accecamento
ideologico, ma esprime in senso stretto l’ordine del sensibile che or-
ganizza il loro dominio, che è quel dominio stesso […]. Siamo in pre-
senza della distribuzione simbolica dei corpi, che li divide in due ca-
tegorie: coloro che vediamo e coloro che non vediamo, coloro di cui
si può dire esista un logos – una parola memoriale, un conto da tene-
re –, e coloro che logos non hanno, coloro che parlano davvero e co-
loro la cui voce, nel tentativo di esprimere piacere e dolore, non fa che
imitare la voce articolata. Vi è politica perché il logos non è mai sem-
plicemente la parola, ma sempre, indissolubilmente, il resoconto che
si fa con questa parola: il resoconto attraverso cui un’emissione sono-
ra viene intesa come parola, in grado di enunciare il giusto, laddove
un’altra è percepita soltanto come rumore che segnala piacere o dolo-
re, consenso o rivolta (Rancière 1995, 42-43).

La parola che lega

Sembrerebbe che la classificazione aristotelica verta su un univer-


so che va relegato all’epoca antica e alle sue limitate concezioni sul-
la democrazia. Abbiamo però visto, nel capitolo 1, come l’idea di
una storia progressiva dell’umanità sia fortemente compromessa, e
anche come sia discutibile considerare la democrazia occidentale
come la forma di compiuta realizzazione dell’ordinamento politico
migliore. Nella cautela ad allontanare Aristotele come inattuale ci
supportano i corsi e ricorsi del tipo di classificazione e dei suoi ef-
fetti politici inaugurati allora.
Jacques Rancière ci racconta di uno storico dell’Ottocento, Pier-
re-Simon Ballanche, che rilegge un episodio della storia della Re-
pubblica romana raccontata da Tito Livio. Durante le guerre di Ro-
ma contro i Volsci (492-430 a.C.) la plebe, esclusa dalle cariche pub-
bliche, si rivolta contro i patrizi. Questi, per giustificare tale esclu-
sione, non invocano appartenenze di ceto o dotazioni di mezzi e ric-
chezze, si limitano a sostenere che con i plebei non è possibile dis-
cutere, vivono una vita che non trasmette nulla, condannati a ripro-
dursi soltanto. Ecco come Ballanche tira le conclusioni del dialogo
tra patrizi e Menenio, difensore dei plebei:

Hanno la parola come noi, hanno osato dire a Menenio! Ma forse è un


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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 53

dio colui ad aver chiuso la bocca di Menenio, turbato il suo sguardo,


fatto risuonare il suo orecchio? È stato forse colto da una sacra verti-
gine?... non ha saputo rispondere loro che avevano una parola trans-
itoria, una parola che è un suono fuggitivo, sorta di muggito, segno del
bisogno e non manifestazione di intelligenza. Sono costoro privati
della parola eterna che era nel passato, che sarà nel futuro (Ballanche
1830, p. 94).

Chi è umano è cittadino

Diversamente da Aristotele, in epoca moderna l’essere umano che


vive insieme ad altri non lo fa per spinta naturale, anzi. La vita as-
sociata è un momento secondo che interviene a contrastare l’incli-
nazione più originaria a vivere separatamente, ciascuno per sé. Tho-
mas Hobbes, nel Leviatano, confuta punto per punto la dottrina ari-
stotelica dell’inclinazione naturale alla vita associata, in una sorta di
gerarchia invertita: diversamente dagli animali gli uomini sono in
continua competizione per appropriarsi di tutto ciò che desiderano
contro gli altri, distinguono tra interesse individuale e comune, es-
sendo dotati di ragione possono formulare pareri negativi su chi li
comanda, creando così tumulti e guerre, ed essendo dotati di paro-
la razionale possono usare la retorica per ingannare in materia di be-
ne e di male (Hobbes 1651, II, 17).
La grande narrazione della politica moderna, operata una di-
stinzione netta tra umano e natura, non elimina la seconda, piutto-
sto articola in modi vari e complessi – tra appropriazioni, proiezio-
ni a ritroso, esclusioni – quello che rimane un rapporto. L’essere
umano in natura è una narrazione a tutti gli effetti, forse ispirata dai
resoconti sugli usi e costumi dei popoli selvaggi nati con i viaggi di
esplorazione, forse ispirata dalle guerre di religione che hanno de-
vastato l’Europa del Cinquecento e Seicento, o forse ispirata dagli
intrighi della vita di corte. La natura umana è raccontata come un
mito originario di rischio di morte e autodistruzione, inverificabile
ma fondativo, legittimante l’ordine politico auspicabile.

Raccontare storie di ogni sorta è la maniera principale con cui gli es-
seri umani tentano di dare senso a loro stessi e al proprio mondo so-
ciale. Il racconto politico più famoso e autorevole dell’età moderna si
trova negli scritti dei teorici del contratto sociale (Pateman 1988, 3).
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54 FEDERICA GIARDINI

Un nuovo confine: il Contratto

Il linguaggio è sì dotazione naturale ma, diversamente da Aristotele,


in sé non garantisce nulla. È solo per la sua componente razionale –
per cui giudicare significa saper calcolare i costi e benefici delle pro-
prie azioni in vista della propria sopravvivenza – che l’essere umano
decide di unirsi ad altri. Diversamente da altri animali, l’accordo tra
umani non è naturale bensì artificiale, è il risultato di un patto.
La favola è raccontata in modo rigoroso, scientifico, poiché de-
ve legittimare le conclusioni, attraverso una serie di passaggi argo-
mentativi inferiti gli uni dagli altri: se la condizione originaria è la
guerra di tutti contro tutti per appropriarsi ciascuno di ciò a cui ri-
tiene di avere diritto, la vita di ciascuno è conseguentemente mi-
nacciata di morte. La ricerca della pace nasce dal bisogno di difen-
dere quel bene fondamentale che è la propria vita. Ci si dispone dun-
que a deporre una parte dei propri diritti in vista di un accordo a tu-
tela propria vita. Il mutuo trasferimento di diritti è detto contratto.
Esiste un caso in cui:

uno dei contraenti può consegnare la parte contrattata e lasciare che


l’altro adempia al suo impegno in un certo momento stabilito, conce-
dendogli nel frattempo credito: allora il contratto, per sua parte, è det-
to patto […] I segni del contratto possono essere espressi o per infe-
renza. I primi sono delle parole dette con intelligenza del loro signifi-
cato; e possono riferirsi al presente o al passato, come: io dò, io cedo,
io ho dato […] I segni per inferenza possono essere delle conseguen-
ze di parole, di silenzi, delle conseguenze di azioni o delle conse-
guenze di rinunce ad agire […] La materia od oggetto di un patto è
sempre qualcosa che rientra nella nostra deliberazione, perché con-
cludere un patto costituisce un atto della volontà, cioè un atto e l’ulti-
mo della deliberazione (Hobbes 1651, I, 14).

Il patto è dunque un atto essenzialmente linguistico – “è impossibi-


le fare un patto con gli animali, perché non intendono il nostro lin-
guaggio e quindi non possono intendere o accettare una traslazione
di diritto” (ivi) – e attiene alla capacità deliberativa che, diversa-
mente da quella aristotelica, è invocata per sancire i vincoli tra es-
seri umani. Non esiste cosa comune di cui si parla e si opina. Al con-
trario, la capacità di giudizio e volizione è una dote individuale che
viene impiegata per stabilire i criteri della vita associata.
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 55

La forza aggiunta del giuramento

Tuttavia Hobbes si rende conto che la forza delle parole non è suf-
ficiente a vincolare le parti all’accordo stabilito. Per dare forza (en-
force) alle parole del patto è necessario riformulare la funzione del-
la parola vincolante, che in epoche precedenti veniva svolta dal
giuramento. Sulla inutilità del giuramento in epoca moderna Hob-
bes è deciso: “il giuramento non aggiunge nulla all’obbligazione”
(ivi), dato che il giuramento è una forma di discorso che aggiunge,
all’impegno che si prende, l’invocazione di una punizione nel caso
di mancato adempimento. La sanzione invocata con il giuramento
nei secoli passati veniva compiuta dalle divinità pagane – “che Gio-
ve mi uccida come io uccido questa bestia” – o da Dio – “farò que-
sto e quello, così mi aiuti Dio” – convocate a testimoniare della for-
za delle parole dette e dell’impegno preso. Per Hobbes tale sanzio-
ne può essere svolta oramai dal potere statuale che incute maggior
timore di quella degli “spiriti invisibili”, essendo le conseguenze più
certe.
Ciò che appare come la nascita dello stato di diritto, del potere
legittimato dalle parole dei contraenti, proietta l’ombra della propria
credibilità nel ricorso alla sanzione, all’esercizio della forza.

Enforceability of the law or of contract […] allusione letterale diretta


alla forza che viene dall’interno a ricordarci che il diritto è sempre una
forza autorizzata, una forza che si giustifica o che è giustificata ad ap-
plicarsi […] La parola enforceability ci ricorda letteralmente che non
c’è diritto che non implichi in se stesso, a priori, nella struttura ana-
litica del suo concetto, la possibilità di essere enforced, applicato con
forza (come distinguere fra questa forza della legge, questa force de loi
[…] e d’altra parte la violenza che giudichiamo sempre ingiusta? Che
differenza c’è tra la forza che può essere giusta, o comunque giudica-
ta legittima (non solo lo strumento al servizio del diritto, ma l’eserci-
zio e la realizzazione stessa, l’essenza del diritto), da un lato, e la vio-
lenza che giudichiamo sempre ingiusta, dall’altro? Che cos’è una for-
za giusta o una forza non violenta? (Derrida 1994, 52-53).

Attraverso la forza vincolante della parola data, rimane così una


continuità tra giuramento e contratto, quali forme linguistiche che
trasformano in obblighi i rapporti tra chi pronuncia e chi ascolta ta-
li parole, che tengono uniti i contraenti e danno costanza e stabilità
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56 FEDERICA GIARDINI

all’ordine cui partecipano. Nel caso del patto di associazione tra


uguali e di sottomissione al sovrano, si tratta di parole che fondano
ossia legittimano il potere costituito. Questa è la grande scena degli
inizi dell’epoca moderna che arriva fino alle carte costituzionali, ma
si accompagna anche a una crescente tendenza a pluralizzare le for-
me linguistiche di tale vincolo. Il giuramento, forma ispiratrice di
sfondo del patto politico, si presenta come un vincolo solenne e to-
tale, sacralmente ancorato – ovvero, nella versione secolarizzata, og-
getto di sanzione se non rispettato –, è il segno di appartenenza a un
corpo politico, che oggi è sì “visto ancora come necessario riferi-
mento collettivo, strumento empirico per il superamento delle dif-
fidenze sociali con il richiamo esistenziale alla coscienza indivi-
duale”, ma si accompagna a una “libera contrattualità moderna va-
riabile secondo le circostanze politiche e sociali” (Prodi 1992, 392
e 490).

La Dichiarazione

Il giuramento, là dove il riferimento a Dio perde la sua cogenza, nel


momento in cui il potere non lo invoca più quale fonte di legittima-
zione, prenderà la forma della Dichiarazione. Joseph-Emmanuel
Sieyès (1748-1836) nelle sue considerazioni Preliminari alla Co-
stituzione (1789) ribadisce come condizione fondamentale dell’as-
sociazione politica la liberà volontà dei contraenti che, in quanto
volta al bene individuale, saprà stabilire principi e leggi volte al be-
ne di tutti.
L’atmosfera è cambiata ancora una volta, la Rivoluzione fran-
cese appare come un evento che conferma l’aspirazione alla liber-
tà di tutti e di ciascuno, aspirazione che si realizza in un nuovo or-
dine della vita associata. La forma linguistica della Dichiarazione,
diversamente dal Contratto, è una diretta espressione dell’essere
umano – che per natura è dotato di ragione e che, riconoscendo gli
altri come propri simili, ugualmente dotati di ragione, estende loro
le proprie aspirazioni alla giustizia e alla libertà – e diventa dunque
strumento di legittimazione perché dotata della forza della verità e
dell’evidenza. In che modo dare forma a tale espressione, a quella
che diventerà la Dichiarazione per definizione, la Dichiarazione
dell’uomo e del cittadino del 1789? Ecco la risposta di Sieyès:
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 57

Esistono due modi di presentare grandi verità agli uomini. Il primo


consiste nell’imporle loro sotto forma di articoli di legge, di impe-
gnarne la memoria più che la ragione. Molti ritengono che la legge
debba sempre assumere questa forma. Se così fosse, una Dichiarazio-
ne dei diritti del cittadino non sarebbe un insieme di leggi, ma un in-
sieme di principi. Il secondo modo di presentare la verità consiste nel
non privarla dei suoi caratteri essenziali, il raziocinio e l’evidenza. Non
si conosce veramente se non ciò che si è appreso attraverso la ragio-
ne. Credo che i rappresentanti dei Francesi del diciottesimo secolo
debbano rivolgersi in tal modo ai loro committenti. Vi sono inoltre due
metodi per essere chiari. Il primo consiste nell’eliminare dall’argo-
mento che si vuol trattare, tutto quanto richiede un’attenzione parti-
colare, tutto ciò che esula dalle banalità spicciole a tutti già note. Bi-
sogna convenirne, nulla è più semplice e più chiaro per la massa dei
lettori, di uno scritto basato su tale principio; ma se si desidera tratta-
re un certo argomento, presentarlo come lo esige la sua natura, espri-
mere la totalità di ciò che lo riguarda ed eliminare quanto non lo ri-
guarda, allora è a un diverso tipo di chiarezza che occorre mirare. E
questa non dispensa dall’attenzione (Sieyès 1789, 377).

Verità, raziocinio, evidenza, chiarezza, semplificazione, sono i trat-


ti di un testo che deve poter essere compreso da tutti, e dunque as-
sunto come giusto e condiviso. Ma Sièyes è uomo politico avverti-
to, non può impedirsi di fare riferimento alla realtà a lui contempo-
ranea, alle assemblee, ai dibattiti tumultuosi che, per quanto estesi
non raggiungono la totalità della popolazione. Rimarrà sempre una
parte che, non avendo partecipato, non solo potrebbe non com-
prendere, ma potrebbe addirittura fare resistenza a quelle parola
tanto trasparenti.

Mi sia permesso di aggiungere a questo punto un’osservazione che


credo giusta e che può divenire utile. Non c’è atto di pazienza che i
Francesi sappiano meglio evitare di quello che consiste nel prestare at-
tenzione a ciò che non riguarda né il loro piacere, né la loro vita pri-
vata. Al di là dei loro affetti e delle loro abitudini, tutto sembra loro
metafisico […] Vi è come un amor proprio da vendicare e si tende a
sostenere a proposito di qualunque novità ch essa è prematura. Così si
dimentica, o si finge di dimenticare, che la ragione deve maturare da
sola, e che per preparare la stagione dei lumi essa ha bisogno di pre-
cederla.
Tutte le verità, anche quelle oggi meno contestate più diffuse, hanno
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dovuto sopportare all’inizio tale rimprovero o tale pretesa ingiuria; poi


sono divenute, poco a poco, dei principi certi per alcuni, ignorati o ri-
gettati dagli altri; han finito poi per alimentare l’insieme delle idee co-
muni, e sono divenute per tutti semplicemente il buon senso. Tale è la
sorte della verità (ivi, 378).

La ragione enuncia cose e fatti evidenti, la Dichiarazione esprime e


registra la verità. Tuttavia nella premessa di una trasparenza del-
l’accordo, per cui tutti gli esseri razionali concordano sulle stesse
idee che pure dovrebbero essere evidenti per ciascuno, qualcosa si
inceppa. La conclusione dell’illuminista Sieyès è che chi non con-
corda subito è affetto da una momentanea pigrizia o limitazione del-
la ragione, basterà il tempo e, soprattutto, un gruppo che faccia da
avanguardia nell’esprimere le idee di ragione, e presto o tardi “la
massa dei lettori” seguirà. Inoltre, la Dichiarazione per esprimere
idee evidenti a tutti gli esseri dotati di ragione, deve eliminare tutto
ciò che richiede un’attenzione al particolare, le “banalità spicciole”.

I resti dell’evidenza: donne e stranieri

Tra i particolari non essenziali, che turbano la luce e l’immediatez-


za dell’evidenza della Dichiarazione rientrano, a titolo diverso, gli
abitanti delle colonie e le donne.

Quando, in un paese in cui 26 milioni di abitanti erano men che nulla


agli occhi di 200 mila individui, si è professata l’eguaglianza perso-
nale, quella dei diritti civili, si è dichiarato che tale eguaglianza era non
meno importante dei diritti politici, era della metafisica […] Tutti gli
abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino passivo:
tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della proprie-
tà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un ruolo at-
tivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono cittadini atti-
vi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i bambini, gli stra-
nieri, coloro che non contribuiscono minimamente a sostenere il si-
stema delle pubbliche istituzioni, non devono avere un’influenza atti-
va sulla spesa pubblica. Tutti possono godere dei vantaggi della so-
cietà, ma solo coloro che fanno parte del sistema delle pubbliche isti-
tuzioni rappresentano i veri azionari della grande impresa sociale, so-
lo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri dell’associazione (ivi,
379 e 391).
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Ritroviamo la terna già formulata da Aristotele – le donne, i bam-


bini, gli stranieri – con una correzione però: la limitazione di ragio-
ne delle donne sembra diventare non naturale bensì storica, più si-
mile a quella dei bambini che non a quella degli schiavi. Il “per lo
meno nella condizione attuale” appare come la formulazione a tem-
po di una limitazione all’accesso alla cittadinanza piena. Le donne
non ragionano, fanno rumore, o hanno voce, per il momento. Forse
l’inciso – che pure non riguarda una banalità o un particolare che
distoglie dalle formulazioni più generali e propriamente razionali –
è la traccia di fatti e parole di grande impatto, ma che nella trama
della Storia hanno stentato a trovare una collocazione.
Sieyès risente delle stesse circostanze che un anno dopo porta-
no il suo compagno di Rivoluzione, Condorcet, a scrivere un breve
testo Sull’ammissione delle donne al diritto di cittadinanza (1790).
Lo svolgimento delle riflessioni parte proprio dall’articolo 1 della
Dichiarazione: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei
diritti”. Condorcet chiede se tale articolo non sia stato violato nel
momento in cui la metà del genere umano viene privato del diritto
a concorrere alla formazione delle leggi. Se non è un atto di tiran-
nia andrebbe allora spiegato come i diritti naturali delle donne –
quelli che precedono il patto associativo – sono diversi da quelli de-
gli uomini. Ma per sostenere l’uguaglianza dei diritti in natura, l’au-
tore deve riestendere quel che accomuna gli esseri umani, non la ra-
gione che aderisce a evidenze e formula verità, bensì una dimen-
sione comune a tutti gli esseri sensibili, passibili di acquisire idee
morali e di ragionare su tali idee. Forse il disconoscimento di que-
sta comunanza deriva dal presupposto di una superiorità di spirito
maschile – i detrattori sostengono che nessuna donna ha mai fatto
importanti scoperte scientifiche o abbia dato prova di genio nelle ar-
ti e nelle lettere – ma andrebbe provato che tale differenza non sia
dovuta all’educazione e alle condizioni di vita in società.
In epoca moderna si configura però un’asimmetria politica tra
donne e “stranieri”, secondo una partizione e gerarchia che non può
ridursi al rapporto tra dominatori e dominati. Fanno fede le argo-
mentazioni dello stesso Sieyès a favore degli abitanti delle colonie.
Il 15 maggio 1791 viene votato il progetto Barnave secondo il qua-
le i mulatti residenti nelle colonie e nati da genitori liberi possono
accedere alle assemblee coloniali, ma il 24 settembre dello stesso
anno tali diritti vengono revocati, la schiavitù nelle colonie france-
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si sarà abolita solo nel 1794. Sieyès, cauto sulla concessione della
cittadinanza attiva, del diritto di voto alle donne, ha tutt’altro slan-
cio verso i “mulatti”:

Chiedo la parola e domando al Signor Barnave di voler dare dei chia-


rimenti circa un punto che ci pare il vero nodo della questione. L’As-
semblea ha accordato l’iniziativa alle colonie riguardo alla loro Co-
stituzione e allo stato giuridico degli abitanti; ha affidato tale iniziati-
va a chiunque. Si tratta di sapere a chi riteniamo che l’iniziativa sia sta-
ta accordata; ora io credo che sia stata estesa a tutti gli uomini liberi,
e non ad una parte di essi (applausi). Poiché l’Assemblea nazionale ac-
corda l’iniziativa alle colonie, occorre sapere quali persone intenda
consultare; sa vuole consultare, diciamo, gli uomini liberi. Chi sono
uomini liberi? L’Assemblea ci ha evitato l’incomodo di dare tale spie-
gazione; l’ha fornita essa stessa nell’articolo 4 del decreto del 28 mar-
zo: «Tutte le persone di almeno 25 anni compiuti, domiciliati, pro-
prietari e contribuenti saranno ammessi alle Assemblee parrocchiali
(applausi); sostengo che gli abitanti delle colonie si possano dividere
in 3 classi: i grandi bianchi, i piccoli bianchi, gli uomini di colore li-
beri; ora tutti sono egualmente compresi in tale decreto e l’Assemblea
nazionale non ha escluso dalla libertà e dai diritti politici nessuna di
queste tre categorie. Mi si obbietta che esiste una differenza fra loro,
in quanto alcuni esercitano i diritti di cittadini attivi e altri no. Ri-
spondo che è falsa l’affermazione che prima della Rivoluzione nessu-
no esercitava il diritto di cittadino attivo (applausi). Nessuna classe
esercitava dei diritti politici; il diritto politico è un diritto che riguar-
da noi tutti (Sieyès 1791, 636).

Un “noi tutti” che però mantiene l’eccezione denunciata dal mar-


chese de Condorcet che recepiva il grande movimento di parteci-
pazione delle donne alla Rivoluzione – quando non anche l’autore-
volezza di donne che, in quella che è stata vista come la prima for-
ma di società civile, sottratta alle forme del potere assoluto, orien-
tavano i dibattiti pubblici, letterari, civili e politici nei loro salotti
(vedi capitolo 4).

L’appello e l’ascolto negato

L’esponente della protesta alla Dichiarazione e alle sue partizioni in


nome dell’evidenza della ragione è la cittadina Marie Gouze detta
Olympe de Gouges (1748-1793) che intraprende di scrivere una
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Dichiarazione che non sia lacerata da una contraddizione interna sin


dal suo primo articolo. Il Preambolo alla Dichiarazione dei diritti
della donna e della cittadina (1793) inizia nella forma dell’appello
e della rivendicazione: “Uomo, sei tu capace di essere giusto? Chi
ti pone la domanda è una donna: questo diritto, almeno, non glielo
toglierai” (De Gouges 1793, 73). È grazie alla partecipazione poli-
tica, alla consapevolezza e all’educazione – spesso contestata da
parte dei suoi avversari – che De Gouges non si limita a parlare ma
prende parola e pronuncia una parola che ha la pretesa di essere ve-
ra e dunque vincolante. E prosegue:

Osserva il creatore nella sua saggezza; percorri la natura in tutta la sua


grandezza, alla quale sembri volerti avvicinare, e dammi, se ne hai il
coraggio, un esempio di questo potere tirannico. Risali agli animali,
consulta gli elementi, studia i vegetali, getta infine uno sguardo su tut-
te le modificazioni della materia organizzata; e arrenditi all’evidenza,
quando io te ne offro il modo. Cerca, scava e distingui, se puoi, i due
sessi nell’amministrazione della natura. Ovunque, li troverai confusi,
ovunque essi cooperano in armonioso insieme a questo capolavoro im-
mortale! Soltanto l’uomo si è creato alla meno peggio un principio di
questa eccezione. Bizzarro, cieco, gonfio di scienza e degenerato, in
questo secolo di luce e di sagacità, nella più crassa ignoranza egli
vuole comandare da despota su un sesso che ha ricevuto tutte le facoltà
intellettuali; che vuole usufruire della rivoluzione e reclamare i propri
diritti all’uguaglianza, per non dire di più (ivi).

Il testo paradigmatico di Sieyès mostra come i tempi rivoluzionari


recepiscano tale appello nella forma meno impegnativa. La formu-
lazione “per lo meno nella condizione attuale” – che riecheggia la
distinzione aristotelica tra chi manca della piena capacità delibera-
tiva per natura o per caso (circostanze) – rimanda a un futuro inde-
finito il riconoscimento della piena partecipazione politica delle
donne che sulla Carta, che in questo caso attenua il suo potere vin-
colante per mezzo dell’interpretazione contingente, sono ricono-
sciute implicitamente uguali. Olympe de Gouges verrà ghigliottinata
nel 1793: il suo appello, per quanto non recepito come vincolante,
è pronunciato da una voce che sta sulla soglia del lecito e del’ille-
cito a dirsi. Per questo, in sanzione aggiuntiva alla pena capitale, le
verrà tagliata la lingua.
“La gloria più grande per le donne è che non vi sia motivo di
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62 FEDERICA GIARDINI

parlare di loro”, diceva Pericle nell’età d’oro della democrazia ate-


niese. Attraverso i secoli il silenzio e il tacere si sono articolati: si
può essere dotate di parola, a patto di tacere nella sfera delle que-
stioni comuni (Aristotele); si può tacere e non essere dunque con-
vocate tra i contraenti del patto, eppure essere previste come ac-
consenzienti (Hobbes); si può parlare senza che questo sia da tene-
re in conto nella sfera pubblica (Rancière).
Il nodo tra linguaggio e politica tocca qui il peso e la consisten-
za della parola, in un ambito che, in epoca moderna, non è più né na-
turale né propriamente politico:

Le donne non prendono parte al contratto originario, ma non vengono


neppure lasciate nello stato di natura […] vengono incorporate in una
sfera che, rispetto alla società civile, si trova contemporaneamente
dentro e fuori. La sfera privata è parte della società civile ma è sepa-
rata dalla sfera “civile” (Pateman 1988, 16).

La grande narrazione del contratto più che una vicenda di emanci-


pazione, di diritti e di libertà appare – in questa luce e alla luce del-
la contraddizione di Sieyès sul trattamento degli abitanti delle co-
lonie – come una grande narrazione che non si può ripartire tra an-
tichi e moderni. Tra corsi e ricorsi, la presa di parola, il linguaggio
reso sostanziale dalla partecipazione effettiva, dalla consapevolez-
za e da narrazioni appropriate, segnala un confine mobile che con-
tinuamente include ed esclude esseri che pure vengono riconosciu-
ti come umani (vedi capitoli 5 e 6).

L’educazione

Quasi un secolo prima dell’appello di De Gouges, Mary Astell


(1666-1731) aveva contestato, a un altro autore del grande raccon-
to del Contratto e dell’uguaglianza naturale, la contraddizione insi-
ta nella mancata partecipazione delle donne alla vita associata: “se
tutti gli uomini (men) nascono liberi, come accade che le donne na-
scano schiave?” (Astell 1700, 107). L’appello che rivolgerà alle
donne e poi – nella forma di un progetto educativo che verrà ripre-
so per intero da Daniel Defoe – alla regina Anna differisce da quel-
lo di de Gouges, in un senso duplice. Mentre la rivoluzionaria fran-
cese pronuncia il suo appello autorizzandosi per via della sua par-
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 63

tecipazione attiva alla politica dei tempi e si fa forte della mancan-


za di istruzione che le viene rimproverata dagli avversari – affermerà
con orgoglio di non dovere nulla, non al sapere, ma al “sapere de-
gli uomini”; la pamphlettista inglese, pur appuntando le sue critiche
sui Trattati del governo di John Locke (1690), tuttavia non rivolge
la propria richiesta di giustizia agli uomini, piuttosto rivolge “una
seria proposta alle signore” e chiede loro di togliersi dalle circo-
stanze che costituiscono appigli per i falsi ragionamenti dei costi-
tuenti. Il mezzo per eccellenza è l’educazione.

Non mi serviranno certo molte parole per convincervi ad accettare que-


sta proposta: l’offerta ha di per sé attrattive sufficienti e dunque, an-
che se ne fossi capace non avrei bisogno, per farmi ascoltare, di im-
piegare gli abbellimenti della retorica […]. È mai possibile che vi
contentiate di stare al mondo come dei tulipani in un giardino, a far
bella mostra senza servire a nulla, permettendo che tutti i vostri meri-
ti svaniscano nella tomba, se non prima? […] L’ignoranza è causa del-
la maggior parte dei vizi femminili: l’alterigia e la vanità infatti, che
di solito ci vengono rimproverate, ad un esame accurato, si vedrà che
stanno all’origine di tutti gli altri vizi […] Come l’ignoranza e una
istruzione limitata costituiscono le fondamenta del vizio, così l’imita-
zione e il costume ne erigono il palazzo ((Astell 1694 nella traduzio-
ne di Conti Odorisio e Taricone 2006, 43).

Le donne, immote come “tulipani in un giardino” non godono però


della medesima beata ignoranza: umane al pari degli altri, ma non
coltivate, sono affette da vizi tipicamente femminili, che le rendo-
no moleste a se stesse e agli altri, e l’imitazione delle virtù altrui,
non fa che moltiplicarne i difetti. Ecco allora la proposta di Mary
Astell – che la rivolgerà alla regina Anna d’Inghilterra – per una
educazione delle donne, che va ben al di là dell’istruzione.

La mia proposta è di erigere un monastero o, se preferite, […] un riti-


ro religioso con una duplice finalità: non solo luogo appartato dal
mondo per chi ne sente il bisogno, ma anche istituzione educativa che
ci renda adatte al bene. Questo è forse, se non sbaglio, il mezzo più ap-
propriato per correggere la nostra epoca e migliorare la futura. In que-
sto luogo, chi è stanca della vanità del mondo e delle sue stranezze,
può trovare occupazioni più interessanti ed essenziali, senza essere
confinata a ciò che giustamente odia […] Abbandonerete solo le chiac-
chiere di gente banale per una compagnia intelligente, la superficiali-
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64 FEDERICA GIARDINI

tà dell’arguzia per una vera saggezza, le favole oziose per i discorsi


istruttivi, le adulazioni ingannevoli di coloro che, fingendo amore e
ammirazione in realtà perseguono i loro scopi, per gli ammonimenti
tempestivi e i saggi consigli delle vostre amiche […]. Il grande scopo
di questa istituzione sarà perciò di disperdere la nube d’ignoranza che
ci avvolge a causa dei costumi, di rifornire le nostre menti di una
scorta di conoscenze utili e solide in modo che l’anima delle donne non
sia più la sola cosa disadorna e trascurata […]. Un tale corso di studi
non sarà né troppo faticoso né fuori dalla portata di donne di scienza,
poiché è inteso che si passerà il tempo ad apprendere non parole, ma
cose e, a questo fine, le lingue necessarie per conoscere autori utili. E
non serve affannarsi a sfogliarne tanti, basta comprenderne ed assi-
milarne pochi, validi e scelti con cura […] L’esercizio, inoltre, amplia
e aumenta le facoltà, mentre la mancanza d’uso le riduce e le paraliz-
za. Se perciò usiamo poco o niente il nostro intelletto, presto non ne
avremo più e quando la facoltà deliberante e direttiva è in disuso,
quella elettiva è passibile di scelte indegne e malvagie […]. O si ac-
cetta dunque il paradosso che le donne non hanno anima, ciò che,
mentre si discute di attribuirla anche agli animali, sarebbe estraneo ad
ogni filosofia oltre che alla buona creanza, oppure si permette loro di
coltivare e migliorare l’intelletto (ivi, 43-44).

Le Costituzioni

Sieyès svolgeva le sue considerazioni preliminari sulla redazione


della Costituzione, che si presenta come un testo dirimente: è il
frutto della decisione della nazione titolare del potere costituente, at-
to che definisce la natura e la forma dell’unità politica. Redatta al
termine del processo deliberativo, la Costituzione ne è l’atto finale:
ciascuna parola, nata dopo l’abbattimento dell’Ancien Régime, avrà
per effetto l’ordine della nuova società.
Nel corso dei due secoli successivi la Costituzione si delinea
sempre più precisamente come carta che illustra una legge fonda-
mentale o una serie fondamentale di principi che determinano l’as-
setto istituzionale del potere costituito e garantiscono i limiti di ta-
le esercizio a favore della libertà dei cittadini. Tuttavia questo testo
fondamentale nei suoi intenti e nei suoi effetti, come dimostra la sua
genesi in Francia, non ha la fissità e puntualità di una parola fonda-
trice, nasce nel tumulto di discussioni, interpretazioni, decisioni da
pendere, parole da scegliere.
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 65

Un ulteriore esempio è offerto dai dibattiti avvenuti nella Com-


missione per la Costituzione italiana sul primo articolo che nella for-
mulazione definitiva suona: “L’Italia è una Repubblica democrati-
ca, fondata sul lavoro”. La formula proposta dallo schieramento di
sinistra – che comprendeva tra gli altri Pietro Nenni, Lelio Basso,
Palmiro Togliatti – prevedeva: “L’Italia è una Repubblica demo-
cratica di lavoratori” che venne preferita a un’altra – “Lo Stato ita-
liano ha ordinamento repubblicano, democratico, parlamentare, an-
titotalitario”.
Tuttavia anche la prima dizione suscitò delle obiezioni, per il
troppo ravvicinato richiamo al primo articolo della Costituzione so-
vietica: “L’Urss è lo Stato socialista degli operai e dei contadini”
tanto che, si obiettò in particolare, l’articolo così formulato avreb-
be rischiato di non corrispondere alla realtà italiana. Così Togliat-
ti replica in aula:

Riproporremo che la Repubblica italiana venga denominata Repub-


blica italiana democratica di lavoratori, e con questo non intendiamo
dare l’ostracismo a nessuno, e non vogliamo escludere nessuno dal-
l’esercizio dei diritti civili e politici (citato in Canfora 2004, 267-268).

Il problema non espresso è la distinzione, presente nella Costitu-


zione sovietica, tra lavoratori e non lavoratori, che determina il non
riconoscimento dei diritti politici a questi ultimi. È dunque anche
questo un caso in cui la “descrizione” dei soggetti abitanti nella po-
lis, o in questo caso, nella Repubblica, può determinare partizioni,
inclusioni ed esclusioni. La rassicurazione di Togliatti non ebbe il ri-
sultato sperato e prevalse la formula di mediazione escogitata da
Amintore Fanfani: “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Per un altro verso, per quanto riguarda gli effetti delle parole
sancite nel testo costituzionale, del loro valore performativo, va
considerato il caso dell’articolo 3, formulato da Lelio Basso e che
per la seconda parte recita: “È compito della Repubblica rimuove-
re gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fat-
to la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno svi-
luppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i la-
voratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
In questo articolo risuona l’idea che una Costituzione possa enun-
ciare principi, ma poi non vederli realizzati o, nel migliore dei casi,
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66 FEDERICA GIARDINI

lasciare la loro realizzazione al caso e alle circostanze o, nel peg-


giore, ai rapporti di forza.
Ritroviamo lo spirito che già animava la replica di Condorcet al-
lo stato politico delle donne messo su carta nella Costituzione rivo-
luzionaria francese: esiste l’enunciazione dei principi ed esiste la
realtà sociale, economica, politica del paese. Non è affatto detto che
questi due livelli siano in perfetto allineamento. Non è dunque un ca-
so che molta parte dell’attività politica istituzionale delle donne in
Italia abbia preso a riferimento l’articolo 3 per il conseguimento rea-
le e sostanziale di “pari opportunità”. Sebbene infatti l’articolo inizi
con il riconoscimento che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale
e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso” – e di raz-
za, lingua, religione e opinioni – fin dall’inizio ci si accorge che
questa dichiarazione di uguaglianza e pari dignità poteva non avere
alcuno o scarso effetto sulla realtà sociale del paese. La seconda par-
te dell’articolo è dunque una parte che fa propria più la performati-
vità, l’effettività delle parole, che il loro valore enunciativo.

La Carta Europea

Un terzo e ultimo caso della vicenda della parola costituzionale è


quello che riguarda la Costituzione europea, non formulata in quan-
to tale: a oggi esiste solo un Trattato, quello vigente è il Trattato di
Lisbona (2009). Il percorso della Convenzione per la redazione del-
la Carta e poi del Trattato ha proceduto in due tempi, come ci rac-
conta una delle partecipanti alla Convenzione, Elena Paciotti. Il pri-
mo passo è stata la redazione di una Carta dei diritti fondamentali,
proclamata nel 2000, seguita quasi in contemporanea dal Trattato di
Nizza – rivolto a regolare i rapporti tra gli Stati dell’Unione Euro-
pea – percorso che è laboriosamente confluito nel Trattato di Li-
sbona (1 dicembre 2009).

L’originale struttura della Carta raggruppa i cinquanta articoli che san-


ciscono i diritti fondamentali non più secondo le tradizionali distin-
zioni tra diritti civili e politici, diritti sociali ed economici, ma intorno
a sei valori fondamentali: la dignità, la libertà, l’uguaglianza, la soli-
darietà, la cittadinanza e la giustizia. In questo modo viene sottolineata
l’indivisibilità dei diritti fondamentali, la cui necessaria coesistenza
consente l’adeguata interpretazione della portata di ciascuno di essi e
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 67

costituisce un quadro permanente di riferimento per tutte le attività del-


l’Unione, anche per una futura evoluzione delle sue competenze. La
specificazione dei diritti spettanti ai cittadini europei nel capitolo de-
dicato alla cittadinanza mette in evidenza l’universalità dei diritti fon-
damentali elencati negli altri capitoli: essi spettano ad ogni essere
umano. La Carta contiene i valori e i principi ritenuti comuni e i dirit-
ti fondamentali vigenti nell’Unione e si candida così a diventare la
«carta di identità» di una comunità politica sovranazionale. Essa infatti
definisce i contenuti e le condizioni che rendono possibile quella «uni-
tà nella diversità» che è la caratteristica specifica dell’Unione: diver-
sità di tradizioni, di lingue, di religioni, di etnie, che possono coesistere
in una comunità di diritto grazie al rispetto della pari dignità di cia-
scuno, garantita dalla laicità delle istituzioni comuni (ribadita dall’in-
successo della pretesa di inserire nel preambolo della Carta il richia-
mo al retaggio religioso della tradizione cristiana). La Carta, infine, di-
segna un modello sociale europeo – diverso da quell’identità mera-
mente mercantile ed economica che si suole attribuire all’Unione – ben
definito e di- stinto rispetto ad altre regioni del mondo, ma anche ri-
spetto ad altri modelli propri dell’Occidente democratico. Compren-
de infatti di- ritti sociali che non sono riconosciuti come diritti fonda-
mentali in altri paesi occidentali, e in particolare negli Stati Uniti, e an-
che sul tradizionale terreno dei diritti individuali presenta specificità
europee, come l’assoluta proibizione della pena di morte, che non è un
dato comune a tutto l’Occidente (Paciotti 2004, 24-25).

I diritti fondamentali enunciati dalla Carta – formulati, condivisi e


dunque sanciti – hanno per soggetti i cittadini europei ma vengono
presentati come universali, “spettano ad ogni essere umano”. Tut-
tavia non è evidentemente sufficiente ricadere entro la categoria di
essere umano per essere cittadino o cittadina europea. La cittadi-
nanza sancita dalla Carta non consiste infatti solo in diritti fonda-
mentali, nel caso dell’Unione Europea rimanda sia all’assetto isti-
tuzionale di ciascun paese aderente all’Unione, sia ai processi di rea-
le ed effettiva partecipazione alla vita e alle decisioni del proprio
paese e dell’Unione. Senza entrare nel merito dei dibattiti – vedi ad
esempio lo scambio tra Habermas e Grimm (Marramao 2003, 230-
252), che hanno affrontato la questione del soggetto della parola co-
stituzionale, esiste prima o viene costituito da essa?, e dunque del
rapporto e del valore che quella parola ha per i cittadini e le cittadi-
ne a cui si rivolge – e seguendo il filo conduttore di questo lavoro,
appare come la parola scritta, vincolante, nel momento in cui viene
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68 FEDERICA GIARDINI

enunciata, non è né autosufficiente né autoreferenziale, rimanda


sempre ad altro da sé. E questo rimando può avere corso oppure non
averlo affatto, come abbiamo visto poco sopra e come vedremo nel
capitolo 6. Chi parla? A chi si parla? E, soprattutto, che efficacia
hanno tali parole, ancora e di nuovo, in questi inizi del XXI secolo?
Nelle vicende della parola enunciata, delle Dichiarazioni dei
principi fondamentali, troviamo un nodo del rapporto tra politica e
linguaggio che si ripete su scene più dimesse, lontano dalla ribalta
della Storia. Michel Foucault, nell’analizzare il funzionamento del
nascente discorso scientifico della medicina psichiatrica, individua
nella posizione del folle caratteristiche e dinamiche che riguardano
più in generale quei soggetti – ripensiamo alla terna classica e mo-
derna che comprende anche donne e stranieri – che il discorso or-
ganizzato, formalizzato e pubblico registra come esistente ma la cui
parola non può tenere nel conto:

Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un


interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ra-
gione e follia. Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discor-
so non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia
considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né impor-
tanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un at-
to o un contratto […]; capita anche, in compenso, che le si attribuisca-
no, all’opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di dire una ve-
rità nascosta, quello di annunciare l’avvenire, quello di vedere del tut-
to ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere. E cu-
rioso constatare che per secoli in Europa la parola del folle o non era
intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità. O
cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifra-
va una ragione ingenua o scaltrita, una ragione più ragionevole di quel-
la della gente ragionevole. In ogni modo, esclusa o segretamente inve-
stita dalla ragione, in senso stretto essa non esisteva. […] Mi si dirà che
tutto questo è finito, oggi, o che sta per aver fine; che la parola del fol-
le non è più dall’altra parte della separazione; che non è più resa nulla
e senza effetto; che al contrario ci mette in agguato; che vi cerchiamo
un senso, o l’abbozzo o le rovine di un’opera; e che siamo riusciti a sor-
prenderla, questa parola del folle, in ciò che noi stessi articoliamo, nel
minuscolo strappo attraverso cui quel che diciamo ci sfugge. Ma tanta
attenzione non prova che la vecchia partizione non sia più valida; ba-
sta riflettere a tutta la armatura del sapere attraverso cui decifriamo que-
sta parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che consente […]
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PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO 69

di ascoltare questa parola […] basta riflettere a tutto questo per so-
spettare che la partizione, lungi dall’essere cancellata, agisce altrimen-
ti, secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni, e con effetti che
non sono affatto gli stessi (Foucault 1971, 5-7).

Riferimenti bibliografici

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3.

DIRE IL VERO, OPINARE, MENTIRE

Il buon senso ci suggerisce che dire la verità è bene, altrettanto


sembrerebbe in politica: se è bene dire la verità nei nostri singoli
rapporti, altrettanto varrà nella vita associata in generale. Può forse
sorprendere che Hannah Arendt – con le sue parole crude sugli ef-
fetti devastanti di quella “menzogna enorme” che è stato l’antise-
mitismo nazista – contesti il rapporto tra verità e politica, di più, lo
considera un antagonismo pericoloso se non letale, al punto da ri-
tenere il proprio giudizio evidente: “è un luogo comune. Nessuno ha
mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piutto-
sto cattivi l’una con l’altra” (1948, 29).

Verità e giustizia

Eppure Platone, quando si tratta di pensare il rapporto tra verità e or-


dinamento politico, pone la prima tra i beni supremi. Il dialogo La
Repubblica si apre infatti sulla questione di cosa sia la giustizia e in
cosa consista un ordinamento politico giusto e, attraverso il meto-
do del dialogo, Socrate comincia a decostruire le definizioni che gli
vengono proposte dai suoi interlocutori, per arrivare, nel Quinto li-
bro, a dare non tanto una definizione, bensì la descrizione della po-
lis organizzata nel modo perfetto. Sullo sfondo di questa descrizio-
ne vige l’analogia tra l’anima del singolo cittadino – e cittadina, nel-
la città ideale le donne, fatto salvo qualche ritardo recuperabile con
una corretta educazione, sono parte della polis a tutti gli effetti –
l’ordinamento è giusto nella misura in cui l’anima del singolo è ca-
pace di giustizia.
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DIRE IL VERO, OPINARE, MENTIRE 71

Cercavamo cosa fossero la giustizia in sé e l’uomo perfettamente giu-


sto, se esistesse, e quale sarebbe in tal caso; e, d’altra parte, che cosa
fossero l’ingiustizia e l’uomo estremamente ingiusto […] lo stato po-
trebbe mutarsi con una sola trasformazione, certo non piccola né faci-
le, eppure possibile […] A meno che i filosofi non regnino negli stati
o coloro che oggi sono detti re e signori non facciano genuina e vali-
da filosofia, e non si riuniscano nella stessa persona la potenza politi-
ca e la filosofia […] non ci può essere, caro Glaucone, una tregua di
mali per gli stati e, credo, nemmeno per il genere umano (Platone, La
Repubblica, V, 471c-473d).

Ai filosofi dunque spetta, in un ordinamento politico giusto, di go-


vernare. Va precisato, dice Socrate, di chi stiamo parlando visto che
avanziamo una simile pretesa. Il filosofo è anzitutto chi ama, e ama-
re è un atto e uno stato totale: chi ama una cosa, la ama tutta, così il
filosofo fin nel suo nome (amante della sapienza) non desidera que-
sta o quella ma tutta la sapienza (V, 475b). Dato però che nell’Ate-
ne di Socrate, nel V secolo a.C., molti si definiscono filosofi, è ne-
cessaria una distinzione. Il filosofo non si trova tra coloro che pro-
vano diletto nell’apprendere – gli amatori di audizioni e di spetta-
coli, ad esempio – il vero filosofo ama “contemplare la verità”
(475e). È in questo punto che si saldano verità e politica attraverso
la giustizia: sapere cos’è giusto consiste in un atto di conoscenza do-
tato di verità. La giustizia non tollera incertezze, deve essere indi-
viduata e amministrata con una certezza ultimativa, e di questo è ca-
pace chi è filosofo.

La politica è mutevolezza

Per argomentare questa conclusione Socrate introduce la distinzio-


ne tra opinione (dóxa) e scienza, la conoscenza del vero (epistéme).
La realtà umana presenta le cose mescolate, una cosa giusta può ap-
parire mescolata a cose ingiuste, come una cosa bella a una brutta,
dato che le idee sono in comunione con le azioni e con i corpi, sem-
pre mutevoli e cangianti. Esiste chi sa riconoscere l’idea in sé e non
si fa fuorviare dal mutamento delle apparenze, il suo pensiero è
pensiero di chi conosce, è in stato di veglia, non sogna. Chi invece
sta alle apparenze, non conosce, opina, il che equivale a non vede-
re la realtà per quel che è veramente, è sognare. L’opinione non è
dunque conoscenza – dire conoscenza vera è ridondante, la cono-
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72 FEDERICA GIARDINI

scenza o è vera o non è – e tuttavia non è nemmeno ignoranza. Si


trova in una zona intermedia: se sbagliare consiste nell’affermare
qualcosa che non esiste e dire il vero consiste nell’affermare qual-
cosa che esiste, l’opinione non è nell’uno né l’altro. Opinare è se-
guire la mutevolezza delle apparenze, significa discorrere su ciò che
un momento è e il momento successivo non è più.

Coloro che contemplano la molteplicità delle cose giuste, ma non il


giusto in sé, e così via, diremo che su tutto hanno opinioni, senza pe-
rò conoscere niente di quello che opinano. – È una conclusione ne-
cessaria, disse. – E coloro che contemplano le singole cose in sé, sem-
pre invariabilmente costanti? Non diremo che conoscono e non opi-
nano? – Conclusione necessaria anche questa. – E non diremo pure che
essi fanno festa e amano gli oggetti della conoscenza, e gli altri inve-
ce quelli dell’opinione? Non ricordiamo di avere detto che questi ul-
timi amano e apprezzano belle voci, bei colori e simili cose, ma non
tollerano affatto che il bello in sé sia una cosa reale? – Ce ne ram-
mentiamo. – Sbaglieremo dunque se li chiameremo amanti d’opinio-
ne, cioè filodossi, anziché amanti di sapienza, cioè filosofi? […] E
quelli che amano ciascuna cosa che è, essa per se stessa, li dobbiamo
chiamare filosofi, ma non filodossi? – Senz’altro (ivi, 479e-480a).

La persuasione

Ma chi sono questi “filodossi”, gli amanti dell’opinione, dai quali


Socrate ha così cura di distinguersi? Questi personaggi della vita
pubblica ateniese sono caratterizzati innanzitutto come coloro che
“non tollerano affatto che il bello – o il giusto – in sé sia una cosa
reale”, sono quelli che sostengono che non esiste un’idea ultima, ve-
ra, su cosa sia la giustizia. Ne fanno una questione di opinione, non
di verità. Tra questi, il diretto concorrente del filosofo è il retore che,
capace di affrontare chiunque su qualsiasi argomento “persuade una
folla di tutto quel che vuole lui, in breve tempo” (Platone, Gorgia,
457a). E, di nuovo, nel Gorgia l’argomento in discussione non è tan-
to e solo la retorica, quanto il rapporto tra parola e giustizia. Abbia-
mo visto quanto in Platone politica significhi, nel suo senso più
compiuto, ordinamento giusto della polis ed è così che La Repub-
blica si apra sulle definizioni possibili da dare al termine giustizia.
Sebbene nella prima parte del Gorgia Socrate, alle prese con il re-
tore Gorgia di Leontini, indaghi sulla natura della retorica – come
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DIRE IL VERO, OPINARE, MENTIRE 73

“capacità di convincere gli altri con le proprie parole” (452d) –


questa subito si lega al giusto e all’ingiusto, poiché l’arte della per-
suasione che viene esercitata con la retorica si svolge in assemblea
e in tribunale. Secondo Gorgia è l’arte (téchne) superiore a tutte, poi-
ché la persuasione può indurre a costruire le mura di Atene, come
fecero Temistocle e Pericle, senza che la loro parola dovesse ap-
poggiarsi a competenze tecniche di altro genere. L’obiezione di So-
crate non verte tanto sulla persuasione, bensì sul contenuto e sul de-
stinatario di essa. Un conto è persuadere rispetto agli oggetti della
conoscenza (epistéme), un conto è persuadere rispetto a ciò che è og-
getto di credenza (pístis) e, soprattutto, la retorica svolgendosi in as-
semblea è una forma di persuasione che si rivolge a una folla che,
per definizione, è “chi non sa”. Sapere è dunque diverso da avere ar-
gomenti convincenti, affidati come sono questi ultimi ai corpi, alle
azioni, alle contingenze, alla mutevolezza degli affari umani. Se
fare leggi e amministrare la giustizia sono arti orientate dalla sa-
pienza, la retorica come la sofistica – che tendono a confondersi –
sono forme di “adulazione” dei piaceri del corpo. Diversamente
dalla sapienza e dalla verità che sono desiderate di per sé, altre so-
no desiderate come mezzo per raggiungere un altro scopo, queste
cose non sono né buone né cattive per loro stesse. Ritorniamo qui
nel campo dell’intermedio, cui abbiamo visto appartiene l’opinione.
Il valore di questi mezzi sarà dato a ritroso dal fine per cui sono im-
piegati: solo il filosofo saprà orientarli verso il giusto – della “reto-
rica si deve sempre far uso a fine di giustizia così come di ogni al-
tra attività” (527c), e dunque è prioritario conoscere il giusto, anzi-
ché l’arte della parola –, mentre il retore e il sofista rimangono in
questa zona intermedia.

Socrate: La retorica dunque, a quanto pare, è sul giusto e l’ingiusto,


fattrice di persuasione fondata sul credere e non di persuasione fondata
sull’insegnamento […] Neppure il retore, dunque, è maestro nei tri-
bunali e nelle altre pubbliche riunioni per ciò che riguarda il giusto e
l’ingiusto, m suggerisce solo una certa credenza. D’altra parte, in sì
breve tempo, non potrebbe certo veramente istruire tanto grande mas-
sa di gente du tanto alte questioni (ivi, 455a).

Gli amanti della sapienza sono implacabili, vogliono la sapienza per


intero, tanto che Socrate per amore della verità accetterà la condanna
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74 FEDERICA GIARDINI

a morte del governo dei Trenta per la sua attività di corruttore di gio-
vani e di miscredente. Nel primo discorso della sua Apologia parti-
rà proprio da questo: i suoi accusatori dicono il falso, i politici cre-
dono di sapere ma non sanno. Socrate essendo consapevole della
propria ignoranza ha intrapreso un cammino di ricerca della verità,
ed è così che perora la propria causa, dicendo la verità.
Ecco il trauma originario del rapporto tra verità e politica che ha
in mente Hannah Arendt: cercare e dire la verità mette in conflitto
non solo con il potere, ma con la politica stessa, un conflitto letale.
Tuttavia, per la pensatrice, come vedremo, la verità del filosofo non
è la strada da percorrere.

L’opinabile e i rapporti di forza

Il Gorgia si conclude con le tesi di Callicle che, proclamando il suo


disprezzo per la filosofia, inefficace negli affari umani e nel conse-
guimento della felicità, compie un atto di brusco realismo: inutile
stare a discutere su cosa sia giusto o meno e quali siano i legislato-
ri e le leggi adatte a questo scopo. La realtà è del tutto diversa, il giu-
sto coincide con gli interessi dei più forti e, una volta constatato que-
sto, non serviranno né retorica né filosofia, sarà ben più utile dedi-
carsi alla vita attiva, alla politica, che può fornire potere e ricchez-
ze, mezzi per il conseguimento della felicità.
Le tesi di Callicle ritornano agli inizi di La Repubblica:

Trasimaco – E stammi allora a sentire, disse. Io sostengo che la giu-


stizia non è altro che l’utile del più forte. […] Ebbene... Non approvi?
Ma già, tu non consentirai a farlo.
Socrate: Lo farò, dissi, pur che prima riesca a comprendere che cosa
intendi dire: ancora non lo so. L’utile del più forte, tu dici, è cosa giu-
sta. E con questo, Trasimaco, che cosa intendi mai dire? Non vorrai
certo sostenere, credo, un’assurdità come questa, che se il pancrazìa-
ste Pulidamante è più forte di noi e al suo organismo sono utili le car-
ni di bue, tale cibo sia utile e insieme anche giusto pure per noi che sia-
mo più deboli di lui.
Trasimaco – Sei proprio rivoltante, Socrate! […] Non sai che alcuni
stati sono governati a tirannide, altri a democrazia, altri ancora ad ari-
stocrazia?
Trasimaco – Come vuoi che non lo sappia?
Socrate – Bene, in ciascuno stato è il governo che detiene la forza no?
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DIRE IL VERO, OPINARE, MENTIRE 75

[…] Ma ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia


con leggi democratiche, la tirannide con leggi tiranniche, e gli altri go-
verni allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli pro-
clamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il
loro proprio utile; e chi se ne allontana, lo puniscono come trasgres-
sore sia della legge sia della giustizia. In ciò dunque [a] consiste, mio
ottimo amico, quello che, identico in tutti quanti gli stati, definisco giu-
sto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detie-
ne la forza: così ne viene, per chi sappia bene ragionare, che in ogni
caso il giusto è sempre l’identica cosa, l’utile del più forte (La Re-
pubblica, I, 337-339).

La posizione di Trasimaco, avanzata ad Atene, che la tradizione pre-


senta come modello originario dell’ordinamento democratico, ci
consegna un rapporto perlomeno problematico tra politica, verità e
dunque – nella prospettiva platonica – giustizia. Per l’Atene del V se-
colo a.C. un legislatore in grado di conoscere e riconoscere la verità
e dunque di essere giusto si presenta come un ideale, se non un’uto-
pia. Il Gorgia viene scritto pochi anni dopo la fine della guerra del
Peloponneso. Come Tucidide, che dedica un’opera a tali eventi sto-
rici, e in uno spirito anche più esplicitamente antidemocratico, Pla-
tone cerca di capire come Atene abbia potuto essere sconfitta. È ai
politici ateniesi, e a Pericle in particolare, che Platone attribuisce ta-
le responsabilità. L’attacco contro la retorica lanciato nel Gorgia na-
sce in questo clima, e con un’aspra connotazione antidemocratica.
Al termine di una vera e propria arringa contro la democrazia
ateniese Socrate esclama, rivolgendosi a Callicle: “mi hai costretto
a parlare come un vero demagogo” (519e). Sono parole che ripren-
dono, scherzosamente, il rimprovero rivoltogli precedentemente da
Callicle. Ma la ritorsione ha un fondo serio: sono i filosofi, non i re-
tori, a sapere che cosa sia la politica: “Io credo di essere tra quei po-
chi ateniesi, per non dire il solo,” esclama Socrate, “che tenti la ve-
ra arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti” (521d).
La smentita più brutale alla vocazione ateniese per la giustizia
viene infatti da un episodio della guerra del Peloponneso che oppo-
se Atene e Sparta e gli alleati dell’una e dell’altra. Tucidide lo rac-
conta nel passo noto come Dialogo tra gli ateniesi e i Meli (Tuci-
dide, La guerra del Peloponneso, V, 85-113). Parola, politica, giu-
stizia e guerra si giocano nella contrapposizione degli Ateniesi ai
Meli. Agli abitanti dell’isola di Melo, alleati degli Spartani e che in
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un primo tempo cercano di rimanere neutrali, gli Ateniesi presenta-


no un’alternativa: o allearsi a loro o arrendersi. Prima della ribel-
lione che si conclude con una carneficina – gli Ateniesi uccidono gli
uomini e riducono in schiavitù donne e bambini – i Meli perorano
la loro causa agli ambasciatori mandati da Atene con argomenti che
riecheggiano le parole di Socrate e che, anche in questo caso, avran-
no per esito la morte.
La retorica è messa fuori dalla porta, gli Ateniesi lamentano
che “i colloqui non avvengono dinanzi all’assemblea popolare, evi-
dentemente perché si vuole evitare che il popolo venga ingannato se
ascolta tutti in una volta, in un discorso continuo, i nostri argomen-
ti attraenti e non confutati via via” (ivi, 85). I Meli, per parte loro,
contestano le stesse circostanze in cui si svolge quello che non è già
più un colloquio alla pari, in cui le ragioni avanzate sono già pre-
giudicate dalle circostanze: “la guerra è già qui, non prossima ma
presente. Vediamo infatti che voi stessi sedete come giudici di quan-
to verrà detto” (86); insomma, è già decisa una disparità di peso tra
le parole che verranno dette. A maggior ragione, l’alternativa pro-
spettata pone già i Meli dalla parte dei vinti: se accettano saranno
“schiavi” di Atene, se rifiutano saranno vittime.
La replica degli Ateniesi è di un realismo alla Callicle:

né vi infliggeremo una infida sequela di parole, con speciosi argo-


menti: per esempio che noi esercitiamo a buon diritto il dominio […]
La nostra proposta è che si faccia quanto è realmente possibile sulla
base dei veri intendimenti di entrambi: consapevoli entrambi del fat-
to che la valutazione fondata sul diritto si pratica, nel ragionare (lógos)
umano, solo quando si è su una base di parità, mentre, quando vi è dis-
parità di forze, i più forti esigono quanto è possibile ed i più deboli ap-
provano (ivi, 89).

Il lógos invocato non è il ragionare secondo verità, e nemmeno usa-


re gli argomenti convincenti della retorica: quando vi è disparità di
forza, il piano della ragione e della parola è già, prima ancora che
inizi il confronto, attribuito. Ai vincitori. Mentre i Meli si appella-
no alla giustizia in sé, agli dei, che vedono e fissano il giusto oltre
le vicende alterne degli umani, gli Ateniesi fanno sì un riferimento
sarcastico alle potenze divine, ma a quelle che sanciscono la vitto-
ria di una parte e che, dunque, designano come giusti, come soggetti
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nell’esercizio del loro diritto, i più forti.

Quanto al favore degli dei, neanche noi saremo da meno: ne siamo per-
suasi. Giacché, quello che facciamo, quello che pretendiamo, non si
pone affatto fuori della concezione che gli uomini hanno del mondo di-
vino né della reciproca loro disposizione. Non solo tra gli uomini, co-
me è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessa-
rio e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare.
Questa legge non l’abbiamo stabilita noi né siamo stati noi i primi a va-
lercene; l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegne-
remo a chi verrà dopo, ed avrà valore eterno. E sappiamo bene che
chiunque altro, ed anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pa-
ri alla nostra, vi comportereste così (ivi, 105).

La ragione del più forte diventa così legge, giustizia sancita dal
successo, e si tratta di una legge che riguarda tutti gli esseri umani,
anche se i più deboli protestano, è solo per via del momentaneo
svantaggio della loro posizione. La parola diventa mera aggiunta,
superflua nel determinare l’esito del confronto, già deciso su una
scena che linguistica non è.
Vediamo l’articolazione della parola politica nel suo rapporto
con la giustizia e la verità: la retorica può indurre il favore per una
parte, ma solo perché usa argomenti convincenti e non necessaria-
mente né giusti né veri; la parola può diventare inutile se la fonte del
suo peso e influenza è stabilita altrove (vedi capitolo 2); o ancora,
la parola potrebbe avere tale peso per via di una fonte stabilita al-
trove dalle ragioni contingenti. Ma quest’ultima via è esattamente
quella che viene sconfitta.
Esiste allora una forza insita nella parola pronunciata, oppure
siamo destinati a dover scegliere tra queste alternative? Una prima
traccia di risposta – (vedi anche capitolo 5) – la troviamo nelle ana-
lisi del dialogo compiute da Carlo Ginzburg:

Nietzsche, che ammirava in Tucidide un maestro di realismo immune


da scrupoli moralistici, dava probabilmente per scontato che egli con-
dividesse le tesi formulate dagli ateniesi. Qualcuno, richiamandosi a
Nietzsche, ha sostenuto che Tucidide non poteva non riconoscere la su-
periorità delle argomentazioni degli ateniesi, visto che il corso degli
eventi aveva dato loro ragione. Questa conclusione è discutibile, per
due motivi. Da un lato, non è dimostrato che Tucidide identificasse il
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diritto con il successo. Dall’altro, nel lungo periodo il successo, com’è


noto, non arrise affatto agli ateniesi. […] la composizione del dialogo,
così come forse la maggior parte dell’opera, (avviene) dopo il 404: Tu-
cidide avrebbe voluto mostrare attraverso un caso esemplare l’arro-
ganza imperialistica che aveva condotto Atene alla rovina. Anche la
polemica contro la retorica, che i meli oligarchici e filospartani pre-
sentano all’inizio del dialogo come un’arte per sedurre “i più” con ar-
gomenti attraenti e fallaci, era verosimilmente condivisa da Tucidide,
fortemente critico nei confronti della democrazia ateniese (Ginzburg
2000, 17-18).

Ideologia totalitaria e menzogna di Stato

La storia occidentale ci dà molti esempi della forza politica della pa-


rola retorica, quella che cerca il consenso della folla, della massa, a
prescindere da verità e giustizia. Torniamo così a Hannah Arendt che
ci consegna due casi tragici.
Il primo riguarda gli effetti e il funzionamento dell’ideologia an-
tisemita nazista. L’immutabilità dell’idea di vero e giusto, perorata
da Socrate, assume qui una funzione sinistra: la distanza dalla mu-
tevolezza delle vicende umane, anziché apparire come una garanzia
al di sopra delle parti, diventa lo strumento di disprezzo dei singo-
li, di ciò che può risultare dall’esperienza, di costrizione a vivere in
una regione rarefatta. Per riflettere su questo risultato Arendt parte
dalla fine: i sopravvissuti ai campi di concentramento tendono a non
raccontare quel che è successo loro, quel che dovrebbero dire è dif-
ficile da comunicare, tanto si sottrae a un’esperienza condivisibile;
di contro, chi li ascolta, raramente prova quell’“indignata simpatia”
che suscitano le vittime di un’ingiustizia, anzi, talora la reazione è
di sospetto, quasi che chi parla avesse scambiato un incubo per la
realtà.

Questi dubbi su se stessi e sulla realtà della propria esperienza rivela-


no semplicemente quello che i nazisti hanno sempre saputo: che, se si
è decisi al delitto, conviene organizzano in grande, su scala enorme, in-
verosimile. Non solo perché ciò rende inadeguata e assurda ogni pe-
na prevista dal sistema giuridico; ma anche perché l’enormità dei de-
litti fa sì che agli assassini, i quali proclamano la loro innocenza con
ogni sorta di menzogne, si presti più fede che alle vittime, la cui veri-
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tà ferisce il buon senso. I nazisti non ritennero neppure necessario te-


nere per sé tale scoperta. Hitler fece circolare milioni di copie del suo
libro in cui affermava che per aver successo una menzogna deve essere
enorme; il che non impedì alla gente di credere a lui e ai suoi seguaci
quando ripetevano fino alla nausea che gli ebrei erano parassiti da ster-
minare (Arendt 1948, 601-602).

Un’idea fissa

La tenuta di un’idea fissa, nel XX secolo, può non intrattenere alcun


rapporto con il giusto e il vero. L’ideologia nazista, da una parte, non
ha né giustizia né verità, ma non per questo travalica le vicende
umane, anzi, come negli auspici di Callicle entra e determina le vi-
cende umane in modo attivo; d’altra parte, non essendo né vera, né
giusta, essendo determinata dalla retorica e dalla persuasione – dal-
la propaganda – di massa, non per questo tollera di accettare i limi-
ti dell’opinione, che dovrebbe riguardare ciò che è mutevole per de-
finizione, che è e il momento successivo non è più.
Al contrario, l’ideologia ha la pretesa di validità che Socrate at-
tribuiva al cielo delle idee, stelle fisse che orientano l’azione e il va-
lore umano. Nessun movimento è previsto, se non quello del pas-
saggio da una premessa a una conclusione e le contraddizioni che
la realtà presenta vengono assorbite e neutralizzate quali stadi da
superare: esiste qualche coscienza cui ripugna uccidere degli in-
nocenti? Si tratta di una coscienza che non ha ancora correttamen-
te inteso la vera idea e il vero fine dell’epoca. È sulla base di que-
sto discorso, che in epoca antica sarebbe stato definito un “paralo-
gismo” – un discorso apparentemente corretto ma basato su false
premesse – che Eichmann può sostenere di aver compiuto il proprio
dovere, di essersi fatto orientare dall’idea di ciò che era giusto. Ve-
ro e giusto, nell’ideologia nazista, ritornano come risvolto mo-
struoso delle tesi di Socrate.
Di Socrate però non viene mantenuto un assunto dirimente: il
cavo del sapere, il dubbio iniziale – quella consapevolezza della pro-
pria ignoranza – che fa del filosofo qualcuno che cerca, che è spin-
to a cercare per povertà, che ne fa un amante alla ricerca di ciò che
gli manca di sapere. L’ideologia nazista nasce invece come parola
che deve riempire il vuoto di quegli “uomini superflui”, votati a non
contare nulla nella società così come ordinata, che chiedono quindi
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conferme del proprio valore e utilità (vedi capitolo 1). Tuttavia,


perché ciò possa avvenire, deve darsi qualcosa che non riguarda
l’ambito della verità e del ragionamento corretto, ma che lo prece-
de: come già per il dialogo tra Meli e Ateniesi, esiste una scena che
precede il dialogo e che decide della vittoria di una tesi prima che
questa venga pronunciata, è la scena dei rapporti di forza (vedi an-
che capitolo 2). L’ideologia nazista nasce da questa peculiare me-
scolanza tra insicurezza e forza: non il dubbio che spinge a cercare,
bensì l’incertezza che pretende la propria risoluzione.
Una volta stabilita la disparità di forza su quella scena, il di-
scorso può svolgersi pretendendo per sé il rigore delle deduzioni lo-
giche, che travolge l’esperienza dei singoli quali illusioni se non er-
rori da sanzionare.

Si notano tre elementi specificamente totalitari che sono comuni a


qualsiasi tipo di pensiero ideologico.
Anzitutto, nella loro pretesa di spiegazione totale, le ideologie hanno
la tendenza a spiegare non quel che è, ma quel che diviene, quel che
nasce e muore. Esse si occupano in ogni caso soltanto dell’elemento
di movimento, cioè della storia nel senso usuale della parola. […] Ci
si ripromette di far luce su tutti gli avvenimenti storici, di ottenere una
spiegazione totale del passato, una completa valutazione del presente,
un’attendibile previsione del futuro. In secondo luogo, il pensiero
ideologico diventa indipendente da ogni esperienza, che non può co-
municargli nulla di nuovo neppure se si tratta di un fatto appena ac-
caduto. Emancipatosi così dalla realtà percepita coi cinque sensi, es-
so insiste su una realtà “più vera”, che è nascosta dietro le cose per-
cettibili, dominandole tutte, e che si avverte soltanto disponendo di un
sesto senso. Questo è fornito appunto dall’ideologia, da quel partico-
lare indottrinamento che viene impartito negli istituti appositamente
creati per l’educazione di “soldati politici” […] In terzo luogo, poiché
non hanno alcun potere di trasformare la realtà, le ideologie ottengo-
no tale emancipazione del pensiero dall’esperienza ricorrendo a certi
metodi di dimostrazione. Esse ordinano i fatti in un meccanismo as-
solutamente logico che parte da una premessa accettata in modo as-
siomatico, deducendone ogni altra cosa; procedono così con una co-
erenza che non esiste affatto nel regno della realtà. La deduzione può
avvenire logicamente o dialetticamente; in entrambi i casi comporta
un’argomentazione uniforme che, in quanto pensiero in termini di
processo, dovrebbe essere in grado di comprendere il movimento dei
processi sovrumani, naturali o storici. La comprensione ha luogo per-
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ché l’intelletto imita, logicamente o dialetticamente, le leggi dei mo-


vimenti a scientificamente “accertati e con l’imitazione si inserisce in
essi. Tale argomentazione, che è sempre una specie di deduzione lo-
gica, si adegua perfettamente agli altri due elementi delle ideologie –
quello del movimento e quello dell’emancipazione dalla realtà e del-
l’esperienza – perché il suo movimento di pensiero non deriva all’e-
sperienza, ma si genera da sé, e poggia su un unico punto tratto dalla
realtà esperimentata e trasformato in una premessa assiomatica, rima-
nendo nel suo sviluppo completamente immune da qualsiasi espe-
rienza ulteriore. Una volta stabilita la premessa, il punto di partenza,
il pensiero ideologico rifiuta gli insegnamenti della realtà (ivi, 644-
645).

L’irrealtà e la menzogna

L’ideologia che procede attraverso l’indottrinamento della propa-


ganda serve a “staccare il pensiero dall’esperienza e dalla realtà” e,
quando organizzata in una visione totalizzante del mondo, preten-
de per sé una costruzione del discorso logica e scientifica. Chi non
aderisce sta contraddicendo se stesso, è questa la costrizione inte-
riore che Arendt individua come il danno più devastante prodotto
dall’ideologia. Sottomettendosi alla tirannia della logicità e pre-
stando fede, letteralmente, alla pretesa avanzata dall’ideologia di es-
sere un ragionamento rigoroso e scientifico, l’individuo

rinuncia alla sua libertà interiore (come rinuncia alla sua libertà di mo-
vimento quando si inchina a una tirannia esterna) […] così la forza au-
tocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a
pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane,
è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione […] l’auto-
costrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la real-
tà. La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno
perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché,
insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di espe-
rienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario è l’indivi-
duo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non
esiste più (ivi, 648).

Perdere i legami con gli altri, essere chiusi in un rapporto di isola-


mento tra sé e sé, significa consegnarsi a un’altra scena, quella che
non distingue più tra vero e falso, reale e irreale, e che tuttavia ha la
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pretesa di far tornare tutti i pensieri secondo un unico svolgimento


omogeneo e lineare che, anziché avere inizio nella coscienza indi-
viduale, viene indotto dall’esterno. L’esperienza singolare, che do-
vrebbe essere fonte di dubbi, smentite, di fronte a questa chiusura
delirante non fa più testo, e viene sostituita da una parola autorita-
ria che chiede fede.
Sulla povertà, quando non distruzione, del senso di realtà, del-
la distinzione tra vero e falso, insiste un altro testo di Hannah
Arendt, dal titolo significativo di La menzogna in politica (1972).
Gli elementi dell’analisi però non si dispongono nello stesso modo
che per l’ideologia totalitaria. Se questa si appoggiava a un ordina-
mento politico totalitario, in questo secondo testo la pensatrice af-
fronta l’atto del mentire in una società che è formalmente organiz-
zata in un ordine democratico, quella statunitense.
L’episodio della vita pubblica americana che occasiona il testo
è la pubblicazione da parte di un autorevole quotidiano, il “New
York Times”, dei cosiddetti “Pentagon Papers”, nel 1971. Questi
documenti illustravano le valutazioni e strategie del governo ame-
ricano nel corso delle guerre nel Sudest dell’Asia, in Corea e in
Vietnam e intervenivano a dare appoggio documentale a un’opi-
nione pubblica che già sapeva dell’esito della prima e contestava
ampiamente lo svolgimento ingiusto della seconda. La questione
affrontata dall’autrice non è dunque il valore di informazione che
hanno quei documenti, bensì “l’inganno” perpetrato dal governo
americano nel dichiarare i propri scopi e intenzioni, “dichiarazio-
ni menzognere di tutti i tipi, volte a ingannare gli altri quanto se
stessi” (1972, 7).
Il punto di partenza dell’analisi non è tuttavia una piana indi-
gnazione a fronte di tale inganno, tutt’altro. Arendt accoglie l’idea
che la politica non intrattenga buoni rapporti con la verità, ma sta-
volta non è nel senso, come abbiamo visto, delle pretese di verità del
filosofo che finiscono per condurlo alla messa a morte da parte dei
politici, e nemmeno nel senso delle pretese pervertite di verità e giu-
stizia dell’ideologia totalitaria. La tradizione ci racconta come la po-
litica richieda “discrezione”, quando non segretezza, nel caso di
decisioni cruciali, e forse qui Arendt ha in mente situazioni simili a
quella richiesta dai Meli, di uno svolgimento “a porte chiuse”, per-
ché la retorica non abbia presa sugli astanti a discapito della verità
delle questioni in gioco. Ma la pensatrice si spinge oltre, in un pas-
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saggio che sfiora il cinismo, ritiene che non sarebbe motivo di in-
dignazione nemmeno “la menzogna deliberata e la bugia manife-
sta”, che da secoli vengono considerati “strumenti legittimi per l’ot-
tenimento di fini politici” (ivi, 9).
Il giudizio negativo nasce piuttosto da una prima constatazione
positiva: mentire equivale a negare la realtà, negare la realtà può es-
sere il modo per immaginare che potrebbe essere altrimenti, e dun-
que condurre alla libertà, a dare inizio a qualcosa che prima non era
contemplato: senza la libertà mentale di

dire “sì” o “no” – non solo ad affermazioni o proposizioni delle quali


possiamo dichiararci in accordo o in disaccordo, ma alle cose che so-
no date, al di là di ogni accordo e disaccordo, ai nostri organi percet-
tivi e cognitivi – nessuna azione sarebbe possibile, e l’azione è per
l’appunto la materia di cui è fatta la politica (ivi, 11).

Come si concilia questo passaggio argomentativo con l’imputazio-


ne all’ideologia totalitaria di aver deportato i singoli in una regione
dove non si poteva più distinguere il vero dal falso? Le osservazio-
ni da avanzare seguono due ordini diversi.
Innanzitutto, negare la realtà, là dove è un atto che apre uno spa-
zio di libertà e di azione, non significare negare la sua esistenza, ma
negarne la necessità – il “così è e non potrebbe essere altrimenti” –
significa negare l’equivalenza tra fatti e destino (vedremo come il
rapporto tra necessità e realtà venga invertito da Simone Weil a
fronte dello stesso periodo storico). Tant’è vero che il bugiardo che
ha di mira l’affermazione della bugia in se stessa, alla fine verrà
sconfitto dalla realtà, l’immensità della sua bugia non sarà mai gran-
de abbastanza da coprire l’immensità della realtà.
In secondo luogo va precisato chi usa la negazione della realtà.
Quelli apparentemente più innocui – all’epoca del testo Hannah
Arendt risiede negli Stati Uniti – sono gli esperti governativi in pu-
blic relations. Le pubbliche relazioni sono una forma di pubblicità,
niente di più, legata alla nascita della società dei consumi e caratte-
rizzata da un bisogno disordinato di merci. Il danno che producono
consiste nel fatto che non hanno a che fare con la realtà ma con la
materia altamente manipolabile delle opinioni, dei bisogni indotti,
della disponibilità a comprare e credere. Nel loro ambito di menzo-
gna non vi è dunque limite alle invenzioni ma, non avendo a che fa-
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84 FEDERICA GIARDINI

re con fatti reali e concreti, non hanno tuttavia il potere di impedi-


re di volere e agire altrimenti.
Diversamente va con gli autori dei Pentagon papers, i problem
solvers che sono chiamati dal governo ad analizzare e trovare solu-
zioni per i problemi di politica estera. “Uomini molto sicuri di sé” per
“posizione, educazione e risultati”, e dunque “abituati a vincere”, ri-
vendicano per sé “intelligenza”, “razionalità” e un’esibita ostilità a
ogni forma di sentimentalismo, salvo poi essere “innamorati della teo-
ria”. Ritroviamo a questo punto lo sprezzo per la realtà così com’è, la
sua contingenza, che si esprime in formule dalla pretesa di scientifi-
cità che dovrebbero dire la verità sulle azioni da condurre. A questo
Arendt aggiunge che, nel caso specifico, non era in gioco il bene rea-
le degli Stati Uniti, bensì la loro “immagine”, la “reputazione”, che
doveva mantenere e accrescere il consenso internazionale – in una
sorta di processo retorico assurto al piano dei rapporti tra Stati –
un’altra forma di menzogna, di negazione della realtà, ma nel verso
della finzione che, pur efficace sul piano dell’ordine, è priva della con-
sistenza che viene dalla realtà concreta. In questo caso mentire non è
a favore di un di più azione e libertà, come per il singolo, bensì per
ampliare il consenso e la rappresentazione della forza di uno Stato.
Queste riflessioni sembrano una dimostrazione del fatto che la
storia, anziché procedere o progredire, tenda a ripetersi: rimandano
allo scandalo sulle prove dell’esistenza di armi di distruzione di
massa a giustificare la guerra mossa contro l’Iraq nel 2003 e, più re-
centemente, 25 luglio 2010, la pubblicazione a opera del sito Wiki-
Leaks – e ripresa ancora una volta dal “New York Times” – di rap-
porti segreti del Pentagono sulle operazioni militari in Afghanistan,
per il periodo 2004-2009, che documentano il “fallimento” della
guerra”, pur avendo sostenuto pubblicamente la volontà e necessi-
tà di proseguirla.

Quando vero e falso sono costruiti

La critica alla verità del filosofo antico, che ritorna pervertita nella
pretesa di scientificità dell’ideologia totalitaria e nella menzogna di
Stato, trova un precedente nelle analisi di Friedrich Nietzsche che,
diversamente da Arendt, conclude con una condanna del problema
stesso.
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DIRE IL VERO, OPINARE, MENTIRE 85

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso in-


finiti sistemi solari c’era una volta una stella su cui animali intelligenti
scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzo-
gnero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto.
Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intel-
ligenti dovettero morire (Nietzsche 1873, 125).

Nel breve saggio Su verità e menzogna in senso extramorale, det-


tato a un amico nel 1873 e mai pubblicato in vita, il filosofo viene
definito come “il più superbo di tutti gli uomini”, convinto che tut-
ti gli occhi siano puntati su di lui e sulla sua capacità di conoscen-
za e di verità. La pretesa di conoscere il vero individua il momento
più menzognero della storia dell’umanità, ma dura solo un momen-
to: visti dal cosmo gli esseri umani, le loro pretese e la loro durata
sono infinitamente piccoli e brevi. Sebbene il riferimento a Socra-
te sia evidente, il vero ispiratore dello svolgimento delle riflessioni
di Nietzsche è Hobbes: è nel corpo che tutto ha inizio e, tra tutte,
predomina la spinta a sopravvivere.

Ma poiché per necessità e insieme per noia l’uomo vuole esistere an-
che socialmente e come membro del gregge, ha bisogno di conclude-
re la pace e si adopera affinché almeno il più rozzo bellum omnium
contra omnes scompaia dal suo mondo. Questa conclusione della pa-
ce, comunque, porta con sé qualcosa che somiglia al primo passo sul-
la strada che conduce a quell’enigmatico impulso verso la verità. Ades-
so viene infatti fissato che cosa, da ora in poi, dovrà essere la verità,
cioè si inventa una definizione delle cose uniformemente valida e vin-
colante, e la legislazione del linguaggio dà anche le prime leggi della
verità, giacché qui sorge per la prima volta il contrasto tra verità e men-
zogna (ivi, 126).

Violenza, paura – ma anche noia – sono le spinte corporee che por-


tano gli esseri umani a vincolarsi ed è solo in conseguenza di tale le-
game, stabilito in un secondo momento, che nasce la distinzione lin-
guistica tra vero e falso. La verità è frutto di un accordo, di una con-
venzione – come già per Hobbes – non ha a che fare con la realtà o
con le cose, svolge una funzione unificante, di accordo. Per tutti gli
appartenenti a una comunità, alcune cose saranno vere, altre false,
alcune saranno lecite a dirsi e altre illecite e, conseguentemente, so-
lo alcune saranno considerate buone. La parola nasce dallo stimolo
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86 FEDERICA GIARDINI

nervoso di un singolo corpo, è soggettiva, l’accordo sul significato


interviene in un secondo momento ed è dunque arbitrario, frutto di
una convenzione. Il rapporto tra lo “stimolo fisiologico”, il nome e
il valore che viene attribuito alle cose attraverso i giudizi – che sia-
no conoscitivi o morali, “questo è vero”, “questo è buono” – avvie-
ne attraverso delle “trasposizioni”, delle metafore e metonimie.
Valori e giudizi non corrispondono alla realtà, sono effetti lin-
guistici, i concetti di vero, di giusto, di buono, sono in realtà tropi
della retorica. Confondiamo la realtà con le nostre costruzioni su di
essa, nate dal bisogno tutto e solo umano di accordo e di tutela.

Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metoni-


mie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che so-
no state trasposte e adornate poeticamente e retoricamente e che, do-
po un lungo uso, appaiono a un popolo salde, canoniche e vincolanti.
Le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono illusioni, me-
tafore che si sono logorate e hanno perduto la loro presa sensibile, mo-
nete che hanno perduto la loro immagine e vengono ora prese in con-
siderazione semplicemente come metallo, non più come monete. Con-
tinuiamo a non sapere da che cosa scaturisce l’impulso verso la veri-
tà. Giacché finora abbiamo sentito parlare solo dell’obbligo che la so-
cietà impone, per esistere, di essere veritieri, ossia di servirsi delle me-
tafore usuali, il che, espresso in termini morali, significa: dell’obbli-
go di mentire secondo una convenzione stabilita, di mentire tutti in-
sieme in uno stile vincolante per tutti. (ivi, 131).

Il fatto che conoscenza e morale non siano vincolate alla realtà ma


arbitrarie, non le rende per questo meno costrittive. Lo stesso con-
cetto, trasmesso di generazione in generazione, si consolida, acqui-
sta l’apparenza di una necessità e diventa vincolante, parola che le-
ga, per la comunità. Tuttavia, conclude Nietzsche: “l’indurirsi e ir-
rigidirsi di una metafora non garantisce assolutamente nulla quan-
to alla necessità e all’esclusiva legittimità di detta metafora (ivi,
135).

Rintracciare la provenienza

La verità dunque non esiste, non è reale, è frutto di bisogni fisici che,
trasposti attraverso il linguaggio e la retorica, diventano condivisi
per arbitrio e convenzione. Tale conclusione crea il terreno per
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Nietzsche per intraprendere una “critica del valori morali, si deve


mettere una buona volta in questione il valore stesso di questi va-
lori – e per questo è necessaria una conoscenza delle condizioni e
circostanze su cui essi sono cresciuti” (Nietzsche 1887, 51). L’in-
dagine lo condurrà a sostenere che i valori che vanno sotto i nomi
di verità e di morale sono stati stabiliti da chi aveva più bisogno di
tutelare la propria sopravvivenza, i deboli, gli inermi, e a trarne la
conseguenza di una rivolta contro tali valori da parte di chi non ha
bisogno di tale tutela. Una conclusione che, presa alla lettera, ricorda
l’intervento di Callicle nel Gorgia platonico e riecheggia la sinistra
retorica nazista della legge del più forte, che prenderà piede di lì a
qualche decennio.
Tuttavia la fecondità della tesi di Nietzsche è espressa nella se-
conda parte del suo intento, la necessità cioè di indagare le condi-
zioni e le circostanze in cui sono nati e si sono consolidati verità e
valori. Questa fecondità si sviluppa in due direzioni: da una parte,
le questioni della politica sono sottratte al campo della conoscenza
e della retorica; essendo in gioco il corpo, non di opinioni si tratta,
bensì di espressione di esigenze, urgenze, di stili di vita (vedi capi-
tolo 5). Dall’altra, i valori non sono più considerati nella loro fissi-
tà, ma alla luce della loro genesi, storica e sociale. Michel Foucault,
attento alla dinamiche che precedono e costituiscono il discorso so-
cialmente accetto, riprende da Nietzsche il metodo “genealogico” di
indagine, metodo che indaga condizioni e circostanze entro cui
emerge la distinzione tra dicibile e indicibile, tra vero e falso, tra be-
ne e male:

Ciò che Nietzsche chiama l’“Entstehungsherd” [l’emergenza] del con-


cetto di buono, non è esattamente né l’energia dei forti, né la reazione
dei deboli; ma appunto questa scena dove si distribuiscono gli uni di
fronte agli altri, gli uni al di sopra degli altri; è lo spazio che li ripar-
tisce e si scava fra di loro, il vuoto attraverso il quale scambiano mi-
nacce e parole. L’emergenza designa un luogo di scontro; pure biso-
gna guardarsi dall’immaginarlo come un campo chiuso, dove si svol-
gerebbe una lotta, un piano dove gli avversari sarebbero uguali; è
piuttosto – e l’esempio dei buoni e dei cattivi lo prova – un “non luo-
go”, una pura distanza, il fatto che gli avversari non appartengono ad
uno stesso spazio. Nessuno è dunque responsabile di un’emergenza,
nessuno può farsene gloria; essa si produce sempre nell’interstizio
(Foucault 1971, 39).
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Assumere che la verità non esiste in sé ma è debitrice di ciò che ac-


cade su un’altra scena, non conduce dritto alla conclusione che tut-
to è lecito per i forti, al contrario recupera per lo sguardo l’incredu-
lità nei confronti dei valori costituiti, così da poter individuare nel-
la storia i momenti in cui l’interesse di una parte prevale per poi am-
mantarsi della retorica del giusto e del vero, e presentarsi come l’u-
nica realtà legittima e dunque vera. Il metodo genealogico finisce
per dare la precedenza all’indagine sulla giustizia e l’ingiustizia
che generano la verità: la politica precede la conoscenza.
È in questo senso che Foucault può ricondurre il vero e falso di
un discorso, non a dei contenuti, non alla correttezza delle procedure
argomentative, bensì a ciò che accade nella vita associata.

Certo, se ci si situa a livello di una proposizione, all’interno di un di-


scorso, la partizione tra il vero e il falso non è né arbitraria, né modi-
ficabile, né istituzionale, né violenta. Ma se ci si situa su altra scala, se
ci si pone la questione di sapere quale è stata, qual è costantemente, at-
traverso i nostri discorsi, questa volontà di verità che ha attraversato
tanti secoli della nostra storia, o qual è, nella sua forma generalissima,
il tipo di partizione che regge la nostra volontà di sapere, allora ve-
diamo profilarsi qualcosa come un sistema d’esclusione (sistema sto-
rico, modificabile, istituzionalmente costrittivo).
Ora, questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, pog-
gia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata in-
sieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, co-
me il sistema dei libri, dell’editoria, delle biblioteche, come i circoli
eruditi una volta, i laboratori oggi. Ma essa è anche riconfermata, sen-
za dubbio più profondamente, dal modo in cui il sapere è messo in ope-
ra in una società, dal modo in cui è valorizzato, distribuito, ripartito, e
in certo qual modo attribuito. Ricordiamo qui, a titolo puramente sim-
bolico, il vecchio principio greco: l’aritmetica può ben riguardare le
città democratiche, poiché insegna i rapporti d’eguaglianza, ma solo la
geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa dimostra
le proporzioni nell’ineguaglianza.
Credo insomma che questa volontà di verità, così sorretta da un sup-
porto e da una distribuzione istituzionali, tenda ad esercitare sugli al-
tri discorsi – parlo sempre della nostra società – una sorta di pressio-
ne e quasi un potere di costrizione (Foucault 1970, 7-9).

Tra i supporti istituzionali viene individuato il complesso delle isti-


tuzioni educative e culturali, la pedagogia, l’editoria, le biblioteche,
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i laboratori. La pretesa di verità del discorso pubblico e sociale va


pensata, e rintracciata nelle sue emergenze, seguendo il doppio or-
dine degli istituti scientifici e di quelli educativi.

La prova

È nota la ricerca foucaultiana sulla costruzione della follia a opera


delle discipline mediche, una costruzione che si avvale del lin-
guaggio scientifico tanto quanto giuridico. Verità e giustizia intrat-
tengono, come abbiamo visto, rapporti stetti, se non necessari, fin
dagli inizi della tradizione occidentale: chi sa dire il vero saprà an-
che essere giusto. In epoca moderna, nota Foucault, questo legame
assume la consistenza delle istituzioni: quelle volte a regolamenta-
re la giustizia e quelle socialmente qualificate a enunciare la verità
si incontrano, il tribunale e l’uomo di scienza collaborano. Alla lu-
ce di queste considerazioni storiche persino l’appoggio “duro” alla
pretesa di verità, la prova che risulta in laboratorio, la prova che vie-
ne prodotta in tribunale, assumono tratti che chiamano a indagare i
processi attraverso cui vengono stabiliti i criteri per i quali una se-
rie di osservazioni o di argomentazioni assumono il valore di “pro-
va”, il valore di convalida e di legittimazione di quanto si va asse-
rendo e delle sue conseguenze svolte in un modo che si presuppo-
ne rigoroso e scientifico.

Sono piuttosto rari, in una società come la nostra, i discorsi che pos-
siedono insieme tre proprietà. La prima proprietà è quella di poter de-
terminare, direttamente o indirettamente, una decisione giudiziaria
che, in definitiva, riguarda la libertà o la detenzione di un uomo. Al li-
mite (e avremo modo di vederne dei casi), riguardano la vita e la mor-
te. Sono dunque discorsi che possono avere un potere di vita e di mor-
te. Seconda proprietà: da che cosa ricavano questo potere? Forse lo
prendono dall’istituzione giudiziaria. Ma lo prendono anche dal fatto
che essi funzionano nell’istituzione giudiziaria come discorsi di veri-
tà – discorsi di verità perché discorsi a statuto scientifico o formulati
esclusivamente da persone qualificate all’interno di un’istituzione
scientifica. Discorsi che possono uccidere, discorsi di verità e infine
(terza proprietà) discorsi – voi ne siete la prova e i testimoni [allusio-
ne alle risate che hanno accompagnato la lettura delle perizie psichia-
triche] che fanno ridere. I discorsi di verità che fanno ridere e che han-
no insieme il potete istituzionale di uccidere sono dopo tutto, in una so-
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cietà come la nostra, discorsi che meritano una qualche attenzione


(Foucault 1974-1975, 17).

La prova non ha solo il potere limite di dare la vita e la morte, ma


anche quella, forse meno tragica ma non meno efficace nelle vite
singolari, di distinguere chi è sano da chi è malato – pensiamo alle
classificazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, mo-
dificando una riga del loro rapporto, determinano la definizione di
una malattia quale “pandemia” e provocano campagne governative
che invitano tutta la popolazione a vaccinarsi, in quanto tutti e cia-
scuno “potenzialmente malati”.
Ma esiste anche una diversa accezione di prova, quella che im-
pedisce che tutto sia dicibile, quella che interrompe il falso ragio-
namento basato su false premesse, che ci inganna per la sua co-
erenza interna, quella che ci salva dal cancellare la memoria. Que-
sta prova non mira alla sanzione, non parla la lingua della colpa o
della malattia ma, nelle parole di uno storico, è quella che determi-
na, nella memoria collettiva, la posizione delle vittime di ingiusti-
zia e dei responsabili: sul terreno delle vicende umane, mutevoli,
contingenti, la prova non ha il valore di evidenza ultima, istanza di
condanna, bensì viene adottata da chi “sottomette i materiali della
ricerca a una verifica incessante […] si va a tentoni, come il co-
struttore di violini che procede battendo delicatamente le nocche sul
legno dello strumento” (Ginzburg 2000, 11) (vedi capitolo 6).

Educazione e grammatica sociale

Nella partizione che individua il discorso vero, dunque valido e


dunque socialmente utile, anche l’educazione svolge un ruolo cru-
ciale. Per quanto si possa dire che è un diritto e lo strumento attra-
verso cui ciascun individuo accede a qualsiasi tipo di discorso, la sua
distribuzione, i gradi reali di tale accesso, tradisce la propria “emer-
genza”, quelle dinamiche cioè che, di periodo in periodo, prendono
consistenza attraverso le distanze, le contrapposizioni e le lotte so-
ciali (Foucault 1970, 22-23) (vedi capitolo 2 e capitolo 5).
Eco di queste considerazioni si ritrovano, in merito alla società
italiana del periodo fascista, nel breve testo di Antonio Gramsci
Note per un’introduzione allo studio della grammatica (1935).
Quando parliamo “spontaneamente” seguiamo nondimeno delle re-
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gole, si tratta della “grammatica immanente”. Questa grammatica


non coincide con le regole grammaticali linguistiche canonizzate dai
testi e dalle istituzioni educative, non coincide neanche con il con-
trollo e l’insegnamento reciproci o con una certa “censura” – come
quando ci viene chiesto “cosa vuoi dire?” e veniamo esortati a spie-
garci meglio. Si tratta piuttosto di un complesso di azioni e reazio-
ni che determinano un conformismo linguistico, che stabiliscono
criteri per giudicare della correttezza o meno di un discorso e che,
nello stabilire norme, definiscono un certo tipo di “grammatica nor-
mativa”. Questa consiste in dinamiche linguistiche discontinue, lo-
calizzate, non omogenee né unificate: “Un contadino che si inurba,
per la pressione dell’ambiente cittadino, finisce col conformarsi al-
la parlata della città; nella campagna si cerca di imitare la parlata
della città; le classi subalterne cercano di parlare come le classi do-
minanti e gli intellettuali, ecc.” (Gramsci 1935, 249). Rispetto alla
realtà che ha presente, Gramsci indica come l’uso di una gramma-
tica considerata “spontaneamente” come corretta esprima le dina-
miche sociali per le quali i criteri di correttezza linguistica di un
gruppo dirigente vengono consensualmente adottati da altri gruppi
che lo riconoscono come tale.
Un’ulteriore tappa di questa analisi passa a esaminare il tipo di
grammatica che invece tende a unificare questi disparati processi di
conformazione locale, la “grammatica storica normativa”, che im-
plica la scelta di una lingua comune nazionale, che è sempre la
scelta di “un indirizzo culturale, cioè un atto di politica culturale-na-
zionale” (ivi, 250), che opera anche e soprattutto attraverso le isti-
tuzioni pedagogiche ed educative. Gramsci individua poi i “focolai
di irradiazione” di innovazioni linguistiche e di omogeneità nazio-
nale, tra i quali annovera, la scuola, i giornali, ma soprattutto, cosa
che porta queste considerazioni più vicine al nostro tempo, “il tea-
tro, il cinematografo sonoro, la radio” (251).
Non il teatro e il cinematografo, ma la televisione e internet. In
che modo si ridefiniscono tali tesi in un’epoca in cui la comunica-
zione massmediatica sembra assorbire ed esaurire il campo della po-
litica, in una sorta di inversione del rapporto tra politica e linguag-
gio che aveva formulato Aristotele? Sembra infatti che non sempre
la vita associata trovi il proprio dispiegamento nel linguaggio, ben-
sì che la politica, in particolare e soprattutto la politica istituziona-
le, sia costituita dal linguaggio, o meglio, dalla comunicazione,
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quando non da una rinnovata arte di “raccontare storie” (vedi capi-


tolo 1).
Gli spin doctors, evoluzione degli addetti governativi alle pub-
bliche relazioni, i portavoce, le dichiarazioni dei capi di governo e
di partito, sembrano essere oggi veicolo non di informazione, di re-
soconti di fatti, bensì di ideologie, vale a dire di opinioni già predi-
sposte che vengono proposte e ricevute a sostegno dell’azione po-
litica. Le dichiarazioni si avvicendano a seconda delle circostanze
e delle opportunità del momento – in una parodia dell’amore per la
contingenza invocata ancora da Arendt – senza per questo essere
meno ascoltate e recepite, senza perdere il loro valore performativo.
In questo caso, ad essere finite sono le ideologie come racconti si-
stematici, che compongono in un’unità le azioni dei singoli e il lo-
ro significato, ma non è finito il loro aspetto pregiudiziale, cioè
quell’aspetto che esonera dal rapporto con la realtà, con l’esperien-
za, e si svincola da qualsiasi prova e verifica. Mentre l’ideologia,
nella sua versione sia sistematica sia pregiudiziale, ha una direzio-
ne determinata, questa forma di comunicazione politica

si sottrae a ogni determinazione, come se fosse la peste. Aspira a es-


sere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta
in mezzo tra i due opposti. E quindi totalitaria in una misura molto
maggiore del totalitarismo politico tradizionale, perché comprende
anche e soprattutto l’antitotalitarismo. E globale nel senso che inclu-
de anche ciò che nega la globalità (Perniola 2004, 9).

Evidentemente la posta in gioco di tale stile linguistico non è né la


verità, né la legittimazione delle azioni e decisioni, bensì la soprav-
vivenza e la continuità dell’interesse di una parte. Torniamo così al-
la scena altra che costituisce la validità e la legittimità del discorso
politico a prescindere dal proprio valore di conoscenza e di realtà.

E la verità, allora?

Se accettiamo il disinganno su cui ci ha instradato Nietzsche e che


Foucault ha precisato, dobbiamo allora ritenere che, quando si trat-
ta di giustizia, la verità è solo il travestimento retorico e concettua-
le della parte che ha avuto la meglio? Oppure, viceversa, dobbiamo
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pensare, con Hannah Arendt, che in politica la verità non può ave-
re luogo, o si rifugerà nello sdegno per la mutevolezza degli affari
umani oppure uscirà sconfitta dall’esercizio del potere e delle sue
sanzioni?

Perché è così? Che cosa significa ciò, da un lato, per la natura e la di-
gnità dell’ambito politico e, dall’altro lato, per la natura e la dignità
della verità e della sincerità? E forse proprio dell’essenza stessa della
verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingan-
nevole? E che genere di realtà possiede la verità se essa è priva di po-
tere nell’ambito pubblico, il quale, più di ogni altra sfera della vita
umana, garantisce la realtà dell’esistenza agli uomini che nascono e
muoiono[…]? Infine, la verità impotente non è forse disprezzabile
quanto il potere che non presta ascolto alla verità? Si tratta di questioni
scomode, ma che sorgono necessariamente dalle nostre convinzioni
correnti in materia (Arendt 1971, 29-30).

L’amore per la contingenza

La verità sarebbe insomma impotente e il potere sarebbe destinato


a essere ingannevole? L’alternativa non è questa. Arendt, pensatri-
ce della politica, tiene a precisare di non appartenere alla “cerchia
dei filosofi”, di non voler partecipare dell’ostilità che il filosofo nu-
tre, ricambiato, per la politica (1964, 33). Rifiutando l’alternativa
che già Callicle delineava, tra un pensiero impotente e disinteressa-
to agli affari umani, e un politica che non vuole saperne del vero,
prende in un primo momento la parte di quest’ultima. Tra la verità
del filosofo e l’opinione del cittadino, sceglie questa, perché la ve-
rità assoluta colpisce alle radici stesse ogni politica, ogni governo –
Arendt ha in mente quella verità che pretendendosi assoluta diven-
ta fissa, non richiede alcun consenso, ma procede nella propria ap-
plicazione fino a distruggere gli esseri umani.
E tuttavia Arendt ha bene in mente l’avvertimento di Platone che
distingue tra la comunicazione attraverso il dialogo, propria del fi-
losofo, e la comunicazione retorica del demagogo, che persuade la
folla, distinzione che ritorna in Hobbes quando separa il ragiona-
mento solido, dotato di verità, dall’eloquenza efficace, che induce
all’azione a prescindere dalla sua capacità di dimostrare quanto det-
to. Con la separazione tra Chiesa e Stato, con il conseguente ab-
bandono dell’idea che sia la verità rivelata a dover guidare gli affa-
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ri umani, e il declino dell’idea che debba essere la verità filosofica


a guidare il politico, parrebbe che la tensione tra verità e politica si
sia risolta. Tuttavia, come abbiamo visto, mai come nel Novecento,
che pure a tratti ha tollerato una pluralità senza precedenti di opi-
nioni su temi religiosi o filosofici, la politica ha portato attacchi co-
sì cruenti contro la verità.
L’alternativa consegnata da una tradizione secolare non pare
dunque finita, ma per comprendere in che modo la politica rinnovi
il suo attacco alla verità è necessario riconsiderare che cosa si in-
tenda per verità. La pensatrice constata che menzogna di Stato e
ideologia hanno un tratto in comune, il disprezzo per i fatti: se la pri-
ma li manipola o li sopprime, la seconda li conosce ma intenzio-
nalmente e sistematicamente li nasconde. Le verità consegnateci dai
fatti, risultanti dal vivere e dall’agire insieme, costituiscono la fibra
stessa della politica e sono fragilissime. Quando la politica come
esercizio del potere

attacca la verità razionale, oltrepassa per così dire – la propria sfera;


al contrario, quando falsifica o cancella i fatti, esso dà battaglia sul pro-
prio terreno. Le probabilità che la verità di fatto sopravviva all’assal-
to del potere sono veramente pochissime; essa rischia sempre di esse-
re bandita dal mondo, non solo temporaneamente, ma potenzialmen-
te per sempre. Fatti ed eventi sono cose infinitamente più fragili degli
assiomi, delle scoperte e delle teorie – anche di quelle più follemente
speculative – prodotte dalla mente umana; essi accadono nel campo
perpetuamente mutevole degli affari umani, nel cui flusso non vi è nul-
la di più permanente della permanenza, per comune ammissione rela-
tiva, della struttura della mente umana. Una volta persi, nessuno sfor-
zo razionale li potrà più riportare (ivi, 35).

La decisa scelta di Arendt a favore del mondo umano, della verità


fragile che vi può avvenire e della resistenza al potere quando que-
sto la vuole negare o cancellare, ci consegna allora alla conclusio-
ne che la contingenza – pur rispettando la mutevolezza che caratte-
rizza l’ambito umano – sembra non poter mai aspirare ad essere né
falsa né vera? Neanche qui l’alternativa è questa. È necessario ri-
definire, stavolta, cosa sia la politica: “per amore del mondo” e del-
l’esperienza – così stravolta dalle ideologie totalitarie – Arendt ci
consegna una politica che non coincide con il potere, le sue istitu-
zioni, il suo esercizio. Piuttosto, riprendendo in modo originale il
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pensiero di Aristotele, la politica è la condizione umana stessa e di


questa ha le caratteristiche: nascere, dare inizio a qualcosa di inedi-
to, essere per e insieme ad altri.

La libertà in quanto intima capacità umana si identifica con la capaci-


tà di cominciare, come la libertà in quanto realtà politica si identifica
con uno spazio di movimento fra gli uomini. Sull’inizio nessuna logi-
ca, nessuna deduzione cogente ha alcun potere, perché la sua catena
presuppone l’inizio, sotto forma di premessa. Come il ferreo vincolo
del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni nuovo esse-
re umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo
(Arendt 1948, 648).

Insieme a questa ridefinizione della politica, la pensatrice ci conse-


gna infine una ridefinizione della parola dotata di valore politico:
non la parola persuasiva e seduttiva del retore di fronte a una folla
di insipienti e passivi, non la parola violenta o coercitiva del politi-
co nel trattare i conflitti con altri stati e altri popoli, bensì la parola
dotata di autorevolezza che è vincolante per altri, pur lasciandoli li-
beri; parola che è più di un consiglio e meno di un ordine, nell’es-
sere pronunciata porta a un aumento della realtà per chiunque la pro-
nunci, la ascolti, ne partecipi (1961a, 132 e 167) (vedi capitolo 5).

L’attenzione al necessario

Un’altra pensatrice del Novecento, che partecipa agli eventi trau-


matici e devastanti dell’epoca – seguirà le vicende postirivoluzio-
narie dell’Unione Sovietica, parteciperà alla Guerra civile in Spagna
e alla seconda guerra mondiale – è Simone Weil, che abbraccia in-
vece in modo assoluto l’istanza della verità. In una ripresa dei pri-
missimi passi della tradizione occidentale – non Socrate e Platone,
né i presocratici, bensì i poemi omerici – Weil torna sul tema della
giustizia, dell’equità di parola e di giudizio su vincitori e vinti – per
constatare che “a malapena ci si accorge che il poeta [dell’Iliade] è
greco e non troiano” (1953, 39).
Tale equità però non è significativa per l’imparzialità che di-
mostra, bensì perché – in una certa risonanza con quanto dice Arendt
– si rifiuta di cancellare i fatti e le azioni di una parte solo perché è
stata vinta. I vinti, dire la verità su cosa ne è stato di loro, significa
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sottrarsi alla Storia che “non è altro che una compilazione delle de-
posizioni fatte dagli assassini circa le loro vittime e se stessi” (1942-
1943, 95). Con un accento opposto alle conclusioni di Nietzsche,
Weil ci propone un approccio che ricorda quello genealogico: ritro-
vare, saper ascoltare la fragilità al di là della parola e delle rappre-
sentazioni convenzionali con cui l’umanità vincitrice ritrae se stes-
sa e le proprie azioni.
Per questa via Weil lega la verità alla dimensione vitale della ne-
cessità e si allontana dalle considerazioni di Arendt sull’immagina-
zione e sul mentire, quale capacità tutta umana di negare l’esisten-
te e dunque aprire lo spazio per un nuovo inizio. Non è però la ne-
cessità della logica, dei giudizi veri in quanto svolti secondo proce-
dure argomentative corrette, si tratta della necessità che coinvolge
l’essere, la vita per intero. “È solo la necessità che mette a contatto
lo spirito con la verità” (Q IV, 156), la necessità delle costrizioni ma-
teriali – Weil racconta in La condizione operaia della sua esperien-
za in fabbrica e di come questa l’abbia tolta dalle illusioni, ripor-
tandola a percepire l’autentica condizione umana. È nell’esperien-
za concreta, corporea e materiale del mondo, delle relazioni umane,
che la necessità genera una conoscenza vera: “La verità non si tro-
va mediante prove, ma mediante esplorazione. Essa è sempre spe-
rimentale. Solo la necessità è altresì oggetto di esplorazione” (ivi,
169). La verità è così calata interamente nella vita umana che, tut-
tavia, è costantemente lacerata dalle contraddizioni della sopraffa-
zione e della violenza. Saper giudicare secondo verità significa al-
lora saper vedere le contraddizioni necessarie dell’umano e saper
agire di conseguenza, secondo giustizia.
Weil sa però anche leggere l’aria del suo tempo e, analogamen-
te ad Arendt, si accorge che i tempi non sono favorevoli alla cono-
scenza del necessario: l’utilità ne ha preso il posto, “poiché l’uomo
dirige immediatamente i suoi sforzi verso un qualche bene. Ma al-
lora l’intelligenza non ha più qualità per definire quest’utilità, né per
definirla, ha solo il permesso di servirla” (1966, 171-172). L’im-
mediatezza dell’azione che mira al proprio fine, toglie il tempo del-
l’“attenzione”. Contrariamente ad Arendt, per Weil è attraverso la
letteralità che si può arrivare alla realtà, disfacendosi di illusioni in-
teriori o indotte dall’esterno:

Metodo per comprendere le immagini, i simboli, ecc. Non tentare


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d’interpretarli, ma fissarli finché la luce sgorga. E questo perché si de-


ve temere di diminuire la loro realtà illegittimamente[…] È meglio ri-
schiare di prenderli troppo alla lettera che troppo poco. Dapprima li si
deve prendere del tutto alla lettera, e contemplarli così, a lungo. Poi
prenderli un po’ meno alla lettera e contemplarli così, e così di segui-
to per gradi. Quindi tornare di nuovo a prenderli del tutto alla lettera.
E bere la luce, qualunque essa sia, che sgorga da tutte queste contem-
plazioni. […] In generale: metodo per esercitare l’intelligenza, che
consiste nel guardare fissamente. […]
Applicazione di questo metodo per discernere il reale dall’illusorio.
Nella percezione sensibile, se non si è sicuri di ciò che si vede, ci si
sposta tenendo fisso lo sguardo (ad esempio si fa il giro) e il reale ap-
pare. Nella vita interiore, il tempo prende il posto dello spazio. Con il
tempo si è modificati, e se attraverso le modificazioni si conserva lo
sguardo orientato su una certa cosa, alla fine l’illusione si dissipa, il
reale appare. La condizione è che l’attenzione sia uno sguardo e non
un attaccamento. L’attaccamento fabbrica illusioni, e chiunque vuole
il reale deve essere distaccato (Q II, 292-293).

Le due pensatrici condividono l’amore per la realtà: l’assunto che è


attraverso e vicino alla realtà che può sorgere la verità. Questa, per
Weil, ha bisogno di un tempo entro cui possa svolgersi l’attenzione
e possa formularsi un giudizio. La capacità umana di stare presso la
realtà consiste nell’arrivare a formulare un giudizio secondo verità
(vedi capitolo 4) ma, se per Arendt questo giudizio sarà sempre
mutevole perché propriamente umano, Weil manifesta la consape-
volezza che non è possibile porsi in una regione che sia al riparo dal-
le contraddizioni umane, dalle inclinazioni alla sopraffazione e al-
la violenza. Per conseguire giustizia e verità l’unica via è dunque
quella di una sperimentalità estrema.

Riferimenti bibliografici

Hannah Arendt (1948), Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009


Hannah Arendt (1961), Verità e politica, in EAD. Verità e politica, a cura di
Vincenzo Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995
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Hannah Arendt La menzogna in politica. Riflessioni sui “Pentagon Papers”
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SECONDA PARTE

…ANZI, PARLA
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4.

FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE

Un giorno imprecisato del 1627 Catherine de Vivonne, marchesa di


Rambouillet, ebbe la sorpresa di ricevere la visita di padre Joseph, l’E-
minenza Grigia di Richelieu. Tallemant des Réaux racconta come, do-
po i primi convenevoli, il potente cappuccino spiegasse le ragioni del-
la sua presenza in rue Saint-Thomas-du-Louvre. Richelieu gli aveva
affidato l’incarico di esprimere alla marchesa il suo compiacimento per
l’importante trattativa diplomatica che Monsieur de Rambouillet sta-
va conducendo in Spagna e le rinnovava l’assicurazione della propria
benevolenza. In cambio, però, “bisognava che ella desse a Sua Eccel-
lenza una piccola soddisfazione a cui teneva molto, perché un primo
ministro non poteva mai eccedere in precauzioni. In una parola: il
cardinale desiderava che ella lo mettesse al corrente degli intrighi di
Madame la Princesse e del cardinale di La Valette. La risposta della
marchesa era stata categorica: non credeva affatto che Madame la
Princesse e il cardinale di La Valette avessero degli intrighi, ma quan-
d’anche fosse stato così, “non si sentiva portata per il mestiere della
spia”. La richiesta di Richelieu non era, dopotutto, tanto oltraggiosa:
[…] egli chiedeva alla marchesa di dimostrare in modo tangibile la sua
lealtà al trono, e in cambio offriva a lei e a suo marito la garanzia del
favore reale. […] Il secco rifiuto della marchesa non era una sfida ari-
stocratica al ministro che in quegli anni richiamava all’ordine la no-
biltà ribelle con il carcere e con la scure […] Madame de Rambouil-
let si limitava semplicemente a rivendicare la sua libertà privata, il di-
ritto di vivere con chi e come più le pareva nella sua dimora. Eppure,
così facendo, la marchesa compiva un gesto inaugurale: attraverso di
lei la società civile proclamava la sua autonomia dalla politica e rifiu-
tava le ingerenze del potere nella sfera della vita privata. […] non ob-
bediva alle vecchie logiche del potere, non aveva bisogno né di mini-
steri, né di eserciti, né di ricchezze, si affidava al puro gioco delle idee
e non aveva ancora trovato un nome. Si sarebbe chiamata Opinione e
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102 FEDERICA GIARDINI

si sarebbe rivelata, soltanto un secolo dopo, una minaccia per l’ordi-


ne costituito. […] Alla marchesa di Rambouillet spetta dunque l’ono-
re di aver inaugurato la vita di società in Francia e di aver presieduto,
per oltre quarant’anni, il primo centro mondano del XVII secolo. Ri-
petuta da un libro all’altro, quest’affermazione è diventata un assioma
(Craveri 2001, 21-23).

Il gesto di Madame de Rambouillet apre uno spazio che non è né do-


mestico né istituzionale: la sua casa, il suo salotto, pur privato e sot-
tratto per una parte agli editti del re e ai voleri di Richelieu, diven-
terà lo spazio ospitale di tutto un mondo, governato da donne edu-
cate, che presto detteranno “legge” in materia di comportamento, le
Preziose. Donne che, non accettando di deprezzarsi, trovano tutta-
via una misura e un valore non previsti dai loro tempi.
Tale gesto si compie nel corso di una lunga crisi dell’aristocra-
zia, crisi economica e di identità: gente di spada, adusa ad ammini-
strare terre e giustizia, si trova travolta dalle trasformazioni tecniche
e mercantili e, pur cercando di rivalersi sui contadini, vede le ren-
dite terriere ridursi drasticamente. Al tempo stesso i valori virili
della violenza e dell’eroismo guerrieri vengono minati dall’affie-
volirsi delle guerre e dalla politica di Luigi XIV che costringe la no-
biltà alla vita di corte, nello spazio fastoso, ma lontano dai centri del-
l’amministrazione del potere, della reggia di Versailles.

La civiltà della conversazione

Questa crisi costituisce un’occasione che Mme de Rambouillet sa


cogliere: la resistenza a trasformarsi in dama di corte diventa la
spinta a creare un altro spazio di convivenza, dotato di altre regole.
È uno spazio non istituzionale, che non viene sancito nelle forme
consuete – non gode della legittimità che può provenire dalle isti-
tuzioni statuali e di potere o da quelle ecclesiastiche – piuttosto si
trova in un delicato equilibrio tra legge e costume, tra la resistenza
aristocratica al potere assoluto e l’idea, diffusa all’epoca, che il co-
stume, le abitudini e gli stili di comportamento, possano fare da cor-
rettivo alle leggi e ai loro abusi e ingiustizie. Mme de Rambouillet
sa investire di senso le zone che non ricadono sotto il controllo di-
retto del potere istituzionalizzato e delle sue sanzioni.
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 103

Questo spazio si apre e si consolida attraverso la parola, più pre-


cisamente attraverso la conversazione.

Mi sembra che tutti convengano sul fatto che Parigi è la città al mon-
do dove il gusto e lo spinto della conversazione sono più generalmen-
te diffusi: e quel che si chiama mal du pays, quel rimpianto indefini-
bile della patria, che è indipendente dagli amici stessi che vi si sono la-
sciati, concerne in particolar modo quel piacere di conversare che i
francesi non ritrovano in nessun altro luogo come da loro. Volney rac-
conta di certi francesi emigrati che, durante la Rivoluzione, volevano
fondare una colonia e dissodare delle terre in America, ma di tanto in
tanto tralasciavano tutte le loro occupazioni per andare, dicevano, “a
conversare in città”. E questa città, la Nouvelle Orléans, si trovava a
seicento leghe dalle loro case. In Francia il bisogno di conversare è co-
mune a tutte le classi sociali: qui la parola non è, come altrove, soltanto
un mezzo per comunicare idee, sentimenti, questioni d’affari, bensì
uno strumento che la gente ama suonare e che rianima gli spiriti, co-
me fa la musica presso taluni popoli e i liquori forti presso altri (Staël
1810, 101).

A quasi due secoli di distanza, nel riconoscimento della letterata e


influente Madame de Staël, che si vuole erede di tale spirito, la
conversazione non è solo un’arte del convivere accanto alle altre, è
diventata il tratto stesso che caratterizza il popolo francese. Nel
cuore dell’illuminismo, Diderot già lo riconosceva come tratto spe-
cificamente francese e ne dava un’illustrazione comparativa.

Nessuna nazione somiglia più a una famiglia. Un francese sciama nel-


la sua città più di dieci inglesi, cinquanta tedeschi, o cento mussulma-
ni nelle proprie. Nell’arco della stessa giornata sarà stato a corte, in cen-
tro, in campagna, in un’accademia, in un salotto, in banca, dal notaio,
dall’avvocato, dall’agente, dal nobile, dal commerciante, dall’artigia-
no, in chiesa, a teatro, e con le cortigiane. Ovunque è ugualmente libe-
ro e a suo agio. Si potrebbe dire che non ha mai lasciato casa ma è sem-
plicemente passato di stanza in stanza (Diderot 1774, 2: 382).

La ruelle: né privato, né di corte

Come si evolve questo spazio che in due secoli, tra il Seicento e il


Settecento, diventa carattere nazionale e paradigma di quella che,
nel Novecento, verrà chiamata sfera pubblica?
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104 FEDERICA GIARDINI

L’atto di Mme de Rambouillet appare a prima vista un atto di


idiosincrasia, un gesto individuale, dettato dall’insofferenza e che
a questa insofferenza dà corso. Tuttavia i risultati sviluppano ben ol-
tre tali premesse. Innanzitutto è gesto individuale ma non privato:
l’idion greco, che designava il greco isolato, fuori dagli affari co-
muni della città, diventa movente di creazione di una società, ha
quindi dalla propria non l’isolamento bensì l’invenzione di una nuo-
va forma di vita associata. In secondo luogo, si tratta di un gesto di
sottrazione e di creazione al contempo, poiché con l’abbandono del
campo della politica istituzionale, organizzata all’epoca nella forma
del regime assolutistico, la scelta non è quella di ritirarsi nel dome-
stico o nel privato bensì di aprirsi al mondo. Contro il lato asfittico
e artificioso dei rituali di corte, viene infatti inventata la “vita mon-
dana”, condivisa nella ruelle – lo spazio che separava il letto dalla
parete – da una compagnia di eletti che si considerano e trattano da
uguali.
Staël, quando registra come “il bisogno di conversare è comu-
ne a tutte le classi sociali”, tiene conto del processo ugualitario che
è stato massicciamente innescato dalla Rivoluzione francese, e tut-
tavia, già all’epoca di Mme de Rambouillet, la cooptazione e l’e-
sclusione dai salotti non rispettava più le gerarchie nobiliari e di cor-
te. Potevano essere scelti e introdotti anche membri non apparte-
nenti all’aristocrazia, come illustra bene il caso del ricercatissimo
Voiture, figlio di un mercante di vini. Ne testimonia anche l’opera
di de Somaize, Il grande dizionario delle Preziose o la chiave del-
la lingua delle ruelles (1660) che utilizza la forma dell’elenco: ogni
voce del Dizionario corrisponde a un personaggio dei salotti, così
facendo stila una lista degli inclusi e dei privilegiati che tuttavia ap-
passiona anche gli esclusi, che ne terranno conto per coltivare le pro-
prie ambizioni di avanzamento. Una lista mobile, da aggiornare
continuamente, come mobili sono le frontiere di chi partecipa o
meno a quel mondo, in breve, al mondo.

Politesse e bienséance

Le donne, padrone e custodi di questo spazio nuovo, sono le autri-


ci dell’abbandono dello spirito di casta, della confusione dei ranghi
e di una nascente mobilità sociale. Data l’arbitrarietà dell’esercizio
del potere la conversazione interviene a regolare i rapporti sociali,
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 105

a sfumare le disuguaglianze e a dare “a ciascuno ciò che gli era do-


vuto” (Staël 1810, 105). Il criterio d’appartenenza viene infatti spo-
stato dall’appartenenza al merito, dove quest’ultimo consiste nella
partecipazione ai valori della vita mondana, dettata dalle regole del-
la politesse, della bienséance e del naturel.
La politesse interviene sulla crisi dei valori eroici e guerreschi
dell’aristocrazia – sostituisce all’uso della forza il brio e la felicità
di espressione – e riguarda una serie di modi di vivere, di agire, di
apparire che vengono acquisiti solo attraverso l’uso e la frequenta-
zione. La conversazione è innanzitutto uno stile, una pratica, che si
trasmette e si impara solo praticandola e vedendola praticare, non è
un sapere che prescinde dalla reciproca presenza, non è un metodo
che si può apprendere in astratto. È piuttosto lo stile espresso da
comportamenti, dal gusto, dalla scelta dei divertimenti, che diven-
ta lo spartiacque dell’appartenenza, è la bienséance – il sapersi te-
nere, comportare, bene – che assume una fisionomia definita eppu-
re mobile, corpo di leggi che, per quanto non scritte, ha più potere
di qualsiasi norma. Mme Geoffrin, per interrompere un ospite fuo-
ri registro o importuno, non aveva bisogno di ricorrere a una frase
brusca nei contenuti, le bastava la sottolineatura ironica di un “voi-
là qui est bien” (“ecco, proprio”), per ottenere l’effetto desiderato.
Con analoga leggerezza, la raillerie, il motto di spirito che prende
in giro, non è un’abilità spontanea, bensì il frutto di un severo ap-
prendimento: saper scherzare con grazia, intrattenersi felicemente su
tutti gli argomenti richiedono abitudine al mondo, cortesia, fecon-
dità, esprimono la capacità di “creare e fare qualcosa dal niente”, di-
ce La Bruyère.
Politesse e bienséance non possono però ridursi alla sole forme,
per essere convincenti devono trasmettere un coinvolgimento per-
sonale. Così la complaisance, il desiderio di piacere agli altri, che è
d’obbligo, viene disconosciuto quando tradisce l’amore di sé anzi-
ché l’interesse per l’altro. La conversatrice di talento non penetra la
psicologia del suo interlocutore per meglio sedurlo, esercita piutto-
sto una funzione maieutica.

Nell’incoraggiarlo a esprimersi, lo svelava in primo luogo a se stesso,


facendogli scoprire qualità che l’altro non credeva di possedere. In uno
scambio tra uguali, questo dono di “svelamento” non poteva che essere
reciproco: “Ho bisogno che mi si aiuti e mi si intuisca per poter capi-
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106 FEDERICA GIARDINI

re me stesso” dichiarava infatti Méré, e proprio di questo talento il suo


amico, il maresciallo di Clérambault, gli rendeva merito con compia-
ciuto stupore: “ Non appena incomincio a parlare ... voi mi capite me-
glio di quanto mi capisca io stesso, e se tutto quel che mi dite mi sem-
bra facile da capire, mi accade sovente di credere di averlo saputo an-
che prima che voi me lo diceste “ (Craveri 2001, 460-461).

Di questa attenzione all’altro come cardine delle pratiche dei salot-


ti è testimone un gioco, di società per l’appunto, il ritratto. Iniziato
da Mademoiselle de Scudéry con i suoi due romanzi, il Grand Cyrus
e Clélie (1649-1660), il ritratto a chiave era un modo perché i com-
ponenti del mondo potessero vedersi con gli occhi altrui, mettere al-
la prova l’immagine che ciascuno coltivava di sé con una restitu-
zione esterna.

L’educazione come naturel

Nella prima fase dei salotti, le Preziose sono dunque alleate e pa-
drone del linguaggio e delle regole di società, della loro società, che
gli danno misura. Lo spazio linguistico è uno spazio diverso da
quello della corte e, in questo caso, delle accademie. Siamo ancora
nell’epoca che affronta il problema della mancanza di istruzione del-
le donne, in Francia, come nell’Inghilterra di Mary Astell (vedi ca-
pitolo 2): una donna a prescindere dal proprio rango non dispone di
strumenti culturali adeguati a una convivenza che non sia quella, più
dimessa, dei rapporti familiari. Eppure, nella Francia del Seicento,
la mancanza di istruzione diventa un vantaggio femminile.
Sulla spinta dell’adozione, ad opera di Francesco I, del france-
se, che soppianta il latino, come lingua ufficiale nelle corti di giu-
stizia e nell’amministrazione, il dibattito sull’istituzione di norme
linguistiche unificate finisce per pendere dalla parte non dell’erudi-
zione bensì della parlata “naturale”: la lingua è una musica costituita
non da ricerche archeologiche e dotte, bensì dalle pratiche vive che
la costituiscono e la rinnovano costantemente.

Da quel momento, in Francia, l’arte della conversazione diventa in-


separabile dalla delicatezza quasi musicale e dalla curiosità più pun-
tuale rivolta all’enunciazione orale della lingua. Le donne, “ignoran-
ti” quanto i facchini, hanno un orecchio ancora migliore per giudica-
re questa musica e per suonarla (Fumaroli 1986, 280).
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 107

Saper parlare nel mondo non è così questione né di erudizione né di


tecnicismi, senza per questo però coincidere con l’ignoranza o con
un malinteso senso di spontaneità. In parte, per i motivi che si sono
visti poco sopra, il linguaggio nei salotti è sottoposto a nuove rego-
le, pratiche e vive, e che richiedono disciplina; in parte, perché eru-
dizione e tecnicismi – il linguaggio delle accademie e dell’ammini-
strazione – non coincidono con l’educazione.
Mentre la donna istruita, quella che si presume parli come i
dotti e gli amministratori, non è in fondo che una loro pallida re-
plica, destinata a colmare all’infinito quel divario; la donna edu-
cata, la bienséante è, di contro, curiosa, ricerca conoscenze che sia-
no utili a sé e agli altri, non prescinde mai di “unire la pratica alla
teoria”, e si dedicherà, a tale scopo principale e ben a ragione, al-
lo studio, dice Madame de L’Epinay all’abate Galiani in una lette-
ra del 1771.
La questione è dunque l’autonomia nel creare e alimentare la
propria lingua. Non l’affettazione di un sapere già codificato, ben-
sì il naturel di chi sa mettere in armonia carattere e conversazione,
inclinazioni singolari e desiderio di stare con altri. La lingua nel suo
grado naturale, non è spontaneità, dato che richiede disciplina, ap-
prendimento, attenzione alle sfumature e ai dettagli, sempre in mo-
vimento; ma non è nemmeno ostentazione dello studio che sta die-
tro a un’espressione “felice”, “ben trovata”. Piuttosto è l’espressio-
ne di corpo e presenza attraverso il linguaggio, che non li imita ma
li perfeziona, li ravviva, li esprime al meglio.
I testi che assecondano questa esigenza di riaccordare sapere e
linguaggio nella forma dell’educazione e non dell’erudizione sono
le massime e le sentenze – che accompagnano la forma orale del-
l’improvvisazione, del motto di spirito, della raillerie – non hanno
l’intento di istruire ma di far sapere e discutere. Attraverso l’osser-
vazione sistematica dei comportamenti, un’indagine psicologica
acuta, l’abitudine costante all’autoanalisi e al confronto con lo
sguardo altrui, l’esercizio puntiglioso dell’arte della parola, nasco-
no i corrispettivi letterari di tale attitudine, che indagano sulle pas-
sioni dell’essere umano, sulle sue debolezze e le sue anomalie e, so-
prattutto, sulla casistica amorosa. Psicologia e amore sono i due
campi su cui le donne educate per sensibilità, intuito e vita di mon-
do, possono eccellere senza passare per l’istruzione e conformarsi
a quella lingua: il gusto femminile diventa determinante, non solo
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108 FEDERICA GIARDINI

per stabilire i criteri della vita di società, ma anche per determinare


il successo o meno di un’opera.
A una di loro, Mme de Sablé, si deve l’invenzione della forma
testuale della recensione, intervento pubblico che verte su merito e
valore di un testo e sulla reputazione dell’autore. Le Preziose di-
ventano così le antesignane del pubblico, in un senso preciso, quel-
lo di uno spazio sottratto alle dinamiche e gerarchie del potere isti-
tuzionale e capace di creare autonomamente misure e valori.

Falsa o sincera, generosa o egoista, la politesse aveva introdotto in una


società articolata in “ordini “ un criterio di distinzione e un giudizio di
merito indipendenti, almeno in linea di principio, dalle gerarchie co-
stituite, e permetteva di partecipare su un piano di parità al commer-
cio del mondo e, nell’atto stesso di garantirne la coesione e regolarne
gli scambi, rendeva superfluo ogni altro principio di autorità (Craveri
2004, 482).

Questo senso verrà gradualmente perduto.

Socievolezza e società. Verso la sfera pubblica

Lo spazio così creato non è certamente istituzionale, ma non è nem-


meno “etico”: sebbene riguardi regole del comportamento, non si
basa su valori pertinenti alla sola interiorità, non si esprime in giu-
dizi che chiamano Dio a testimone, bensì in giudizi che riguardano
le relazioni tra uomini e donne e, ulteriormente, non in famiglia,
bensì nel “mondo”.
È in questa epoca che nasce il significato moderno di società.
L’antecedente è il termine sociabilité che, nel Settecento, designa le
forme di convivialità e di associazione nella Francia prerivoluzio-
naria. La sociabilité, la socievolezza, ha una serie di significati di-
versi, che ne mettono in rilievo, di volta in volta, le funzioni politi-
che e civili, i tratti dell’elezione e della gratuità e del piacere (Gor-
don 1994). Come abbiamo visto infatti, lo spazio del salotto nasce
da un atto di sottrazione, se non di disobbedienza, al volere del re e
allo spazio che offre, la reggia e i suoi cerimoniali. A questo si ag-
giunge un’atmosfera di educazione costante che, anch’essa ambito
che si sottrae a quelli esistenti, permette a donne e uomini adulti di
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 109

formarsi reciprocamente secondo nuove regole del linguaggio e del


comportamento. Come registrerà poi Staël, a fronte dell’arbitrarie-
tà delle istituzioni, della destabilizzazione dell’ordine della vita as-
sociata – l’aristocrazia francese che non può più definirsi secondo
valori e funzioni dei secoli precedenti – i salotti istituiscono una pri-
ma forma di legame tra estranei, che si stabilisce proprio attraver-
so la novità dei criteri adottati che soppiantano le gerarchie di ran-
go. Il tratto che riassume questi aspetti è la definizione di sociabili-
té come associazione il cui fine è il piacere stesso dello scambio: i
frequentatori dei salotti non mirano a conseguire obiettivi che va-
dano oltre la vita stessa del salotto e la convivialità che lì avviene.

È nella conversazione, nel supporto più ampio di ogni comunanza


umana, che si rivela infine in che misura la socievolezza porti a com-
pimento l’astrazione […] conferendo [alle forme sociologiche] un
corpo umbratile. L’elemento decisivo della conversazione si può espri-
mere attraverso un’esperienza del tutto banale. Nella serietà della vi-
ta uomini e donne discorrono intorno a un contenuto che intendono co-
municarsi o sul quale vogliono giungere a un accordo; nella socievo-
lezza, invece, il discorrere diventa fine a se stesso, non in senso natu-
ralistico, come nelle chiacchiere, ma nell’arte dell’intrattenimento che
segue le sue proprie leggi artistiche. Nella conversazione puramente
socievole il tema è solo l’indispensabile supporto agli stimoli che fan-
no sì che lo scambio reciproco tra chi discorre si svolga in modo vita-
le. La disputa e l’appello a norme riconosciute da entrambe le parti, la
conclusione della pace mediante un compromesso e la scoperta di
convincimenti comuni, l’accettazione riconoscente di ciò che è nuovo
e il congedo da ciò su cui non è auspicabile un’intesa sono le forme in
cui questo scambio si realizza (Simmel 1910, 53-54).

Simmel riconoscendo il tratto della gratuità e del piacere, e dunque


l’elemento vitale di tale scambio, ritiene però che la conversazione
dia all’associazione un corpo umbratile, nel duplice senso di una rin-
novata arbitrarietà – la velocità con cui si cambia argomento non ap-
pena questo assume una forma “seriosa” – e di un’ombra che viene
proiettata da questa autoreferenzialità.
In effetti di lì a poco lo spirito dei salotti e della loro sociabilité
viene assimilato nel nascente termine di società che porterà alle tesi
rivoluzionarie. Nell’articolo dell’Encyclopédie dedicato al termine,
la socievolezza è alla base della vita associata ma non garantisce al-
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110 FEDERICA GIARDINI

cunché sulle forme e sugli esiti di questi. Lo spazio nuovo dei salot-
ti viene ora valutato come una sfera non politica, nella dimentican-
za della sua funzione educativa e di mobilità sociale. La distanza da-
gli affari e dalle urgenze pragmatiche, invocate da Mlle de Scudéry,

quando le persone parlano solo sotto la spinta pratica dei loro affari,
questo non può chiamarsi conversazione […] è vero, quando un que-
relante perora il proprio caso di fronte ai giudici, un mercante che con-
tratta, un generale d’armata che dà ordini, un re che si intrattiene sul-
la politica con i propri consiglieri […] niente di tutto questo dovreb-
be essere chiamato conversazione (Scudéry 1680).

anziché essere lette come difesa di uno spazio inedito che si libera
attraverso stili di linguaggio e di comportamento, anziché essere vi-
sta come alternativa radicale all’uso politico del linguaggio – un uso
che si dispiega come grammatica del potere: “è grazie al linguaggio
che possiamo comandare e capire gli ordini, cosa di massima im-
portanza” (Hobbes, De homine) – diventa il segno di un’intrinseca
apoliticità dei salotti prerivoluzionari.
Si comincia così a separare, o a separare nuovamente, la sfera
politica da quella non politica. Abbiamo visto che a un contrattua-
lista e ispiratore di costituzioni come John Locke, Mary stell obiet-
ti di escludere dalla politica la parola delle donne, così come un se-
colo dopo farà Olympe de Gouges con i suoi compagni rivoluzio-
nari (capitolo 2). Il salotto, quale spazio intermedio, che non è pri-
vato e non è riconducibile alle istituzioni del potere, scompare a fa-
vore di rinnovate dicotomie.

L’opinione pubblica

Nel vuoto che così rimane emerge la nascente “sfera pubblica” che
esercita le funzioni educative e di dibattito che un tempo erano dei
salotti. Nello svolgimento di tali funzioni si forma l’idea di opinio-
ne pubblica, che non instaura più un legame tra stile di vita e lin-
guaggio, ma si basa piuttosto su quanto il linguaggio come comu-
nicazione possa esprimere dell’interesse di una parte, nel quadro
dell’organizzazione istituzionale e sociale dei rapporti di potere.
Non sorprende allora che Jürgen Habermas posticipi la nascita di
una parola pubblica alla metà del Settecento.
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 111

Anche in Francia, però soltanto dopo la metà del XVIII secolo, si for-
ma un pubblico che dibatte problemi politici. Prima della Rivoluzio-
ne esso non può tuttavia istituzionalizzare fruttuosamente i suoi im-
pulsi critici, come era stato possibile nell’Inghilterra contemporanea.
Senza l’approvazione della censura non può essere stampata nemme-
no una riga, il giornalismo politico non può, svilupparsi e la stampa pe-
riodica conduce, in complesso, una vita piuttosto grama. Il foglio uf-
ficiale che esce settimanalmente, il “ Mercure de France “, pur essen-
do il giornale più largamente diffuso ancora nel 1763 non ha più di
1600 abbonati, di cui quasi un terzo a Parigi, 900 in provincia e il re-
sto all’estero. Clandestinamente si leggevano giornali introdotti ille-
galmente nel paese, primi fra gli altri i fogli olandesi. Manca non so-
lo un giornalismo politico professionistico, ma anche l’assemblea dei
ceti che avrebbe potuto trasformarsi gradualmente, sotto il suo influs-
so, in una rappresentanza popolare: gli Stati Generali non sono stati più
convocati dopo il 1614. I parlamenti esistenti, le corti supreme di giu-
stizia, che in realtà rappresentano l’unica forza politica non del tutto
dipendente dal re, incarnano non le punte avanzate della borghesia, ma
le autorità intermedie imborghesite, nella misura in cui potevano an-
cora affermarsi contro il centralismo del regime assolutistico. Manca,
infine, anche la base sociale per siffatte istituzioni (Habermas 1962,
85-86).

La nascente opinione pubblica, così definita, mantiene sia il signi-


ficato del pensiero politico antico, il significato di doxa, di opinio-
ne che, diversamente dalla verità, è mutevole, può essere vera e poi
falsa (vedi capitolo 3), sia il significato parziale di reputazione agli
occhi altrui. La dimensione relazionale – fatta di attenzione, di arte
della parola e di acume – diventa qui dimensione collettiva che
guadagna in estensione ma perde in precisione. Per altro verso, a
fronte dell’estensione a una porzione sempre più ampia di parteci-
panti, l’opinione pronunciata nella sfera pubblica deve trovare altri
criteri di validità e di legittimazione. Secondo una dinamica, che ri-
calca quella della cittadinanza moderna (vedi capitolo 2), capace di
opinione pubblica sarà un pubblico illuminato che non coincide con
tutti gli esseri dotati di linguaggio.
Con la nascita, l’ascesa e il rapido declino degli idéologues
(1780-1810), uomini illuminati che pretendono di sviluppare una
conoscenza corretta, attraverso l’indagine della natura umana, si
afferma l’idea del ruolo degli “intellettuali”, uomini dotti che san-
no utilizzare la ragione a scopo di pubblica utilità. La ragione torna
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112 FEDERICA GIARDINI

qui in forza, perlomeno nella sua funzione di distinguere chi è in


grado di esercitare un’attività razionale, capace di giudizio, da chi
non lo è.
Pur essendo infatti riconosciuta come capacità umana, la ragio-
ne è però esercitata solo da alcuni. L’uscita dalla “minorità”, desi-
gnata da Kant come tratto specifico della Rivoluzione francese e
delle sue aspirazioni – l’emancipazione dall’incapacità di valersi del
proprio intelletto senza la guida di un altro – finisce per istituire una
figura legittimata, non tanto alla semplice opinione, ma all’opinio-
ne pubblica di fronte a un pubblico di lettori. Kant ha ancora pre-
sente, anche per esperienza diretta, la pratica di parola dei salotti,
quando afferma:

se si pone mente all’andamento della conversazione in compagnie


miste, delle quali fanno parte non solo dotti e sottili ragionatori, ma an-
che uomini d’affari e signore, si vedrà che, oltre il raccontare e lo
scherzare, esiste ancora un altro intrattenimento, il ragionare (Kant
1788, 183).

Tuttavia questa viene evocata più per dimostrare l’universale capa-


cità umana di ragionare che per estendere l’autorizzazione a for-
mulare opinioni pubbliche. L’opinione pubblica è piuttosto il risul-
tato illuminato, razionale, della riflessione sui fondamenti dell’or-
dine sociale che, se non governa direttamente, è comunque passibi-
le di indurre a atti di legittimazione e di ascolto da parte di chi go-
verna.

Dal Salotto al Parlamento

Attraverso l’evolversi delle forme istituzionali della politica, e de-


gli istituti della rappresentanza, è nel parlamento che il dibattito si
svolge e intrattiene rapporti stretti e contrastati con la sfera dell’o-
pinione pubblica. Karl Marx – nell’esaminare gli effetti della Rivo-
luzione francese sui regimi precedenti e sulla società dell’Ottocen-
to – considera che a una vita associata che aveva immediatamente
carattere politico, che riguardava le vite dei singoli e le forme che
si dava, subentra uno Stato che sopprime tale carattere politico sus-
sumendone in sé la funzione. E tale Stato, che pure si vuole espres-
sione del popolo e istituzione di diritto, non fa che esprimere gli in-
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 113

teressi di una parte. Se i meno abbienti e istruiti non intrattengono


rapporti di solidarietà e di reciproco riconoscimento, non saranno in
grado di far valere i propri interessi, non potranno rappresentare se
stessi, dovranno farsi rappresentare, ma tale rappresentanza è già vi-
ziata dagli interessi della parte che si è fatta Stato.
Nel considerare gli eventi che accompagnano la riformulazione
della Costituzione francese, la nascita della seconda Repubblica, il
plebiscito che riconferma al potere Luigi Bonaparte e lo porta al col-
po di stato e alla dittatura (1848-1852), Marx sottolinea come la sfe-
ra pubblica borghese postrivoluzionaria, pur avendo fatto del parla-
mento luogo di dibattito politico, non esiti a rinunciare a tali prero-
gative pur di mantenere lo status quo dei propri interessi:

Il regime parlamentare vive della discussione; come può proibire la


discussione? Ogni interesse, ogni provvedimento sociale viene tra-
sformato nel regime parlamentare in idea generale e trattato come
idea; come può quindi un interesse qualsiasi, un provvedimento qual-
siasi, elevarsi al di sopra del pensiero e imporsi come articolo di fede?
La lotta degli oratori alla tribuna provoca le polemiche violente dei
giornali; il club di discussione che è il parlamento viene necessaria-
mente completato dai clubs di discussione dei salotti e delle osterie; i
rappresentanti, che continuamente fanno appello all’opinione pubbli-
ca autorizzano l’opinione pubblica a esprimere con delle petizioni la
sua vera opinione. Il regime parlamentare rimette tutto alla decisione
delle maggioranze; come le grandi maggioranze non dovrebbero vo-
ler decidere al di fuori del parlamento? Se alla sommità dell’edificio
dello Stato si suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stan-
no in basso si mettano a ballare? (Marx 1852, 120)

La rappresentanza e la repubblica parlamentare non possono dunque


essere sinonimi di un ordinamento ugualitario, democratico, nei
rapporti che intrattengono con la sfera pubblica e con la formazio-
ne delle opinioni. Constatata la crisi degli ordinamenti moderni – e
i limiti della rappresentanza che si dimostrano a più riprese dalla vi-
cenda nazista, con la trasformazione del pubblico in massa, fino ai
movimenti degli anni Sessanta (vedi capitoli 1, 3 e 5) – è allora ne-
cessario concepire altrimenti i rapporti tra sfera pubblica e politica.
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114 FEDERICA GIARDINI

Comunicare è agire

Per compiere tale passaggio va ridefinito cosa si intende per lin-


guaggio e per politica e, a partire da questa ridefinizione, in che
rapporti stiano reciprocamente. Che cosa si intenda per linguaggio,
nella sua dimensione sociale e politica, viene sottoposto a una ra-
dicale revisione da Jürgen Habermas in Teoria dell’agire comuni-
cativo (1981). Il punto di partenza è la concezione della condizio-
ne umana come originariamente associata, che ricorda la vocazio-
ne politica dell’animale razionale di Aristotele (capitolo 2), e il cui
logos viene riformulato in termini strettamente linguistici. Ma af-
fermare la compresenza strutturale della dimensione intersoggetti-
va e della dimensione linguistica dell’essere umano significa con-
cepirlo come un essere comunicativo – la comunicazione sarebbe
infatti l’esercizio del linguaggio che non può prescindere dallo
scambio con altri.
Facendosi interprete del linguistic turn – l’idea che il linguag-
gio sia una dimensione umana non ulteriormente riducibile e che,
nel caso di L. Wittgenstein, ad esempio, preceda e conformi quegli
stati che in passato venivano designati come psicologici e mentali,
in breve che precede l’attività di pensiero: non esiste nulla come “la
coscienza” – Habermas si appoggia alla distinzione, operata da J. L.
Austin, tra atti linguistici locutivi, illocutivi e perlocutivi. Mentre
con i primi chi parla esprime uno stato di fatto, “fuori sta piovendo”,
con i secondi chi parla compie un’azione nel dire qualcosa, “ti pro-
metto che verrò oggi pomeriggio”; infine, con gli atti perlocutivi, chi
parla ottiene un effetto presso chi ascolta attraverso l’intenzione
che le sue parole manifestano, “ho intenzione di dare le dimissioni”,
dice un impiegato al proprio direttore.

L’intesa

Comunicare ha dunque il senso di un’“attività linguistica orientata


all’intesa”. Che sia in vista di un fine apertamente dichiarato, o ma-
scherato, parlare ha sempre la caratteristica di un’attività relaziona-
le. L’orientamento verso l’intesa, inoltre, può avvenire soltanto nel
momento in cui i parlanti condividono delle ragioni che rendono ac-
cettabili, e dunque circolanti, tali atti linguistici.
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 115

Un atto linguistico potrà essere definito ‘accettabile’ nel caso in cui


soddisfi le condizioni necessarie affinché un uditore possa prendere
posizione con un ‘sì’ sulla pretesa avanzata dal parlante. Tali condi-
zioni non possono essere soddisfatte unilateralmente, né in relazione
al parlante, né in relazione all’uditore; si tratta piuttosto di condizioni
per il riconoscimento intersoggettivo di una pretesa linguistica che, in
modo tipico all’atto linguistico, fonda un’intesa contenutisticamente
definita circa vincoli che sono rilevanti per le conseguenze dell’azio-
ne (Habermas 1981, I:408-409).

Gli atti linguistici che sostengono la proposta di Habermas di un’a-


gire comunicativo sono le azioni comunicative che, nel fare riferi-
mento a un mondo sociale comune, con “domande, risposte, obie-
zioni, confessioni, ecc. servono a organizzare il discorrere, ad arti-
colarlo in temi e contributi, a distribuire i ruoli nella conversazione,
a regolare lo svolgersi di quest’ultima, ecc. (ivi, 441).
Le implicazioni di questa proposta, sul piano politico, sono nu-
merose. Concepire il linguaggio come azione volta all’intesa, im-
plica un doppio movimento: da una parte, il logos aristotelico, quel-
la facoltà razionale tutta umana, arriva a coincidenza con l’attività
linguistica; dall’altra, il linguaggio, in quanto sempre intersoggetti-
vo e volto all’intesa, implica che ogni parlante sia razionale e con-
divida una serie di regole che garantiscono lo svolgimento di tale in-
tesa. La ripresa dell’idea di una razionalità umanamente condivisa
può effettuarsi anche dopo la denuncia di Adorno sul destino tragi-
co della razionalità occidentale (vedi capitolo 1), a patto che si ab-
bandoni l’idea di un soggetto unico, omogeneo ed egemone e si ri-
parta dall’idea di vita associata che limita le pretese totalizzanti e to-
talitarie. Senza però rinunciare alla pretesa di un’intesa progressi-
vamente inclusiva di tutti i parlanti, che, d’altra parte, non può pre-
scindere dalle posizioni dei singoli attori della comunicazione.

Se partiamo dal fatto che la specie umana si conserva grazie alle atti-
vità socialmente coordinate dei suoi membri e che questo coordina-
mento deve essere stabilito mediante la comunicazione e in settori cen-
trali mediante una comunicazione mirante al consenso, la riproduzio-
ne della specie esige anche che siano soddisfatte le condizioni di una
razionalità intrinseca all’agire comunicativo. […] Un processo di au-
toconservazione, che debba soddisfare le condizioni di razionalità del-
l’agire comunicativo, diventa dipendente dalle prestazioni interpreta-
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116 FEDERICA GIARDINI

tive dei soggetti che coordinano il proprio agire mediante pretese cri-
ticabili di validità (ivi, 528).

Comunicazione e mass media

Avvertito delle analisi di Adorno sulla società di massa e sull’effet-


to ideologico e totalizzante dei mass media, Habermas ritiene che
l’agire comunicativo propriamente inteso è volto alla riproduzione
della società – dimensione fondamentale e costitutiva – quale “mon-
do vitale strutturato simbolicamente” e si contrappone all’agire co-
municativo strumentale che non mira alla conservazione e all’inte-
grazione di tale mondo vitale, ma piuttosto lo frammenta in interessi
privati o comunitari. I mass media hanno dunque un “potenziale am-
bivalente”.

Secondo le concezioni di Horkheimer e di Adorno i flussi di comuni-


cazione guidati attraverso i mass media subentrano al posto di quelle
strutture di comunicazione che avevano reso possibili un tempo la
discussione pubblica e l’autocomprensione di un pubblico di cittadini
e di privati. I media elettronici spostati dalla scrittura all’immagine e
al suono, anzitutto al cinema e alla radio, successivamente alla televi-
sione, si configurano come un apparato che compenetra e domina
completamente il linguaggio quotidiano comunicativo. Esso trasforma
i contenuti autentici della cultura moderna in stereotipi, asettici e ideo-
logicamente operanti di una cultura massificata che si limita a rad-
doppiare l’esistente. Consuma la cultura depurata da tutti i momenti
sovversivi e trascendenti a favore di un più ampio sistema di control-
lo sociale imposto agli individui che in parte rafforza, in parte sosti-
tuisce gli indeboliti controlli comportamentali interni (ivi, 1068)

Habermas, per articolare e distinguere il funzionamento della co-


municazione degli attori sociali rispetto ai mass media, separa i
“media di controllo” dalle “forme generalizzate della comunicazio-
ne”. Mentre i primi sganciano l’azione dalla formazione del con-
senso e, di conseguenza, rendono irrilevante l’esito della comuni-
cazione – che vi sia cioè intesa o il fallimento della comprensione;
i secondi si radicano nel mondo vitale degli attori della comunica-
zione e, al contempo, supportano l’intesa attraverso un ampliamen-
to dei rispetti mondi vitali. Togliendo la parola pronunciata dal “pro-
vincialismo di contesti limitati” i media contribuiscono alla nascita
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 117

FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 117

di sfere pubbliche, mantenendo il valore dei messaggi per contesti


diversi.

Queste sfere pubbliche dei media gerarchizzano e al tempo stesso dis-


chiudono l’orizzonte di comunicazioni possibili. Un aspetto non può
essere separato dall’altro – e qui è fondato il loro potenziale ambiva-
lente. I mass media, nella misura in cui canalizzano unilateralmente
flussi di comunicazione in una rete centralizzata, dal centro alla peri-
feria o dall’alto verso il basso, possono rafforzare notevolmente l’ef-
ficacia dei controlli sociali. Lo sfruttamento di questo potenziale au-
toritario resta però sempre precario, poiché nelle stesse strutture co-
municative è incorporato il contrappeso di un potenziale emancipati-
vo. I mass media possono al tempo stesso graduare, accelerare e con-
densare i processi di intesa, ma soltanto in prima istanza possono sca-
ricare le interazioni dalle prese di posizione sì/no su pretese di validi-
tà criticabili (ivi, 1069).

Linguaggio e politica, di nuovo

La società consiste dunque, per Habermas, nella costruzione di sfe-


re pubbliche contingenti che si creano attraverso le diverse possibi-
lità di comunicazione, di comprensione e di intesa. In questa con-
cezione della società Habermas riprende da Hannah Arendt l’idea
che per la condizione umana sono essenziali il discorso e l’azione e
che la politica vada intesa come il dispiegamento di questi due trat-
ti che rendono tali gli esseri umani: se “ogni volta che è in gioco il
linguaggio la situazione diviene politica per definizione, perché è il
linguaggio che fa dell’uomo un essere politico” (1958, 3),

con la parola e l’agire ci inseriamo nel mondo umano […] questo in-
serimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non
ci è suggerito dall’utilità, come l’operare […] Discorso e azione sono
le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri e che ne
rivelano la doppia caratteristica di una pluralità ineliminabile e di una
unicità insopprimibile di ciascuno e ciascuna (ivi, 128).

Tuttavia Habermas, diversamente da Arendt, non considera che


l’ambito del politico si esaurisca in questa dimensione e pone dun-
que il problema del rapporto tra l’agire comunicativo e le forme isti-
tuzionalizzate della politica. Riprendendo le sue riflessioni sul rap-
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118 FEDERICA GIARDINI

porto tra opinione pubblica e potere costituito, l’assunto di fondo di


Habermas è che il potere legittimo è tale solo nella misura in cui
passa attraverso la legittimazione delle sfere pubbliche, che produ-
cono e manifestano il loro consenso attraverso un “metodo di pub-
blica controversia” che esprime conflitto e consenso.

Una democrazia fondata sulla deliberazione

Se l’agire comunicativo, pur nella sua spinta inclusiva, rimanda, sia


a un mondo comune, sia alle pretese avanzate da singoli e diversi
parlanti, il problema è come delineare tale metodo di pubblica con-
troversia. Nelle società occidentali del tardo XX secolo, a fronte del-
la crescente differenziazione sociale – la presenza di gruppi di pro-
venienza non occidentale, di diversa ispirazione religiosa ed etica o
con stili di vita irriducibili a una presunta norma (vedi capitoli 5 e
6) – e della fine delle grandi narrazioni con il loro compito gerar-
chizzante eppure unificante, il problema del rapporto tra società e
Stato diventa cogente.
Tale pluralità non sembra poter essere contenuta, rispettando i
criteri fondamentali di un ordinamento democratico, dalle procedu-
re della rappresentanza che, attraverso l’esercizio del diritto di vo-
to, dovrebbe garantire la continuità tra composizione della società
e composizione degli organi politici statuali, governo e parlamento.
A fronte di questa complessità sociale, se da una parte si è tornati a
proclamare una priorità dei valori di ciascuna singola comunità ri-
spetto al potere statuale – la tesi dei cosiddetti “comunitaristi” –, dal-
l’altra si propone che le prerogative statali facciano un passo indie-
tro rispetto al libero gioco degli attori sociali, dei singoli individui
– la tesi dei cosiddetti “liberali”. Habermas ricerca una mediazione
tra queste due posizioni, confrontandosi sulla proposta di una ripresa
politica della deliberazione.

La deliberazione, oggi

Il tema della facoltà deliberativa (to bouleutikón) è presente sin dai


tempi di Aristotele che la utilizza come crinale della partecipazione
alle attività comuni della polis (vedi capitolo 2).
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 119

Il deliberare consiste nel ricercare qualcosa. Bisogna quindi com-


prendere che cos’è la buona deliberazione, se essa sia una scienza,
un’opinione, una buona congettura o qualche altro genere. Essa inve-
ro non è scienza (infatti non si ricerca ciò che si sa, mentre la buona
deliberazione è un consigliarsi, e chi si consiglia ricerca e ragiona). Ma
non è neppure una buona congettura: infatti la buona congettura è
qualcosa senza ragionamento e istantaneo, mentre il deliberare richie-
de molto tempo, e si dice che bisogna eseguire prontamente ciò che si
è deliberato, ma si deve invece deliberare con lentezza. […] E neppu-
re l’opinione s’identifica affatto con la buona deliberazione […] tutto
ciò di cui v’è opinione è ormai già definito. Ma tuttavia la buona de-
liberazione non è neppure priva di ragionamento. Rimane quindi
ch’essa sia propria della razionalità, giacché essa non è un semplice af-
fermare. L’opinione invece non è una ricerca, ma è ormai un’affer-
mazione; mentre chi delibera, sia che deliberi bene sia che deliberi ma-
le, ricerca in qualche modo e ragiona (Aristotele, Etica Nicomachea,
1142b).

Avente sede in assemblea, rivolta al futuro dell’esito della discus-


sione e del fine cui tende, la deliberazione consiste nel consultarsi
sull’utile e il dannoso e utilizza per eccellenza, tra le sue forme dis-
corsive, l’esempio. La deliberazione sembra sottrarsi al dilemma tra
verità rigorosa e opinione destituita di fondamento (vedi capitolo 3),
senza rinunciare alla contingenza, al tratto mai compiuto di que-
st’ultima, e tuttavia senza neanche perdere il rapporto con un esito
conclusivo, quello della decisione. È questo elemento della delibe-
razione, intesa come dibattimento pubblico in vista di una decisio-
ne, che sostiene John Rawls nella sua proposta politica di una ripresa
della pratica deliberativa.
Il potere costituito è legittimato da processi di giustificazione
politica che si esplicano attraverso istituzioni, procedure, leggi che
permettano la deliberazione. Una democrazia deliberativa è basata
su cittadini che si scambiano

opinioni sulle questioni di politica pubblica, e discutono le ragioni che


sostengono. Essi suppongono che, nelle discussioni con gli altri, i lo-
ro convincimenti possano cambiare ed essere rivisti, e perciò non li
considerano semplicemente come un risultato immutabile dei loro in-
teressi privati o non politici. È a questo punto che la ragione pubblica
si rivela cruciale (Rawls 1993, …).
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 120

120 FEDERICA GIARDINI

I presupposti perché tale discussione pubblica avvenga sono preci-


si e definiti. Nella concezione normativa della politica di Rawls i
principi condivisi che permettono lo scambio e l’intesa sono preli-
minarmente definiti: è presupposta una razionalità originaria che
orienta “il legislatore” verso la giustizia e, nell’esperimento menta-
le del “velo originario”, presuppone una condizione ideale in cui ta-
le ragione si eserciti in modo neutrale, non connotato da interessi
particolaristici (Una teoria della giustizia, 1971). Eppure è proprio
la definizione di tali norme condivise di giustizia, che dovrebbero
anche orientare l’esercizio pubblico della ragione, che trova nella
realtà delle applicazioni politiche controverse.
Da una parte, il modello repubblicano che, non considerando la
società come la risultante del gioco tra interessi privati contrappo-
sti, la concepisce come un corpus unificato da valori condivisi che
intrattiene rapporti di reciproca costituzione e conflitto. In questo ca-
so, la pretesa normativa del legislatore è particolarmente forte e, se
può ottenere successi sul piano dell’unificazione sociale, spesso ac-
cade per via di un processo di assimilazione ugualitarista che non
tiene conto delle differenze che compongono la società (vedi capi-
tolo 6). Infatti l’istanza normativa dello stato orienta il chiarimento
dei cittadini

a) su come vedersi in quanto membri di una certa nazione, comunità


o stato, abitanti di una certa regione ecc.; b) su quali tradizioni svi-
luppare; c) su quale comportamento tenere tra di sé, oppure nei con-
fronti di gruppi minoritari ed emarginati; d) in quale tipo di società vi-
vere. Sennonché in condizioni di pluralismo culturale e sociale, gli
obiettivi politicamente rilevanti includono spesso interessi e orienta-
menti di valore che non sono per nulla costitutivi dell’identità comu-
nitaria complessiva, ossia della totalità di una forma di vita intersog-
gettivamente condivisa. Questi interessi e questi orientamenti di valo-
re, che all’interno di una medesima comunità restano reciprocamente
conflittuali e insuscettibili di consenso (Habermas 1996, 241).

Dall’altra, il modello liberale che considera invece la società come


irriducibile al potere statuale, si affida al consenso risultante dal li-
bero gioco degli interessi organizzati in strutture di tipo mercantile,
mettendo così in secondo piano l’istanza normativa – in vista del-
l’uguaglianza e della giustizia – del potere costituito.
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 121

FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 121

Secondo la concezione liberale, questa scissione separante l’apparato


statale dalla società non può essere sostanzialmente eliminata: essa può
venire tutt’al più “aggirata” dal processo democratico. In effetti, le de-
boli connotazjoni normative di un disciplinato bilanciamento del po-
tere e degli interessi hanno sempre bisogno di essere integrate dallo
stato di diritto. La democratica formazione di volontà dei cittadini au-
tointeressati – formazione cui i liberali danno una lettura minimaljsta
– è solo “uno” degli elementi all’interno di quella costituzione che de-
ve complessivamente disciplinare il potere dello stato con misure nor-
mative (tipo: diritti fondamentali, divisione dei poteri, principio di le-
galità dell’amministrazione) (ivi, 243).

Nella proposta di Habermas, che tiene in conto e discute le tesi di


Rawls, una concezione deliberativa della politica e della democra-
zia rielabora e articola diversamente elementi presenti nei due mo-
delli, repubblicano e liberale. Da una parte fa propria la priorità del-
la formazione dell’opinione e dell’espressione della volontà degli
elettori, che designano un potere statuale legittimo, nella forma di
uno stato di diritto ispirato a “diritti fondamentali”, dall’altra man-
tiene l’autonomia liberale della società dallo stato, senza però ridurla
alle dinamiche di mercato e di compromesso tra interessi privati, la
società essendo la “base sociale di autonome sfere pubbliche” di-
stinta dal sistema economico.
La politica deliberativa emerge dunque dagli assunti preceden-
ti della teoria dell’agire comunicativo: il discorso pubblico, volto a
un’intesa secondo regole condivise, è processo di legittimazione e
di scelta del potere in carica, e tale discorso istituisce una continui-
tà tra i dibattiti della società civile e i dibattiti parlamentari:

Il dibattimento [deliberation] implica sempre un certo atteggiamento


nei confronti della collaborazione sociale. Più precisamente la dispo-
nibilità a lasciarsi persuadere dalle ragioni delle rivendicazioni proprie
e altrui. Il medium del dibattimento consiste nello scambio in buona
fede delle opinioni, inclusi i resoconti dei partecipanti sulla propria
personale visione dei rispettivi interessi vitali. Qui ogni eventuale vo-
tazione rappresenta un combinarsi di giudizi. Risolvendosi nell’arena
politica, la controversia delle opinioni ha perciò sempre una forza le-
gittimante che va al di là della semplice autorizzazione ad accaparrar-
si posizioni di potere politico. Piuttosto, la continuità del discorso
pubblico finisce anche per vincolare le modalità di esercizio del pote-
re politico. […] La teoria del discorso punta sul superiore livello di in-
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 122

122 FEDERICA GIARDINI

tersoggettività che caratterizza i processi d’intesa che si attuano per un


verso nella forma istituzionalizzata dei dibattimenti parlamentari e
per l’altro nella rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche. Al-
l’interno e all’esterno dei corpi politici programmati per deliberare,
queste comunicazioni senza soggetto formano “arene” in cui circa te-
mi rilevanti per l’intera società e intorno a materie bisognose di rego-
lazione può aver luogo una formazione più o meno razionale dell’o-
pinione e della volontà. La formazione informale dell’opinione sfocia
in decisioni elettorali istituzionalizzate e in deliberazioni legislative at-
traverso cui il potere comunicativamente prodotto viene trasformato in
potere amministrativamente adoperabile (ivi, 244-245).

Alcuni problemi

Per quanto Aristotele figuri tra gli autorevoli antecedenti dell’idea


di una attività deliberativa propria all’essere umano, non si può
considerarla in quel significato “forte” che teorici della politica co-
me Rawls e Habermas le attribuiscono. Trattata, non casualmente,
nell’Etica nicomachea, la deliberazione è una forma di saggezza che
non ha i caratteri della razionalità scientifica – e fin qui saremmo sul
terreno dei giudizi contingenti dello scambio discorsivo, passibili di
modificarsi nella discussione con altri – ma il problema è che sem-
bra, secondo

Incommensurabilità e altre scene

Martha Nussbaum, respingere qualsiasi misura comune che renda


tali giudizi commensurabili. Non è possibile usare il metodo della
misurazione per i beni che sono oggetto di giudizio e di discussio-
ne, “questo bene è più grande di quest’altro”, con il relativo rico-
noscimento delle migliori ragioni di una parte alla parte avversa.
Quale sarà il governante migliore, si chiede Aristotele, quello più
ricco, o quello più alto, o quello più libero? Esiste un criterio di va-
lutazione universale per giudicare di ciò che è meglio in politica?
Aristotele propende per la pluralità delle singole vite che non pos-
sono essere gerarchizzate sotto un’unica idea comune. Per giunta,
proprio perché il giudizio espresso nella deliberazione, ha sempre
per oggetto delle situazioni particolari, da cui l’uso dell’esempio co-
me strumento retorico per eccellenza, tale giudizio rimanda non
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 123

tanto alla capacità razionale separata dal resto, bensì dal corpo, dal-
l’apparato che permette di percepire e recepire tale situazione par-
ticolare.

Ogni legge è universale, mentre non è possibile in universale prescri-


vere rettamente intorno ad alcune cose particolari. In quei casi dunque
in cui è necessario parlare in universale, ma non è possibile fare ciò
con retta precisione, la legge allora si preoccupa di ciò che è general-
mente, non ignorando la sua insufficienza […]. Quando dunque la
legge parli in generale, ma in concreto avvenga qualcosa che non ri-
entri nell’universale, allora è cosa retta il correggere la lacuna là dove
il legislatore ha omesso ed errato parlando in generale (Aristotele,
Etica nicomachea, 1137b, citato in Nussbaum 1986, 555).

L’incommensurabilità dei giudizi, rimanda dunque a una pluralità di


casi particolari, come particolari sono le singole vite. È quel che
contesta Nussbaum a John Rawls – che ritiene che chi giudica pos-
sa fare appello ad “abilità neutrali rispetto ai valori, come l’imma-
ginazione, l’empatia, la conoscenza dei fatti” – sia perché molte at-
tività intellettuali non possono esercitarsi a prescindere dal riferi-
mento ai valori, sia perché il giudice capace di una deliberazione
saggia non ha tale qualità solo in virtù delle proprie abilità intellet-
tuali (ivi, 569-571). Per Nussbaum il problema nella proposta di
Rawls è il valore definitivo o “fondante” dei criteri di giudizio che
l’autore propone, là dove sembrerebbe che non vi sia appoggio in
nessuna facoltà umana che, in merito alla politica, possa ottenere un
simile risultato.
Non è questo tuttavia il problema che offusca la ripresa della de-
liberazione in epoca contemporanea. Il problema consiste piuttosto
nel fatto che la deliberazione non è la prima e ultima scena della de-
cisione, come già Aristotele riconosce: sarà il legislatore che, su al-
tri criteri, specificamente universali, avrà l’ultima parola. Che ne sa-
rà di chi – non condividendo l’esito ultimo della legge – non lo con-
sidera semplicemente un compromesso raggiunto attraverso la de-
liberazione (Rawls), bensì un’ingiustizia, un torto?
Va inoltre considerato che il confronto tra deliberanti presup-
pone una scena precedente, dove sono state stabilite gerarchie di ra-
gioni, spesso sulla base del criterio del ragione del più forte, come
nel tragico caso dei Meli e degli Ateniesi (vedi capitolo 2). Insom-
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124 FEDERICA GIARDINI

ma, la parola razionale può forse essere garanzia di confronto lì do-


ve viene pronunciata, ma non fornisce alcuna garanzia al di fuori di
quella scena, sui presupposti che contribuiscono a creare le condi-
zioni di quel confronto.

Unicità e dissidio

Per parte sua Adriana Cavarero obietta a Habermas il riferimento al-


la concezione arendtiana della politica come azione e discorso qua-
le precedente a cui il filosofo si appoggerebbe. Habermas nutre la
convinzione che l’ordinamento democratico trova il suo principio
fondamentale nel linguaggio quale comunicazione intersoggettiva;
l’esercizio della comunicazione è caratterizzato da una capacità ra-
zionale, comune e condivisa da tutti, in grado dunque di costituire
l’ambito del confronto deliberativo, le sfere pubbliche e le delibe-
razioni parlamentari. Tuttavia se si va a leggere Vita activa di Han-
nah Arendt, il testo a cui si appoggia Habermas, si scopre che

sviluppa delle riflessioni che lo allontana in modo decisivo tanto dal-


la concezione aristotelica dello zoon logon echon quanto da quella ha-
bermassiana della razionalità comunicativa. La politicità della parola,
secondo Arendt, non consiste nel significare, esprimere, comunicare
qualcosa: sia pure dei significati tradizionalmente politici come il giu-
sto, l’utile, il bene e il male. Consiste piuttosto nel rivelare agli altri l’u-
nicità di chi parla. Non si tratta – è doveroso segnalarlo – di un’unici-
tà vocalica. Non perché la voce, come Arendt nota di sfuggita, non ri-
veli l’unicità; ma perché è, secondo lei, la parola a qualificare come
politica questa rivelazione. Ciò che Arendt chiama politica è infatti uno
spazio materialmente condiviso dove i presenti mostrano gli uni agli
altri, con atti e parole, la loro unicità e la loro capacità di cominciare
nuove cose. Pur se appare già “nella forma unica del corpo e nel suo-
no della voce”, l’unicità assume uno statuto politico solo mediante gli
atti e le parole di coloro che, in tal modo, attivamente, la mostrano e
si mostrano. La sfera politica è precisamente generata da questa con-
divisione di atti e parole che Arendt riassume nella categoria di azio-
ne (Cavarero 2003, 206).

Per Arendt l’unicità è tratto fondamentale della politica – un tratto


cancellato dalla catastrofe della Shoah e dei totalitarismi – ed è il
punto di riferimento perché la pulsione alla totalità unificata non ab-
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 125

bia mai più piede nell’agire politico. Tuttavia l’unicità – se non in-
serita in un quadro di ripensamento dell’essere umano e del suo agi-
re – può condurre a una prima constatazione negativa. Essere unici
può significare che, essendo ciascuna esperienza unica e dunque as-
soluta, nessuno riuscirà a comunicare tale esperienza ad altri.
Sull’incommensurabilità ritorna J.-F. Lyotard, avanzando la fi-
gura del dissidio, che è

un caso di conflitto fra almeno due parti, impossibile da dirimere


equamente in mancanza di una regola di giudizio applicabile a en-
trambe le argomentazioni. Il fatto che una sia legittima non implica che
l’altra non lo sia. Tuttavia, se si applicasse la stessa regola di giudizio
all’una e all’altra per dirimere il dissidio come se fosse una lite, si fa-
rebbe torto a una di esse almeno – e a entrambe se nessuna ammettes-
se tale regola. Un danno è il prodotto di un’offesa fatta alle regole di
un genere di discorso ed è rimediabile secondo le stesse regole. Un tor-
to è prodotto dal fatto che le regole del genere di discorso secondo le
quali si giudica non sono quelle dei o dei generi di discorso giudica-
to/i. La proprietà di un’opera letteraria o artistica può subire un dan-
no, nella misura in cui vengono offesi i diritti morali dell’autore, ma
il principio stesso secondo il quale l’opera va considerata come oggetto
di una proprietà può costituire un torto – si disconosce il fatto che
l’“autore” è l’ostaggio dell’opera. Il titolo del libro vorrebbe suggeri-
re, grazie al valore generico dell’articolo il (il dissidio) che ciò che
manca in generale è una regola universale di giudizio fra generi ete-
rogenei (Lyotard 1985, 11).

Il caso portato a esemplificare tale conflitto è quello tragico della


memoria e della parola dei deportati a confronto con le tesi “nega-
zioniste”, quelle che, ad esempio, contestano l’esistenza delle ca-
mere a gas, sulla base di un concatenamento logico del tipo: “per
avere la certezza che un locale è una camera a gas, io accetto come
testimone solo una vittima di questa stessa camera; ora, secondo il
convenuto, non devono esserci vittime se non morte, altrimenti non
sarebbe quella che si pretende che sia; insomma, non c’è camera a
gas” (ivi, 20).
In questo caso non siamo di fronte a una controversia volta a
un’intesa, secondo le parole di Habermas, e nemmeno di fronte a un
caso di razionalità strumentale, volte a un fine particolare, agli in-
teressi di una parte. Quale regola può portare a misura comune le
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126 FEDERICA GIARDINI

due parti discorsive, quando ad essere in gioco è la definizione stes-


sa di ciò che si considera umano?

Oltre la comunicazione

L’obiezione di peso di Lyotard interviene al tempo della pubblica-


zione della tesi di Habermas sull’agire comunicativo e sulla sua in-
trinseca razionalità. Sembrerebbe dunque riportarla indietro, sul ter-
reno di quella modernità occidentale che Lyotard, come altri, vede
in continuità con gli esiti tragici del XX secolo (vedi capitolo 1),
quando invece l’intenzione di Habermas è di trovare una soluzione
sociale e politica per uscire da una certa modernità.
Ma la forza dell’obiezione di Lyotard non si limita al rimando
alla Shoah, consiste piuttosto nel ricordare che la parola, lo scam-
bio discorsivo, vengono determinati altrove: “il concatenarsi di una
frase su un’altra frase è problematico e questo problema è la politi-
ca” (ivi, 13). I confini dell’ambito del confronto discorsivo e l’ac-
cesso a esso sono mobili, storicamente determinati, presuppongono
conflitti preliminari. Altrove, fuori dalla scena del discorso razionale
e volto all’intesa tra i parlanti, accade che i rapporti tra i futuri par-
lanti possono essere tutt’altro che simmetrici, quando non venga
contestata la stessa natura parlante di chi dovrebbe essere parte in-
terlocutoria. Basti pensare alla recente partizione tra “stati canaglia”,
“popoli decenti” e “popoli liberali” (Rawls 1999) che, stabilendo i
criteri delle ragioni e delle parole di diritto, ha sostenuto le “ragio-
ni” della guerra in Medio Oriente.
Ritorna dunque il ritaglio tra chi parla e chi fa rumore, la que-
stione non è avere voce, bensì saper svolgere un ragionamento in
modo che sia riconoscibile da chi ha stabilito tali regole. Eppure, ta-
li regole possono relegare in modo definitivo fuori dalla razionali-
tà. Allora

tra il linguaggio di coloro che hanno un nome e il muggito degli esse-


ri senza nome, non vi è possibilità di istituire uno scambio linguistico,
né regole, né un codice per la discussione. Questo verdetto non riflet-
te soltanto la cocciutaggine dei dominanti o il loro accecamento ideo-
logico, ma esprime in senso stretto l’ordine del sensibile che organiz-
za il loro dominio, che è quel dominio stesso (Rancière 1995, 43).
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 127

Non esiste uno spazio che aspetta, quasi per inerzia, di accogliere la
parola pronunciata; tale spazio è costituito da dinamiche che si pos-
sono talora formulare come criteri oggettivi, se non definitivi. Ep-
pure, parlare non significa di fatto partecipare, entrare tra le parti
previste: parlare non è prendere parola (vedi capitolo 5). Lyotard ha
in mente la violenza senza redenzione della Shoah, Rancière gli
scontri tra dominatori e dominati, che nella storia si sono ripetuti e
rinnovati costantemente.

Un altro genere di discorso

Esiste però una “strana guerra”, che da secoli avviene su un’altra


scena, senza troppi clamori, senza violenze apparentemente ricol-
legabili a questioni politiche, che pure ripresenta la stessa partizio-
ne tra chi parla e chi non parla abbastanza da poter accedere alla sfe-
ra razionale e deliberativa. Nancy Fraser, quando discute la propo-
sta di Habermas, nota che la pretesa “critica” della teoria dell’agire
comunicativo, la pretesa cioè di portare a chiarezza e a confronto ra-
zionali le posizioni degli agenti discorsivi, non arriva a toccare le
strutture storiche, sociali e simboliche della subordinazione femmi-
nile. Oltre alle considerazioni su come la famiglia rimanga un so-
strato materiale e impensato della produzione comunicativa del-
l’intersoggettività sociale, l’obiezione principale riguarda la nozio-
ne di “sfera pubblica” che, come abbiamo visto, articola in modo
mobile il “mondo vitale” e le istituzioni del potere statuale. Tutta-
via, la connessione tra mondo vitale, sfera pubblica e potere statua-
le avviene attraverso un soggetto-norma, il consumatore, lavorato-
re, e dunque cittadino elettore, il soggetto dell’articolo 1 della Co-
stituzione italiana (vedi capitolo 2). Esiste dunque una norma sim-
bolica – che si presume razionalmente stabilita e dunque condivisa
– che fa però da spartiacque quanto alla cittadinanza, alla rappre-
sentanza, ai diritti, e persino all’accesso al circuito simbolico e so-
ciale (vedi capitolo 5), che appaiono mettere in difficoltà lo stesso
assunto della capacità dialogica come espressione della partecipa-
zione e di una cittadinanza attiva (Fraser 1987, 44).
Per altro verso, l’idea habermassiana che la famiglia sia allo
snodo tra sistema economico e sfera pubblica, sembra relegare le at-
tività di cura – che, se non identificano la posizione sociale delle
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128 FEDERICA GIARDINI

donne per tradizione millenaria, rimangono ancora prevalentemen-


te svolte da donne – in una dimensione etica ma non politica, per-
ché diversa dall’etica che dovrebbe connotare l’agire comunicativo
della sfera pubblica. Il problema, sostiene Seyla Benhabib, consiste
nel fatto che Habermas ha preso a riferimento della propria teoria
l’“Altro generalizzato”, analizzato da George Mead (Habermas
1981, 604-608). Sebbene il garante della controversia volta all’in-
tesa non sia più tanto il sacro e i suoi referenti divini, tale garanzia
di integrazione in un orizzonte condiviso viene svolta dalle “aspet-
tative comportamentali normate dal discorso grammaticale” (ivi,
608). Questi svolgono per l’appunto la funzione di un Altro gene-
ralizzato che a sua volta intrattiene rapporti problematici quando
non di occultamento degli altri concreti (Benhabib 1987, 77-95).
Non ultimo, Iris Marion Young sottolinea – come già Martha
Nussbaum a proposito della deliberazione in Aristotele – come la
concezione deliberativa della politica venga intesa nel senso ri-
stretto del confronto tra argomentazioni svolte in modo razionale. La
ragione pubblica si eserciterebbe nel confronto su questioni di inte-
resse comune, anziché nella lotta per il prevalere dell’interesse di
una parte. Tuttavia la competizione per il potere sembra reintrodur-
si nel confronto tra argomentazioni, quando si dà antagonismo per-
ché prevalga la migliore, in tal caso “la deliberazione è competi-
zione” (Young 1996, 123). La competizione, benché non più rea-
lizzata attraverso rapporti di forza e di sopraffazione, rimane lo sti-
le discorsivo per eccellenza, che affida l’esito alla “forza dell’argo-
mento migliore”.
Inoltre, nota Young, tale stile discorsivo privilegia preliminar-
mente coloro che amano la competizione e che ne conoscono le re-
gole, esplicite ma anche e soprattutto implicite.

Una letteratura sempre più ampia sostiene che le ragazze e le donne


tendono a parlare meno dei ragazzi e degli uomini in situazioni dis-
corsive che premiano l’assertività e la competizione tra argomenta-
zioni. Quando le donne parlano in tali situazioni tendono a dare in-
formazioni e a fare domande, più che ad affermare opinioni o a dare
inizio a una controversia (Young 1996, 123).

Ricordando l’effetto stridente dell’esempio di un’argomentazione


logica applicata alla controversia tra un negazionista e una vittima
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FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE 129

della Shoah, troviamo un appoggio all’analisi di Young, che indica


tre stili discorsivi diversi per una comunicazione effettiva.
Il greeting, formule di saluto a parole o gesti: “buongiorno”,
“benvenuta”, “a dopo”, “come stai”, sono frasi che – pronunciate at-
torno alla comunicazione su questioni in gioco, pur non esprimen-
do alcun contenuto – sono segnali di riconoscimento dell’interlo-
cutrice. Naturalmente il crinale è sottile, avverte Young, con le stes-
se formule impiegate a scopo di adulazione o di deferenza, a deci-
dere sul significato del loro uso sarà la situazione nel suo comples-
so. Della retorica, cioè della scelta di argomenti che possano colpi-
re chi ascolta, è proprio l’ascolto che viene messo in rilievo. Nel pa-
norama delle discussioni che prendono il linguaggio quale dimen-
sione umana irriducibile, poco spazio è dato all’ascolto, che è inve-
ce requisito indispensabile allo scambio. Diversamente dalla figura
del riconoscimento, l’ascolto rimanda al contesto entro cui avviene
la comunicazione, a chi sono i singoli parlanti, alla relazione che sta-
biliscono con chi ascolta, e viceversa (vedi capitolo 5). Infine, altro
stile discorsivo è lo storytelling. All’opposto dell’uso che ne fa la
politica istituzionale, il mondo pubblicitario o aziendale, analizza-
to da Salmon (vedi capitolo 1), Young ha in mente una pratica rela-
zionale, la narrazione.
Né intersoggettività generalizzata, né individui in competizione
per far prevalere il proprio interesse, la narrazione accetta che la si-
tuazione discorsiva di partenza sia costituita da fraintendimenti,
quando da una completa mancanza di comprensione, e ne fa il re-
quisito di partenza. Attraverso la narrazione di esperienze singola-
ri, che per definizione non possono essere immediatamente comu-
ni – chi è costretto a usare una sedia a rotelle racconta episodi del-
le proprie difficoltà di fronte a ostacoli architettonici, ad esempio –
chi ascolta avrà a disposizione una comprensione concreta della si-
tuazione, pur non condividendola in prima persona. Inoltre, la nar-
razione ha un effetto esplicativo e inclusivo: mentre l’argomenta-
zione che procede da una premessa a una conclusione trova l’ac-
cordo di chi condivide la premessa, narrare una storia permette a chi
non è già familiare con quel mondo – ricordiamo la società tra estra-
nei delle Preziose – di comprendere il funzionamento di pratiche,
posizioni, valori o simboli sono correnti per chi narra. È quell’eser-
cizio della parola che si impara solo vedendola praticata. Infine, la
narrazione di un’esperienza ricostruirà, in modo non argomentativo,
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130 FEDERICA GIARDINI

l’orizzonte di significati e valori in cui si inserisce chi racconta ta-


le storia.
Si potrebbe obiettare che tali stili discorsivi possono funziona-
re solo in relazioni duali o di numero ristretto. La smentita arriva sia
in negativo – lo storytelling come strumento propagandistico e pub-
blicitario – sia in positivo, con la notevole invenzione di presa di pa-
rola nelle Commissioni per la Verità e la Riconciliazione (vedi ca-
pitolo 6).

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5.

PARLARE NON È PRENDERE PAROLA

Una parola onnicomprensiva/ irremovibile che detta/ diventi materia


dura./ Terra o pietra. / Che io la veda/ la tocchi poi. / Materia non ri-
sonante.

Però interviene subito la constatazione che questa parola non è comu-


nicativa e non mi esprime.

Parlo: nessuno/ si lascia persuadere./ Ciascuno segue il suo discorso.


Paralleli correremo/ all’infinito/ sulle nostre parole./ Ascolta: non può
essere perduta questa parola […] Quando mi guardò fisso e mi pose la
domanda mi arresi:/ emisi solo/ qualche suono per dare/ segno di vita
(Lonzi 1977, 27-28).

Una parola piena

La pretesa – avanzata da Carla Lonzi e dalle altre che, agli inizi de-
gli anni Settanta, condividono l’impresa politica del gruppo “Rivolta
femminile” – di pronunciare una parola piena che “diventi materia
dura”, ovvero significativa per sé e per chi la ascolta, è la pretesa di
cambiare le posizioni che occupano donne e uomini nelle relazioni
tra loro, nella vita pubblica e privata.
Da una parte, infatti, poche donne nel parlare esprimono ciò che
è per loro urgente, ancora prima, ciò che corrisponde ai loro desi-
deri: “parlare non mi esprime”. Già inserite e formate all’interno di
una cultura che le destina alla posizione di madre, moglie e sorella,
parlare significa dire ciò che è previsto, ciò che è funzionale allo
svolgimento dei compiti che la società assegna loro. Parlare finisce
per contribuire e rafforzare valori e ideali che nascono per altri sco-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 133

pi, per esigenze di altri, non per una maggiore libertà.


La forza della parola pronunciata da una donna può così influi-
re sulle parti della vita comune che le sono riservate, la vita dome-
stica, talora le decisioni riguardanti i figli – la moglie quasi carica-
turale che tiranneggia tra le mura domestiche – in contropartita al-
l’irrilevanza della sua parola sui fatti pubblici, del lavoro, della po-
litica, della cultura.

Se l’uomo, la sua cultura, illude la donna guidandola verso una liber-


tà a lui gradita è solo per condizionarla a una presa di coscienza del suo
dominio riconfermato dall’interno. L’abitua e rinforza la sua abitudi-
ne (ancestrale vaginale) a prendere la patente di essere umano dalle
mani dell’uomo a cui dedica la porzione più assoluta dello scambio
con gli altri. […] Il meccanismo è sempre lo stesso: gratificarla per
confonderla e farsene eco in una nuova conquista, in una nuova im-
presa patriarcale (Lonzi 1972, 199-120)

D’altra parte, “parlo: nessuno si lascia persuadere”, la donna che


prenda posizione e pronunci parole e giudizi su materie della vita
comune, non trova ascolto, piuttosto derisione, censura, indifferen-
za, o una benevola distrazione. Per ironia della sorte, la posizione
femminile che ben conosce le virtù dell’ascolto – la Musa ispiratri-
ce, la consigliera negli affari di cuore – che dà coraggio, rimanda si-
curezza per l’attenzione e il riconoscimento che comunica, non lo ri-
ceve a propria volta. Tornano in mente le reazioni che accolgono la
presa di parola di Olympe de Gouges, ma anche la distinzione tra chi
ha voce e chi fa solo un rumore che non può essere tenuto in conto
(vedi capitolo 2).
Il parlare che Carla Lonzi rintraccia attraverso l’esplorazione di
sé e delle altre è innanzitutto una presa di parola, la presa in carico
del valore di quel che si dice, si tratta di rendersi responsabilmente
conto di mancanze e possibilità reali. Come già per le Preziose, c’è
differenza tra la donna educata e la donna istruita: mentre la prima
impara a parlare imitando il valore della parola che gli uomini le at-
tribuiscono, diventa emancipata, entra nel mondo maschile con le
gerarchie e i valori che lo organizzano; di contro, la donna educata
– la femminista – cerca una parola che esprima la sua vita, le gioie,
le difficoltà, le soluzioni, alla ricerca non dell’accettazione per mi-
metismo, bensì di libertà. Così considerata, la parola ha innanzitut-
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134 FEDERICA GIARDINI

to un effetto demistificante: quando si è alle prese con un compito


reale, che non vive di imitazione e di conformismo, il valore non è
più mitizzato – essendo il valore mitico quello che “che viene attri-
buito a una cosa da chi non la fa”. Prendere parola, non semplicemen-
te parlare, significa dunque mettersi innanzitutto in una posizione at-
tiva e responsabile.

Ognuna è lettrice e potenzialmente scrittrice, non nel senso di aderire


a un ruolo letterario, ma nel senso di prendere coscienza che quello che
comunque le è successo o le succede, di mettere per iscritto a propo-
sito di sé, è “scrivere”, è una possibilità di cui a un certo punto può sen-
tire un’urgenza più precisa ai fini dell’autocoscienza […] il fatto di
scrivere permette di cambiare il modo di leggere, togliendo allo scri-
vere molto del suo valore mitico, che è il valore che viene attribuito a
una cosa da chi non la fa (Lonzi, 1977a, 107, mio il corsivo).

Assumere il valore, per sé, per altre, per altri, di quel che si dice, non
ha tuttavia la semplicità e immediatezza di una decisione indivi-
duale, perché sia possibile è un mondo intero, quello comune e
quello interiore, e l’ordine che contemplano, che vanno messi sot-
tosopra.

Impreviste dalle grandi narrazioni

Se leggiamo i libri di storia, i manuali di letteratura, di filosofia, in-


somma tutto ciò che costituisce il canone occidentale, la tradizione
che dovrebbe dare un senso a chi siamo e da dove veniamo, anche
attraverso le diagnosi di fallimenti, scopriamo il più delle volte che
nessuna donna sembra aver preso parte a questo percorso di forma-
zione millenario, nessuna donna di scienza, di lettere, rare le donne
capaci di governare – che comunque non cambiano la percezione
generale di un’assenza.
Prima di dire – e di aver scoperto, attraverso il lavoro di nume-
rosissime ricercatrici – che queste donne ci sono state, forse non vi-
ste ma che pure c’erano, va registrata una prima evidenza docu-
mentaria. Non è infatti corretto dire che le donne sono semplice-
mente assenti dal canone occidentale, sono piuttosto presenti in al-
cuni e non rari casi: ogni volta che il discorso maschile parla di lo-
ro. Prendiamo ad esempio la rassegna del pensiero filosofico occi-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 135

dentale che va da Platone a Derrida (Collin et al. 2002), vediamo che


agisce una “partizione dell’enunciazione”: da una parte il filosofo,
lo scienziato, lo storico, il politico, che parla e, dall’altra, la donna,
le donne, che sono parlate, sono oggetto di disquisizioni, che siano
discriminatorie o di generosa concessione. In ogni caso, chi parla,
chi racconta e sistema il mondo in un ordine, non è una donna.
Immediata conseguenza di questa divisione del lavoro della pa-
rola, è la panoplia di qualità o difetti attribuiti alla Donna, che la col-
locano sempre in una posizione ausiliaria rispetto al lieto fine pre-
visto dal romanziere: che sia animale senz’anima, eterno femmini-
le, ironia della comunità, depositaria della pietas e delle virtù del fo-
colare, essere angelicato che redime dalle brutture dell’agire nel
mondo, o compagna svantaggiata, la sua è una funzione che rientra
in un piano più alto e stabilito a prescindere da lei (ivi, 21-25). Tut-
tavia, ancora, non possiamo concludere per una mancanza di valo-
re della donna nella storia e nella tradizione, anzi, ha un valore, ta-
lora altissimo, proprio perché parte indispensabile della costruzio-
ne dell’ordine della convivenza e dei saperi che la regolano. Sarà
corpo disordinato dell’isterica, materia irrazionale da cui emanci-
parsi, parodia che rende vigili sui rischi dell’abbandono delle virtù,
un alter ego che, rispecchiando alla rovescia i valori positivi, li ri-
conferma attraverso la minaccia della degenerazione (Irigaray
1974).
Negli anni Settanta del Novecento diventa apparente il vicolo
cieco in cui finisce l’alternativa tra la subalternità e l’emancipazio-
ne, ovvero l’inclusione dentro un quadro di coordinate che colloca-
no una donna in un ruolo e valori prestabiliti. Per Carla Lonzi non c’è
promessa di libertà – non la Chiesa, non la rivoluzione comunista,
non la psicoanalisi, non le ideologie occidentali e, oggi potremmo ag-
giungere, non la promessa emancipativa di un lavoro, di una carrie-
ra – che possa prescindere dalla presa di parola delle donne.

La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psi-


canalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipo-
tetica.
Chiediamo referenze di millenni di pensiero filosofico che ha teoriz-
zato l’inferiorità della donna.
Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi
consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno man-
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136 FEDERICA GIARDINI

tenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riprodu-


zione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo ani-
male; sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che
era ingiusto e atroce nella vita della donna.
Sputiamo su Hegel.
La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di
uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande op-
presso della civiltà patriarcale.
La lotta di classe, come teoria rivoluzionaria sviluppata dalla dialetti-
ca servo-padrone, ugualmente esclude la donna. Noi rimettiamo in dis-
cussione il socialismo e la dittatura del proletariato. […]
La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel
rifiutarla. […] Comunichiamo solo con donne. (Lonzi 1970, 10-11)

L’efficacia della grande narrazione: il simbolico

Ecco perché parlare non significa prendere parola. Se il secondo im-


plica un cambiamento radicale, parlare si fa invece con una veste di
parole che è già cucita addosso, come una seconda pelle, che sepa-
ra dalla sensualità e dall’esperienza. L’espressione di sé, attiva, di-
retta, è lontana.
Abbiamo già visto nel capitolo 2 come Foucault abbia delinea-
to l’“ordine del discorso”, un ordine sociale che si avvale dei sape-
ri per distribuire, di epoca in epoca, valori e posizioni.

Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un


interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra
ragione e follia. Dal profondo del Medioevo [capita che la parola del
folle] sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né veri-
tà né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo au-
tenticare un atto o un contratto […]; capita anche, in compenso, che le
si attribuiscano, all’opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di
dire una verità nascosta, quello di annunciare l’avvenire, quello di ve-
dere del tutto ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può
scorgere. […] In ogni modo, esclusa o segretamente investita dalla ra-
gione, in senso stretto essa non esisteva (Foucault 1971, 5-6).

Tuttavia se consideriamo il rapporto con la parola – parola che di-


ce la verità o parola che lega, che obbliga – l’analogia tra la posi-
zione della donna e del folle non può essere condotta fino in fondo.
Mentre il folle, infatti, è un anormale, un soggetto che degenera ri-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 137

spetto a una norma che gli è disponibile, come essere potenzial-


mente dotato di ragione e di parola, la donna è invece preliminar-
mente definita da una posizione che la colloca altrove rispetto a ra-
gione e parola, sembra quasi appartenere a un’altra specie. In altri
termini, non esiste uno stato primario rispetto al quale si darebbe una
deviazione, lo stato primario è un altro.
Per illustrare questa situazione, senza dover tornare indietro fi-
no ad Aristotele e alle sue divisioni e gerarchie, possiamo far ricor-
so alle analisi dei processi comunicativi che posizionano la donna
fin dalle prime fasi della vita. Nello scambio tra i genitori, la madre
e il padre, nell’indicarsi come io, me, tu, te, lui/lei, alla bambina vie-
ne generalmente riservato il posto del te e del lei, oggetto di cui si
ha cura o di cui si parla, da parte di un soggetto enunciante, che ha
la facoltà della parola decisiva e che non è la madre. Per quanto in-
fatti la madre entri nello scambio comunicativo, non viene designata
come soggetto delle enunciazioni, bensì come ausiliaria di chi par-
la veramente, il padre che partecipa a pieno titolo alla vita comune
e al suo ordine (Irigaray 1985a). Crescendo, la mancata assunzione
della posizione io – anche per via della impossibile accesso della
madre alla posizione io e dunque all’impossibilità di identificarsi
con la propria simile come soggetto attivo – mette la bambina, ora-
mai adulta, nella posizione non della parlante bensì di colei che
chiede conferma a chi detiene la posizione attiva dell’enunciazione.
Quella che Irigaray definisce “enunciazione dell’isterica” consiste
nella posizione definita dalla domanda “mi ami tu?”, domanda fem-
minile per eccellenza, in cui l’io non appare come principio, bensì
come effetto di ritorno, come contenuto della risposta, che lo con-
ferma o lo nega, da parte di chi parla dalla posizione io: io ti amo,
io non ti amo (Irigaray 1985b).
Quando pensiamo dunque alla scambio comunicativo, il senso
di sé non riguarda tanto e soltanto la rappresentazione che ci fac-
ciamo di noi stesse, quanto una dimensione più fondamentale, la po-
sizione che tradizione, abitudini, divisione dei ruoli e dei compiti, ci
assegna: destinatarie di enunciazioni e contenuto di enunciati altrui.
La rappresentazione di sé eccede lo scambio effettivo tra parlanti, ri-
manda a un’altra scena che determina chi parla e come, chi prende
parola e chi parla soltanto.
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138 FEDERICA GIARDINI

Rappresentazione e rappresentanza

Un’analoga questione viene posta su un piano meno originario –


non si tratta infatti della consistenza dei parlanti – ma non meno di-
rimente per la dimensione politica del vivere comune. Torniamo per
un attimo a due grandi momenti della costruzione dell’ambito poli-
tico in Occidente: da una parte Aristotele che spiega a giustifica l’as-
senza delle donne dalla parola che decide sulle questioni relative al-
la polis (capitolo 1); dall’altra, le titubanze dei rivoluzionari francesi
non solo nell’ascoltare le parole di Olympe de Gouges, ma soprat-
tutto nel considerarle parte attiva e vincolante nel pronunciamento
per eccellenza che è il diritto di voto e di accesso alle cariche poli-
tiche (capitolo 2). Anche in questo caso vediamo che la posizione
delle donne è tradizionalmente quella di essere oggetto, non sog-
getti, di pronunciamenti e decisioni.
Secoli sono trascorsi, le donne, per quanto con un ritardo mil-
lenario – in Italia il diritto di voto viene esteso alle donne nel 1946
–, diventano elettrici (Boccia 2002, 205-239). La questione sem-
brerebbe essersi felicemente conclusa, e tuttavia rimane il problema
delle elette: se le donne possono oggi pronunciarsi su chi le debba
rappresentare al momento di prendere decisioni, nondimeno chi
prende le decisioni su questioni della convivenza raramente è una
donna (il 17% alle elezioni del 2008). È il caso di soffermarsi sulla
posizione dell’elettrice, da cui avviene il pronunciamento femmini-
le: il “decidi tu per me”, com’è previsto dalla democrazia rappre-
sentativa, è in continuità con la strutturazione primaria della posi-
zione femminile nello scambio linguistico, dove il tu a cui ci si ri-
volge non è una donna, che altrimenti verrebbe così messa nella po-
sizione di dire “io decido”.
Va avanzata un’altra considerazione, più fondamentale, che pos-
siamo riassumere nella domanda: perché una donna dovrebbe vota-
re un’altra donna? A fronte di quel 17% emerge infatti chiaramente
che le elettrici (che costituiscono circa il 52% della totalità di chi vo-
ta) tendono a non votare altre donne, ma rivolgono la loro delega a
uomini. Qual è il problema?
Una prima risposta tocca il cuore dell’ordine politico contem-
poraneo, la democrazia rappresentativa. Chi elegge e chi è eletto
sta in una relazione che contempla bisogni e interessi condivisi –
eleggo chi penso potrà rappresentare al meglio i miei diritti. Ora
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 139

però le donne non sono un gruppo sociale omogeneo, nemmeno se


le pensiamo accomunate – commettendo un anacronismo, per lo
meno nelle società del nord del mondo – dalla condizione di op-
presse: diversamente da altri gruppi storicamente oppressi e per-
seguitati (i neri, gli ebrei, tra quelli classicamente citati e acco-
munati al destino di oppressione femminile), le donne non appar-
tengono a un gruppo delimitato e identificato, esistono donne ne-
re e donne bianche, donne ebree e donne tedesche, donne parti-
giane e donne fasciste… Esistono “forti dubbi che l’essere donna,
che è qualcosa di assolutamente qualitativo, sia rappresentabile nei
modi (numerici, quantitativi) della democrazia classica”. In altri
termini

che senso ha la rappresentanza quando si tratta di differenza sessuale?


È possibile rappresentare in Parlamento la differenza femminile? O
non è indispensabile “esserla”, senza pretendere di rappresentarla?
[…] Chi mi dice poi che le donne vogliano stare in tutte le istituzioni
esistenti, parlamento, esercito, chiesa? Alcune sì, ma mentre quella che
entra nella chiesa o nell’esercito entra chiaramente solo per se stessa,
quella che entra nel parlamento istituzione della rappresentanza, e per
giunta vi entra con l’idea di una possibile rappresentanza femminile,
copre la volontà di quelle che se ne tengono fuori (Cigarini 1995a,
100-102).

Un’ulteriore e più fondamentale risposta si rivela da quanto detto al


paragrafo precedente: in un ordine simbolico che determina la po-
sizione femminile come ausiliaria di quella maschile, il valore di una
donna – i criteri secondo cui misurare le sue capacità – viene deter-
minata in funzione di quello maschile, che ne è fonte e garanzia.
Nulla di sorprendente che sulla questione cruciale di scegliere chi ci
governa si vada direttamente alla fonte: un uomo dà più garanzie di
una donna.
Ritorna così il problema della presa di parola, una parola che sia
comunicativa, che esprima chi parla, che sappia sollecitare atten-
zione e ascolto, non rumore ma voce che sappia entrare nel conto,
nelle relazioni.
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140 FEDERICA GIARDINI

Taci…

Togliersi dalla posizione prevista dalla tradizione non è un’opera-


zione né semplice, né immediata e, soprattutto, non è un’azione in-
dividuale, per quanto abbia bisogno del lavoro di ciascuna su sé stes-
sa. Contrariamente a quanto si pensa in generale, la mancanza di li-
bertà per una donna non ha la semplicità di un ostacolo esterno ed
esteriore –il noto “soffitto di vetro”. Quando si pensa al problema a
partire del linguaggio, dell’ordine simbolico, vediamo che questo
ordine è pervasivo, arriva a costituire persino il senso di sé e le pos-
sibilità di dare significato a quel che si fa e si è. Tanto più per una
donna che, diversamente dal folle, non è privata del diritto alla pa-
rola normale, ma viene segnata da una capacità insufficiente o pro-
blematica nell’accedere agli scambi linguistici che costituiscono la
vita comune; tutt’al più sarà incoraggiata a entrare in tali scambi co-
me oggetto dei discorsi altrui.
Il primo passo è quello di togliersi da tale posizione e dalle pro-
messe, dai valori, che comporta, perdere dunque le certezze che
derivano da una posizione attribuita. I pensieri, le idee ricevute
“uno a uno/ metterli in scacco/ con voce di pura cosa/ dopo lunga at-
tesa/ staccata dal silenzio” (Lonzi 1977, 29). Il primo bisogno di una
donna che cerca se stessa è di fare tabula rasa, privarsi delle ga-
ranzie che riceve da idee che non sono nate dai suoi bisogni, dai suoi
desideri.

Il mio primo bisogno come femminista è stato quello di fare tabula ra-
sa dentro di me per privarmi di ogni garanzia offerta dalla cultura, con-
vinta che le certezze acquisite nascondono un veleno paralizzante
(Lonzi 1977a, 104).

Carla Lonzi all’epoca lascia il mondo dell’arte e il suo lavoro di cri-


tica, per intraprendere questo lavoro di svuotamento. In cosa consi-
ste? “Il vuoto culturale in cui identificarsi non è l’integrità origina-
ria, ma un logorare continuamente i legami inconsci con il mondo
maschile vivendoli e prendendone coscienza” (1977, 35).

Non fantasie su utopiche “integrità” da recuperare, ma la forza di fa-


re vuoto […] una donna disfa i legami con ciò che la precede storica-
mente – non carnalmente – e che storicamente non la riguarda né la
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 141

prevede. Crea, così, nello scorrere della Storia, nel sedimentarsi della
cultura e anche della letteratura, una discontinuità che parte dalle ra-
dici, un taglio che permette di intravedere che, oltre la tradizione ma-
schile, c’è altro: c’è lei che vive e pensa. […] discontinuità […] Ma-
ría Zambrano, ne insegna l’uso in modo originale perché ne fa una pra-
tica per mettere al mondo un nuovo modo di pensare: “Giunge il tem-
po di qualcosa di più intimo agli esseri umani, la dis-continuità, forse
una reiterata rottura...” . Una reiterata rottura […] una pratica che gui-
da il pensare in maniera radicalmente nuova e che trovo imparentata
con la pratica della tabula rasa, altrettanto motivata dalla necessità di
riaprirsi e riaprirsi di nuovo per avere, ogni volta sorgivamente, non in-
genuità, né purezza, ma fedeltà sia a un sentire che a un sapere che non
trovano nei codici attestati il loro riscontro e ne eccederanno sempre.
Allora si può comprendere come non sia mai stato certo un caso, ma
invece una stringente necessità che, Carla Lonzi e, prima e dopo di lei,
molte di noi, facciamo riferimento a sante e mistiche per cercare il ge-
sto che porta fuori dalla continuità di una tradizione che si è costruita
senza sapere che esistono le donne, o, se l’ha saputo, ha voluto e po-
tuto non tenerne conto. […] La tensione, mantenuta dalle mistiche, tra
il “voler dire” e il non avere un adeguato linguaggio, incardinata sul-
la precedenza data al sentire, ci ricorda che c’è, che si trova una fuo-
riuscita da ogni sedimentazione storica (Buttarelli 2002, 149).

Il silenzio

Esiste un silenzio imposto, esiste un silenzio scelto per disintossicarsi


dal “veleno paralizzante” delle idee ricevute, esiste anche un silen-
zio, dice l’esperienza nascente della presa di parola femminile, che
si subisce, senza che sia stato imposto dall’esterno e che, prima di vo-
lerlo riempire di parole, va accolto per quel che esprime. Prendere pa-
rola pretende così di essere espressione, non una parola pronunciata
senza ascolto di sé, nemmeno quando è pronunciata in uno spazio
nuovo e appena guadagnato, che sia il lavoro, che sia la politica:

E andata e va così: ho sempre fatto attività politica e ci sono riuscita


bene ma in quasi tutte le situazioni collettive mi mancava la parola, let-
teralmente; ho chiesto l’analisi perché iniziando a fare l’avvocato mi
ero ammutolita davanti a un giudice al quale dovevo chiedere un sem-
plice rinvio. Ho deciso di finire l’analisi, durata sette anni, dopo un
lungo silenzio, l’avevo chiesta per riuscire a parlare, la chiudevo con
il desiderio di non parlare. Quasi un fallimento (Cigarini 1976, 59).
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142 FEDERICA GIARDINI

Il silenzio – stato che una donna conosce bene, che sia il silenzio di
chi ascolta, o quello di chi viene messa a tacere, o quello che è im-
possibile da avere perché sempre immerse nel quotidiano – quando
non imposto, è una risorsa per attribuire peso alle parole che si pro-
nunciano: non la leggerezza stordita dell’avere un’opinione su que-
sto o quello, ma la parola che esprime sensazioni, storie, una paro-
la radicata.

Il mutismo metteva in scacco, negava quella parte di me che deside-


rava fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo […] Mi sono con-
vinta che la donna muta è l’obiezione più feconda alla nostra politica.
Il «non politico» scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra
(Cigarini 1976, 60).

L’operazione di togliersi dalla posizione attribuita, di sottrarsi a va-


lorizzazioni secondo misure stabilite da altri, il tacere per libera de-
cisione non ha nulla dell’annullamento di sé, anzi: è l’inizio della
storia.

E dunque ho affermato tutto sul vuoto. […] E su questo vuoto, che era
me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore. Una vol-
ta respinte tutte quelle autorità da cui si può essere tentati di trarre la
propria identità. Questo è stato all’origine il lavoro di Rivolta Fem-
minile: allontanare tutte le suggestioni culturali, soprattutto quelle più
insospettabili. È stato un lavoro enorme, è proseguito sempre più in-
dividualmente, e continua […] È soltanto dopo aver accettato la pro-
pria voce interiore che si possono avere tutti gli interlocutori possibi-
li (Lonzi 1977a, 105).

… anzi, parla

Mettersi dunque nella posizione di chi è soggetto e non oggetto


dell’enunciazione, quale il linguaggio che nasce da questo nuovo
inizio? Di cosa è fatto?

Donne che sanno, che, anche dolorosamente, scoprono che la loro


esperienza non ha libri già scritti in cui è contenuta. Lo sanno perché
sanno leggere i libri. Perciò, invece di mettersi a ridosso di ciò che è
già scritto per esercitare la critica o esigervi l’inclusione, si spostano
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 143

e nel mondo appare un vuoto, quello aperto da loro che iniziano a par-
lare, a partire dal loro “libro vivente” che è l’esperienza, che si impo-
ne anche con tutto il suo spessore di indicibile (Buttarelli 2002, 149).

L’esperienza

L’esperienza può dunque diventare un libro vivente da leggere, ep-


pure il compito non è immediato e nemmeno evidente. Sembrereb-
be semplice, dato che ciascuno e ciascuna è immersa nell’esperien-
za – il corpo guarda, è affetto da piaceri e dispiaceri, agisce – ma
quel che accade non acquisisce immediatamente significato e nean-
che un significato univoco. Inoltre, Lonzi e Cigarini ci ricordano
che, da una parte, il lavoro per liberarsi da parole già dette, che non
rendono giustizia a quel che accade effettivamente, è un lavoro con-
tinuo e, dall’altra, che non tutto ciò che ci accade trova immediata-
mente le parole per dirsi. Tanto più che il linguaggio ci precede, ci
accoglie alla nascita, parlato da altri, e vi entriamo attraverso un ap-
prendistato che si svolge attraverso le relazioni di cui abbiamo bi-
sogno per vivere.
Luisa Muraro racconta della sua esperienza di maestra e degli in-
toppi che si incontrano quando si cerca di liberare il senso delle co-
se dalle stratificazioni di significati, da luoghi comuni e stereotipi:

Quando insegnavo nella scuola dell’obbligo alla periferia di Milano –


in un quartiere moderno la cui tenuta fisica e umana le famiglie pro-
letarie difendevano, contro lo sfascio sempre incombente, menando
colpi a destra e forse ancora più forti a sinistra – ero afflitta dagli
scritti di alunni fedelissimi ai luoghi comuni di ogni tipo. Dopo aver
tentato, invano, di fargli prendere la giusta grande misura della com-
petenza linguistica che avrebbe dovuto essere la loro, ebbi l’idea di
scuoterli con la dismisura della licenza poetica, quella dei poeti del-
l’avanguardia. E la cosa funzionò ma solo dopo che ebbero visto con
i loro occhi delle poesie stampate. Evidentemente ci voleva l’autorità
della carta stampata per controbilanciare quella delle loro norme stili-
stiche le quali, oltre che ferree, erano così dettagliate da far sì che mai
un prato fosse altro che verde e la vita meno che bella (Muraro 1981,
86-87).

Sembrerebbe che il vuoto evocato da Carla Lonzi non sia disponi-


bile e che, quando si cerca di liberarsi da un vestito di parole già det-
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te, sorge il bisogno di appoggiarsi ad altre parole già dette, quelle


che, in questo caso, mettono perlomeno in discussione i legami più
consunti e inappropriati tra cose e parole. Perché questa resistenza?
Perché non è semplice, quando promette la libertà, fare a meno di
immagini depositate, di parole consumate?

La paura della sovversione c’è anche nei confronti del linguaggio […]
Devo aggiungere che in mezzo a quei miei sforzi per dissociare il ver-
de dalla parola prato e cose del genere, e nella misura stessa in cui ciò
mi riusciva, avvertivo un vago disagio, come l’impressione che così fa-
cendo uccidevo un’anima, una stereotipata anima arcaica che era per
loro la figura della cultura, caduta la quale altre non ne sorgevano a im-
pedire che venissero in triste risalto i muri della nostra aula e i casoni
del loro quartiere, ben visibili dalle enormi finestre – le scuole mo-
derne hanno finestre enormi. Quel quartiere sempre in bilico tra dignità
e degradazione, che temeva le iniziative degli insegnanti innovatori
quasi quanto le devastazioni dei teppisti, mi è rimasto davanti come il
fondo di una strada cieca […] In alcune occasioni il mio disagio fu for-
tissimo. Anni prima […] in una scuola della cintura milanese un gior-
no una mia amatissirna alunna – aveva tutte le qualità: intelligente, fi-
glia di operai, non competitiva, sensibile, fattiva, un po’ rude – mi con-
segnò un testo per il giornale di classe che quella settimana faceva il
confronto tra lavoro contadino e operaio. Piangeva perché nel suo
contributo aveva rivelato che sua madre, che lavorava in una fabbrica
di pentolame di alluminio, per andare al gabinetto doveva chiedere il
permesso ed aveva i minuti contati. Lei, sua figlia, aveva voluto cor-
rispondere alle mie insistenze per uno scrivere radicato nel concreto
del proprio sapere e meglio non avrebbe potuto fare, ma ne era mor-
talmente umiliata (ivi, 87-88).

Accusare il colpo della realtà – con tutto che promette di liberarsi da


quel che ci imprigiona, da quel che ci rende strumenti di scopi che
non necessariamente sono il meglio per ciascuno e ciascuna, che ci
permette di ripartire dal punto fermo di quel che ci succede vera-
mente – non è un’impresa trionfale, non somiglia in nulla alla spon-
taneità leggera. Provate a pensare quante volte, di fronte a un libro,
ci prende in contropiede la domanda “ma cosa ne pensi tu? Che co-
sa ti piace e cosa no?”.
Il fatto è che l’ordine simbolico, l’ordine sociale e i saperi che
lo sostengono, non è una mera impresa di repressione, anzi, rispon-
de proprio all’esigenza di dare senso alle singole vite, come abbia-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 145

mo visto con le grandi narrazioni. Stare al proprio posto, svolgere


il ruolo del personaggio che ci è stato assegnato nell’intreccio, ci
conforta, ci orienta. Il prezzo da pagare può però essere altissimo:
non sapere più vedere quel che effettivamente viviamo.
Se l’ordine sociale riesce ad avere un consenso che non è direttamen-
te proporzionale agli interessi da esso tutelati, credo che in qualche mi-
sura c’entri l’incapacità di inventare autonomamente il senso del pro-
prio esistere [la mancanza] di una capacità combinatoria materiale, la
capacità cioè di combinare in figure significative i materiali effettiva-
mente a propria disposizione, compresi il tempo, il corpo, lo spazio
(ivi, 88).

Esperienza e politica

Perché il linguaggio possa accusare il colpo della realtà, è necessa-


ria la politica. E per politica dobbiamo intendere, insieme a Hannah
Arendt, il vivere insieme ad altri, la restituzione di senso che ci può
dare, la narrazione che ne può nascere, liberatoria perché accompa-
gna le cose con le parole che più rendono loro giustizia (vedi capi-
tolo 3 e capitolo 4). Il dire dell’esperienza va verificato e calibrato
in dialogo con altre, con altri, con la realtà.
L’esperienza è dunque qualcosa di più e di meno delle parole
che possiamo dire, ha certo bisogno di essere pensata, detta, co-
municata, ma non si risolve nei discorsi. Dire l’esperienza è figu-
ra di un «fuori sesto», di un mancato allineamento. Come talvolta
accade nelle giornate di sole, maneggiando un oggetto di vetro, co-
sì nello scambio con altre, altri, accade che abbiamo dei ritorni di
luce: c’è qualcosa che rende il mondo – la porzione del pensabile,
la portata del possibile – improvvisamente più grande per entram-
be. Il bagliore di un pensiero dell’esperienza non è dato, non dura
per sempre, è momentaneo e impegnativo. Non è infatti in gioco
soltanto chi ascolta, chi ne è destinataria, o assiste a quell’attimo di
grazia delle parole e del corpo. Ma anche, soprattutto, è capacità di
ciascuna e ciascuno di trovare la posizione adeguata perché quel
bagliore avvenga. Pensare l’esperienza, cercare quella momentanea
giunzione, non si risolve dunque in un lavoro di critica. Certo, c’è
da disfare le posizioni obbligate in cui siamo messe e messi, c’è da
recuperare un margine di movimento, ma non basta. È un lavoro di
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 146

146 FEDERICA GIARDINI

libertà che non si accontenta di criticare il già detto, ma inaugura


un cammino di ricerca che coinvolge tutto quello che ci capita. L’e-
sperienza porta dissesto nelle parole correnti, ci rimette continua-
mente in gioco, perché il senso della realtà è un compito da realiz-
zare. E così che l’appello a un pensiero dell’esperienza indica una
ricerca che apre campi di contesa sui senso delle relazioni nel mon-
do in cui viviamo. E questo fino ai gesti più ordinari dei quotidia-
no, che sono sottratti all’insignificanza e si trasformano in un nuo-
vo inizio, per ripensare il mondo intero, per combattere la fram-
mentazione e la delega delle competenze su quello che ci riguarda
così da vicino o per trovare altre pratiche qui e ora (cfr. Buttarelli,
Giardini 2006, 11-12).

La presa di parola

Il grande antecedente, compagno della “strana” rivoluzione femmi-


nista, senza armi, senza violenza guerresca, è stato il movimento di
studenti e operai che ha avuto inizio nel maggio del 1968. Nelle ana-
lisi di Michel de Certeau, il Sessantotto è stata una “rivoluzione del-
la parola”, che non si è tradotta nell’ostilità verso personaggi odio-
si o nella distruzione di strumenti e prodotti del lavoro, né profes-
sori, né padroni sono stati minacciati direttamente. Il movimento,
nel contestare l’organizzazione sociale, i discorsi della sua legitti-
mazione e quel che distribuivano tra il dicibile e il non dicibile o il-
lecito a dirsi, ricorre all’azione simbolica, che crea possibilità dove
prima non ce n’erano, disarticolando la gerarchia dei valori, dei cri-
teri del vero e del falso.

Che degli studenti possano occupare le poltrone dei professori, che un


linguaggio comune possa intrecciarsi sopra la separazione tra intellet-
tuali e lavoratori manuali, o che un’iniziativa collettiva possa con-
trapporsi ai rappresentanti di un sistema onnipotente, ecco che viene
modificato il codice, tacitamente “ricevuto”, che divide possibile e im-
possibile, lecito e proibito (Certeau 1994, 33).

La rivoluzione del Sessantotto consiste nell’espressione, nella pre-


sa di parola che non corrisponde al gioco delle opinioni nella sfera
pubblica, ma proprio nella messa in questione dei limiti che deli-
mitano tale sfera e nella critica ai criteri che ne organizzano i gio-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 147

chi linguistici, le posizioni tra chi enuncia e chi è oggetto di enun-


ciato, o peggio, tra chi ha voce e chi fa solo rumore.

Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa
la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dis-
pensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclu-
sione di studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce
la loro funzione. Dalla presa della Bastiglia alla presa della Sorbona,
tra questi due simboli vi è una differenza essenziale che marca l’evento
del 13 maggio 1968: oggi è la parola a essere stata liberata.
In tal modo si afferma, feroce, irreprimibile, un nuovo diritto, venuto
a coincidere con il diritto di essere uomo e non più un cliente destina-
to al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima del-
la società. Era questo diritto a comandare, per esempio, le reazioni di
assemblee sempre pronte a difenderlo quando sembrava minacciato
nello svolgimento di un dibattito: “Qua tutti hanno il diritto di parla-
re”. Ma questo diritto era riconosciuto soltanto a chi parlava a nome
proprio, dato che l’assemblea rifiutava di ascoltare chi si identificava
con una funzione o chi interveniva in nome di un gruppo nascosto die-
tro le parole di un suo membro: parlare non vuol di-re essere lo spea-
ker di un gruppo di pressione, di una verità “neutra” e “obiettiva”, o
di una convinzione nutrita altrove (ivi, 37).

Ma se è andata così, se il Sessantotto è stato il momento del diritto


della parola esteso a tutti – ma questo tutti, ancora una volta, ha avu-
to difficoltà a contemplare anche un tutte, come registra Carla Lon-
zi – perché conosciamo oggi gli effetti di una deriva entropica, di
una perdita di forza, che fa rifluire la presa di parola nell’opinione,
quando non nel ritorno al senso imposto sulle altre scene dei rapporti
di forza?
Una risposta la dà Luisa Muraro, nel leggere i mutamenti che at-
traverso gli ultimi decenni del Novecento ridefiniscono i rapporti tra
il sapere e la società.

Al Sessantotto ho partecipato, come tante e tanti altri, con la baldan-


za che caratterizzava, in passato, le giovani generazioni. Eravamo
convinti di essere la realtà che cambiava, e ancor oggi penso che ci fos-
se del vero in questa presunzione. Ed eravamo convinti che la realtà sa-
rebbe cambiata di conseguenza. Ma così non fu, nel senso che la so-
cietà che pure stava cambiando, e noi ne eravamo il segno più mani-
festo, non aveva più bisogno di quella offerta di energia pensante allo
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148 FEDERICA GIARDINI

stato libero che sono, o meglio, erano, le nuove generazioni. E questo,


forse per la prima volta nella storia dell’Occidente. Alcuni hanno
espresso meraviglia davanti alla sorte dei giovani maschi rivoluzionari
del Sessantotto, spartiti fra un’integrazione nel ceto dominante senza
condizioni altre dal tornaconto personale, e una mobilitazione estrema,
ai limiti del suicidio. Ma era logico, se consideriamo l’impedimento
frapposto all’ondata rivoluzionaria, non da qualcuno o da qualcosa
precisamente, ma da un cambiamento storico che, oggi io nomino co-
me superfluità di un pensiero indipendente (Muraro 1996, 6).

Se con il Sessantotto il diritto all’espressione viene esteso a tutti,


Muraro sottolinea come la società si sia riorganizzata perché tale
espressione perdesse di rilevanza ai fini del proprio funzionamen-
to. In un regime che dura ancora oggi, dire tutto è possibile, ma que-
sta possibilità non si è realizzata secondo l’auspicio di allora, ben-
sì perché quel dire è diventato irrilevante ai fini dell’azione e della
decisione. Da una parte, il pensiero indipendente diventa superfluo,
quando vige il regime del sapere applicato, utile, produttivo, dal-
l’altra, il dire tutto si stempera nel pluralismo dell’opinioni che, di-
versamente dall’espressione, possono essere ma anche non essere
(vedi capitolo 3).
Prendere parola, abbiamo visto, non è un gesto individuale, ha
una portata simbolica e tuttavia rischia di diventare irrilevante se
perde la sua caratteristica di essere una pratica di trasformazione.

La figura del prendere parola si riferisce specialmente all’atto inau-


gurale della politica e non abbraccia il possibile risultato, ossia una
modificazione significativa nelle forme della convivenza […] nella
tensione verso un obiettivo posto davanti, che ci fa voltare le spalle al-
l’essenziale e ci fa dimenticare che l’essenziale si era presentato qui e
ora, sia pure in forme enigmatiche che bisogna saper leggere. Il pro-
blema è che la presa di parola, come tutto ciò che è del rapporto fra la
parola e la politica, non fa luce sufficiente sul paradosso e tende, an-
zi, a ignorarlo. Tant’è che restiamo moralmente disgustati, sì, ma sen-
za argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vi-
ta politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degra-
dazione che colpisce l’una e l’altra. La tecnologia della televisione,
d’altra parte, ha moltiplicato enormemente il potere di penetrazione
della parola servile. Le parole non insorgono perché esse, per loro na-
tura, si prestano a tutto e possono significare il falso o l’ingiusto con
la stessa forza del bello e del giusto. Ci si allontana dalla politica per
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 149

la convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, in-


sieme alla politica, dai comportamenti che la degradano (Muraro 2006,
80-81).

Il partire da sé

La trasformazione delle forme della convivenza, scopre la politica


delle donne, avviene per vie più fini e precise rispetto a una mobi-
litazione generale e a una parola pronunciata in assemblea e non ba-
sta a se stessa: esiste solo in virtù del rimando che riceve dall’ascolto
altrui e richiede un radicamento nella vita concreta.
Diversamente dal parlare – che può non ricevere nessun ascol-
to o ritorno significativo – la presa di parola esige e presuppone una
relazione: solo per via del significato che quel che dico acquisisce
per l’orecchio di un’altra, la parola diventa “materia”, implicata
nell’agire, non delirio solipsistico, non chiacchiera irrilevante. È la
scoperta che il femminismo fa con il “gruppo di autocoscienza”: una
volta svuotate del senso e del valore attribuito dall’esterno, da una
cultura organizzata dalle esigenze della parte maschile, da dove ri-
partire? Dalle parole che sono significative perché si pronunciano
nell’incontro con un’altra e che, in virtù di tale relazione escono dal-
l’ambito del privato per entrare nella sfera di un mondo, a venire, da
realizzare, ma già condiviso.

Il femminismo ha inizio quando la donna cerca la risonanza di sé nel-


l’autenticità di un’altra donna perché capisce che il suo unico modo di
ritrovare se stessa è nella sua specie […] L’autocoscienza femminista
differisce da ogni altra forma di autocoscienza, in particolare da quel-
la proposta dalla psicoanalisi, perché riporta il problema della dipen-
denza personale all’interno della specie femminile come specie essa
stessa dipendente. Accorgersi che ogni aggancio al mondo maschile è
il vero ostacolo alla propria liberazione fa scattare la coscienza di sé
tra donne, e la sorpresa di questa situazione rivela sconosciuti orizzonti
alla loro espansione. E in questo passaggio che viene fuori la possibi-
lità dell’azione creativa (Lonzi, 1972, 120).

Il radicamento nella vita concreta è l’altra condizione che impedi-


sce alla parola di ridiventare superflua. Questa condizione avviene
attraverso dei gesti definiti che la politica delle donne ha chiamato
“il partire da sé”. Riprendendo la pratica narrativa delle proprie
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150 FEDERICA GIARDINI

esperienze di vita che avveniva nei gruppi di autocoscienza, il par-


tire da sé richiede che chi parla sia implicata in ciò che dice, parli
cioè assumendosi il significato di ciò che va dicendo. Tuttavia que-
sta assunzione non ha nulla a che vedere né con il racconto auto-
biografico, né con la pretesa di essere autosufficienti nel dare sen-
so a quanto ci accade. In altri termini, si tratta di assumere la posi-
zione di chi enuncia senza cadere né nel personalismo, né nella pre-
tesa di aver detto una verità ultimativa.
Innanzitutto, partire da sé significa parlare a partire da espe-
rienze, passioni, accadimenti che ci riguardano da vicino, con l’ef-
fetto di disfare le vesti, i luoghi comuni, che ci vengono cuciti ad-
dosso. Avere ad esempio una rappresentazione di sé, del femmini-
le, come vittima, oggi che una giovane donna gode di una gamma
di possibilità di vita senza precedenti. Oppure, dover corrispondere
a un’immagine di virilità granitica, oggi che molti giovani si trova-
no in una situazione di incertezza, che non riceve più la contropar-
tita di una superiorità di ruolo. L’effetto di questa pratica di parola
non consiste però nell’avere strumenti solo per demistificare quel
che dovremmo pensare, ma anche per redistribuire, in modo più fe-
dele alla realtà, vantaggi e svantaggi, piaceri e dispiaceri: non sono
una vittima tout court, ho più possibilità e occasioni di altre donne
a me precedenti, eppure esistono contraddizioni e sofferenze. Al-
trove, altrimenti.
In secondo luogo, partire da sé non significa ripiegarsi sulla
percezione sottile dei propri stati individuali e sul loro racconto:
“che cosa vuol dire, infatti, partire o partire da? Il vocabolario ri-
sponde: allontanarsi da qualcuno o da qualcosa per andare altrove”
(Muraro 1996, 13). Partire da sé unisce due movimenti diversi,
prendere inizio da se stessi per separarsene, per andare altrove, per
leggere la propria implicazione nel mondo. Diversamente dalle re-
toriche identitarie che, con la fine del romanzo che aveva protago-
nista il Noi occidentali, tornano, frammentate e plurali in ogni an-
golo del globo (vedi capitolo 6), la presa di parola che parte da sé
assume il debito dell’implicazione e della dipendenza da altre, da al-
tri, con il mondo. Non è dunque portatrice di verità, ma mostra co-
stantemente la contingenza, le vicissitudini del farsi della parola ve-
ra, espressiva, comunicativa.
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 151

L’efficacia

Un nodo che lega linguaggio e politica è dunque quello che avvie-


ne quando la parola sa essere trasformativa, capace di intervenire
sull’ingiusto e l’inappropriato, capace di essere efficace nella sua
pretesa di dire il vero a stretto contatto con le esigenze della realtà
in cui siamo, ciascuno, ciascuna, irrimediabilmente implicati. Tale
implicazione può essere subita, possiamo farci dire da altri o da dis-
corsi che ci collocano in posizioni funzionali all’organizzazione del
vivere comune, oppure può essere orientata, come ci mostra Carla
Lonzi: l’indipendenza dai valori attribuiti alle donne per parte ma-
schile si scioglie nell’accettare la dipendenza dall’ascolto e dalla re-
stituzione di un’altra donna.
Contrariamente alla descrizione di Habermas (vedi capitolo 4)
parlare non ha un risvolto immediatamente comunicativo, non si
configura con le caratteristiche trasformative dell’azione, si può
parlare senza essere ascoltati, si può parlare senza essere incisivi,
senza modificare se stessi e la realtà di cui si è parte. Perché questa
parola sia efficace è necessario che mostri la sua implicazione, le di-
pendenze di cui è debitrice, solo così, per un’inversione tipica del-
l’economia linguistica, la dipendenza mostrata anziché indebolire la
parola, le dà forza e consistenza.

La passività

Esiste una pretesa di verità in quel che si dice che non ha nulla a che
vedere con le parole integraliste e fondamentaliste che ascoltiamo
tra Occidente e Oriente. Simone Weil ci racconta di una verità che
si rivela attraverso la sospensione dell’attribuzione rapida di signi-
ficati, attraverso un ascolto, che lei chiama attenzione, delle cose co-
sì come sono (vedi capitolo 3). È un fare vuoto che dà spazio a si-
gnificati imprevisti, significa farsi passivi in attesa di un significa-
to che non è già prestabilito nella nostra volontà e coscienza.

Ci sono tanti tipi di silenzio. imbarazzato, offeso, impacciato, aggres-


sivo, tentennante, amichevole. E c’è un silenzio che non appartiene a
nessuno e si crea quando si è in attesa di parole pensanti e non sem-
plicemente pensate. È questo un silenzio difficile da accogliere, da
sopportare. Appare come un buco nero, che alcune – perché sono so-
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152 FEDERICA GIARDINI

prattutto le donne che ne sentono il peso – riempiono frettolosamente


dicendo qualsiasi cosa. Eppure la pratica dì pensiero in presenza ha un
grande bisogno che si sappia reggere tale silenzio. Accoglierlo signi-
fica essere sorretti dalla fiducia che in questo modo si sta in un’altra
forma di ascolto, che rinuncia all’inessenziale. Che si pone in attesa di
ciò che non è immediatamente a disposizione (Zamboni 2009, 11).

Come possiamo accogliere questo invito se teniamo presente il per-


corso di Carla Lonzi che mette in guardia contro l’accettazione e i
suoi effetti alienanti? Eppure è la stessa Lonzi che ci ha instradato
verso il vuoto, il silenzio, quali condizioni per una presa di parola
effettiva ed efficace. La contraddizione è solo apparente, esiste in-
fatti un modo di farsi passive e passivi che anziché diminuire au-
menta la possibilità di dire il vero. Esistono

passività coatte per cui dobbiamo ringraziare l’esagerato dominio del


sistema dell’informazione, impegnato efficacemente a creare un’im-
magine del mondo – anche del mondo del lavoro – incalzante, emer-
genziale, divoratrice di spazi, pause e respiri [la passività efficace è]
una pratica in grado di rispondere sia all’iperattivismo – mito funesto
dell’oggi – sia all’impotenza politica, alla quale sembriamo destinati
dal degrado della politica istituzionale fattasi nudo potere (Buttarelli
2006, 2).

Sulla scorta del lavoro della pensatrice spagnola María Zambrano,


la passività richiama la posizione costitutiva dell’essere umano, po-
sizione dimenticata, reietta o subita ottusamente. Ma nel momento
in cui viene riconosciuta e non subita se ne possono intravedere i le-
gami con la politica, “perché densa di conseguenze per il vivere, il
pensare insieme agli altri, alle altre, per lo stare nel mondo” (ibi-
dem). La parola preceduta dall’accettazione dei legami con la real-
tà, acquista peso, si fa ascoltare. Si crea una tensione, un’attrazione
verso chi parla, non mossa dal bisogno di rafforzare il proprio rife-
rimento narcisistico e un’eventuale preminenza su chi ascolta, ma
per intervenire sulle implicazioni che ci legano a una determinata si-
tuazione. L’attenzione è determinata dal fatto che quella parola,
mostrando il legame, la sua dipendenza da qualcosa d’altro, che non
può essere facilmente messo da parte, che si rivela necessario, non
sta già più parlando del singolo, ma di uno spazio comune, abitato
da altri, da altre. La parola assume dunque peso, diventa efficace, at-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 153

traverso l’ascolto che suscita non per via retorica ma attraverso il pe-
so della materialità dell’esistenza, e ciò accade in virtù di un ab-
bandono iniziale, di una resa.
Tale resa diventa possibile proprio perché si è creato lo spazio,
il silenzio di un ascolto di quel che preme più da vicino, grazie a un
lavoro di liberazione da bisogni indotti, da immagini create altrove.
Ecco che ritroviamo Carla Lonzi e che l’espressione “passività ef-
ficace” smette di suonare come un ossimoro.

L’autorità

Quando pensiamo a una parola che si fa ascoltare viene in mente la


parola autorevole. L’ordine delle parole nella frase ci rivela già che
l’autorevolezza non è un attributo nelle mani di chi parla. Si può
prendere la parola, si può decidere per altri, e gli altri possono ob-
bedire, senza per questo riconoscere null’altro se non di essere co-
stretti ad obbedire. Il riconoscimento attivo dell’efficacia delle pa-
role pronunciate spetta a chi le ascolta, che ne determina il peso e il
significato per sé. Mentre il potere è esercitato da parte di chi lo de-
tiene e può costringere esteriormente chi ne è oggetto, nulla può co-
stringere ad assumere per sé le parole pronunciate. Nulla, se non
l’accettazione passiva dell’ordine vigente. Ma su questo punto è sta-
ta fatta chiarezza.
L’autorità è dunque nelle mani, non di chi la ha, ma di chi la ri-
conosce. Spetta ad alcune pensatrici il merito di aver rivelato come
la parola autorevole sia diversa dalla parola che ha il potere di in-
fluenzare, costringere o convincere. Hannah Arendt definisce la pa-
rola autorevole come quella che esclude qualsiasi forma di coerci-
zione – “dove s’impiega la forza, l’autorità ha fallito” – ma che è an-
che incompatibile con la retorica che, procedendo per argomenta-
zioni volte a convincere, mette su un piano indifferenziato chi par-
la e chi ascolta – “dove si impiegano argomenti di persuasione,
l’autorità è messa a riposo” (1954, 132).
Non mutismo della coercizione, non retorica della parola sedu-
cente, la parola autorevole ha a che fare con la qualità della fonte e
con gli effetti che produce. Per spiegarlo Arendt ricorre all’etimo-
logia della parola autorità, che rimanda al verbo augere, elevare, in-
nalzare delle fondamenta. Per Arendt l’etimologia rimanda alla vo-
cazione dell’autorità a legittimarsi attraverso il riferimento al pas-
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154 FEDERICA GIARDINI

sato, alla tradizione, un gesto che, nei tempi in cui scrive, vede irri-
mediabilmente compromesso.
Sono alcune lettrici del suo testo ad aver aperto un’altra inter-
pretazione dell’autorità, nel senso di un riconoscimento di dipen-
denza che, lungi dal richiedere obbedienza, crea uno spazio di li-
bertà. In breve, la parola autorevole sarebbe quella che, pronuncia-
ta, aumenta – augere ha il significato primo di “aumentare” – il gra-
do di libertà disponibile.

Il simbolico, mostrando il movimento del reale, diventi modello di mi-


sura. Ad esso corpi, sentimenti individuali, pensieri si adattano oppu-
re, se non si adattano perfettamente, l’anima ne soffre. Ragioniamo su
questa sofferenza di chi non si adatta al simbolico dato. Chi si trova in
questa impasse avrà bisogno di parole vere, di parole che lo portino in
sintonia con sé, uscendo da questa situazione di sofferenza. […] Ora
le donne hanno vissuto più degli uomini una situazione di sofferenza,
perché le forme simboliche espresse dalla cultura davano un signifi-
cato alla loro esperienza in un modo che più profondamente che per gli
uomini non corrispondeva loro. Lo scarto è avvenuto, quando alcune
donne hanno incominciato a riconoscere autorità a quelle che sapeva-
no dire parole di verità e in questo modo mediavano l’ordine delle pa-
role con l’ordine profondo. Dire parole di verità è squilibrante […] e
allo stesso tempo però fa ordine, perché si crea un legame tra pensie-
ro e vita vissuta. Alcune hanno riconosciuto autorità a quelle donne che
dicevano le parole, che prima mancavano. Si pensi alla sofferenza del
rapporto così difficile nella civiltà maschile tra la figlia e madre, a cau-
sa della mancanza di figure simboliche che ne dicano il legame nel ri-
spetto della loro individualità. Coloro che hanno cercato di darne for-
me simboliche rispondenti, hanno avuto un riconoscimento da altre
donne. A causa di questo riconoscimento il simbolico è coniugabile
certo con potere, come veniva letto negli anni ’70, ma è coniugabile
anche con autorità (Zamboni 1995, 41-42).

Fondata sulla forza di fare vuoto per liberarsi dalle idee ricevute, in
ascolto della realtà e debitrice dell’ascolto altrui, la parola autore-
vole è tale per la sua capacità di radicarsi nella vita materiale e di
esprimerne l’eccedenza rispetto al simbolico dominante come alla
vicenda singolare (Diotima 1995).
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 155

Lingua bene comune

Linguaggio e politica sono inestricabilmente connessi, nella nostra


tradizione e non solo. Vivere insieme implica parlarsi e saper par-
lare e tuttavia abbiamo visto come questa unione sia dell’ordine di
un’alleanza a dir poco inquieta: talora il linguaggio sembra diven-
tare lo strumento della sopraffazione, talaltra sembra essere irrile-
vante ai fini della presa in conto di chiunque viva con altri. Oppu-
re, ancora, sembra essere il margine che abbiamo per intervenire sul-
l’ingiustizia e per interrompere l’esercizio della violenza nelle rela-
zioni. L’ambivalenza che riscontriamo nella lingua risponde al fat-
to che siamo esseri parlanti e al contempo utilizziamo il linguaggio,
il che rende la lingua qualcosa che tende ad essere indipendente da
noi, ma solo fino a un certo punto.

La politicità della lingua consiste nel suo essere costantemente fatta e


rifatta da ciò che essa stessa rende possibile, che è il vasto, incessan-
te flusso degli scambi fra parlanti, tradizionalmente paragonato alla
circolazione sanguigna o a quella del denaro, in una sorta di inesausta,
mai definitiva ma non vana, contrattazione perché il nostro essere al
mondo abbia un senso comunicabile e condivisibile con altri […] An-
che il cambiamento dello stato dei rapporti sociali è sempre pure una
questione di lingua. Parlando degli scambi o negoziati che passano fra
l’esperienza che viviamo e i discorsi che facciamo, ho lasciato crede-
re che si tratti di un processo senza resti né problemi, come se il mon-
do si consegnasse tutto e docilmente alla possibilità di essere signifi-
cato. Non è così (Muraro 2006, 82).

Va dunque fatta una prima precisazione, il fatto che tutti e tutte par-
liamo e che siamo presi e prese nel linguaggio, non significa che go-
diamo di una comunanza che va da sé. Gli scambi che il linguaggio
comune permette è al tempo stesso all’origine dell’essere insieme e
del conflitto. Ma non è solo la pluralità di chi parla che interrompe
il sogno di un idillio tra parlanti.

Il mondo è uno e le lingue sono molte, e questo è un segnale. Ci sono


altri segnali e altre esperienze della difficoltà di passare dalla mutez-
za alla parola. Una, che riguarda forse più le donne che gli uomini, più
gli adolescenti che gli adulti, è l’esperienza di una personale «aco-
smia», ossia non ritrovarsi in quel mondo (cosmo) che si rende dici-
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156 FEDERICA GIARDINI

bile nella lingua che si parla; come se il negoziato che dicevo fosse in
perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfi-
no, dei quali la lingua non rende conto, dando così luogo a un diffici-
le rapporto con il mondo delle parole. Alla semplice ignoranza della
lingua si rimedia con lo studio. Ma lo studio può solo coprire i resti e
i problemi legati alla significazione del mondo, nulla di più. Perché,
quando i conti non tornano, resta al fondo un insormontabile, inespri-
mibile, quasi sempre inconsapevole, eppure continuo, forte e sensibi-
le senso d’inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non acco-
gliente e democratica ma ostica e usuraia […] Di quella primaria e mai
conclusa contrattazione tra mutezza e parola, in cui consiste il saper
parlare, noi siamo informati in qualche modo, specialmente quando
qualcosa «non va». La perdita di competenza simbolica, infatti, dà al
mondo una consistenza estranea, quella di una pietra messa sulla ta-
vola al posto del pane. Allora può succedere che esigiamo la cosa che
è fuori dal potere di decisione di chicchessia, che è cambiare la lingua
e volere addirittura una lingua mai parlata prima. Diciamo «non voglio
più parlare una lingua qualsiasi», ma una lingua che mi risponda, che
è il modo più radicale di mettere in questione un certo stato dei rapporti
sociali. (ivi, 82-85).

Così pensata la lingua, che si alimenta e regola la parola dei singo-


li e delle singole, diventa il tessuto connettivo che ci permette di vi-
vere, anzi di sopravvivere, a meno di non tenere in conto la scoper-
ta delle condizioni per una parola significativa che abbiamo visto so-
pra. È una lingua che si nutre della convivenza, ma in modi che in-
vertono il problema così come l’aveva posto Aristotele: non è la
convivenza che trova nel linguaggio la sua conferma e la sua unifi-
cazione. Piuttosto, la lingua è lo spazio intermedio, inappropriabile
per parte individuale, è di tutti, ma a costo di un costante lavoro di
cura. La contrattazione di cui parla Muraro, esprime il doppio si-
gnificato del “con” stabilito dalla lingua: conflitto e condivisione.
Senza il conflitto che si apre nei confronti di ordini del discorso usu-
rati o strumentali, non si apre lo spazio della scoperta e dell’inno-
vazione di ordini discorsivi più consoni all’esperienza dei parlanti;
senza la condivisione, ripetizione del debito che contriamo fin dal-
l’inizio come parlanti – iniziamo a parlare, perché abbiamo bisogno
di dire qualcosa, perché parliamo a qualcuno, perché quel che di-
ciamo è ascoltato – la lingua non è più tale, recede a uno stato ana-
logo al mutismo o all’irrilevanza.
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 157

Tessuto connettivo che, come ogni organismo vivente, deperi-


sce se non è alimentato e coltivato. In questo senso possiamo defi-
nire la lingua un bene comune: una dimensione politica legata ori-
ginariamente alla convivenza e alla sua qualità. La lingua come be-
ne comune significa che, pur essendo risorsa disponibile, su cui
nessuno può avanzare un diritto di proprietà a danno di altri, tutta-
via può essere drasticamente compromesso dall’uso che se ne fa e
dal sistema di scambi che la raddoppiano, scambi economici e di po-
tere.

Con-divisione: il comune della differenza

Il modo in cui da secoli concepiamo la lingua. Abbiamo immaginato


che la lingua (non) era (che) uno strumento per appropriarci delle co-
se – un po’ come la scimmia che si serve di un bastone per acchiappare
una banana – e non un mezzo di scambio tra di noi. O ancora: che era
uno strumento per appropriarci della realtà nominandola. Il mondo è
così diventato un vasto museo in cui delle guide, più o meno compe-
tenti, ci insegnano la maniera di designare le cose che vediamo, spes-
so confondendo in questo insegnamento quel che le cose sono e il no-
me che è stato loro attribuito in modo più o meno arbitrario. Si tratta
in un certo senso di acchiappare delle banane mentali e di dimostrare
che siamo capaci di acchiapparne tante se non più degli altri e anche
di produrne delle varianti.
Generalmente confondiamo questo comportamento con la cultura: as-
soggettare il reale a un potere etichettante che ci permette – o perlo-
meno così crediamo – di comunicare. Ma allora comunichiamo infor-
mazioni apprese, non comunichiamo con qualcuno. […] Il compi-
mento dell’umano non può avvenire in questo modo. E non è impo-
nendo a tutta l’umanità, quando non agli abitanti di altri pianeti, gli og-
getti della nostra scienza, della nostra religione, della nostra cultura in
generale, che dimostreremo di essere umani. Possesso […] la nostra
vera forza si trova nella condivisione della parola […] in che modo un
soggetto può entrare, grazie al linguaggio, in relazione con un soggetto
differente? Siccome la differenza sessuale rappresenta il paradigma più
universale e irriducibile della differenza: che cosa sappiamo della con-
divisione della parola tra uomo e donna, tra donna e uomo? (Irigaray
2006, 151-153).

Può apparire sorprendente che Irigaray trovi la “chiave per una con-
vivenza universale” in quel che accade tra un uomo e una donna.
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158 FEDERICA GIARDINI

Come si arriva a un’idea del genere dopo secoli che hanno relega-
to questo rapporto tra gli aspetti necessari ma secondari della vita
comune? Così ha pensato Aristotele che dell’oikos, della sfera del
domestico e del lavoro, faceva un ambito non politico; così hanno
pensato i padri della politica moderna, Hobbes e Locke, quando fan-
no della famiglia l’anello di congiunzione tra il privato e il politico,
e lasciano le donne nel primo; così ancora fa Hegel che attribuisce
ad Antigone la funzione liminare di custode della dignità dei morti
– corpi muti e dunque non più cittadini – e dunque “eterna ironia
della comunità” pubblica e politica. E poi, dato che la relazione tra
una donna e un uomo avviene soprattutto nella forma dell’amore,
questa relazione non dovrebbe piuttosto riguardare le questioni del-
l’intimo, che poco ha a che fare o può fare per lo stato della convi-
venza su scala planetaria?
Nello sciogliere i fili dello scambio di parola tra donne e uomi-
ni, le vie che si aprono sono numerose. Pensiamo a quanto detto fin
qui, la relazione tra i due per secoli ha funzionato su una asimme-
tria concepita in modo gerarchico, il più da una parte, il meno dal-
l’altra: più e meno di funzione, destino, efficacia della parola e del-
la sua capacità di ordinare, classificare, organizzare. D’ora in avan-
ti dunque la parola “donna” e “uomo” andranno intese come sog-
getti di un ordine simbolico, che fa sì riferimento alla singolarità di
ciascuna e di ciascuno, ma si alimenta e si posiziona rispetto alla
provenienza e a valori secolari. Insomma, quando ci mettiamo nel-
la posizione di chi parla, il senso di ciò che diciamo non è solo orien-
tato da quel che vogliamo dire, ma anche dalla storia che, assunta o
respinta, ci colloca e orienta il senso delle parole dette (vedi capi-
tolo 1).
Il compito di trasformare questa struttura relazionale millenaria
spetta ad entrambi, questa una prima novità: una donna avrà il com-
pito di togliersi dalla posizione obbligata e ausiliaria, respingendo
non solo gli svantaggi ma anche i benefici, dovrà cioè apprendere a
parlare secondo una misura propria e reale. Ricordando quanto di-
ce Carla Lonzi, – un valore viene mitizzato quando si parla di ciò
che non si conosce, subentra allora la fantasticheria e l’asservimen-
to – non suona più paradossale pensare che anche una donna deve
imparare a parlare tenendo conto di un limite: non quello imposto
dall’esterno, ma quello che richiede di rendere conto della realtà che
si vive. Un uomo avrà il compito di assumere un altro genere di li-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 159

mite, a cominciare da quello che interessa ciò che la tradizione gli


consegna: la memoria di una presa di parola che si è voluta univer-
sale, valida per tutti, in breve, la storia dell’Occidente. Per parte ma-
schile ricominciare a parlare significherà assumere una posizione
parziale, nella consapevolezza di essere, non tutta, bensì una parte
dell’umanità.
Il limite rimette ciascuna e ciascuno in una posizione discorsi-
va che non è né subalterna né esaustiva, non si parla più prescin-
dendo da quel che l’altro/l’altra potrà dire, senza che questo impli-
chi esserne assorbite.

Il politically correct

Potremmo pensare che questa nuova postura nel parlare si riassuma


nel termine “rispetto”. In parte è così, ma non basta. Il rispetto as-
sunto esteriormente può esprimersi in una sorta di deontologia lin-
guistica, quella che nei paesi anglosassoni è stata definita come lin-
guaggio “politicamente corretto”. È innegabile che il nostro paese
abbia bisogno di parole e rappresentazioni nuove per la relazione tra
uomini e donne, dato che i primi sono debitori di un ordine del di-
scorso che, nella più pura tradizione, oscilla tra l’attribuire una sor-
ta di onnipotenza alle proprie vicine – madri, seduttrici – e il con-
seguente bisogno di ridimensionarla, all’occorrenza anche umilian-
dole. Ma il rispetto diventa efficace quando tocca le stesse struttu-
re dell’enunciazione, che determinano la posizione dei parlanti, e
non solo i contenuti degli enunciati, quel che si dice. Altrimenti si
rischia di separare il linguaggio dall’esperienza e dalla realtà, dai de-
sideri da cui nasce e a cui dovrebbe dare voce. Quel che si ottiene
con un linguaggio “politicamente corretto” non è niente di più – e
niente di meno – che un codice di comportamento che separa dra-
sticamente il pubblico dall’intimo, e talora dal privato, con tutte le
indesiderate conseguenze: conformismo e ipocrisia. La storia, e la
psicoanalisi, ci consegnano però anche un monito più inquietante:
là dove la parola viene censurata, costretta in modelli prestabiliti op-
pure inibita da un certo ordine dei valori, l’effetto può essere l’esatto
contrario di quello desiderato, alla repressione segue l’esplosione
violenta.
Il rispetto si incarna nell’assunzione di un limite, che sarebbe
dunque il tratto costitutivo della posizione di chi parla. Eppure, par-
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 160

160 FEDERICA GIARDINI

lare è un atto relazionale per definizione, la parola efficace lega il di-


re alla consistenza di chi parla e all’ascolto di chi la riceve. Come
si può entrare in contatto, come si può capire e interagire a ciò che
dice l’altro/l’altra? Non si rischia che l’assunzione del limite diventi
una sorta di benintenzionata indifferenza relativista: “lo dico, ma na-
turalmente vale solo per me” e, dunque, “lo dici, ma naturalmente
vale solo per te”? Un limite che finirebbe per esonerarci dal pren-
dere in conto quel che viene detto, la relazione ne risulterebbe pre-
giudicata.

La soglia

Per spiegare come limite e comunanza possa convivere nello scam-


bio tra parlanti, Irigaray inventa una nuova frase: “amo a te”.

Amo a te: significa mantengo con te un rapporto di indirezione. Non


ti sottometto e non ti consumo. Ti rispetto (come irriducibile). […] La
“a” è garante dell’indirezione. La “a” impedisce il rapporto di trans-
itività senza irriducibilità dell’altro, e reciprocità possibile. La “a”
mantiene l’intransitività tra le persone, l’interpellazione, la parola o il
dono interpersonale: parlo a te, chiedo a te, do a te (e non: ti do a un
altro). La “a” è il segno della non immediatezza, della mediazione tra
noi. Dunque, non ti ordino o ti intimo di fare queste cose, cosa che po-
trebbe equivalere a: ti ordino rispetto a tali cose, ti sottometto a tali ve-
rità, a tale ordine […] La “a” è il luogo della non riduzione della per-
sona a un oggetto (Irigaray 1992, …).

Appare così chiaro che parlare è più dell’ordine del gesto che della
cosa detta. Non si tratta di “acchiappare banane” e scambiarsele e,
per estensione, trattare chi ascolta come un oggetto da manipolare.
Il linguaggio, che ci accomuna, va imparato come gesto che sa man-
tenere una distanza nella comunanza, un gesto di condivisione, un
legame cioè che mantiene lo spazio di una separatezza, di una non
coincidenza.
Siamo tutti accomunati nel linguaggio, siamo esseri parlanti, la
nostra vita singolare è debitrice dello scambio linguistico, e le pos-
sibilità della convivenza avviene attraverso questi scambi che co-
stituiscono il tessuto sociale. Il linguaggio è di tutti, ma richiede la
cura di ciascuno e di ciascuna, altrimenti crea ordini ingiusti, inap-
propriati: la comunanza che abbiamo come essere dotati di lin-
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PARLARE NON È PRENDERE PAROLA 161

guaggio può anche imboccare strade che la distruggono, il silenzio


imposto, l’irrilevanza della parola pronunciata o, ancora, la parola
che pretende di essere l’unica.
Sono fortune e sventure che riguardano la relazione secolare tra
donne e uomini, eppure pensiamo al misconoscimento dell’umani-
tà dei popoli colonizzati, alla fatica di una presa di parola che non
si conformi ai valori della cultura dominante, o ancora alla pretesa
di verità e di giustizia avanzata da una cultura come norma per tut-
te le altre. Ci ritroviamo allora di fronte alle questioni urgenti degli
inizi del XXI secolo.

Riferimenti bibliografici

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IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 162

162 FEDERICA GIARDINI

to il mondo siamo sempre in due. Chiavi per una convivenza universale,


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IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 163

6.

NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE

Quando Lyotard formula la sua diagnosi sull’Occidente della fine


del XX secolo, la direzione che indica è di accusare il colpo: il “noi
Europei” non è in condizione di arrogarsi la pretesa di una narra-
zione – come quella dell’Illuminismo – che formulata da una parte
riguarda la libertà di tutti. La pretesa di una parola universale, che
stabilisce i principi e attua la norma di un individuo libero ha cono-
sciuto sviluppi e metamorfosi che non hanno fatto altro che smen-
tirne le buone intenzioni. Accusare il colpo significa, poi, “elabora-
re il lutto” dell’unanimità, di un noi omogeneo per l’essenziale, che
assunta la posizione di chi enuncia i principi fondamentali della
convivenza, progressivamente include i resti – popoli e individui –
che ancora non godono dei diritti previsti. Pur non potendo antici-
pare che la sua raccomandazione – non ignorare l’esito tragico del-
la pretesa universalistica e normativa che è stata la Shoah – può es-
sere scavalcata per riprendere esattamente l’impianto di una nuova
grande narrazione che avanza nuovamente la preminenza dell’Oc-
cidente (Fukuyama), tuttavia negli anni Ottanta del Novecento,
quando scrive, Lyotard sta già assistendo ad alcuni sviluppi che in-
tervengono nelle fratture dall’impresa della civiltà occidentale: “la
resistenza di quella che chiamerei la molteplicità dei mondi di no-
mi, la diversità insormontabile delle culture” (1986, 40). Questa di-
versità insormontabile tuttavia – e qui Lyotard ha la capacità di pre-
vedere almeno una delle tendenze dei decenni successivi – anziché
istituirsi come relazione tra posizioni di parola molteplici, tende a
costruirsi in identità contrapposte che raccontano a loro volta nar-
razioni unificanti, definite secondo i confini nazionali, omogenee al
proprio interno, per lingua, ethos e per religione.
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164 FEDERICA GIARDINI

Il proliferare di micro-grandi narrazioni

“Mi dirai che questi ripiegamenti sulla legittimità locale sono delle
reazioni di resistenza agli effetti devastatori dell’imperialismo e
della sua crisi delle culture particolari. È vero, ma la cosa conferma
la diagnosi, anzi l’aggrava […] non aprono alcuna prospettiva di co-
smopolitismo” (44). Il problema consiste proprio in questo, che
l’Occidente abbia perso la prerogativa di esercitare una pretesa, che
presentava come legittima, per le vie della ragione e della forza, non
significa che la pretesa stessa sia andata perduta.

Marramao: […] Il primo effetto, se ci pensi, è la clamorosa falsifica-


zione di uno dei più accreditati luoghi comuni del postmoderno: come
mai nell’epoca che doveva essere contrassegnata dalla fine di tutte le
«metanarrazioni» (secondo la diagnosi stilata da Lyotard sul finire
degli anni settanta nel suo fortunato pamphlet La condition postmo-
derne) assistiamo all’esplosione del grande racconto del Globale? Co-
me si spiega questa proliferazione di scenari planetari e questa do-
manda di nuove Grandi Sintesi dopo un ventennio di slogan sul tra-
monto delle ideologie, sulla fine delle filosofie della storia centrate sul-
le nozioni di Soggetto e di Senso? Come mai stiamo assistendo a que-
sta radicalizzazione generalizzata del conflitto in un’epoca che dove-
va caratterizzarsi per la «fine della Storia», l’indebolimento dell’Essere
e la progressiva erosione di ogni vertice e centro? (Bolaffi, Marramao
2001, 11).

Il termine cosmopolitismo utilizzato da Lyotard rimanda all’idea che


aveva Kant del progresso dell’umanità: accomunata dalla medesima
natura razionale, l’umanità è un punto d’arrivo all’infinito che si rea-
lizza per processi di conflitto e socievolezza. Tuttavia il cosmopoli-
tismo kantiano, accentuando la funzione accomunante della ragione,
trascura il materiale di cui tale ragione è fatta: culture, civiltà, il com-
plesso di valori condivisi, le rispettive lingue. L’effetto di questa di-
menticanza si traduce negli sviluppi degli inizi del XXI secolo: ogni
cultura avanza la propria narrazione legittimante e unificante, ogni
cultura – in questo più vicina allo spirito delle analisi di Hegel – ten-
de a ricostruirsi in un popolo. Fin qui si potrebbe comunque pensare
che tale pretesa avrebbe per effetto tutt’al più una radicale frammen-
tazione di quell’unanimità di cui andava comunque fatto il lutto: tan-
ti popoli, tanti racconti. Ma le cose non sono così semplici.
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 165

A cominciare dal fatto che l’unità di una parte non può più ga-
rantirsi con il ricorso alla geografia: oggi difficilmente una parte si
trova puramente e semplicemente a convivere in un’unica regione.
Da un lato, all’interno della stessa regione convivono più parti, ta-
lora diverse per lingua, per religione – si pensi all’India, ma anche
ai conflitti tragici che hanno disgregato la ex Jugoslavia, la regione
dei Balcani. Dall’altro, gli imponenti flussi migratori che sono av-
venuti nel Novecento, hanno fatto sì che non pochi individui – i na-
tivi delle ex colonie che, padroneggiando la lingua del paese colo-
nizzatore, vi si trasferiscono, oppure gli esodi da paesi immiseriti
dalla colonizzazione verso paesi più ricchi – si siano risolti a vive-
re in un paese diverso da quello di provenienza.
Pensare alla situazione di questo decennio nei termini di uno
“scontro di civiltà” (Huntington) – che sarebbe la risposta conflit-
tuale della “pace perpetua”, del cosmopolitismo kantiano – com-
mette lo stesso tipo di trascuratezza: nell’utilizzare il termine “ci-
viltà”, anche quando la si contrapponga a un’altra, si presume che
vi sia un elemento ultimo accomunante che la contraddistingue co-
me tale. Tale semplificazione non riguarda solo il pensiero occi-
dentale. Come l’Occidente deve abbandonare la propria pretesa uni-
ficante e unificata dall’ideologia universalistica, così l’Oriente non
può essere il termine che unifica e riunisce tutte le culture non oc-
cidentali sulla base di una comunanza in quanto Altro dell’Occi-
dente. L’oriente è plurale e appellarsi ai “valori asiatici”, da con-
trapporre a quelli occidentali – individualismo capitalistico contro
comunitarismo etico – oltre a ereditare la cattiva mossa del pensie-
ro occidentale, nel farne una tecnica di resistenza, non fa che per-
petuarla (Sen 2002).
Il problema consiste proprio in questo: una impossibile unani-
mità. Non solo ogni soggetto di parola non può più rappresentarsi
come un tutto coeso e omogeneo che può raccontarsi secondo un’u-
nica storia; sembra anche che la parola delle Costituzioni, il giura-
mento che legava individui riunendoli in un’unica nazione (vedi ca-
pitolo 2), non solo non eserciti più la propria funzione, ma anzi fi-
nisca per essere il quadro entro cui individuare in chi è incluso, nel
fratello, un nemico interno. Tramonta tragicamente l’unità di un
popolo come nazione che si lega con le parole di un patto e trova
nello Stato la propria rappresentazione e rappresentanza: in un’in-
versione paradossale, la mancanza di parola e di voce, la violenza
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166 FEDERICA GIARDINI

delle armi quando non della persecuzione etnica, nasce proprio dal
legame, dal giuramento.

Per mettersi in ascolto di questo caos urlante del “senza voce”, basta
tendere l’orecchio a una qualsiasi “novità”. Nel momento in cui rileg-
go tutto questo, tutti i punti del mondo, tutti i luoghi del mondo uma-
no, e non solo sulla terra, non solo in Ruanda e in Italia, nell’ex Ju-
goslavia e in Iran, in Israele e in Palestina, in Cambogia e in Irlanda,
a Tahiti e in Bangladesh, in Algeria e in Francia, in Ucraina e nei Pae-
si Baschi ecc. sono – e sempre sono stati – altrettanti vortici per le “di-
stinzioni chiare” […] Dare loro, ancora, dei nomi di paesi, è parlare un
linguaggio senza fondamento sicuro […] Come potrebbe un fratello
essere soggetto all’ostilità assoluta? Bisognerà invertire l’ipotesi. Non
c’è ostilità assoluta che per un fratello (Derrida 1994, 170 e 176).

Cosa raccontano gli altri dell’Occidente?

Che l’Occidente, per volontà o per forza, debba abbandonare la


pretesa di essere la parte dell’umanità che parla per tutti, non signi-
fica che tale pretesa, intatta, non passi ad altri. Il progresso indica-
to da Fukuyama, i motivi della guerra espansionistica degli Stati uni-
ti riformulati come ragioni filosofiche e dunque ulteriormente le-
gittimanti, che pure prevede l’emancipazione dei popoli “rimasti in-
dietro”, non prevede che questi assumano la stessa posizione e la
stessa pretesa che ha avuto l’Occidente, la cui prerogativa rimane in-
tatta e non condivisa. In questo decennio sono venute in chiaro ten-
denze diverse, talora contrapposte.

Il noi come tradizione

La prima è la ripresa dei racconti identitari, dove il “noi”, il soggetto


della narrazione, intrattiene un rapporto perlomeno duplice con la
propria storia. Il noi della storia raccontata è insieme appena nato e
antichissimo, nasce con il retrocedere della presa coloniale sulla pro-
pria cultura e, per rispondere alla domanda, “chi sono, se non sono
un personaggio della storia raccontata da altri?” fa ricorso a tempi
precoloniali, alla tradizione.
Il problema è che la tradizione, come ci dice Hannah Arendt,
non è un elemento fisso, collocato nel passato e a cui si può attin-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 167

gere in ogni momento in modo immutato, la tradizione vive della ri-


presa nel presente, nella trasmissione, che consiste nella ripetizio-
ne e nel passaggio, di generazione in generazione, di consuetudini,
comportamenti, discorsi. La tradizione consiste nelle pratiche che la
tramandano, la fanno passare di mano in mano, si sviluppa secon-
do una tendenziale continuità. Ma la tradizione invocata dai na-
scenti soggetti che entrano sulla scena mondiale si presenta invece
come una ripresa che subentra a un’interruzione: dopo la coloniz-
zazione, i popoli, così si dice, ritornano padroni della loro storia più
genuina, più autentica. Tale richiamo somiglia e differisce rispetto
ai tanti momenti rivoluzionari che abbiamo conosciuto nella nostra
storia, quando si sono presi a riferimento gli ordinamenti politici di
Atene o Sparta, ad esempio, per dare peso e spinta ideale al nuovo
inizio. Si tratta però, proprio perché la ripresa interviene in virtù di
un’interruzione, di una “tradizione inventata”. Che non tragga in in-
ganno il termine “invenzione”, come abbiamo già visto per le gran-
di narrazioni, il fatto che si tratti di storie non ne elimina l’efficacia
nel determinare comportamenti, valori, orientamenti dell’azione.

Per “tradizione inventata” si intende un insieme di pratiche, in genere


regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di
una natura rituale e simbolica, che si propongono di inculcare deter-
minati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è auto-
maticamente implicita la continuità con il passato. Di fatto, laddove è
possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un
passato storico opportunamente selezionato (Hobsbawm 1983, 3-4).

La tradizione inventata è una tradizione nuova, la continuità invo-


cata è fittizia, il passato è selezionato in funzione delle esigenze po-
litiche, di convivenza e di conflitto, del presente e, proprio perché
il rapporto tra passato e presente si presenta come lineare e continuo,
la tradizione si esplica e si realizza nella sola modalità della ripeti-
zione: il passato rimanda un’immagine immutabile che va sempli-
cemente riapplicata al presente. La tradizione inventata occulta il
tempo, il divenire, diversamente dalla consuetudine.
La consuetudine, la trasmissione di comportamenti che una co-
munità ha vagliato e constatato come efficaci – sapere cosa è com-
mestibile e cosa no, ad esempio – ha un suo tempo interno, proce-
de per conferme e modifiche, anche per innovazioni ed è dunque
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168 FEDERICA GIARDINI

contraddistinta dalla flessibilità – nuove combinazioni di cibi, altri


cibi scoperti, cibi diversi a seconda delle esigenze – pur dovendosi
sempre presentare come un movimento interno allo stesso ambito
dei comportamenti regolati. Diversamente anche dalla convenzione
dei rituali e delle procedure, la tradizione inventata risponde a un bi-
sogno identitario, mentre la prima risponde a dei bisogni di orga-
nizzazione dei comportamenti, più “tecnici” – nel Settecento gli
orari del pranzo e della cena non erano fissati socialmente e varia-
vano non solo a seconda delle abitudini dei gruppi, ma anche da pae-
se a paese, anche vicini come la Francia e l’Inghilterra. La conven-
zione è così più segnata dal cambiamento, a seconda dei comporta-
menti che deve armonizzare ed espleta la sua funzione proprio at-
traverso il cambiamento – si pensi al passaggio dal pranzo familia-
re, vera e propria istituzione del tardo Ottocento, al pranzo dome-
nicale, convenzione di una popolazione che dedica la settimana al
lavoro, fino ad arrivare al pasto fuori orario erogato nei fast food.
La tradizione inventata assolve invece alle proprie funzioni quan-
do si presenta come immutabile e, in virtù del riferimento al passato,
legittima e irrevocabile. Viene formulata e formalizzata allo scopo di
regolare la convivenza secondo un nuovo ordine che, intervenuto do-
po un’interruzione, non può contare sul sostegno di consuetudini con-
divise o di procedure rispondenti alle esigenze della comunità. Proprio
per questo deve fare ricorso alla coercizione o a un sovrappiù di im-
maginazione per ottenere l’adesione di tutti i membri interessati. Ven-
gono così in mente tutti gli episodi di costruzione comunitaria se-
condo una tradizione inventata, che non riguardano solo popoli o ci-
viltà, ma anche gruppi interni a singole società: dal giuramento di Al-
berto da Giussano, che nel XII secolo riunisce una lega di comuni
lombardi contro l’imperatore del Sacro Romano Impero, che legitti-
merebbe le pretese tutte contemporanee della Lega lombarda; alla de-
scrizione biblica della creazione dell’universo assunta dai “creazio-
nisti” negli Stati uniti per sviluppare una diversa concezione della vi-
ta sociale a forte impronta religiosa; fino al noto richiamo alla shari’a
– la legge desunta dal Corano – nei paesi islamici.

Noi è un altro

Quando abbandoniamo l’idea che chi parla e si rivolge in modo le-


gittimo a una comunità è un noi coeso e omogeneo, sia dalla parte
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 169

di chi enuncia il discorso, sia dalla parte di chi tale discorso lo rice-
ve, abbiamo un immediato guadagno di realtà e dunque di finezza
nelle possibili descrizioni.
Nei paesi che hanno conosciuto la colonizzazione, non sempre
si è assistito a un brutale esercizio della forza e della repressione –
come quando Hannah Arendt (vedi capitolo 1), racconta dell’ideo-
logia razzista utilizzata dall’imperialismo per legittimare la cancel-
lazione dell’umanità dei nativi. In alcuni casi i rapporti di coloniz-
zazione nell’Africa dei primi del Novecento si sono svolti in modo
più ambivalente. I coloni hanno accolto alcune presunte caratteri-
stiche delle popolazioni indigene – un’organizzazione di tipo rura-
le e tribale – per orientarle, se non manipolarle, nel verso di un’ot-
timizzazione politica della loro presenza sul territorio; un’opera-
zione che, pur meno efferata della mera eliminazione fisica o della
riduzione in schiavitù, non ebbe risultati meno violenti.
Così, in alcuni casi, i conflitti interni alle comunità, come quel-
li che opponevano gli anziani ai giovani, hanno stabilito rapporti di-
versi con la cultura e le innovazioni introdotte dai colonizzatori. Gli
anziani potevano fare riferimento alla tradizione per difendere gli in-
teressi consolidati nelle attività rurali contro le rivendicazioni dei
giovani; i giovani, per parte loro, potevano trovarsi a contestare la
tradizione utilizzando proprio la rottura introdotta dai valori colo-
niali nella tradizione della loro comunità. O ancora, anziani e gio-
vani si ritrovavano accomunati nella difesa della tradizione, di fron-
te alle rivendicazioni delle donne per una maggiore libertà. È una
tensione che ritroviamo ancora oggi, quando assistiamo ai conflitti
all’interno delle singole culture, occidentali e non, che si trovano di
fronte all’alternativa semplificata tra aderire a un ordine che si pre-
sume autonomo e contestarlo in nome di un’alternativa che spesso
somiglia troppo all’ordine dominante: il movimento verde in Iran è
composto da giovani e da donne che vogliono diventare Occiden-
tali?
Il problema è costituito dall’equivalenza tra l’Occidente, la sua
storia, e la libertà, un’equivalenza su cui Fukuyama sarebbe d’ac-
cordo, ma che non possiamo assumere a meno di ignorare le tante
voci autorevoli che l’hanno messa in discussione. Pensiamo agli at-
ti di esclusione che hanno fondato la democrazia moderna, all’uso
della menzogna per il conseguimento di scopi politici, ai rapporti di
forza che permangono anche quando la democrazia pretende di
IMP L'alleanza inquieta:Le lettere/Universita 4-11-2010 15:47 Pagina 170

170 FEDERICA GIARDINI

esplicarsi attraverso l’uso razionale e condiviso della parola pub-


blica, per non dire del lavoro niente affatto scontato che è richiesto
da una presa di parola consapevole, efficace, autorevole, come ci
hanno mostrato le pensatrici della differenza femminile.
Lyotard non sa indicare positivamente cosa si possa dire, una
volta elaborato il lutto del “noi europei”. Indica come atteggiamen-
to disponibile e responsabile, l’abbandono della pretesa di un’uma-
nità unanime, e la sua indicazione può ben valere per l’Occidente,
per le tante culture che sotto tale nome hanno condiviso alcuni prin-
cipi. Ma che cosa può significare rinunciare a un soggetto coeso, che
avanza pretese universalistiche su altre culture, per una cultura che
non ha condiviso le vicende occidentali?
È il problema che si pone un gruppo di intellettuali indiani, ri-
uniti sotto il nome di Subaltern studies che, tra fine Novecento e pri-
mi anni del Duemila, affronta il problema della presa di parola e del-
la narrazione per le culture non occidentali.
Per Dipesh Chakrabarty lo spazio per una presa di parola è già
disponibile. Alla fine del Novecento l’Europa non è più l’avanguar-
dia illuminata che guida l’umanità intera verso il progresso, è piut-
tosto una “provincia” tra provincie, che non fanno più riferimento a
un centro o a un vertice. E tuttavia lo spazio che così si libera non è
già lo spazio per una libera presa di parola e di narrazione.

In qualunque parte del mondo ci troviamo, è impossibile pensare il fe-


nomeno della “modernità politica” – la presenza di istituzioni moder-
ne quali lo Stato, la burocrazia e l’impresa capitalistica – senza ricor-
rere a categorie e concetti che affondano le radici nelle tradizioni in-
tellettuali, e perfino teologiche, europee. Concetti come cittadinanza,
Stato, società civile, sfera pubblica, diritti umani, uguale trattamento
di fronte alla legge, individuo – così come la distinzione tra pubblico
e privato, l’idea del soggetto, la democrazia, la sovranità popolare, la
giustizia Sociale, la razionalità scientifica e molti altri –, portano tut-
ti il peso del pensiero e della storia dell’Europa […] Io stesso scrivo
dall’interno di questa eredità (Chakrabarty 2000, 16-17).

Parlare nello spazio lasciato dalla provincia Europa è possibile, a


patto di distinguere tra la trasformazione dei processi economici, so-
ciali e politici, interni a ciascuna cultura, e le parole con cui se ne
racconta la storia. L’interesse della posizione di Chakrabarty sta nel
fatto che assume la consapevolezza che non esiste una tradizione pu-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 171

ra a cui fare riferimento, tanto meno in paesi che hanno conosciuto


la colonizzazione. Riprendendo la posizione e la tensione tra inno-
vazione e tradizione inventata dei giovani di alcune culture africa-
ne, l’autore fa i conti con i rischi che comporta raccontare una sto-
ria per quel che è veramente stata, e per quel che promette quanto
ai mutamenti.

Opacità, traduzione, resistenza

La tensione tra la presa di parola e il soggetto che la racconta, che


non può dire e dirsi secondo un io o noi originario, appare non ap-
pena si affronta la storia dell’India dell’Ottocento e Novecento. Se
la si guarda con le categorie Occidentali, secondo i personaggi con-
templati nella sua grande narrazione, questi scompaiono, non sono
soggetti. Polemizzando con Hobsbawm, Chakrabarty rileva che in
India

l’azione collettiva del contadini – organizzata il più delle volte lungo


gli assi della parentela, della religione e della casta, e nella quale di-
vinità, spiriti e attori soprannaturali figuravano normalmente al fian-
co degli esseri umani – rimaneva, dal suo punto di vista, segnata da una
coscienza che non aveva ancora fatto i conti fino in fondo con la logi-
ca secolare-istituzionale del politico. I contadini erano “individui pre-
politici”, che ancora non hanno trovato (o soltanto hanno cominciato
a trovare) un preciso linguaggio, con il quale esprimere le proprie
aspirazioni (ivi, 27).

Ovvero, i soggetti che non si costituiscono secondo le modalità oc-


cidentali – rivendicazione di diritti, associazione sulla base di una
comunanza di interessi, richiamo a istanze legittimanti secolarizza-
te, quando non richiesta di rappresentanza – non godono delle ca-
ratteristiche per essere considerati personaggi della Storia. Sembre-
rebbe che la parola politica che racconta una storia possa esercitar-
si soltanto entro alcune coordinate del discorso.
Ritorna in mente la presa di posizione delle pensatrici femmi-
niste. Se Lia Cigarini mette in discussione la capacità della demo-
crazia rappresentativa di rappresentare gruppi che non si sono co-
stituiti secondo le modalità politiche della tradizione occidentale e
che, a rigor di logica, gruppi non sono – essere donne e uomini non
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172 FEDERICA GIARDINI

significa appartenere a due gruppi distinti, significa segnare l’uma-


nità intera con una differenza costitutiva; Carla Lonzi respinge le
narrazioni che riescono a scorgere nella Storia solo i soggetti che si
sono costituiti attraverso il processo dello scontro per il riconosci-
mento, della lotta che designa i nuovi vincitori e i nuovi vinti, per
la presa del potere (vedi capitolo 4).
Chakrabarty si chiede dunque se, rifiutando le categorie della
storia universale occidentale, altri soggetti possano raccontare una
storia che sia loro appropriata. La risposta è ambivalente: esistono
in numero sempre crescente le narrazioni delle minoranze, dei grup-
pi che hanno conosciuto l’oppressione, ma tuttavia la loro esisten-
za anziché smentire potrebbe alimentare la grande narrazione. In-
cludendo le storie di gruppi fino a quel momento ignorati, il princi-
pio di una Storia unica e universale sembra infatti innovarsi per me-
glio riprodursi. Abbiamo già incontrato il problema: l’emancipa-
zione di un soggetto dalla sua condizione di non-parola, l’inclusio-
ne in una scena condivisa, può non significare altro che quel sog-
getto ha imparato a pronunciarsi secondo regole sì condivise, ma
che non sono le proprie, né per storia, né per condizioni.
L’auspicio di Chakrabarty è quello di una modifica dello stile
discorsivo che va sotto il titolo di storia, di un diverso stile dell’or-
dine del discorso e della disciplina, quel che Irigaray ha definito un
altro stile di enunciazione. L’autore nondimeno si sofferma più sul
lato dell’impossibilità di una comunicazione compiuta, sulla sua
opacità.

Il mio progetto si volge dunque a un orizzonte indicato da molti bra-


vi studiosi che si occupano delle politiche della traduzione. Essi han-
no mostrato che, partendo da quelle che sembrano “incommensurabi-
lità”, la traduzione non produce né assenza di relazioni tra le forme di
conoscenza dominanti e quelle dominate né corrispettivi capaci di
mediare adeguatamente tra le differenze; essa produce precisamente
quella relazione parzialmente opaca che definiamo “differenza” (ivi,
35).

La traduzione diventa così la figura di una comunicazione che con-


tinuamente produce un resto non assimilabile, impedisce sia la chiu-
sura in un’appartenenza che nega la necessità dello scambio, sia la
semplificazione di un’ideale consonanza e unanimità. Per meglio
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 173

comprendere questa caratterizzazione della differenza, nel verso


negativo di un’opacità inerente a qualsiasi comunicazione, può es-
sere utile la sua precisazione, a conclusione del testo, su cosa si deb-
ba intendere per raccontare una storia all’epoca della provincializ-
zazione dell’Europa: “mantenere in uno stato di tensione perma-
nente un dialogo tra due punti di vista contraddittori” (334). Va te-
nuto però presente che questi due punti di vista non hanno l’identi-
tà di due culture, o tantomeno di due nazioni, l’Europa e l’India,
bensì rappresentano due diverse modalità narrative: da una parte la
narrazione totalizzante e inclusiva, dall’altra, le narrazioni che con-
tinuamente interrompono questa pretesa totalizzante.
Eppure, così facendo, se si indica una via per non ripetere le pre-
tese identitarie e assimilative dell’Occidente, non si rende ancora dis-
ponibile una presa di parola affermativa: le storie che le minoranze
possono raccontare si profilano alla stregua di controstorie, che non
godono di un’autonomia nel dettare i criteri sui quali costruirsi e non
contribuiscono, per parte loro, alla costruzione di uno spazio di co-
munanza, di condivisione, dato che lasciano il farsi del contatto alla
pretesa invasiva della narrazione che ha intenti totalizzanti. Il rap-
porto di resistenza al dominio è pur sempre un rapporto e, per giun-
ta, un rapporto che lascia l’iniziativa al dominatore.

Essere un’altra

In polemica con l’impostazione del gruppo dei Subaltern Studies,


Gayatry Chakravorty Spivak – originaria di Calcutta che completa
i suoi studi negli Stati Uniti – mette decisamente in discussione la
possibilità che chi è subalterno possa parlare effettivamente. Diffi-
da della nuova posizione degli intellettuali occidentali, in particolare
Foucault e Deleuze, che dichiarano la fine delle pretese Occidenta-
li: per lei parlare della fine, teorizzarla, significa rimettersi nella po-
sizione di chi parla a nome dell’umanità intera – anche se nella for-
ma del pensiero critico, l’Occidente continua a produrre il proprio
Altro – tanto più quando questa crisi viene assunta da soggetti non
Occidentali.
Gli intellettuali del gruppo degli Studi Subalterni assumono in-
fatti l’impianto di Foucault, l’approccio che utilizza per individua-
re la presenza e il disciplinamento della parola del folle, per indivi-
duare i soggetti “subalterni”, categoria che viene ripresa dal pensiero
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174 FEDERICA GIARDINI

di Antonio Gramsci. Spivak definisce questa operazione una “vio-


lenza epistemica”, che agisce su diversi livelli: l’intellettuale occi-
dentale costringe nelle proprie categorie la parola degli intellettua-
li non occidentali che, assumendo le categorie altrui, chiedono “il
permesso di narrare”; l’intellettuale indiano prende il soggetto sub-
alterno e ne riduce l’eterogeneità a un’unica posizione, quella anti-
coloniale; infine, la parola della donna nella posizione subalterna si
trova all’incrocio dell’esercizio di tre cancellazioni: non vista dal-
l’occidente, non contata dall’intellettuale indiano tra i subalterni,
privata della parola da parte di chi è subalterno come lei.

All’interno dell’itinerario cancellato del soggetto subalterno, la trac-


cia della differenza sessuale è doppiamente toccata. La questione non
riguarda la partecipazione femminile alle insurrezioni, o le regole fon-
damentali della divisione sessuale del lavoro, per entrambe ci sono
“prove”. Piuttosto si tratta del fatto che, sia come oggetto della sto-
riografia coloniale, sia come soggetto dell’insurrezione, la costruzio-
ne ideologica del genere mantiene l’uomo in posizione dominante. Se,
nel contesto della produzione coloniale, il subalterno non ha storia e
non può parlare, la subalterna è ancora più profondamente relegata nel-
l’ombra (Spivak 1988, 28).

“Can the Subaltern speak? esce nel 1988 e scatena un dibattito


molto acceso, spesso basato su fraintendimenti, viene considerato un
manifesto dell’impossibilità di fare resistenza, di apparire sulla sce-
na come soggetti narranti. È però indubbio che, fin nelle dichiara-
zioni dello stesso Lyotard, vi è una difficoltà ad assumere la presa di
parola di altri soggetti, a cominciare dalle altre dell’Occidente stes-
so, le donne. In effetti quando Lyotard indica le direzioni da prendere
nell’elaborazione del lutto, non riesce a pensare che esistono sog-
getti, le donne, che non possono essere incluse nella fine, e nella pa-
rola che dice la fine, della grande narrazione occidentale. Torniamo
alla grande scena della Rivoluzione francese, difficile includere
Olympe de Gouges tra i protagonisti della pretesa di includere tutta
l’umanità sotto alcuni principi e dunque chiamare le donne del No-
vecento a fare il lutto di una pretesa che non hanno mai esercitato,
anzi, di cui sono state le prime vittime. La sua parola, detta e non
presa in conto, è piuttosto il segno che la pretesa universalistica del-
la Dichiarazione stava fallendo sin dalla sua nascita: non riusciva né
ad ascoltare né a tollerare la parola di un’altra, per quanto vicina.
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Questa constatazione ci dà una prima indicazione: non esiste una so-


la storia, che parla di tutti; esistono almeno due storie, che colloca-
no i personaggi nello stesso tempo presente, e che pure non sono
contemporanei, hanno passati e provenienze diverse: la storia che
possiamo raccontare al presente non ha una temporalità unica. Non
si tratta soltanto della compresenza di storie plurali, delle storie di
culture diverse – come cerca di rintracciare Chakrabarty – si tratta
di un presente che non può essere narrato come un’unica storia.

Speaking, talking, uttering

Così, la subalterna continua ad essere l’altra anche quando a pren-


dere parola e a narrare è un Soggetto non occidentale; la pretesa di
parlare a nome suo, non di cercarne la parola e ascoltarla, si ripete.
È un fenomeno che viene riconfermato ancora oggi, quando la li-
berazione di altri paesi viene raccontata con una parola unilaterale
– la retorica della “guerra giusta” contro “gli stati canaglia” – che
opera una gerarchia a partire dalla propria posizione di Soggetto uni-
co della storia. Più oltre, la parola della donna non occidentale è
doppiamente cancellata: rispetto all’ordine della propria cultura,
quando la vuole sottomessa, rispetto alla cultura “liberatrice” che di-
ce, al posto suo, in cosa consista la sua libertà.
In un’intervista di alcuni anni dopo Spivak chiarisce che la sub-
alterna è un avvertimento che chiama alla vigilanza sulla soglia tra
parlare-prendere parola-esprimere. La posizione subalterna non è
tanto quella di chi, lottando, ne sta già uscendo, come i protagoni-
sti delle insurrezioni contadine in India, e non può nemmeno esse-
re ricondotta a un’unica classe di oppressi. Ricordando il gesto di
Bhubaneswari Bhaduri, la giovane donna che si suicida secondo il
rito del sati, dell’immolazione sul rogo – di cui aveva parlato in Can
the Subaltern speak? e la cui “lezione avevo messo prima e sopra
Foucault e Deleuze” (1996, 288) – Spivak riflette se quel gesto pos-
sa essere ascoltato, preso in conto. Il suo lavoro, la sua interroga-
zione a partire da quel gesto, risponde già affermativamente, ma per
arrivarci – anche attraverso le molte incomprensioni che ha ricevu-
to a sua volta – è necessario un pensiero fine sulla parola e sull’a-
scolto.
Parlare (talk) non può essere equiparato al prendere o avere pa-
rola (speak). Speak indica una transazione tra chi parla e chi ascol-
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176 FEDERICA GIARDINI

ta – è il parlare ad altri o l’uno all’altro – e “questo è esattamente ciò


che non è successo nella caso di una donna che prende il proprio
corpo morente” per minare i presupposti di un presunto annulla-
mento della pratica del sati (289), pratica che ufficialmente venne
abolita durante il periodo della colonizzazione inglese. Spivak sot-
tolinea inoltre che quel gesto non è stato compiuto da una donna
subalterna, perché socialmente collocabile tra i subalterni. Bhuba-
neswari Bhaduri apparteneva alla classe media ed è dunque diffici-
le inquadrare, e dunque rendere ascoltabile, il suo gesto come una
rivolta contro l’oppressione sociale. Quel gesto non può essere re-
so immediatamente attraverso un codice di motivazioni, piuttosto la
sua decisione nasceva in una zona “notturna”, dove non agiscono le
conoscenze consapevoli, bensì premono le stratificazioni di riflessi
e di abitudini.
Il gesto della giovane donna non può nemmeno equiparato nem-
meno al parlare (talk) – all’emettere suoni articolati dotati di un si-
gnificato oggettivo perché condiviso – quanto al proferire suoni
(utter), mandare segni attraverso il corpo. Torna in mente la distin-
zione tra parlare e fare rumore (vedi capitoli 2 e 5), ma in questo ca-
so Spivak è interessata alla posizione in cui mettersi perché quel-
l’espressione sia recepita. L’inaccettabile della soglia che ripartisce
la parola ascoltabile e la parola-rumore è che questa soglia si ripro-
duce continuamente come rischio e non è collocabile in nessun luo-
go definitivamente circoscrivibile.
Il silenzio che non entra nei conti, una “certa incapacità di com-
piere atti linguistici” (290) è quello stato a cui la figura della subal-
terna richiama per una vigilanza continua, che non può allentarsi
perché il silenzio ha trovato un gruppo che ne è segnato, l’unico che
meriterebbe dunque attenzione. Il mancato ascolto, la mancanza di
parola, è al contempo un impedimento e una risorsa per rimettere a
fuoco cosa c’è da dire, cosa si sta esprimendo, che attraversa tutti,
ciascuno, ciascuna, nelle relazioni con altre e altri, tra altre, tra sé e
sé (vedi capitolo 5).

L’orientalismo rispedito al mittente

Che cosa accade quando si rifiuta la storia che ci viene cucita ad-
dosso dall’altro? Un primo gesto può essere quello di rispedire tale
storia al mittente. Fatema Mernissi, diversamente da Said, anziché
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 177

indugiare nella descrizione di come ha potuto farsi e imporsi, mo-


stra come quella storia parli non di chi è raccontato ma di chi la rac-
conta. A cominciare dal testo delle Mille e una notte, testo miliare
nell’immaginazione che l’Occidente ha proiettato sull’Oriente (ve-
di capitolo 1).
Quando, ai primi del Settecento, arrivano in Francia, nella ri-
elaborazione – traduzione linguistica e selezione dei contenuti – di
Antoine Galland, che è un orientalista ben intenzionato, deciso a far
conoscere la cultura di altri paesi al proprio, i racconti scatenano
l’immaginazione francese ed europea. L’Oriente diventa un luogo
favoloso popolato da uomini fortunati che godono delle grazie del-
le loro molte donne riunite nell’harem, il cui compendio è ben rap-
presentato dai successivi dipinti di Jean-Auguste-Dominique In-
gres, La grande odalisca (1814) e Il bagno turco (1863). Al bagno
turco sono riunite una moltitudine di donne nude, tutte che espri-
mono uno stato di sensualità e godimento, quando non in atteggia-
mento propriamente erotico tra loro. Ingres è tutt’altro che un li-
bertino, è pittore che impara l’arte alla scuola di David, impiegato
alla corte napoleonica, e che dedicherà la sua opera alle richieste
dell’alta borghesia francese. Il quadro rappresenta le fantasie ma-
schili che, essendo sotto censura nella società europea, trovano il lo-
ro corso nell’altrove di paesi che si presumono meno “civilizzati”.
Ma il quadro su cui più si appunta l’analisi di Mernissi è La gran-
de Odalisca che mostra una donna circondata da arredi lussuosi, lan-
guidamente abbandonata sui cuscini, nuda anch’essa, dalle forme
abbondanti che, in un altro dipinto, Odalisca con una schiava, di-
ventano debordanti.

Shahrazad politica

L’odalisca che Mernissi, marocchina colta e docente universitaria,


conosce è un’altra. Riprendendo in mano le Mille e una notte indu-
gia sul quadro della storia. Il re Shahriar viene tradito dalla sua spo-
sa che, per giunta, lo ha tradito con uno schiavo. Di fronte a questo
doppio tradimento, che sovverte tutti i rapporti di subalternità, al re
non basta uccidere gli amanti, chiede al suo visir di portargli ogni se-
ra una vergine con cui passerà la notte per poi ucciderla all’alba.
L’ultima della serie sarà Shahrazad che, per fermare la strage di gio-
vani donne che si sta perpetrando tra la sua gente, si reca di propria
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178 FEDERICA GIARDINI

volontà presso il re: – “padre, dice al visir disperato, voglio andare


in sposa al re; o riuscirò a salvare il mio popolo, o morirò” (Mernissi
2000, 47). Ecco dunque un primo rivolgimento: “Le mille e una not-
te si aprono con una guerra tra i sessi spietata, un dramma pieno di
sangue e di odio che ha per esito, grazie all’ingegno audace di Shah-
razad e alla sua padronanza dell’arte di comunicare, un finale da fa-
vola” (Mernissi 2000, 45-46). Nulla che risponda alle fantasie, e qui
dire occidentali e maschili è sinonimo, proiettate sulle odalische,
nessuna rilassata mollezza, nessuna sensualità dedicata.
Mernissi prosegue – notando di passaggio che, data la situazio-
ne sospesa tra la vita e la morte, la narratrice doveva essere tutt’al-
tro che rotonda e abbondante, piuttosto tesa e sempre più consuma-
ta – ridisegnando la figura e l’azione di Shahrazad.

La giovane che abita nell’immaginario degli artisti e dei pensatori


mussulmani è una figura della resistenza e dell’eroismo politico. Shah-
razad non va alla morte da ingenua. Ha una strategia, un piano ben de-
finito : parlare al re, tenerlo in sospeso in modo che non possa più fa-
re a meno di lei, della sua voce. Il piano andrà come previsto e Shah-
razad vivrà. Cambiare la mente di un assassino pronto a ucciderti,
narrandogli delle storie, è un’impresa straordinaria che esigeva dalla
potenziale vittima il possesso di tre doti strategiche: una vasta riserva
di informazioni, una lucida comprensione della mente criminale, e
molto sangue freddo per agire (Mernissi 2000, 48).

La capacità di trattenere l’attenzione del probabile assassino signi-


fica innanzitutto scegliere la parola per combattere una lotta a ri-
schio di morte, e per farlo oltre a un coraggio notevole, è necessa-
rio sangue freddo e padronanza di sé, quel tanto che basta ad “ave-
re le idee chiare”.
Ma la capacità fondamentale e dirimente risiede nell’educazio-
ne che ha ricevuto Shahrazad. Fin dalle prime pagine dei racconti è
detto che “aveva letto opere di letteratura, di filosofia e di medici-
na. La poesia non aveva segreti per lei, aveva studiato i testi storici
[…] era intelligente, sapiente, saggia e raffinata” (ivi). La sua cul-
tura, che non è solo istruzione sui testi, la rende anche capace di usa-
re il silenzio – silenzio a cui è obbligata durante il giorno e che uti-
lizza come spazio di osservazione e ascolto per meglio calibrare la
sua opera di narratrice e liberatrice. Attraverso il racconto, reso mi-
rabile dalla conoscenza che vi infonde, la sua parola stabilisce pro-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 179

gressivamente un rapporto, quella kiyasa che significa al contempo


relazione amorosa e negoziazione.

L’educazione, ancora

È la conoscenza a rendere audaci. L’educazione è, per Mernissi, la


chiave per prendere parola in un paese islamico, ma le coordinate
che traccia per questo gesto dispongono diversamente la tensione tra
oppressione e libertà, tra silenzio e parola, che abbiamo visto fin qui.
Innanzitutto la tradizione islamica – Shahrazad è la protagoni-
sta di una serie di narrazioni composte intorno al IX secolo – di-
versamente da quella occidentale, non esclude la parola dai motivi
di attrazione tra uomini e donne. Può sembrare sorprendente, eppu-
re rispetto alla retorica contemporanea che schiaccia la cultura isla-
mica sulla mancanza di democrazia e libertà, su questo punto il
rapporto tra Occidente e Islam è invertito: mentre in Occidente tro-
viamo elogi del silenzio delle donne dall’antichità fino all’epoca
moderna inoltrata e assistiamo a una lentissima concessione del di-
ritto di voto (1946 per l’Italia, 1971 per la Svizzera); nei paesi isla-
mici, la cultura rientra tra le attrattive di una donna, perlomeno a
partire dalla dinastia degli Abassidi nell’VIII secolo e nei trattati sul-
l’amore dei mistici – di cui arriva traccia, nella nostra tradizione, nei
componimenti dell’amor cortese e dello stilnovo (XII e XIII seco-
lo) – e il diritto di voto, in alcuni paesi, viene conseguito prima (Tur-
chia 1923, India 1935). E infine, come rivelano le sue ricerche in
Sultane dimenticate, nella tradizione islamica donne con funzioni di
governo sono presenti in modo imponente fin dal VII secolo.
Questo naturalmente non significa che Mernissi consideri il
proprio paese come un luogo di libertà femminile e di presa di pa-
rola realizzate. La sua posizione è interessante perché, a partire dal-
la sua presa di parola di donna colta, rende disponibili altri materiali
affinché un paese islamico si rappresenti a partire dalla propria tra-
dizione e una donna si impadronisca della possibilità di raccontar-
si. Inoltre, proprio in virtù della posizione che assume – che non la
aliena dalla propria provenienza, ma nemmeno la schiaccia su un
mutismo cui dovrebbe condannarla la sua presunta tradizione di
appartenenza – può rivolgersi anche alla cultura occidentale, non
tanto per chiedere giustizia e riconoscimento, ma per rimandarle –
come nel caso dell’harem – un’immagine di sé. A fronte della reto-
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180 FEDERICA GIARDINI

rica occidentale sulla libertà delle proprie donne contrapposta al-


l’illibertà delle donne islamiche, Mernissi parla e invita a una ri-
flessione su velamento e svelamento tra Oriente e Occidente, con-
statando come in Occidente la bellezza viene ridotta a un’attrattiva
unidimensionale, contrapposta ad altre capacità, diventando così
una gabbia, per quanto imposta senza coercizione.

mentre il mussulmano limita la sua oppressione allo spazio pubblico,


l’uomo occidentale manipola il tempo e la luce […] le immagini sono
tempo condensato. Non costringono nessuna donna a conformarsi al-
l’immagine ideale né a portare la taglia 40, sguinzagliando la polizia
come invece fanno gli ayatollah contro quelle che fanno scivolare il
chador. Non dicono niente. Salvo che il giorno in cui volete compra-
re una gonna, scoprite di essere un mostro (ivi, 199 e 108).

La presa di parola di Fatema Mernissi assume dunque valore su di-


versi piani di interlocuzione: rimanda a sua volta un’immagine al-
l’Occidente, destituendolo dalle sue pretese normative; interpella gli
interpreti della tradizione nel suo paese e, non da ultimo, presenta
alle proprie concittadine testi e racconti della tradizione da ripren-
dere per una maggiore libertà al presente. L’educazione invocata da
Mernissi non è quella dei programmi nazionali, ma quella di una tra-
dizione autorevolmente reinterpretata per una presa di parola fem-
minile, secondo pratiche conflittuali della parola, anch’esse appar-
tenenti alla tradizione femminile. Di Mille e una notte ne esistono
molte: la rielaborazione europea, il testo arabo non “purgato” e le
sue infinite varianti, e quelle che passano di nonna in madre in fi-
glia, attraverso le libere variazioni orali.

L’Europa oggi

Siamo più giovani che mai, noialtri Europei, perché una certa Europa
non esiste ancora. È mai esistita? Ma noi siamo come quei giovani che
si alzano, sin dal mattino, vecchi e stanchi. Siamo già esauriti. Questo
assioma della finitezza comporta un nugolo di questioni. Da quale
esaurimento i giovani vecchi Europei che noi siamo devono ri-parti-
re? Devono ri-cominciare? Oppure, partenza dall’Europa, congedar-
si da una vecchia Europa? O ripartire verso una Europa che ancora non
esiste? O ripartire per far ritorno verso una Europa delle origini che bi-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 181

sognerebbe insomma restaurare, ritrovare, ricostituire durante una


grande festa delle «rimpatriate»? (Derrida 1991, 13).

Anche in Europa, uno degli Occidenti, si comincia ad accusare non


solo il contraccolpo di un pensiero autocritico, di una narrazione che
rifiuta di farsi alle condizioni precedenti, ma soprattutto il contrac-
colpo di un ordine politico che si è modificato proprio in virtù del-
la propria storia e delle storie che, appena incipienti, cominciano a
entrare nella propria. A constatarlo è un intellettuale come Jacques
Derrida, un pied noir, come sono chiamati i francesi nati nelle co-
lonie del Nord Africa. La Francia, la lingua francese, pur essendo la
stessa per chi vi è nato e per chi vi arriva, unisce e unifica un solo
popolo? La democrazia – l’ordinamento politico che si connota per
l’estensione della presa di parola e il pronunciamento attraverso il
diritto di voto – fa riferimento ed è costituito da un solo demos?
Come Derrida, nel periodo che ha inizio con l’indipendenza
delle ex colonie – i paesi del Maghreb, paesi dell’Africa, dell’India,
della regione cosiddetta Indocinese, – molti abitanti che non hanno
la cittadinanza del paese ex colonizzatore, ma che pure ne parlano
la lingua (soprattutto il francese, l’inglese, lo spagnolo), danno ini-
zio a un imponente flusso migratorio verso i paesi Occidentali che,
per motivi diversi, dura ancora oggi. È così che comincia a definir-
si nei paesi d’arrivo la “società multiculturale”, un territorio condi-
viso da persone, talora aggregate in comunità, omogenee per pro-
venienza, per lingua materna, per tradizioni, quando non per reli-
gione.
Che ne è della democrazia nel momento in cui il demos non par-
la la stessa lingua? Come renderla degna del suo nome quando mol-
ti di quelli che convivono insieme ad altri, non hanno cittadinanza,
ci sono ma non hanno parola, perlomeno non quella dei diritti e, pri-
mo fra tutti, il diritto di voto? L’interrogativo è antichissimo, nasce
insieme alla democrazia stessa – non tutti quelli che parlano entra-
no nel conto della convivenza (vedi capitolo 2).
Questa convivenza che, ancora una volta, ripartisce chi è sem-
plicemente presente da chi può parlare, prospetta due ordini possi-
bili della cittadinanza. Da una parte, la convivenza tra comunità di-
verse per lingua e cultura, che godono di alcuni diritti, ridotti al mi-
nimo indispensabile, senza essere costrette a comunicare tra loro (il
modello anglosassone e liberale); dall’altra, l’assimilazione ai cri-
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182 FEDERICA GIARDINI

teri di cittadinanza del paese ospite, che fa recedere nella sfera del
privato la cultura di provenienza (modello francese, repubblicano).
Entrambi i modelli contemplano il bordo, la zona d’ombra, che in-
clude quelli e quelle che, pur essendo presenti, del demos ancora non
fanno parte, non hanno cittadinanza.
La fragilità di queste soluzioni è oramai quotidianamente di-
mostrata dai conflitti – violenti perché privi di parola, amputati del-
la possibilità di uno scambio – che si aprono all’interno delle singole
società, nel quadro più ampio e violento di uno stato di guerra tra
paesi Europei, e occidentali, e altre zone del mondo. La violenza è
acuita da una novità rispetto alle antiche e ripetute partizioni che, in
democrazia, hanno separato chi parla da chi non parla: i/le non-cit-
tadini/e nel paese ospitante sono cittadini e cittadine nei loro paesi
di provenienza, non sono dunque esseri senza parola, che possono
anche assumere questa descrizione per se stessi, bensì sono cittadi-
ni che, in virtù del loro trasferimento, vengono privati della parola,
o ancora hanno parola a condizione. Le condizioni possono natu-
ralmente essere le consuetudini e le leggi del paese ospite, ma cosa
accade quando, per legge, la cultura di provenienza deve rimanere
fuori dalla scena politica, dalla presa di parola pubblica? La solu-
zione “multiculturale” non è la soluzione, ma il problema stesso.

Questo tentativo è direttamente contrario all’accettazione di un mul-


ticomunitarismo che svuoterebbe di ogni contenuto culturale o politi-
co l’unità dell’insieme sociale. Poiché tale soluzione non sarebbe al-
tro che il sommarsi della crisi del pensiero liberale e del modello ri-
voluzionario: in quanto il liberalismo si limiterebbe a lasciare che il
mercato organizzi gli scambi, mentre l’idea rivoluzionaria di popolo
verrebbe mortificata in un’affermazione comunitaria chiusa in se stes-
sa e non disposta ad accettare qualsivoglia forma di integrazione con
altre comunità.
A che pro parlare ancora di democrazia in un paese che non sarebbe
se non un aggregato di comunità collegate tra loro soltanto dal mercato
e da altri sistemi di regolazione? E perché parlare ancora, in questo ca-
so, di sistemi politici, e come impedire segregazione, razzismo e ag-
gressione? (Touraine 1997, 47).

La soluzione della convivenza multiculturale che permette la parte-


cipazione a patto che si lascino i segni della propria provenienza nel-
l’ambito del privato è infatti poco efficace, proprio in virtù della co-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 183

municazione: ciò che un tempo era un gesto la cui portata non ri-
guardava la sfera personale – il modo in cui siamo vestite quando
accompagniamo nostro figlio a scuola – diventa pubblica, quando
non un oltraggio.
Appare allora insufficiente l’idea di una democrazia basata sul-
la comunicazione e sul dialogo tra parlanti, accomunati dalla me-
desima capacità razionale e, soprattutto, linguisticamente compe-
tenti nello stesso grado. Abbiamo infatti visto che la competenza lin-
guistica, che rende efficace la comunicazione e la negoziazione tra
parlanti, presuppone molto: dalla determinazione delle posizioni
dei parlanti che avviene su scene diverse da quella dello scambio
(essere un immigrato è una posizione diversa da quella dell’essere
un cittadino) alla conoscenza delle regole, esplicite ma soprattutto
implicite, che costituiscono la possibilità dello scambio – cono-
scenza degli usi, accesso alle risorse, educazione, padronanza della
lingua, etc., (vedi capitolo 4).
Immaginare una comunicazione tra esseri parlanti che si presu-
mono o si obbligano a essere uguali

non pare sufficiente per fondare una democrazia e, più precisamente,


per assicurare la comunicazione interculturale. Tutti i tentativi spesi
per isolare l’ambito della politica o della democrazia dall’insieme del-
la vita sociale hanno per risultato di isolare la cittadinanza dalle istan-
ze sociali e culturali concrete, il che non permette di fondare la de-
mocrazia, poiché essa non esiste senza lotta contro forme e meccani-
smi di potere, dunque senza assumere funzione di rappresentanza dei
conflitti, cosa ben diversa da quanto è implicato dal tema della comu-
nicazione, che rimane nell’ordine cognitivo (ivi, 60-61).

Dia-loghi e iterazioni

Essere uguali perché parlanti la medesima lingua è la nuova finzio-


ne che pretende di unificare e di risolvere i conflitti che potrebbero
nascere al di qua del linguaggio. Se la propria cultura di apparte-
nenza prevede di cambiare il luogo in cui vivere, sembrerebbe suf-
ficiente farlo e intavolare una discussione deliberativa ogni volta che
si arriva alla nuova destinazione. L’insufficienza dell’idea di una de-
mocrazia fondata sull’atto e sullo scambio linguistico, che sarebbe
trasparente e volto all’intesa, viene smentita, spesso violentemente,
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184 FEDERICA GIARDINI

dagli episodi di scontro e di insofferenza tra chi si trova a condivi-


dere il medesimo spazio.

Dall’uno all’altro

Le mosse da fare per incrinare l’idea fittizia di una parola omogenea


e trasparente a se stessa sono diverse. A cominciare dall’abbandono
dell’idea che la parola abbia una funzione di rappresentanza. Come
abbiamo visto (capitolo 4), lo scambio attraverso argomenti tende a
istituire di nuovo una situazione competitiva in cui l’argomento mi-
gliore – leggi, il più forte – dovrebbe avere la meglio, quando inve-
ce non si tratta, come prima e ultima cosa, di vincere, bensì di trovare
la via alla convivenza, non si tratta cioè di affermare una parte, ben-
sì di dare luogo al comune, alla condivisione.
Ora la parola che rappresenta è chiamata a trasmettere le ragio-
ni di una parte, che al suo interno, di nuovo, si presume coesa. In
questo modo, però, si perde la capacità di usare la parola per rendere
giustizia delle articolazioni interne del luogo da cui emerge e si
perpetua l’illusione che l’unità sia la risorsa per evitare il conflitto.
Abbiamo però visto che è il contrario che permette alla comunica-
zione di avvenire. Nel momento in cui si rinuncia a parlare per tut-
ti, in cui si parla in prima persona e, anziché argomentare, si rac-
conta la propria storia, la presa di parola singolare fa emergere la
pluralità dei riferimenti, da cui si parla e a cui si parla (vedi capito-
lo 4). Si delinea così uno scambio che, anziché cancellare la possi-
bilità di fraintendimenti, li assume a punto di partenza e permette di
modificarli attraverso la concretezza della situazione singolare che
viene raccontata, anche nelle coordinate che rendono possibile tale
racconto – pratiche, valori e simboli (Young 1996).
Un’altra mossa, che anch’essa pone fine alla pretesa di unità del-
la lingua, è quella di mettere fine alla concezione che distribuisce le
posizioni dei parlanti secondo un “io-noi” e un “egli-loro”: quando
si parla per non ascoltare un altro, per sopraffarlo o metterlo a tace-
re, oppure quando si parla con l’intenzione di comunicare a un al-
tro, ma si continua a porre questo referente esclusivamente fuori da
sé. Abbiamo già visto che non esiste comunità di appartenenza che
non sia attraversata dall’alterità, ma può forse suonare meno evi-
dente pensare che nemmeno tra sé e sé esiste una coincidenza, una
trasparenza linguistica perfetta.
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 185

Quando Spivak indica nella subalterna un monito che chiama al-


la vigilanza sul mancato ascolto, sula mancanza di parola, parla di un
impedimento e di una risorsa che attraversa tutti, ciascuno, ciascuna,
anche tra sé e sé. Derrida, per parte sua, racconta la sua esperienza
di franco-maghrebino e mostra come ciascuno, ciascuna, possa con-
statare un’alterità che attraversa la propria lingua materna.

Dal lato di chi parla o scrive la suddetta lingua, questa esperienza di


solipsismo monolingue non è mai di appartenenza, di proprietà, di po-
tere, di padronanza, di pura “ipseità” (ospitalità o ostilità), quale che
sia il tipo. Se la “non-padronanza di un linguaggio appropriato” di cui
parla Edouard Glissant qualifica in primo luogo, più letteralmente, più
sensibilmente, situazioni di alienazione “coloniale” o di asservimen-
to storico, questa definizione, se le si imprimono le necessarie infles-
sioni, porta anche molto al di là di queste condizioni determinate. Va-
le anche per quella che si chiamerebbe la lingua del padrone, dell’ho-
spes o del colono (Derrida 1996, 29).

Che sia il colono o che sia l’ospite, il “padrone” di casa che ospita
gente di altre culture non ha a disposizione un analogo rapporto di
padronanza sulla lingua. Piuttosto l’accesso stesso alla lingua ci
mette in una posizione di alterità. In negativo, quando il dialetto o il
linguaggio di comunità ristrette, create dalla politica o dalle nuove
tecnologie della comunicazione, oppure quando si perde la compe-
tenza linguistica per il venire meno dell’istruzione e dell’educazio-
ne, per via di un analfabetismo di ritorno, o ancora quando tale com-
petenza viene delegata ad altri, agli “esperti”, si creano così altrettanti
limiti della partecipazione agli scambi linguistici e sociali. In positi-
vo, quando non abbiamo ancora pienamente dispiegato le possibili-
tà di significare noi stessi e di andare verso altri. Il linguaggio è dun-
que sempre attraversato dal problema della partecipazione, che ci
rende una parte rispetto alla dimensione linguistica, che sempre ci ec-
cede, secondo una parzialità che può funzionare da segregazione
oppure da limite che fa spazio alla parola altrui e all’ascolto.

Il dia- della differenza

A sviluppare positivamente questa alterità costitutiva nella lingua è


Luce Irigaray. Se parlare significa mantenere nella comunicazione
un rapporto di indirezione, di non immediatezza – il segno “a” del-
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186 FEDERICA GIARDINI

la frase “amo a te” –, il limite di una irriducibilità a uno, a un unico


parlante, diventa lo spazio da cui partire per la condivisione. Co-
municare è condividere le parole dette, passando da un linguaggio
che si organizza attraverso il “parlare di” a uno che pratica il “par-
lare con”, ricercando “un’altra relazione con il linguaggio, il cui va-
lore di verità e di comunicazione non sarà più valutato in base al-
l’allontanamento dell’esperienza concreta e all’asepsi rispetto a ogni
dimensione sensibile nello scambio con l’altro, in particolare di ge-
nere differente” (Irigaray 2006, 172). L’impossibilità, e la violenza
esercitata dall’idea di un soggetto unico, valido per tutti, viene este-
sa da Irigaray anche all’ambito della presa di parola e dell’ordine
politico che costituisce ed entro in cui avviene. La democrazia, a og-
gi, per tenere fede alla propria vocazione di ordinamento basato sul
libero accesso alla parola e sul suo scambio, ha bisogno di partire da
questa differenza costitutiva, quella tra uomini e donne che, proprio
perché non accedono e non usano il linguaggio nello stesso modo,
diventano il laboratorio per una parola pubblica rispettosa di cia-
scuno e ciascuna: la democrazia comincia a due (Irigaray 1994).
Il linguaggio assunto nella sua differenza costitutiva permette
così di trovare un altro ordine – nel conflitto, nella comunanza e nel-
la condivisione – all’interno di una società, come parola divisa (dia-
logo), e nella relazione con altre culture.

A meno di non volerci ancora dei ciechi colonialisti, oggi siamo spin-
ti, globalizzazione oblige, ad aprirci al riconoscimento di altre cultu-
re. Questo ci costringe a mettere in questione i valori del medesimo,
dell’identico, del proprio, dell’uguale che hanno dominato la nostra
tradizione logica per secoli. E ci impone anche di interrogare una con-
cezione dell’universo fondata su simili paradigmi, il cui carattere par-
ticolare, e dunque autoritariamente normativo, appare ormai più o me-
no chiaramente. Da qui nasce il ricorso a certi modelli […] Ma cosa
può significare la loro imposizione, dato ciò che oggi sappiamo della
diversità dei soggetti viventi e parlanti? […] da realtà considerata se-
condaria, empirica, utile innanzitutto alla riproduzione, la differenza
sessuale potrebbe diventare il vettore principale, o perlomeno una di-
mensione decisiva, per l’elaborazione di una nuova cultura. Una cul-
tura che risponderebbe alle aspirazioni e alle necessità del nostro tem-
po, a patto di non ricadere nella riduzione dell’uomo e della donna so-
lo a oggetti di analisi, bensì di considerare la differenza stessa come
fonte della relazione. Ora, la differenza non si oggettiva. Produce re-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 187

lazione senza lasciarsi pensare come oggetto. Per rispettarla, e anche


per renderla più effettiva, è importante riconoscere l’irriducibilità del
mondo maschile e del mondo femminile e anche cercare come questi
possano entrare in relazione senza annullarsi. Si tratta, dunque, non
tanto di analizzare il maschile e il femminile in tratti distintivi, più o
meno quantificabili, comparabili, e persino sostituibili, quanto di di-
venire attenti alla specificità delle relazioni che il soggetto maschile o
il soggetto femminile intrattiene con se stesso o se stessa, con l’altro,
con gli altri, con l’universo già esistente (Irigaray 2006, 174-175).

Guardare alla democrazia come un ordine della convivenza basato


fondamentalmente sulla parola non può avanzare la pretesa di esse-
re un ordine giusto, a meno di non saper riconoscere innanzitutto la
differenza che la attraversa e che la costituisce in quanto tale. Tro-
viamo qui uno scioglimento dei nodi che la tradizione occidentale ha
stabilito tra parola, legame, rappresentanza, inclusione ed esclusio-
ne, rispetto alla parola che conta in ambito politico. Questo sciogli-
mento avviene però a una condizione: che lo stile dell’enunciazione,
il pensiero e le pratiche che riguardano il linguaggio si trasformino
radicalmente, secondo ciò che Irigaray chiama un’etica della diffe-
renza. Come abbiamo visto, possono cambiare le norme e le proce-
dure che regolano lo scambio, ma se questo non ha origine in un
cambio della posizione dei parlanti, non vi è scioglimento effettivo.

I diritti umani e Odradek

La presa di parola in una democrazia differenziale deve affrontare


alcune contraddizioni iniziali, proprio quando si confronta con le
norme che dovrebbero renderla possibile e che, al di là delle inten-
zioni ispiratrici, spesso producono nuovi regimi di esclusione.
Proprio per evitare la violenza delle suddivisioni che distribui-
scono, da Aristotele in poi, chi parla e chi ha il diritto di parlare, chi
è cittadino e chi non lo è, sono state scritte le varie carte dei Diritti
umani, a cominciare, in epoca contemporanea dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo del 1948, che accompagna la nasci-
ta delle Nazioni Unite. Esistono dei diritti fondamentali, che ri-
guardano l’essere umano, ancora prima che appartenga a una co-
munità politica, sono infatti diritti che eccedono la cittadinanza: il
diritto alla sicurezza contro massacri e torture, il diritto al benesse-
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188 FEDERICA GIARDINI

re contro il mancato accesso all’educazione e ai mezzi di sostenta-


mento, il diritto a difendere la sopravvivenza della propria comuni-
tà contro i genocidi e il saccheggio delle risorse naturali si accom-
pagnano a un diritto generalizzato alla libertà di pensiero e religio-
sa e alla libertà di espressione, di protesta e di voto.
Una prima contraddizione viene così registrata da Slavoj Žižek:
come può convivere il diritto alla vita contro massacri, genocidi, po-
vertà e miseria culturale, con il diritto all’espressione? I diritti uma-
ni non sono stati pensati quale strumento di intervento sulla zona di
confine che separa surrettiziamente chi è umano da chi non lo è? La
vittima, oggetto di persecuzione o priva dei mezzi elementari per
una vita degna, non è esattamente definibile nei termini di chi man-
ca della parola – che sia lo scambio tra parlanti (speech), che sia la
parola che veicola significati oggettivi perché condivisi (talk) – e
che tutt’al più esprime segni con il corpo (utter)? Žižek equipara
questa posizione allo strano personaggio di un racconto di Kafka,
Odradek, un rocchetto animato, che pur avendo la parvenza di un vi-
vente, rimanda costantemente al non umano, a un oggetto muto.
Considerati da questo punto di vista i diritti umani sarebbero uno
strumento nelle mani di chi già ha diritto di parola, entro un ordine
già costituito, che interviene in quelle zone liminari tra umano e non
umano, abitato da esseri non ancora parlanti. La riedizione benin-
tenzionata del rapporto tra colono e colonizzato?

La presa di parola di un’altra: un’iterazione democratica

In effetti il diritto non può prescindere dalla presa di parola di chi lo


rivendica. Ma questa constatazione genera una seconda contraddi-
zione che viene esaminata da Seyla Benhabib. La possibilità di par-
lare in modo che la parola sia intesa come una richiesta di diritti può
avvenire nel complesso di diritti e doveri, di garanzie, nell’orizzonte
della cittadinanza. Ora, le forme che, a oggi, le culture occidentali
hanno saputo trovare per la cittadinanza oscillano, come registra
Touraine, tra la cancellazione delle storie – provenienza, credenze,
simboli – di chi è incluso e la convivenza di fatto tra comunità che
svolgono l’essenziale della vita al proprio interno e che comunica-
no con altre attraverso interazioni economiche oppure attraverso
una sfera ristretta di diritti, che escludono l’ambito della vita socia-
le (salute, istruzione, etc.).
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 189

Una via d’uscita a queste formule insoddisfacenti per una de-


mocrazia differenziale consiste, per Benhabib, nell’indebolire la
pretesa normativa degli obblighi di cittadinanza e nel considerare
quest’ultima una sfera mobile, dai confini non definiti una volta per
tutte. La presa di parola è l’atto linguistico che agisce in questa du-
plice direzione, come messa in discussione delle norme, della parola
che lega, che crea cittadinanza, e dunque come mobilitazione dei
confini di inclusione ed esclusione che la determinano.
L’esempio portato (Benhabib 2006) è quello della presa di pa-
rola di giovani donne mussulmane che si rivoltano contro la deci-
sione dell’Assemblea nazionale francese di proibire l’uso di qual-
siasi simbolo religioso all’interno delle scuole della Repubblica (10
febbraio 2004): Fatima, Leila e Samira disobbediscono e si presen-
tano a scuola indossando il velo. A questo gesto fanno seguito mol-
te manifestazioni, dichiarazioni pubbliche, interventi sui media.
Leggere tale disobbedienza – come è stato fatto – come uno scon-
tro tra civiltà all’interno della stessa società, manca di cogliere il
movimento differenziale che ha attraversato quell’ordinamento de-
mocratico. Fatima, Leila e Samira, si è detto, stavano obbedendo al-
le regole della loro comunità di appartenenza, che vuole le donne ve-
late in pubblico. E tuttavia, si sono espresse, con il corpo, e hanno
preso parola pubblica, affermando così una differenza rispetto alla
posizione che la tradizione mussulmana più recente può riservare al-
le donne. D’altra parte, la possibilità di parlare in pubblico, non ha
significato assimilare i valori occidentali dell’emancipazione fem-
minile contro quelli della propria comunità, perché il loro gesto
esprimeva questi ultimi.
Piuttosto si è trattato di un gesto che ha spezzato la coesione in-
terna delle due parti, Islam e Occidente. In effetti alcuni principi del-
la democrazia repubblicana francese sono stati utilizzati per aprire
uno spazio di parola che ha scombinato gli assi della rappresentan-
za: attraverso il principio ugualitario che regola il sistema educati-
vo francese, le ragazze hanno potuto avanzare la richiesta di non ve-
dere relegate nel privato le loro storie e culture. E, insieme, la di-
mensione pubblica ha toccato la posizione che riservava loro la tra-
dizione di appartenenza.
Benhabib definisce questo gesto un’iterazione democratica che
ridefinisce la democrazia non come un ordine basato su principi ori-
ginari e immutabili, ma che anzi vive proprio della loro costante mo-
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190 FEDERICA GIARDINI

difica, quale forma più compiuta della realizzazione di un regime di


parola pubblica e condivisa.

Con iterazioni democratiche mi riferisco ai complessi processi pubblici


di argomentazione, deliberazione e scambio che hanno luogo tra le di-
verse istituzioni giuridiche e politiche e nelle associazioni della società
civile, attraverso i quali le rivendicazioni e i principi universalistici dei
diritti vengono contestati e contestualizzati, invocati e revocati, pro-
posti e situati. Questi processi si dispiegano tanto nelle istituzioni
“forti” del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, quanto nella sfe-
ra pubblica “debole” dell’associazionismo civile e dei mezzi di co-
municazione di massa […].
Iterazione è un termine introdotto nella filosofia del linguaggio dal la-
voro di Jacques Derrida (1982). Nel ripetere un termine o un concet-
to, non ci limitiamo a replicarne l’uso originario e il significato inten-
zionale: in realtà ogni iterazione costituisce una forma di variazione.
Ciascun evento iterativo trasforma il significato, vi aggiunge qualco-
sa e lo arricchisce in modi sottili. Infatti, non esiste davvero una sor-
gente “originaria” di significato, ovvero un “originale” cui tutte le
forme successive debbano conformarsi […] l’iterazione e l’interpre-
tazione delle norme, come di ogni altro aspetto dell’universo di valo-
re, non costituiscono mai un semplice atto di ripetizione. Ciascun at-
to di iterazione implica un’attribuzione di senso all’originale in un con-
testo nuovo e diverso: in questo modo, l’antecedente viene riposizio-
nato e dotato di nuovo significato mediante usi e riferimenti successi-
vi. Il significato si arricchisce e si trasforma; inversamente, nel mo-
mento in cui l’appropriazione creativa di quell’originale autoritativo
smette di aver senso, allora l’originale perde anche la sua autorità nei
nostri confronti. L’iterazione è dunque la riappropriazione del-
l’“origine”: essa rappresenta allo stesso tempo la sua dissoluzione in
quanto originale e la sua riappropriazione attraverso l’impiego conti-
nuo. Le iterazioni democratiche rappresentano tali ripetizioni-in- tra-
sformazione di carattere linguistico, giuridico, culturale e politico: in-
vocazioni che sono anche revocazioni. Esse non si limitano a modifi-
care le concezioni consolidate, ma trasformano anche ciò che consi-
deriamo il punto di vista valido e consolidato sul precedente autorita-
tivo (Benhabib 2004, 142-143).

Tuttavia, a parziale correzione della ripresa di Benhabib della parola


come deliberazione, va sottolineato che i processi dell’iterazione
non nascono – come nell’esempio del velo – dal dominio della ca-
pacità razionale, che conterebbe e separerebbe i buoni argomenti da
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 191

quelli cattivi. L’arrivo a scuola con il velo non è una semplice ar-
gomentazione, ha la consistenza di un gesto e della presenza fisica,
esprime più che argomentare e, per via dell’esposizione in prima
persona e della richiesta di una maggiore giustizia e libertà, ha una
valenza etica e politica.

E oltre. Respiro, trasformazione, verità senza vendetta

L’ultima precisazione sulla presa di parola differenziale che ha va-


lore politico, impone di tornare all’altra scena in cui nasce e si ali-
menta la possibilità di accedere al linguaggio. Abbiamo visto che
non esiste una posizione di parlante immediatamente disponibile, e
tantomeno trasparente a se stessa e agli altri. La possibilità di una
parola significativa, unica garante di uno scambio – dalla posizio-
ne di chi proferisce tale parola e di chi la ascolta – intrattiene un de-
bito costitutivo con il silenzio. In questo caso non si tratta eviden-
temente del silenzio imposto da altri, ma nemmeno del silenzio co-
me stato che interrompe sì la parola ma che rimane comunque in-
terno al linguaggio, non si tratta nemmeno del collasso della com-
petenza linguistica di fronte al compito di esprimere nuovi stati del-
la vita e della convivenza. Si tratta piuttosto del silenzio che rende
possibile il parlare, il silenzio che nasce dal nostro essere umani e
corporei, che per parlare hanno bisogno del respiro.

Respirare è proprio il primo gesto di autonomia dell’essere umano. Ve-


nire al mondo corrisponde a ispirare e espirare da soli […]. Ma, di fat-
to, questo primo e ultimo gesto della vita, il respiro, lo dimentichiamo.
Certamente, respiriamo, pena la vita. Ma lo facciamo in modo incon-
scio e imperfetto, e non prendiamo cura dell’aria che ci circonda […]
Parliamo dei bisogni elementari come bisogni di mangiare, di bere, di
vestirci e ripararci, ma non di respirare. Eppure questo è la prima e più
radicale necessità. E non siamo realmente nati, realmente viventi, au-
tonomi, finché non assumiamo in modo conscio il nostro respiro […]
È necessario anche capire le relazioni tra la respirazione e gli altri at-
ti, particolarmente l’atto della parola. Per inspirare e per parlare si uti-
lizza il fiato in modo quasi opposto, almeno per la maggior parte del-
le persone. Sotto questo aspetto è interessante osservare che le perso-
ne che non respirano, o respirano male, non possono smettere di par-
lare. Spesso paralizzano così l’ispirazione di coloro che hanno cura,
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192 FEDERICA GIARDINI

corporalmente e spiritualmente, del loro respiro e del respiro degli al-


tri. Restare in silenzio, attenti al respiro significa rispettare ciò che esi-
ste, e riservarsi la possibilità di nascere e di creare (Irigaray 1997, 71
e 52).

Il rispetto tra culture pensato secondo differenza – come rivela que-


sto passaggio di Irigaray che fa riferimento alla cultura e coltiva-
zione del respiro in alcune discipline orientali – scombina anche le
posizioni di chi dovrebbe, da una posizione di forza, rispettare chi
sarebbe più debole. Esistono vie di sapienza della parola che l’Oc-
cidente non ha conosciuto, o ha dimenticato, e che possono essere
apprese da altre culture.
In questa direzione procede anche la scoperta che parlare non
consiste sempre, per tutta l’umanità, nel “dire qualcosa”, come ad
esempio nella lingua cinese. Se la traduzione non è ricondurre l’i-
gnoto al noto, non è assimilare, ma “far passare nella propria lingua
la differenza (recalcitrante) e offrirla così all’indagine” (Jullien
2006, 29), allora il confronto con la lingua cinese porta alla discus-
sione, e anche all’abbandono di certe abitudini che la nostra tradi-
zione ci consegna per concepire l’attività linguistica.

Dato che il pensiero taoista ci fa uscire dalle frammentazioni, dalle


specificazioni e dalle codificazioni del linguaggio sotto l’azione delle
quali la parola si è smarrita, una tale posizione non si lascerà schiera-
re né da una parte né dall’altra dei nostri grandi giochi di opposizio-
ne. La sua vocazione non è quella di determinare una cosa con certezza
e nel modo più preciso – la via di identificazione della scienza –, né
tanto meno al contrario, di rinviare in maniera balbettante, balbucien-
do, dice san Giovanni della Croce (il “balbettio” mistico), verso una
cosa altra, che sarebbe la cosa vera, in quanto Assoluto, qualunque sia
il nome che le si attribuisce. La sua vocazione è quella di dire diver-
samente, senza più subire la costrizione nella quale l’uso ordinario del-
la parola ci tiene da sempre immersi […] Comprendiamo così che con
tale espressione non si sta affermando che parlare è dire qualche co-
sa, agganciando da adesso e per sempre la parola all’oggetto, ma, sen-
za più proiettare quest’ultima al di fuori di se stessa e iscriverla in una
condizione di dipendenza, viene detto, letteralmente, che «la parola ha
parola» – punto di partenza che non bisognerà lasciarsi affrettatamen-
te alle spalle (ivi, 30).

È la parola stessa che, non significando qualcosa, indica l’essere che


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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 193

la pronuncia e la sua relazione con altri e con l’ambiente che lo cir-


conda e dunque si trasforma, accompagnandone le trasformazioni.
Un ultimo contributo per pensare – sulla scorta di culture diverse
dalla nostra – ai rapporti tra politica e linguaggio, riguarda l’anti-
chissimo nodo tra parola verità e giustizia. Nella tradizione europea,
dire la verità ha a che fare con la giustizia, ma non necessariamen-
te con la politica e con l’ordine della convivenza (vedi capitolo 3).
D’altra parte cercare giustizia attraverso le parole, se lo pensiamo
solo sul versante della rivendicazione di diritti, ci consegna, sia al-
la contraddizione tra la presa di parola e l’accesso a essa che avvie-
ne su scene diverse e non omogenee a quella dello scambio, sia al-
la contraddizione di rimettere nelle mani dell’altro – della sua ca-
pacità di ascolto o meno – la sua efficacia. Non ultimo il pronun-
ciamento politico su ciò che è giusto presume un ordine che detie-
ne i criteri di verità e che ha per effetto non solo l’inclusione e l’e-
sclusione, ma anche la reclusione; pronunciarsi sulla giustizia può
farsi nella forma dell’imputazione e delle sanzioni che ne conse-
guono.
Proprio su questo terreno – su una parola di verità che faccia
giustizia – è nata una grande invenzione, fuori dal canone occiden-
tale: la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Sebbene sia
nata originariamente in Sud America, la forma della Commissione
è arrivata a colpire l’immaginazione politica occidentale durante il
periodo di transizione dal regime di apartheid a quello democrati-
co nella Repubblica del Sud Africa.
Quali erano le posizioni disponibili per fare pubblica giustizia fi-
no a quel momento? Il tribunale come luogo, l’imputazione di una
parte ad opera di un’altra, con l’appello di quest’ultima a principi
stabiliti come norme e tradotti in legge. Il punto di non ritorno del-
lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale aveva
poi esteso, come nel famoso Processo di Norimberga, l’ambito del-
la giustizia al di fuori dei confini politici, nazionali, del complesso
dei diritti e degli obblighi di cittadinanza, includendo, al di là dei
reati contro l’ordine costituito di una nazione, i crimini contro l’u-
manità e le norme sancite dalla Carta dei Diritti universali. L’eser-
cizio di tale giustizia mantiene però intatta la distribuzione tra vin-
ti e vincitori, dove questi ultimi sono le “vittime” del regime prece-
dente. Questa formulazione di giustizia, che ritorna nel contempo-
raneo con i processi ai responsabili dei nuovi stermini, rimanda pe-
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194 FEDERICA GIARDINI

rò, ancora una volta, ai rapporti di forza: chi era debole, per un
evento che nulla ha a che vedere con lo scambio tra parlanti – vin-
cere una guerra – viene messo nella posizione di esercitare la forza
della sanzione a propria volta.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione interviene
sull’ambito politico della convivenza, fornisce le pratiche per un
giudizio condiviso su crimini del passato, ma non utilizza gli stru-
menti della legge e della sanzione.

Questa Costituzione fornisce uno storico ponte tra il passato di una so-
cietà profondamente divisa, caratterizzata da lotta, conflitto, ingiusti-
zia e sofferenza e un futuro fondato sul riconoscimento dei diritti uma-
ni, della democrazia e pacifica coesistenza e sviluppo di opportunità
per tutti i sudafricani, indipendentemente dal colore, razza, classe, fe-
de o sesso. Il perseguimento dell’unità nazionale, il benessere di tutti
i cittadini del Sudafrica e la pace esigono riconciliazione all’interno del
popolo del Sudafrica e la ricostruzione della società […] Vi è bisogno
di comprensione ma non di vendetta, necessità di risarcimento ma
non di rappresaglia, bisogno di ubuntu ma non di vittimismo. Per ac-
celerare questa riconciliazione e questa ricostruzione, sarà garantita
un’amnistia per gli atti, omissioni ed offese associate ad obiettivi po-
litici commessi nel corso dei conflitti del passato (Costituzione prov-
visoria del Sudafrica 1993)

L’ubuntu, l’essere persona solo attraverso e con altre, diventa così


la radice per una riformulazione di quel che significa democrazia e
giustizia al di là della suddivisione tra giudici e colpevoli, a pre-
scindere da una ripresa dei codici giuridici occidentali.
Malgrado la Commissione vada incontro, in una ripetizione
transnazionale e transculturale, agli oramai noti problemi legati al-
la presa di parola – molte donne, ad esempio, hanno difficoltà a nar-
rare le ingiustizie subite in prima persona, preferendo raccontare le
vicende di altri, familiari e prossimi – l’invenzione che modifica la
concezione del “fare giustizia” consiste proprio in una diversa pra-
tica di parola.
Attraverso il racconto, non è il linguaggio tecnico degli ammi-
nistratori della giustizia penale, giudici e avvocati, bensì la parola di
chi ha subito un torto che avviene, dando così spazio alla singolari-
tà di ciascuno e di ciascuna e togliendola dalla posizione di vittima
ammutolita. Attraverso la narrazione che coinvolge le parti – alle se-
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NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE 195

dute della Commissione hanno partecipato sia esponenti del regime


precedente sia chi ne è stato perseguitato – il percorso che porta al
nuovo ordine di convivenza non si fa sulla rimozione delle storie dei
singoli, che siano stati carnefici o vittime. L’ordine può dunque far-
si attingendo alla memoria, a una memoria che diventa condivisa
sebbene non unica. Infine, la verità, che accompagna ed è fonda-
mentale per la ricerca della giustizia, non ricalca i rapporti di forza
– vero è l’utile del più forte (vedi capitolo 2) – bensì è un processo
in divenire che tiene conto sia, e soprattutto, la verità di chi non ave-
va parola, sia la verità di vita, dei moventi, di chi ha tolto la parola.
Non si tratta, con ogni evidenza, di mettere sullo stesso piano chi ha
subito e chi ha infierito, bensì di accogliere l’idea che la verità non
è un atto definitivo che copre l’accaduto, di nuovo sebbene in mo-
do diverso, con la parola dei vincitori.

Compito della TRC non era quello di costruire una nuova memoria
collettiva in sostituzione di quella, parziale, distorta e arbitraria che
aveva dominato per anni ed era andata ormai in pezzi. Né di raccordare
o amalgamare memorie diverse e divergenti che avevano costituito
lungo i decenni dell’apartheid un momento centrale dell’identità dei
governanti e dei governati, dei persecutori delle vittime. […] La con-
sapevolezza collettiva dell’illegittimità dell’apartheid, la costruzione
di un’etica pubblica fondata sulla cultura dei diritti umani e su valori
condivisi e riconosciuti, doveva passare necessariamente sul raccon-
to delle sofferenze patite e delle violenze subite e sulla denuncia dei
crimini commessi (Flores 1999, 47-48).

La Costituzione redatta successivamente a questa esperienza, perde


così le caratteristiche che hanno contraddistinto Dichiarazioni e Co-
stituzioni della modernità occidentale. Non parola di una parte che
parla a nome di tutti e si dota del potere di includere ed escludere,
ma testo che conserva la traccia della propria provenienza, che ha la
propria storia, in un percorso che vede e ascolta, chi è lì in carne e
ossa, al di là della divisione tra innocenti e colpevoli.

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INDICE

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 5

PRIMA PARTE – TACI…


1. IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11
La fine delle grandi narrazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 12
Gli antecedenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 14
Immanuel Kant, p. 14; Georg F. W. Hegel, p. 16; La prov-
videnza, p. 19; Le immagini del mondo, p. 21.
Diagnosi, fallimenti e punti di non ritorno . . . . . . . . . . . » 23
La Shoah, p. 24; Il totalitarismo, p. 26; L’ideologia, p. 26; Il
racconto delle razze…, p. 28; …ovvero l’orientalismo, p. 31.
Inizi del XXI secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 34
Il lutto, p. 34; L’oblio, p. 36; La dissipazione, p. 37.
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 41

2. PARLARE DI FATTO, PARLARE DI DIRITTO . . . . . . . . . . . . . » 42


Chi parla in città? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 42
Animale politico più linguaggio uguale umano, p. 44; Uma-
no diviso deliberazione uguale polis con il resto di umano-
animale, p. 46; Chi parla, chi ha voce, chi fa rumore, p. 49.
La parola che lega . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 52
Chi è umano è cittadino, p. 53; Un nuovo confine: il Con-
tratto, p. 54; La forza aggiunta del giuramento, p. 55; La Di-
chiarazione, p. 56; I resti dell’evidenza: donne e stranieri, p.
58; L’appello e l’ascolto negato, p. 60; L’educazione, p. 62;
Le Costituzioni, p. 64; La Carta Europea, p. 66.
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 69
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198 INDICE

3. DIRE IL VERO, OPINARE, MENTIRE . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70


Verità e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70
La politica è mutevolezza, p. 71; La persuasione, p. 72; L’o-
pinabile e i rapporti di forza, p. 74.
Ideologia totalitaria e menzogna di Stato . . . . . . . . . . . . » 78
Un’idea fissa, p. 79; L’irrealtà e la menzogna, p. 81.
Quando vero e falso sono costruiti . . . . . . . . . . . . . . . . . » 84
Rintracciare la provenienza, p. 86; La prova, p. 89; Educa-
zione e grammatica sociale, p. 90.
E la verità, allora? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 92
L’amore per la contingenza, p. 93; L’attenzione al necessa-
rio, p. 95.
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 97

SECONDA PARTE. ... ANZI, PARLA


4. FARE SOCIETÀ CON LE PAROLE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 101
La civiltà della conversazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 102
La ruelle: né privato, né di corte, p. 103; Politesse e bien-
séance, p. 104; L’educazione come naturel, p. 106.
Socievolezza e società. Verso la sfera pubblica . . . . . . . . » 108
L’opinione pubblica, p. 110; Dal Salotto al Parlamento,
p. 112.
Comunicare è agire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 114
L’intesa, p. 114; Comunicazione e mass media, p. 116; Lin-
guaggio e politica, di nuovo, p. 117.
Una democrazia fondata sulla deliberazione . . . . . . . . . . » 118
La deliberazione, oggi, p. 118.
Alcuni problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 122
Incommensurabilità e altre scene, p. 122; Unicità e dissidio,
p. 124; Oltre la comunicazione, p. 126.
Un altro genere di discorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130

5. PARLARE NON È PRENDERE PAROLA . . . . . . . . . . . . . . . . » 132


Una parola piena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 132
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INDICE 199

Impreviste dalle grandi narrazioni, p. 134; L’efficacia della


grande narrazione: il simbolico, p. 136; Rappresentazione e
rappresentanza, p. 138.
Taci… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 140
Il silenzio, p. 141.
… Anzi, parla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 142
L’esperienza, p. 143; Esperienza e politica, p. 145; La pre-
sa di parola, p. 146; Il partire da sé, p. 149.
L’efficacia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 151
La passività, p. 151; L’autorità, p. 153.
Lingua bene comune . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 155
Con-divisione: il comune della differenza, p. 157; Il politi-
cally correct, p. 159; La soglia, p. 160.
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 161

6. NUOVI RACCONTI E ITERAZIONI DEMOCRATICHE . . . . . . . » 163


Il proliferare di micro-grandi narrazioni . . . . . . . . . . . . . » 164
Cosa raccontano gli altri dell’Occidente? . . . . . . . . . . . . » 166
Il noi come tradizione, p. 166; Noi è un altro, p. 168; Opa-
cità, traduzione, resistenza, p. 171; Essere un’altra, p. 173;
Speaking, talking, uttering, p. 175; L’orientalismo rispedito
al mittente, p. 176; Shahrazad politica, p. 177; L’educazio-
ne, ancora, p. 179.
L’Europa oggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 180
Dia-loghi e iterazioni, p. 183; Dall’uno all’altro, p. 184; Il
dia- della differenza, p. 185; I diritti umani e Odradek, p.
187; La presa di parola di un’altra: un’iterazione democra-
tica, p. 188.
E oltre. Respiro, trasformazione, verità senza vendetta . » 191
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 195

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