Federica Giardini
L’ALLEANZA INQUIETA
Dimensioni politiche del linguaggio
Le Lettere
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INTRODUZIONE
6 INTRODUZIONE
INTRODUZIONE 7
8 INTRODUZIONE
* * *
PRIMA PARTE
TACI…
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1.
IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE
12 FEDERICA GIARDINI
Alla fine del secolo scorso Jean François Lyotard pone il problema
su grande scala, in effetti: pone il problema delle “grandi narrazio-
ni”, i grandi romanzi con cui l’Occidente dell’epoca moderna ha co-
struito la propria immagine, i propri valori e fini, dotandosi di una
Storia. In cosa consistono queste grandi narrazioni? Innanzitutto
sono “narrazioni a funzione legittimante” (Lyotard 1986, 29), non
sono storie nel senso della finzione, tutt’altro.
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IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 13
Questi racconti non sono miti, nel senso di favole (il racconto cristia-
no non fa eccezione). [Ma] come i miti essi mirano a legittimare isti-
tuzioni e pratiche sociali e politiche, legislazioni, etiche, modi di pen-
sare (ivi, 27).
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Gli antecedenti
Immanuel Kant
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Non è un caso dunque che Kant sia diventato, agli inizi del XXI se-
colo, uno dei punti di riferimento, per pensare all’umanità su scala
globale – la ripresa odierna del concetto di “cosmopolitismo” – se-
condo un’idea della politica che includa tutti gli essere umani in
quanto cittadini del mondo (vedi capitoli 4 e 6).
Kant parte dall’assunto che le azioni umane siano determinate
da leggi universali e che la storia che le narra fa sperare che, nel gio-
co della libertà umana, si possa
scoprire un ordine per cui ciò che nei singoli individui si rivela con-
fuso e irregolare, nella totalità della specie possa riconoscersi come
sviluppo continuato e costante, anche se lento, delle sue tendenze ori-
ginarie. Così i matrimoni, le nascite che ne derivano, le morti, che so-
no fatti in così larga misura influenzati dalla libera volontà umana, non
sembrano sottoposti a regola alcuna che permetta di calcolarne in pre-
cedenza il numero; eppure le registrazioni annuali compiute nei gran-
di paesi dimostrano che tali fatti avvengono secondo leggi naturali co-
stanti al pari delle variabili condizioni atmosferiche, le quali, anche se
prese singolarmente non possono prevedersi, nell’insieme non man-
cano di mantenere in un corso uniforme e continuo il crescere delle
piante, lo scorrere dei fiumi e altri fatti della natura (Kant 1784, 19).
Ma, risponde, dato che è lecito ammettere “un disegno e uno sco-
po finale”, ecco che il brogliaccio di questa storia viene tratteggia-
to. Attraverso le nove tesi che lo illustrano, il filosofo di König-
sberg costruisce gradualmente l’edificio di una storia comune a
tutta l’umanità.
Le disposizioni di ogni essere tendono al proprio sviluppo e
compimento, nell’essere umano tra queste è eminente la facoltà ra-
zionale (I-II), che si sviluppa nella specie e non al livello indivi-
duale. Lo sviluppo avviene attraverso l’antagonismo tra singoli
(IV), cosa che pone il problema di una forma di convivenza, la so-
cietà, che permetta la sua regolazione (V). La storia diventa così il
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16 FEDERICA GIARDINI
IL ROMANZO DELL’OCCIDENTE 17
Con quei risultati si può comporre uno dei più terribili quadri senza ne-
cessità di accentuazioni oratorie, solo mettendo insieme esattamente le
calamità sofferte da quanto di più splendido è esistito in fatto di popoli
e di stati, di virtù private e di innocenza, e in tal modo si può spinge-
re il sentimento sino al più profondo e inconsolabile cordoglio, che non
è compensato da nessun risultato conciliante, e nei riguardi del quale
noi organizziamo la nostra difesa o ricuperiamo la nostra libertà, solo
pensando: – è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci... Ma pu-
re quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui so-
no state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli
stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a
chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati
compiuti così enormi sacrifici (ivi, 57).
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La provvidenza
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ca delle loro passioni, che perseguono con cecità quasi bestiale un fi-
ne particolare, ma in modo che il conseguimento dei loro interessi per-
sonali è promosso da un impulso anonimo che determina la loro vo-
lontà e le loro decisioni […]. Infatti, la meta concernente gli individui
storici non è l’oggetto di una volizione cosciente, bensì qualcosa che
essi debbono volere, per un impulso che sembra cieco e tuttavia vede
più lontano degli interessi personali coscienti. Perciò gli uomini rea-
lizzano con una comprensione istintiva il fine di cui sono strumento.
Essi agiscono storicamente, in quanto sono spinti dalla potenza e dal-
l’“astuzia della ragione”, che è il concetto razionale della provviden-
za. Così le passioni e gli interessi sono effettivamente ciò che sem-
brano a prima vista, cioè il sostrato umano della storia, ma nell’ambi-
to di uno scopo universale che li trascende e che promuove un fine non
contemplato dalla intenzionalità cosciente […] Popoli e individui non
sanno dove effettivamente si dirigono: sono strumenti nelle mani di
Dio, sia che obbediscano o che si oppongano alla sua volontà. Così i
risultati ultimi delle azioni storiche sono sempre qualcosa di più, e an-
che di meno, delle intenzioni degli agenti (ivi, 76-77).
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rebbe, per così dire, una pittura dell’ente nel suo insieme. Ma “imma-
gine del mondo” significa qualcosa di più […] “Immagine” non signi-
fica qui qualcosa come imitazione, ma ciò che è implicito nell’espres-
sione: aver un’idea [Bild] fissa di qualcosa. Il che significa: la cosa sta
così come noi la vediamo. Aver un’idea [immagine] fissa di qualcosa
significa: porre innanzi a sé l’ente stesso così come viene a costituirsi
per noi e mantenerlo costantemente così come è stato posto. […]
“Farsi un’idea fissa di qualcosa” non significa soltanto rappresentarsi
in generale l’ente ma anche porlo innanzi a noi come sistema, cioè nel-
l’unità di ciò che è proprio di esso e si raccoglie in esso. L’espressio-
ne: “aver un’idea fissa di qualcosa” significa anche: esser al corrente,
esser pronto per, orientarsi nella cosa. Quando il mondo diviene im-
magine, l’ente nel suo insieme è assunto come ciò in cui l’uomo si
orienta, e quindi come ciò che egli vuoi portare innanzi a sé e avere in-
nanzi a sé; e quindi, in un senso decisivo, come ciò che vuoi porre in-
nanzi a sé [vor-stellen], rappresentarsi (Heidegger 1938, 86-87).
Una visione unitaria del mondo nella sua totalità implica una fissi-
tà, l’aver colto i tratti essenziali di un’epoca. Con intuizione Hei-
degger coglie il restringimento dello spazio a mezzo della tecnica e
insieme l’aumento della scala delle grandezze. Sono convocati non
internet ma la radio, non i bit ma la fisica atomica, eppure l’analisi
ha il sapore di un’anticipazione.
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La Shoah
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Il totalitarismo
L’ideologia
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vano nulla su cui contare tranne qua e là, un pizzico di talento […] I
più dotati erano l’incarnazione del risentimento come il tedesco Carl
Peters (probabilmente preso a modello per la figura di Kurtz), che am-
metteva apertamente: “Ero stufo di essere annoverato fra i paria, e vo-
levo far parte di un popolo di dominatori”. […] C’erano indubbia-
mente anche nelle loro file degli autentici gentiluomini, come quel Jo-
nes, in Victory di Conrad, che, spinto dalla noia, era disposto a paga-
re qualsiasi prezzo pur di vivere nel “mondo del rischio e dell’avven-
tura”, o come Heyst, che era così ebbro di disprezzo per ogni cosa
umana da lasciarsi portare “come una foglia staccata... senza mai fis-
sarsi su nulla” […] Il perfetto gentiluomo e il perfetto furfante veni-
vano a conoscersi molto bene nella “grande giungla selvaggia senza
legge”, e constatavano di essere “bene accompagnati nella loro enor-
me dissomiglianza, anime identiche sotto maschere diverse” (ivi, 264).
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… ovvero l’orientalismo
Nella seconda metà del Novecento si apre uno spazio per appro-
fondire ed estendere la diagnosi sulle grandi narrazioni. In partico-
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Muovo dall’assunto che l’Oriente non sia un’entità naturale data, qual-
cosa che semplicemente c’è, così come non lo è l’Occidente. […]
“Oriente” e “Occidente” sono il prodotto delle energie materiali e in-
tellettuali dell’uomo. Perciò, proprio come l’Occidente, l’Oriente è
un’idea che ha una storia e una tradizione di pensiero, immagini e lin-
guaggio che gli hanno dato realtà e presenza per l’Occidente. Le due
entità geografiche si sostengono e in una certa misura si rispecchiano
vicendevolmente (Said 1978, 14).
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L’Oriente non è solo adiacente all’Europa; è anche la sede delle più an-
tiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e del-
le sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale, e uno dei
più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. Nulla, si badi, di questo
Occidente è immaginario: esso è una parte integrante della civiltà e
della cultura europee persino in senso fisico. L’orientalismo esprime
e presenta tale parte, culturalmente e talora ideologicamente, sotto
forma di un lessico e di un discorso sorretti da istituzioni, insegna-
menti, immagini, dottrine, e in certi casi da burocrazie e politiche co-
loniali (ivi, 11).
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Il lutto
Nella prospettiva del compimento del processo, gli esiti della filoso-
fia della storia imperniata sulla categoria di Weltgeschichte presenta-
no un profilo ancipite: a seconda che li si assuma in chiave dissoluti-
va (come nella tesi postmoderna dell’indebolimento-esaurimento dei
“grandi racconti”) e irenica (come nella versione banalizzante del mo-
tivo hegeliano della “fine della storia” fornita da Francis Fukuyama),
oppure catastrofica (come, per esempio, nella trasposizione messiani-
ca del tempo storico operata da Walter Benjamin – e, sulla sua scia, da
Jacob Taubes – a partire dalla nozione schmittiana di “stato d’ecce-
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L’oblio
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so di dittature che sembravano molto forti, sia che si trattasse dei re-
gimi militari di destra che dei regimi totalitari comunisti di sinistra.
Dall’America Latina all’Europa Orientale, dall’Unione Sovietica al
Medio Oriente e all’Asia, negli ultimi tre decenni i regimi autoritari
non hanno più retto. Ed anche se non hanno in tutti i casi ceduto il pas-
so ad una stabile democrazia liberale, quest’ultima rimane la sola aspi-
razione politica coerente per regioni e culture diverse dell’intero pia-
neta. Oltre a questo i princìpi economici liberali – il “libero mercato”
– si sono diffusi e sono riusciti a produrre livelli di prosperità mai co-
nosciuti sia in paesi industrialmente sviluppati che in quei paesi poveri
che alla fine della seconda guerra mondiale facevano parte del Terzo
Mondo. Una rivoluzione liberale nel pensiero economico ha a volte
preceduto, a volte seguito, lo sviluppo di un movimento per la libertà
politica (ivi, 11-12).
La dissipazione
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L’ideologia risuona, per così dire, dal meccanismo di una prassi a cui
non si può sfuggire […] È presumibilmente assai meno importante
quali particolari teorie ideologiche un film inculchi negli spettatori del
fatto che questi rincasando siano interessati al nome degli attori e al-
le loro beghe matrimoniali […] la cultura è divenuta ideologica […]
in quanto sfera della vita privata […] ideologia significa oggi: la so-
cietà come fenomeno […] nella prigione all’aria aperta che il mondo
sta diventando, non importa già più che cosa dipenda da cosa, tanto si
è impresso su tutto il marchio dell’unità […] non ci sono più ideolo-
gie, ma unicamente la réclame del mondo attraverso la sua duplica-
zione (Adorno 1949, 16-22).
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Così, l’arte della narrazione, che fin dalle origini racconta e spiega l’e-
sperienza dell’umanità, è divenuta grazie allo storytelling lo strumen-
to della menzogna di Stato e del controllo sulle opinioni: dietro le mar-
che e le serie televisive, ma anche all’ombra delle campagne elettora-
li vincenti, da Bush a Sarkozy, e delle operazioni militari in Iraq o al-
trove, si nascondono i tecnici specializzati dello storytelling. L’impe-
ro si è appropriato della narrazione. Questo è l’incredibile blocco del-
l’immaginario che mi accingo a raccontare (ivi, 16).
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Riferimenti bibliografici
2.
44 FEDERICA GIARDINI
l’uomo è l’unico animale che abbia il logos: la voce è segno del piacere
e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro na-
tura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del pia-
cere e del dolore. Invece logos serve a indicare l’utile e il dannoso, e per-
ciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli
altri animali: esser l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giu-
sto e dell’ingiusto e così via. E proprio la comunanza di queste cose che
costituisce la famiglia e la città (Aristotele, Politica, I, 1253a 9-18).
non esiste una ideale cassetta degli attrezzi espressivi e/o comunicati-
vi da dove ad libitum un utente possa estrarre lo strumento linguaggio
e riporvelo una volta eseguito il compito prefissato. L’umano non sce-
glie il linguaggio. A partire dal momento in cui comincia a parlare non
è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le distanze.
Il tacere non è un mettere da parte il linguaggio, un riporlo per così di-
re nella cassetta degli attrezzi. Il silenzio è una scelta interna al lin-
guaggio: tace solo chi, potendo parlare, sceglie il silenzio come modo
di parlare. Tacciono solo gli animali che parlano […] Il linguaggio non
è strumento ma attività vitale specie-specifica dell’animale uomo. At-
tività vitale come lo sono, ad esempio, il battito cardiaco, il ritmo re-
spiratorio, la pulsazione sinaptica del cervello. Prendere le distanze dal
linguaggio (rimetterlo nella cassetta degli attrezzi e passare ad altra oc-
cupazione è impresa impossibile quanto l’allontanarsi dal cervello, dal
cuore o dai polmoni e continuare a vivere. Lo Piparo 2003, 3-4).
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Quello che nel ragionamento sono il dire sì e il dire no, nel desiderio
sono il perseguire e il fuggire <qualcosa>. Pertanto, poiché la virtù eti-
ca è una condizione determinata per scelta e la scelta è desiderio sor-
retto da deliberazione, bisogna che il discorso sia vero e il desiderio sia
corretto se la scelta è buona, e <bisogna anche> che ciò che <il di-
scorso corretto> dice e <il desiderio> persegue siano la stessa cosa
(Etica nicomachea, 1139a 21-26, trad. Lo Piparo 2003, 22).
non riguarda cose ‘che sono sempre allo stesso modo’ – come succe-
de alle scienze teoretiche che hanno per oggetto verità incontroverti-
bili – bensì […] riguarda cose ‘che sono per lo più’. La politica, come
l’etica, è una scienza pratica, ossia una scienza legata alla sfera con-
tingente dell’azione: agire in modo giusto implica una conoscenza del
giusto che ha un carattere non necessario bensì solo probabile e, per-
ciò, opinabile. Quando molti sono chiamati a deliberare su ciò che è
giusto per la polis, si apre così per la parola uno spazio di confronto e
di discussione.
Sintomaticamente, nella pagina che collega lo zoon politikon e lo zoon
logon echon, l’accento non cade però sulla funzione comunicativa
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Se dunque fuori dalla vita organizzata della polis greca vivono es-
seri che, “per loro natura, non per caso”, sono inferiori agli umani
– le bestie – ne sono fuori anche quelli che, essendo autosufficien-
ti, posso fare a meno dei rapporti con gli altri, gli dei.
Chi non vive in città per la sua natura e non per caso, o è un essere in-
feriore o è più che un uomo (I, 1253 a ) […] perciò chi non può entrare
a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a
se stesso, non è una parte della città, ma o una belva o un dio (Aristo-
tele, Politica, 1253a).
Lungi però dall’assimilare gli altri popoli con le loro peculiari for-
me di convivenza a degli dei – Aristotele è contemporaneo nonché
mentore di Alessandro il Grande che, nel IV secolo a.C., muove
guerra alle popolazioni che si trovano a Oriente della Grecia, arri-
vando fino in India –, li assimila a degli umani parziali, quando non
a delle bestie. In questa operazione è autorizzato dalla correttezza
del ragionamento e dall’osservazione fisica e biologica. Quel che
potrebbe essere registrato come un segno di civiltà – la mancanza
dell’istituto della schiavitù e la partecipazione delle donne alla vita
comune – diventa invece la conferma della distinzione e superiori-
tà della politica greca.
50 FEDERICA GIARDINI
52 FEDERICA GIARDINI
Raccontare storie di ogni sorta è la maniera principale con cui gli es-
seri umani tentano di dare senso a loro stessi e al proprio mondo so-
ciale. Il racconto politico più famoso e autorevole dell’età moderna si
trova negli scritti dei teorici del contratto sociale (Pateman 1988, 3).
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54 FEDERICA GIARDINI
Tuttavia Hobbes si rende conto che la forza delle parole non è suf-
ficiente a vincolare le parti all’accordo stabilito. Per dare forza (en-
force) alle parole del patto è necessario riformulare la funzione del-
la parola vincolante, che in epoche precedenti veniva svolta dal
giuramento. Sulla inutilità del giuramento in epoca moderna Hob-
bes è deciso: “il giuramento non aggiunge nulla all’obbligazione”
(ivi), dato che il giuramento è una forma di discorso che aggiunge,
all’impegno che si prende, l’invocazione di una punizione nel caso
di mancato adempimento. La sanzione invocata con il giuramento
nei secoli passati veniva compiuta dalle divinità pagane – “che Gio-
ve mi uccida come io uccido questa bestia” – o da Dio – “farò que-
sto e quello, così mi aiuti Dio” – convocate a testimoniare della for-
za delle parole dette e dell’impegno preso. Per Hobbes tale sanzio-
ne può essere svolta oramai dal potere statuale che incute maggior
timore di quella degli “spiriti invisibili”, essendo le conseguenze più
certe.
Ciò che appare come la nascita dello stato di diritto, del potere
legittimato dalle parole dei contraenti, proietta l’ombra della propria
credibilità nel ricorso alla sanzione, all’esercizio della forza.
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La Dichiarazione
58 FEDERICA GIARDINI
60 FEDERICA GIARDINI
si sarà abolita solo nel 1794. Sieyès, cauto sulla concessione della
cittadinanza attiva, del diritto di voto alle donne, ha tutt’altro slan-
cio verso i “mulatti”:
62 FEDERICA GIARDINI
L’educazione
64 FEDERICA GIARDINI
Le Costituzioni
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La Carta Europea
68 FEDERICA GIARDINI
di ascoltare questa parola […] basta riflettere a tutto questo per so-
spettare che la partizione, lungi dall’essere cancellata, agisce altrimen-
ti, secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni, e con effetti che
non sono affatto gli stessi (Foucault 1971, 5-7).
Riferimenti bibliografici
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3.
Verità e giustizia
La politica è mutevolezza
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La persuasione
74 FEDERICA GIARDINI
a morte del governo dei Trenta per la sua attività di corruttore di gio-
vani e di miscredente. Nel primo discorso della sua Apologia parti-
rà proprio da questo: i suoi accusatori dicono il falso, i politici cre-
dono di sapere ma non sanno. Socrate essendo consapevole della
propria ignoranza ha intrapreso un cammino di ricerca della verità,
ed è così che perora la propria causa, dicendo la verità.
Ecco il trauma originario del rapporto tra verità e politica che ha
in mente Hannah Arendt: cercare e dire la verità mette in conflitto
non solo con il potere, ma con la politica stessa, un conflitto letale.
Tuttavia, per la pensatrice, come vedremo, la verità del filosofo non
è la strada da percorrere.
76 FEDERICA GIARDINI
Quanto al favore degli dei, neanche noi saremo da meno: ne siamo per-
suasi. Giacché, quello che facciamo, quello che pretendiamo, non si
pone affatto fuori della concezione che gli uomini hanno del mondo di-
vino né della reciproca loro disposizione. Non solo tra gli uomini, co-
me è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessa-
rio e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare.
Questa legge non l’abbiamo stabilita noi né siamo stati noi i primi a va-
lercene; l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegne-
remo a chi verrà dopo, ed avrà valore eterno. E sappiamo bene che
chiunque altro, ed anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pa-
ri alla nostra, vi comportereste così (ivi, 105).
La ragione del più forte diventa così legge, giustizia sancita dal
successo, e si tratta di una legge che riguarda tutti gli esseri umani,
anche se i più deboli protestano, è solo per via del momentaneo
svantaggio della loro posizione. La parola diventa mera aggiunta,
superflua nel determinare l’esito del confronto, già deciso su una
scena che linguistica non è.
Vediamo l’articolazione della parola politica nel suo rapporto
con la giustizia e la verità: la retorica può indurre il favore per una
parte, ma solo perché usa argomenti convincenti e non necessaria-
mente né giusti né veri; la parola può diventare inutile se la fonte del
suo peso e influenza è stabilita altrove (vedi capitolo 2); o ancora,
la parola potrebbe avere tale peso per via di una fonte stabilita al-
trove dalle ragioni contingenti. Ma quest’ultima via è esattamente
quella che viene sconfitta.
Esiste allora una forza insita nella parola pronunciata, oppure
siamo destinati a dover scegliere tra queste alternative? Una prima
traccia di risposta – (vedi anche capitolo 5) – la troviamo nelle ana-
lisi del dialogo compiute da Carlo Ginzburg:
78 FEDERICA GIARDINI
Un’idea fissa
80 FEDERICA GIARDINI
L’irrealtà e la menzogna
rinuncia alla sua libertà interiore (come rinuncia alla sua libertà di mo-
vimento quando si inchina a una tirannia esterna) […] così la forza au-
tocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a
pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane,
è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione […] l’auto-
costrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la real-
tà. La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno
perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché,
insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di espe-
rienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario è l’indivi-
duo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non
esiste più (ivi, 648).
82 FEDERICA GIARDINI
saggio che sfiora il cinismo, ritiene che non sarebbe motivo di in-
dignazione nemmeno “la menzogna deliberata e la bugia manife-
sta”, che da secoli vengono considerati “strumenti legittimi per l’ot-
tenimento di fini politici” (ivi, 9).
Il giudizio negativo nasce piuttosto da una prima constatazione
positiva: mentire equivale a negare la realtà, negare la realtà può es-
sere il modo per immaginare che potrebbe essere altrimenti, e dun-
que condurre alla libertà, a dare inizio a qualcosa che prima non era
contemplato: senza la libertà mentale di
84 FEDERICA GIARDINI
La critica alla verità del filosofo antico, che ritorna pervertita nella
pretesa di scientificità dell’ideologia totalitaria e nella menzogna di
Stato, trova un precedente nelle analisi di Friedrich Nietzsche che,
diversamente da Arendt, conclude con una condanna del problema
stesso.
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Ma poiché per necessità e insieme per noia l’uomo vuole esistere an-
che socialmente e come membro del gregge, ha bisogno di conclude-
re la pace e si adopera affinché almeno il più rozzo bellum omnium
contra omnes scompaia dal suo mondo. Questa conclusione della pa-
ce, comunque, porta con sé qualcosa che somiglia al primo passo sul-
la strada che conduce a quell’enigmatico impulso verso la verità. Ades-
so viene infatti fissato che cosa, da ora in poi, dovrà essere la verità,
cioè si inventa una definizione delle cose uniformemente valida e vin-
colante, e la legislazione del linguaggio dà anche le prime leggi della
verità, giacché qui sorge per la prima volta il contrasto tra verità e men-
zogna (ivi, 126).
86 FEDERICA GIARDINI
Rintracciare la provenienza
La verità dunque non esiste, non è reale, è frutto di bisogni fisici che,
trasposti attraverso il linguaggio e la retorica, diventano condivisi
per arbitrio e convenzione. Tale conclusione crea il terreno per
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88 FEDERICA GIARDINI
La prova
Sono piuttosto rari, in una società come la nostra, i discorsi che pos-
siedono insieme tre proprietà. La prima proprietà è quella di poter de-
terminare, direttamente o indirettamente, una decisione giudiziaria
che, in definitiva, riguarda la libertà o la detenzione di un uomo. Al li-
mite (e avremo modo di vederne dei casi), riguardano la vita e la mor-
te. Sono dunque discorsi che possono avere un potere di vita e di mor-
te. Seconda proprietà: da che cosa ricavano questo potere? Forse lo
prendono dall’istituzione giudiziaria. Ma lo prendono anche dal fatto
che essi funzionano nell’istituzione giudiziaria come discorsi di veri-
tà – discorsi di verità perché discorsi a statuto scientifico o formulati
esclusivamente da persone qualificate all’interno di un’istituzione
scientifica. Discorsi che possono uccidere, discorsi di verità e infine
(terza proprietà) discorsi – voi ne siete la prova e i testimoni [allusio-
ne alle risate che hanno accompagnato la lettura delle perizie psichia-
triche] che fanno ridere. I discorsi di verità che fanno ridere e che han-
no insieme il potete istituzionale di uccidere sono dopo tutto, in una so-
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90 FEDERICA GIARDINI
92 FEDERICA GIARDINI
E la verità, allora?
pensare, con Hannah Arendt, che in politica la verità non può ave-
re luogo, o si rifugerà nello sdegno per la mutevolezza degli affari
umani oppure uscirà sconfitta dall’esercizio del potere e delle sue
sanzioni?
Perché è così? Che cosa significa ciò, da un lato, per la natura e la di-
gnità dell’ambito politico e, dall’altro lato, per la natura e la dignità
della verità e della sincerità? E forse proprio dell’essenza stessa della
verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingan-
nevole? E che genere di realtà possiede la verità se essa è priva di po-
tere nell’ambito pubblico, il quale, più di ogni altra sfera della vita
umana, garantisce la realtà dell’esistenza agli uomini che nascono e
muoiono[…]? Infine, la verità impotente non è forse disprezzabile
quanto il potere che non presta ascolto alla verità? Si tratta di questioni
scomode, ma che sorgono necessariamente dalle nostre convinzioni
correnti in materia (Arendt 1971, 29-30).
94 FEDERICA GIARDINI
L’attenzione al necessario
96 FEDERICA GIARDINI
sottrarsi alla Storia che “non è altro che una compilazione delle de-
posizioni fatte dagli assassini circa le loro vittime e se stessi” (1942-
1943, 95). Con un accento opposto alle conclusioni di Nietzsche,
Weil ci propone un approccio che ricorda quello genealogico: ritro-
vare, saper ascoltare la fragilità al di là della parola e delle rappre-
sentazioni convenzionali con cui l’umanità vincitrice ritrae se stes-
sa e le proprie azioni.
Per questa via Weil lega la verità alla dimensione vitale della ne-
cessità e si allontana dalle considerazioni di Arendt sull’immagina-
zione e sul mentire, quale capacità tutta umana di negare l’esisten-
te e dunque aprire lo spazio per un nuovo inizio. Non è però la ne-
cessità della logica, dei giudizi veri in quanto svolti secondo proce-
dure argomentative corrette, si tratta della necessità che coinvolge
l’essere, la vita per intero. “È solo la necessità che mette a contatto
lo spirito con la verità” (Q IV, 156), la necessità delle costrizioni ma-
teriali – Weil racconta in La condizione operaia della sua esperien-
za in fabbrica e di come questa l’abbia tolta dalle illusioni, ripor-
tandola a percepire l’autentica condizione umana. È nell’esperien-
za concreta, corporea e materiale del mondo, delle relazioni umane,
che la necessità genera una conoscenza vera: “La verità non si tro-
va mediante prove, ma mediante esplorazione. Essa è sempre spe-
rimentale. Solo la necessità è altresì oggetto di esplorazione” (ivi,
169). La verità è così calata interamente nella vita umana che, tut-
tavia, è costantemente lacerata dalle contraddizioni della sopraffa-
zione e della violenza. Saper giudicare secondo verità significa al-
lora saper vedere le contraddizioni necessarie dell’umano e saper
agire di conseguenza, secondo giustizia.
Weil sa però anche leggere l’aria del suo tempo e, analogamen-
te ad Arendt, si accorge che i tempi non sono favorevoli alla cono-
scenza del necessario: l’utilità ne ha preso il posto, “poiché l’uomo
dirige immediatamente i suoi sforzi verso un qualche bene. Ma al-
lora l’intelligenza non ha più qualità per definire quest’utilità, né per
definirla, ha solo il permesso di servirla” (1966, 171-172). L’im-
mediatezza dell’azione che mira al proprio fine, toglie il tempo del-
l’“attenzione”. Contrariamente ad Arendt, per Weil è attraverso la
letteralità che si può arrivare alla realtà, disfacendosi di illusioni in-
teriori o indotte dall’esterno:
Riferimenti bibliografici
98 FEDERICA GIARDINI
SECONDA PARTE
…ANZI, PARLA
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4.
Mi sembra che tutti convengano sul fatto che Parigi è la città al mon-
do dove il gusto e lo spinto della conversazione sono più generalmen-
te diffusi: e quel che si chiama mal du pays, quel rimpianto indefini-
bile della patria, che è indipendente dagli amici stessi che vi si sono la-
sciati, concerne in particolar modo quel piacere di conversare che i
francesi non ritrovano in nessun altro luogo come da loro. Volney rac-
conta di certi francesi emigrati che, durante la Rivoluzione, volevano
fondare una colonia e dissodare delle terre in America, ma di tanto in
tanto tralasciavano tutte le loro occupazioni per andare, dicevano, “a
conversare in città”. E questa città, la Nouvelle Orléans, si trovava a
seicento leghe dalle loro case. In Francia il bisogno di conversare è co-
mune a tutte le classi sociali: qui la parola non è, come altrove, soltanto
un mezzo per comunicare idee, sentimenti, questioni d’affari, bensì
uno strumento che la gente ama suonare e che rianima gli spiriti, co-
me fa la musica presso taluni popoli e i liquori forti presso altri (Staël
1810, 101).
Politesse e bienséance
Nella prima fase dei salotti, le Preziose sono dunque alleate e pa-
drone del linguaggio e delle regole di società, della loro società, che
gli danno misura. Lo spazio linguistico è uno spazio diverso da
quello della corte e, in questo caso, delle accademie. Siamo ancora
nell’epoca che affronta il problema della mancanza di istruzione del-
le donne, in Francia, come nell’Inghilterra di Mary Astell (vedi ca-
pitolo 2): una donna a prescindere dal proprio rango non dispone di
strumenti culturali adeguati a una convivenza che non sia quella, più
dimessa, dei rapporti familiari. Eppure, nella Francia del Seicento,
la mancanza di istruzione diventa un vantaggio femminile.
Sulla spinta dell’adozione, ad opera di Francesco I, del france-
se, che soppianta il latino, come lingua ufficiale nelle corti di giu-
stizia e nell’amministrazione, il dibattito sull’istituzione di norme
linguistiche unificate finisce per pendere dalla parte non dell’erudi-
zione bensì della parlata “naturale”: la lingua è una musica costituita
non da ricerche archeologiche e dotte, bensì dalle pratiche vive che
la costituiscono e la rinnovano costantemente.
cunché sulle forme e sugli esiti di questi. Lo spazio nuovo dei salot-
ti viene ora valutato come una sfera non politica, nella dimentican-
za della sua funzione educativa e di mobilità sociale. La distanza da-
gli affari e dalle urgenze pragmatiche, invocate da Mlle de Scudéry,
quando le persone parlano solo sotto la spinta pratica dei loro affari,
questo non può chiamarsi conversazione […] è vero, quando un que-
relante perora il proprio caso di fronte ai giudici, un mercante che con-
tratta, un generale d’armata che dà ordini, un re che si intrattiene sul-
la politica con i propri consiglieri […] niente di tutto questo dovreb-
be essere chiamato conversazione (Scudéry 1680).
anziché essere lette come difesa di uno spazio inedito che si libera
attraverso stili di linguaggio e di comportamento, anziché essere vi-
sta come alternativa radicale all’uso politico del linguaggio – un uso
che si dispiega come grammatica del potere: “è grazie al linguaggio
che possiamo comandare e capire gli ordini, cosa di massima im-
portanza” (Hobbes, De homine) – diventa il segno di un’intrinseca
apoliticità dei salotti prerivoluzionari.
Si comincia così a separare, o a separare nuovamente, la sfera
politica da quella non politica. Abbiamo visto che a un contrattua-
lista e ispiratore di costituzioni come John Locke, Mary stell obiet-
ti di escludere dalla politica la parola delle donne, così come un se-
colo dopo farà Olympe de Gouges con i suoi compagni rivoluzio-
nari (capitolo 2). Il salotto, quale spazio intermedio, che non è pri-
vato e non è riconducibile alle istituzioni del potere, scompare a fa-
vore di rinnovate dicotomie.
L’opinione pubblica
Nel vuoto che così rimane emerge la nascente “sfera pubblica” che
esercita le funzioni educative e di dibattito che un tempo erano dei
salotti. Nello svolgimento di tali funzioni si forma l’idea di opinio-
ne pubblica, che non instaura più un legame tra stile di vita e lin-
guaggio, ma si basa piuttosto su quanto il linguaggio come comu-
nicazione possa esprimere dell’interesse di una parte, nel quadro
dell’organizzazione istituzionale e sociale dei rapporti di potere.
Non sorprende allora che Jürgen Habermas posticipi la nascita di
una parola pubblica alla metà del Settecento.
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Anche in Francia, però soltanto dopo la metà del XVIII secolo, si for-
ma un pubblico che dibatte problemi politici. Prima della Rivoluzio-
ne esso non può tuttavia istituzionalizzare fruttuosamente i suoi im-
pulsi critici, come era stato possibile nell’Inghilterra contemporanea.
Senza l’approvazione della censura non può essere stampata nemme-
no una riga, il giornalismo politico non può, svilupparsi e la stampa pe-
riodica conduce, in complesso, una vita piuttosto grama. Il foglio uf-
ficiale che esce settimanalmente, il “ Mercure de France “, pur essen-
do il giornale più largamente diffuso ancora nel 1763 non ha più di
1600 abbonati, di cui quasi un terzo a Parigi, 900 in provincia e il re-
sto all’estero. Clandestinamente si leggevano giornali introdotti ille-
galmente nel paese, primi fra gli altri i fogli olandesi. Manca non so-
lo un giornalismo politico professionistico, ma anche l’assemblea dei
ceti che avrebbe potuto trasformarsi gradualmente, sotto il suo influs-
so, in una rappresentanza popolare: gli Stati Generali non sono stati più
convocati dopo il 1614. I parlamenti esistenti, le corti supreme di giu-
stizia, che in realtà rappresentano l’unica forza politica non del tutto
dipendente dal re, incarnano non le punte avanzate della borghesia, ma
le autorità intermedie imborghesite, nella misura in cui potevano an-
cora affermarsi contro il centralismo del regime assolutistico. Manca,
infine, anche la base sociale per siffatte istituzioni (Habermas 1962,
85-86).
Comunicare è agire
L’intesa
Se partiamo dal fatto che la specie umana si conserva grazie alle atti-
vità socialmente coordinate dei suoi membri e che questo coordina-
mento deve essere stabilito mediante la comunicazione e in settori cen-
trali mediante una comunicazione mirante al consenso, la riproduzio-
ne della specie esige anche che siano soddisfatte le condizioni di una
razionalità intrinseca all’agire comunicativo. […] Un processo di au-
toconservazione, che debba soddisfare le condizioni di razionalità del-
l’agire comunicativo, diventa dipendente dalle prestazioni interpreta-
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tive dei soggetti che coordinano il proprio agire mediante pretese cri-
ticabili di validità (ivi, 528).
con la parola e l’agire ci inseriamo nel mondo umano […] questo in-
serimento non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non
ci è suggerito dall’utilità, come l’operare […] Discorso e azione sono
le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri e che ne
rivelano la doppia caratteristica di una pluralità ineliminabile e di una
unicità insopprimibile di ciascuno e ciascuna (ivi, 128).
La deliberazione, oggi
Alcuni problemi
tanto alla capacità razionale separata dal resto, bensì dal corpo, dal-
l’apparato che permette di percepire e recepire tale situazione par-
ticolare.
Unicità e dissidio
bia mai più piede nell’agire politico. Tuttavia l’unicità – se non in-
serita in un quadro di ripensamento dell’essere umano e del suo agi-
re – può condurre a una prima constatazione negativa. Essere unici
può significare che, essendo ciascuna esperienza unica e dunque as-
soluta, nessuno riuscirà a comunicare tale esperienza ad altri.
Sull’incommensurabilità ritorna J.-F. Lyotard, avanzando la fi-
gura del dissidio, che è
Oltre la comunicazione
Non esiste uno spazio che aspetta, quasi per inerzia, di accogliere la
parola pronunciata; tale spazio è costituito da dinamiche che si pos-
sono talora formulare come criteri oggettivi, se non definitivi. Ep-
pure, parlare non significa di fatto partecipare, entrare tra le parti
previste: parlare non è prendere parola (vedi capitolo 5). Lyotard ha
in mente la violenza senza redenzione della Shoah, Rancière gli
scontri tra dominatori e dominati, che nella storia si sono ripetuti e
rinnovati costantemente.
Riferimenti bibliografici
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ne, Feltrinelli 2008
– (1993), Liberalismo politico, a cura di Alessandro Ferrara, Einaudi, Torino
1999
– (1999), Il diritto dei popoli, a cura di Sebastiano Maffettone, Einaudi, Tori-
no 2001
Madeleine de Scudéry (1680-1682), Morale du monde ou Conversations
Georg Simmel (1910), La socievolezza, Armando, Roma 2005
Mme de Staël (1810), De l’Allemagne
Iris Marion Young, Communication and the other: beyond deliberative demo-
cracy, in Seyla Benhabib (ed.), Democracy and Difference. Contesting the
Boundaries of the Political, Princeton University Press, Princeton 1996
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5.
La pretesa – avanzata da Carla Lonzi e dalle altre che, agli inizi de-
gli anni Settanta, condividono l’impresa politica del gruppo “Rivolta
femminile” – di pronunciare una parola piena che “diventi materia
dura”, ovvero significativa per sé e per chi la ascolta, è la pretesa di
cambiare le posizioni che occupano donne e uomini nelle relazioni
tra loro, nella vita pubblica e privata.
Da una parte, infatti, poche donne nel parlare esprimono ciò che
è per loro urgente, ancora prima, ciò che corrisponde ai loro desi-
deri: “parlare non mi esprime”. Già inserite e formate all’interno di
una cultura che le destina alla posizione di madre, moglie e sorella,
parlare significa dire ciò che è previsto, ciò che è funzionale allo
svolgimento dei compiti che la società assegna loro. Parlare finisce
per contribuire e rafforzare valori e ideali che nascono per altri sco-
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Assumere il valore, per sé, per altre, per altri, di quel che si dice, non
ha tuttavia la semplicità e immediatezza di una decisione indivi-
duale, perché sia possibile è un mondo intero, quello comune e
quello interiore, e l’ordine che contemplano, che vanno messi sot-
tosopra.
Rappresentazione e rappresentanza
Taci…
Il mio primo bisogno come femminista è stato quello di fare tabula ra-
sa dentro di me per privarmi di ogni garanzia offerta dalla cultura, con-
vinta che le certezze acquisite nascondono un veleno paralizzante
(Lonzi 1977a, 104).
prevede. Crea, così, nello scorrere della Storia, nel sedimentarsi della
cultura e anche della letteratura, una discontinuità che parte dalle ra-
dici, un taglio che permette di intravedere che, oltre la tradizione ma-
schile, c’è altro: c’è lei che vive e pensa. […] discontinuità […] Ma-
ría Zambrano, ne insegna l’uso in modo originale perché ne fa una pra-
tica per mettere al mondo un nuovo modo di pensare: “Giunge il tem-
po di qualcosa di più intimo agli esseri umani, la dis-continuità, forse
una reiterata rottura...” . Una reiterata rottura […] una pratica che gui-
da il pensare in maniera radicalmente nuova e che trovo imparentata
con la pratica della tabula rasa, altrettanto motivata dalla necessità di
riaprirsi e riaprirsi di nuovo per avere, ogni volta sorgivamente, non in-
genuità, né purezza, ma fedeltà sia a un sentire che a un sapere che non
trovano nei codici attestati il loro riscontro e ne eccederanno sempre.
Allora si può comprendere come non sia mai stato certo un caso, ma
invece una stringente necessità che, Carla Lonzi e, prima e dopo di lei,
molte di noi, facciamo riferimento a sante e mistiche per cercare il ge-
sto che porta fuori dalla continuità di una tradizione che si è costruita
senza sapere che esistono le donne, o, se l’ha saputo, ha voluto e po-
tuto non tenerne conto. […] La tensione, mantenuta dalle mistiche, tra
il “voler dire” e il non avere un adeguato linguaggio, incardinata sul-
la precedenza data al sentire, ci ricorda che c’è, che si trova una fuo-
riuscita da ogni sedimentazione storica (Buttarelli 2002, 149).
Il silenzio
Il silenzio – stato che una donna conosce bene, che sia il silenzio di
chi ascolta, o quello di chi viene messa a tacere, o quello che è im-
possibile da avere perché sempre immerse nel quotidiano – quando
non imposto, è una risorsa per attribuire peso alle parole che si pro-
nunciano: non la leggerezza stordita dell’avere un’opinione su que-
sto o quello, ma la parola che esprime sensazioni, storie, una paro-
la radicata.
E dunque ho affermato tutto sul vuoto. […] E su questo vuoto, che era
me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore. Una vol-
ta respinte tutte quelle autorità da cui si può essere tentati di trarre la
propria identità. Questo è stato all’origine il lavoro di Rivolta Fem-
minile: allontanare tutte le suggestioni culturali, soprattutto quelle più
insospettabili. È stato un lavoro enorme, è proseguito sempre più in-
dividualmente, e continua […] È soltanto dopo aver accettato la pro-
pria voce interiore che si possono avere tutti gli interlocutori possibi-
li (Lonzi 1977a, 105).
… anzi, parla
e nel mondo appare un vuoto, quello aperto da loro che iniziano a par-
lare, a partire dal loro “libro vivente” che è l’esperienza, che si impo-
ne anche con tutto il suo spessore di indicibile (Buttarelli 2002, 149).
L’esperienza
La paura della sovversione c’è anche nei confronti del linguaggio […]
Devo aggiungere che in mezzo a quei miei sforzi per dissociare il ver-
de dalla parola prato e cose del genere, e nella misura stessa in cui ciò
mi riusciva, avvertivo un vago disagio, come l’impressione che così fa-
cendo uccidevo un’anima, una stereotipata anima arcaica che era per
loro la figura della cultura, caduta la quale altre non ne sorgevano a im-
pedire che venissero in triste risalto i muri della nostra aula e i casoni
del loro quartiere, ben visibili dalle enormi finestre – le scuole mo-
derne hanno finestre enormi. Quel quartiere sempre in bilico tra dignità
e degradazione, che temeva le iniziative degli insegnanti innovatori
quasi quanto le devastazioni dei teppisti, mi è rimasto davanti come il
fondo di una strada cieca […] In alcune occasioni il mio disagio fu for-
tissimo. Anni prima […] in una scuola della cintura milanese un gior-
no una mia amatissirna alunna – aveva tutte le qualità: intelligente, fi-
glia di operai, non competitiva, sensibile, fattiva, un po’ rude – mi con-
segnò un testo per il giornale di classe che quella settimana faceva il
confronto tra lavoro contadino e operaio. Piangeva perché nel suo
contributo aveva rivelato che sua madre, che lavorava in una fabbrica
di pentolame di alluminio, per andare al gabinetto doveva chiedere il
permesso ed aveva i minuti contati. Lei, sua figlia, aveva voluto cor-
rispondere alle mie insistenze per uno scrivere radicato nel concreto
del proprio sapere e meglio non avrebbe potuto fare, ma ne era mor-
talmente umiliata (ivi, 87-88).
Esperienza e politica
La presa di parola
Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa
la Bastiglia. La piazzaforte occupata è quel sapere detenuto dai dis-
pensatori di cultura, destinato a mantenere l’integrazione o la reclu-
sione di studenti lavoratori e operai entro un sistema che prestabilisce
la loro funzione. Dalla presa della Bastiglia alla presa della Sorbona,
tra questi due simboli vi è una differenza essenziale che marca l’evento
del 13 maggio 1968: oggi è la parola a essere stata liberata.
In tal modo si afferma, feroce, irreprimibile, un nuovo diritto, venuto
a coincidere con il diritto di essere uomo e non più un cliente destina-
to al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima del-
la società. Era questo diritto a comandare, per esempio, le reazioni di
assemblee sempre pronte a difenderlo quando sembrava minacciato
nello svolgimento di un dibattito: “Qua tutti hanno il diritto di parla-
re”. Ma questo diritto era riconosciuto soltanto a chi parlava a nome
proprio, dato che l’assemblea rifiutava di ascoltare chi si identificava
con una funzione o chi interveniva in nome di un gruppo nascosto die-
tro le parole di un suo membro: parlare non vuol di-re essere lo spea-
ker di un gruppo di pressione, di una verità “neutra” e “obiettiva”, o
di una convinzione nutrita altrove (ivi, 37).
Il partire da sé
L’efficacia
La passività
Esiste una pretesa di verità in quel che si dice che non ha nulla a che
vedere con le parole integraliste e fondamentaliste che ascoltiamo
tra Occidente e Oriente. Simone Weil ci racconta di una verità che
si rivela attraverso la sospensione dell’attribuzione rapida di signi-
ficati, attraverso un ascolto, che lei chiama attenzione, delle cose co-
sì come sono (vedi capitolo 3). È un fare vuoto che dà spazio a si-
gnificati imprevisti, significa farsi passivi in attesa di un significa-
to che non è già prestabilito nella nostra volontà e coscienza.
traverso l’ascolto che suscita non per via retorica ma attraverso il pe-
so della materialità dell’esistenza, e ciò accade in virtù di un ab-
bandono iniziale, di una resa.
Tale resa diventa possibile proprio perché si è creato lo spazio,
il silenzio di un ascolto di quel che preme più da vicino, grazie a un
lavoro di liberazione da bisogni indotti, da immagini create altrove.
Ecco che ritroviamo Carla Lonzi e che l’espressione “passività ef-
ficace” smette di suonare come un ossimoro.
L’autorità
sato, alla tradizione, un gesto che, nei tempi in cui scrive, vede irri-
mediabilmente compromesso.
Sono alcune lettrici del suo testo ad aver aperto un’altra inter-
pretazione dell’autorità, nel senso di un riconoscimento di dipen-
denza che, lungi dal richiedere obbedienza, crea uno spazio di li-
bertà. In breve, la parola autorevole sarebbe quella che, pronuncia-
ta, aumenta – augere ha il significato primo di “aumentare” – il gra-
do di libertà disponibile.
Fondata sulla forza di fare vuoto per liberarsi dalle idee ricevute, in
ascolto della realtà e debitrice dell’ascolto altrui, la parola autore-
vole è tale per la sua capacità di radicarsi nella vita materiale e di
esprimerne l’eccedenza rispetto al simbolico dominante come alla
vicenda singolare (Diotima 1995).
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Va dunque fatta una prima precisazione, il fatto che tutti e tutte par-
liamo e che siamo presi e prese nel linguaggio, non significa che go-
diamo di una comunanza che va da sé. Gli scambi che il linguaggio
comune permette è al tempo stesso all’origine dell’essere insieme e
del conflitto. Ma non è solo la pluralità di chi parla che interrompe
il sogno di un idillio tra parlanti.
bile nella lingua che si parla; come se il negoziato che dicevo fosse in
perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfi-
no, dei quali la lingua non rende conto, dando così luogo a un diffici-
le rapporto con il mondo delle parole. Alla semplice ignoranza della
lingua si rimedia con lo studio. Ma lo studio può solo coprire i resti e
i problemi legati alla significazione del mondo, nulla di più. Perché,
quando i conti non tornano, resta al fondo un insormontabile, inespri-
mibile, quasi sempre inconsapevole, eppure continuo, forte e sensibi-
le senso d’inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non acco-
gliente e democratica ma ostica e usuraia […] Di quella primaria e mai
conclusa contrattazione tra mutezza e parola, in cui consiste il saper
parlare, noi siamo informati in qualche modo, specialmente quando
qualcosa «non va». La perdita di competenza simbolica, infatti, dà al
mondo una consistenza estranea, quella di una pietra messa sulla ta-
vola al posto del pane. Allora può succedere che esigiamo la cosa che
è fuori dal potere di decisione di chicchessia, che è cambiare la lingua
e volere addirittura una lingua mai parlata prima. Diciamo «non voglio
più parlare una lingua qualsiasi», ma una lingua che mi risponda, che
è il modo più radicale di mettere in questione un certo stato dei rapporti
sociali. (ivi, 82-85).
Può apparire sorprendente che Irigaray trovi la “chiave per una con-
vivenza universale” in quel che accade tra un uomo e una donna.
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Come si arriva a un’idea del genere dopo secoli che hanno relega-
to questo rapporto tra gli aspetti necessari ma secondari della vita
comune? Così ha pensato Aristotele che dell’oikos, della sfera del
domestico e del lavoro, faceva un ambito non politico; così hanno
pensato i padri della politica moderna, Hobbes e Locke, quando fan-
no della famiglia l’anello di congiunzione tra il privato e il politico,
e lasciano le donne nel primo; così ancora fa Hegel che attribuisce
ad Antigone la funzione liminare di custode della dignità dei morti
– corpi muti e dunque non più cittadini – e dunque “eterna ironia
della comunità” pubblica e politica. E poi, dato che la relazione tra
una donna e un uomo avviene soprattutto nella forma dell’amore,
questa relazione non dovrebbe piuttosto riguardare le questioni del-
l’intimo, che poco ha a che fare o può fare per lo stato della convi-
venza su scala planetaria?
Nello sciogliere i fili dello scambio di parola tra donne e uomi-
ni, le vie che si aprono sono numerose. Pensiamo a quanto detto fin
qui, la relazione tra i due per secoli ha funzionato su una asimme-
tria concepita in modo gerarchico, il più da una parte, il meno dal-
l’altra: più e meno di funzione, destino, efficacia della parola e del-
la sua capacità di ordinare, classificare, organizzare. D’ora in avan-
ti dunque la parola “donna” e “uomo” andranno intese come sog-
getti di un ordine simbolico, che fa sì riferimento alla singolarità di
ciascuna e di ciascuno, ma si alimenta e si posiziona rispetto alla
provenienza e a valori secolari. Insomma, quando ci mettiamo nel-
la posizione di chi parla, il senso di ciò che diciamo non è solo orien-
tato da quel che vogliamo dire, ma anche dalla storia che, assunta o
respinta, ci colloca e orienta il senso delle parole dette (vedi capi-
tolo 1).
Il compito di trasformare questa struttura relazionale millenaria
spetta ad entrambi, questa una prima novità: una donna avrà il com-
pito di togliersi dalla posizione obbligata e ausiliaria, respingendo
non solo gli svantaggi ma anche i benefici, dovrà cioè apprendere a
parlare secondo una misura propria e reale. Ricordando quanto di-
ce Carla Lonzi, – un valore viene mitizzato quando si parla di ciò
che non si conosce, subentra allora la fantasticheria e l’asservimen-
to – non suona più paradossale pensare che anche una donna deve
imparare a parlare tenendo conto di un limite: non quello imposto
dall’esterno, ma quello che richiede di rendere conto della realtà che
si vive. Un uomo avrà il compito di assumere un altro genere di li-
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Il politically correct
La soglia
Appare così chiaro che parlare è più dell’ordine del gesto che della
cosa detta. Non si tratta di “acchiappare banane” e scambiarsele e,
per estensione, trattare chi ascolta come un oggetto da manipolare.
Il linguaggio, che ci accomuna, va imparato come gesto che sa man-
tenere una distanza nella comunanza, un gesto di condivisione, un
legame cioè che mantiene lo spazio di una separatezza, di una non
coincidenza.
Siamo tutti accomunati nel linguaggio, siamo esseri parlanti, la
nostra vita singolare è debitrice dello scambio linguistico, e le pos-
sibilità della convivenza avviene attraverso questi scambi che co-
stituiscono il tessuto sociale. Il linguaggio è di tutti, ma richiede la
cura di ciascuno e di ciascuna, altrimenti crea ordini ingiusti, inap-
propriati: la comunanza che abbiamo come essere dotati di lin-
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Riferimenti bibliografici
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6.
“Mi dirai che questi ripiegamenti sulla legittimità locale sono delle
reazioni di resistenza agli effetti devastatori dell’imperialismo e
della sua crisi delle culture particolari. È vero, ma la cosa conferma
la diagnosi, anzi l’aggrava […] non aprono alcuna prospettiva di co-
smopolitismo” (44). Il problema consiste proprio in questo, che
l’Occidente abbia perso la prerogativa di esercitare una pretesa, che
presentava come legittima, per le vie della ragione e della forza, non
significa che la pretesa stessa sia andata perduta.
A cominciare dal fatto che l’unità di una parte non può più ga-
rantirsi con il ricorso alla geografia: oggi difficilmente una parte si
trova puramente e semplicemente a convivere in un’unica regione.
Da un lato, all’interno della stessa regione convivono più parti, ta-
lora diverse per lingua, per religione – si pensi all’India, ma anche
ai conflitti tragici che hanno disgregato la ex Jugoslavia, la regione
dei Balcani. Dall’altro, gli imponenti flussi migratori che sono av-
venuti nel Novecento, hanno fatto sì che non pochi individui – i na-
tivi delle ex colonie che, padroneggiando la lingua del paese colo-
nizzatore, vi si trasferiscono, oppure gli esodi da paesi immiseriti
dalla colonizzazione verso paesi più ricchi – si siano risolti a vive-
re in un paese diverso da quello di provenienza.
Pensare alla situazione di questo decennio nei termini di uno
“scontro di civiltà” (Huntington) – che sarebbe la risposta conflit-
tuale della “pace perpetua”, del cosmopolitismo kantiano – com-
mette lo stesso tipo di trascuratezza: nell’utilizzare il termine “ci-
viltà”, anche quando la si contrapponga a un’altra, si presume che
vi sia un elemento ultimo accomunante che la contraddistingue co-
me tale. Tale semplificazione non riguarda solo il pensiero occi-
dentale. Come l’Occidente deve abbandonare la propria pretesa uni-
ficante e unificata dall’ideologia universalistica, così l’Oriente non
può essere il termine che unifica e riunisce tutte le culture non oc-
cidentali sulla base di una comunanza in quanto Altro dell’Occi-
dente. L’oriente è plurale e appellarsi ai “valori asiatici”, da con-
trapporre a quelli occidentali – individualismo capitalistico contro
comunitarismo etico – oltre a ereditare la cattiva mossa del pensie-
ro occidentale, nel farne una tecnica di resistenza, non fa che per-
petuarla (Sen 2002).
Il problema consiste proprio in questo: una impossibile unani-
mità. Non solo ogni soggetto di parola non può più rappresentarsi
come un tutto coeso e omogeneo che può raccontarsi secondo un’u-
nica storia; sembra anche che la parola delle Costituzioni, il giura-
mento che legava individui riunendoli in un’unica nazione (vedi ca-
pitolo 2), non solo non eserciti più la propria funzione, ma anzi fi-
nisca per essere il quadro entro cui individuare in chi è incluso, nel
fratello, un nemico interno. Tramonta tragicamente l’unità di un
popolo come nazione che si lega con le parole di un patto e trova
nello Stato la propria rappresentazione e rappresentanza: in un’in-
versione paradossale, la mancanza di parola e di voce, la violenza
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delle armi quando non della persecuzione etnica, nasce proprio dal
legame, dal giuramento.
Per mettersi in ascolto di questo caos urlante del “senza voce”, basta
tendere l’orecchio a una qualsiasi “novità”. Nel momento in cui rileg-
go tutto questo, tutti i punti del mondo, tutti i luoghi del mondo uma-
no, e non solo sulla terra, non solo in Ruanda e in Italia, nell’ex Ju-
goslavia e in Iran, in Israele e in Palestina, in Cambogia e in Irlanda,
a Tahiti e in Bangladesh, in Algeria e in Francia, in Ucraina e nei Pae-
si Baschi ecc. sono – e sempre sono stati – altrettanti vortici per le “di-
stinzioni chiare” […] Dare loro, ancora, dei nomi di paesi, è parlare un
linguaggio senza fondamento sicuro […] Come potrebbe un fratello
essere soggetto all’ostilità assoluta? Bisognerà invertire l’ipotesi. Non
c’è ostilità assoluta che per un fratello (Derrida 1994, 170 e 176).
Noi è un altro
di chi enuncia il discorso, sia dalla parte di chi tale discorso lo rice-
ve, abbiamo un immediato guadagno di realtà e dunque di finezza
nelle possibili descrizioni.
Nei paesi che hanno conosciuto la colonizzazione, non sempre
si è assistito a un brutale esercizio della forza e della repressione –
come quando Hannah Arendt (vedi capitolo 1), racconta dell’ideo-
logia razzista utilizzata dall’imperialismo per legittimare la cancel-
lazione dell’umanità dei nativi. In alcuni casi i rapporti di coloniz-
zazione nell’Africa dei primi del Novecento si sono svolti in modo
più ambivalente. I coloni hanno accolto alcune presunte caratteri-
stiche delle popolazioni indigene – un’organizzazione di tipo rura-
le e tribale – per orientarle, se non manipolarle, nel verso di un’ot-
timizzazione politica della loro presenza sul territorio; un’opera-
zione che, pur meno efferata della mera eliminazione fisica o della
riduzione in schiavitù, non ebbe risultati meno violenti.
Così, in alcuni casi, i conflitti interni alle comunità, come quel-
li che opponevano gli anziani ai giovani, hanno stabilito rapporti di-
versi con la cultura e le innovazioni introdotte dai colonizzatori. Gli
anziani potevano fare riferimento alla tradizione per difendere gli in-
teressi consolidati nelle attività rurali contro le rivendicazioni dei
giovani; i giovani, per parte loro, potevano trovarsi a contestare la
tradizione utilizzando proprio la rottura introdotta dai valori colo-
niali nella tradizione della loro comunità. O ancora, anziani e gio-
vani si ritrovavano accomunati nella difesa della tradizione, di fron-
te alle rivendicazioni delle donne per una maggiore libertà. È una
tensione che ritroviamo ancora oggi, quando assistiamo ai conflitti
all’interno delle singole culture, occidentali e non, che si trovano di
fronte all’alternativa semplificata tra aderire a un ordine che si pre-
sume autonomo e contestarlo in nome di un’alternativa che spesso
somiglia troppo all’ordine dominante: il movimento verde in Iran è
composto da giovani e da donne che vogliono diventare Occiden-
tali?
Il problema è costituito dall’equivalenza tra l’Occidente, la sua
storia, e la libertà, un’equivalenza su cui Fukuyama sarebbe d’ac-
cordo, ma che non possiamo assumere a meno di ignorare le tante
voci autorevoli che l’hanno messa in discussione. Pensiamo agli at-
ti di esclusione che hanno fondato la democrazia moderna, all’uso
della menzogna per il conseguimento di scopi politici, ai rapporti di
forza che permangono anche quando la democrazia pretende di
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Essere un’altra
Che cosa accade quando si rifiuta la storia che ci viene cucita ad-
dosso dall’altro? Un primo gesto può essere quello di rispedire tale
storia al mittente. Fatema Mernissi, diversamente da Said, anziché
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Shahrazad politica
L’educazione, ancora
L’Europa oggi
Siamo più giovani che mai, noialtri Europei, perché una certa Europa
non esiste ancora. È mai esistita? Ma noi siamo come quei giovani che
si alzano, sin dal mattino, vecchi e stanchi. Siamo già esauriti. Questo
assioma della finitezza comporta un nugolo di questioni. Da quale
esaurimento i giovani vecchi Europei che noi siamo devono ri-parti-
re? Devono ri-cominciare? Oppure, partenza dall’Europa, congedar-
si da una vecchia Europa? O ripartire verso una Europa che ancora non
esiste? O ripartire per far ritorno verso una Europa delle origini che bi-
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teri di cittadinanza del paese ospite, che fa recedere nella sfera del
privato la cultura di provenienza (modello francese, repubblicano).
Entrambi i modelli contemplano il bordo, la zona d’ombra, che in-
clude quelli e quelle che, pur essendo presenti, del demos ancora non
fanno parte, non hanno cittadinanza.
La fragilità di queste soluzioni è oramai quotidianamente di-
mostrata dai conflitti – violenti perché privi di parola, amputati del-
la possibilità di uno scambio – che si aprono all’interno delle singole
società, nel quadro più ampio e violento di uno stato di guerra tra
paesi Europei, e occidentali, e altre zone del mondo. La violenza è
acuita da una novità rispetto alle antiche e ripetute partizioni che, in
democrazia, hanno separato chi parla da chi non parla: i/le non-cit-
tadini/e nel paese ospitante sono cittadini e cittadine nei loro paesi
di provenienza, non sono dunque esseri senza parola, che possono
anche assumere questa descrizione per se stessi, bensì sono cittadi-
ni che, in virtù del loro trasferimento, vengono privati della parola,
o ancora hanno parola a condizione. Le condizioni possono natu-
ralmente essere le consuetudini e le leggi del paese ospite, ma cosa
accade quando, per legge, la cultura di provenienza deve rimanere
fuori dalla scena politica, dalla presa di parola pubblica? La solu-
zione “multiculturale” non è la soluzione, ma il problema stesso.
municazione: ciò che un tempo era un gesto la cui portata non ri-
guardava la sfera personale – il modo in cui siamo vestite quando
accompagniamo nostro figlio a scuola – diventa pubblica, quando
non un oltraggio.
Appare allora insufficiente l’idea di una democrazia basata sul-
la comunicazione e sul dialogo tra parlanti, accomunati dalla me-
desima capacità razionale e, soprattutto, linguisticamente compe-
tenti nello stesso grado. Abbiamo infatti visto che la competenza lin-
guistica, che rende efficace la comunicazione e la negoziazione tra
parlanti, presuppone molto: dalla determinazione delle posizioni
dei parlanti che avviene su scene diverse da quella dello scambio
(essere un immigrato è una posizione diversa da quella dell’essere
un cittadino) alla conoscenza delle regole, esplicite ma soprattutto
implicite, che costituiscono la possibilità dello scambio – cono-
scenza degli usi, accesso alle risorse, educazione, padronanza della
lingua, etc., (vedi capitolo 4).
Immaginare una comunicazione tra esseri parlanti che si presu-
mono o si obbligano a essere uguali
Dia-loghi e iterazioni
Dall’uno all’altro
Che sia il colono o che sia l’ospite, il “padrone” di casa che ospita
gente di altre culture non ha a disposizione un analogo rapporto di
padronanza sulla lingua. Piuttosto l’accesso stesso alla lingua ci
mette in una posizione di alterità. In negativo, quando il dialetto o il
linguaggio di comunità ristrette, create dalla politica o dalle nuove
tecnologie della comunicazione, oppure quando si perde la compe-
tenza linguistica per il venire meno dell’istruzione e dell’educazio-
ne, per via di un analfabetismo di ritorno, o ancora quando tale com-
petenza viene delegata ad altri, agli “esperti”, si creano così altrettanti
limiti della partecipazione agli scambi linguistici e sociali. In positi-
vo, quando non abbiamo ancora pienamente dispiegato le possibili-
tà di significare noi stessi e di andare verso altri. Il linguaggio è dun-
que sempre attraversato dal problema della partecipazione, che ci
rende una parte rispetto alla dimensione linguistica, che sempre ci ec-
cede, secondo una parzialità che può funzionare da segregazione
oppure da limite che fa spazio alla parola altrui e all’ascolto.
A meno di non volerci ancora dei ciechi colonialisti, oggi siamo spin-
ti, globalizzazione oblige, ad aprirci al riconoscimento di altre cultu-
re. Questo ci costringe a mettere in questione i valori del medesimo,
dell’identico, del proprio, dell’uguale che hanno dominato la nostra
tradizione logica per secoli. E ci impone anche di interrogare una con-
cezione dell’universo fondata su simili paradigmi, il cui carattere par-
ticolare, e dunque autoritariamente normativo, appare ormai più o me-
no chiaramente. Da qui nasce il ricorso a certi modelli […] Ma cosa
può significare la loro imposizione, dato ciò che oggi sappiamo della
diversità dei soggetti viventi e parlanti? […] da realtà considerata se-
condaria, empirica, utile innanzitutto alla riproduzione, la differenza
sessuale potrebbe diventare il vettore principale, o perlomeno una di-
mensione decisiva, per l’elaborazione di una nuova cultura. Una cul-
tura che risponderebbe alle aspirazioni e alle necessità del nostro tem-
po, a patto di non ricadere nella riduzione dell’uomo e della donna so-
lo a oggetti di analisi, bensì di considerare la differenza stessa come
fonte della relazione. Ora, la differenza non si oggettiva. Produce re-
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quelli cattivi. L’arrivo a scuola con il velo non è una semplice ar-
gomentazione, ha la consistenza di un gesto e della presenza fisica,
esprime più che argomentare e, per via dell’esposizione in prima
persona e della richiesta di una maggiore giustizia e libertà, ha una
valenza etica e politica.
rò, ancora una volta, ai rapporti di forza: chi era debole, per un
evento che nulla ha a che vedere con lo scambio tra parlanti – vin-
cere una guerra – viene messo nella posizione di esercitare la forza
della sanzione a propria volta.
La Commissione per la Verità e la Riconciliazione interviene
sull’ambito politico della convivenza, fornisce le pratiche per un
giudizio condiviso su crimini del passato, ma non utilizza gli stru-
menti della legge e della sanzione.
Questa Costituzione fornisce uno storico ponte tra il passato di una so-
cietà profondamente divisa, caratterizzata da lotta, conflitto, ingiusti-
zia e sofferenza e un futuro fondato sul riconoscimento dei diritti uma-
ni, della democrazia e pacifica coesistenza e sviluppo di opportunità
per tutti i sudafricani, indipendentemente dal colore, razza, classe, fe-
de o sesso. Il perseguimento dell’unità nazionale, il benessere di tutti
i cittadini del Sudafrica e la pace esigono riconciliazione all’interno del
popolo del Sudafrica e la ricostruzione della società […] Vi è bisogno
di comprensione ma non di vendetta, necessità di risarcimento ma
non di rappresaglia, bisogno di ubuntu ma non di vittimismo. Per ac-
celerare questa riconciliazione e questa ricostruzione, sarà garantita
un’amnistia per gli atti, omissioni ed offese associate ad obiettivi po-
litici commessi nel corso dei conflitti del passato (Costituzione prov-
visoria del Sudafrica 1993)
Compito della TRC non era quello di costruire una nuova memoria
collettiva in sostituzione di quella, parziale, distorta e arbitraria che
aveva dominato per anni ed era andata ormai in pezzi. Né di raccordare
o amalgamare memorie diverse e divergenti che avevano costituito
lungo i decenni dell’apartheid un momento centrale dell’identità dei
governanti e dei governati, dei persecutori delle vittime. […] La con-
sapevolezza collettiva dell’illegittimità dell’apartheid, la costruzione
di un’etica pubblica fondata sulla cultura dei diritti umani e su valori
condivisi e riconosciuti, doveva passare necessariamente sul raccon-
to delle sofferenze patite e delle violenze subite e sulla denuncia dei
crimini commessi (Flores 1999, 47-48).
Riferimenti bibliografici
Seyla Benhabib (2004), I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raf-
faello Cortina, Milano 2006
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INDICE
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 5
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