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La famiglia romana

a cura di Gaetano Mercuri

La famiglia è ancora oggi la base di partenza per la crescita di ciascuno, il primo consorzio di vita al
quale siamo chiamati a partecipare attivamente e tramite il quale siamo introdotti nella società che ci
circonda. È essa in prima battuta a condizionare le nostre scelte mediante la tipica impronta culturale ed
etica che le è propria. La sua importanza è tale che è da sempre oggetto delle attenzioni da parte della
politica, quale che sia la sua ispirazione ideologica. Quando i Padri Costituenti si riunirono per discutere
sul tema e sulla possibilità di introdurre una nozione di famiglia nella Carta Costituzionale, il dibattito si
accese. Giorgio La Pira, cattolico convinto e insigne docente di diritto romano, sosteneva fosse neces-
saria l’introduzione di un articolo apposito affinché si tutelasse la famiglia da una possibile, futura, pe-
sante intromissione dello Stato nella disciplina della stessa. Ciò era dovuto alla constatazione di come
nel precedente ventennio, il regime avesse condizionato fortemente la vita degli italiani proprio parten-
do da una certa legislazione, una propaganda invasiva e un controllo occhiuto sulla vita e i rapporti fa-
miliari. Riprendendo una famosa frase di Cicerone, nell’ottica lapiriana la famiglia era società primordia-
le al principio dello Stato e quasi vivaio dello stesso1 e pertanto doveva essere difesa contro gli attacchi
politici e i dibattiti parlamentari di un giorno, fortificandone la concezione con un’espressa previsione
costituzionale, e in quanto tale non modificabile da una semplice legge ordinaria, ma solo attraverso un
aggravato procedimento di revisione della Carta stessa2. A questa posizione si sarebbe opposto Arturo
Carlo Iemolo, il quale sosteneva che la famiglia fosse stata fino ad allora un’isola appena lambita dal
mare del diritto; una menzione della stessa in Costituzione e la conseguente giuridicizzazione del con-
cetto di famiglia avrebbe in definitiva realizzato quell’intervento invasivo da parte dello Stato che si sa-
rebbe voluto evitare a tutti i costi. Il risultato del dibattito e il compromesso che si trovò tra le posizioni
dei Costituenti è abbastanza noto e possiamo leggerlo nell’art.29 della Costituzione.3 Il modello di fami-
glia che ne emerge non limita del tutto l’autodeterminazione del singolo e l’ordinamento italiano si è via
via orientato verso una certa liberalizzazione dettata dal mutare del contesto storico e dei valori condi-
visi nella società attuale. Ci troviamo, ai nostri giorni, di fronte non più ad un solo tipo di famiglia, ma

1
M. T. Cicerone, De Officis,1,17,54:”prima societas in ipso coniugio est…deinde una domus, communia omnia; id au-
tem est principium urbis et quasi seminarium reipublicae”.
2
È ciò che in seguito sarà inserito dai padri costituenti nell’art. 138 Cost.
3
Art. 29 Cost.: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matri-
monio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità
familiare”.
1
anche ad una serie di situazioni “di fatto” sulle quali il dibattito politico è, ormai da anni, polemicamen-
te impegnato. Basti pensare semplicemente alle convivenze c.d. “more uxorio” per le quali si polemizza
sulla necessità di dare o meno dignità giuridica e protezione legislativa.
Detto questo, perché un documento sulla concezione della famiglia in Roma antica? Un approfon-
dimento storico-giuridico pensato per mettere in luce le moltissime differenze ma anche le non poche
somiglianze tra il nostro modello di famiglia, soggetto oggi a forti cambiamenti e grandi prove e la fa-
miglia romana che, per molti aspetti, anche solo a livello inconscio, ha continuato ad influenzare
l’Occidente per secoli. Alcune sue caratteristiche sono sopravvissute fino a pochi decenni fa, sotto le
più varie e impensabili forme, nelle legislazioni di molti paesi europei e in particolare del nostro, fin
quando sono state eliminate da interventi delle corti costituzionali e, più recentemente, da una più o
meno nutrita serie di riforme. È necessario guardare a Roma “da lontano”4, per comprendere prima di
tutto le differenze; da queste desumere poi gli elementi che più ci avvicinano ad essa. Come ancora og-
gi, la famiglia rivestiva allora un ruolo sociale importante ed ineliminabile. La formazione dei primi nu-
clei familiari, come testimoniatoci da Cicerone5, precedeva lo Stato e si poneva a suo fondamento. Le
origini dell’istituto giuridico della famiglia si perdeva nella notte dei tempi ed era ammantata dalla leg-
genda e da un simbolismo magico - religioso. Pertanto a noi, che guardiamo da lontano, niente ci deve
sembrare strano o sottovalutabile in quanto a prima vista fantasioso.

Fasi storiche e fonti


Il diritto ha la peculiarità di seguire lo sviluppo della società e le norme hanno la funzione di asse-
condare o frenare i mutamenti, a seconda dell’impostazione data dalla politica. Il diritto romano attra-
versa varie fasi: dopo la prima legislazione che veniva fatta risalire al primo re Romolo e trasmessa per
secoli oralmente fa seguito, dopo la cacciata dei re etruschi e la proclamazione della res publica, la prima
raccolta di leggi scritte. Erano le famose dodici tavole, in bronzo ed esposte nel foro affinché tutti po-
tessero leggerle, perdute dopo il saccheggio dell’Urbe da parte delle orde galliche di Brenno6. Ne cono-
sciamo il contenuto grazie alla ricostruzione successiva dovuta alla trasmissione orale e all’ interpreta-
zione dei precetti in esse contenuti, operate dal collegio dei pontefici7 prima e dall’esegesi dei primi giu-
risti laici poi8. Ai nostri fini, un'altra tappa importante è rappresentata poi dalla legislazione di Ottavia-

4
Così E. Cantarella nel suo: “Persone, famiglia e parentela”, in Schiavone A. (a cura di), Diritto privato romano, Tori-
no, Einaudi, 2010, pag. 157.
5
Vedi nota sub 1.
6
Di questo famoso condottiero è nota la frase: “Vae Victis” (Guai ai vinti); essa denota ancora, nel linguaggio comune,
le condizioni particolarmente dure a cui sono sottoposti gli sconfitti da parte dei vincitori. Cfr. T. Livio, Ab urbe condita
libri, V, 48.
7
Essi erano sacerdoti selezionati all’interno della classe patrizia, incaricati della conoscenza delle cose più sacre, tra i
quali rientrava l’interpretazione in punto di diritto di casi della vita, pratici, che potevano presentarsi. Come ci dice il
nome, erano considerati ponti tra il divino e l’umano.
8
Cfr. Schiavone A., “Diritto e giuristi nella storia di Roma”, in Schiavone A. (a cura di), Diritto privato romano, Torino,
Einaudi, 2010, pag. 21 e ss.
2
no Augusto9, che rifacendosi agli antichi costumi degli antenati (il mos maiorum) cercò di mettere un fre-
no ai profondi cambiamenti economici e sociali che mettevano in pericolo l’ordinamento familiare e
quindi, in definitiva, anche lo Stato. L’ideale modello familiare cristiano iniziò ad influire
sull’ordinamento solo a partire del quarto secolo d.C. con le prime riforme di Costantino e si affermò
pienamente solo con l’imperatore Giustiniano.
Le uniche due fonti scritte originali tramandateci fino ad oggi in maniera più o meno completa e dal-
le quali, oltre che da altre numerose fonti letterarie, ricaviamo la nostra conoscenza del diritto romano
sono le istitutiones di Gaio e il Corpus Iuris Civilis giustinianeo. Le prime sono un’opera andata perduta per
molti secoli e riscoperta nel 1816 dallo storico tedesco Georg Niebuhr. Egli, studiando presso la biblio-
teca capitolare di Verona un testo pergamenaceo riportante le epistole di San Girolamo, si accorse che
si trattava di un codex rescriptus o palinsesto, conteneva cioè un altro testo al disotto di quello a prima vi-
sta leggibile. Una scoperta sensazionale che lo storico decise di recuperare con l’uso di reagenti chimici
che, pur facendo riapparire la scrittura originale, la rovinarono in alcune parti andate irrimediabilmente
perdute. Si riuscì ad integrare alcuni brani solo con la scoperta di alcuni papiri egiziani negli anni venti e
trenta del XX secolo. Le istitutiones gaiane erano un’opera pensata per gli studenti di diritto alle prime
armi. Contenevano quindi una prima illustrazione generale del patrimonio giuridico romano.
Dell’autore sappiamo pochissimo oltre a ciò che possiamo desumere dall’opera stessa. Probabile che
fosse originario di una provincia orientale dell’impero dove scrisse e insegnò tra la fine del regno di
Traiano e i primi anni di Marco Aurelio. Oppure che fosse un romano stabilitosi successivamente in
provincia. Certo è però che ignorato durante la sua epoca, divenne famosissimo più tardi quando il suo
libro divenne testo base di ogni insegnamento scolastico fino al tempo di Giustiniano10. Un imperatore,
questo, divenuto famoso proprio per la compilazione di testi giuridici nota dalla fine del ‘500 con il
nome di Corpus Iuris Civilis, che ordinò ad una commissione presieduta dal solerte ministro Triboniano,
al fine di mettere ordine alla vastissima produzione legislativa e giurisprudenziale precedente. I commis-
sari lessero gran parte della letteratura scritta dai giuristi del I, II e III sec. d.C., ne estrassero i passi più
significativi e li riassunsero in un testo unico e coerente, il quale, munito di forza di legge, si sarebbe
dovuto imporre alla prassi per la risoluzione di qualsiasi controversia. Il successo di quest’operazione,
che è peraltro tutt’oggi difficile da spiegare senza ipotizzare l’adozione di particolari modalità di lavoro,
segnò purtroppo anche la perdita drammatica di tutto il materiale originale utilizzato, di cui Giustiniano
ordinò la distruzione, e sul quale aveva disposto, per di più, che i commissari all’occorrenza intervenis-
sero, apportando le modifiche necessarie ad adattarlo alle esigenze dei contemporanei (cosiddette inter-
polazioni). Questa parte della compilazione venne denominata Digesto ( ma era nota anche come Pandec-

9
Si tratta delle tre leggi Iulia de maritandis ordinibus, Iulia de adulteriis (entrambe del 18 a.C.) e lex Papia Poppea (
del 9 d.C.)
10
Cfr. Santalucia B.( a cura di), Antologia delle istituzioni di Gaio, Bologna, Pàtron Editore, 2005, pag. 9 e ss.
3
tae, alla greca). Il Codex raccoglieva invece le costituzioni imperiali precedenti riorganizzate sistematica-
mente e ricondotte ad un unità coerente, utile per i tempi nuovi. Un’altra parte ancora erano le Istitutio-
nes, analoga per funzione all’opera gaiana. La quarta ed ultima parte era infine rappresentata dalle Novel-
lae (Costitutiones), ovvero la raccolta delle leggi imperiali giustinianee pubblicate successivamente11. Dai
frammenti del Digesto proviene la gran parte delle notizie più propriamente giuridiche riguardo
all’istituto della famiglia in Roma. Ma è necessario accennare infine alle numerose fonti dalle quali si at-
tingono notizie di rilievo storico, culturale, e sociologico non desumibili dalla compilazione giustinianea.
Si tratta di passi estratti dalle opere letterarie dei più vari autori che, insieme a numerose iscrizioni se-
polcrali epigrammatiche ritrovate durante scavi archeologici, ci testimoniano quanto l’importanza
dell’istituto della famiglia fosse sentita dai nostri progenitori e quanto già allora fossero complesse le
implicazioni sociologiche e antropologiche che si riflettevano nella vita di tutti i giorni.

La famiglia
Il termine famiglia deriva originariamente da famulus, che nella lingua del popolo osco significa schia-
vo, e pertanto inizialmente indicava l’insieme degli schiavi che, legato all’ampiezza alla quantità di terra
posseduta, rappresentava il patrimonio. Nella Roma del periodo arcaico, infatti, caratterizzata da una
povera economia agro- pastorale di mera sussistenza, gli schiavi, molto pochi e perciò preziosissimi, fa-
cevano parte a pieno titolo dell’aggregazione familiare in maniera quasi del tutto simile ai figli sottoposti
alla volontà del pater familias unico detentore della potestas, potere assoluto di disposizione su di essi, di
vita e di morte. Sulla moglie e su quelle dei propri figli tale piena libertà di disporne prendeva il nome di
manus12. I legami di parentela all’interno della famiglia romana erano di due tipi: il primo era la c.d. agna-
tio, la parentela in linea maschile che legava tutti i discendenti, maschi e femmine, all’unico ascendente
comune vivente. La seconda, c.d. cognatio era invece la parentela in linea femminile(che legava i figli e le
figlie del pater ai parenti della madre). Solo la agnatio aveva valore per il diritto. Tutti i c.d. agnati, cioè i
parenti in linea maschile che, resisi indipendenti dopo la morte del proprio Pater lo erano divenuti a loro
volta per la propria rispettiva discendenza, formavano quella che era chiamata la familia communi iure, la
famiglia di diritto comune. La cognatio era invece assolutamente irrilevante per lo ius civile13. Un effetto
questo, chiaramente riconducibile al fatto che a Roma vigeva un modello familiare rigidamente patriar-
cale nel quale le donne erano emarginate, anche se non tanto quanto in Grecia dove esse non erano al-
tro che un mezzo di procreazione a cui era vietata la partecipazione alla vita sociale: sostanzialmente vi-
vevano relegate nella parte della casa ad esse dedicato, il ginecèo. Familia iure proprio era invece la fami-
glia in senso stretto formata da tutti coloro che fossero soggetti alla potestà del capofamiglia 14. Questi

11
Cfr. Schiavone A., op. cit., pag. 3 e ss.
12
Cfr. Cantarella E., op. cit., pag. 189.
13
Franciosi G., La Famiglia Romana, Torino, Giappichelli, 2010, pag. 90 e ss.
14
Ulpiano, Ad edictum, in: D. (Digesto), lib. 50, tit.16, fram. 195, par. 2.
4
era l’ascendente maschile di grado più alto. Non necessariamente era il padre rispetto ai figli, perché po-
teva esserlo il nonno o persino l’avo di grado ancora superiore, se ancora vivente, rispetto ai propri figli,
nipoti e discendenti ulteriori. La familia poteva mostrare la compresenza di più generazioni. Gli storici
su questo sono divisi tra chi sostiene quest’ultima ipotesi e chi invece pensa che la famiglia romana si sia
con il tempo evoluta fino ad assomigliare notevolmente alla nostra, nucleare e formata da due genitori e
un paio di figli. Le testimonianze ci danno un quadro molto complesso: da una parte bisogna considera-
re che le donne romane si sposavano mediamente dopo il raggiungimento della pubertà (quindi dopo i
dodici anni e ciò giustificava in buona parte l’altissima mortalità per parto) e gli uomini tra i venti e i
venticinque anni. Perciò affinché ci fosse la convivenza tra più generazioni, è necessario supporre che i
romani vivessero almeno oltre i sessant’anni. Secondo alcuni, era questo un evento molto raro, soprat-
tutto in età arcaica, a causa di guerre, pestilenze, insufficienze alimentari o altro. Secondo altri sono in-
vece numerosi i casi di longevità testimoniateci dalle fonti. Per fare solo qualche esempio Cesare muore
a cinquantasei anni e Cicerone a sessantatré e solo perché l’uno per mano dei congiurati in senato l’altro
dei sicari di Antonio. Augusto, che le fonti ci dicono essere stato sempre molto debole di salute, morì a
settantasette anni, nel proprio letto e dopo ben quarantacinque anni di governo. Quanto meno nelle
classi più agiate, le sovrapposizioni e i conflitti intergenerazionali potevano quindi verificarsi. Le fonti ci
tramandano poi che a Roma fosse praticato un antico rito chiamato “deiectio sessagenarios”, il lancio dei
sessantenni. Si svolgeva sull’antico ponte Sublicio e consisteva nel gettare dei fantocci nel Tevere. Un
uso che richiamava un’antica legge di popolazione che permetteva ai capi della comunità di uccidere,
annegandoli, i soggetti più anziani che, nei tempi arcaici caratterizzati da endemica mancanza di risorse,
costituivano un peso e una minaccia per la sopravvivenza delle famiglie. Ciò dimostra che, se c’era la
necessità di uccidere i sessantenni, i romani a quest’età ci giungevano anche anticamente. La mortalità
era in particolare infantile: le numerose epigrafi scoperte ci indicano come solo una minoranza di bam-
bini raggiungesse i dieci anni. Chi oltrepassava questa soglia, aveva buone probabilità di superare i qua-
rantacinque anni salvo morte violenta in battaglia o altro.
A Roma non era importante il semplice nucleo familiare, ma anche quell’aggregato di famiglie noto
come gens15. Essa era formata da tutti coloro che erano uniti da un legame di parentela che si faceva risa-
lire all’unico, antichissimo, discendente maschile comune. Tanto antico da essere spesso non storica-
mente identificabile. Pertanto frequentemente l’antenato era un soggetto appartenente al corredo mito-
logico dell’Urbe (la gens Iulia, a cui apparteneva Giulio Cesare, per esempio faceva iniziare la propria sto-
ria da Ascanio Iulio, fondatore della latinità e figlio di Enea). La gens si distingueva dalle altre per un par-
ticolare tipo di culto religioso o per la differenza delle modalità nell’esercizio dello stesso. Inoltre tutti i
c.d. gentiles, cioè i vari patres appartenenti all’unica gens, si consideravano essere dello stesso grado di pa-
rentela, poiché non si poteva stabilire quanto ciascun ramo familiare fosse lontano dall’unico antico ca-

15
Ulpiano, Ad edictum, in D. 50, 16, 195, 4.
5
postipite. E ciò aveva come conseguenza importante che qualora uno dei patres fosse morto senza eredi,
il suo patrimonio avrebbe dovuto essere di diritto diviso tra tutti gli altri gentili in parti uguali. Un’altra
particolarità che contraddistingueva da noi gli antichi romani era poi il c.d. tria nomina: alla nascita ogni
romano riceveva tre nomi, il primo (praenomen) era quello personale, il secondo (nomen) quello della gens,
il terzo (cognomen) quello proprio della familia di riferimento (pensiamo, solo per es., a Marco Porcio Ca-
tone o a Caio Giulio Cesare). Le donne, invece, avevano un solo nome, quello della gens declinato al
femminile (per es. la figlia e la nipote di Augusto che, adottato da Cesare, era entrato a far parte della
gens Iulia, si chiamavano entrambe Giulia). Questo, qualora convivessero nella stessa casa più figlie o ni-
poti, comportava certo confusione ed è ipotesi verosimile, anche se su questo le fonti tacciono, che al-
meno all’interno della più stretta cerchia familiare si usasse per ciascuna un praenomen che le distingues-
se.

Padri e figli
Per molti secoli a Roma l’unica differenza sostanziale tra uno schiavo e i figli fu che al momento del-
la morte del padre i primi rimanevano tali rispetto ai secondi e che questi cessavano di essere “di diritto
altrui” e acquistavano la capacità giuridica di diritto privato, assumevano cioè la potestas sui rispettivi di-
scendenti e la manus sulla propria moglie, potevano compiere atti di disposizione sul proprio patrimonio
ecc.16 La peculiarità del modello patriarcale romano e la durezza dei rapporti tra padri e figli non aveva
corrispondenti in nessun altro popolo, come ci testimonia Gaio17. In età arcaica i padri avevano sui figli
una quantità smisurata di poteri: potevano decidere della vita e della morte, punirli severamente con la
fustigazione, incarcerarli e costringerli al lavoro sul fondo, addirittura venderli o darli in pegno a garan-
zia di un debito. Ma un potere molto particolare era quello che veniva esercitato al momento della na-
scita e che, secondo alcuni interpreti, era addirittura a fondamento della patria potestas: si trattava del c.d.
ius tollendi ac exponendi18. Una volta nato, l’ostetrica poneva il bambino per terra da cui avrebbe tratto for-
za vitale; posto ai piedi del pater, se egli lo sollevava esprimeva la volontà di accoglierlo nella familia. Se-
guivano quindi delle cerimonie purificatorie della durata di otto o nove giorni al termine dei quali si im-
poneva il nomen. Se il pater non prendeva in braccio il bambino, esprimeva invece la volontà di non ac-
coglierlo e quindi uno schiavo lo portava nei campi dove veniva abbandonato19. Se il bambino non mo-
riva poteva essere recuperato da loschi individui che ne facevano ignobile commercio. I maschi prema-
turi, gracili, deformi o comunque bisognosi di cure cadevano in una condizione di schiavitù e venivano
destinati a mendicare20. Ma erano le bambine esposte ad essere più ricercate, in quanto destinate ad
un’ignobile, lucroso giro di prostituzione. La logica di una tale barbarie è rintracciabile nel controllo che

16
Cfr. Cantarella E., op.cit., pag. 159.
17
Gaio, Istitutiones, lib. I, par. 55.
18
Varrone, De vita populi romani, lib. II.
19
Seneca il Vecchio, Controversiae, 10,4,16.
20
Seneca il Vecchio, op. cit., 10,4,15.
6
si effettuava sulla consistenza del gruppo familiare, stante la pochezza di risorse disponibili, particolar-
mente in età arcaica e nei nuclei familiari più poveri. Ma anche i patres ricchi ricorrevano spesso allo ius
exponendi, in maniera che il patrimonio non si disperdesse tra troppi eredi( si immagini che le donne non
sposate partecipavano alla successione come gli uomini). In particolare era quest’uso che attirava le cri-
tiche da parte cristiana, e in particolare di un grande padre della Chiesa come il Vescovo di Milano,
Ambrogio21. La pratica dell’esposizione dei neonati iniziò a declinare a partire dall’epoca di Costantino,
ma rimase ben viva tanto che solo l’imperatore Giustiniano ordinò che tutti gli esposti fossero conside-
rati liberi, sebbene restassero in una condizione di asservimento oggettivo nei confronti di coloro che li
avevano recuperati dai campi. Era comunque un passo avanti rispetto all’essere considerati, come era
stato fino a quel momento, schiavi per natura22.
È molto probabile che con il tempo la forza del potere del pater sui figli si sia allentato e che la cele-
berrima pietas, doveroso atteggiamento di deferenza e obbedienza dei figli verso i padri, fosse un dovere
sociale e morale anche per i patres stessi al fine di valorizzare la personalità e la dignità dei propri filii ri-
spetto ai semplici schiavi. Pur potendolo fare, non li si puniva più, se non molto raramente, con la fu-
stigazione23. Ma contro questa tesi bisogna anche rilevare che, in una società che ammetteva la terribile
durezza dei maestri nelle scuole e il facile ricorso da parte loro alle pene corporali, tali metodi non fos-
sero, tanto più, condannati ed abbandonati nell’ambiente domestico24.
Bisogna notare che i patres formavano le assemblee popolari incaricate dell’elezione delle magistratu-
re. Ad esse partecipavano però anche i maschi ancora soggetti alla potestas paterna. A Roma la capacità
di diritto pubblico (l’elettorato attivo e passivo) era distinta da quella di diritto privato, che come già
detto si acquistava solo alla morte del proprio ascendente. I filii familias del patriziato e delle famiglie
plebee più in vista, una volta superata la soglia della pubertà (quattordici anni) e completati gli studi ini-
ziavano la carriera militare e politica (il celeberrimo cursus honorum). Nessuno aveva interesse ad evadere
le tasse: più ricchezze si dichiaravano, maggiore era il potere e l’influenza che si ottenevano. Roma era
una timocrazia, era cioè governata da un’oligarchia fondata sul potere economico legato alla divisione
delle familiae in classi di reddito.
La sottomissione dei discendenti al proprio pater familias poteva discendere non solo da un vincolo di
parentela naturale derivante dalla procreazione ma anche dal crearsi di un legame di parentela di diritto.
Questo grazie ad un istituto giuridico tipicamente romano, l’adozione. Tramite essa una persona estra-
nea al gruppo familiare poteva entrare a farvi parte. La procedura prevedeva due forme diverse a se-
conda che il soggetto appartenesse ad un altro pater oppure che egli stesso fosse a capo di un gruppo
familiare. Nel primo caso si parlava di adoptio, adozione in senso stretto, nel secondo di adrogatio, arroga-

21
Ambrogio, Hexameron, 5,18,58.
22
Seneca il Vecchio, op. cit., 10,4,15.
23
Cfr. Cantarella E., op.cit., pag. 162.
24
Ibid., pag. 166.
7
zione25. Quest’ultima era la forma più antica. La sottomissione di un pater alla potestas di un altro com-
portava l’estinzione del suo gruppo familiare che si fondeva con l’altro. Una conseguenza molto impor-
tante è che si estinguevano anche tutti i debiti precedentemente contratti, poiché in Roma un filius non
poteva mai intaccare il patrimonio del proprio pater. Il pregiudizio che ne poteva derivare per i creditori
poteva essere anche molto grande, non potendo essi soddisfare più le rispettive pretese. Questo il moti-
vo per cui questo tipo di adozione aveva un peculiare rilievo pubblico e produceva i suoi effetti solo
dopo che l’assemblea popolare, i comizi curiati, fossero stati convocati e avessero deliberato favore-
volmente. Fu solo a partire dagli anni dell’impero che si ammise che l’arrogazione potesse avvenire per
effetto di un rescritto, cioè una costituzione imperiale, che la concedesse26. L’adozione in senso stretto
era la cessione da parte di un pater ad un altro di un proprio figlio che così rompeva ogni legame con la
famiglia di origine ed entrava a far parte a pieno titolo della nuova. Quale fosse la volontà del filius adot-
tato non aveva rilevanza, ciò che contava era l’accordo tra i due capifamiglia. L’adottato assumeva i tre
nomi del nuovo pater a cui aggiungeva, modificato parzialmente, il nome della gens di provenienza (per
es. dopo essere stato adottato da Cesare, suo nipote Ottavio divenne Caio Giulio Cesare Ottaviano).
Inizialmente l’adozione aveva un intento solidaristico: un pater che avesse molti figli avrebbe potuto ce-
derne uno ad un capofamiglia che ne fosse privo, assicurandogli così la discendenza. Questo portò però
l’istituto dell’adozione a degenerare. Soprattutto alla fine della repubblica, era usato come base di accor-
di tra le famiglie gentilizie per rafforzarsi e pesare di più nell’agone politico. All’inizio l’adozione poteva
sia migliorare che peggiorare la condizione sociale(pensiamo a un plebeo adottato da un patrizio o vice-
versa). Era pertanto un efficace mezzo per tentare la scalata al potere. Dopo la fine della repubblica si
ammise solo l’adozione migliorativa27. Con il cambio della forma di governo divenne ad un certo punto
addirittura il mezzo per succedere al trono. L’epoca del principato adottivo (dal 96 al 180 d.C.), caratte-
rizzato dalla scelta da parte dell’imperatore della persona più adatta a governare, è ricordata come il pe-
riodo aureo della romanità.

Gli schiavi
La schiavitù era per i romani, come per tutti i popoli del mondo antico, un istituzione naturale. Gli
esseri umani non erano tutti uguali ed era comunemente ammesso che alcuni venissero sfruttati da altri.
Essere schiavo a Roma significava essere una res, un bene commerciabile, nelle mani del padrone. Si era
considerati pari a qualsiasi altro oggetto. Certo è però che le condizioni di vita ben variavano a seconda
che si servisse in una domus cittadina oppure nei campi o, ancor peggio, nelle miniere. Qui i ritmi di la-
voro erano esasperanti: la considerazione in cui dovesse essere tenuto uno schiavo ben ce lo testimonia

25
Franciosi G., op. cit., pag. 108 e ss.
26
Giunti P., “In nepotis loco adoptare”, In C. Russo Ruggeri (a cura di), Studi in onore di Antonino Metro, Milano,
Giuffrè Editore, 2010, pag. 109 e ss.
27
Ibid.
8
Catone il Censore28. È certo che la vita degli schiavi a Roma peggiorò sempre di più man mano che
aumentavano le conquiste territoriali e i conseguenti flussi di decine di migliaia di nuovi schiavi, che ne
riducevano sempre più il valore sul mercato. E sulla schiavitù si basò a un certo punto l’intera econo-
mia romana: i piccoli proprietari, tornando dalle guerre, ritrovavano i propri campi devastati. A quel
punto non avevano altra scelta che cederli ai già ricchi latifondisti e trasferirsi in città dove andavano ad
aumentare le masse dei nullatenenti, mentre i nuovi padroni acquistavano man mano sempre più schia-
vi. Iniziarono a succedersi frequentemente violente rivolte servili. Il culmine fu certamente
nell’insurrezione di Spartaco che tenne in scacco per mesi le legioni della Res Publica, mettendone a re-
pentaglio la stessa sopravvivenza.
A Roma, schiavo si era per nascita ( se il concepimento era avvenuto al difuori del matrimonio, il
bambino seguiva la stessa condizione giuridica della madre e se ella era schiava era schiavo anch’egli)
oppure perché si era caduti prigionieri in guerra. Un cittadino romano non poteva essere venduto in pa-
tria. In età arcaica diventava schiavo se venduto trans Tiberim, aldilà del Tevere, cioè in terra etrusca 29.
Anche se gli schiavi erano considerati degli oggetti, ciò non vuol dire che come delle cose non gli fosse
riconosciuta la capacità di intendere e di volere. Anzi, come avvenne dopo la conquista della Grecia,
molti dei nuovi schiavi erano tanto colti da essere chiamati ad esercitare spesso l’attività di precettori
privati presso i loro rozzi padroni30. Questi poi non raramente si servivano di loro affidandogli una
quantità di denaro o altri beni (il c.d. peculium) con i quali esercitare un’attività, molto spesso di tipo
commerciale. Tutto l’arricchimento che lo schiavo produceva veniva intestato in capo al padrone che
così allargava il proprio giro di affari e il patrimonio. Per lungo tempo il padrone non rispose invece de-
gli eventuali rovesci economici e dell’indebitamento prodotto dallo schiavo. Ciò alla lunga iniziò a crea-
re grossi problemi: chi voleva più intrattenere rapporti con uno schiavo se sapeva di non poter recupe-
rare eventualmente i propri crediti? Si mise allora il padrone nella condizione di dover pagare i debiti nei
limiti del peculio affidato oppure, se aveva tratto giovamento dall’affare intrapreso dallo schiavo, anche
nei limiti dell’arricchimento. Se invece il padrone aveva posto lo schiavo a capo di un’impresa commer-
ciale terrestre o marittima avrebbe potuto rispondere di tutti i debiti contratti31.
La condizione di schiavitù, pur essendo perenne in quanto durava tutta la vita, poteva cessare per un
atto di volontà del padrone chiamato manumissio. Erano previste varie forme, da quella per testamento a
quella tramite iscrizione nella lista delle persone libere da parte dei censori su richiesta del padrone op-
pure ancora attraverso un particolare rito processuale che si svolgeva di fronte al magistrato pretore.
Verso la fine della repubblica si affermarono poi tipi di manomissione meno formali: il padrone poteva

28
M.P. Catone, De agricoltura: “Il padrone deve abbandonare un arnese rotto, uno schiavo vecchio e uno schiavo mala-
to”.
29
Cantarella E., op. cit., pag. 174.
30
Cfr. Orazio, Epistulae, II,1,156: “Graecia capta ferum victorem cepit”(la Grecia conquistata, conquistò il selvaggio
vincitore).
31
Cantarella E., op.cit., pag. 178 e ss.
9
dare la libertà allo schiavo inviandogli una lettera (per epistulam) oppure dichiarando a un gruppo di amici
di volerlo liberare (inter amicos) o ancora ammettendolo alla propria tavola (per mensam). Lo schiavo così
liberato diveniva cittadino romano ma manteneva uno stretto legame con l’antico padrone di cui per ri-
conoscenza prendeva il nome e verso il quale doveva rispettare degli obblighi di tipo economico e una
serie di doveri sociali.

Le donne
Tutti i membri della familia erano sottoposti alla potestas del pater. I figli maschi assumevano piena ca-
pacità d’agire solo alla sua morte. Le figlie non sposate l’ottenevano ma solo limitatamente, essendo sot-
toposte comunque al controllo dei propri atti da parte di un tutore. Le donne che si sposavano invece si
sottomettevano al potere del capo della sua nuova famiglia che poteva essere il marito o il suo ascen-
dente maschile ancora in vita32, nel caso in cui al matrimonio si fosse accompagnata la costituzione di
manus. In questo caso la donna rompeva ogni legame con la familia d’origine. Come notava il giurista
Papiniano, la condizione delle donne era per molti versi peggiore di quella degli uomini 33. A Roma esse
erano però certamente tenute in migliore considerazione rispetto a quanto accadeva nello stesso tempo
presso altri popoli. La donna romana non era certo reclusa in casa ma anzi partecipava alla vita sociale e
prendeva parte ai banchetti. Il fatto che la donna dovesse essere per tutta la vita sottoposta alla tutela
era giustificata dalla convinzione che essa fosse caratterizzata dalla levitas animi, una certa leggerezza
d’animo. Un argomento che Gaio non esita a definire tuttalpiù pretestuoso, non vero34. La tutela era un
istituto prestigioso per la sua antichità, ma il giurista si chiese se ormai ne fosse ancora comprensibile il
mantenimento. La tutela delle donne venne abrogata da una costituzione imperiale solo nel 410 d.C.
Già Augusto però, con la legislazione già citata, aveva provveduto ad esonerare dalla tutela le donne che
avessero avuto tre figli (quattro nel caso fossero liberte). Questo per dare un freno al preoccupante calo
demografico e sostenere le politiche di espansione territoriale. Più tardi, l’imperatore Claudio ordinò
l’esenzione dalla tutela legittima per le donne che fossero nate libere (le c.d. ingenuae)35 .
Le donne non potevano assumere la tutela ne avevano capacità di diritto pubblico (non potevano
cioè votare e partecipare alle assemblee popolari ne essere elette alle magistrature cittadine)36. Se non
sposate, oppure sposate senza costituzione di manus, alla morte del pater ereditavano però alla pari dei
fratelli. Prendere in moglie una ricca ereditiera poteva essere un modo per scalare più facilmente le vette
della politica. Le donne romane appartenenti all’alta società amavano esibire in pubblico vesti raffinate e
preziosi gioielli, soprattutto dopo l’inizio delle prime grandi conquiste territoriali. Roma si trovò in gra-

32
Giunti P., “Il ruolo della donna romana di età imperiale: tra discriminazione e riconoscimento”, in Index, Quaderni
Camerti di studi romanistici, Napoli, Jovene Editore, 2012, pag. 342 e ss.
33
Papiniano, Quaestiones, in D. 1,5,9.
34
Gaio, Istitutiones, I,144.
35
Cfr. Cantarella E., op.cit., pag. 176.
36
Ulpiano, Ad Sabinum, in D. 50,17,2 e Nerazio, Regulae, in D. 26,1,18.
10
ve pericolo durante la guerra contro Annibale e vennero perciò emanate le c.d. leges sontuarie con
l’intento di imporre ai cittadini comportamenti il più possibile sobri e austeri. Per la prima volta le don-
ne scesero in piazza a protestare suscitando le ire del severissimo Catone. Secondo lui esse pretendeva-
no troppo e la loro reazione non faceva che confermare i suoi timori. La tesi che prevalse fu quella che
sosteneva l’abrogazione della lex Oppia, che appunto vietava alle donne di esibire gioielli, affinché, se es-
se non potevano partecipare alla politica, si consentisse loro almeno il diritto all’ornatus e ad essere così
gratificate in altro modo. Tutto ciò era strumentalmente voluto affinché il potere maschile non venisse
insidiato. Nel 169 a.C. venne emanata la lex Voconia che impediva alle donne di ereditare beni per un
valore superiore a centomila assi37. Era la rivincita di Catone, ormai vecchio ma combattivo e misogino
come sempre. Egli vedeva con terrore la possibilità che le donne assumessero troppo potere ed eccessi-
va influenza in un tempo di così forte crescita economica.
Le donne potevano gestire il proprio patrimonio tramite dei prestanome, molto spesso dei liberti.
L’unico mestiere che fosse loro precluso era quello dell’argentarius, del banchiere38. Lavoro considerato
prettamente maschile: per i romani solo un uomo era in grado di prestare le necessarie garanzie ai terzi
per quanto riguardava il deposito e il prestito di denaro . Inoltre le donne non potevano esercitare
l’avvocatura39. In giudizio potevano prendere la parola solo per difendere se stesse e non posizioni al-
trui. Le fonti a questo proposito ci tramandano la storia di Ortensia. Durante la guerra contro Antonio
(42 a.C.), Ottaviano aveva bisogno di nuovi finanziamenti per ricostruire l’esercito. I cittadini romani
non pagavano tasse ma potevano essere chiamati a contribuire alla spesa pubblica in casi di eccezionale
gravità, in base al loro reddito. Ottaviano impose a millequattrocento donne ricche di pagare una forte
somma. Ortesia, con una orazione rimasta famosa, si rivolse contro questa decisione motivando il suo
rifiuto di pagare con il pretesto che il suo denaro sarebbe servito a pagare delle campagne militari decise
da istituzioni politiche a cui le donne non potevano partecipare40. È la prima affermazione del principio
“niente tasse senza rappresentanza” che circa diciotto secoli dopo avrebbe motivato la Rivoluzione
americana. L’argomentazione convinse solo in parte Ottaviano che alzò la soglia di reddito tassando co-
sì solo quattrocento donne.
A Roma le donne avevano un forte ruolo educativo e domestico nelle familiae romane41. Erano loro a
trasmettere ai figli i valori del mos maiorum (il costume degli antenati). Un paradosso, poiché si facevano
garanti del passaggio di generazione in generazione di una disciplina etico-sociale che le discriminava.
La crescita morale e culturale di ogni romano era affidato fino ai sette anni alla madre. Lo storico Taci-
to, che scrive all’ incirca negli anni del principato di Traiano (98-117 d.C.), sosteneva che il declino della

37
Gaio, istitutiones, II,274.
38
D. 2,13,12.
39
Ulpiano, Ad edictum, in D. 3,1,1,5.
40
Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri, IX, 8,3,3.
41
Tacito, Dialogus de oratoribus, 28,4.
11
società romana che caratterizzava il suo periodo fosse da imputare in parte proprio alle donne che, da
un certo punto in poi, avevano rinunciato al loro ruolo all’interno della famiglia. Parole, connotate da
un forte pessimismo, che non ci danno un quadro completo della realtà. Basti pensare a quello che ci
dice poco più di due secoli dopo il grande vescovo e Padre della Chiesa Agostino d’Ippona della madre
Monica, la cui influenza si fece molto sentire nella formazione umana e nel travagliato e lungo percorso
spirituale intrapreso dal Santo42. La donna cristiana continuava ancora a trasmettere gli antichi valori
seppur rivisti alla luce della condotta morale evangelica.

Matrimonio e divorzio
Al contrario della nostra concezione del matrimonio che si perfeziona solo con la solenne celebra-
zione del rito civile o concordatario, sposarsi a Roma non prevedeva niente di tutto questo. Solo tra cit-
tadini romani si costituiva effettivamente un regime matrimoniale (il c.d. conubium); tra schiavi vi era so-
lo un contubernium, un’unione decisa dal dominus43. Il matrimonio era res facti (una situazione di fatto): ne-
cessitava semplicemente della convivenza e della coabitazione. Perché un uomo e una donna venissero
considerati marito e moglie bastava che vivessero insieme nella stessa casa senza interruzione e che vi-
gesse tra di essi la c.d. maritalis affectio che non indicava l’affetto coniugale ma l’intenzione di condividere
una vita insieme. I romani non riconoscevano al matrimonio la possibilità che potesse essere vissuto
con amore e affettuosi sentimenti (o comunque non ne vedevano la necessità)44. In fondo non contava
tanto neppure il consenso al matrimonio dei futuri coniugi, bastava quello dei rispettivi patres. I figli non
dovevano fare altro che accettare supinamente la volontà altrui. Le famiglie romane erano di tipo eso-
gamico, era cioè tassativamente vietato il matrimonio tra due soggetti appartenenti alla stessa gens45.
Questo, oltre a garantire meglio una discendenza sana, favoriva certo le alleanze tra i clan più potenti
per consolidare la propria posizione politica. Più tardi il divieto permane solo per la familia (tra genitori
e figli, avi e nipoti, tra fratelli e sorelle) ma viene consentito il matrimonio tra cugini o tra zii e nipoti.
I romani conoscevano particolari riti nuziali, che di per sé non producevano però alcun effetto giuri-
dico. In età arcaica era diffusa tra i patrizi la c.d. confarreatio. In questo rito religioso, con cui la donna di
alto rango si sottometteva alla c.d. manus, di fronte al pontefice massimo, al sacerdote di Giove e dieci
testimoni i due sposi dividevano tra loro e consumavano una focaccia di farro simbolo di unione coniu-
gale, stringevano la mano destra e pronunciavano la tipica frase: “Ubi tu Gaius ego Gaia”( con cui si vole-
va dire, a simbolo della futura vita in comune, che dove sarebbe stato lui si sarebbe trovata lei)46. A un
certo punto però la confarreatio cadde in disuso e si sperimentarono nuovi tipi di riti nunziali che però

42
Agostino, Confessiones, 9,22.
43
Cantarella E., op. cit., pag. 196.
44
Secondo Seneca filosofo era considerato disdicevole amare la propria moglie come un’amante. L’affetto doveva sem-
pre essere ragionevole senza mai sfociare nella passione.
45
Franciosi G., op. cit., pag. 178 e ss.
46
Cantarella E., op. cit., pag. 191.
12
non davano alcun valore giuridico al matrimonio, non trasferivano propriamente la donna all’interno
della familia del marito. Le cerimonie servivano solo a rendere pubblico e solennizzare la nascita del
nuovo nucleo familiare47. Gli effetti legati alla manus si producevano tramite la c.d. coemptio che, come ci
dice Gaio, almeno nell’età più antica era una vera e propria compera della moglie. Più tardi divenne una
compera fittizia con cui non si acquistava la donna ma semplicemente la manus su di lei. Questo rito
coesistette a lungo con la confarreatio essendo quest’ultima preclusa ai plebei. Con il c.d. usus invece ba-
stava un anno di convivenza affinché il marito (o il suocero) potesse assumere sulla donna gli effetti le-
gati alla manus. Ciò poteva non accadere se la convivenza veniva interrotta per tre notti consecutive (il
c.d. trinoctium o usurpatio trinoctis) in cui la moglie si allontanava dalla casa coniugale48. Il trasferimento
nella nuova famiglia veniva così molto spesso eluso e la donna rimaneva sotto la potestas del proprio pa-
dre. La decisione di allontanarsi non era naturalmente presa liberamente dalla donna ma per volontà del
pater. Questo perché lo spostamento della donna da un gruppo familiare ad un altro poteva avere molte
e non indifferenti conseguenze.
Infatti con la manus ( che corrispondeva per la moglie alla potestas sui figli e al dominium sugli schiavi)
il capofamiglia assumeva numerosi poteri sulla donna. Ella tagliava i vincoli che la legavano alla propria
famiglia: Se il marito era indipendente (aveva cioè la potestas sui membri della propria famiglia), la mo-
glie era considerata sua figlia e sorella dei propri figli. In questo caso, se l’uomo moriva prematuramente
ella ereditava al pari dei propri figli. Se viveva ancora l’ascendente la donna gli era sottoposta come fi-
glia e come fosse quindi sorella del proprio marito. Questi (o il suo avo) aveva per tradizione antichis-
sima il diritto di ucciderla ma solo nei casi stabiliti dalla legge che veniva fatta risalire a Romolo. Ciò ac-
cadeva solo per adulterio, se avesse avvelenato i propri figli (cioè avesse abortito all’insaputa del mari-
to) oppure “avesse sottratto le chiavi della cantina”. A Roma le donne non potevano infatti bere vino.
La libertà di costumi della donna l’avrebbe portata al vizio e ciò avrebbe messo in pericolo l’unità fami-
liare, l’auctoritas del pater o il suo diritto ad avere una discendenza49. Tuttavia i casi erano previsti specifi-
catamente proprio perché si desse garanzia alla famiglia d’origine che la manus venisse esercitata senza
eccessi e non certo per riconoscere un diritto alla donna.
Il matrimonio in Roma non è mai stato considerato un vincolo indissolubile. Oltre che naturalmente
per la morte di uno dei coniugi, bastava che si perdesse la capacità matrimoniale, come nel caso il mari-
to fosse caduto prigioniero del nemico, perché il matrimonio si sciogliesse. Oppure che non sussistesse
più, come già detto, la volontà dei coniugi o, se questi erano ancora sottomessi alla potestas, dei patres fa-
milias. Era questa la situazione tipica del divorzio. In realtà nei primi secoli ciò che contava era solo la
volontà del marito o di colui a quale egli era sottoposto. Perciò si trattava di ripudio, permesso dalle

47
Ibid., pag. 195.
48
Cantarella E., op. cit., pag. 194.
49
Franciosi G., op. cit., pag. 87.
13
leggi attribuite a Romolo solo per le stesse cause per cui la moglie poteva essere uccisa (v. sopra). Il di-
vorzio avveniva usualmente mediante la pronuncia di frasi determinate tra le quali, la più famosa è: “tuas
res tibi habeto” (prenditi le tue cose). Talvolta il marito inviava alla moglie un avviso scritto (il c.d. libellus
repudii). Tuttavia si trattava di formalità solo per la prassi e, specialmente a partire dagli ultimi secoli del-
la repubblica, la libertà di divorzio divenne totale sia per gli uomini che per le donne sebbene queste in-
contrassero maggiori difficoltà. Nella Roma tardo repubblicana le separazioni erano molto frequenti e
sono tante le testimonianze di soggetti che si sposarono più volte, in particolare nelle classi più abbienti.

L’aborto, l’adulterio e le leggi di Augusto


Come ci tramandano le fonti nel pensiero romano le donne dovevano caratterizzarsi per l’amore ca-
sto e il servizievole adempimento dei doveri verso il marito e i figli e per il devoto occuparsi della casa
che prevedeva compiti particolari come, almeno nei tempi più antichi, la filatura della lana 50. Ma
l’espansione territoriale e la conseguente forte crescita economica della res publica furono gravide di con-
seguenze e arrivarono a modificare gli stili di vita, quantomeno per le donne delle classi più agiate. Tan-
to che molti storici ritengono che intorno al I secolo a.C. si fosse realizzata una vera e propria emanci-
pazione femminile: le donne non ottennero mai l’uguaglianza sostanziale tra i sessi ma certo erano mol-
to più libere nelle proprie scelte. Questo fece andare in crisi il modello familiare romano che andò in-
contro a profondi mutamenti. Ovidio, Giovenale, Seneca e Plutarco accusavano le donne di essere dis-
solute, di ricorrere frequentemente all’aborto per leggerezza e vanità51. I romani non condannavano pe-
rò l’aborto in quanto tale ma solo per il fatto che le donne mettevano i loro mariti di fronte al fatto
compiuto defraudandoli dal loro sacrosanto diritto alla discendenza. Solo con il Cristianesimo si affer-
mò la condanna dell’aborto come soppressione della vita umana52. Invece per i romani il feto era solo
spes animantis, un’aspettativa di vita futura. Oltre a essere causa del ripudio da parte del marito, il tentati-
vo di abortire assunse sempre più una forte valenza pubblica, stante la crisi demografica che attanaglia-
va ormai l’impero. A partire dall’età di Marco Aurelio il marito poteva chiedere che la moglie incinta
fosse sottoposta al controllo di un curator ventris, un custode che le impedisse di abortire. Ma un'altra li-
bertà di cui le donne romane approfittarono fu quella di tradire i propri mariti spesso lontani per affari,
per il governo delle province o a combattere ai confini. La moglie romana infatti rimaneva a casa per-
ché garantiva al marito il mantenimento delle relazioni sociali e politiche e la preservazione del patri-
monio. L’adulterio per secoli era stato punito privatamente53 o aveva dato adito al divorzio. Alla fine
della res publica però il fenomeno era divenuto così grave e minaccioso per la stabilità della famiglia da

51
Cil. 1,2,1211 (iscrizione funeraria nota come l’Elogio di Claudia).
51
Cantarella E., op. cit., pag. 202-203.
52
Paolo di Tarso, I lettera ai Corinzi 7, 3-5 e lettera ai Galati 3,28.
53
Giunti P., “Il dolore e l’offesa. La violenza di fronte al tradimento amoroso nell’esperienza della famiglia romana”, in
Aa. Vv., Separazioni violente. L’emergere della violenza nella rottura del legame amoroso, Archivi di psicologia giuri-
dica -2, Pisa, ETS Edizioni, 2015, pag. 129 e ss.
14
indurre il princeps a prendere gravi provvedimenti. Augusto era convinto che bisognasse restaurare il mos
maiorum, l’antico e virtuoso costume degli antenati che aveva fatto grande Roma. Anzi se ne faceva aral-
do e garante con la serie di leggi di cui si è già parlato54. Esse incentivavano la creazione e la stabilità dei
nuclei familiari e la procreazione: i celibi non potevano ricevere eredità e i c.d. orbi, gli sposati senza fi-
gli, potevano ottenere solo la metà di quanto gli fosse stato destinato per testamento. Come già si è det-
to si permetteva poi alle donne che avessero avuto tre figli( quattro se liberte) di andare esenti dalla tu-
tela. Ma i provvedimenti più duri vennero presi proprio contro l’adulterio. Si regolamentarono innanzi-
tutto le condizioni di esercizio della vendetta privata contro gli adulteri sorpresi in flagrante. Seconda-
riamente da faccenda privata l’adulterio diveniva un crimine pubblico punito con la reclusione su
un’isola da parte di un tribunale appositamente creato (la c.d. quaestio de adulteriis). La denuncia degli
amanti spettava entro i sessanta giorni dalla scoperta al padre della ragazza o al marito. Se questi non lo
faceva poteva essere accusato di sfruttamento della prostituzione. Entro ulteriori quattro mesi poi qual-
siasi cittadino avrebbe potuto prendere l’iniziativa della denuncia. La delazione diveniva così una poten-
te arma nelle mani dei nemici di famiglia come mezzo per una facile anche se pericolosa vendetta priva-
ta. Un secolo dopo la legge, Tacito accusava Augusto di aver permesso agli organi pubblici di intromet-
tersi in questioni familiari sconvolgendone la vita55. E fu lo stesso imperatore a pagare in prima persona
le conseguenze delle proprie decisioni: la figlia Giulia, nata dalla seconda moglie Scribonia il giorno
stesso del divorzio, nota per la sua condotta scandalosa, nel 2 d.C. venne accusata di alto tradimento
per aver preso parte a una congiura contro il padre. Augusto, che per la sua austera concezione di vita
non avrebbe a quel punto potuto più farne a meno, la denunciò pubblicamente come adultera, la fece
ripudiare dal marito Tiberio, futuro imperatore e la relegò nell’isola di Ventotene. Il princeps che agli
amici aveva sempre affermato di avere due figlie predilette di cui occuparsi, la res publica e Giulia, si
chiuse in un profondo dolore ma non la perdonò mai, tanto che quando il popolo romano gli chiese
con insistenza la grazia egli rispose augurando a tutti di avere tali figlie e tali spose. Inoltre vietò che le
sue ceneri fossero inumate nel mausoleo di famiglia56.

Conclusioni
Con questo studio abbiamo approfondito la conoscenza di un modello familiare che per molti versi
era distante dal nostro. Il confronto con il passato è utile, oltre che per approfondire il proprio bagaglio
culturale, per rendere più consapevoli le proprie scelte nel presente. Al passato non bisogna chiedere
dove andiamo ma da dove proveniamo, come altri al posto nostro si sono comportati in situazioni mol-
to simili, quale eredità ci hanno lasciato. Tante situazioni descritte sembra quasi siano state tratte dalle

54
Vedi nota sub n°9.
55
Tacito, Annales, III,25,2. Lo storico scrive che Ottaviano Augusto aveva introdotto le spie nelle famiglie: “ogni casa
era sconvolta dagli intrighi dei delatori. Prima erano i delitti a provocare dei mali, adesso le leggi”.
56
Svetonio, Augustus, 65.
15
pagine dei giornali. A volte ci si potrebbe chiedere se i romani non fossero andati a un certo punto oltre
quello che la loro epoca gli consentisse. Il loro stile di vita, i profondi e complessi intrecci della vita so-
ciale, le grandi conquiste sul piano culturale, politico e giuridico li hanno avvicinati a noi notevolmente.
Lo stesso modello familiare iniziò a un certo punto ad evolversi fino ad assomigliare molto di più al no-
stro. Questo per il cambiamento dovuto alla trasformazione della forma di Stato: Paul Veyne sosteneva
che il passaggio dalla repubblica alla monarchia avesse trasformato i rigorosissimi capifamiglia, sempre
in aspra concorrenza tra loro per il potere, in umili servitori dell’impero messi tutti sullo stesso piano
dall’obbedienza al sovrano che umiliava la loro tradizionale auctoritas57. Un ruolo importantissimo ebbe
da un certo punto in poi la diffusione del cristianesimo. Basti qui ricordare la concezione evangelica co-
sì ben espressa dalle parole di Paolo di Tarso secondo cui non esisteva differenza tra “giudeo e greco,
tra schiavo e libero, tra uomo e donna”58 e che, ancora, l’aborto fosse da condannare in quanto sop-
pressione di una vita umana.
Il diritto e il modello patriarcale romano hanno influenzato molti istituti giuridici degli ordinamenti
occidentali fino ai giorni nostri. La schiavitù è tornata a essere ampiamente praticata nelle colonie ame-
ricane a partire dal XVI secolo ed è stata abolita solo nel corso del XIX. Negli Stati Uniti è stata causa
di una spaventosa guerra civile che ne ha determinato l’abrogazione - di cui quest’anno ricorre il cento-
cinquantesimo anniversario - tra derive xenofobe, grandi masse di migranti in fuga da guerre e dittature,
sfruttamento sul posto di lavoro si sente parlare spesso del ritorno per molti a una vera e propria schia-
vitù di fatto.
In alcuni casi, la tradizione giuridico-romana, che nasceva dal riconoscimento dei modelli culturali
del tempo, ha costituito di fatto un fardello non indifferente per la modernità: solo per restringere il
campo al diritto e alla storia italiani, basti pensare che le donne hanno potuto votare per la prima volta
solo al referendum del 2 giugno 1946 (all’Assemblea Costituente, su un totale di cinquecento cinquanta-
sei eletti, le donne erano solo dieci). In Svizzera, nazione caratterizzata da una società unanimemente
considerata molto evoluta, l’elettorato attivo e passivo è stato riconosciuto alle donne a partire appena
da un referendum svoltosi nel 1975. Solo nel 1968 la Consulta ha dichiarato incostituzionale le norme
del codice penale che puniva la moglie adultera su denuncia del marito ma non l’eventuale relazione ex-
traconiugale di quest’ultimo, in quanto contrastante con il principio supremo dell'«eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi»59. Oppure che nonostante l’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto e la
generale riforma del diritto di famiglia del 1975, le norme che punivano il c.d. delitto d’onore vennero
abrogate solo nel 1981. Con esse si era fino ad allora previsto che qualora il padre o il marito avessero
scoperto l’eventuale relazione illegittima della figlia o della moglie e nell’impeto d’ira determinato dalla

57
Cantarella E., op. cit., pag. 209-210.
58
Paolo di Tarso, I lettera ai Galati, 3,28.
59
Art. 29 Cost.
16
lesione dell’onore proprio e della famiglia le avessero uccise, potevano essere condannati da appena tre
a soli sette anni di reclusione. Il massimo della pena corrispondeva quindi a un terzo del minimo previ-
sto in generale per l’omicidio (per l’art. 575 c.p. chi cagiona la morte di un uomo è soggetto a una pena
di almeno anni ventuno di reclusione!).Solo con una legge del gennaio 2014 è stato poi rimossa
dall’ordinamento qualsiasi distinzione tra i figli fino ad allora operata (prima si distingueva con frequenti
richiami all’interno del codice civile tra naturali, legittimi, legittimati, adottivi), dettando una disciplina
comune a tutti.
D’altra parte, a partire dall’approvazione delle leggi che consentono il divorzio (e con la recentissima
riforma che abbrevia notevolmente i tempi della separazione) e l’aborto, la famiglia italiana è tornata ad
avvicinarsi a un modello già conosciuto dai romani e affermatosi a partire dal I secolo d.C. Sempre più
alto è il numero dei divorziati risposati e dei nuclei familiari allargati, o dei single con figli. Una cono-
scenza approfondita del diritto romano ci consente allora di accedere all’affascinante universo termino-
logico e concettuale di cui sono intrise le nostre radici culturali, come anche di apprezzare lo scarto di
qualità costituito dall’assunzione di alcuni istituti romani - quali il matrimonio e la comunione dei beni -
da parte della cultura cristiana. Auspichiamo pertanto che questa fatica culturale possa aiutare a meglio
comprendere i fenomeni di secolarizzazione che hanno riguardato e continuano a riguardare i nostri
tempi, consentendoci di fare scelte consapevoli e responsabili.

Riferimenti bibliografici
- Cantarella E., “Persone, famiglia e parentela”, in Schiavone A. (a cura di), Diritto Privato Romano,
Torino, Einaudi, 2010.
- Franciosi G., La famiglia romana, Torino, Giappichelli, 2010.
- Giunti P., “Il dolore e l’offesa. La violenza di fronte al tradimento amoroso nell’esperienza della
famiglia romana”, in Aa. Vv., Separazioni violente. L’ emergere della violenza nella rottura del legame amoroso, Ar-
chivi di psicologia giuridica-2, Pisa, ETS Edizioni, 2015, pag. 129 e ss.
- Giunti P., “In nepotis loco adoptare”, In C. Russo Ruggeri (a cura di), Studi in onore di Antonino
Metro, Milano, Giuffrè Editore, 2010, pag. 109 e ss.
- Giunti P., “Il ruolo della donna romana di età imperiale: tra discriminazione e riconoscimento”,
in Index, Quaderni Camerti di studi romanistici, Napoli, Jovene Editore, 2012, pag. 342 e ss.
- Santalucia B. (a cura di), Antologia delle Istituzioni di Gaio, Bologna, Pàtron Editore, 2005.
- Schiavone A., “Diritto e giuristi nella storia di Roma”, in Schiavone A. (a cura di), Diritto Privato
Romano, Torino, Einaudi, 2010.
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