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Lezione di pedagogia fondamentale 1

PEDAGOGIA GENERALE (Università della Calabria)

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libro Lezione di pedagogia fondamentale 1

Antonio Bellingreri

1ª Unità Il fenomeno “educazione”


Una ricognizione empirica e
problematica
Lezione 1: L’educazione: una mappa storica e geografica
Livia Romano
L’educazione è un fenomeno universale che può essere compreso nelle coordinate spazio-tempo da cui si
concretizza: ogni società ha prodotto una cultura, un sistema di valore, comportamenti, norme, simboli, che per
essere trasmessi, conservati e/o rinnovati, hanno reso necessaria l’educazione, assicurando la continuità tra le
generazioni e introducendo i più giovani alla cultura di appartenenza messa a loro disposizione, fatta propria,
utilizzata, elaborata, e in alcuni casi trasformata.
1.1 L’educazione nella prateria: le civiltà orali
L’educazione intesa come cura e allevamento dei bambini in quanto nuovi membri di una comunità è presente
fin dalla preistoria presso le civiltà orarli intorno al 20.000-5000 a.C.; era un’educazione naturale e spontanea
basata sul linguaggio e sull’imitazione e prevedeva la partecipazione di tutti alla vita del gruppo sociale.
Queste prime forme di educazione orale avevano carattere comunitario esprimevano una visione particolare
del mondo, in uno stesso modo di vivere, di pensare, di educare.
L’educazione consisteva in un processo di socializzazione basato sulla conformazione perché mirava di integrare
gli individui nelle norme, nei valori della comunità del villaggio, valorizzando la coesione e la solidarietà. La
comunità del villaggio era come un’unica famiglia dove ognuno: la madre, la parentela, la società dei pari
rappresentava una risorsa educativa per il bambino il quale aveva degli obblighi nei loro confronti fino al
momento in cui l’iniziazione lo avrebbe portato all’ingresso del mondo adulto.
La parola è il momento centrale dell’educazione, il l’iniziazione invece, significava iniziarlo a imparare a
mezzo privilegiato per trasmettere il patrimonio padroneggiare a dominare la parola diventando
culturale del villaggio e contribuiva alla costruzione padrone di sé stesso.
dell’unità nel gruppo; non a caso la civiltà africana è
nota come la civiltà della parola: il linguaggio
introduceva al bambino alla conoscenza delle
parentele, della società dei pari, trasmetteva le regole
di condotta, di pensiero e di valore
L’educazione non si fermava sono l’età adulta, ma grazie al sapere, ognuno continuava ad apprendere ad
aumentare la propria influenza e il proprio ruolo nella comunità fino alla morte.
Essa era
• informale che si realizzava attraverso l’arte, la parola, l’osservazione, l’imitazione, l’esperienza diretta, il
gioco, la danza;
• affidata ad una struttura sociale gerarchizzata basata sul dominio degli uomini sulle donne, dei
primogeniti secondogeniti, degli anziani sui giovani: era l’oralità che favoriva l’accumulamento della
conoscenza e col progredire dell’età diventava anche una forma di potere, soprattutto per gli anziani
che la detenevano.

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1.2 le prime civiltà della scrittura e la nascita dell’educazione formale


Popolo Mezzaluna Fertile
Dal 5000 al 3000 a.C. accanto alle culture orali, nelle civiltà fluviali della Mezzaluna Fertile antica regione del
Medio Oriente che includeva la Mesopotamia, l’Anatolia, la Palestina, la Siria e l’antico Egitto (Sumeri,
Babilonesi, Assiri, Egizi, Ebrei), si difuse la scrittura.
All’interno di queste rigide stratificazioni sociali nasceva un’educazione formale affidata sacerdoti e scribi,
destinata soltanto a ceti elevati e insegnata nei templi e nelle scuole; mentre per i ceti più umili, era sufficiente
un’educazione informale affidata alla famiglia. Gli scribi avevano un’educazione basata sul modello autoritario,
adoperando castighi e punizioni corporali affinché gli educandi accettassero la disciplina dei contenuti trasmessi
e nei comportamenti richiesti.
Gli ebrei dediti alla pastorizia tra il 2000 e il 1000 a. C., si erano stabiliti nella terra di Canaan in Palestina
creando lo stato di Israele; la loro educazione si intrecciava con l'insegnamento della Torah che abbracciava
tutti gli aspetti della vita; l'oralità e la scrittura erano al servizio dell'insegnamento religioso ed era affidato:
alla famiglia dov'è il padre era il responsabile principale, accanto alla madre, dell'educazione dei figli
alla società profeti, sacerdoti, scribi, difondevano la Torah
alle scuole l’istruzione pubblica
Le culture asiatiche
in particolare India, Cina, Giappone, l'educazione era legata alla visione filosofica e religiosa:
l'educazione indiana fino al 2000 a. C. fu influenzata dell'induismo e affidata alla trasmissione orale e al
rapporto intimo del maestro con il discepolo; i modi e tempi dell'educazione variavano in base alla casta di
appartenenza; il momento centrale del processo educativo era l’iniziazione, considerata una seconda nascita è
riservata solamente alle caste superiori; l'educazione informale Veniva insegnata attraverso l’ambiente alla
professione dell’individuo.
L’educazione cinese e giapponese si basava su una religione, il Buddismo, che, attraverso un itinerario di
purificazione, coincideva un cammino di autoeducazione che il discepolo percorreva sotto la guida di un
maestro; veniva dato maggiore peso ad un’educazione formale e alla scrittura come mezzo di trasmissione
culturale e come veicolo di civiltà destinata, nel periodo imperiale, alla formazione dell’élite, dei funzionari del
potere politico e delle caste dei nobili; in particolare l’educazione cinese fu fortemente influenzata dal pensiero
di Confucio (VI-V sec. a.C.) il quale sosteneva la necessità di uno stato educatore al servizio del popolo, non solo
dei privilegiati e insistette sull’importanza della formazione morale di ogni individuo.
1.3 L’educazione nel mondo antico: i Greci e i Romani
I GRECI
La parola pedagogia originariamente viene dall’unione di due vocaboli greci:
• pais (fanciullo, figlio, piccino, servo, schiavo, etc.)
• ago (guido, conduco, spingo, mando avanti, accompagno, attraggo, etc.)
letteralmente significa la guida del fanciullo: anticamente, il paedagogus, era lo schiavo greco incaricato di
accompagnare i fanciulli a scuola e preposto all’educazione dei giovani aristocratici.

Durante il periodo arcaico (1900 - 800 a.C.), l’educazione greca era affidata all’oralità come veicolo di
comandamenti morali, prescrizioni, pratiche professionali, ispirata ai valori dell’aristocrazia guerriera
dominante, la virtù e l’onore. Era un ideale educativo aristocratico testimoniato dai poemi omerici i quali

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riuscirono a unificare il popolo greco in una coscienza comune e a chiamarsi Elleni, discendenti del comune 3
antenato Elleno figlio di Deucalione.
Dal VII secolo, con l’afermarsi della polis (città-stato), l’educazione fu collegata alle questioni di ordine politico e
sociale anche se, tra le poleis ci furono profonde diferenze e conflitti e si difusero, in particolare due diversi
modelli educativi:
Sparta che protendeva verso un’educazione di stato Atene protendeva verso la formazione del cittadino,
e guerriera, basata sull’addestramento militare dei con esclusione delle donne, la cui educazione era
giovani maschi e femmine, ispirate valori omerici; solo familiare. La preparazione del cittadino avveniva
incentrata sulla forza fisica e poco interessata alla nei luoghi pubblici: la scuola e la palestra dove veniva
conoscenza della scrittura, anche se è sbagliato dire insegnata la lettura, la scrittura, il calcolo, la musica e
che era un popolo analfabeta. la ginnastica, coerente all’ideale della kalokagathia -
È un modello che però non si difuse nel resto della la fusione di bello e buono - il quale L’uomo perfetto
Grecia perché fu eclissata da altre poleis doveva armonizzare la sfera estetica con quella etica.
Tra il V e il IV secolo nacque il concetto di paideia
formazione integrale dell’uomo e del cittadino
destinato a durare e rielaborare nel corso dei secoli
in
• Humanitas latina
• perfecto cristiana
• dignitas hominis umanistico-rinascimentale
• bildung nella cultura tedesca tra il Settecento e
l’Ottocento.
I grandi pensatori come Socrate, Platone I sofisti
Aristotele, costruirono un modello di educazione
elleniche che produsse l’enkyklios paideia (il ciclo di
formazione) che riguardava l’educazione e
l’istruzione completa della persona. Grazie ad
Alessandro Magno l’educazione Greca si difuse
nell’area Mediterranea ed orientale e anche Roma
con caratteri di formazione generale che
comprendeva anche gli studi scientifici.
L’educazione era affidata:
• nei primi 7 anni di vita alla famiglia
• all’istruzione primaria basata sull’insegnamento
della lettura, scrittura, il calcolo e veniva svolta da
due figure educative nell’ambito pubblico
o il maestro che insegnava a leggere
o il pedagogo che assisteva e aiutava i fanciulli
nel tragitto da casa a scuola e aveva il
compito di ripetere le lezioni del maestro.
• l’istruzione secondaria dedita agli studi letterari e
scientifici;
• l’efebia che dall’addestramento militare della
Grecia classica, si trasformò in istruzione scolastica
per l’élite
• l’istruzione superiore dedita allo studio della
filosofia, della retorica e della medicina.

I ROMANI

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Ampliarono i propri confini fin dal III sec. a.C. entrando subito in contatto con il mondo greco che ne influenzò 4
l’educazione.
Nel periodo monarchico (753-509 a.C.) l’educazione si rifaceva i principi del mos maiorum (tradizione degli
antenati) in cui la famiglia educava i figli
Nel periodo della Repubblica (509-31 a.C.) era incentrata sulla figura del pater familias e aveva come testo
normativo le Leggi delle Dodici Tavole (450 a.C.), si formarono nuove figure
• il paedagogus (schiavo greco)
• il ludi Magister (maestro privato) a cui era affidata la preparazione di
base e nuove istituzioni educative:
• il ludus litterarius una sorta di scuola elementare
• il pedagogium e il collegium scuole professionali di preparazione al lavoro artigianale o formazione di
sacerdoti ed i soldati, dove l’educazione era improntata ad una forte disciplina basata sulla coercizione, il
castigo.
• l’insegnamento secondario superiore solo per l’aristocrazia e dedicato agli studi liberali, in particolare alla
grammatica e la retorica, con lo scopo di preparare giovani ad essere cittadini romani socialmente è
politicamente attivi grazie all’abilità del dibattere del persuadere.
Nel periodo Imperiale (31 a.C. al 476 d.C.) lo Stato si fece più attento al controllo e all’incremento
dell’istruzione, più di quella superiore ed elementare, allo scopo di favorire una coesione culturale all’interno
dell’impero; fu data importanza all’oratoria e alla preparazione degli insegnanti com’è documentato nel trattato
pedagogico che ebbe molta fortuna fino al 1300 d.C. in Occidente: l’Istitutio Oratoria di Marco Fabio Quintiliano
(35-95 d.C.).
1.4 L’educazione cristiana dalla tarda antichità al Medioevo
Il Cristianesimo diventata, in seguito, religione ufficiale nel 380 d.C. con l’editto di Tessalonica che rivoluzionò
l’educazione:
• si rompe il legame col mondo greco e romano e si spostai dalla paideia classica alla perfecto cristiana sulla
figura di Gesù Cristo: l’agape = amore con cui Dio ama, diviene il centro dell’educazione e si muove nelle
prime comunità cristiane, insieme al dualismo anima-corpo che esaltano la cura di sé come cura dell’anima; il
nuovo obiettivo dell’educazione la salvezza dell’anima che si realizza nell’interiorità attraverso il percorso di
formazione ed educazione che avviene dopo il battesimo, rivolta ai bambini e agli adulti, da parte di persone
che si improvvisano maestri e poi sacerdoti. L’istruzione consisteva nella lettura dei Testi Sacri e nell’esercizio
della virtù cristiana e della preghiera, nella pratica dei sacramenti e delle buone azioni rivolte ai poveri ai
soferenti e agli indifesi;
• nel periodo detto della Patristica ossia dei Padri della Chiesa sorsero scuole superiori di teologia e vennero
elaborate le dottrine cristiane; tra gli esponenti troviamo Sant’Agostino (354 - 430 d.C.) autore del trattato
sulla figura del maestro, il De Magistro.
• Nell’Alto Medioevo (periodo in cui si rompe l’Unità del Mediterraneo, si difonde l’islam e crolla l’Impero
Romano) si difuse la Scolastica, formazione delle Scholae monastiche che diventarono depositarie del sapere
e dell’istruzione in Occidente, il cui principale esponente era San Tommaso d’Aquino (1225-1274) autore
anche lui del De Magistro.
o La Regula Magistri di San Benedetto da Norcia rappresenta quella più rappresentante del monachesimo
occidentale, dove furono fissate le norme sulla formazione dei novizi e dei giovani accolti nelle scuole
del monastero, attraverso la valorizzazione del lavoro, della cultura e della pratica religiosa; l’educazione
dei fanciulli veniva curata in una prima forma di alfabetizzazione, per poter comprendere la Bibbia.
o Carlo Magno (742-814 d.C.) re Franco, diventato imperatore del Sacro Romano Impero, considerava
l’educazione religiosa un importante strumento di unità culturale, fondando:

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▪La scuola Palatina destinata all’educazione dei figli della nobiltà laica, un’istruzione sia primaria e 5
secondaria;
▪le scuole urbane destinate ad educare il popolo attraverso i sacerdoti e consisteva
nell’evangelizzazione attraverso la predicazione di cerimonie religiose e sacramenti.
• Nel Basso Medioevo troviamo un’educazione che si trasforma profondamente e va in direzione borghese,
dando vita alle università, botteghe, istruzioni caritative ed educative, e al ruolo centrale della famiglia come
primo luogo educativo.
1.5 L’educazione islamica
Originariamente costruito dagli Arabi, popolo nato dall’incontro tra le popolazioni nomadi e sedentarie che
vivevano nella Penisola Arabica, il mondo islamico era stato unificato in uno Stato teocratico dal profeta
Maometto (570-632 d.C.) ed aveva avviato una politica imperialistica ed espansionistica.
L’educazione islamica era finalizzata alla conoscenza del Corano:
• il primo luogo dell’educazione è affidato alla famiglia, considerata il primo ambiente educativo dove il
bambino apprendeva le norme di base della società degli antenati; si trattava di un’educazione informale,
religiosa, morale, sociale, affidata all’oralità, alle esperienze di vita familiare, al racconto di fiabe e favole
che diventano l’occasione di svolgere delle lezioni di morale finalizzato alle regole di buona educazione
rivolta ai bambini e alle bambine che fino al settimo anno di età, stavano insieme.
• Al settimo anno per i bambini si impartiva l’istruzione di base fino ai 12 anni, di tipo mnemonica: attraverso
l’esercizio della memoria, l’alunno apprendeva le regole grammaticali e i contenuti necessari alla sua
crescita; le bambine rimanevano a casa per prepararsi al loro futuro di madre e moglie;
• Dai 13 fino ai 18, veniva impartita prima dalle moschee e, se i mezzi dei genitori lo permettevano, altrimenti
i ragazzi apprendevano il mestiere del padre, nella madrasa un luogo destinato ad ospitare insegnanti e
docenti, dove si insegnavano le scienze coraniche, la giurisprudenza, la teologia, la filologia, la retorica ed
altri saperi; il metodo utilizzato era quello autoritario, basato sul rapporto tra il discepolo e il maestro, la
cui parola era considerata superiore alla lettura personale dei libri, della disciplina, sull’obbedienza, sulle
punizioni e sulla memorizzazione, considerata il modo migliore di apprendere.
1.6 L’ascesa dell’Occidente: l’educazione dalla modernità all’età
contemporanea
L’Umanesimo e il Rinascimento (1492-1789) e l’afermarsi della borghesia cambiarono:
• i fini dell’educazione rivolti all’homo faber, soggetto attivo nella società capace di trasformarla
• mezzi di educazioni si crearono nuove istituzioni educative: collegi, ospedali, prigioni, manicomi, che
operavano attraverso il controllo e la conformazione sociale;
• la famiglia divenne nucleare (padre, madre e figli) e fu coinvolta nell’educazione del bambino, sviluppando
una nuova sensibilità afettiva, elaborando un sistema di controllo e cura per conformarlo a un ideale
e valorizzarlo nelle qualità nelle sue qualità di innocenza.
• La scuola svolgeva una funzione correttiva, diventando apparato dello Stato che attraverso gli Stati
Nazionali e l’Europa imponeva una serie di obblighi, un chiaro progetto di controllo e di conformazione
di tutta la
società.
La rivoluzione industriale, fra il XIX e il XX sec. d.C., in cui si afermò la supremazia economico-politica dei grandi
Stati europei e del nord-America diede vita ad un mondo geografiche e socialmente diseguale.
Nel Novecento, in Europa, la crescita urbana, l’industrializzazione e l’afermarsi della borghesia come
protagonista indiscussa favoriscono una nuova espansione della scuola e una maggiore importanza
dell’istruzione che limitava i compiti educativi della famiglia affidandosi sempre di più allo Stato, sia nelle sue

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forme totalitarie del (Germania nazista, Italia fascista, Unione Sovietica) e nelle democrazie occidentali dove si
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afermavano la scolarizzazione di massa.
Nella seconda metà del Novecento gli spazi e i tempi dell’educazione si allargano attraverso:
• l’educazione formale vissuta nella scuola e l’università,
• l’educazione non formale e informale svolte dalla famiglia, dall’ambiente, dal lavoro, dalle associazioni, dai
media.
Oggi l’educazione è un fenomeno umano universale di qualità non è sviluppato in modo equo a causa della
miseria economica e culturale; l’obiettivo è di un’educazione globale, rispettosa delle diferenze e rivolta a tutti
come un comune opportunità di sviluppo e crescita umana.

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Lezione 2: Le emergenze dell’educazione contemporanea
Maria Vinciguerra
2.1 Tra immagini e comunicazione
Le società post-industriali vengono dette:
• società dell’immagine: dove l’immagine diventa messaggio e l’informazione va sminuendo il suo
contenuto verbale;
• società della comunicazione: legata al conoscere la realtà nel dominio di una comunicazione visiva che
rende l’immagine, la più importante forma di conoscenza a discapito della parola orale e scritta;
• Società della post-verità le cui emozioni del momento e le credenze personali non ritrovano spesso
nessun riscontro e nessuna ricerca di verità, ma, è l’immagine o le forme di comunicazione mediatiche e
virtuali, sono la verità;
• Società della velocità nei consumi il bisogno compulsivo di consumare, gettare via, riacquistare, alla
ricerca di un costante godimento effimero attraverso gli oggetti.
Si assiste quindi alla dominanza della cultura della fretta, della cogenza dell’immediatezza e del piacere, così
definito schizocronia: la sensazione di vivere le diferenti temporalità in maniera antagonista, dissonante (tempo
del lavoro e tempo della famiglia, della routine e della creatività); una condizione che finisce coll’nfluenzare la
qualità della vita e le situazioni in cui si trovano eccessi di tempo: come la disoccupazione, l’intermittenza
dell’attività lavorativa che non corrisponde una scelta volontaria e per questo, si configurano come generatrici
di malessere e disagio sociale.
2.2 Il bambino adorato
Questi cambiamenti portano i bambini di oggi, ad essere sempre più soli; i rapporti tra i pari sono impoveriti e
la solitudine la non comunicazione sono percepiti dalla famiglia stessa che si sente poco supportata nella sua
funzione genitoriale e sempre più schiacciata dalla vita pressate che annulla quasi del tutto, i rapporti di
vicinato e una possibilità di una condivisione delle problematiche educative.
Le trasformazioni hanno riguardato anche l’organizzazione della vita familiare: il padre e la madre si trovano
entrambi impegnati nella cura del bambino e con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e della
formazione a livelli elevati, ha imposto alle neomamme, una separazione più precoce e prolungata del loro
bambino; il controllo della procreazione, il momento in cui avere un bambino e come averlo hanno creato la
figura del figlio adorato che amato; questa mitizzazione dell’infanzia ha portato una vera e propria rivoluzione
antropologica è il figlio che fa la famiglia e non viceversa: questa regalità si traduce
• in bambini carichi di impegni che qualcun altro già preso per loro e le attività ricreative e sportive
assumono una dimensione di un dovere più che un piacere e questa mancanza di ascolto denota proprio
una famiglia afettiva segnata da una sorta di emotivismo che, paradossalmente, si traduce in
una difficoltà relazionale e comunicativa che porta ad una sottoalimentazione emotiva cioè una ipossia
di rigenerazione afettiva cioè la malattia psicologica che tipica del nostro tempo;
• il bambino sovrano è all’origine di un rifiuto da parte della famiglia di in poi una forma di norma di
confine di limite di diferenza legato ad una trasformazione dei ruoli genitoriali in una conflittualità
intergenerazionale sempre più ridotta, una rottura dalla tradizione educativa del passato.
2.3 Preadolescenza, adolescenza e post-adolescenza: perché si è rotto il
patto tra le generazioni
L'adolescenza non è un periodo della vita riconosciuto da tutte le culture e, di certo, non era riconosciuto in
passato. Si tratta di un'invenzione del XIX secolo, nata contestualmente alla società industriale, che ha come
conseguenza l'allungamento dei tempi di scolarizzazione e formazione.
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È tra il 1880 e il 1890 che si intravede l'adolescenza come fase di sviluppo che presenta particolari cambiamenti 8
e problematiche psico-fisiologiche, fino all'avvento della psicoanalisi che la considererà come una fase
psicopatologica.
Dagli studi del secolo scorso emerge la successione delle seguenti età psicosociali:
• preadolescenza (a partire dall'età della pubertà)
• adolescenza (circa dai 15 anni)
• giovinezza (dai 24 anni fino all'età adulta).
Nelle società occidentali assistiamo a un allungamento della fase adolescenziale di almeno dieci anni: post
adolescenza, periodo che si protrae perché alcuni compiti dell'adolescenza non si sono compiuti (costruzione
della propria identità, indipendenza dalla famiglia, creazioni di relazioni sociali e intime più mature).
L'odierna società dell'immagine, caratterizzata da un forte consumismo esperienziale, spinge gli adolescenti a
"essere" attraverso ciò che possiedono e possono mostrare, assumendo un atteggiamento estetizzante; tutto
ciò, abbinato a un modello educativo genitoriale quasi esclusivamente afettivo e non più etico-normativo, fa
si che gli adolescenti non abbiano la capacità di acquisire autonomia e indipendenza.
Poiché l’adolescenza sembra allungarsi sempre più, negli studi più recenti sul tema si nota un proliferare di
termini che la definiscono senza circoscriverla: adolescenza lunga, adolescenza prolungata, età del labirinto,
generazione non desiderante.
Pietropolli Charmet, psicanalista: il complesso di Edipo che caratterizzava l’adolescenza di un tempo, oggi può
essere definita dalla figura di Narciso, i figli sempre unici, sono preziosi e rari e, vanno protetti a qualunque
costo e si promuove la dipendenza dei figli anziché favorire la loro autonomia e indipendenza.
Tutto ciò ha portato alla rottura del patto tra le generazioni, da attribuire all'incertezza dei confini che
dovrebbero separare e distinguere le generazioni tra loro che porta ad una crisi del dialogo intergenerazionale
che si manifesta in una sorta di tregua e rassegnazione reciproca tra genitori e figli.
Il permessivismo e l'atteggiamento amicale dei genitori portano alla nascita della famiglia negoziale, cioè un
sistema familiare che vede una contrattazione continua tra genitori e figli: il giovane, quindi, si trova a vivere
una nuova adolescenza, mai sperimentata prima che, secondo la lori diventa interminabile, a causa della
staticità della relazione educativa.
Donati scrive: i giovani quanto più percepiscono l'incapacità delle famiglie di essere e fare "intreccio
generazionale", tanto più perdono il loro senso generazionale e si pensano nei termini di un "io" che cresce in
modo desolato e desolante, solitario, privo di generatività.
2.4 La condizione giovanile: frammentazione del lavoro, famiglia lunga e
impegno nel volontariato
I processi di globalizzazione sono considerati la causa della svolta degli scenari economici e del mercato del
lavoro e stanno determinando una serie di trasformazioni di ordine culturale, politico ed economico. I nuovi
processi produttivi vanno creando una diminuzione del lavoro stabile e adeguatamente retribuito, creando una
situazione precaria per i giovani che si ritrovano disoccupati o occupati a tempo determinato, manchevoli
dunque di una stabilità.
Ciò che si produce è un’incertezza generale, di sfiducia nel futuro che viene a essere percepito come una
minaccia. La famiglia di origine viene a essere un rifugio e un riferimento sicuro sia economico che emotivo-
afettivo, essa diventa la famiglia lunga come risposta a un clima sociale fortemente instabile ed insicuro.
Il volontariato diventa anche un nodo fondamentale della rete relazionale in cui possono inserirsi i giovani e
che può sostenere il processo di costruzione dell'identità sociale e civica, in Italia vede impegnati il 12,5%.

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2.5 Cambiamenti della famiglia 9


La precarietà lavorativa sembra legarsi anche ad altri cambiamenti rilevanti, molti giovani adulti lamentano di
non riuscire a progettare una vita in coppia né tanto meno a coltivare l’idea di diventare genitori. Assistiamo
quindi a un progressivo calo delle nascite; solo la presenza di donne e famiglie migranti influenza sensibilmente
una ripresa demografica nel nostro Paese; il “costo del figli” cui spesso alludono molti giovani non è solo di
natura economica: le motivazioni interiori sono molto più profonde e si riferiscono al costo emotivo di una
scelta irreversibile, più che di una sostenibilità materiale.
Il fenomeno della famiglia lunga e alla procrastinazione della transizione genitoriale, si aggiungono altri
cambiamenti che interessano la famiglia: il matrimonio non è più una scelta prevalente e si assiste ad una
pluralizzazione delle forme familiari; la vita di coppia ha assunto delle forme sempre meno ritualizzate e più de-
istituzionalizzate: le LAT coppie che scelgono in modo radicale e non temporaneo di non vivere insieme pur
avendo una relazione stabile e nessun impedimento alla convivenza, sono in aumento le convivenze e le coppie
di fatto, che attualmente costituiscono il 20% delle coppie italiane.
I cambiamenti più evidenti, che coinvolgono l’istituto del matrimonio, sono rintracciabili nella riduzione delle
prime nozze, nell’aumento delle seconde e delle successive, in una crescita della scelta della convivenza e in un
aumento delle separazioni e dei divorzi, tanto da modificarne anche il vocabolario essenziale in cui parole come
“famiglia” e “amore” assumono un senso diferente per ciascuno, indebolendo i valori che a tali parole si
associano.
Assistiamo a nuove forme di generatività sociale: il riferimento è a quelle coppie che, non potendo generare
figli, intraprendono percorsi adottivi internazionali, scegliendo forme di genitorialità consapevole nella
prospettiva di un impegno educativo aprendosi verso altre famiglie, come mutuo-aiuto familiare.
2.6 Cambiamenti della scuola
La scuola ha perso un valore simbolico chiaro e condiviso, è spezzato il patto di alleanza tra le due agenzie
educative:
• i genitori si alleano coi figli e disattivano ogni funzione educativa degli insegnanti;
• gli insegnati accusano i genitori delle loro inadempienze educative.
La scuola viene accusata dalle famiglie, di non essere più in grado di preparare i giovani alla vita, risultando
inadeguata rispetto alle trasformazioni in termini di conoscenze e competenze.
È vero pure però che alcuni genitori dichiarano di percepire la scuola di oggi come uno spazio in cui è possibile
condividere la propria cultura educativa, le proprie esperienze, i propri dubbi riguardo all'educazione dei figli;
questo è il segno che molti genitori oggi cominciano ad interrogarsi sulla propria genitorialità e avviano un
graduale lavoro di riflessione sul loro modo di essere genitori, cercando l'aiuto di altri adulti educatori.
2.7 Il fenomeno migratorio e gli alunni stranieri
La popolazione di residenti stranieri in Italia è di oltre 5 milioni; in particolare gli alunni stranieri sono figli di
immigrati; figli raggiunti ma nati nel paese d’origine (comunitari e non); minori stranieri non accompagnati,
rom, sinti e caminanti e figli di coppie miste.
I ragazzi stranieri cresciuti in Italia presentano delle caratteristiche diverse rispetto a quelli giunti nel nostro
paese ad un’età maggiore; in particolare i primi sono più simili agli italiani appartenenti al loro ceto sociale
piuttosto che ai loro connazionali giunti in Italia in un secondo momento.
Quando vengono analizzate le problematiche relative alla socializzazione nel paese ospitante e all’inserimento
scolastico dei minori stranieri, si parte dalla premessa che l’identità dei figli degli immigrati si sviluppi su basi
etniche, anche se questi ragazzi in realtà non sono portatori di un’identità etnica così specifica e definita.

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A fronte di queste osservazioni nella scuola italiana è una prassi ormai consolidata e generalizzata quella di 10
inserire i minori stranieri in una o più classi indietro rispetto a quella che dovrebbero frequentare in relazione
all’età anagrafica.
L’adozione indiscriminata di questa pratica diventa spesso il primo passo verso una marginalizzazione e un
senso di frustrazione dei ragazzi che desiderano concludere prima possibile il periodo scolastico.
È evidente il ruolo giocato dalla socializzazione con ragazzi non coetanei che presentano interessi diversi, ciò
rende meno stimolante l'inserimento nel contesto classe. Un rischio sempre più reale, soprattutto in alcune
zone delle grandi città, è di creare classi o interi istituti scolastici "polarizzati": scuole dove prevale l'inserimento
degli alunni stranieri, anche se il tetto massimo previsto è del 30%.
Si rischia, allora, di creare delle "scuole-ghetto", dove l'idea di un'integrazione che possa coinvolgere minori e
famiglie immigrate non è più pensabile, in quanto contemporaneamente, si verifica in queste scuole un ritiro
dei propri figli da parte delle famiglie italiane con conseguente aumento dei rischi di marginalizzazione sociale.
Si dovrebbe, invece, favorire l'eterogeneità delle cittadinanze nella composizione delle classi e attuare processi
di inclusione, rispondendo agli alunni come persone e quindi ai loro bisogni.

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Lezione 3
La nostra epoca tarda
Giuseppina D’Addelfio
Il rapporto tra generazioni più giovani e più anziane è sempre stato segnato da una certa problematicità e da
una certa difficoltà nella comunicazione. Tuttavia oggi la rottura del patto tra le generazioni è segno di n
cambiamento epocale.
3.1 Crisi della modernità
Negli ultimi quattro decenni sociologi e filosofi si sono ampiamente sofermati sulla crisi della modernità,
intendendo con quest’ultimo termine quel progetto di razionalizzazione del mondo, nato con l’Illuminismo, che
si basava su una grande fiducia nelle possibilità della scienza, sull’ideale di progresso come strumento di
emancipazione umana, sull’istanza di una morale e un diritto universali.
L’analisi della crisi ha condotto gli studiosi di scienze umane a parlare di postmodernità e a definire dunque
l’epoca in cui stiamo vivendo come “ultramoderna” o “tardomoderna”.
Ne La condizione postmoderna di Lyotard, lo studioso oppone alla modernità intesa come fiducia nel valore
positivo della ragione, una nuova condizione che valorizza il lato oscuro, ambiguo e contraddittorio della
razionalità. La modernità è terminata con l'ingresso della società post industriale che ha portato con sé una
sorta di incredulità nei confronti di quel racconto ottimistico del progresso come illimitato miglioramento delle
condizioni di vita.
I fautori del postmoderno hanno negato la validità di saperi oggettivi e universali, riconoscendo solo
• l’autenticità di conoscenze contingenti, frammentarie e relative; si parla infatti di contestualismo o di
decostruzionismo,
• valorizzando l’immagine sulla parola
• È stato esaltato il nichilismo (nulla esiste, non esiste una vera realtà alcun pensiero deve essere
conforme, non esistono fatti, ma solo interpretazioni, Nietzsche) che sarebbe l'unico modo di pensare
adeguato a vivere un tempo che ha ormai messo del tutto da parte la modernità.
In Italia al concetto di postmoderno ha dedicato particolare attenzione il filosofo G. Vattimo: ha elaborato la
nozione di “pensiero debole” per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle
forti certezze e dei valori assoluti. Anch’egli sottolinea così che, se
la modernità è stato il tempo dei grandi sistemi di pensiero, della ricerca fiduciosa della verità,
la postmodernità ha inteso essere esattamente l’opposto: il tempo del pensiero debole, dove i grandi orizzonti
di senso si sono frantumati, in tante prospettive e dove la ricerca della verità, del mondo e del sé, non può che
apparire del tutto priva di senso.
3.2 Valore e limiti della postmodernità
La postmodernità ha rappresentato il tentativo di pensare i mutamenti nel modo di sentire e vivere legati alla
globalizzazione, ai cambiamenti politici ed economici, all’incontro tra più culture. A partire dagli anni ‘80
l’aggettivo “postmoderno” si è difuso rapidamente.
In tempi più recenti, il postmoderno è stato oggetto di numerose critiche.
Habermas ha considerato che il postmoderno rischia di essere lo specchio della società capitalistica e
contemporanea, basata sul consumo, sul culto dell’immagine e sulla spettacolarizzazione.
Inoltre, i più recenti fatti di violenza e di lotta, hanno fatto emergere che: negare sul piano teorico, qualsiasi
pretesa di validità, equivale a rendere impraticabile sul piano pratico, qualsiasi tipo di lotta non violenta per il
bene delle persone e per la giustizia. In altri termini, se non esistono fatti ma solo interpretazioni, come si
possono avere strumenti per afermare con il logos (e non con la forza bruta) la maggior validità di una

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posizione piuttosto che di un’altra? se non esistono fatti, ma solo interpretazioni, come si possono avere 12
strumenti per afermare la ragione?
Habermas propone di pensare il nostro tempo come epoca ultra-moderna: ciò significa che emerge una
continuità possibile tra il nostro tempo e il tempo della modernità; si tratta da una parte di riconoscere nel
tempo che viviamo ancora un’espressione del moderno, dall’altra di intendere questa continuità come un
compito da svolgere.
3.3 verso un’epoca ultra-moderna?
Analogamente Beck ha parlato della necessità di un illuminismo rinnovato per la società globale, intesa come
società tarda e società del rischio, il carattere principale del tempo che stiamo vivendo è quello della sempre più
forte “individualizzazione”: se la modernità si è aperta con l'esaltazione delle libertà dell'individuo, oggi, nelle
nostre società a modernità avanzata, è sempre maggiore l'emancipazione del singolo dalle istituzioni e dalle
appartenenze tradizionali (ovvero dalle classi sociali, ma anche dalle comunità familiari, religiose e politiche,
almeno nel modo in cui erano intese nel passato) e sempre più netto il parallelo espandersi di un atteggiamento
disincantato nei confronti delle credenze legate a queste appartenenze (credenze morali, religiose e politiche).
Il nostro tempo è una "seconda modernità", legata alla società del rischio perché le fondazioni ontologiche del
passato adesso appaiono sgretolate. Ci si ritrova in una condizione quotidiana di "non più ma non ancora", una
situazione di mezzo che non sappiamo come andrà a finire.
Tale incertezza difusa, secondo Giddens nasce dal declino del valore proprio delle tradizioni. La nostra società,
infatti, è una società post-tradizionale dove le tradizioni vengono rinnegate ma anche dove proliferano
numerose forme di tradizionalismo (paura dello straniero, panico da migrazione) e definisce la nostra epoca
come tarda modernità perché i caratteri propri della modernità non sono stati superati ma hanno solo
raggiunto la loro maturità e si sono difusi a livello globale.
Da un punto di vista pedagogico, possiamo osservare che viviamo un'epoca di passaggio, dove è chiaro ciò che
non è più praticabile o sensato, e non sembra che disponiamo ancora degli strumenti per trovare nuovi
riferimenti condivisi, tracciare ancora progetti e traiettorie esistenziali, tessere, significative modalità
relazionali. E tutto questo si riflette nelle tante incertezze degli educatori.
3.4 La fatica odierna di costruire sé stessi
Nella storia, le epoche tarde sono momenti di maturità e di passaggio verso il nuovo e che generano sempre un
sentimento di ansia difusa perché non è chiaro verso dove si sta transitando.
Bauman spiega che la nostra epoca tarda è caratterizzata da un “società liquida”, da una crescente
imprevedibilità e velocità dei cambiamenti e da una sempre più profonda incertezza esistenziale degli individui:
l'uomo contemporaneo è, nella vita quotidiana, nel lavoro, nelle relazioni afettive, liquido, ovvero
incerto, precario e fluttuante; le cause di questa liquidità dell'esistenza sono rintracciate da alcuni fenomeni
inediti nella storia dell'umanità, che disegnano il ritratto della globalizzazione e la problematizzano: la crisi dei
sistemi politici nazionali, il passaggio dalla società industria le alla società post-industriale del capitalismo
flessibile e globale, la deregolamentazione dei mercati finanziari, gli efetti dell'applicazione sistematica delle
tecnologie informatiche e dei nuovi mezzi di comunicazione.
Nella società liquida, la conquista dell'identità è un compito arduo, un’impresa solitaria di costruzione di sé.
All'opposto dell'istanza della realizzazione e del (buon) compimento di sé stessi che ha segnato l'educazione
nella storia, almeno dalla paideia alla Bildung, ci viene chiesto, spesso implicitamente, di rimanere
costantemente incompiuti, di scrivere una biografia che deve rimanere però sempre riscrivibile.
Di biografie incompiute e aperte ha parlato anche Beck, che ha definito le biografie della contemporaneità
come destandardizzate, mentre in passato le tappe di ogni percorso di vita erano simili e certe; oggi invece le
biografie sono sempre rivedibili e flessibili. ; in particolare, si tratta di una lessibilità/precarietà
esistenziale,

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ossia l’assenza di modelli esistenziali universalmente vincolanti, capaci di strutturare una forma di vita nella sua 13
totalità e soprattutto l’incapacità di fare i conti con questa assenza.
Bauman osserva che proprio la crisi della modernità ha generato l’identità come problema; l’esperienza
premoderna delle comunità caratterizzate da stabilità e prossimità, non richiedeva agli uomini e alle donne la
problematizzazione della loro individualità, che era predeterminata e non negoziabile. L’io si definiva in modo
certo rispetto ad un noi ben definito. La costruzione della propria identità ha preso ad essere un problema da
risolvere in seguito all'affievolirsi e al disintegrarsi dei legami comunitari, quindi in seguito alla perdita degli
ancoraggi valoriali, istituzionali e sociali della modernità. Di fatti, oggi sembra impraticabile qualsiasi tradizione,
cioè il passaggio di un patrimonio culturale e valoriale da una generazione all'altra ed è in questo che va
rintracciata la radice della rottura del patto tra le generazioni, che si traduce in relazioni eccessivamente
tolleranti e negoziali o nella rottura della condivisione educativa.
Beck scrive che oggi sembra che nessun tipo di regola sia trasmissibile e difendibile come valida in se stessa, ciò
si traduce – nella quotidianità dei mondi dell’educare – in un’impossibilità e/o insensatezza di segnare
diferenze, limiti o regole. Rimproverare un bambino, ad esempio, viene vissuto dall’educatore quasi come una
colpa, un eccesso da evitare in ogni caso;
Taylor aferma che oggi si tende ad adottare in più campi, un liberalismo della neutralità in quanto non ci
atteniamo più a delle regole ma, viviamo secondo la nostra libertà.
Nella quotidianità dei mondi dell'educare, tutto ciò si rispecchia in quei comportamenti di taluni genitori e
presunti "educatori" ai quali risulta impossibile e/o insensato segnare diferenze, limiti, regole.
Il risultato generale è il soggettivismo morale, a cui si lega una specifica eclissi dei fini, in particolare, sono
eclissati non solo i fini del passato, ma anche il senso stesso dell’avere un fine da perseguire: si parla oggi anche
di abbandono della teleologia cioè dello scopo e del fine.
Oggi, in molti contesti, non è caso che l’individualismo del nostro tempo è segnato dalla ragione, dai
ragionamenti che si basano sull’efficienza sui costi sui benefici

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Lezione 4
Esistono bisogni propriamente educativi?
Giuseppina D’Addelfio
4.1 Una persona, tanti bisogni
Sebbene in un tempo complesso e caratterizzato dall'incertezza, l'educazione mostra il suo carattere
necessario, vissuta come un compito problematico, ma è anche vista come un compito ineludibile.
Oggi dietro a tanti disagi, a tanta violenza ingiustificata, a tante vane ricerche di felicità, c'è una domanda di
educazione autentica. Nonostante le società occidentali contemporanee appartengano a quella parte del
pianeta in cui i bisogni di sopravvivenza sono soddisfatti, spesso anche nelle vite più agiate manca qualcosa e
rimane un fondo di insoddisfazione.
Maslow, con la sua Piramide (Fisiologia - Sicurezza - Appartenenza - Stima - Autorealizzazione)

PREGIUDIZI
AUTOREALIZZAZIONE

STIMA

APPARTENENZA

SICUREZZA

FISIOLOGIA

ha descritto i diversi bisogni, disponendoli in una gerarchia che va dai bisogni elementari, fisiologici, fino al
bisogno più alto e complesso, l'autorealizzazione: l'individuo si realizza passando per i diversi livelli, perché i
devono essere colmati in modo progressivo, da quelli necessari alla sopravvivenza, a quelli di carattere
prettamente sociale. Tramite i livelli di questa piramide possiamo notare che siamo esseri bisognosi,
manchevoli, dipendenti da altri e che senza cura non c'è vita umana; siamo esseri con una molteplicità di
bisogni distinti, ma interconnessi e che, per raggiungere l'autorealizzazione, è necessario un percorso, un
progressivo approfondimento o innalzamento, cioè un cammino di formazione personale.
Spesso accade che degli altri (e anche di noi stessi) riusciamo a vedere solo i bisogni più basilari ed elementari,
ma anche più superficiali ma non prestiamo attenzione al fatto che ci sono, sebbene siano più difficili da
riconoscere, anche bisogni più profondi.
Ora può essere utile, per i futuri educatori, immaginare di rovesciare la piramide e conficcarla almeno in parte
su un terreno. Cosa vediamo? Solo la base e non il vertice. Spesso con le persone accade la stessa cosa: degli
altri (e forse anche di noi stessi) riusciamo a vedere solo i bisogni più basilari ed elementari, ma anche più
superficiali; non prestiamo invece attenzione al fatto che ci sono, sebbene più difficili da riconoscere, anche
bisogni più profondi.

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4.2 Tanti bisogni e tante forme di cura


Un educatore può dunque erroneamente ipotizzare di curare la vita umana avendo solo cura della vita fisica.
Esiste tuttavia un livello più profondo, una cura della persona che si concentra sul suo benessere psicologico,
cura sull'equilibrio interno, delle capacità cognitive, intellettuali, afettivo soddisfacimento dei bisogni
di sicurezza.
Si potrebbe dire che la risposta a quello che Maslow denomina “bisogno di sicurezza” segna il passaggio da una
cura semplicemente fisica ad una di matrice psicologica.
Edith Stein, sulla scia di Tommaso d'Aquino e di Aristotele, parla della vita come un progressivo approfondirsi di
potenzialità: ci sono
• esseri viventi con solo un'anima vegetativa (le piante),
• esseri viventi che possiedono un'anima vegetativa, ma anche sensitiva e cinestetica (gli animali),
• gli esseri umani che hanno più dimensioni:
o la sua corporeità ovvero il suo possedere un corpo non solo come una cosa nello spazio, ma come
corpo animato vivente;
o la sua realtà psichica, cioè la dimensione interna che è forma del corpo e luogo dei suoi stati
psicologici;
o l’esistenza spirituale, ovvero l’anima intesa come dimensione interiore, ovvero come luogo degli atti
davvero caratterizzanti la persona umana, quelli segnati da consapevolezza e libertà. E’ proprio
quest’ultimo lo spazio proprio del cammino formativo ed è questa dimensione dell’anima che
permette alle altre di svilupparsi in modo autenticamente umano e quindi, alla persona tutta, di
fiorire.
La Fioritura umana è l'espressione che oggi traduce il greco eudamonia che significa in modo approssimativo
felicità: siamo felici solo quando tutto ciò che ci rende davvero noi stessi fiorisce e non quando "rami" importanti
di noi rimangono secchi. Fioritura umana diventa allora il nome pedagogico più adeguato alla realizzazione di
sé. Pensata così, la felicità è certamente un obiettivo educativo significativo, forse l'obiettivo educativo per
eccellenza.
4.3 Tra mezzi e fini
Oggi si riscontra da più parti l'abbandono del concetto di fine, preoccupandosi sempre più dei mezzi. Spesso
nella nostra vita si scambia per fine ciò che poteva avere senso solo come mezzo, sovradimensionando qualcosa
che può soddisfare alcuni nostri bisogni, ma che non può occupare uno spazio che ha profondità, che riguarda
la persona nella sua totalità.
R.Spaemann
Il filosofo– in una delle sue opere – descrive l’esperienza che forse tutti abbiamo fatto, almeno una volta la
relativizzazione a posteriori di un fine: quel particolare stato d’animo che proviamo, inaspettatamente, quando
abbiamo ottenuto qualcosa che volevamo fortemente, ma che proprio nel momento in cui è stata raggiunta, ci
ha lasciato un senso di vuoto ed insoddisfazione, questo perché l’obiettivo, per un certo periodo, ci era degno di
ogni nostro sforzo e lo avevamo voluto incondizionatamente, ma avevamo trascurato di riconoscerne il
carattere parziale, forse, poteva anche avere un valore, ma solo come parte di una totalità della vita nella quale
quel fine andava correttamente inserito, secondo la sua reale dimensione.
Questo rivela che la convinzione che le cose, il cui godimento o possesso bramiamo, devono in qualche modo
promettere qualcos’altro oltre sé stesse, qualcosa di più grande.
Alla condizione umana appartiene questo sentimento, che è indice di una “modalità di orientamento a una
totalità di senso”. E l’educazione – possiamo aggiungere – si dà dove c’è uno sguardo rivolto innanzitutto a
questa totalità di senso, ovvero alla persona nella sua totalità.
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Inoltre, parla anche di riuscita della vita per indicare che, per rispondere davvero ai suoi bisogni più profondi, la
persona ha bisogno di riconoscere, elaborare e mantenere nel tempo una prospettiva globale sulla propria
esistenza un «Orientamento ultimo e comprensivo di tutti i fini pratici».
Ricoeur disse: "La persona è un progetto che io mi rappresento", quindi per rispondere ai nostri bisogni
abbiamo bisogno di un progetto che ci permetta di personalizzare la nostra esistenza, ma per elaborarlo,
realizzarlo e mantenerlo nel tempo, abbiamo bisogno degli altri, di coloro che nel cammino di formazione di sé,
sono più avanti, conoscono, si potrebbe dire, la strada; o meglio, ci possono sostenere condividendo quello che
della strada hanno conosciuto e sperimentato. Com’è facile intuire, costoro sono gli educatori. Per questo, si
può dire che avere bisogno di un progetto che riguarda la totalità di sé è tutt’uno con l’aver bisogno di
un’educazione.
4.4 Si può costruire da soli la propria vita
Coltivare oggi un'attenzione educativa per tutti i bisogni della persona e per il senso della loro gerarchia risulta
urgente ma anche difficile come non mai. Considerato il disagio nel rapporto tra generazioni diverse, oggi più
che mai conflittuale e impossibilitato nella comunicazione e considerato il percorso di formazione e di
costruzione della propria vita come un'esperienza e un'impresa solitaria, si delinea la crisi dell'autorità
educativa. Come nota Hannan Arendt
scriveva nella silloge Tra Passato e Futuro, i danni che si generano per la società e per il singolo, si spezza il filo
della tradizione che tiene unito passato e presente e che è stato alla base del patto tra le generazioni; in ogni
testamento, elencando alcuni beni, nominandoli con chiarezza, si sancisce quello che sarà proprietà degli eredi.
Cosa accade quando questo manca?
Senza testamento cioè senza tradizione, il tempo manca di continuità tramandata con un esplicito atto di
volontà e, in termini umani, non c’è più né passato né futuro; si disperdono i beni, e i figli, quelli che li
dovrebbero ereditare, si (perdono sé stessi). La crisi dell'autorità educativa è perdita della memoria, del senso e
del tempo e quindi della profondità dell'esistenza.
Si tratta di una crisi che riguarda soprattutto i padri in un atteggiamento che evitano rimproveri e prese
diposizione, lasciando ampie libertà ai figli e su cui Beck nota: "nessuno si reputa più competente in fatto di
correggere gli altri. Sicché il benessere che regna nelle società occidentali del dopoguerra finisce per alimentare
un debole conflitto intergenerazionale, segnato da un'ignoranza riflessiva sulla propria vita", ovvero il non
sapere usare la ragione per riflettere su chi si è. Senza avere ricevuto alcuna eredità dai padri, il compito di
costruire sé stessi è immane, quasi impossibile. Quello del padre, dunque, è un bisogno educativo specifico che
non è altro che un bisogno di esistere con un significato.

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2ª Unità: Genesi del problema educativo e della riflessione 17
pedagogica nei mondi della vita.
Un’analitica dell’esistenza
umana
Lezione 5
La situazione originaria
Antonio Bellingreri
È un dato di fatto che nella storia esistono fenomeni umani, comunemente chiamati educativi, presenti in tutte
le comunità e in forme diferenziate tra loro. La prima fase di riflessione pedagogica, quindi di riflessione critica
sui temi di fondo dell'educazione consiste in una ricognizione empirica e problematica.
Nel suo primo momento empirico la riflessione sui problemi educativi è condotta a partire dall'esperienza
quotidiana, con l'obiettivo di andare direttamente alle cose, metodo proprio della fenomenologia e
dell’ermeneutica.
5.1. L'appartenenza al mondo
La prima regola della fenomenologia per il pensiero è condurre la rilessione mossi dal criterio dell'evidenza.
La prima evidenza
si ofre quando si inizia una riflessione: c'è un soggetto che si pone le domande in prima persona, perché vuole
ragiona re su qualcosa; è importante sottolineare che il soggetto, l'io sono, non è generico: esistono infatti
sempre soggetti singolari, definiti da specifiche coordinate temporali e spaziali, cioè dai mondi della vita cui
ciascuno viene consegnato, sin dal suo avvento nell'essere. Tale avvento coincide con l'appartenenza ad una
situazione originaria che non ha scelto il soggetto, ma in cui si è trovato immesso-immerso.
Questa appartenenza è descritta da Heidegger (in Essere e tempo) riferendosi
• a "efetività" dell'essere consegnati,
• "finitezza" della condizione umana,
• "infondatezza" in quanto sfugge il modo di abitare il mondo.
Questa descrizione appare essere un'interpretazione e, nel pensiero della Stein, è espressa come "essere
oferti" o "essere affidati"; l'esistenza umana, quindi, viene definita come "essere nel mondo", originaria
appartenenza al mondo, o semplicemente esserci, il quale precede ogni altra appartenenza; il mondo a cui
apparteniamo è, per prima cosa, un mondo di cose, di oggetti familiari e strumenti utilizzabili, di cui ci si prende
cura.
Insieme alle cose, nel mondo il soggetto trova anche altri soggetti, che gli sono familiari, che abitano lo stesso
spazio e con cui condivide molti significati, per lo più d'ordine pratico; soggetti con cui, quindi, è in stretto
contatto.
5.2 La precomprensione
Heidegger scriveva che è originaria l’appartenenza e la disposizione ad orientarsi nel mondo del quale siamo
abitatori: il soggetto che è nel mondo già da sempre ne ha una comprensione, o piuttosto una
precomprensione, dal momento che precede qualsiasi altra comprensione acquisita nel concreto svolgersi
dell’esistenza; si tratta di un sapere spontaneo, pre-riflessivo, che ciascun soggetto apprende sin dalla nascita,
attingendolo o meglio ricevendolo dai mondi della sua vita.
Questa precomprensione è sempre un sapere prospettico perché legata all'appartenenza del soggetto ad una
situazione storica, ed anche ad una sua posizione nello spazio, in quanto è corpo materiale animato vivente;

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Husserl il corpo del soggetto può essere descritto immaginando di vederlo attraversato da un asse verticale, una 18
sorta di punto zero, a partire dal quale si dispiega una prospettiva aperta sul mondo.
Il corpo-soggetto può intendere il senso del mondo incontrandolo o accogliendolo secondo una modalità
intenzionale.
Heidegger, invece, il soggetto nel mondo è storicamente definito, è un nesso tra precomprensione e situazione
storica.
A partire dalla precomprensione, ogni soggetto interpreta il mondo in cui si trova, con una prensione globale o
una sorta di percezione del proprio modo di trovarsi nel mondo. Ogni evento e ogni conoscenza acquisita
esplicita questa originaria prensione, articolandola, chiarendola ma soprattutto conducendo ad una
ricomprensione; si tratta di un'istanza di trascendi mento della situazione originaria, una tensione ad andare
oltre quanto è dato o trovato. Il termine più adeguato è
desiderio
questa energia che rivela la ricerca di senso e che connota essenzialmente la vita umana, ed è sempre
determinato, è desiderio di qualcosa che il soggetto intende ma che, anche dopo essere stato soddisfatto, si
ripropone sempre nuovo. I desideri in noi già da sempre sono interpretati all'interno di una precomprensione
che li configura in una maniera ben precisa. Nella duplicità del desiderare, si riflette una più originaria duplicità
intenzionale della coscienza, la quale, secondo la definizione di Gadamer, è sempre esposta agli efetti
della storia. Essa non conferisce senso alla realtà, ma piuttosto è costituita dal senso, senso che trova proprio
'ascoltando' i desideri del soggetto: il soggetto non appare come tale, ma sembra invece trovare sé stesso più
come un oggetto, definito in un orizzonte di senso che non ha scelto e in cui non è né l'origine né il fondamento.
5.3 un’introduzione adeguata alla fenomenologia e all’ermeneutica
La fenomenologia
è l’analisi dell’esistenza umana nei mondi della vita e la presentazione degli esistenziali dell’originaria
appartenenza al mondo; il suo fondatore Husserl aferma: è una posizione di principio che assume come punto
di partenza di ogni rilessione il mondo della vita e le convinzioni in esso presenti; affinché essa possa
valere come istanza critica è necessaria una vera e propria conversione dell’intelligenza e del volere, una messa
in questione e una presa di distanza dalle certezze immediate irrilesse.
La conversione dell’intelligenza implica che essa sia la conversione del volere consiste nel disporsi verso
mossa solo ed esclusivamente dall’evidenza; la ricerca del vero, unico bene desiderabile.
I soggetti sembrano trovarsi nello stato di dormienti con riferimento ad Eraclito: sembra quasi che nessuno sia
realmente desto e che la condizione umana sia caratterizzata da una sorta di sonnambulismo esistenziale; è la
condizione che Heidegger definisce “esistenza inautentica”: la coscienza è costituita dal senso e ritrova il senso
interpretando quando incontra: gli enti, gli eventi, i segni, i testi; originariamente l'uomo è donatario di senso, e
il senso delle cose è l'intellegibilità del reale che si ofre all'intelligenza di un soggetto. Nello stesso tempo, per
poter essere donatario, il soggetto è anche donatore di senso, senso che così diviene un Iinguaggio, specifica
oggettivazione del desiderio che costituisce il soggetto.
I linguaggi sono quindi opere o testi che interpretano i desideri del soggetto. La comprensione che si apre con
l'interpretazione e la reinterpretazione dei linguaggi storici è parte della comprensione, che si rinnova sempre.
5.4 un’intuizione aurorale del senso dell’educare
Nella situazione originaria cui è consegnato, ogni soggetto trova sé stesso piuttosto come un oggetto; egli, per
essere autenticamente un soggetto, deve rispondere di sé proprio nella qualità di attore protagonista delle
proprie azioni e attivo propositore delle sue parole. Si tratta, in buona sostanza, di prendere in mano la propria
vita e di rispondere di sé in prima persona, tentando dunque un’opera di personalizzazione della propria
esistenza; Ricoeur ne parla come del compito di “appropriazione di sé”.

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Il passo preliminare, da parte del soggetto, è di riconoscere lo stato di deiezione o alienazione, una sorta di 19
assenza di sé a sé, e di volerne prendere le distanze.

5.5 Funzione metodologica della prima ricognizione empirica


Nell'orizzonte della coscienza spontanea, la preoccupazione prevalente è quella relativa all'efficacia pratica; si
ragiona a partire dalle proprie certezze, presupposizioni, convinzioni personali e opinioni difuse, le quali
costituiscono un punto di partenza per la riflessione pedagogica, valendo come una sorta di guida o di criterio
orientativo per la ricerca. La ricognizione empirica ha dunque una funzione metodologica. L'esperienza
educativa si realizza sempre all'interno di relazioni interpersonali, storicamente e culturalmente connotate;
queste ricerche contengono spesso piccoli racconti di vita dei soggetti coinvolti in queste relazioni che possono
valere come ausilio per la formulazione di ipotesi di lettura o di lavoro.
5.6 un’evidenza d’ordine etico e assiologico
La predominante dimensione dell’avere o del possesso che la fa da padrone nel mondo tardo moderno, induce i
soggetti a percepirsi (e a venir percepiti) come oggetti, più che come soggetti; è un tratto prevalente che
possiamo qualificare come reificazione dell’esistenza, che porta con sé lo smarrimento del senso della qualità
singolare dei soggetti.
La reificazione coinvolge inevitabilmente anche
• il sapere tende ad ideologizzarsi, a non essere più misurato secondo un criterio di verità o falsità e a
tramutarsi semplicemente in “chiacchiera”
• il pensare subisce una vera e propria mortificazione: l’intelligenza pare diventare una potenza opaca e la
ragione sperimenta un’incapacità nel giudicare intorno all’infinito.
Quanto detto, per sancire e ribadire il valore incommensurabile della persona, del soggetto come persona, che
come tale è irriducibile alla proprietà delle cose e alla dimensione dell’avere; la persona giunge a presentare
così il carattere di
• un’evidenza morale: la persona è in sé un bene senza condizioni
• valoriale: valore che è degno d’esser riconosciuto solo per il fatto di esserci.

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Lezione 6
La pedagogia spontanea
Giuseppina D’Addelfio
La coscienza che si riflette si trova costituita dal senso perché si ritrova immersa nei mondi della vita cui è
consegnata alla nascita: famiglia, scuola, comunità sociale, dove il soggetto trova dei modi, considerati ovvi e
non problematici, di afrontare e risolvere i problemi, che sottendono nel loro essere tali delle interpretazioni
della realtà.
Tutto questo bagaglio di interpretazioni opera nei mondi della vita come un insieme di certezze indiscusse e
indiscutibili (in modo riflesso e automatico). È però necessario che vi sia un momento in cui avviare una
riflessione sul valore di queste certezze, ponendosi la domanda
ciò di cui sono certo è anche vero?
Tramite questa domanda, da un atteggiamento semplicemente naturale, si passa a un piano della ragion critica
(razionalità).
6.1 Atteggiamento naturale e pedagogia spontanea: le certezze
L'essere umano originariamente, è un soggetto che abita il mondo e che cerca di orientarsi in esso, ricercando a
diversi livelli un senso e un significato. L’essere umano che abita il mondo ha con esso un “commercio” – così si
esprime Heidegger – con il mondo, di tipo pragmatico: incontra le diverse realtà innanzitutto e perlopiù come
semplici mezzi da utilizzare. Ora, in questo commercio pragmatico con il mondo, l’essere umano è da sempre
accompagnato da un atteggiamento naturale ingenuo, pieno di certezze e modi di fare, e persino di ragionare,
che sono in efetti automatici e acritici; anche nelle pratiche educative è già da sempre contenuto un
certo sapere sull’educazione che chiamiamo
pedagogia spontanea
essa è quel sapere immediato, di tipo pre-riflessivo, non rigoroso ed organico, ma spesso efficace; raccoglie le
precomprensioni sull’ambito educativo: quelle comprensioni vitali e originarie che precede ogni altra possibile
comprensione di esso.
Anche le azioni educative si nutrono di dati per scontato: innanzitutto e perlopiù nell’educare, ci si lascia
guidare dall’atteggiamento naturale, senza problematizzare ciò che subito ne vediamo e sappiamo.
Questo genere di pedagogia può anche essere inteso come insieme di valori, opinioni, credenze e atteggiamenti
ritenuti certi che, in un dato contesto storico e geografico, di fatto strutturano l’idea di educazione, quindi di
persona ben educata, ma anche di buona prassi educativa e di buon educatore.
Questo sapere, sebbene abbia dei limiti, non va trascurato dallo studioso di pedagogia fondamentale; piuttosto,
è degno della massima attenzione.
Evidenziamone dunque alcune caratteristiche specifiche
• non è un sapere teoricamente elaborato, ma di un sapere incorporato nella pratica e nelle comunità.
Ciò implica almeno due corollari:
o il criterio di validità di questo sapere, proprio perché pre-riflessivo, risiede nell’efficacia pratica;
o se si vuol comprendere qualcosa della pedagogia spontanea, è necessario guardarla operare.
• in contesti ristretti e in società omogenee, la pedagogia spontanea appare come un sapere condiviso ed
intersoggettivo, che accomuna più persone. Innanzitutto in:
o senso diacronico: viene tramandata di madre in figlia;
o in senso sincronico: qualcosa dell’esperienza di educazione è generalizzabile;
o essa porta con sé un certo criterio etico-normativo, insieme con le pratiche educative, viene
trasmesso anche un certo ideale di umanità, ritenuto assiologicamente positivo.

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Possiamo dunque asserire che per chi asseconda le pratiche proprie della pedagogia spontanea non tutto va 21
ugualmente bene, specie quando si tratta di tirar su il proprio bambino.
6.2 le opinioni notevoli
Un ultimo aspetto della pedagogia spontanea merita di essere sottolineato: come ogni sapere condiviso in
modo automatico, esso si poggia sull’autorità indiscussa di alcune persone, che valgono spesso come figure
esemplari. Per comprendere questo aspetto del sapere spontaneo, può essere utile ricordare come
Aristotele
mostri che anche il ragionare filosofico muove dal senso comune, ovvero da ciò che egli definisce endoxa.
Si tratta di un particolare tipo di opinioni: le opinioni notevoli, ciò che appare a tutti, ai più o ai sapienti.
Secondo Aristotele, per trattare con adeguato rigore qualsiasi argomento non si può che muovere da esse. Ne
parla come di fenomeni e non come mere parvenze, facendo riferimento dunque ai modi in cui le cose
sembrano e si mostrano in modo evidente nei modi di pensare spontaneamente presenti nella vita quotidiana.
Nei suoi scritti Aristotele si mostra sempre molto rispettoso delle opinioni e dei saperi spontanei, convinto che –
specie se molto difusi – essi possano contenere la verità; in particolare, il sapere spontaneo costituirebbe il
punto di partenza per la ricerca della verità; non propone certamente un’apologia del pensiero dominante,
bensì – argomentando – ne rivela le intuizioni promettenti e le contraddizioni, le incongruenze e le confusioni, in
modo da procedere nella direzione di un’autentica conoscenza della realtà. Ovviamente, il rispetto per il senso
comune e per il sapere spontaneo non è per Aristotele assoluto e senza condizioni; non tutto ciò che viene
praticato come forma di educazione lo è e l'intuizione germinale di una verità non basta a giustificarla.
6.3 L’istanza veritativa: scoprire le incertezze e instituire il problema
Non è difficile pensare a molti esempi in cui una certa pedagogia spontanea, sebbene condivisa e confermata
da opinioni al loro modo “autorevoli”, ha fatto da premessa a ragionamenti pratici – quindi ad azioni
“educative” – ingiuste e persino violente. Non tutto ciò che viene inteso e praticato come forma di educazione,
lo è davvero.
La fenomenologia insegna che per sottrarsi e sfuggire ai dati per scontato, ai modi ovvi del vivere, occorre
impegnarsi per andare alle cose stesse, ovvero le cose nella loro essenza; questo genere di impegno si traduce,
tra l’altro, nel gesto dell’epochè: la sospensione del modo abituale di giudicare e delle certezze che lo
rendevano possibile. Infatti per il fenomenologo, occorre innanzitutto sospendere, mettere tra parentesi ciò
che sul mondo dicono l’atteggiamento naturale e il senso comune; solo così il soggetto comincia a vivere in
prima persona.
Ma come nasce questo primo gesto?
Non è improvvisamente e senza ragione che abbandoniamo tutte le nostre certezze spontanee; si tratta
piuttosto della conseguenza dell’urto della realtà sulla nostra vita. Heidegger in ciò è molto chiaro:
è l’inutilizzabilità del mezzo che ci sorprende e ci mette dinnanzi alla semplice presenza di qualcosa : smettiamo
semplicemente di occuparci di una cosa, considerandola solo mezzo da usare, e cominciamo a chiederci cosa sia
e quale sia il suo significato, proprio quando smette di funzionare e
lo stesso vale per le pratiche educative: un educatore mette in questione il proprio modo di intendere
l’educazione quando il suo solito modo di fare non funziona più, non può più essere utilizzato.
Il cammino dell’educatore viene dunque interrotto: egli vive una crisi che, come tutte le crisi, se percorsa sino in
fondo e in modo adeguato è innanzitutto rivelativa, perché porta allo scoperto ciò che rimaneva prima in
ombra, e può essere soprattutto occasione feconda di discernimento e di nuovo inizio.
In questo modo sta dunque facendo ingresso una modalità della riflessione che ha l’esigenza d’essere oggettiva:
coltiva l’ambizione di essere una riflessione che vale di più di una semplice opinione soggettiva o
intersoggettiva.
Per questo entra qui in gioco la possibilità del passaggio dalla pedagogia come semplice opinione ad una
pedagogia che aspiri ad essere scienza.
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6.4 pedagogia spontanea tra ieri ed oggi


Da quanto detto finora, emerge che la pedagogia spontanea viene messa in discussione quando qualcosa
rompe gli equilibri abituali dell’educare, le consuete modalità di cura e trasmissione che la coscienza spontanea
aveva, fino a quel momento, ritenuto educative.
Nel nostro tempo, molte sono le circostanze che mettono costantemente in questione la pedagogia spontanea,
e ciò in ragione della rottura del patto tra le generazioni che ha reso più complessa la trasmissione, ma anche la
condivisione educativa:
o ci sono conflitti più che alleanze fra genitori;
o l’incontro tra culture diverse deve anche essere inteso come incontro fra persone che vengono da
mondi della vita diversi da quelli per noi abituali e hanno trovato, come dato per scontato a cui sono
stati consegnati, altre premesse incorporate nelle pratiche educative.
Soprattutto nell’ambito della formazione della persona, è molto facile e insieme pericoloso restare imbrigliati in
un miscuglio di credenze spontanee, basate a volte su banalizzazioni e stereotipi.
6.5 limiti e valore della pedagogia spontanea
L’impegno di conversione dell’intelligenza e del volere da cui solo può nascere la pedagogia come scienza,
comincia con la messa fuori circuito della pedagogia spontanea.
Non si tratta di una cosa che si può fare facilmente, tuttavia è un impegno particolarmente importante per
l’educatore.
La pedagogia spontanea è un’arma a doppio taglio, in quanto racchiude in sé rischi e risorse per la pedagogia
come scienza:
o Il primo rischio è dato dalla sua stessa esistenza: poiché l’educazione è un fenomeno umano universale,
tutti si sentono abilitati a dirne qualcosa; avvertono, non senza ragione, di saperne qualcosa. Inoltre tutti
di educazione sanno dire qualcosa in particolare di fronte alle situazioni più controverse e
problematiche, perché la pedagogia spontanea è più facilmente un sapere destruens. Ma per
l’educazione c’è un vitale bisogno di saperi capaci di costruire, non solo di demolire.
o Un altro limite della pedagogia spontanea è la sua poca accuratezza: generalizzando, vede le somiglianze
ma non le diferenze. Spesso cade in generalizzazioni e scade in “ricette”, come se nei contesti educativi
si potessero replicare strategie e modi di comportamento; diciamo subito che l’irripetibilità della
persona non lo permette, soprattutto, ad un certo punto l’educazione ha bisogno di un sapere che ofra
nuove certezze o, meglio, certezze diversamente fondate.
Gli educatori vorrebbero un fondamento saldo a cui ancorare le loro pratiche: non una certezza dogmatica, ma
un criterio di senso. Gli educatori più accorti – in altre parole – vorrebbero una prova, che sia capace di portare
la verità ad evidenza.

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Lezione 7
Una forma di razionalità pratica
Giuseppina D’Addelfio
Nel delineare la genesi della pedagogia come scienza nei mondi della vita, lo studioso di pedagogia è definito
uomo di scienza poiché è lui che intende studiare i fenomeni educativi cioè legati ad un’esigenza di
educazione. Chi studia pedagogia, trova già una base su cui lavorare infatti si dice che prima c’è l’educazione e
solo dopo la pedagogia. Tale afermazione è una regola interna alla pedagogia come scienza specifica ed
autonoma.
La pedagogia come scienza è definita progettuale in quanto non si occupa solo dell’essere ma, anche e
soprattutto, del poter essere: l’educatore guarda il bambino con uno sguardo rivolto al futuro cercando di
capire chi potrebbe diventare un giorno quel bambino. Questo è un modo anche per scardinare certe idee che
alcune persone hanno di sé, soprattutto quando il soggetto viene sottovalutato e reso insicuro
1 Il significato dell’espressione pedagogia fondamentale: base empirica e
fondamento teoretico
Il termine pedagogia fondamentale, proprio per questo motivo: è proprio il fondamento che viene cercato
all’interno di un individuo: la profondità di senso, che in qualche modo trascende l’esperienza pratica
dell’educare; ha base empirica, avendo la sua genesi nell’esperienza concreta; tuttavia non pone come suo
criterio di riferimento ultimo quello dell’evidenza empirica o della ricorrenza statistica, pertanto non può
definirsi una “scienza empiriologica”.
Quanto detto per precisare che la pedagogia
• non può esser intesa e praticata come una delle scienze “dei dati di fatto”, registrabili osservando ed
eventualmente controllando l’esperienza.
• nemmeno di una scienza eidetica tesa a raccogliere l’essenza: totalmente libera da qualunque posizione
dei dati di fatto e da qualunque riferimento all’esperienza concreta;
ma è nell’efettività dei mondi della vita che la pedagogia ha genesi propria ed inoltre il nesso all’esperienza si
rende altresì necessario per quel che riguarda la progettazione del nuovo, del poter essere.
In altre parole, base prima e destinazione ultima della scienza pedagogica è l’esperienza concreta
dell’educare; ma questa esperienza non ne è il fondamento.
Husserl
annovera la pedagogia fra le discipline tecnico-pratiche che possiede un carattere ibrido, il quale conferisce
loro un’universale ambiguità che il senso comune spesso fatica a considerarle scienze.
L’obiettivo della sua riflessione dell’etica è di guardare nelle nostre preferenze individuali e psicologiche verso la
vita spirituale in cui l’uomo vive in prima persona la propria vita da autore e da attore.
La pedagogia:
come scienza nasce da un orientamento come riflessione teorica nasce nell’intento di
originariamente pratico, cioè da quello di un uomo portare un qualche giovamento a quest’uomo e alla
pratico, l’educatore. sua pratica.

Da questi due aspetti emerge che nella pedagogia ha molto di extrateoretico, quindi di esperienza, ma che essa
intende ofrire ancoraggi oggettivi alla pratica.
Husserl spiega che “i più essenziali fondamenti teoretici di una tecnologia della ragione devono essere sovra
empirici”.
Il termine teoretico non si intende qualcosa di astratto svincolato dalla vita, ma è quello di chi si ferma e,
sostando, contempla in modo disinteressato, cioè senza farsi guidare da istanze di utilità ed efficacia.

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2- 3 La pedagogia fondamentale e la filosofia pratica e saggezza pratica
Che cosa significhi atteggiamento teoretico può essere ulteriormente chiarito nell’espressione: ragion pratica.
Aristotele usa l’espressione ragione pratica in due diverse accezioni:
• scienza pratica: il pedagogista come uomo di scienza: filosofo greco distingue le scienze in
o pratiche l’agir bene esemplificato dall’uomo buono
o poietiche il saper fare, cioè in modo competente con l’esempio del buon “technico”
o teoretiche la contemplazione delle realtà immutabili di cui si occupa il sapiente.
Dunque sia l’agire, sia il fare riguardano ciò che non rimane sempre lo stesso, ma può essere diverso da come
è: la nostra vita di esseri umani è contingente, dunque molto dipende da noi, ma molto altro non dipende da
noi. Come aferma Aristotele, “non in tutto si può cercare lo stesso rigore” infatti, bisogna utilizzare un metodo
di misurazione lessibile che si adatti all’esperienza (es. regolo di lesbo pag153). Secondo Aristotele la
scienza pratica deve quindi fare riferimento agli endoxa (fenomeni) cioè deve fare i conti con il modo di
fare/pensare della gente.
• saggezza pratica: l’educatore come uomo pratico; permette di realizzare, di volta in volta, le diverse
virtù etiche. Una volta aver riconosciuto un fine buono, ogni educatore deve ragionare e calcolare quali siano i
mezzi migliori per raggiungerlo.
Nell’etica Nicomachea, Aristotele spiega che
o l’uso teorico della ragione ha come scopo la sola conoscenza della verità, mentre
o l’uso pratico della ragione ha come scopo l’accordo tra la verità, il bene e il desiderio da cui scaturisce
l’azione.
La scienza pedagogica può supportare la saggezza di chi è chiamato a ben deliberare, a decidere e operare in
situazioni che sono sempre diverse e spesso cambiano rapidamente.
La pedagogia fondamentale può rendere l’educatore più capace di riflettere sul proprio vissuto, personale e
professionale, e di compiere un’ermeneutica della pratica, cioè una lettura di essa orientata all’accoglimento
del senso e di nuovi significati e di nuovi interventi possibili.
4 I momenti della pedagogia fondamentale: primo schema
Indichiamo dunque i tre momenti sempre presenti in una riflessione di pedagogia fondamentale:
• Il primo momento è quell’inventario o rapsodia dell’esperienza che ha il carattere di una ricognizione
empirica e problematica: l’esperienza comincia ad essere descritta, con i suoi punti critici e le sue aporie, ma
anche domande di senso, novità e risorse. A tal fine, ci si serve anche di indagini statistiche e statistiche e dei
vissuti dei soggetti con la loro pedagogia spontanea . In seguito alla prima ricognizione dell’esperienza, lo
studioso di pedagogia fondamentale coglie l’esigenza di portare a chiarezza la problematicità, le ambiguità e le
risorse emerse, di far ordine tra concetti confusi e organizzazioni poco coerenti per afrontare l’inutilizzabilità
di certi modi di fare consolidati e fino a poco tempo prima ritenuti certi e naturali.
• Il secondo momento è di riflessione e analisi critica costituisce un approfondimento rispetto alla
semplice rassegna della vita efettiva e dell’opinare pre-riflessivo che la anima: grazie all’epochè, lo studioso
di pedagogia fondamentale entra in una riflessione critica che gli consente di prendere una prima distanza
dall’atteggiamento spontaneo e naturale, evitando stereotipi e generalizzazioni. Accogliendo i contributi delle
altre scienze difatti, l’obiettivo non è quello di riassumerne i risultati, bensì di giungere a prime osservazioni
critiche che sono spesso, rispetto alle istanze proprie della scienza pedagogica, ipotesi provvisorie.
• Il terzo momento è la fondazione pedagogica. Esso si articola ulteriormente in due momenti:
o quello teoretico interessato a cogliere il che cos’è? è utilizzato per spiegare adeguatamente le direzioni
metodologiche per la prassi educativa
o quello prassico-poietico interessato ad esplicitare il come? L’operare concreto dell’educatore con la
propria ragion pratica e con la sua saggezza. All’aggettivo prassico leghiamo poi “poietico” con riferimento alla
poiesis, nome con cui la filosofia greca indicava “il fare”, “il generare qualcosa di nuovo”.
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5 Note sul ritorno prassico-poetico all’esperienza
La pedagogia fondamentale ha principalmente due fini:
• tracciare i profili essenziali dell’educare e, a partire da questi,
• tracciare direzioni per la prassi (la teoria del metodo), che siano applicabili ai mondi
efettivi dell’educazione.
Volendo fare un esempio, ipotizziamo di essere ad un incontro di formazione per genitori e di far riflettere
loro sul termine “empatia”. A questo punto (sempre ipotizzando), un genitore potrebbe esprimersi dicendo
è bellissimo questo discorso sull’empatia, ma io ora torno a casa, e come faccio con mio figlio più grande che
proprio non riesco a capire?
È proprio da quel come che noi dobbiamo capire che la pedagogia non può essere solo ricerca sull’educazione.
Essa deve essere al contempo, per l’educazione, cioè essere di giovamento (come diceva Husserl). Infatti, non
si tratta di dispensare “ricette” per educare ma compito dello studioso di pedagogia è evidenziare che le
“ricette”, sono più proprie dei saperi irriflessi: ereditati in modo acritico da autorità indiscusse che vanno
ascoltati ma non assolutizzati.
Piuttosto, la pedagogia, in quanto scienza, può aiutare i cosiddetti “pratici” a fare un’ermeneutica del loro
fare, una sua lettura critica e orientata a cogliere nuovi sensi, cioè nuove direzioni.

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Terza Unità
Il costruirsi della pedagogia come scienza distinta
epistemologia della pedagogia
Lez. 8 Un nuovo codice epistemologico
1 Una rottura epistemologica
Nella storia della pedagogia occidentale, per afrontare razionalmente il problema pedagogico, si è sempre
fatto riferimento ad un codice epistemologico di tipo filosofico. Questo perché per gran parte della storia, la
pedagogia è stata considerata parte della filosofia, una sorta di “philosophia secunda”, in ragione del fatto che
l’educazione di una persona è pur sempre un’impresa filosofica.
Oggi però la pedagogia ambisce a porsi come scienza autonoma, cioè distinta dalle altre scienze, e
soprattutto, dalla filosofia che per anni è stata sempre un passo avanti.
La vera domanda a questo punto è:
Tra filosofia e pedagogia c’è una relazione contingente, oppure si tratta di un rapporto costitutivo,
dunque necessario?
Durante il XX secolo si è prodotta una vera e propria rottura epistemologica dalla quale sono emersi i limiti
critici di un paradigma puramente filosofico e la necessità di pensare ad un paradigma scientifico che vede la
pedagogia come scienza dell’educazione.
Afrontandolo esclusivamente come problema filosofico: il problema educativo tende a non essere visto nella
sua specificità; esso è riportato ad una logica astratta che non apprende dall’esperienza, ossia dalla realtà.
La scienza, invece, in quanto è garanzia dell’esperienza, può sostenere l’impegno critico di ridurre il fenomeno
a sé stesso permettendo di distinguere nell’esperienza tratti di carattere solo contingenti e tratti invece che
sono necessari. È quanto con il linguaggio della fenomenologia si chiama definizione dell’essenziale. intuizione
eidetica
2 Verso la configurazione di un nuovo codice
Nella storia della pedagogia moderna, tanti filosofi hanno cercato di pensare la pedagogia in autonomia dalla
filosofia (es. Comenio, Rousseau, Pestalozzi…) ma solo durante il secolo scorso si è verificata una vera e
propria novità epistemologica che ha cambiato il modo di pensare la pedagogia.
All’inizio e per tutta la prima parte del XX°secolo, due grandi impostazioni sembrano idealmente fronteggiarsi:
G. Gentile con l’idealismo attualistico che tentò di J. Dewey con la pedagogia pragmatista, concepì la
inglobare la pedagogia nella filosofia. filosofia nella sua essenza in senso storico ed
esistenziale, come un atto pedagogico; fondando la
formazione e l’educazione esclusivamente sulla
ragione pratica, senza il riferimento al fondamento
teoretico.
Oggi, potremmo ricomprendere queste due impostazioni in una sintesi che da un lato deve afermare la
legittima autonomia della riflessione pedagogica e in essa un peculiare primato del pratico con Dewey;
dall’altro lato possa ritrovare il significato costitutivo di un nesso con la filosofia come sapere teoretico,
poietico e pratico e come stile esistenziale Gentile.
Tenendo presente quanto è accaduto nel nostro paese, è possibile distinguere quattro momenti o tappe
dell’evoluzione pedagogica nella seconda metà del secolo scorso; sono dei momenti reali, documentabili
storicamente, ma possono essere considerati anche momenti ideali, perché svoltisi all’interno di una vicenda
trascendentale:

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• una pedagogia sperimentale in un primo momento è sembrato che, per fare della pedagogia una
scienza autonoma, fosse necessario e sufficiente applicare il principio della sperimentazione alle
azioni educative. Per questa posizione, in sintesi, la pedagogia diviene scienza distinta solo diventando
pedagogia sperimentale; ciò conducendo ad una volontà di superamento di ogni residuo metafisico
presente nel codice epistemologico della pedagogia.
• La critica dell’ideologia pedagogica A cavallo tra gli anni ’60-‘70 la pedagogia è stata vista soprattutto
nel suo aspetto di ideologia funzionale agli interessi del potere nelle società; è la posizione critica
radicale della cosiddetta anti-pedagogia, che ha messo in questione l’esistenza stessa della pedagogia.
L’orizzonte è sempre quello positivistico e neopositivistico: hanno senso solo le ricerche
sperimentali, ma una pedagogia generale presenta solo un carattere ideologico. Si può parlare di
scienza solo accogliendo i presupposti di una teoria critica della società.
• Il principio di specificazione: l’educazione è percepita nella sua irriducibile complessità Risulta allora
necessario accostarsi ad ogni aspetto specifico con un metodo altrettanto specifico, a ciascuno
adeguato; e anziché di pedagogia generale, si dovrà parlare di “scienze dell’educazione”, molteplici
diferenziate scienze specifiche applicate allo studio dei fenomeni educativi. Alla pedagogia generale
resterebbe solo il ruolo di coordinamento fra i diversi ambiti disciplinari, costituendone una sintesi.
• La pedagogia come ontologia regionale Nell’ultimo decennio del secolo passato è emersa in forma
rinnovata l’esigenza di una pedagogia generale come specifica scienza umana applicata allo studio
dell’educazione, autonoma rispetto alle altre scienze dell’educazione, ma non autarchica, costituita
piuttosto dal dialogo critico con esse. C’è un ritorno negli anni Novanta al ritorno della pedagogia
generale come ontologia regionale, il cui compito è la ricerca e la giustificazione di senso dei fenomeni
umani in quanto sono educativi. La pedagogia è una scienza umana (o meglio, UMANISTICA): essa
assume la realtà umana dell’educazione, adeguandosi e prendendo forma dei vari stili, forme e
linguaggi, ma soprattutto prediligendo l’esperienza personale dell’educazione. Essa è elaborata nella
presupposizione e indirizzata verso l’umanizzazione, per l’emancipazione e la personalizzazione
dell’esistenza; tutte categorie che valgono come “a priori di senso”.

In conclusione, è opportuno afermare che il codice epistemologico che presiede all’esser scienza della
pedagogia fondamentale è segnato da una convivenza feconda tra il paradigma scientifico vigente all’interno
delle scienze dell’uomo e un paradigma filosofico chiamato ad assumere le domande sul senso e quelle sul
valore e sul bene

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Lezione 9 Breve storia dell’epistemologia pedagogica moderna
È bene ricordare che il passaggio da una pedagogia “filosofica” ad una di stampo scientifico sia da collocarsi
sostanzialmente nel periodo che va dal XVII al XVIII secolo; l’Europa moderna è stata infatti attraversata da
una rivoluzione educativa che ha gettato le basi per una pedagogia intesa come sapere codificato.
Comenio
Nel ‘600 fece un primo tentativo di riflessione organica ed autonoma sull’educazione e sulla didattica: nella
sua prospettiva la pedagogia non doveva più essere considerata un’appendice di altri saperi, ma doveva
costituirsi come didattica, cioè come metodologia dell’educazione il cui fine era lo sviluppo integrale della
personalità dell’educando, posto al centro del processo formativo. Compito di una retta educazione sarebbe
quello di promuovere uno sviluppo armonico delle facoltà umane che renda l’uomo quanto Dio gli ha concesso
di essere, destinandolo ad essere partecipe della Sua eternità.
La sua pedagogia era senz’altro anticipatamente inclusiva: superando ogni genere di discriminazione, metteva
in campo un’educazione e un’istruzione rivolte a tutti.
Il contributo maggiore oferto da Comenio fu la sua teorizzazione didattica che conferiva autonomia e
scientificità alla pedagogia; ciò che andava ricercato era il fondamento di ogni possibile educazione attraverso
un’interpretazione razionale della didattica, che egli definiva docendi artificium (l’arte di insegnare), per
indicare che si trattava di una costruzione intenzionale volta a realizzare un fine determinato e che
comprendeva l’oggetto, cioè l’insegnamento, e le strategie attraverso cui realizzare i propri obiettivi.
Nel tentativo di rendere la pedagogia un sapere con una sua specificità, Comenio andava oltre la concezione
tradizionale di istruzione: egli fissava alcuni principi a fondamento del sapere pedagogico, dei precisi criteri
didattici atti a formare nell’educando una personalità autonoma attraverso lo svolgimento delle sue
peculiarità specifiche.
Nella sua Didactica Magna, diceva che, essendo l’uomo immagine di Dio, possiede già in sé i germi della
conoscenza; dunque l’obiettivo dell’educatore è quello di tirar fuori questi germi in maniera naturale.
Mediante la gradualità e la ciclicità veniva posta enfasi sulla necessità di seguire i ritmi di maturazione
dell’alunno e di arricchire l’apprendimento delle conoscenze riferendole alle cose date dall’esperienza.
Secondo l’ottica del pastore protestante, l’insegnante avrebbe dovuto seguire l’armonia della natura, senza
voler imporre al discepolo una propria idea di sviluppo; è la natura che mostra all’uomo una via ciclica in base
alla quale ogni apprendimento non si compie in modo perfetto e chiuso, ma si realizza come sviluppo che
porta al miglioramento di capacità già presenti sin dall’inizio del processo.
Alcuni dei principi fondamentali di Comenio vennero rielaborati da quei filosofi e pedagogisti che – nei secoli
successivi – avrebbero adattato le sue teorie alle esigenze del momento storico.
Rousseau
Tuttora considerato il padre della pedagogia contemporanea intesa come sapere autonomo, operò una svolta
epocale, che faceva del bambino il protagonista principale dell’educazione e della formazione dell’uomo
naturale, contro la tradizionale logica adultistica.
Il filosofo sosteneva l’esistenza di una netta distinzione tra
l’uomo naturale che usciva dalle mani del Creatore
e per questo era buono
l’uomo civile che risentiva della nefasta influenza
della società, che rovescia e trasforma tutto.

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Intendeva individuare forme educative volte alla valorizzazione dell’uomo naturale, forme che presentò
con chiarezza nell’Emilio (1762): un’opera considerata il manifesto o l’atto di nascita della pedagogia
moderna, trattato sulla bontà originaria dell’uomo e ambientato in campagna, luogo che meglio si
prestava a preservare l’originaria innocenza e la naturale bontà del protagonista; assegnava alla
pedagogia l’importante funzione di avviare la rinascita dell’uomo morale e il risanamento della società,
indicando nel metodo
dell’educazione negativa – che riduceva ogni intervento esterno e
nell’educazione positiva – che poneva il proprio fine nell’uomo stesso e nella propria autonomia morale
la strada da percorrere.
Va sottolineato come il filosofo, con l’Emilio, abbia operato l’importante scoperta del sentimento
dell’infanzia, andando in questo modo contro l’educazione del tempo che accusava di adultismo, poiché
non rispettava il bambino nella sua identità, ma lo considerava solo in vista dell’adulto che sarebbe
diventato.
Il suo metodo educativo veniva costruito a partire dall’intuizione per cui non si doveva accelerare lo
sviluppo del bambino ma seguirne l’evoluzione naturale, anticipando così idee che sarebbero state
centrali nell’attivismo pedagogico e nella psicologia evolutiva del Novecento. L’educazione non era per
Rousseau precettistica, ma scoperta autonoma dell’allievo: il precettore non doveva “dare precetti ma
farli trovare”, mostrandosi in grado di conoscere la natura dell’educando e di comprenderne la
personalità e i bisogni, accompagnando gradualmente il suo sviluppo naturale. Seguendo il metodo
dell’educazione negativa,
• nella prima educazione (da 0 a 12 anni), dedita alla conoscenza dello sviluppo sensoriale; il
precettore non doveva imporre alcunché all’educando in modo diretto, piuttosto aiutarlo ad
eliminare le cattive influenze e gli impedimenti imposti dalla società. Si trattava di un’educazione
che non va interpretata come permissiva, ma come educazione a una libertà che comunque non
eliminava l’autorità del precettore;
• nella seconda età educativa (dai 12 ai 15 anni), il precettore doveva essere più presente con il
suo intervento positivo finalizzato allo sviluppo delle conoscenze intellettuali;
• nella terza età educativa (dai 15 ai 20 anni), doveva svolgere il compito di preparare l’educando
alla vita sentimentale, sociale, morale, religiosa ed estetica. L’ultimo compito del precettore era
la formazione politica, che avrebbe reso l’educando un buon cittadino capace di scegliere
liberamente il contratto sociale al quale sottomettersi e di creare una propria famiglia.
Il precettore, svolgendo il ruolo di tutor, nei fatti finiva con il manipolare continuamente il suo allievo
attraverso una serie di stratagemmi, orientandone la spontaneità e la libertà, che erano quindi categorie
astratte piuttosto che frutto di un’educazione che si realizzava come sviluppo concreto.
L’educazione sociale e politica rappresentava il coronamento del processo formativo descritto
nell’Emilio; dopo aver compreso il rapporto con la natura e i rapporti morali con gli uomini, l’educando
giungeva a comprendere i rapporti civili.
Il Contratto sociale aveva il compito di chiarire i fini politici e giuridici della pedagogia di Rousseau,
ovvero la realizzazione nel mondo sociale della libertà e dell’uguaglianza che appartengono già al mondo
della natura
Progetto pedagogico e progetto politico, nella riflessione del filosofo, erano pertanto intrecciati:
l’Emilio e il Contratto sociale, infatti, si integravano nell’utopia rousseauiana di una rifondazione della
società attraverso il rinnovamento dell’individuo.
L’Ottocento
fu definito il secolo della pedagogia, poiché fu attraversato da una rivoluzione culturale che vide la
difusione di nuove teorizzazioni e di diversi modelli educativi che intensificarono la riflessione
sull’identità della pedagogia. Se da un lato prevalse l’orientamento romantico, che vedeva
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nell’educazione il momento centrale della formazione dello spirito, non mancarono tuttavia altre
filosofie, come quella del Positivismo, che considerava la scienza pedagogica una sintesi di più discipline.

Pestalozzi
(fine 700- inizio 800) influenzato inizialmente dalla pedagogia di Rousseau, di cui condivideva l’originaria
bontà dell’uomo e l’idea di educazione negativa come processo naturale – andò maturando l’idea di
un’educazione positiva, popolare e sociale, rivendicando l’importanza dell’istruzione, dell’intuizione e
della gradualità, cioè dell’origine esperienziale di ogni insegnamento.
La sua riflessione ha avuto il merito di fare della pedagogia un sapere sull’educazione intesa come
formazione umana insieme spirituale e socio-politica: poiché l’uomo è dato dall’unità di “cuore (attività
etico-religiosa), mente (attività teoretica) e mano (attività tecnico- pratica)”, la sua formazione deve
essere integrale, riguardare cioè la sfera morale, quella intellettuale e quella professionale. A ben
guardare, in Pestalozzi la pedagogia assumeva i tratti della scienza contemporanea nel tentativo di
superare la sua tradizionale derivazione dalla filosofia, privilegiando il ricorso all’esperienza e indicando
un metodo.
Herbart
per primo comprese in modo chiaro la necessità che la pedagogia si costituisse come scienza
caratterizzata da sistematicità e adeguati strumenti di controllo, distinguendola da un’educazione intesa
come arte.
Sosteneva che la pedagogia, pur essendo una scienza filosofica, aveva oggetti e fini diversi dalla filosofia,
ovvero il “governo dei fanciulli”. Essa era pertanto una scienza pratica applicata, che implicava il
riferimento all’esperienza e che veniva elaborata grazie al rapporto con la psicologia e con l’etica ; cercava
in questo modo di salvare la scienza pedagogica da un lato dal rischio di un riduzionismo naturistico che
avrebbe ricondotto la sua scientificità alle scienze naturali, dall’altro lato ad un riduzionismo metafisico
che, identificando pedagogia e filosofia, avrebbe continuato a privilegiare un’impostazione teoretica di
una scienza che avrebbe invece base empirica.
L’educazione non poteva realizzarsi senza l’istruzione, anche se i contenuti di quest’ultima dovevano
essere collegati con la multilateralità degli interessi presenti negli educandi, sui quali costruire un
curriculo che seguisse un procedimento conoscitivo ordinato. L’interesse era considerato un fenomeno
psichico che aveva una sua intrinseca capacità formativa e che toccava all’educatore scorgere e
orientare. Per questa ragione venivano indicati due gruppi di interesse:
• il primo riguardava la conoscenza e si riferiva all’attività teoretica sulla natura (interessi empirici)
o alla valutazione morale ed estetica (interessi estetici);
• il secondo faceva riferimento alla compartecipazione, cioè al rapporto con ogni singolo
individuo (interessi simpatetici), con la collettività (interessi sociali) e con Dio (interessi religiosi).
Il fenomeno educativo aveva come suo centro l’incontro tra l’educatore e l’educando, il cui rapporto
doveva basarsi:
• sul governo sulla disciplina esterna, necessaria per l’incapacità iniziale dell’educando di
autogovernarsi;
• sull’insegnamento sull’istruzione, che aveva come fine quello di suscitare nel soggetto
l’autoformazione;
• sulla coltura morale sull’educazione, che aveva il compito di consolidare e coltivare la virtù
dell’educando.
La pedagogia herbertiana dava poi molta importanza ai luoghi dell’educare considerati i due ambienti
sociali decisivi per l’esperienza educativa:

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• la famiglia era ritenuta il primo ambiente educativo che garantiva la crescita individuale del
bambino, anche se il suo limite era dato da una pedagogia spontanea fondata su capricci o mezze
conoscenze;
• la scuola, pur essendo un ambiente educativo necessario perché assicurava a tutti un’istruzione,
non poteva comunque sostituirsi alla famiglia nell’ofrire un’educazione attenta ad una crescita
individualizzata dell’educando.
I motivi più innovativi della proposta pedagogica herbertiana furono senza dubbio la scientificità del
metodo educativo, la necessità che l’aspetto pratico dell’educazione fosse sostenuto da quello teorico,
l’insistenza sulla priorità del rapporto fra l’educatore e l’educando, il ruolo formativo della famiglia e
quello educativo della scuola, il valore attribuito alla persona dell’educando, l’attenzione ai suoi bisogni e
il rispetto dei suoi ritmi individuali di crescita.
Positivismo
periodo storico che nasce in Francia nel 19°secolo con Auguste Comte esso ebbe il merito di riproporre,
in modo simile ad Herbart, il problema di dare uno statuto scientifico alla pedagogia, della quale veniva
esaltata la sua funzione di sintesi e di coordinatrice di tutte le scienze con cui si trovava in dialogo.
In questo periodo di grande esaltazione della scienza e delle tecniche, la pedagogia veniva indagata
come un fatto di natura, nella convinzione che si potessero indicare delle norme dell’educazione così
come si formulavano le leggi della natura, quasi come se essa potesse essere ridotta ad un oggetto delle
scienze naturali.
Il momento più importante della pedagogia era considerato quello concreto, cioè il momento
educativo.
Nonostante i meriti evidenti che vanno riconosciuti al Positivismo, in particolare quello di aver tentato di
fare della pedagogia una scienza, vanno anche indicati alcuni limiti:
• privilegiando il metodo unico delle scienze esatte, la pedagogia correva il rischio del
“riduzionismo naturalistico”, cioè di sostituire alla sua dipendenza secolare dal sapere filosofico
una nuova dipendenza che non le avrebbe garantito l’autonomia annunciata.
• prevaleva così lo “scientismo”, cioè l’idea che la scienza potesse spiegare in modo inconfutabile la
problematicità e la complessità della realtà educativa.
• la pedagogia positivista non distingueva l’educazione dall’istruzione e considerava quest’ultima
indispensabile per la formazione della persona, rischiando di fare dell’insegnamento una pratica
nozionistica ed enciclopedica.
• nonostante il proposito fosse quello di elaborare un pensiero laico, antidogmatico e
antimetafisico, anche il Positivismo ricadeva nel modello sistematico e metafisico, proponendo
un’idea di scienza dogmatica in quanto “sapere certo, invariante e costitutivo di progressive
certezze”.
• era ancora alla filosofia, anche se della scienza e del metodo, che veniva affidato il ruolo di guida
del sapere pedagogico.
Risorgimento
Un periodo storico che non riguardò solo l’ambito politico ma anche la cultura e l’educazione.
La pedagogia era orientata ad educare il popolo, nella convinzione che la grandezza e l’unità di uno Stato
fossero collegate al sentimento nazionale dei cittadini. Si trattava pertanto di promuovere un’educazione
nazionale e popolare capace di formare gli italiani agli ideali della nazione; all’educazione veniva
assegnata una funzione politica, che richiedeva l’impegno non solo degli educatori, ma di tutti gli uomini
di cultura, che si sentivano chiamati a svolgere una missione civile.
La pedagogia si intrecciò pertanto con le istanze politiche, sociali e religiose che caratterizzarono il
movimento di indipendenza e di unificazione nazionale.

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All’interno di un così vasto e variegato movimento pedagogico è comunque possibile cogliere tre diversi
indirizzi:
• L’educazione nazionale e popolare di
Cuoco L’educazione popolare di doveva risvegliare la coscienza nazionale e civile degli italiani,
non uno strumento di livellamento sociale, ma un mezzo capace di condurre il popolo verso
un’autentica autonomia e un’incondizionata libertà spirituale.
Giuseppe Mazzini auspicava un sistema di istruzione scolastica generale, obbligatorio, laico e
gratuito che doveva essere garantito e controllato dallo Stato; un’educazione che dovesse basarsi
sull’osservanza di quattro doveri fondamentali:
verso l’umanità, verso la patria, verso la famiglia e verso sé stessi;
naturalmente era necessario tradurre questi doveri in azione grazie ad un impegno personale e
costante, che non escludesse in taluni casi anche l’estremo sacrificio.
• La pedagogia toscana
Nello stesso periodo, la Toscana fu interessata ad un vasto movimento culturale che si
concretizzò in iniziative di tipo pedagogico-educativo. Fra gli altri si distinsero:
Gino Capponi una pedagogia rivolta alla critica del didatticismo che caratterizzava l’educazione
del tempo, ovvero l’eccessiva fiducia nei metodi educativi – premi, castighi o procedure – che egli
considerava artificiosi; la prassi educativa, invece, doveva seguire lo sviluppo integrale dello
spirito, dirigendosi in primo luogo al sentimento: educare al sentimento significava educare alla
volontà del fanciullo, rispettandone la spontaneità e la personalità.
Lambruschini si proponeva di afrontare il problema dell’istruzione del popolo proponendo
un’educazione paternalistica che assicurasse ai ceti popolari, migliori condizioni di sostentamento
e onesta condotta. L’educazione religiosa veniva considerata il fondamento di ogni altra
educazione e doveva realizzarsi non come osservanza passiva di precetti e riti, bensì come un
incontro interiore con Dio.
Il problema educativo più sentito dal Lambruschini fu il rapporto tra autorità e libertà che
riguardava ogni relazione educativa: quella del maestro doveva essere intesa come un’autorità
liberatrice del fanciullo, orientata ad aiutarlo a dispiegare le proprie potenzialità in modo
spontaneo. L’educatore era chiamato a intervenire attraverso un’educazione diretta
(suggerimento, proibizione, comando) ed una indiretta, che poteva essere negativa, nel caso in
cui il maestro si assicurava di tenere lontano il fanciullo dalle influenze negative e da esempi
nocivi, ma anche positiva, quando egli prevedeva che il fanciullo fosse esposto ad influenze ed
esempi positivi.
Il successo educativo dipendeva però dall’educatore e dall’atteggiamento che egli avrebbe
assunto nei confronti dell’educando: egli doveva amare i suoi scolari con la necessaria fermezza,
essere giusto e mai presuntuoso, attento e rispettoso.
• La pedagogia cattolica
Si sviluppò in Piemonte all’interno della quale si distinsero:
Rosmini la cui riflessione si svolse attorno a due tematiche
centrali: la necessità di un’educazione unitaria
l’individuazione di una strategia di
insegnamento fondata sui principi della
conoscenza umana.

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Egli ritrovava nella religione cattolica l’unità dei fini, poiché ogni insegnamento doveva essere rivolto a
Dio; nelle scienze l’unità delle dottrine, poiché tutte le scienze sono volte a far comprendere ed
accettare la religione.
Nella sua opera, Rosmini elaborò una metodologia educativa da seguire per far procedere il fanciullo
dal noto allo sconosciuto: non bisognava partire dal singolo oggetto, ad esempio dalla rosa, per poi
risalire al concetto di pianta ma, viceversa, cioè partire dal concetto di pianta (generico) per poi
discendere al concetto della singola rosa. In questo modo il fanciullo esercitava la capacità di cogliere
nel particolare anche i concetti più generali.
Propose una pedagogia dell’infanzia che, rousseauianamente, rispettasse la crescita autonoma del
fanciullo secondo regole proprie e non in conformità a regole adulte.
Don Bosco, fondatore dell’ordine dei Salesiani, con
il sistema preventivo dedicò la sua opera all’educazione dei giovani; adottò una serie di pratiche che
ponevano in essere un’educazione non repressiva il cui scopo era suscitare energie di bene.; un
progetto pedagogico che mirava alla promozione nei giovani in una crescita sul piano sociale, culturale,
religioso ed umano, preoccupandosi di proteggerli dai pericoli dovuti ad un difuso abbassamento della
moralità e alle condizioni sempre più difficili dei luoghi di lavoro.
Valorizzò il lavoro come strumento di formazione della persona e sperimentò il metodo della
prevenzione nei laboratori istituiti all’interno dell’Oratorio.
Lo scopo dell’educazione preventiva non era semplicemente quello di suscitare nelle giovani energie
positive ma, aiutare i ragazzi a ben vivere come “buoni cristiani e onesti cittadini”. Ciò attraverso
un’educazione che si polarizzava intorno al trinomio ragione, religione, amorevolezza; in particolare
l’amorevolezza, che si esprimeva nei gesti e nei comportamenti benevoli dell’educatore, andava
costantemente illuminata e purificata dalla ragione e dalla religione.

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Lez.10 Breve storia dell’epistemologia pedagogica
contemporanea
Livia Romano
Il Novecento è stato un periodo ricco di diverse scuole di pensiero che contribuirono alla formazione del
sapere pedagogico favorendo una svolta epistemologica: infatti, se fino all’ottocento la pedagogia era un
sapere ancora fortemente identificato con la filosofia, nel XX secolo avviene la “svolta” grazie alla quale la
pedagogia diventa una scienza specifica dell’educazione, capace di riflettere criticamente ed autonomamente
sulla formazione dell’uomo.
Giovanni Gentile
Durante questo periodo, impose la sua cultura ispirata all’idealismo, la quale si opponeva radicalmente al
Positivismo che tentava di costruire una pedagogia come scienza empirica sradicata dal contesto sociale.
L’attualismo elaborato da Gentile: la pedagogia non era un sapere autonomo ma, coincideva con la filosofia:
essa era una scienza finalizzata allo sviluppo dello spirito.
Il rapporto tra maestro ed allievo era considerato uno spirito unico in quanto il maestro si immedesimava
nell’allievo e viceversa: cioè colui che rappresenta l’ideale buono, in cui l’allievo riconoscerà la parte migliore
di sé e che cercava di realizzare. Dunque il metodo coincideva con l’azione del maestro, con quel farsi
comune con lo scolaro che corrispondeva a farsi della stessa realtà spirituale.
Le ipotesi avanzate da Gentile, furono criticate dagli esponenti dello spiritualismo e del neokantismo in
quanto: il concetto filosofico liquidiva la questione di una pedagogia come scienza autonoma e ignorava
l’istanza pratica che invece stava prendendo nei paesi europei ed extraeuropei.
John Dewey
Con gli anni, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, in Europa e in America si afermarono il
movimento della scuola e l’attivismo pedagogico rompendo con il modello educativo autoritario e adultistico
del passato rivalutando l’esperienza educativa concreta.
Dewey elaborò la propria riflessione pedagogica a partire dalla sua filosofia
Strumentalismo logico o Sperimentalismo: la teoria diviene strumento della prassi (pratica); quest’ultima, era
il banco di prova della teoria: dunque sono le esperienze educative concrete che sollecitano continue
riflessioni teoriche e non viceversa. Di conseguenza la pedagogia è una scienza sia pratica che teorica in cui
l’esperienza è l’unica fonte di conoscenza: la realtà è costituita da molteplici esperienze che si realizzano nel
rapporto tra uomo e ambiente allo scopo di favorire la conservazione dell’umanità attraverso il controllo della
natura.
L’uso dell’intelligenza umana permette di ipotizzare soluzioni nuove di fronte a situazioni problematiche.
Tentò di fondare una pedagogia basata sull'esperienza educativa: riconosceva l'importanza dell'educatore il
quale, trasmettendo cultura, aveva il compito di orientare l'educando verso esperienze formative e ulteriori
esperienze che fossero occasione di crescita, indicando come criteri di scientificità
• la continuità dell'esperienza processo di crescita del soggetto sul rapporto tra l'esperienza scolastica e
l'esperienza dell'educando;
• l'interazione: riguardava il rapporto tra scuola e società.
L'esperienza educativa doveva passare attraverso la scuola laboratorio in cui il lavoro fosse introdotto come
attività fondamenta le al fine di favorire la socializzazione degli educandi.
S’impegnò affinché la pedagogia si costituisse come scienza autonoma dotata di un proprio statuto
epistemologico e legittimata dal riferimento da alcune fonti, che non potevano essere prese dalle scienze
umane perché queste si interessavano di animali mentre, la pedagogia si interessa dell'uomo. Tali fonti
andavano ricercate tra le scienze umane quale la filosofia dell'educazione la psicologia e la sociologia che
l'educatore aveva il compito di applicare al processo educativo.

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L'esperienza concreta dell'educatore costituisce la fonte primaria di ogni indagine perché, ponendo i
problemi aveva il compito di valutare confermare o smentire le indicazioni oferte dalle scienze umane: la
pedagogia si rivolgeva alle scienze umane per chiarire i propri problemi, e i dati scientifici rimandavano all'atto
educativo all'interno del quale la loro validità veniva controllata e collaudata; in questo modo, egli privilegiava
l'uso di una ragione pratica e gettava le basi affinché la pedagogia si basasse sulla sperimentazione, sul
controllo critico delle ipotesi di lavoro e si costituisse come sapere scientifico e autonomo.
Dewey parla inoltre dell’idea di democrazia (in risposta ai totalitarismi europei) come qualcosa di più di una
forma di governo. Essa è prima di tutto, un tipo di vita vissuta e associata, infatti, quando si parla di
educazione alla democrazia, non si intende insegnare le leggi ai bambini, ma di insegnare loro la pratica della
convivenza con l’altro.
La pedagogia e la ricerca epistemologica nella seconda metà del 900
Nella seconda metà del XX secolo il modo d’intendere il sapere pedagogico fu rivoluzionato attraverso un
nuovo codice epistemologico della pedagogia: la pedagogia sperimentale. Con gli anni però, ci si rese conto
che tale metodo risultava in qualche modo limitato in quanto non aiutava a rispondere alla domanda “Quali
sono i VALORI dell’educazione?”. Dunque tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 (periodo del ’68,
contestazione politica) si cercò di elaborare una nuova pedagogia che potesse educare alla problematicità. La
complessità e la problematicità del dibattito epistemologico poneva in risalto un’altra questione: quella
riguardante l’afermare la pedagogia come scienza autonoma e indipendente dalla filosofia. Nel tentativo però
di voler eliminare il riduzionismo filosofico, in realtà si commette l’errore di “espropriare” la pedagogia, cioè
ridurla a scienza in senso naturale del termine, quando invece essa è una scienza UMANA che oggi può essere
definita un “logos integrato”. Si parla infatti di “pedagogia integrata” in quanto, pur essendo ormai una
scienza autonoma, necessita sempre il dialogo e il confronto con le altre scienze affinché diventi riflessione
pedagogica.
La nascita e gli sviluppi della pedagogia sperimentale
La fase pionieristica della pedagogia sperimentale ebbe avvio negli anni ‘50 in cui furono pubblicati i primi
studi di Dewey grazie a Gino Corallo e Aldo Visalberghi, nacquero riviste specifiche sugli orientamenti
pedagogici. Fu pubblicato il lavoro di De Bartolomeis "la pedagogia come scienza". Si delineava così un
panorama pedagogico in profonda trasformazione.
Il metodo sperimentale fu accolto in Italia con delle riserve per quanto riguarda gli esponenti del mondo
cattolico, i quali avvertivano l'esigenza di superare alcuni limiti della ricerca sperimenta schiacciata sul
quantitativo inserendo la sperimentazione in pedagogia all'interno di una formazione morale e religiosa.
Diversa era l'opinione dei laici, ad esempio Visalberghi influenzato dalla pedagogia di Dewey, sottolineava che
i fini, lungi dall'essere posti ai fini del processo, potevano essere ricostruiti proprio grazie all'itinerario
sperimentale. I limiti dell'approccio sperimentano le si fecero più evidenti nel dibattito degli anni 60-70 in
quanto tali pratiche educative non avevano raggiunto risultati sperati.
La ragione di questo fallimento e della poca fortuna della sperimentazione del nostro paese, ma anche in gran
parte dell'Europa, andava ricercata nella difficoltà di adottare il metodo quantitativo delle scienze esatte per
spiegare il fenomeno complesso ed esistenziale dell'educazione. Fu questo il motivo per cui la scienza
pedagogica andò sempre preferendo ricerche di tipo qualitativo orientate a comprendere piuttosto, che a
spiegare i fenomeni educativi tuttavia, nonostante queste difficoltà, verso gli anni ‘70 la ricerca empirica
superò la fase pioneristica e ottenne il riconoscimento legale con l'emanazione del D.P.R (decreto presidente
della repubblica) n.419/1974 sulla sperimentazione scolastica, dettava le norme per la sperimentazione e
l'innovazione didattica. Da quel momento in poi la pedagogia sperimentale si è separata dalla pedagogia
generale e ha acquistato una propria autonomia come scienza pedagogica che studia l'esperienza educativa e
didattica in maniera oggettiva adottando un metodo fondato sulla ricerca empirica, sull'osservazione
sistematica e su strumenti di misurazione.

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Lez. 11 Prospettive e metodi della ricerca pedagogica
Maria Vinciguerra
All’interno del corpus delle scienze umane, possiamo individuare diferenti metodi di ricerca i quali, a loro
volta, richiamano diferenti linguaggi scientifici.
IL METODO s’intende il modo di procedere per indagare il fenomeno, studiandone i suoi diversi
momenti. La scelta del metodo dipende dalla scienza di cui egli si occupa e del suo paradigma di
riferimento.
IL PARADIGMA è l’insieme di teorie sulla natura della conoscenza e della realtà che guidano l’azione
epistemica. Essi possono essere definiti come le cornici di senso. Oggi la fenomenologia può essere
considerata paradigma di ricerca; quindi la pedagogia essendo di stile fenomenologico-ermeneutico può
essere considerata una prospettiva pedagogica.
I paradigmi possono però essere revisionati in seguito a periodi di crisi della scienza, generandone altri più
adeguati al mondo odierno. I cambiamenti di paradigmi rappresentano rivoluzioni scientifiche.
Esistono diversi modi di fare ricerca, essi possono essere:
LA RICERCA TEORICA
analizza la natura e i compiti della pedagogia o di un suo settore specifico, e le relazioni con le altre scienze. Il
metodo è quello speculativo che viene evidenziato se si descrive il modo di procedere e di argomentare i
momenti in cui si articola. Essa è intesa come riflessione critica, si focalizza sui bisogni educativi, sul mondo e
sulla vita. Si tratta di una ricerca svolta prevalentemente dalla filosofia dell’educazione, dalla pedagogia
generale e dalla storia della pedagogia. Essa può essere distinta in: pura, storica e comparata; con la ricerca
storica, vengono studiati i fatti educativi nella loro evoluzione storica; vengono analizzati inoltre oggetti nel
contesto socio-culturale in cui si sono originati.
Nel complesso, il suo modo di indagare ha dato vita a vari stili di ricerca teorica, quali:
Il problematicismo pedagogico:
Ha come paradigma il razionalismo critico un metodo interpretativo delle pratiche e dei processi educativi, è
legato ad Antonio Banfi e Giovanni Maria Bertin.
La riflessione sulla realtà educativa ha tre momenti:
• trascendentale: vi è un recupero e una valorizzazione delle antinomie che caratterizzano l’esperienza
educativa;
• dialettico: si dà spazio alle dinamiche trasformative che caratterizzano l’esperienza educativa,
rifiutando ogni forma di dogmatismo;
• fenomenologico, si riconosce la pluralità di aspetti che contraddistinguono l’esperienza educativa.
Il problema pedagogico, sostanzialmente è caratterizzato dall’idea di una interdipendenza tra il piano teorico
e quello della prassi educativa.
Il personalismo pedagogico:
nasce in Francia nel 1882, e arriva in Italia nel 1896 con:
Casotti: Nella sua opera Maestro e scolaro critica il ripiegamento della pedagogia sulla filosofia gentiliana, si
allontana dall’idealismo per avvicinarsi alla metafisica aristotelica, attraverso la quale approfondisce la sua
idea di azione educativa in quanto l’uomo si presenta come un composto sostanziale di anima e corpo.
Definisce la pedagogia scienza pratico-poietica, metodo attraverso cui tradurre in atto l’idea.
Stefanini: nella sua opera Il rapporto educativo propone una pedagogia vicina allo spiritualismo cristiano, per
un’educazione come scoperta di sé, affidata al maestro, il quale deve attenersi alla personalizzazione
dell’intervento educativo. (rapporto educatore-educando)
Flores d’Arcais insiste sulla mobilità storica della comprensione e sulla progettualità dell’intenzionalità umana.
Egli avverte l’esigenza di una partecipazione sociale alla gestione della realtà educativa. L’ambiente, può
diventare una grande risorsa educativa per la persona se viene prevista un’adeguata azione regolatrice della
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cultura.

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Il personalismo è stato un punto di riferimento per tutto il pensiero pedagogico italiano perché esso volgeva
allo sviluppo di un’educazione integrale della persona. L’uomo sostanzialmente ha bisogno di risposte a
domande fondamentali quali: chi sono? Che senso ha il mondo e la storia? ecc. Ciò significa che l’uomo ha
bisogno di “senso” e quindi l’educazione deve mirare a rispondere pienamente alle sue esigenze formative
attraverso un’educazione integrale (sia dal punto di vista della realtà, sia dal punto di vista etico/spirituale).
La pedagogia fenomenologica:
la riflessione fenomenologica, ha trovato spazio anche in pedagogia con
Pietro Bertolini che ha assunto questo paradigma per riflettere sull’educazione dando vita al concetto di
intenzionalità: intesa come capacità del soggetto di dare senso al mondo. La pedagogia diviene studio della
coscienza intenzionale del soggetto.
Iori mise in evidenza i principi fondamentali che devono guidare una pedagogia fenomenologica. Tra i tanti
temi afrontati, approfondisce il concetto di epoché e quello del corpo vissuto; proprio qui viene considerato il
concetto di persona che riveste un significato preciso all’interno dell’esperienza educativa come contesto
esistenziale vivo e dinamico, segnato anche da emozioni, afetti e sentimenti.
La pedagogia ermeneutica:
Nasce dall’esigenza di porre al centro della ricerca pedagogica l’interpretazione della realtà sociale in cui si
vive.
In Italia, l’approccio ermeneutico assume un suo carattere specifico all’interno della pedagogia nei primi anni
90, con la riflessione avviata da Cambi in cui la pedagogia è una scienza ermeneutica, cioè non può
prescindere da aspetti interpretativi della realtà e da un lavoro costante di comprensione dei soggetti coinvolti
nella relazione educativa: la pedagogia è un sapere storicissimo, cioè frutto del suo tempo e del passato con il
quale l’educatore deve confrontarsi costantemente. Questo continuo esercizio ci costringe a tenere in
considerazione le prospettive degli altri, e quindi ad uscire da un puro soggettivismo.
Gennari, ad esempio, istituisce una sorta di legame tra l’approccio ermeneutico in pedagogia e il concetto di
Bildung che letteralmente significa “formazione”: secondo l’autore “l’uomo si forma interpretando” dunque in
tal senso, diventa essenziale non tanto il risultato del processo formativo, quanto più il processo stesso che
implica sempre un esercizio ermeneutico.
La pedagogia critica:
è collegata alla nascita del movimento studentesco del ’68, ovvero quella “rivoluzione culturale” che ha
investito la società in diversi aspetti, soprattutto i modi del sapere e i luoghi della formazione.
La pedagogia viene definita “critica” in quanto essa deve rifuggire da false ideologie e a distogliere la propria
attenzione dagli aspetti politici della società. L’obiettivo era quello di creare e promuovere una formazione più
aperta rivolta ai più deboli, secondo i modelli di Freire e di Don Milani nella Pedagogia degli oppressi e nella
Scuola Barbiana. Attraverso questo progetto di alfabetizzazione si voleva realizzare un processo di
“coscientizzazione”, in modo da conseguire anche ai meno fortunati una partecipazione alla vita civile e
sociale
LA RICERCA EMPIRICA
scienza sperimentale; si rivolge a tutti i fatti educativi di rilevanza teorica e pratica accessibili
dall’osservazione, attraverso il processo di raccolta, analisi e valutazione dati e l’utilizzo di strumenti necessari
alla raccolta dati.
L’osservazione è dunque la prova della realtà: da essa il ricercatore ricava le proprie deduzioni e trae spunti
per confermare o condannare una teoria. Proprio partendo da qui, lo studioso può comprendere la teoria del
ricercatore e individuarne i motivi della sua validità; è caratterizzata da due paradigmi:
• positivista, normativo, deterministico, contraddistinto da una logica causale-lineare ed utilizza
il metodo quantitativo
associato alla misurazione dell’oggetto d’indagine attraverso l’impiego di disegni sperimentali o quasi-
sperimentali che prevedono un’analisi statistica; ricerca le cause, spiegandole e controllandone; la quantità
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è associata alla frequenza del manifestarsi dei fenomeni.

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Queste analisi quantitative, non spiegano i fenomeni ma descrivono come sono e come funzionano gli
oggetti studiati, prestando attenzione alle relazioni tra le variabili. Questi processi di “riduzione numerica”
possono restituirci informazioni utili sull’esperienza umana, se rimangono consapevoli del loro valore
strumentale e dei limiti di tale operazione, infatti la critica mossa è data dalla distanza tra
l’oggetto/soggetto studiato (il comportamento umano, la società, l’educazione, ecc.…) e la corrispondenza
della complessità questo oggetto in un sistema simbolico numerico/quantitativo.
• La Ricerca Sperimentale: si propone di individuare una relazione causa-efetto tra un fattore
indipendente e uno dipendente.
La formulazione dell’ipotesi è la prima fase, essa consiste nell’intuizione che, al variare di un fattore,
se ne modifica un altro. Poiché un’ipotesi sia verificabile, devono essere chiarite le variabili oggetto di
studio e, soprattutto, la variabile indipendente deve essere manipolabile dal ricercatore.
In ambito pedagogico, si indagano le variabili connesse attraverso un comportamento educativo
descrivibile attraverso descrittori. La sperimentazione ha l’obiettivo di trovare un rapporto di casualità-
lineare secondo la logica comportamentista: individuare le relazioni causa-efetto, si può
intervenire sulla realtà rimuovendo o modificando la causa stessa. L’ipotesi, inoltre deve essere
sottoposta ad un processo di verifica.
Il limite dell’educazione, però, consiste in queste descrizioni di correlazioni che non restituiscono una
comprensione del fenomeno, ma ci aiutano ad individuare il funzionamento di un suo aspetto.
Esistono diversi disegni di ricerca che prevedono l’utilizzo di un gruppo unico oppure di due o più
gruppi.
Attraverso il pre-test, si testa il livello della variabile, in seguito si sottopone un gruppo
all’esperimento, mentre un altro gruppo non viene sottoposto al test. Al termine del trattamento, si
rivaluta la variabile dipendente in entrambi i gruppi e si valutano le diferenze attraverso analisi
quantitative.
• La Ricerca Quasi-Sperimentale: utilizzata nei casi in cui le variabili indipendenti non possono essere
manipolate liberamente, e sono presenti dei vincoli nella formazione di campioni. Lo sperimentatore,
rinuncia ad un controllo rigoroso e inserisce la sua ricerca all’interno di contesti e situazioni naturali.
La ricerca a scuola può essere un quasi esperimento o ex post facto, in quanto le classi rappresentano
già dei gruppi precostituiti. Per far fronte a questi vincoli, i ricercatori ricorrono a degli accorgimenti
come disegni di ricerca con gruppi di controllo non equivalenti o con maggior numero di rivelazioni pre
e post-trattamento.
Questo inoltre si è ispirato al neopositivismo, permettendo a questa nuova scienza di fondarsi sul dato
empirico e su proposizioni sperimentabili.
• ecologico, idiografico, naturalistico caratterizzato dalla logica circolare-ricorsiva che utilizza
il metodo qualitativo
è connesso all’osservazione naturalistica, ai metodi etnografici, narrativi, ecc… interpreta gli eventi,
mettendo in evidenza le relazioni dei fenomeni educativi, ed è interessato alla comprensione dei
fenomeni stessi. La qualità non è trasferibile in un ordine numerico ma il dato viene interpretato per farne
emergere i significati.
Le strategie di ricerca e metodi sono molto diversificate:
• l’etnografia è stato il primo modello di ricerca, essa è una ricerca sul campo che colloca il ricercatore
all’interno della realtà indagata; questo metodo ha l’obiettivo di comprendere società e attività di
coloro i quali abitano in un determinato ambiente. Si colgono in questo modo i processi dall’interno.
Gli strumenti utilizzati sono molteplici tra i più noti abbiamo l’osservazione partecipante, le interviste
di profondità. Il ricercatore inoltre deve partecipa attivamente alla ricerca, non rimanendo neutrale,
partecipando per un periodo di tempo alla vita del gruppo e, attraverso un parziale acculturazione e il
metodo dell’osservazione, cerca di conoscere i membri e la cultura del gruppo.
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il modello lewiniano della ricerca azione: forma di ricerca partecipativa, orientata ad azioni di
cambiamento positivamente della realtà oggetto della ricerca. Secondo questo modello, la ricerca è
più flessibile e i risultati di ogni fase servono per la definizione degli strumenti e delle analisi delle fasi
successive, utilizzando sia valutazioni quantitative che qualitative. Il ricercatore inoltre è
profondamente coinvolto sia nell’indagine che nell’intervento.
La pedagogia avendo come studio la realtà umana, deve far si che gli strumenti utilizzati dai ricercatori
siano comprensibili a tutti i partecipanti coinvolti; come per esempio i metodi narrativi: quello che
avviene o è avvenuto secondo il significato attribuito dai soggetti convolti.
Attraverso la ricerca azione si vuole individuare e risolvere i problemi delle pratiche educative;
l’intervento coincide quindi con l’azione educativa. A questo scopo le varie fasi che la caratterizzano
hanno una logica circolare o ricorsività circolare:
analisi e definizione del problema,
progettazione dell’intervento per la promozione di un cambiamento,
attuazione dell’intervento,
analisi intermedie,
eventuali modifiche metodologiche,
esame critico dei risultati

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non sono previsti gruppi di controllo ma, s’indaga su una specifica situazione: casi singoli, casi multipli
oppure organizzazioni.
Il ricercatore deve quindi essere predisposto ad aprirsi verso il nuovo, responsabile delle scelte che
compie e deve prestare attenzione al tipo di paradigma che assume; Il ricercatore, tende a non
intervenire, cerca infatti di assumere una posizione di autonomia, al fine di indagare il caso oggetto di
studio. Lo studio di un caso rappresenta una strategia molto flessibile in quanto permette al ricercatore
di scegliere i casi più adatti in funzione della specificità dell’oggetto e della finalità della ricerca. È una
ricerca che si occupa delle singolarità
I Metodi qualitativi sono
Grounded Theory è un metodo che nasce in un contesto sociologico; questa proposta metodologica,
prevede un procedere in modo induttivo dai dati alla teoria. Si raccolgono i dati attraverso diverse
tecniche, questi poi vengono codificati attraverso categorie (concettualizzazione dei dati). Si procede
inoltre attraverso una costante analisi comparativa tra i dati e le categorie e viceversa. Dai dati viene in
seguito estrapolata una prima teoria interpretativa, utilizzata per raccogliere altri dati.
Il Metodo Fenomenologico, si colloca in una cornice qualitativa: l’esperienza umana, oggetto di studio
nella ricerca educativa, può essere conosciuta soltanto così come appare. Questo approccio prevede una
prima lettura dei dati raccolti una messa tra parentesi di pregiudizi, abitudini ecc.… obiettivo di tale
ricerca è la ricerca di strutture invarianti essenziali; tali elementi sono ricercati nell’esperienza dei soggetti
coinvolti nella ricerca; con ciò si mira all’esplicitazione di ciò che è rilevante per poter definire l’essenza di
un fenomeno.
L’Approccio Narrativo; la ricerca viene intesa come un’esperienza che deve essere compresa, così narrare
l’esperienza risulta il modo migliore per poter cogliere il significato. Essa è quindi un’attività ermeneutica
in cui l’interpretazione del ricercatore resta sempre incompleta, grazie ad un persistente disposizione
dialogica verso i contesti e i testi. L’atteggiamento del ricercatore-narratore ci rammenta che non bisogna
guardare ai fatti in sé, ma a come questi fatti vengono intenzionati dal soggetto. Quindi secondo la ricerca
narrativa, raccontare la propria esperienza sotto forma di storia, crea significato, poiché raccontandosi si
attribuisce un senso al proprio vissuto che è messo in relazione con altri vissuti, in un preciso contesto di
vita. Una volta raccontato il materiale narrativo, si inizia un processo di elaborazione del significato
attraverso il quale si mettono in evidenza temi, così da procedere con il resoconto.

La riuscita della sperimentazione dipende dalla capacità del ricercatore di controllare tutte le variabili che
possono intervenire e/o interferire.
LE TECNICHE:
• osservazione partecipante e non: attenta osservazione del ricercatore di un comportamento di uno
più soggetti; può essere
o partecipante in cui il ricercatore è inserito e integrato all’interno del gruppo oggetto di studio
o non partecipante il ricercatore è esterno al gruppo e lo osserva nelle sue interazioni.
L’osservazione viene riportata nei diari o resoconti narrativi, oppure in check list di
osservazione.
• Interviste nella richiesta ai partecipanti della ricerca di rispondere a determinate domande o ad
afrontare questioni poste dal ricercatore in forma verbale. Le interviste hanno delle strutture diferenti
in base a come sono costruiti:
o Strutturata domande chiuse
o Semi-strutturata domande aperte e chiuse
o Non strutturata non ha una strutturata stabilita.

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• Questionari insieme di domande rilevante per la ricerca o la valutazione; il soggetto è tenuto ad auto
compilare il questionario senza intermediazione dell’intervistatore, rispondendo su un supporto
telematico o cartaceo
• Diari resoconti personali che raccolgono informazioni su una determinata esperienza; contengono
riflessioni, pensieri e interpretazioni.
• storie di vita raccolta di esperienze di vita di una persona
• gruppi di discussione caratterizzata da discussione confronto riguardo l’atteggiamento di un gruppo di
persone nei confronti di un tema prefissato. La discussione viene supervisionata da un conduttore (il
ricercatore) che presterà attenzione sia a ciò che viene detto od omesso. L’obiettivo è la dinamica
dialogica e l’interazione tra i membri del gruppo.

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Lez. 12 Il logos
integrato Antonio Bellingreri

Verrà analizzata la struttura della pedagogia fondamentale come scienza specifica in due definizioni; in questa
lezione come logos integrato: possiamo dire che si tratta di un logos (discorso) che si snoda attraverso diversi
livelli di approfondimento, in un progressivo avvicinamento al senso del fenomeno oggetto di indagine; ne
deriva un sistema composito di forme diferenti di sapere che si presentano organicamente legate l’una
all’altra:
1 Il momento empirico
Primo livello; è data una comprensione dell’educazione.
Per capire di cosa si tratta, bisogna partire dall’istanza della critica originaria (ciò di cui sono certo è anche
vero?)
nel problema della ricerca della verità dell’educazione, la cosiddetta coscienza spontanea si limita a
distinguere le forme autentiche di educazione da quelle inautentiche, non è mossa da tale istanza.
La coscienza spontanea, essendo non consapevole di sé, dà solo una qualche percezione del vero, perché non
sa argomentare le ragioni che la spingono ad afermare le sue azioni. Essa quindi deve andare oltre per
ricercare la verità, deve attraversare l’esperienza del dubbio, e, mettendosi in questione, va oltre sé stesso,
divenendo non più coscienza ingenua che si lascia vivere ma soggetto consapevole; la coscienza immediata
afronta una vera e propria conversione, paragonabile per tanti aspetti a quella religiosa: oltrepassando
l’immediato, si accetta dunque di essere mossi unicamente dalla “ricerca della verità”. Il soggetto è dunque
mosso dalla consapevolezza, germinale ma realistica, che vivere segnati dalla ricerca del vero sia un bene per
sé stesso preferibile rispetto al semplice vivere, al lasciarsi vivere.
2 Il momento empiriologico
dove la ricerca, usufruisce del contributo di altri saperi scientifici.
Dopo il momento empirico della pedagogia fondamentale, l’istanza critica si concretizza come indagine rivolta
agli aspetti specifici del fenomeno, ricompresi attraverso una logica specifica adeguata. È questo il senso di
quanto denominiamo principio di specificazione, ed è questo, nello svolgersi della ricerca, il momento
empiriologico della ricerca
Le logiche specifiche sono quelle proprie delle scienze che si applicano allo studio dei diferenti aspetti
specifici dell’esperienza dell’educazione, ad esempio:
la psicologia dell’educazione si occupa delle strutture psichiche dei soggetti impegnati nel processo educativo;
la sociologia dell’educazione studia i processi di socializzazione che coinvolgono i soggetti.
In fondo, tutte le scienze sia umane, della natura che quelle esatte, applicate allo studio dell’educazione
vengono considerate empiriologiche: si tratta di un termine che specifica la scelta delle scienze in questione di
muoversi restando all’interno dell’esperienza, ponendo in ultima istanza il riscontro o il paragone con
l’esperienza come criterio ultimo di sensatezza dei propri asserti.
3 Il momento teoretico
Avviene dopo aver attraversato i primi due momenti, dove il ricercatore a questo punto si pone delle domande
sul senso dell’impresa educativa, una vera propria interrogazione filosofica, per farlo, è necessario possedere
una particolare intuizione chiamata eidetica: che riesce a cogliere nei fenomeni quello che è essenziale
(l’essenza).
È proprio nel momento teoretico che viene esaltato il contributo specifico della fenomenologia, che prima di
essere una determinata dottrina filosofica, è piuttosto una certa apertura di fronte al reale, dunque una certa
“postura filosofica”, ed ofre il suo contributo attraverso i suoi principi:
• Principio di donazione di senso: nozione che compresa tendendo distinti i due significati:

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o antropologico in questo caso donazione di senso significa che l’uomo, in quanto tale, è definito
dalla coscienza che è intenzionalità, cioè relazione sempre segnata da un senso con quanto
definisce il soggetto o con quanto egli va incontrando nella sua esperienza; quindi
l’intenzionalità è donazione di senso;
o ontologico la donazione di senso viene intesa come oferta di senso, perciò si aferma che la
realtà ha un senso, ovvero è intellegibile o visibile, e che questo senso appare alla coscienza. Il
senso che al soggetto è oferto, viene dal soggetto “messo in forma”, formulato in un linguaggio
umano che in quanto tale è sempre una costruzione definita che produce significati.
• Principio dell’evidenza L’intelligenza intuitiva e la ragione argomentativa sono mossi dall’evidenza, che
vale dunque come loro criterio essenziale. Ogni realtà è un fenomeno, ossia mostrandosi, appare, e
mai appare invano, perché è oferta di senso; ma mostrandosi appare sempre secondo uno specifico,
unico stile di evidenza che del fenomeno connota le proprietà.
• Principio della trascendenza Non tutto è evidente. Ci sono nei fenomeni lati oscuri o nascosti, dei quali
ovviamente noi parliamo perché in ciò che di essi appare con evidenza, con evidenza si mostra anche il
rinvio ad un oltre che è dato nell’adombramento.
• Principio gnoseologico, basato sulla distinzione tra
o intuizione empirica si riferisce alla visione, che avviene grazie ai nostri sensi, di un fenomeno
determinato dell’esperienza immediata;
o intuizione eidetica è intuizione di un aspetto essenziale, il quale non è un dato empirico, ma un
dato nuovo, metempirico; consiste nella capacità di vedere, negli aspetti ricorrenti e
caratterizzanti di un fenomeno, un tratto esemplare; non più determinato, ossia riferibile al
fenomeno che si dà qui ed ora, ma universale, ossia riferibile a tutti i fenomeni.
Ed ecco che emerge il punto cruciale del momento teorico: cioè per la fenomenologia l’esperienza manifesta il
fondamento del potere essere autentico e quanto appare all’intuizione eidetica e che quindi non dipende
dalle intuizioni empiriche dell’esperienza ma, da un’intuizione di un altro genere, che deve essere qualificato a
priori. Il potere essere è nell’esperienza così come si manifesta e nei limiti in cui si manifesta.
Il nesso della pedagogia fondamentale con la filosofia dell’educazione
La pedagogia fondamentale non è afatto una scienza filosofica, identificabile con la filosofia
dell’educazione, anche se hanno un nucleo problematico e di contenuto che è comune ad entrambe: il
momento teoretico; solo che:
nella filosofia dell’educazione svolge questo nucleo tematico connettendolo ad un’analisi eidetica più vasta,
quella che intende l’intero della persona, rispetto alla realtà dell’educazione che ne è per così dire solo una
parte.
la pedagogia fondamentale: questa, nel suo momento teoretico svolge lo stesso nucleo tematico,
connettendolo però alla concreta prassi educativa che sempre internamente la orienta; la pedagogia si muove
dunque nell’orizzonte di un fondamentale primato della ragion pratica; ciò significa che stima la riflessione
teoretica come un momento all’interno della prassi, che possiamo chiamare momento di idealità della prassi.
Per la pedagogia fondamentale è necessario istituire un dialogo critico con la filosofia dell’educazione. Ciò
costituisce un vantaggio per entrambe:
• La filosofia ofre infatti un esercizio attivo dell’esistenza, fatto di consapevolezza e libertà. La coscienza,
intuendo ciò che appare, costituisce l’esperienza comprensione reale di un fenomeno.
• la pedagogia, pone al centro di tutto il suo impegno, pratico-poietico-teoretico, la nozione di persona;
la persona, infatti, costituisce, nelle azioni educative e nella riflessione pedagogica, la prima evidenza e
il primo criterio di senso.
Queste due forme di sapere, seppur diferenti, hanno un comune progetto di vita: la cura, la formazione e la
salvezza della persona, esse dunque si influenzano reciprocamente.

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Il momento prassico-poietico
In questo momento si ricerca un metodo adeguato a produrre un cambiamento qualitativo nelle persone
coinvolte nella relazione educativa; si tratta di un metodo definito
dialogo esistenziale centrato sull’empatia il fatto che sia centrato sull’empatia fa sì che il suo fine (del
dialogo) sia quello di accogliere, comprendere, condividere quanto vissuto e comunicato dall’altro per riuscire
a cogliere il senso delle sue parole, emozioni, motivazioni. È un’esperienza trasformante per l’educatore non
meno che per l’educando, di decentramento dall’io concreto che ciascuno è e di riappropriazione di qualche
tratto del “sé” autentico.
Il fine proprio e prioritario del dialogo non è dunque quello di persuadere l’altro in merito a quanto noi
reputiamo la nostra visione adeguata alle cose, bensì è riuscire a vedere il modo con cui l’altro vede e
sperimenta il mondo.
Il dialogo è poi esistenziale perché in esso è sempre a tema il modo con cui ciascuno di noi abita il mondo: le
sue visioni caratterizzanti, l’ordine delle preferenze, gli amori e anche gli odi. È proprio l’interpretazione del
metodo educativo come dialogo esistenziale centrato sull’empatia a mostrare la necessità di una speciale
competenza ermeneutica, nel momento prassico-poietico della pedagogia fondamentale.

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Lez. 13 La struttura
dialettica Antonio Bellingreri

La fenomenologia può essere interpretata in termini di ripresa (si ricomincia daccapo) e riflessione: quanto
credevamo vero si mostra insufficiente, un piccolo shock conoscitivo ma che è salutare poiché stimola la
ripresa e la scoperta di aspetti nuovi.
La nuova focalizzazione sarà poi operata su due tesi:
• la prima aferma di tenere insieme ragione scientifica e ragione filosofica il dialogo critico;
• la seconda integra fenomenologia ed ermeneutica, e si basa sulla circolarità dialettica
1 Gli step del metodo fenomenologico
La relazione tra scienza e filosofia è un tratto strutturale, in quanto mette in opera l’uso critico della ragione
che è lo stile fenomenologico ermeneutico. La fenomenologia come abbiamo detto è un atteggiamento
globale di fronte al reale, più che una dottrina filosofica compiuta, che consta tre step:
1 EPOCHÉ O SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO
la fenomenologia in quanto atteggiamento di fronte al reale, assume un punto di avvio della riflessione sulla
vita, gli ambiti in cui si svolge la nostra esistenza, formata da certezze originarie che come una bussola
condizionano le nostre scelte di vita.
Il sorgere della consapevolezza e della ragione mette in crisi questo sistema creando un dubbio sulle nostre
certezze; la fenomenologia esalta questo momento critico facendo inventario di quanto ci è noto e naturale,
ed è proprio operando così che si prende le distanze dai valori precostruiti
Questa parte alla nuova fase detta zetetica ossia ricerca: conduce ad una ricerca infinita sulla verità del nostro
oggetto di indagine e sebbene destabilizzante, questo momento è preferibile rispetto al lasciarsi vivere senza
interrogarsi.
2 RIDUZIONE FENOMENOLOGICA
Riduce il fenomeno esaminato a sé stesso, distinguendo ciò che è essenziale (ossia un tratto reale del
fenomeno che non può mancare) e ciò che non è essenziale, ma accidentale riduzione data dalla percezione, è
dunque una intuizione eidetica del fenomeno, una visualizzazione dei tratti ricorrenti e strutturali. Essa
necessita però un discernimento costante: questo step è l’EPOCHE’. L’intuizione eidetica però non è possibile
senza il dialogo, ovvero la comunicazione con le altre scienze, è necessario il dialogo critico con la ragione
filosofica e la quella scientifica.
3 ANALISI TRASCENDENTALE
Riflessione sulle condizioni che rendono possibile e reale, l’essere e il senso del fenomeno. Si deve
raggiungere in questo step una definizione più adeguata possibile della verità a priori del fenomeno studiato.
La verità a priori può anche essere definita idea del fenomeno dove si considerano tutti gli aspetti specifici di
esso come parti di un concretum, una sintesi che dona senso a tutti.
Tesi portanti dell’ermeneutica contemporanea
Ragionando sul metodo educativo come forma di cura attraverso un dialogo che coinvolge i soggetti, si avrà
un’esperienza trasformante per entrambi i soggetti. Tale metodo è
Il dialogo esistenziale centrato sull’empatia Si tratta di un processo interattivo e di riconoscimento reciproco,
sia per l’educatore che per l’educando, una circolarità dialettica, in un processo di coelaborazione di
significati che esige specifiche competenze ermeneutiche; per questo si parla di un modello di ermeneutica
del testo elaborato da Ricoeur nella riflessione prassico-poietica. Se consideriamo il sapere ermeneutico nella
sua autonomia, troviamo anche una struttura dialettica come quella della fenomenologia.
Riprendendo alcuni tesi portanti dell’ermeneutica:
Secondo Ricoeur l’esistenza umana è desiderio. Per poter abitare il mondo è necessario riappropriarsi del
senso del desiderio d’essere incessante lavoro di decifrazione e fa dell’ermeneutica una compiuta dottrina
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dell’esistenza, interpretando i segni, le parole, i gesti o i testi il soggetto fa l’egesi della sua esistenza, cioè
interpreta sé stesso
4 Tesi portanti di un’ermeneutica del testo
Dilthey (‘900) propone un’ermeneutica delle opere umane, come espressione della vita nella storia: ogni
uomo in quanto coscienza individuale, comunica e media sé stesso, oggettivandosi in figure strutturate;
poiché queste sono unità di senso, è possibile prenderne in esame, con oggettività, le intenzionalità
costitutive.
Heidegger
approfondisce il significato di ermeneutica muovendosi in una prospettiva filosofica più vasta: l’essere esiste
solo comprendendo: la dimensione costitutiva dell’esistenza dell’uomo è la comprensione. Siamo tutti
abitatori del mondo e questa premessa permette di
• comprendere: la disposizione originaria di orientarsi nel mondo
• interpretare esplicitare la comprensione data.
L’esegesi della situazione: l’analitica dei mondi della nostra vita e dei progetti che poniamo ad essa, precede
l’esegesi dei testi: quando i progetti vengono codificati in parola).
Gadamer assume il punto di partenza di Heidegger, sostenendo però che esiste un’autentica coscienza o
dimensione storica. La storia infatti ci precede e precede la nostra capacità riflessiva. Apparteniamo
originariamente alla storia, più che a noi stessi e siamo esposti alla sua azione, pertanto la sua efficacia non
può essere oggettivata.
Ricoeur riprende le teorie di Gadamer e aggiunge che per conferire significato alla comprensione storica,
accanto ad essa, è necessario introdurre il concetto di appropriazione e distanzazione/comunicazione a
distanza propria di una propensione storica segnata dall’istanza critica.
Si approfondisce così la visione di Gadamer da Ricoeur in un’ermeneutica del testo.
Originariamente l’uomo viene assegnato ad una situazione data, ed è la comprensione del proprio essere nel
mondo a costituire la coscienza di sé, ma questa è certamente parziale poiché storicamente determinata e
quindi sottomessa alla possibilità di errore. Se tutte le opere del soggetto oggettivano la comprensione,
configurandone i discorsi e le azioni come un testo, solo mettendosi di fronte a questi testi dell’esistenza e
della storia, il soggetto può leggersi e comprendersi.
Dall’io maestro di sé, nasce il sé discepolo del teso. La messa in discussione di sé apre inedite possibilità
rivelando nuovi mondi.

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Lez. 14 Possibilità di ricerca empirica nella pedagogia
fondamentale
Giuseppina D’Addelfio
La pedagogia fondamentale è una scienza eidetica, tesa cioè alla conoscenza dell’essenza. Essa possiede due
caratteri apparentemente antitetici:
il suo essere un modello di ricerca teorica il suo mantenere sempre un carattere
eminentemente pratico
Infatti, la pedagogia fondamentale parte dall’esperienza concretamente vissuta e a tale esperienza intende
tornare e provare a trasformare. Questa lezione mira ad approfondire il diverso rilievo che la ricerca sul
campo può assumere nella pedagogia fondamentale.
Una diversa ricognizione dell’esperienza
La ricerca empirica ofre senz’altro una nuova, più specifica possibilità di girare intorno al fenomeno e
coglierne altri profili: infatti i metodi di ricerca sul campo sono accomunati dal rilievo riconosciuto ai vissuti dei
partecipanti, direttamente coinvolti nel fenomeno preso in esame e considerati ciascuno un punto zero da cui
si dischiude un’inedita e originale prospettiva sul mondo
I metodi più fedeli alla lezione husserliana sono quelli che si concentrano sulla ricerca dell’essenza, ovvero le
cosiddette scienze esatte. In particolare, nella struttura epistemologica della pedagogia fondamentale di stile
fenomenologico- ermeneutico, una ricerca sul campo può trovare diverse collocazioni
• nella ricognizione empirica, come parte integrante del primo sguardo sull’esperienza da cui tutto il
percorso di studio pedagogico prende avvio;
• nel passaggio dalla riflessione di prima istanza a quella di seconda istanza, come una sorta di
introduzione alla riflessione sul senso dei fenomeni indagati e alla conseguente teoria del metodo
educativo.
Quest’ultima coincide con la fondazione pedagogica: si tratta della riflessione che è mossa dall’esigenza di
comprensione e non solo di spiegazione dei fenomeni ed è infatti finalizzata a evidenziare e argomentare i
tratti fondanti, essenziali e caratterizzanti del fenomeno su cui si pone l’attenzione.
Dopo il percorso delle altre scienze e sperimentazioni, emerge l’esigenza di ritornare sull’esperienza
dell’educare, per avviarne la comprensione pedagogica vera e propria. Infatti, collocata dopo la riflessione di
prima istanza, la ricerca qualitativa sul campo permette di insistere e sostare nell’epochè fenomenologica: di
sospendere in modo più radicale il giudizio per chiedersi se le certezze raggiunte dicano qualcosa della verità
dell’educare.
Le fasi di una ricerca sul campo pedagogico fondamentale
La fenomenologia mira ad una descrizione eidetica, che mette in luce i tratti invarianti e costitutivi che significa
andare al cuore del fenomeno.
In una ricerca empirica di stile fenomenologico, il principio metodologico che guida il fare del ricercatore è
quello di fedeltà al fenomeno: andare alle cose stesse, come si danno in sé stesse e da sé stesse.
Nel caso di una ricerca empirica di pedagogia fondamentale, non è possibile individuare in modo rigido e
definitivo i passaggi da seguire, bisogna essere flessibili. Tuttavia possiamo dire che le diverse fasi sono
raggruppate in tre principali:
1 La raccolta di materiali di esperienza vissuta
In questa fase il ricercatore si lascia guidare dalla consapevolezza che, quando si tratta di esperienze vissute, è
necessario ricorrere ad un ascolto attivo e ad un continuo supporto nella verbalizzazione. I ricercatori dunque,
lavorano come facilitatori: ofrono strumenti per precisare quanto detto e far vedere nessi non visti,
riassumono quel che viene detto, chiedono chiarimenti aiutano a nominare ed elaborare i pensieri, le
emozioni e i sentimenti. Si può dire che i partecipanti sono aiutati a – per citare Ricoeur – portare la loro
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esperienza al linguaggio. Dare un nome ai vissuti significa darvi diritto di cittadinanza e, così, cominciare un
cammino di autenticazione e personalizzazione dell’esistenza.
Per far ciò, è necessario lavorare sulle parole per trovare le espressioni più adeguate (o meno inadeguate) per
mantenersi fedeli alla realtà, mantenendo comunque desta la consapevolezza sui limiti del linguaggio
esistente.
2 L’analisi del materiale raccolto
Essa è praticata come un’accurata descrizione che vuol rendere, per quanto possibili, chiari ed evidenti i temi
ricorrenti ed essenziali.
In questa fase, i ricercatori si lasciano guidare soprattutto dalla volontà di non sovrapporre categorizzazioni
preconcette a ciò che, man mano, si manifesta davanti ai loro occhi. Ricordiamo difatti che secondo la
strategia di indagine di matrice fenomenologica, il metodo di ricerca non può che essere concepito come uno
strumento flessibile (metodo di misurazione flessibile es. metro di Lesbo); a questo proposito si parla di
disegno emergente. Si faccia attenzione: non avere un disegno di ricerca rigidamente stabilito in anticipo, non
significa mancare di precisione. Piuttosto, si cerca di essere rigorosamente fedeli al fenomeno, lasciando
spazio al manifestarsi della realtà nella sua irriducibile alterità.
Piuttosto, si deve notare che la postura di ricerca fenomenologico-ermeneutica non può che essere
allocentrica: si tratta nel praticare, nel far ricerca, una ricettività accogliente, che non va in alcun modo
scambiata con la facile improvvisazione. In questo modo il ricercatore dedicherà al fenomeno un’attenzione
radicalmente diferente da quella autocentrica propria del metodo positivistico; è questa una declinazione del
principio di fedeltà al fenomeno che caratterizza la lezione husserliana.
3 La restituzione ai partecipanti
Meglio indicata come co-elaborazione dei significati, viene appunto condotta nell’ottica di una
corresponsabilità tra ricercatore/i e partecipanti: non solo al momento del report finale, ma più volte lungo lo
svolgimento della ricerca la codifica di quanto emerge deve essere condivisa dai partecipanti ed
eventualmente più volte negoziata. Lo spazio della ricerca si configura così come uno spazio intersoggettivo di
co-costruzione dei significati e di contaminazione dei saperi diversi di cui i diversi soggetti sono portatori.
In questa fase, il ricercatore deve impegnarsi a saper riconoscere e mettere tra parentesi i propri saperi, le
rappresentazioni date per scontate e le precomprensioni del fenomeno (e delle persone!) in esame; deve
inoltre trovare un accesso al modo in cui le situazioni sono vissute in prima persona dai protagonisti e studiare
in profondità le relazioni intenzionali fra il/i soggetto/i e il suo/loro mondo della vita.
La fecondità dell’innesto tra fenomenologia ed ermeneutica nel campo della
ricerca
Per cogliere lo specifico dello stile della razionalità fenomenologico-ermeneutica, quindi, occorre cogliere il
valore della correlazione tra la manifestatività della realtà, perno dell’ontologia fenomenologica, e la capacità
di significazione, caratteristica distintiva dell’essere umano.
Per il fenomenologo quindi tutto sta nell’affinare lo sguardo. Nella ricerca inoltre lo studioso lavora per
formare la capacità riflessiva dei partecipanti e innanzitutto la propria interpretazione dei dati rilettura
emergono nuovi profili.
Ricapitolando, la ricerca empirica concepita e praticata all’interno del percorso della pedagogia fondamentale
mira ad affinare lo sguardo con gradualità ed ordine, attraverso una conversione dei dati di fatto a favore
dell’emergere dell’essenziale apertura euristica al nuovo. Il suo logos è integrato poiché si interseca con altre
discipline, senza però mescolare o confondere. Si supera l’antinomia tra scienze della natura e scienze dello
spirito, mettendo in luce che la sola spiegazione dell’esperienza non basta, ma anche che senza di essa la
comprensione è astratta. Dalla profonda unione del principio (ontologico) di trascendenza al principio
(metodologico) di fedeltà, discende la consapevolezza che, se è vero che niente appare invano, è altrettanto
vero che non tutto si mostra. Tutto l’agire educativo deve quindi essere caratterizzato dall’umiltà.

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Lez.15 La pedagogia fondamentale e le altre scienze
pedagogiche
Livia Romano
Negli ultimi decenni, la pedagogia generale ha allargato i propri confini caratterizzandosi sempre di più come
scienza complessa, plurale e distinta. La sua complessità è data dalla tendenza a salvaguardare la molteplicità
e la diferenziazione; la sua pluralità è data sia dalla continua interazione con gli altri saperi sia dall’apertura a
una varietà di metodologie di ricerca e di ambiti disciplinari; il suo essere scienza distinta è data dalla
tendenza a ricollocare i molteplici aspetti della realtà educativa entro un proprio quadro teorico generale.
La pedagogia fondamentale, a sua volta “fonda” appunto le altre scienze, ovvero le “pedagogie specifiche”
che si specializzano nell’approfondimento di aspetti particolari dell’educazione, quali, per esempio, la società,
la scuola, l’infanzia, la famiglia, ecc… Tutte queste scienze specifiche nascono in risposta alle emergenze poste
dalle realtà storiche, sociali e culturali del nostro tempo che sono quindi orientate dalla pedagogia
fondamentale.
La pedagogia sociale
A partire dagli anni ‘70, in Italia la pedagogia sociale ha assunto il compito di riflettere sulle strutture e sui
processi educativi collocandoli nei diversi contesti sociali in cui la persona è inserita. Questa scienza si è
sviluppata principalmente attorno a due parole-chiave:
società educante ed educazione permanente
termini che avevano il compito di rispondere ai bisogni e ai problemi della società attraverso interventi
educativi atti a promuovere un benessere personale e sociale.
Tra i compiti attribuiti alla pedagogia sociale:
• Individuare le emergenze e i bisogni educativi di una società che vive processi di trasformazione
sempre più accelerati.
• Favorire all’interno delle diverse istituzioni sociali progetti e interventi che promuovano la formazione
delle persone in funzione partecipativa e trasformativa.
A tal fine, predilige una logica sistemica e relazionale che collega le realtà locali, e quindi le tante istituzioni,
come ad esempio la famiglia, la scuola … Essa comunque non perde mai di vista il rapporto con la pedagogia
fondamentale: ne condivide appieno l’intero apparato teorico ma tende ad enfatizzare i contesti sociali per
efettuare interventi migliorativi che mirino ad un inserimento responsabile dell’individuo all’interno di essa.
La pedagogia dell’infanzia
Nonostante il significato etimologico del termine pedagogia (dal greco pais/paidos: bambino, e agein: guidare)
sottintenda attenzioni e cure rivolte al bambino da parte del mondo adulto, per molti secoli l’infanzia è stata
vissuta come una fase passeggera e priva di voce.
Solo a partire dal Novecento (definito “il secolo del bambino”) assistiamo ad una vera e propria svolta che,
grazie a varie ricerche e studi, ha portato a definire una nuova immagine dell’infanzia: la pedagogia si
connotava come studio scientifico del bambino e si costituiva, solo alla fine del Novecento, come disciplina
autonoma e ben organizzata.
Esiste quindi una reciproca sollecitazione tra
• la pedagogia fondamentale affinando lo sguardo sul fenomeno infanzia e fornendo un metodo
fenomenologico-ermeneutico allo studio dei bisogni educativi, induce comportamenti e atteggiamenti
più accurati verso il mondo dell’infanzia
• la pedagogia dell’infanzia: facendosi interprete di una maggiore sensibilità verso i problemi
dell’infanzia, sollecita la pedagogia fondamentale ad un continuo ripensamento sulle emergenze
educative di fronte ai nuovi scenari prodotti dai processi di globalizzazione in corso.

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La pedagogia della scuola
Sin dall’antichità la scuola è stata oggetto di interesse educativo.
Tuttavia solo in età moderna, con l’avvento della borghesia e dell’industrializzazione, la scuola divenne
oggetto privilegiato della riflessione pedagogica guidata da un processo di
pedagogizzazione della società: lo stato quindi aveva il compito di esercitare il controllo delle nuove
generazioni attraverso la disciplina.
Nel corso del Novecento però, con l’afermarsi della pedagogia scientifica e dei governi totalitari, la scuola non
fu più il luogo di un’educazione autoritaria e conformatrice, ma di un’educazione emancipatrice e
democratica. In questo modo, la pedagogia della scuola si è imposta come una scienza pedagogica singolare
con un proprio campo di ricerca specifico che riguarda le teorie dell’insegnamento e dell’apprendimento, la
metodologia didattica, i modelli educativi ecc.
La pedagogia della famiglia
Una pedagogia spontanea della famiglia è sempre esistita. Tuttavia, poiché si tratta di un’istituzione che ha
assunto forme diverse nel tempo e nello spazio, cambiando nel corso dei secoli le proprie modalità relazionali,
di conseguenza sono state diverse anche le riflessioni intorno ad essa:
da sempre, è stato riconosciuto un ruolo educativo della madre e del padre;
in epoca moderna, però, nella società dell’Ancien Regime vi fu un raforzamento del ruolo del padre che viene
considerato come Dio padre della famiglia, in questo modo la famiglia viene visto come strumento per la
confessionalizzazione e il disciplinamento dei costumi morali e religiosi della popolazione.
Nell’Ottocento però, vi era, da un lato la chiesa che credeva nel valore sacro del matrimonio nel garantire la
dignità dell'intera famiglia, dall'altro lato, invece, si conosceva il ruolo della famiglia e si esaltava la donna.
Dal secondo Novecento in poi, la pedagogia della famiglia ha intensificato le proprie ricerche, ed oggi assume
il compito di rispondere ad un’emergenza del nostro tempo, ovvero il costituirsi nella nostra società di un
arcipelago di famiglie, una molteplicità di forme familiari variabili e flessibili.
Negli anni ‘70 grazie a Galli nacque la pedagogia della famiglia scientifica in cui si riscoprono i ruoli materni e
paterni, dei figli e la formazione dei genitori.
Grazie a un incontro tra pedagogia della famiglia e pedagogia fondamentale, la riflessione pedagogica ritiene
la famiglia il luogo educativo per eccellenza in quanto spazio dell’avvenimento personale e come luogo
massimamente generativo.
La pedagogia fondamentale ha il ruolo di interrogarsi sul fenomeno famiglia, cioè che cos'è la famiglia? Qual è
il tratto essenziale delle diverse forme di vita? e assume come oggetto della propria riflessione il familiare.
La pedagogia interculturale
L’intercultura, intesa come incontro fra identità culturali diverse, percorre tutta la storia delle civiltà. Tuttavia,
la pedagogia interculturale si è imposta nel mondo Occidentale per rispondere alle migrazioni che
interessarono l’Europa e gli Stati Uniti durante il secondo dopoguerra.
Le prime iniziative educative di pedagogia per stranieri furono intraprese in Europa negli anni Sessanta ed
erano orientate a ridurre i problemi linguistici incentivando l’apprendimento della seconda lingua; si trattava
tuttavia di una pedagogia che non era ancora interculturale ma che era fondata su una “logica dell’inclusione”.
In seguito, fra gli anni ‘80 e ‘90, invece, furono creati dei progetti di educazione interculturale finalizzati al
superamento dell’etnocentrismo, al rispetto e allo studio della cultura altra. Fu così che nacque la pedagogia
interculturale, una scienza pedagogica fondata sull’uomo, sull’afermazione della propria umanità sia in sé, sia
in rapporto con gli altri. Il fine della pedagogia interculturale è quello di costruire il difficile e problematico
dialogo tra persone di culture diverse, senza ignorare divergenze, conflitti, incomprensioni, lavorando sul
confronto tra di esse. La pedagogia fondamentale sostiene questo processo attraverso l’uso critico di una

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ragione razionale che, grazie ad una speciale intuizione di tipo eidetico, mostra la comune umanità condivisa
con l’altro in quanto persona.
la pedagogia interculturale fa quindi riferimento al nuovo paradigma relazionale in base al quale la relazione è
il tratto costitutivo dell'esistenza personale
La pedagogia speciale
La pedagogia speciale è una scienza che si occupa dei problemi posti dall’educazione di soggetti disabili, cioè
individui che vivono in situazioni di disagio derivanti da un deficit fisico, sensoriale o psicologico. Prima di
essere definita una scienza pedagogica, la pedagogia speciale ha percorso un cammino difficile in cui è
possibile individuare alcune fasi ben distinte:
nell'antichità classica la diversità veniva rifiutata nel periodo medievale veniva allontanata e rinchiusa in
luoghi speciali come i lebbrosari;
nell'età moderna veniva isolata in luoghi di internamento
tra il Settecento e L'Ottocento vi è la fase della medicalizzazione cioè una presa in carico della disabilità da
parte della Scienza e delle istituzioni, come una diversità, una malattia da dover essere curata. Da dover
essere corretta;
fra gli anni 60 e gli anni 70 la pedagogia speciale vista la fase dell'inserimento vi furono delle circolari
ministeriali e vi furono nuove leggi a protezione della disabilità come
• Legge 227 del 8 agosto del 1975, prima legge sull'integrazione scolastica;
• legge 517 del 4 agosto del 1977 che vede l'introduzione di attività di sostegno portata avanti da
insegnanti specializzati
• la legge quadro n.104 del 1992 invece parla dello sviluppo delle potenzialità per migliorare
l'integrazione sociale dell'individuo.
• la numero 170 del 2010 vede la compensazione delle difficoltà realizzando la dignità
dell'uomo oggi si cerca di compensare le difficoltà degli individui.
La pedagogia di genere
invece si è costituita come scienza nel corso del Novecento in relazione al voler essere emancipata allo stesso
identico modo degli uomini; il femminile doveva essere omologato al maschile, eliminando quindi la diferenza
di genere. Però in realtà vi deve essere una relazione che vedeva ancora i confini tra il maschile e il femminile
ma che, soprattutto, vedeva il loro rapporto di reciprocità e complementarietà e questo si vede nella
pedagogia di genere degli ultimi anni. La pedagogia di genere utilizza il metodo di ricerca della razionalità
fenomenologica ermeneutica.
La didattica
La didattica è una scienza pedagogica che ha ricevuto il pieno riconoscimento nel Novecento in seguito alla
stagione idealistico-gentiliana che ne negava l’esistenza come disciplina autonoma e la identificava con il
lavoro dell’insegnante.
A partire dagli anni 90 ad oggi, la ricerca didattica ha raggiunto la piena maturità scientifica, ampliando i propri
orizzonti e specializzandosi in diverse didattiche (speciale, orientativa, interculturale …) in risposta alle nuove
emergenze provenienti dai processi di trasformazione della società.
La didattica generale è riconosciuta come una scienza che si occupa del rapporto fra insegnamento e
apprendimento, studiando le azioni e le competenze del docente più idonee affinché creino le condizioni
ottimali atte a facilitare l’apprendimento degli alunni. Essa è pertanto considerata una scienza di confine tra la
pedagogia e la psicologia: per la natura teorica è una scienza pedagogica, per il suo carattere pratico-
metodologico è una scienza dell’educazione.

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Lez. 16 La pedagogia fondamentale, le scienze della
educazione e le scienze storiche
Livia Romano
La natura della pedagogia fondamentale è insieme disciplinare, poiché è dotata di una propria struttura
specifica che la rende distinta dagli altri saperi, e interdisciplinare, in ragione del suo dialogo con le altre
scienze:
le scienze dell’educazione
L’afermazione delle scienze dell’educazione è avvenuta tra il 1970-80.
In Francia, Mialaret articolava il sapere pedagogico in tre categorie di scienze dell’educazione che definiva
discipline che studiano le condizioni di esistenza, di funzionamento e di evoluzione dei fatti educativi;
in Italia, Visalberghi, ne dava invece una rappresentazione circolare articolata in quattro settori: il settore
psicologico, il settore sociologico, il settore metodologico-didattico, il settore dei contenuti.
Le proposte di Mialaret e di Visalberghi ebbero il merito di intensificare gli studi di epistemologia pedagogica
che, fra gli anni Ottanta e Novanta, ridefinivano la stessa nozione di scienze dell’educazione secondo un’ottica
più problematica: si declina così una nuova immagine della pedagogia generale, nella quale si mette in
evidenza il suo compito di operare una costruzione dinamica dei saperi dell’educazione. Tre saperi svolgono
un ruolo chiave all’interno del sapere pedagogico:
La psicologia
Essa viene riconosciuta come una scienza empirica che studia l’attività psichica, il comportamento e la
personalità degli esseri umani, adottando una metodologia specifica che si avvale dello sviluppo di concezioni
teoriche e dell’analisi controllata di dati empirici.
La sua origine è collocabile intorno al 1879 grazie allo psicologo Wilhem Wundt: a partire da questo periodo
la ricerca psicologica si stacca del tutto dal metodo speculativo tipico della filosofia, per approdare alla
metodologia d’indagine sperimentale delle scienze naturali. La nascita della psicologia, da allora si è articolata
in molte correnti al cui interno si sono sviluppati ulteriori ambiti di studio e di ricerca. Inizialmente la
psicologia ha identificato nell’osservazione del comportamento umano la fonte principale per lo studio della
psiche, o meglio delle sue funzioni. La grande rivoluzione della psicoanalisi è riconducibile a Sigmund Freud
che avviò quella che in futuro sarebbe stata chiamata La psicologia del profondo con l’invenzione del concetto
di inconscio. Applicata allo studio dell’educazione, la psicologia analizza i comportamenti dei soggetti coinvolti
nella relazione educativa, cogliendone la struttura psicologica attraverso lo studio dell’intelligenza, dei
processi di apprendimento, delle fasi di sviluppo della personalità e della sua formazione.
La sociologia
È la scienza che indaga le cause, le manifestazioni, gli efetti dei fenomeni sociali e i loro rapporti reciproci
in riferimento alle forme della vita sociale. La sociologia dell’educazione è lo studio dell’educazione come
fatto sociale ed ha il compito di analizzare le relazioni educative in quando relazioni sociali. Il contributo oferto
dal sociologo Emile Durkheim è stato quello di cogliere il nesso tra individuo e società, analizzando
l’educazione come fenomeno sociale e osservando pratiche e istituzioni (scuola e famiglia) al fine di
comprendere come si sono formate e a quali necessità rispondono.
La sociologia dell’educazione oggi è una disciplina che cerca una migliore articolazione concettuale per un
approccio più adeguato alla complessità dei fenomeni da studiare, registrando nuovi fenomeni prodotti
dall’attuale società plurale e globalizzata. Il suo approccio al fenomeno educativo è quello di specificare il
significato della socializzazione in quanto processo che coinvolge i soggetti durante tutto l’arco della loro
esistenza. Sta alla pedagogia fondamentale, col proprio stile fenomenologico-ermeneutico, dare voce a ciò
che

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lo sguardo della sociologia non raggiunge, in primo luogo al senso reale che il comportamento educativo ha in
una determinata <<società in cui si pensa un’impresa di cura>>.
L’antropologia culturale
Nasce alla fine dell’800 come studio dei popoli primitivi, l’antropologia viene oggi definita come la scienza
generale dell’uomo, nei suoi molteplici aspetti.
Dalla seconda metà del XX secolo, gli studi antropologici hanno elaborato una concezione più articolata
dell’alterità, alla luce dei processi di ibridazione culturale prodotti dalla
globalizzazione dalla comunicazione planetaria ecc. L’antropologia parla di molteplici culture proprie di gruppi
sociali in specifici contesti storici. Ciò che caratterizza l’antropologia è l’approccio comparativo, cioè lo studio
comparato di culture diverse. Il sapere antropologico si presenta oggi variegato:
• l’antropologia culturale che studia la cultura come fenomeno sociale,
• l’etnologia si occupa delle diferenze culturali tra diferenti gruppi etnici,
• l’etnografia studia i costumi e le tradizioni dei popoli,
• antropologia biologica individua le parentele tra i diferenti gruppi umani.
L’antropologia dell’educazione studia i nuovi contesti di inculturazione nell’epoca della comunicazione
globale. Oggetto dell’antropologia dell’educazione non è dunque, solo il comportamento culturale in sé bensì
l’iter dell’interiorizzazione stessa.
La ricerca storico-pedagogica ed educativa
La pedagogia fondamentale intrattiene con la ricerca storico-pedagogica, un dialogo privilegiato,
specializzandosi in nuovi filoni e ambiti di ricerca quali:
La storia della pedagogia
La storia della pedagogia, in quanto studio di idee, è stata a lungo identificata con la pedagogia
(identificazione che fu data dal neo-idealismo di Gentile).
Nella seconda metà del Novecento, la crisi dei modelli idealistico e umanistico ha provocato dei profondi
cambiamenti nel sapere pedagogico e nel modo di intendere il cammino storico, determinando una frattura
all’interno della pedagogia e la storia della pedagogia. Ciò che veniva oltrepassata era l’idea di unicità del
sapere pedagogico: la pedagogia, tra gli anni settanta e novanta, nel ridefinire il proprio stato epistemologico,
viveva una sua interna diferenziazione che, di fatto, la separava dalla storia della pedagogia.
La storia dell’educazione
si è afermata alla fine del ‘900 come studio critico delle pratiche educative disseminate nel passato.
Le indagini storico educative, avevano nuovi contenuti non più riferiti alla storia degli stati nazione e dei
grandi
avvenimenti, ma alle strutture della vita materiale e culturale (i fenomeni di lunga durata) l’intento era quello
di restituire la voce ai dimenticati dalla storia, ai cosiddetti marginali.
Dagli anni Novanta si è afermata una storia dell’educazione che ha rivolto la propria attenzione all’infanzia,
alle molte figure educative, al mondo femminile, alla corporeità ai sentimenti alla famiglia ai contesti speciali
(carceri, ospedali, comunità).
La ricerca storico-educativa, ha vissuto anche una rivoluzione metodologico-documentaria, intensificando il
dialogo con le altre scienze sociali, essa vuole conoscere il passato per conoscerlo in modo obiettivo.
Un pericolo avvertito oggi è la tendenza alla microstoria che, abbandona la storia della lunga durata, come
hanno evidenziato gli autori di The history manifesto, rischia di oscurare l’originaria funzione educativa della
storia come magistra vitae, e con essa, il pedagogico che sta alla base di ogni indagine storico educativa.

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Quinta unità: L’avvenimento
personale Il senso della relazione
educativa
Lez. 17 L’esser persona della persona Antonio Bellingreri

1 L’incontro interpersonale
Questa lezione parte da una riflessione: abitiamo i mondi della nostra vita con altri esseri umani: il nostro
esserci è sempre un con-esserci. Ciascuno percepisce l’altro di fronte a sé in qualità di corpo animato vivente
sessuato; la persona che io sono e – analogicamente – che è l’altro accanto a me, innanzitutto e con evidenza
appare corpo. La persona, in breve, è il suo corpo e l’incontro che più volte abbiamo definito interpersonale, è
originariamente un incontro intercorporale.
Ciascuno vive dall’interno il proprio corpo, mentre vede l’altro dall’esterno; per questo motivo, proprio come
quando ci guardiamo allo specchio, siamo in grado di vedere e intendere che il corpo animato vivente si
presenta come unità ontica, cioè da un lato come oggetto, dall’altro lato invece come soggetto: la corporeità
fisica o biologica, quella che lo fa apparire come oggetto esteso, rende manifesto un soggetto, che è piuttosto
uno spazio inesteso, dimensione che trascende la semplice fisicità.
L’altro come un altro
Ciascun corpo occupa altresì una posizione determinata nello spazio; possiamo chiamarlo il suo
punto zero: ciascuno, come la persona, è unico e irripetibile che ruota attorno al suo asse, permette al
soggetto una visione prospettica sul reale (ma parziale): la realtà appare sempre in una determinata
prospettiva, mostra solo un suo determinato aspetto: mentre vediamo una regione del mondo intorno a noi,
non riusciamo a vedere il punto da cui la nostra visione si origina; esso rimane inoggettivabile, tanto da dover
afermare che il punto zero è in realtà un punto cieco.
Dunque, in ragione della prospetticità del mio sguardo, io come soggetto sono un’originale apertura sul
mondo: la persona è una singolarissima presenza di essere e senso, unica e irripetibile; ecco come nell’analisi
fenomenologica ci rivela che attraverso il dialogo con gli altri, possiamo mostrare di avere consapevolezza di
questo nostro “centro” e, allo stesso tempo, possiamo dare una qualche informazione sulla nostra interiorità.
L’altro –il suo corpo, il suo volto, il suo sguardo- resta invece “segreto”, nascosto cioè alla nostra intuizione e
comprensione perché il cuore, rimane comunque impenetrabile (è evidente che non tutto è evidente!)
Una conoscenza oggettiva del mondo soggettivo
È interessante notare che il linguaggio originario con il quale il nostro corpo registra nel proprio mondo la
presenza di un’altra persona con cui si imbatte è quello delle emozioni: quando l’altro entra nel nostro campo
visivo, il nostro corpo subito si pronuncia con una reazione emotiva favorevole oppure con una sfavorevole.
Le nostre emozioni possono rivelarsi effimere, durare un solo giorno, o possono approfondirsi e permanere
nel tempo, diventando afetti stabili o sentimenti forti. Ce ne rendiamo conto quando acquistiamo
coscienza che esse, se tendono a permanere, si saldano ad altri aspetti della nostra vita personale.
Ora, quando le emozioni crescono in consapevolezza e permangono in noi, esse acquistano una nuova forma
di esistenza e diventano afei che possono ulteriormente approfondirsi divenendo sentimenti; ciò
accade quando gli afetti, acquistando ulteriore tempo e spazio nella nostra esistenza, si legano in modo
essenziale e non accessorio ai nostri progetti di vita.
Se molti sono gli incontri con l’altro che suscitano le nostre emozioni, solo alcuni di questi incontri conducono
alla maturazione di un afetto stabile; e ancora un ulteriore restringimento si ha quando, dall’ambito
degli afetti, si procede verso la maggiore profondità dei sentimenti: solo a poche delle molte persone a cui
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siamo

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afezionati possiamo dire di voler veramente bene e di saper coltivare con loro una relazione autentica e
generativa.
L’altro come volto
Nell’incontro con l’altro, diventa quasi spontaneo imbattersi nel viso di chi ci sta di fronte e vedere in esso
una sorta di sintesi efficace della sua presenza personale. Il corpo animato vivente ci si presenta allora come
un volto: nel volto, infatti, l’altro ora diventa subito identificabile; nel volto ma soprattutto nel suo sguardo,
che ora pare una sorta di lucerna: efonde chiarità su tutto il volto, tanto da farne una rappresentazione
prossima della persona stessa.
Può anche accadere che quel volto sia proiettato immediatamente al “già visto”, cioè all’attribuzione di
qualcosa a noi familiare. In questo caso però, il volto di quella persona non sarà una manifestazione della
persona, ma una maschera che non renderà possibile alcuna esperienza di incontro, ma più semplicemente un
“dis-incontro”. Solo attraverso l’esperimento della conoscenza (l’esperienza) possiamo costruire quella che
viene chiamata esperienza autentica che diventa ancora più vivida quando ad esempio questo “tu per me” ha
una disposizione emotiva contraria rispetto a quanto sto vivendo.
Questo mi fa capire che l’altro è un altro mondo personale, un insieme di emozioni e pensieri che possono
essere diversi dai miei: una reazione simpatetica che mi fa desiderare di condividere le sue emozioni.
Questa nuova modalità d’incontro autentico con l’altro nella sua alterità è l’empatia: l’emozione intelligente
che permette di vedere e intendere il volto come sintesi vivente di una persona altra, e il suo sguardo come
visibilità o epifania di un mondo personale diferente. Non è più un’immagine standard frutto delle nostre
proiezioni, ma un volto, un’anima e un cuore
Il cuore come dimora
Tutto ciò in cui ci imbattiamo lascia sempre in noi una traccia, soprattutto per quanto riguarda gli eventi
negativi che ci feriscono.
Nel nostro cuore rimane la memoria di tutto, come se esso fosse un luogo di raccolta, un contenitore. Gli
eventi che ci occorrono acquistano un significato ed un peso specifico, a seconda dell’importanza che noi
stessi gli conferiamo. La stessa cosa può assumere valori diversi in ciascuna persona. Alcune cose sono poi
tenute nel nostro cuore perché le si ama, ma si tratta sempre di un luogo contradditorio dove possono
convivere diversi sentimenti
2 La relazionalità riconoscente
Il rilievo dell’empatia
L’empatia è un’emozione simpatetica fortemente attrattiva, basata sull’immedesimazione, e che attiva una
forma di conoscenza immediata dell’altro, in quanto se ne condividono, seppur per poco, i pensi, gli afetti,
i sentimenti ed i dolori.
Dalla psicologia apprendiamo che ogni persona sin dalla nascita è capace di empatia; possiamo chiamarlo
comportamento empatico e si manifesta già nei primi giorni di vita del bambino nella forma del contagio
emotivo. Normalmente, intorno ai ventiquattro mesi, il comportamento si tramuta in un atteggiamento
empatico vero e proprio. Infatti apprendendo a percepire l’altro – innanzitutto la madre – come distinto da sé,
il bambino diventa capace di compartecipazione emotiva.
In l’adolescenza però, il soggetto diviene capace di empatia matura, di penetrare nell’universo personale
dell’altro non in modo intrusivo e di riuscire a comprendere ed amare la prospettiva che egli tiene aperta sul
mondo.
L’empatia matura non è una disposizione spontanea: empatici non si nasce, piuttosto lo si diventa; è
necessario che il soggetto compia su di sé un lavoro formativo, consistente nell’apprendere e gestire le
proprie capacità relazionali e comunicative.

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Qui pertanto la lezione della psicologia ha bisogno di integrarsi con quella che può venire dalla pedagogia
dell’educazione: il soggetto ha bisogno di essere aiutato da altri, da persone che hanno acquisito tale dote
affinata e che danno poi anche trasmetterla, per esempio conducendo esercizi di training empatico – di
educazione dell’empatia e all’empatia.
Ridotta a sé stessa, l’empatia va rivelando i tratti essenziali, fra cui una disposizione contemplante dell’altro;
implica dunque nel soggetto un atteggiamento allocentrico, o meglio ontocentrico: un trascendimento di sé
che dispone ad un pensare veritativo. In virtù di tale disposizione contemplante, l’empatia può essere
annoverata fra le virtù dianoetiche, ovvero di un abito che l’intelletto può acquisire stabilmente.
Inoltre come fenomeno simpatetico, l’empatia dispone la persona all’altruismo; si distingue però dalle altre
forme simpatetiche perché l’atteggiamento altruistico in essa è segnato da un’intenzionalità etica. Tale istanza
strutturale rende l’empatia una virtù morale, che vede ed intende l’altro come un bene senza condizioni, nel
momento stesso in cui si sente coinvolto ad operare perché il bene che l’altro è sia riconosciuto e si compia.
Il primo acquisto
L’esperienza empatica consiste in un reciproco riconoscimento, quindi non solo atto del soggetto
empatizzante ma, piuttosto, un processo relazionale che coinvolge anche il soggetto empatizzato: l’empatia si
presenta come un appello che desta la coscienza di chi si vede amato e conosciuto.
Si tratta infatti di una relazionalità riconoscente e condivisa in quanto ciò che viene accolto dall’empatizzante
può presentarsi come una novità: quasi portasse una comprensione del suo mondo personale rimasta sino a
quel momento nascosta; nello sguardo empatico viene visto non soltanto per quello che efettivamente è,
ma per quello che egli può essere.
Grazie all’incontro con l’altro, infatti, noi non siamo più ostacolati da una visione parziale della realtà, in
quanto lo sguardo della persona accanto a me, mi aiuta e mi ofre una sua visione diversa dalla mia che, come
uno specchio, mi permette di conoscere me stesso anche da un’altra prospettiva.
Questo genere di riconoscimento personale, al soggetto empatizzato appare alla stregua di un dono: la
speciale conoscenza di sé è oferta al soggetto empatizzato proprio come un dono; in nessun modo essa può
accadere come esito di un processo solitario, si riceve dall’altro incontrato qualcosa di non atteso, non
richiesto. Ed è interessante sottolineare che la coscienza personale dell’empatizzato si desta nell’atto stesso in
cui si pone come risposta d’amore e di conoscenza all’empatizzante: quando sorge come una risposta ad una
chiamata, diventando a sua volta empatica nei confronti del suo empatizzante.
In definitiva, l’empatia è da considerarsi anche una virtù dialogale, ovvero un fenomeno essenzialmente ed
eminentemente relazionale, un appello che attiva una risposta. È per la persona un evento davvero
trasformante.

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Lez. 18 Il bisogno educativo
Antonio Bellingreri- Maria Vinciguerra

1 Il diventar persona della persona


Secondo quanto aferma la verità antropologica, la persona perviene a sé stessa, può conoscersi e scegliersi,
solamente all’interno di una relazione riconoscente. Le persone, infatti, non sono presenti a sé stesse; le
nostre esistenze sono condotte da una dimensiona denotata inautentica in cui siamo noi i veri
attori/protagonisti della nostra vita. Tale condizione però, appare molto spesso “passiva” per la maggior parte
degli uomini, presentandosi quasi come un “sonnambulismo esistenziale” nel quale supinamente si accetta
più di lasciarsi vivere che di vivere appieno la nostra vita (da protagonisti).
L’educazione deve essere virtù etica e dianoetica essenzialmente connessa alla riappropriazione di sé. Una
tale conquista non è afatto semplice, perché si tratta di un’impresa che il soggetto, se anche
volesse compierla, non può gestire da solo in un percorso solitario; infatti, solo una relazione e una
comunicazione empatica può rivelare la persona a se stessa , per quello che essa è veramente ( il suo io-
concreto) e per quello che essa può essere (il sé autentico); si tratta di un processo interattivo, azione
reciproca.
Con la comprensione empatica, emerge nel soggetto, uno speciale bisogno di portare una risposta. Allora il
riconoscimento di sé appare, da un lato, bisogno d’esser conosciuti e amati nel proprio segreto personale;
dall’altro lato, esso si mostra bisognoso di conoscere e scegliere l’universo simbolico al quale apparteniamo.
Questo è quello che viene definito bisogno di riconoscimento, cioè una relazione di reciprocità fra i soggetti
coinvolti e la massima presenza a sé stessi di fronte al reale.
Bisogno di riconoscimento
Quando veniamo ad essere (cioè quando veniamo al mondo) il nostro bisogno primario implica innanzitutto
l’esser consegnati alla cura di una madre e di un padre. Sarà proprio questa modalità con cui siamo accolti
nell’esistenza a segnarci per sempre.
Dalla psicologia dello sviluppo apprendiamo che la qualità dell’accudimento di un genitore è la condizione che
rende possibile una maturazione equilibrata e soprattutto, la crescita della fiducia, dell’autostima nel
bambino. Dal punto di vista afettivo del riconoscimento personale, viene fuori che si tratta principalmente di
un bisogno fondamentale della persona. Infatti, qualora questo dovesse venire a mancare, la persona subirà
un vero e proprio danno antropologico che causerà ferite interiori che renderanno la persona capace di vivere
in pienezza la propria vita. C’è però anche un lato etico del bisogno del riconoscimento che sta nell’imparare a
riconoscere l’essere (ciò che si è) e a sapersi introdurre nella realtà (cioè nel mondo). Entrambi sono due
bisogni importanti in quanto vanno a definire:
• da un lato il bisogno di intimità
• dall’altro il bisogno di dignità
che permettono alla persona di vivere la propria esistenza.
3 I codici identitari
La prospettiva pedagogica relazionale che si va delineando, intende il riconoscimento come un bisogno
antropologico fondamentale ed originario, in ragione di una relazionalità costitutiva della persona che senza
qualcuno che si prenda cura di lui non ha alcuna possibilità non solo e non tanto di sopravvivere, ma neanche
di vivere.
Un accudimento originario è dunque imprescindibile per la sopravvivenza umana e deve essere caratterizzato,
da una tonalità empatica che può autenticamente esprimersi solo se l’altro viene riconosciuto come persona,
ovvero come interlocutore competente rispetto alla relazione che chi lo accoglie e si prende cura di lui va
costruendo con lui sin dalla nascita.
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Il bisogno di riconoscimento della persona trova la sua prima soddisfazione all’interno del contesto familiare.
Le figure genitoriali, attraverso l’accudimento ma anche oltre il semplice accudimento, sono chiamate a
rispondere in modo adeguato a questo bisogno originario e fondamentale della persona, perché se questo
bisogno non venisse soddisfatto, ne andrebbe della possibilità della persona di divenire tale.
I codici relazionali materni e paterni rappresentano tanto la fonte dell’energia psichica del soggetto quanto
l’impianto di un’autentica crescita educativa intesa come umanizzazione:
Codice Materno
Gli studi di psicologia dello sviluppo sottolineano l’importanza della sintonizzazione del caregiver con i
peculiari bisogni del bambino.
Volendo fare alcuni esempi:
Daniel Stern parla di un involucro protonarrativo come organizzatore delle prime esperienze di interazione
genitore-bambino. L’involucro è una forma di pre-narrazione nel senso che racchiude al suo interno l’operare
di un motivo con gli afetti ad esso relativi. Per questo motivo è importante una sintonizzazione
emotiva precoce tra genitore e bambino basata sull’empatia.
Erik Homburger Erikson descrive il primo stadio dello sviluppo del bambino come caratterizzato da due
polarità:
quella positiva si riferisce alla conquista della una madre non responsiva o poco responsiva
fiducia di base grazie alle risposte che la madre è in porterà il bambino a superare questa prima fase
grado di fornire prontamente per soddisfare i aderendo al polo negativo dello stadio in
bisogni primari del bambino. questione, cioè strutturando una sfiducia di base.
Le ricerche sembrano confermare che le persone maggiormente predisposte a dare fiducia agli altri hanno
sperimentato nelle prime relazioni con i genitori, le risposte adeguate e pronte ai loro bisogni. Si tratta di
persone che da adulte saranno meno conflittuali, più amichevoli, più efficienti e con un alto livello di
autostima, perché nutrono una buona fiducia anche nei confronti di sé stessi.
La psicoanalisi lacaniana aferma che la funzione materna di esprime soprattutto in interesse
particolareggiato da parte della madre, per la singolarità insostituibile e irripetibile del suo bambino che
orienterà il modo di prendersi cura di lui. Questa attenzione alla singolarità del bambino riflette una cura
amorevole che non si limita ad una serie di adempimenti spersonalizzati e spersonalizzanti, ma che è
espressione di una tensione verso l’altro che educa il bambino al desiderio e alla possibilità di poter desiderare
a sua volta.
In sintesi, sin dalla sua nascita il bambino sperimenta il valore della dipendenza da qualcuno che si prende
cura di lui e si prodiga per soddisfare i suoi bisogni; questa cura incondizionata risponde anche ad un bisogno
di appartenenza e protezione, che Fromm denominato bisogno d’intimità; solo grazie alla saturazione di
questa prima necessità è possibile sentirsi degni e meritevoli di costruire un’esistenza unica e personale.
Quando il bambino è privato di un accudimento empatico, assistiamo all’insorgere di un senso d’abbandono
che provocherà rabbia e indiferenza verso il mondo, forme di attaccamento insicuro, eccessiva dipendenza sia
durante l’adolescenza che nell’età adulta; la teoria dell’attaccamento applicata alla scelta del partner ci ha
confermato che la ricerca di una dipendenza dall’altro, a volte, può presentarsi come forme di relazione
compensatoria rispetto al vissuto di un legame di attaccamento carente con la madre e/o con le figure di
riferimento più significative.
Possiamo dunque afermare che bisogno psichico primario è quello di essere accuditi empaticamente, accolti e
amati incondizionatamente. Comincia a delinearsi l’idea che ci stiamo riferendo, nella descrizione di ciò che è
inscritto nel codice materno, al polo afettivo della relazione.
Codice paterno
La psicologia dell’età evolutiva ci ha spiegato come il padre favorisca la nascita sociale dei figli e la loro
autonomia, ponendosi come figura che permette in modo funzionale la rottura della diade simbiotica madre-

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bambino, consentendo così l’avvio del conseguente processo di separazione-individuazione del figlio,
necessario per una diferenziazione e un’autonomia dai genitori.

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Il padre è colui che introduce la norma nella vita del bambino; ed è proprio nella norma che risiede l’essenza
della successiva capacità di scelta autonoma del soggetto che, senza limiti, non interiorizza alcun criterio di
discriminazione e, allora, ogni scelta apparirà in-diferente.
Il padre, quindi, dovrebbe essere testimone di un modo di stare al mondo, dovrebbe rappresentare un
riferimento sicuro attraverso un dono di sé costante (esserci); si fa promotore nell’educazione al senso del
limite, che consente al figlio di assumere il suo personale desiderio e significarlo. Diversamente, i giovani non
sanno da dove partire (ogni strada è consentita) per costruire una vita che abbia un significato e quindi anche
il desiderio di vivere in pienezza.
Il codice paterno, quindi, è inerente al polo etico: deve consegnare al figlio un’ideale etico perché possa vivere
con un proprio significato la sua esistenza.
Ricordiamo tuttavia che questa funzione può essere svolta anche da una figura significativa che non è
necessariamente il padre biologico e, a sua volta, un padre può svolgere questa funzione anche per quanti
non sono i suoi figli biologici.
Affinché il padre assuma un atteggiamento pedagogicamente corretto è necessaria una buona qualità della
relazione coniugale. Ciò significa che il modo di essere padre è influenzato dal modo di essere madre della
propria partner e viceversa.
In particolare, il concetto di autoefficacia coniugale: indica quell’aspetto della relazione coniugale che si
riferisce alla percezione di ciascun coniuge di una buona qualità comunicativa, di essere in grado di fornire un
supporto al proprio partner, di saper trovare un accordo sull’educazione dei figli e su altre questioni relative
alla vita familiare; viceversa uno scarso senso di autoefficacia coniugale espone la coppia a maggiore stress e
conflittualità con una conseguente influenza negativa sulla genitorialità.
L’azione educativa deve essere condivisa, nella costruzione di un vero e proprio patto genitoriale che
costituisca l’alleanza e la condivisione educativa tra i due adulti responsabili della crescita del bambino. Tale
patto si realizza quando i genitori sanno sostenersi a vicenda, legittimandosi reciprocamente e condividendo le
scelte educative.
6 Il livello specifico della crescita educativa
È opportuno ricordare che l’amore incondizionato che si dà a un bambino non può, da solo, umanizzarlo, ma
che in qualche modo le due istanze del bisogno di riconoscimento (bisogno di intimità e bisogno di dignità)
vanno integrate. Si tratta di un bisogno fondamentale reciproco che va inteso nelle sue forme:
• passiva: essere riconosciuti, chiedere di essere riconosciuti (come risposta a un bisogno di intimità),
• attiva riconoscere l’altro nella sua unicità, nella sua singolare ricchezza e infine imparare, tramite una
consegna etica, a riconoscere significati e valori (come risposta ad un bisogno di dignità).
Questo discorso ha un valore essenziale per il lavoro educativo che può esplicarsi sostanzialmente in una
forma di riconoscimento reciproco tra educatore ed educando. La domanda di riconoscimento esprime
un’attesa che può essere soddisfatta solo in quanto mutuo riconoscimento: ogni domanda di riconoscimento
non può eludere a sua volta l’oferta del riconoscimento; non basta che sia l’altro a riconoscermi, occorre
anche che io riconosca l’altro come degno di riconoscermi. Nessuno dei due soggetti reifica l’altro, in quanto
entrambi risultano essere, allo stesso titolo, soggetti della relazione di dialogo, legame biunivoco.
Un codice relazionale duale
Secondo la prospettiva della psicoanalisi, le funzioni della madre e del padre non possono essere uniformate
secondo un richiamo generico alla genitorialità che annulli le diferenze fra le due funzioni paterne e materne,
tra i due codici simbolici che queste due figure richiamano.
La madre non si limita ad elargire il suo amore al bambino, ma accogliendolo in modo incondizionato fa posto,
crea lo spazio fisico e mentale perché il figlio possa fiorire nel suo carattere unico.

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il padre, in modo analogo ma non identico, non si limita a veicolare il senso della legge, la dimensione
normativo-punitiva; il compito del padre è incarnare – nella sua vita singolare – la vocazione del suo desiderio
che gli permette di sostenere anche la vocazione del desiderio del figlio.
Questo riferimento ci aiuta a capire la specificità della madre e del padre come persone reali e potenze
simboliche nella vita dei figli che assumono un senso pieno solo nella loro integrazione: ciascuno dei coniugi è
tenuto a favorire la funzione genitoriale dell’altro in quanto altro e quindi valorizzato nella sua diferenza.
Si tratta di relazioni che al legame di consanguineità aggiungono la libertà di scegliersi proprio grazie ad un
riconoscimento reciproco.
Un bisogno di padri testimoni
Nonostante quanto detto in precedenza, noi oggi assistiamo ad una particolare attenzione al versante
afettivo della relazione genitoriale.
Oggi assistiamo ad una particolare attenzione al versante afettivo nella relazione genitoriale, viene a
mancare il codice paterno, l’autorità simbolica del padre ha perso peso, si è eclissata, è irreversibilmente, per
questo motivo, la nostra società è stata definita senza padri in quanto oggi intravediamo nei giovani un
bisogno, più o meno esplicito, di significato: un bisogno di dignità (che è proprio compito del padre). Infatti, la
pienezza afettiva, se non accompagnata da una consegna di significati, lascia l’individuo in una sorta di
disorientamento nei confronti del mondo esterno che si manifesta caotico ed incomprensibile. Cosi la ricerca
di un proprio posto nel mondo diviene caratterizzata da un’insicurezza di fondo acutizzata dalle problematiche
socio- culturali.
La richiesta qui non è di potere e disciplina, ma bisogno di padri-testimoni, una domanda di atti, scelte,
passioni capaci appunto di testimoniare come stare al mondo. C’è bisogno di un padre umanizzato
vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita, ma capace di mostrare, attraverso la
testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso.

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Lez. 19 LA CONSEGNA
EDUCATIVA Antonio Bellingreri

1 Un’ideale di vita buona


Il bisogno di riconoscimento (il sentirsi accolti, amati e accettati) trova un primo soddisfacimento nell’ ethos
delle comunità di appartenenza, cioè nei mondi della nostra vita (in primis, la famiglia).
Ogni impresa educativa rivela il bisogno di riconoscimento nell’atto stesso in cui tenta di portare ad esso una
certa risposta; ma proprio in quanto intende risultare educativa, essa implica in modo eminente l’esercizio
della riflessione. L’azione educativa implica allora un lavoro su di sé in senso eminente: tanto un inventario di
quello che si è, il riconoscimento dell’io concreto; quanto l’esplorazione di ciò che si può essere, volendo
diventare sé stessi, dunque di ciò che si deve essere.
La situazione originaria rappresenta una trasmissione, o meglio, una consegna che è anche il proporsi di un
compito ovvero un appello ad una responsabilità: onde pervenire ad una personalizzazione creativa della
consegna e alla conquista dell’autonomia.
La testimonianza di un agire responsabile
Può succedere di aver incontrato una persona, un educatore che è sato capace di farci amare ciò che lui stesso
amava. Quell’incontro è stato dunque speciale perché abbiamo ricevuto una testimonianza, una consegna di
vita buona: l’educazione si può dunque definire un processo di consegna di un ideale etico di vita buona,
interessante per qualità umana. Si tratta di una rel-azione, un’azione reciproca fra il consegnante (l’educatore)
e il consegnatario (l’educando): è un coinvolgimento che impegna entrambi i soggetti in un’operazione duale,
o meglio bidirezionale.
L’avvio del processo avviene grazie al dono di una personalità morale autentica comunica al soggetto, il valore
d’essere e di senso, attraverso un’interrogazione sulla verità delle convinzioni che ha assunto nella comunità
di appartenenza e gli può così, andare oltre il piano della precomprensione portando ad una forma di libertà
originaria e quindi, ad un autentico poter essere
La condivisione di un comune orizzonte di senso
La consegna da parte dell’educatore diventa educativamente significativa ed efficace ad una condizione: la
proposta di una determinata figura dell’esistenza come autentico poter essere, deve essere oferta secondo un
aspetto che la rende carica di fascino e attraente, quando essa porta la promessa di una felicità.
L’esperienza ci insegna che un ideale di vita non rende possibile un cambiamento solo in virtù del fatto che
essa sia una verità, è in quanto bene che si espande, ed in quanto bello, afascinante in sé, che riesce a
scaldare il cuore, attivando l’intelligenza e la volontà
Un ideale di vita, infatti è desiderato e può essere scelto in quanto incarnato da una persona che trova in esso
la fonte di un’interiore energia trasformante.
Va notato che per l’educando non è bene che l’oggetto del desiderio sia ciò che l’educatore vive in modo
singolare, ma deve essere desiderabile l’ideale di vita che ispira quella configurazione personale, perché ciò
possa accadere è necessario che l’educatore non attragga a sé, ma proporsi come personalità ontocentrica.
È fondamentale la figura dell’educatore in quanto esso rappresenta l’iniziatore di questo processo di
consegna educativa: egli si riconosce a partire dalla comprensione originaria che lo costituisce (assumendola
come propria). In secondo luogo, si tratta del riconoscimento personale da parte dell’educando, il soggetto
della consegna: il quale, grazie alla mediazione simbolica dell’educatore, può riuscire a vedere lo stesso ideale
di vita buona che gli viene trasmesso, secondo una nuova inflessione (quindi secondo un’articolazione
personalizzata). Nel momento in cui si verifica un riconoscimento reciproco, possiamo chiamare tale
esperienza “gemmazione del senso” cioè la presa d’atto e l’afermazione della radice di senso comune.

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La virtù dell’educazione
E’ doveroso aggiungere che la relazione riconoscente è efficace quando avviene nel soggetto un
cambiamento, una trasformazione di sé assiologicamente ed eticamente positiva. Tale mutamento personale
può avvenire soltanto se l’educando si vede nella proposta oferta dall’educatore che ha assunto nei suoi
confronti un’iniziativa; dunque se sotto qualche riguardo si identifica con lui e ne interiorizza la consegna. In
altre parole, un reale cambiamento della persona c’è se egli fa vivere dentro di sé l’ideale dal quale si sente
attratto, se l’educatore – o meglio il tipo umano che incarna – trova dimora nel cuore di chi è coinvolto nella
relazione.
Nessuna testimonianza positiva può essere veramente efficace, né destare il soggetto a sé stesso perché
assuma in prima persona l’ideale di vita proposto, senza una pratica in cui entrambi i soggetti si coinvolgano in
un’esperienza trasformante di reciproco riconoscimento.
Intercettare il desiderio d’essere e di senso
Ogni impresa educativa – si è detto – è sempre un tentativo di portare una risposta ad un fondamentale
bisogno di riconoscimento del soggetto. Ora, la riuscita dell’impresa dipende da due fattori:
• in primo luogo, dall’adeguatezza dell’ideale di vita buona, che tale sia veramente da un punto di vista
ontologico, etico, assiologico;
• in secondo luogo, l’ideale risulta educativamente efficace, pertanto adeguato dal punto di vista
pedagogico, ove riesca a porsi come termine del desiderio che costituisce il soggetto e che lo muove.
Il lavoro educativo consiste nel far fare esperienza di sé al soggetto, aiutandolo a diventare consapevole di
quello che è, attraverso un inventario del suo io concreto – di quello che viene chiamiamo archeologia del
desiderio- e insieme ad esplorare l’autentico poter essere, la “teleologia del desiderio”.
Desiderio d’essere desiderati
Secondo un’analisi fenomenologica del desiderare umano, noi desideriamo sempre un motivo di una
mancanza che diviene tensione inesausta verso quanto ciascuno percepisce come compimento possibile della
sua povertà costitutiva. Per quanto desiderare sia sempre desiderare qualcosa, nessun oggetto determinato
sazia mai pienamente la fame e la sete del desiderare, il quale dunque sempre oltrepassa quanto di volta in
volta esso sceglie.
Il desiderio nasce dai bisogni, ma non coincide con essi, in ragione
• della sua indeterminatezza, che lo rende in qualche modo autonomo rispetto ad essi;
• non può essere fatto coincidere con l’amore, il quale è definito dalla presenza di un bene, di cui può
saziarsi;
• non coincide con la volontà, che è riflessività, poter dire di sì o dire di no ad un oggetto desiderato,
mentre il desiderio non può dire di no all’oggetto che intende.
Il desiderio è costituito piuttosto da un’assenza percepita sempre come incolmabile, la cui radice è inconscia o
preconscia, sottratta cioè per definizione al regime della luce, alla piena comprensione.
Acquisire una competenza esistenziale
Tutti gli impulsi umani appaiono forme e modalità diferenti del desiderare. In efetti, ad una
descrizione fenomenologica più affinata, le stratificazioni della vita emotiva si mostrano progressivamente e
appaiono forme diverse del sé desiderante: coinvolgono sempre lo stato più profondo del sé soggetto, sono
attivati e sostenuti dalla ricerca di qualcosa o di qualcuno che possa colmare una mancanza, avvertita dal
soggetto come insopportabile.
Il primo risultato di questa analisi è vedere unitariamente
la patosfera: tutto il vasto complesso di fenomeni che definiamo universo emotivo si presenta con una certa
unità organica. Secondo Scheler gli stati emotivi sono insieme ricettività e responsabilità, a metà tra il
sensibile (passivo) e il logico (attivo) e intendono il reale nei suoi aspetti qualificati (un valore).

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Si può dire che la patosfera rivela quanto il soggetto intende a proposito del proprio essere nel mondo,
perlopiù in atti coscienziali che si esprimono nel modo più immediato e che sono sottratti alla consapevolezza.
Si tratta di quella che, evocando il linguaggio di Heidegger, chiama prensione globale dell’essere, il “trovarsi”
o originario sentirsi costitutivo del soggetto nel suo essere-nel- mondo.
La consegna educativa dell’educatore deve intercettare dunque il desiderio singolare dell’educando, solo così
può essere percepita e accolta come adeguata: solamente a questa condizione può essere dall’educando
interiorizzata e può divenire concreta. Allora, il motore segreto di quest’opera diviene l’attivazione
nell’educando della parte più viva della sua persona: l’anima dell’anima.

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Lez.20 Verso un nuovo ideale
paidetico Maria Vinciguerra

1 Microcomunità, forme di socialità ristretta


Bisogno educativo e bisogno di riconoscimento coincidono. Tenendo ferma questa evidenza essenziale,
possiamo ora cercare di allargare l’orizzonte del nostro sguardo sull’educazione contemporanea.
La pedagogia fondamentale ha il compito di ritrovare il senso, il valore e i limiti di una nuova proposta
paidetica e può farlo ritufandosi in medias res, l’ideale di una nuova paideia che va ricercato in qualcuno che
lo incarni in esperienze di vita reali. In tal senso possiamo parlare della società ristretta.
Si tratta di piccole comunità, micro comunità, che si costituiscono in diverse forme, assumendo i caratteri di
reti di solidarietà (come ad esempio il volontariato), oppure costituirsi attraverso l’incontro di gruppi di
giovani o genitori: si tratta dell’accettazione da parte dell’altro, del bisogno di sentirsi accolti e della
percezione che l’esperienza dell’altro sia analoga alla nostra (un “io che si apre al tu”).
Esempi micro comunità:
• la famiglia, come prima microcomunità espressione insieme della coniugalità e della genitorialità;
essa costituisce per la pedagogia fondamentale un esistenziale, dimensione costitutiva dell’esistenza
personale e luogo privilegiato per consentire un’integrale fioritura della persona che in essa può
trovare un potenziale di grande umanizzazione, tale da potersi difondere anche all’esterno.
• L’amicizia sintetizza una forma di amore etico in cui all’afettività si coniuga l’interesse autentico per
l’altro, un interesse che in essa è in modo evidentemente reciproco. Sono proprio l’interesse autentico
e la reciprocità a consentire di sperimentare un’intimità spirituale che si traduce in una ricerca comune
e condivisa di significati.
Queste forme di socialità, nelle diverse declinazioni in cui possono presentarsi, assumono grande valore per
l’educazione, perché ispirano ideali di vita che appaiono più adeguati alla promozione della fioritura umana
del nostro tempo.
2 Primato della relazione, un evento bidirezionale
Le nuove generazioni sentono come elemento fortemente positivo l’essere stati amati e l’essere amati dai
propri genitori; nel passaggio fra le generazioni, la socializzazione è prevalentemente caratterizzata
dall’importanza data all’afetto e ai sentimenti rispetto alle altre dimensioni educative. Anche in
riferimento alle relazioni elettive – cioè quelle legate ad una scelta di vita di coppia – l’afettività prevale sulla
dimensione etica dell’impegno nei confronti dell’altro, restituendoci un quadro di evidente fragilità delle
coppie di oggi.
L’accettazione da parte dell’altro attraverso un’afettività incondizionata sembra consentire quella
reciprocità che segna l’evento relazionale come indubbiamente biunivoco.
Peraltro l’esempio delle microcomunità ci conferma che la relazione educativa deve imboccare – innanzitutto,
anche se non esclusivamente – la strada dell’afettività che, avviando verso un’accettazione reciproca,
apra anche alla dimensione etica dell’impegno e della ricerca di significati condivisi. Tuttavia, senza negare
l’indubbia utilità della dimensione afettiva, la difficoltà ad intraprendere un progetto educativo più ampio
sta proprio nel conciliare questa dimensione con l’esigenza di stabilire delle regole e attribuire significati nelle
fasi successive di crescita dei figli.
Il giusto contenimento di una sempre maggiore richiesta di libertà è fondamentale per il processo di
individuazione del soggetto: avere dei limiti è rassicurante e aiuta a crescere iniziando da alcuni punti di
partenza; far pensare ad un bambino che è lui a decidere per sé crea soltanto una profonda insicurezza. Un
bambino privato di un contenimento del suo “narcisismo primario” è un bambino in preda a fantasie e
immagini che lo conducono verso una confusione mentale indigeribile, che si tramuta nell’ingannevole
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illusione di poter essere tutto.

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In altre parole, l’amore solo spontaneo non educa, poiché si nutre di un gioco di proiezioni narcisistiche che
non permettono all’educando di conoscersi e sperimentarsi pienamente, e all’educatore di comprendere e
accogliere l’altro come altro da sé, rispondendo così ad un’istanza veritativa e insieme etica.
3 Logica del dono, gratuità e gratitudine
L’idea attuale di famiglia è quella di un ambito sociale ristretto, distinto e per alcuni aspetti anche opposto
alla sfera pubblica. La genitorialità diviene dunque una scelta privata: il figlio è un desiderio privato di una
coppia intimizzata, essa diviene un’esperienza personale e non più sociale: il figlio è diventato unicamente dei
genitori, perdendo spesso anche la funzione di legame fra le generazioni.
Questi fenomeni sembrano in qualche modo tradire, o meglio dimenticare, la logica del dono che ci connota
come esseri umani e che caratterizza tutte le relazioni significative della nostra vita: senza il dono di una
persona che liberamente e gratuitamente ci ama in modo incondizionato e che ci percepisce proprio come un
bene, nessuno di noi è in grado di pervenire ad un’autentica conoscenza del suo proprio bene.
La logica del dono ci inserisce nell’universo della restituzione, in cui sentiamo che per compiere
autenticamente noi stessi dobbiamo donare a nostra volta: con ciò non s’intende il donare sia un
efetto lineare del ricevere, tuttavia l’analisi fenomenologica ci permette di vedere che esiste una relazione
reciproca fra il dono e il debito che infine si manifesterà nella restituzione e nella riconciliazione,
momento in cui sappiamo accettare i limiti di coloro che si sono presi cura di noi, perdonandone tutte le
mancanze, per volgerci a nostra volta verso la cura di un’altra generazione con la speranza che sappia
accettare i nostri limiti. Allora ciò che caratterizza lo scambio tra una generazione e un’altra è il doppio
versante dono- debito che, a sua volta, riflette ancora una dimensione afettiva ed una etico-normativa. Per
approfondire questo doppio versante, faremo riferimento a due concetti accomunabili a quelli di dono-
debito, cioè
• la gratuità attiene più al dono e si manifesta nella mancanza dell’attesa di un contraccambio
• la gratitudine si riferisce al debito e ci preserva dal rischio di un donare narcisistico e si realizza, ad
esempio, nel caso dei genitori che, tenendo vicini i figli ad oltranza, possono più facilmente controllarli
e condizionarli e quindi esercitare il loro potere e dominio genitoriale, espressione di un possesso
iperprotettivo. Viceversa la gratitudine per quanto ricevuto in dono ci aiuta ad accettare che la finalità
ultima del prendersi cura è l’autonomia dell’altro e che qualsiasi progetto autenticamente educativo
supera chi l’ha messo in moto.
Il dono fatto all’altro è fine a sé stesso, ma è probabile che nel momento in cui finalmente germoglieranno i
frutti seminati da un adulto generativo, questi non sarà più in vita: la restituzione non è mai un processo
lineare e può seguire strade impensate, caratterizzate tra l’altro da salti fra le generazioni: i genitori dei
giovani adulti devono saper gestire la soferenza per il distacco dai propri figli, devono imparare ad
abbandonarli, rinunciare ai propri progetti su di loro e riconvertire le proprie energie generative in altre
imprese, lasciando ai propri figli lo spazio di diventare, a loro volta, adulti.
4 Il valore educativo della solidarietà e del volontariato
Tra le comunità educanti contemporanee
l’associazionismo ha come protagonisti i giovani, e costituisce un luogo di socializzazione ed educazione; in
particolare, il volontariato svolge un’importante funzione educativa e formativa per i giovani; si tratta di una
scelta che viene valorizzata proprio perché i legami sociali si sono allentati sempre di più.
È bene precisare che un’evoluzione da uno spontaneo atteggiamento prosociale verso una più ampia
generatività sociale, può avvenire grazie al filtro dell’educazione familiare ma anche attraverso esperienze
autentiche all’interno di microcomunità empatiche, come quelle dove si praticano attività di volontariato. Per
tale ragione, oggi si può afermare che il volontariato sia il deposito più significativo di capitale sociale per la
ricostruzione di legami comunitari e la costruzione di tutti quegli aspetti dell’identità definiti come morali,
sociali e civici.
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Le ricerche sul tema afermano che la scelta dell’impegno in qualche forma di volontariato si muova
sostanzialmente da una presa di coscienza critica dei propri bisogni e dalla capacità di uscire da sé per
riconoscere anche i bisogni degli altri.
G. Elia ha aiutato distingue
• l’altruismo beneficienza privata, tipica della filantropia
• impegno nel volontariato il dono gratuito; la forza del dono non sta nella cosa donata, ma nella
speciale qualità umana che il dono significa per il fatto di essere relazione.
Così, il volontariato non si configura come comportamento d’aiuto occasionale ma si esprime – in primo luogo
– attraverso la continuità e diviene nel tempo come un modo di essere, uno stile di vita.
Si tratta di una relazione che deve instaurarsi in un’interazione faccia a faccia con altri e in una continuità
temporale che consente lo strutturarsi, appunto, di una relazione caratterizzata da un impegno nei confronti
dell’altro, da un amore etico.
Alcune ricerche hanno evidenziato che il comportamento prosociale e l’impegno nel volontariato hanno
certamente una connessione con le relazioni e i legami familiari, fra cui l’influenza della madre rispetto alla
scelta concreta dell’impegno nel volontariato e l’impegno attivo del padre in azioni prosociali e il supporto che
questi fornisce ai figli.
Altre ricerche dimostrano invece come il volontariato possa divenire un percorso in cui sperimentare e
apprendere ciò che la famiglia non ha potuto o saputo dare, una sorta di fonte educativa vicaria, che permette
alla persona, attraverso le potenzialità proprie della microcomunità empatica di accedere alla logica del dono;
si tratta – in altre parole – di un vero e proprio “tampone intergenerazionale”.
Il volontariato allora si pone come utile strumento in grado di favorire e sviluppare una formazione completa
della persona solidale. M. Pollo sottolinea come sia importante che i giovani, ed alcuni lo fanno, mettano al
centro della propria vita una costellazione di valori, che definisce dell’alterità solidale, riferendosi ad un
percorso di decentramento da sé per aprirsi all’altro ma che non avviene in modo naturale e spontaneo, ma
attraverso l’educazione alla condivisione all’interno – ad esempio – dell’iniziazione al volontariato, i cui è
possibile sperimentare la concreta realtà dell’altro da me all’interno di una condivisione autentica; una
restituzione intesa non solo in senso letterale ridare a chi ci ha fatto un dono, non solo indietro, ma anche in
avanti donare perché si è ricevuto in dono, trasferire ad altri in senso pienamente generativo quanto
abbiamo già ricevuto e oltre a ciò che abbiamo ricevuto.

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Sesta unità: il dialogo esistenziale
Il metodo della relazione educativa
Lez. 21 Aver cura
Giuseppina D’addelfio
1 I gesti dell’aver cura
Con la definizione aver cura ci si riferisce alla valorizzazione dell’altra persona nella totalità del suo essere e
all’accompagnamento nel cammino di personalizzazione della sua esistenza
Il filosofo Hans Jonas parte da un’intuizione racchiusa nell’immagine dei genitori che si prendono cura del
proprio bambino. Proprio da questa immagine in cui la persona bisognosa di cura e la persona che risponde
all’appello; parte la questione
cosa accade a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui?
Accostando questa riflessione ad altri come
Nel Noddings che osserva come la cura genitoriale è un fatto originario della nostra umanità; la studiosa
propone di ripartire dall’esperienza del caring come relazione e, innanzitutto, dal ricordo di essere stati
fruitori della cura d’altri, che ci hanno permesso di essere quel che siamo oggi. Coltivare questo ricordo è la
base per essere educati all’attenzione e all’empatia, quindi alla vita morale. L’autrice in particolare individua
delle disposizioni formative:
• l’attenzione, intesa come una basilare capacità di decentramento, di silenzio ed ascolto dell’altro; è
una virtù dianoetica, cioè del pensiero – che poi si traduce in una specifica virtù etica, cioè del
comportamento. Solo dopo questo primo gesto, tutto interiore,
• spostamento della propria energia dal sé all’altro altrettanto interiore che ancora non si quantifica
all’esterno. La comunicazione autentica avviene solo attraverso una profonda competenza
nell’ascoltare che permetta di essere veramente aperti a tutti i messaggi dell’altro, impegnandosi a
comprendere l’emittente e i suoi messaggi dal suo punto di vista. Non rispettando tali gesti, si rischia di
ricorrere a cattive abitudini, come ad esempio: non mantenere il contatto visivo con la persona,
sorridergli poco, non guardarlo mai negli occhi, mantenere una distanza spaziale eccessiva oppure non
lasciare che l’altro termini di esprimere il proprio pensiero. Tutte queste cattive abitudini devono
invece essere ribaltate nel loro opposto, ricavando buone attitudini che educano ad un atteggiamento
di attenzione nei confronti dell’altro. Il primo atteggiamento di cura sarà quindi secondo Erikson
fornire un “volto disponibile”. Se questo non avviene in età infantile, l’adulto continuerà a cercare il
riconoscimento di sé negli altri.
La semplice presenza non basta, ma si deve andare verso una ricerca di una comprensione. Heidegger ci
suggerisce che la cura deve essere fatta di riguardo e indulgenza: è importante rilevare che entrambi i termini,
in lingua tedesca, contengono la parola “sicht” (vista), come a voler sottolineare che il mantenere lo sguardo
sull’altro è elemento imprescindibile della cura per l’altro. Invece, quel tras-curarsi reciproco, porta
lentamente, all’estraneità e dissolve la relazione educativa che comincia innanzitutto con il non guardarsi
(infatti spesso si dice per lui/per lei sono invisibile).
La cura che si esplicita nella capacità di fare silenzio davanti all’altro fa seguito il
gesto dell’accoglienza: accogliere e contenere per rassicurare, far sentire a proprio
agio.
Ora, tutti questi gesti di cura saranno autentici e non troppo inadeguati se gli educandi sentiranno di essere
amati, nelle cose che a loro piacciono: un semplice gesto di cura dell’adulto nei confronti del bambino, ma
anche di un partner verso l’altro, è quello di informarsi e di cercare di conoscere quegli ambiti verso cui si
orienta l’interesse dell’altro.

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L’educando, da una parte deve sentire che l’educatore intende farsi a lui vicino, ma senza volerlo possedere,
esaudire nelle sue categorie, dominare; dall’altra parte l’educatore deve essere sempre consapevole che il
comprendere non equivale necessariamente a “capire” tutto, a “capire” l’altro, che è e deve essere
mantenuto come non contenibile. Proprio per questo la ricerca di comprensione si regge sul desiderio di
accoglienza incondizionata.
L’azione di cura deve essere poi ferma e non tentennante: molti “educatori” non sanno porre limiti e fare
rimproveri; se lo fanno, sembra quasi se ne debbano scusare e difficilmente sanno poi tener fede a quello che
dicono di fare, qualora il limite venga trasgredito; di conseguenza i bambini che vengono loro affidati
diventano “selvaggi” e “sovrani”. In altri termini, un bambino a cui non vengono imposte delle regole è un
bambino che manifesta in più modi di averne proprio bisogno.
Gli autori del celebre testo L’epoca delle passioni tristi legano la tristezza dominante del nostro tempo alla
crisi dell’autorità educativa, che si può considerare un’incapacità di consegnare in eredità un mondo dotato di
significato. Alludono ad un’eclissi di autorevolezza che oggi si manifesta soprattutto nel concepire ogni
relazione come simmetrica e contrattuale; risulta difficile esercitare un ruolo educativo perché genitori e
insegnanti, in nome del rispetto della libertà individuale, si sentono continuamente tenuti a giustificare tutte
le loro scelte, fino a scusarsi con il bambino dinnanzi alla sua insoferenza o ribellione. Senza essere rassicurati
e contenuti, questi bambini sono lasciati soli di fronte alle proprie emozioni e il rapporto con gli educatori, ma
anche con i pari, diviene teso e ansioso. È proprio nei meno desiderabili atteggiamenti e gesti di controllo e
guida che può trovarsi la traduzione pratica specifica delle modalità relazionali del codice paterno.
2 Gli stili dell’aver cura
l’individuazione delle due variabili del controllo e del contatto, che sempre dovrebbero entrare in gioco nello
stile dell’educatore. Tali variabili sono indispensabili per definire gli stili educativi:
• autoritario è quello dove il controllo è massimo, mentre minimo – quasi assente – è il contatto.
L’imposizione delle norme e la trasmissione dei significati è preponderante rispetto alla promozione
della persona dell’educando e, quindi, a quella che abbiamo presentato come autentica consegna
educativa.
• permissivo è quello dove il controllo è minimo, quasi assente. Nella maggior parte dei casi, quando il
controllo è minimo il contatto è massimo; tuttavia nel caso di un educatore permissivo, il contatto può
essere anche minimo, come avviene per molti adulti permissivi trascuranti che non rispondono in
nessun modo al bisogno di riconoscimento dell’educando.
• autorevole ed empatico è quello in cui la misura del controllo è in una saggia medietà, mentre
massimo è il contatto. C’è uno sbilanciamento nell’espressione dell’afettività e del calore
che diventano habitat proprio della consegna educativa. Ed è lo sbilanciamento proprio di quel darsi
fiducia reciprocamente, che solo genera comunità davvero educative. Si tratta di uno stile educativo
che vede la compenetrazione dei due codici, materno e paterno.
Quel bambino che non riceve né dai genitori né dagli altri educatori alcuna indicazione, non è afatto libero
di scegliere e di trovare i significati che cerca, bensì è incapace di selezionare il gran numero di informazioni
che riceve, di comprendere ciò che lo circonda, di scegliere e prendere una qualsiasi posizione, di inserirsi
positivamente e costruttivamente nelle relazioni sociali.
Dove, invece, il principio di autorità è autenticamente inteso e vissuto come autorevolezza educativa, viene
oferto al bambino un mondo simbolico comprensibile, una mappa di significati dalla quale partire.
Infine, va osservato che il principio di autorità è autenticamente inteso e vissuto dove l’adeguato grado di
controllo e di contatto si congiunge alla congruenza dell’educatore. Nessuna consegna educativa potrebbe
essere possibile se l’educatore fosse incostante, inaffidabile: se non tenesse fede, in prima persona, alle sue
parole e non tenesse saldo il suo comportamento. L’educatore dev’essere dunque capace di un’attestazione
affidabile, ovvero di autentica testimonianza.

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3 La risposta all’aver cura
In una teoria della cura educativa, non va dimenticata la risposta del fruitore delle cure:
L’educatore, che è, innanzitutto, il genitore e non può aspettarsi una simmetria, che permetta di riavere
indietro dalla persona di cui ha cura, una risposta che riequilibri la relazione. Tuttavia, il suo va valorizzato
come elemento strutturante, e non accessorio, della relazione educativa.
Si tratta di risposte di riconoscimento, che non si esprimono necessariamente a parole e che in ogni caso
costituiscono un feedback prezioso, di cui il datore di cura deve tenere conto: continuare sempre ad essere
attento, ascoltare e osservare la persona che è affidata alle su cure, aiuta a che la cura non segua solo l’idea
iniziale dell’educatore, ma che si adatti al divenire, alla crescita e al cambiamento della persona.
Lo psicologo Hofman valorizza
lo stile educativo induivo, caratterizzato dall’impegno dell’adulto a spiegare, evidenziare nessi,
trarre conseguenze da fatti e scelte. In esso sono decisivi gli incontri disciplinari, cioè le occasioni di
rimprovero, che diventano veri e propri incontri morali: grazie ad essi il bambino può imparare ad aver
cura. Attraverso il dialogo ed il ragionamento, gli educatori possono ofrire significative ragioni per
l’azione, che saranno gradatamente interiorizzate; possono far esercitare a spostare l’attenzione sul punto di
vista dell’altro; invitare il figlio a provare ad immaginare come si sentirebbe al posto dell’altro e a
guardare oltre la situazione immediata. In efetti si diventa capaci di forme di esplicito e compiuto
perspective taking: cioè di assunzione della prospettiva dell’altro, a partire dai sei anni circa.
Tuttavia l’educatore può gradatamente formare in tal senso buone abitudini, che aiutano il crescere
dell’abilità morale del decentramento e modificare il suo modo di relazionarsi con gli altri: può diventare più
capace di tener conto della prospettiva dell’altro, accogliere la diversità di opinioni, costruire e coltivare nuovi
legami di amicizia.
I rimproveri sono regali della cura educativa: sono incontri relazionali speciali con gli adulti che costituiscono
una sorta di prova degli incontri che nella vita il bambino dovrà afrontare da solo.

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Lez.22 Educare le emozioni, educare il
sentire Giuseppina D’Addelfio

1 Educazione della vita emotiva, educazione della vita normale


Le emozioni costituiscono, innanzitutto, il linguaggio con il quale il corpo registra la presenza di una realtà
esterna a sé, intuendone quelle qualità specifiche che sono di rilievo per la persona e per la sua piena
realizzazione. In tal senso possiamo afermare che le emozioni dischiudono universi soggettivi.
La stessa realtà può avere significati diversi per ogni persona, oppure la stessa persona può avere anche
prospettive diverse nel corso della sua esistenza.
L’approccio fenomenologico aiuta a riconoscere che vivere un’emozione non è cogliere autoriflessivamente i
nostri stati emotivi, bensì cogliere ciò che è sottratto al nostro controllo. Spesso però non si pone attenzione
alle emozioni e alla loro potenzialità di dirci qualcosa del reale, di affinare e ampliare l’esperienza che ne
abbiamo. Quando le emozioni mancano di referenze ontologiche possono crescere a dismisura, strabordando;
pertanto vengono intese da educandi ed educatori alla stregua di forze che al più, il soggetto deve imparare a
gestire, per quanto egli possa riuscirci.
È dunque necessario far maturare nella consapevolezza della necessità di intraprendere un cammino di
approfondimento del sentire. Quando ciò non accade, si cade nell’emozionalismo tipico del nostro tempo: si
finisce per conferire alle emozioni il compito, per esse sproporzionato, di dirci tutto ciò che è davvero
importante.
Il passo essenziale è quindi l’alfabetizzazione emotiva, attraverso il lessico del sentire ovvero quello che gli
psicologi chiamano vocabolario emotivo. Questo permette di lavorare sull’ordine del cuore. Non basta
acquisire consapevolezza delle cose che ci stanno a cuore, ma bisogna riordina questo universo disordinato, il
guazzabuglio che è il nostro cuore, spesso costellato di ferite e lacerazioni.
In queste esperienze di dolore, l’esistenza non può essere autentica. Il cuore frantumato vuole dare libero
sfogo a tutto ciò che sente e può portare così un ordine, verità ed il cuore appare ora capace di apprendere e
conoscere la realtà, ricercando il vero.
Grazie all’incontro con un educatore autorevole ed empatico, il cuore in formazione appare capace di
apprendere a riconoscere anche la realtà dell’altro e superare il narcisismo individualistico
Il sentire si lega ad un atto impegnativo e voluto, ad una paziente costruzione di sé e della relazione con
l’altro, in cui il versante afettivo e quello etico non possono essere scissi: proprio per questa ragione, nel
sentimento
– che non è solo emozione, ma anche impegno morale – la vita emotiva pienamente fiorisce.
2 Educare le emozioni nella vita di famiglia
Molti studi di psicologia dello sviluppo sottolineano come il dialogo emotivo familiare assume una grande
importanza nell’educazione dei figli, spesso ben al di là della consapevolezza o delle intenzioni esplicite dei
genitori. In particolare la psicologia ci rende accorti su come, innanzitutto in famiglia, si realizzi una vera e
propria socializzazione delle emozioni. Infatti le manifestazioni degli stati interni del bambino, sin da quando è
molto piccolo, assumono significato in base al modo in cui sono (o non sono) oggetto dell’attenzione,
dell’accoglienza e della significazione oferta dagli adulti. Ciò che è misconosciuto o condannato dall’adulto,
anche solo con una parola, uno sguardo troppo distratto, il tono della voce o un rapido gesto, non potrà
acquisire una fisionomia adeguata nel mondo interno del bambino, o lo farà più tardi con difficoltà. Infatti,
decisiva per la fioritura umana del bambino è la possibilità di esplorare le proprie emozioni, riconoscerle e,
pian piano, imparare a nominarle, narrarle e condividerle.
Le ricerche pedagogiche evidenziano una correlazione molto positiva fra precoce uso e comprensione del
vocabolario emotivo da parte dell’adulto di riferimento e capacità di comprensione delle emozioni nel
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bambino Se quindi chi si prende cura di lui usa, sin da quando è molto piccolo e poi costantemente lungo le

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fasi della sua crescita, un lessico appropriato, supportando questo bambino in modo adeguato, lo guida
gradualmente nell’interpretazione degli eventi che scatenano le emozioni e gli permette di accedere al suo
mondo interno.
Va osservato che sulla crescita afettiva dei bambini influisce
• la metaemozione dei genitori l’insieme delle loro opinioni e convinzioni sulle emozioni, sul loro valore
e sul loro modo di viverle
• lo stile cognitivo degli adulti di riferimento; a tal riguardo Gottman distingue
o uno stile di guida (coaching) genitori autorevoli. Si tratta di genitori che cercano di essere
consapevoli delle proprie emozioni e attenti a quelle altrui, contenitivi e supportivi, non
minimizzano le emozioni del bambino, siano esse positive o negative. Sanno trascorrere il
tempo con un bambino arrabbiato o impaurito senza mostrarsi impazienti, anzi considerano le
emozioni negative del figlio come un’occasione formativa.
o uno stile di messa al bando (dismissing) genitori incapaci di contatto emotivo, perché troppo
autoritari o trascuranti; le cui emozioni sono messi al bando. I genitori non sanno esplorare la
propria dimensione interna, quindi non possono accostarsi adeguatamente alle emozioni del
figlio. Soprattutto di fronte alle emozioni intense e di segno negativo, tendono a minimizzare, a
negare, a scegliere le strategie più sbrigative per rimuovere la situazione che le ha generate (il
“problema”!) il prima possibile. In genitori come questi, i codici relazionali paterno e materno
non sono ben integrati.
Le ricerche empiriche indicano non solo che un adulto emotivamente competente e attento genera un figlio
capace di comprendere meglio le emozioni, ma anche che ciò vale sia per le emozioni proprie che per quelle
altrui. Sembra questa la ragione per cui aver potuto godere di relazioni di attaccamento di tipo sicuro si
collega ad una maggiore capacità di accoglienza dell’altro.
È in questa prospettiva che si può cogliere la rilevanza dell’educazione all’empatia: poiché un individuo ha più
probabilità di rispondere empaticamente a un’emozione altrui se l’ha sperimentata, le relazioni familiari
devono innanzitutto permettere al bambino di esplorare serenamente il proprio mondo emotivo, quindi
anche le emozioni negative.
Tutto ciò sarà possibile con un lavoro di educazione all’immaginazione: occorre trovare modi per far
esercitare il bambino a figurarsi come si sentirebbe egli stesso o una persona a cui tiene molto, se fosse al
posto di vittime sconosciute o al posto di ciascuna delle parti coinvolte in una situazione conflittuale.
Per far ciò si possono valorizzare
• i giochi di finzione, in cui il bambino si esercita a costruire un mondo ipotetico grazie al quale accedere
a punti di vista, condizioni e vissuti diversi dai suoi;
• un uso intenzionalmente educativo delle narrazioni e in particolare di quelle, come i romanzi, che
spingono i lettori a mettersi al posto di altre persone, anche lontane da loro, partecipando alle loro
esperienze. La narrazione poi, soprattutto a partire dall’adolescenza e massimamente nell’età adulta,
diventa risorsa formativa attraverso l’autobiografia: raccontarsi aiuta a risignificare il tempo e i vissuti,
a riscoprire l’intenzionalità delle proprie emozioni, afetti e sentimenti.
3 Educare le emozioni a scuola
Recenti studi hanno fatto emergere l’impatto positivo sia della conoscenza efettiva che gli insegnanti
hanno dell’educando, sia l’espressione concreta della stima nei suoi confronti.
L’espressività positiva dell’adulto di riferimento è correlata alla capacità di risposta in buoni comportamenti
degli alunni nei confronti sia dei loro insegnanti, sia di altri membri della scuola e degli altri in generale: un
modello educativo di adulto aggressivo, poco capace di autentica consegna educativa, che cerca di ottenere e
mantenere la disciplina sempre e solo con la forza, senza mai cercare di comprendere le ragioni e le emozioni
dell’altro, insegna nei fatti al bambino che con l’aggressività si possano raggiungere i propri obiettivi.

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Se guardiamo in modo più specifico al mondo della scuola, le diverse proposte di educazione delle emozioni
che si sono difuse negli ultimi anni si concentrano principalmente sull’acquisizione di tre abilità di base:
• riconoscere le emozioni significa saper nominare le emozioni, associandole anche alle loro
manifestazioni corporee
• comprenderle saper formulare spiegazioni ed interpretazioni;
• esprimerle saperle comunicare e gestire in modo appropriato alle diverse situazioni e
relazioni. Ciò va ovviamente graduato e proporzionato in base all’età.
Le diverse proposte di educazione delle emozioni a scuola possono essere distinte a partire dai diversi
costrutti teorici ad esse sottesi. I principali costrutti di riferimento sono quattro:
• Intelligenza emotiva, che si traduce nella volontà di insegnare ai bambini quello che potremmo
definire alfabeto emozionale, le capacità fondamentali del cuore. Attraverso la conoscenza delle
emozioni, l’obiettivo formativo è la maturazione di una specifica competenza sociale in cui centrale è la
capacità di regolare, controllare e usare le emozioni. Fenomenologicamente parlando può apparire un
approccio
riduttivo, poiché troppo concentrato sull’emozione come problema, tuttavia contiene strumenti utili
assessment, valutazione delle abilità di percepire emozioni, o problem solving emotivo, cioè gestire le
proprie emozioni sia sul piano individuale che relazionale. Si aggiunge poi il training e il
potenziamento.
• Metacognizione, tesa a promuovere l’abilità di identificazione degli stati fisici che caratterizzano certe
emozioni, di riconoscere le emozioni in sé stessi o negli altri (tenendo conto anche del fatto che uno
stesso evento può suscitare emozioni diverse in soggetti diversi, oppure che una certa emozione può
essere manifestata in un modo o in un altro, oppure non manifestata afatto).
• Teoria Relazionale Emotiva (RET), che mette in risalto soprattutto l’influenza del pensiero sulla genesi
delle emozioni e soprattutto di evitare pensieri nocivi e irrazionali che generano e alimentano stati
d’animo distruttivi per la persona e per le sue relazioni. Questo approccio valorizza il dialogo interiore,
inteso come un commento interno che possiamo elaborare dinnanzi a eventi esterni o interni, in modo
da guidare il sorgere e lo svilupparsi delle emozioni dentro di noi.
• Competenza emotiva, di matrice sociocostruttivista ha quindi un orizzonte di riferimento teorico vicino
alla fenomenologia, soprattutto nella costruzione della soggettività personale. Il socio costruttivismo
infatti, ha il grande merito di aver sottolineato che dire emozioni significa nominare immediatamente
relazioni interpersonali; s’intende l’insieme di diverse abilità quali: essere consapevoli delle proprie
emozioni; saperle esprimere anche in base al contesto; saper distinguere l’emozione provata da quella
espressa; usare un vocabolario emotivo adeguato; essere consapevoli del ruolo della comunicazione
emotiva nelle relazioni; saper attivare strategie di coping (cioè saper far fronte a situazioni
problematiche). La competenza emotiva è un costrutto ricco e complesso, che porta a sintesi anche
approcci precedenti.

Lez. 23 Educare alla relazione, educare alla generatività


Maria Vinciguerra

1 Educare al senso di alterità


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Partiamo dal da un interrogativo:

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com’è possibile, nella relazione con l’altro, cogliere il senso dell’alterità, se l’altro rimane sempre altro da me
e mai totalmente sconosciuto?
Una riflessione è data dalla pedagogia interculturale che si occupa di indagare il significato delle diferenze:
l’altro, l’estraneo, il diverso può sollecitarci due atteggiamenti di segno opposto:
• la paura, il disagio, l’allontanamento (dalla tolleranza alle forme più gravi di discriminazione)
• il rispetto, il desiderio di conoscere, l’ospitalità; questi ultimi costituiscono il segno di una tensione
verso il senso più acuto dell’alterità. Uscire fuori dalla logica del rispetto significa allontanarsi
dall’alterità, rifiutarla e respingerla, non cogliendo l’altro come una risorsa, perdendo la possibilità di
un apprendimento reciproco.
Ne consegue che non può esserci dialogo autentico senza un riconoscimento della diferenza dell’altro e
dell’ambivalenza e dell’incertezza che questa consapevolezza implica.
In tal senso, se vogliamo costruire un metodo dialogico interculturale, è inevitabile lavorare sulla gestione dei
conflitti per arginare atteggiamenti appropriativi propri di colui che tenta di dominare l’altro; quindi, educare
giovani e meno giovani alla relazione significa acquisire un metodo responsivo per tradurre in pratica la logica
del riconoscimento reciproco, antitesi perfetta della logica di appropriazione; si disposizione abituale che
deve appartenere in primo luogo all’educatore che, mentre prospetta la sua proposta educativa, si dispone ad
accogliere e riconoscere l’altro, l’educando.
Da un riconoscimento reciproco, confermando l’esistenza e l’importanza dell’altro, e attraverso un autentico
dialogo interculturale, può nascere la ricerca di ciò che è comune appartenenza, di ciò che è essenzialmente
umano e che quindi per analogia, mi fa cogliere la comunione con l’altro, che però, interpellandomi con le sue
domande, mi fa percepire autenticamente anche la sua alterità.
Il lavoro educativo si esprime attraverso la costruzione di spazi di incontro tra culture giovanili diverse, uno
spazio di ascolto dove, attraverso una complessa co-elaborazione di senso è possibile pervenire ad una
condivisione di valori e significati universali.
Non bisogna tuttavia commettere l’errore di finire per promuovere un ideale di umanità universale che metta
fuori campo le diferenze. Al contrario, un concreto lavoro educativo è finalizzato a sensibilizzare le nuove
generazioni alle diferenze che connotano la singolarità dell’altro e insieme a far cogliere la comune umanità
da cui originano queste diferenze.
E’ necessario pertanto attivare percorsi educativi che facilitino l’accesso ad occasioni di conoscenza dell’altro,
anche attraverso un fare comune e condiviso. In tal senso, non possiamo dimenticare il ruolo svolto anche
dalla scuola nella direzione di nuove proposte di educazione all’alterità, alla diferenza.
La scuola può assumere un ruolo centrale nell’attivare processi di contatto e incontro tra bambini e
adolescenti provenienti da contesti culturali diversi; confrontarsi con le “buone” pratiche promosse e
realizzate in alcune scuole italiane ci permette di intravedere elementi di novità che possono attivare percorsi
segnati da un’educazione autentica. Ciò grazie ad uno sguardo attento alle dimensioni fondamentali che
definiscono una scuola inclusiva e di qualità: la comunicazione interculturale ed il riconoscimento reciproco.

2 Educare alla generatività


Per parlare di educazione alla generatività si deve considerare il
CONCETTO DI GENERATIVITÀ che fa riferimento alla procreazione e alla genitorialità; Erikson per primo
considerò il concetto di generatività, come un costrutto complesso che connota l’adultità.
Essa rappresenta il segno distintivo dell’età adulta, perché “adulto” è colui che è in grado di “generare”, di
creare discendenza; secondo in McAdams si tratta di uno scambio intergenerazionale attraverso un costrutto

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relazione educativo familiare, di ciò che ha ricevuto la generazione precedente e ciò che si riceve da quella
successiva.
CONCETTO STAGNAZIONE si oppone quello di generatività, condizione per cui un adulto non generativo
rimane bloccato in una condizione di vita caratterizzata da un ripiegamento su sé stesso (come bloccato in
uno stagno, appunto).
Nella letteratura italiana viene intesa come relazionale: solo nella nostra specie la riproduzione diviene anche
generazione, perché la generatività non si esaurisce nella discendenza biologica, ma si apre anche alla
dimensione simbolica.
Scabini sottolinea una terza condizione speculare dimenticata la filialità.
Nella sua accezione sistemico-relazionale, la generatività è nucleo vitale di tutte le relazioni familiari: si riceve
dal passato per essere oferta al futuro, è un’eredità che va elaborata dalla coppia per poi essere rilanciata in
modo adeguato. E seppur abbia origine da fonti donative carenti, può essere feconda se la coppia è in grado di
assumere su di sé il peso dell’ingiustizia subita, se è il grado di fare da tampone intergenerazionale.
Così diventare generativi significa che:
• da un lato la famiglia è il luogo per eccellenza della cura del legame efettivo che sostiene la
persona nel suo processo di crescita psicologica e umana,
• dall’altro è anche il luogo di relazioni educative che influenzano le scelte di vita familiare future.
Uno sguardo attento alla possibilità concreta di un’educazione alla generatività richiama la dimensione etica
della responsabilità: se gli uomini non si assumono responsabilità, possono arrivare a pervertire il legame, a
negarlo o ad abolirlo; ed è proprio l’attacco grave al legame e la sua perversione che rappresentano la
costante relazionale dell’antigeneratività: il controllo delle nascite, la procrastinazione della genitorialità,
l’instabilità afettiva nella coppia e uno status di single sempre più difuso ed accettato, sono tutti
fenomeni che fanno pensare ad una distorsione – se non ad una negazione – del legame; si tratta di un
contesto sociale che sembra aderire ad una deriva antigenerativa sia nelle scelte di vita familiare sia nelle
relazioni sociali.
Com’è possibile allora educare le famiglie alla generatività?
Innanzitutto è necessario partire da un’educazione alla vita di coppia:
• recuperare la dimensione dell’impegno che è componente essenziale – insieme all’afettività – di
tutte le relazioni significative.
• un’educazione alla coppia e alla genitorialità, ad una preparazione al matrimonio che renda chiari ed
espliciti due elementi:
o la valutazione della cultura familiare del partner
o la maturazione della coppia verso la disponibilità a progettare la sua apertura alla vita.
Alle giovani coppie deve essere chiarito che il matrimonio postula l’unione anche delle due famiglie d’origine:
ciò significa che è necessario valutare il sistema valoriale di cui la famiglia del partner è portatore. Tutto ciò
avrà una ricaduta anche al momento della scelta procreativa, perché sarà necessario negoziare all’interno
della coppia due sistemi valoriali per trovare il proprio e poter formulare un progetto educativo condiviso per i
figli.
Le difficoltà maggiori di una relazione di coppia:
• risiedono nella capacità reciproca di assumere il punto di vista dell’altro e di impegnarsi nel
promuovere il bene della relazione che ne scaturisce;
• un lavoro sul riconoscimento delle diferenze tra me e l’altro è alla base di un’educazione alla relazione,
grazie alla quale la coppia acquisisce una maggiore consapevolezza delle diferenze da cui è segnata al
suo interno.
Attraverso un confronto dialogico sulle diferenze che può nascere l’inedito della nuova coppia
L’innesto generativo: è un tipo di percorso che si basa non solo sul potenziamento delle risorse interne alla
coppia, ma anche sull’incremento di scambi positivi tra la coppia e le altre coppie con cui condividere de
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esperienze: una microcomunità che sostiene e incoraggia la vita di coppia, stimolando una reciproca
riflessività relazionale.
Si tratta di organizzare gruppi di lavoro meglio definiti come “ gruppi di dialogo pedagogico”, costituiti anche
da poche coppie che hanno lo scopo di diventare una comunità educante e quindi formativa, in cui l’ascolto, la
comunicazione e la possibilità di esprimere i propri vissuti e le emozioni che li accompagnano divengano gli
strumenti di un sostegno reciproco e creino uno spazio adeguato ad una nuova elaborazione di significati.
Questo tipo di approccio al sostegno alla genitorialità sembra concretizzarsi nell’esperienza formativa
promossa dalle Scuole per genitori: luoghi, o meglio di spazi, in cui i genitori possano accrescere la percezione
delle proprie capacità educative e competenze genitoriali, grazie anche ad un confronto tra risorse e
potenzialità educative proprie e di altri genitori; in tal senso, i genitori possono apprendere nuovi modi di
relazionarsi, per una realizzazione piena del loro compito educativo.

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Lez. 24 Il dialogo esistenziale centrato sull’empatia
Antonio Bellingreri

La proposta di un metodo educativo


Il dialogo esistenziale centrato sull’empatia è stato definito il metodo educativo più adeguato perché risponde
adeguatamente agli stili di vita delle nuove generazioni che fanno parte di una società della tarda modernità.
Si tratta di una forma di dialogo interpersonale tra educatore ed educando in cui, soprattutto per l’educando,
si tratta di crescere nella consapevolezza personale di quello che si è e che si può/deve essere.
L’obiettivo è quello di acquisire più consapevolezza del modo di afrontare la realtà e di saper cogliere l’ideale
di vita buono proposto (consegnato) dall’educatore.
Esso viene qualificato con l’aggettivo “esistenziale” perché il tema ricorrente è il modo con cui ciascuno abita
il mondo e dell’atteggiamento che si ha di fronte all’essere e all’esistenza.
Inoltre, esso è “centrato sull’empatia” in quanto, tramite la capacità di sapersi connettere all’altro
emotivamente, si riesce a cogliere qualche tratto del modo che l’altro ha di abitare il mondo.
Allo stesso tempo però, non bisogna paragonare il dialogo esistenziale ad altri metodi segnati sull’empatia,
come ad esempio la psicoterapia (che aiuta la persona a ritrovare le energie psichiche per diventare capaci di
vivere una vita sana ed equilibrata. Proprio questo è un punto in comune con la prospettiva educativa
centrata sull’empatia, perché appunto il suo scolo è quello di far si che la mente del soggetto sia predisposta
ad accogliere il bene e ad attuare una forma d’essere di maggiore pienezza.
Codice empatico
Essendo un dialogo tra educatore ed educando, esso può essere inteso come l’elaborazione di un testo, o più
precisamente di un “quasi-testo”.
In questo momento della pedagogia fondamentale viene esaltato il contributo dell’ermeneutica che aiuta ad
analizzare e comprendere il senso esistenziale dei testi.
Per prima cosa, l’analisi sarà rivolta a riflettere sugli elementi determinanti che configurano la struttura del
quasi-testo (momento scientifico).
In secondo luogo, l’analisi dovrà prendere in esame il significato emerso del dialogo (momento della
riflessione ontologica ed esistenziale del quasi-testo).
In ogni stile educativo possiamo distinguere tre elementi costitutivi:
1) Il primo è il fattore di controllo (C) che, nelle relazioni educative riguarda gli aspetti di autorità e
controllo. Esso può essere anche definito come fattore di gestione della relazione perché capita che in
ogni incontro tra due o più persone che interagiscono, qualcuno cerca di condurre il rapporto,
condizionandone la struttura e le dinamiche.
2) Il secondo è quello emotivo-afettivo (E) che, nei rapporti educativi comprende i tratti del contatto
socio-emotivo dei partner in interazione; il fattore afettivo fa incontrare l’altro nella sua diversità
e, inoltre, costituisce il clima giusto affinché ci si possa esprimere e soprattutto ascoltare l’altro che si
racconta.
3) Il terzo fattore di autenticità espressiva e comunicativa (A); è una variabile che non può essere rilevata
con il massimo di oggettività e rigore. Esso riguarda il linguaggio utilizzato dall’educatore, i gesti (che
dicono molto di lui), gli atteggiamenti di fondo e gli orientamenti ideali: tutte cose importanti
dell’azione educativa.
Questi tre fattori compongono il sistema dialogale come struttura delle relazioni che si articola tra le opposte
polarità C ed E.
Quando l’incontro, il riconoscimento e l’azione educativa sono segnati sull’empatia, il sistema dialogale è
segnato da un fine, la cui riuscita è la virtù dell’educazione. Ciò ci consente di chiarire quali sono le regole del
codice empatico:

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1) L’empatia rende il controllo nella relazione minimo, risulta evidente quindi che il dialogo tra le
opposte polarità del fattore C vengono superate da un atteggiamento autonomo (non dominante,
non di sottomissione). Questo è il primo aspetto caratterizzante del codice empatico, chiamato
anche sistema attivo di regolazione.
2) Nel dialogo tra le polarità del fattore E, l’empatia esige una forma di distacco, è un atteggiamento
che fornisce nel dialogo la norma dell’amorevolezza educativa.
Grazie a queste regole e ad un’onestà morale e intellettuale, l’educatore, coerente con l’atteggiamento da lui
assunto, favorisce l’autonomia della persona coinvolta nel dialogo educativo che è accolta amorevolmente,
come una CONSEGNA.
Poietica dell’esistenza
La consegna può concretizzarsi in una pratica che può risultare come un’esperienza trasformante per i
soggetti coinvolti. Ma per essere accolta dall’educando, l’educatore deve cercare di intercettare i suoi
desideri, quindi attuare una giusta interpretazione del desiderio (saperlo nominare).
Dall’analisi fenomenologica, emerge che il desiderio è parte costituente della nostra esistenza perché noi
siamo sempre travolti da questo “desiderare” in ragione di una mancanza.
Se noi però venissimo capo del nostro desiderio, arriveremmo a comprendere il nostro nome proprio, quindi
la nostra destinazione in questo mondo.
Ciò che può aiutarci ad arrivare ad una piena conoscenza di noi stessi è avere la fortuna di fare un incontro
significativo. Infatti, grazie ad una relazione dialogale, interrogandoci su noi stessi, verrà ad innescarsi una
ricerca di sé che impegnerà il soggetto a sperimentarsi, a mettersi in gioco e alla prova per riappropriarsi del
nome dell’autentico desiderare.
L’archeologia del soggetto
L’esistenza, come abbiamo visto, è definita dalla ricerca di una pienezza che rende la vira segnata da un
significato. L’educatore, infatti, deve presentarsi appunto come promessa di felicità, come possibilità di
fioritura della persona che venga sentita come desiderabile.
Non essendo un lavoro semplice, l’educatore aiuta l’educando a fare un inventario del suo essere concreto,
attraverso anche un clima emotivamente accogliente e una mente ben disposta: elementi importanti che
fanno del dialogo un metodo in cui l’educando può esprimersi e raccontarsi.
Infatti, è proprio attraverso il racconto, attraverso la narrazione di sé, che può emergere la prospettiva di vita
che orienta l’educando (anche attraverso le cose più piccole e poco significative): da qui si va delineando un
originale modo di abitare il mondo, che egli concretamente accetta come proprio e che configura come il suo
universo singolare
La teologia del soggetto
*teologia:concezione secondo la quale gli eventi avvengono in funzione di un fine o scopo.
Il fine del dialogo esistenziale è rendere la mente rivolta verso un bene, segnato dalla consapevolezza e dalla
libertà che ambisce alla libertà del poter essere, pertanto alla teologia del desiderio del soggetto.
Una tesi fondamentale della fenomenologia riguarda la coscienza.
La coscienza è intenzionalità che a sua volta è donazione di senso e disposizione ad accogliere il senso della
realtà che si ofre. La coscienza di sé è strutturata da un’originaria comprensione del proprio essere nel mondo
e si tratta di una pre-comprensione comunque sottomessa alla possibilità di risultare falsa o illusoria.
Mettendosi di fronte ai quasi-testi, il soggetto può leggersi intendendone il senso e spiegandolo: in questo
modo egli diviene consapevole di sé e può iniziare una propria esplorazione di quello che può essere.
Nel dialogo centrato sull’empatia, possiamo distinguere due momenti:

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-Il momento dialettico, in cui avviene un’interpretazione di noi, dell’altro e della relazione. Esso nasce come
critica alla coscienza spontanea per superare i propri limiti, le proprie vedute per il fatto che ci stiamo
confrontando con altri pensieri che sono diferenti dai nostri.
-Il momento maieutico
La gemmazione di senso
L’educazione appare dono e compito, in quanto l’educando riceve come un “dono” l’ideale di vita buona
proposta dall’educatore che, a sua volta, ha il compito di ofrire all’educando un punto di partenza dal quale
partire per arrivare ad un interpretazione del suo desiderio d’essere.
Per entrambi i soggetti, il dialogo empatico costituisce un’esperienza valoriale che possiamo definire come
una “gemmazione di senso”. Le parole dell’educatore e la consegna di un ideale etico di umanità possono
essere accolte dall’educando in un atteggiamento di reciproca empatia.

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Scaricato da mariagrazia miccichè (mariagraziamicciche85@gmail.com)

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