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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in

Antropologia, Religioni, Civiltà Orientali

Il genere e i condizionamenti sociali: l’influenza di film d’animazione, giochi e linguaggio

Tesi di laurea in

Antropologia Filosofica

Relatore Prof: Riccardo Caporali

Correlatore Prof: Pia Campeggiani

Presentata da: Tommaso Nardo

Appello
primo

Anno accademico
2015-2016
Indice

Introduzione 1

Capitolo 1

Il genere e le fiabe Disney 3

1.1 Le fiabe Disney: la trasposizione animata delle storie e la costruzione di un


immaginario intergenerazionale 3

1.2 Un protagonista - Una protagonista: quantità, qualità e impatto dei personaggi in


relazione al genere 6

1.3 Chi erano le prime principesse? Corpi e caratteri delle protagoniste femminili nelle ere
d’oro e d’argento Disney 11

1.4 Comparse rispettose, maschilisti convinti e bestie da educare: alcuni esempi di principi
Disney e i loro differenti ruoli 14

Capitolo 2

Il genere e i giochi 20

2.1 Come si gioca? La funzione e la natura del gioco nell’infanzia 20

2.2 A che gioco giochiamo? La costruzione dei ruoli di genere attraverso i giocattoli 24

2.3 Un gioco da ragazzi: l’influenza operata da pubblicità e packaging 29

Capitolo 3

Il genere e il linguaggio 34

3.1 La lingua dice molte cose: linguaggio, società e differenze di genere 34

3.2 Le parole sono importanti: disuguaglianza e discriminazione nella lingua italiana 40

Conclusioni 44

Bibliografia 46

Sitografia 48

Filmografia 48
Introduzione

Il presente progetto di tesi muove da un interesse rivolto all’identità di genere e alla sua
formazione, alla comprensione di come la consapevolezza di appartenere a un sesso, piuttosto
che a un altro, comporti scelte comportamentali differenti1 . Nello specifico l’indagine si
focalizza sull’influenza esercitata da cultura di massa e società in questo processo di creazione
identitaria, un percorso che inizia dalla tenera età e prosegue durante la crescita, che però non
si esaurisce con il raggiungimento dell’età adulta.
Questo progetto di studio e ricerca sull’identità di genere parte dal presupposto che gli stimoli
che accogliamo, passivamente o attivamente, una volta interiorizzati si trasformino nelle
categorie e negli strumenti che determinano il nostro modo di interagire con il mondo.
Oggetti di indagine privilegiata sono: materiale audiovisivo - nella forma dei film
d’animazione, giochi e giocattoli, e linguaggio.
Il primo capitolo considera l’idea che cartoni animati e storie da essi raccontati siano veicolo
di concetti che non si fermano al puro intento narrativo. In altre parole, la costruzione del
racconto prima e la visione di questo da parte dei bambini poi, ha come esito la costruzione di
modelli di interazione e ruoli sociali. Con spirito critico si ritiene quindi che i comportamenti
proposti e i modelli incarnati dai personaggi siano lo specchio della morale dominante di una
data società.
Al fine di comprovare quanto appena esposto, si è deciso di focalizzare l’attenzione sui film
della casa di produzione Disney, universalmente riconosciuta per aver lavorato, dagli inizi del
‘900 ad oggi, alla trasposizione in immagine delle fiabe classiche.
Il secondo capitolo è dedicato alla descrizione della funzione e della natura del gioco
nell’infanzia e all’analisi dei meccanismi di produzione e riproduzione di stereotipi di genere
proposti da giochi e giocattoli. Questi oggetti, presenza costante durante la crescita
dell’infante, non hanno una mera finalità ricreativa, sono finalizzati a configurare nei bambini,
spesso stereotipizzandola, la percezione di sé e del mondo. Nello specifico, nel corso della

1 Si specifica fin da subito che per sesso si intende il patrimonio genetico, l’insieme dei caratteri biologici e
anatomici che producono una differenziazione dicotomica maschio/femmina, mentre per genere (gender) ci si
riferisce a una costruzione di carattere socio-culturale, ovvero alla rappresentazione, definizione e incentivazione
di comportamenti dai quali deriva l’attribuzione di status di uomo/donna.

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trattazione si darà conto delle influenze sugli aspetti comportamentali e sulle convinzioni
trasmessi dai prodotti di consumo destinati ai più piccoli. In chiusura di capitolo si scriverà di
come, in molti casi, la scelta in fatto di giocattoli sia riconducibile a mirate politiche di
marketing - poste in essere tramite packaging e pubblicità.
Il terzo e ultimo capitolo ha come focus il linguaggio inteso come insieme di parole e codici
di identificazione dell’esperienza sensibile che, una volta appresi, consentono l’interazione tra
gli individui. Il capitolo si apre analizzando il linguaggio e le sue anomalie, viene poi proposta
una riflessione sulla la reciproca influenza di lingue e società. Per concludere si considera
nello specifico la lingua italiana e le modalità in cui attraverso di essa vengono veicolate
disparità e discriminazioni rispetto al genere.

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Capitolo 1

Il genere e le fiabe Disney

Le fiabe, tradizionalmente narrate per dare spazio all’immaginazione dei bambini e metterli a
confronto con un ampio universo di sentimenti, hanno, da sempre, svolto anche la funzione
pedagogica di proporre loro modelli di comportamento e codici morali. Con la trasposizione
cinematografica dei racconti classici, i bambini hanno iniziato a rapportarsi in modo più
indipendente nella fruizione, ma meno autonomo nella ricezione e nell’elaborazione dei
contenuti.
Alla luce di quanto esposto, si procede con un’analisi delle pellicole delle principesse Disney
affinché possano emergere messaggi e idee veicolati da storie, rappresentazioni e protagonisti.

1.1 Le fiabe Disney: la trasposizione animata delle storie e la costruzione di un


immaginario intergenerazionale

La Walt Disney Company, fondata nel 1923 in California con il nome di Disney Brothers
Cartoon Studio da Walter e Roy Oliver Disney, è progressivamente diventata una
multinazionale fra le più redditizie e influenti negli ambiti di media digitali e
d’intrattenimento per famiglie.
Attraverso la branca della società chiamata Walt Disney Animation Studios sono stati prodotti,
dal 1937 ad oggi, 56 lungometraggi animati, molti dei quali si sono guadagnati la nomea di
“classici” oltre ad un posto di riguardo nell’immaginario collettivo. Buona parte di questi film
si ispirano a fiabe tradizionali, quelle codificate dai fratelli Grimm, Charles Perrault e Jeanne-
Marie Leprince de Beaumont. Esse hanno caratterizzato l’infanzia delle generazioni passate e,
ancora oggi, vengono occasionalmente lette e raccontate.
Nella trasposizione cinematografica, passando attraverso il filtro Disney, ai significati già
presenti in queste fiabe se ne aggiungono di nuovi. Le storie subiscono piccole modifiche
affinché i valori e i modelli rientrino nei “confini etici” della casa produttrice, che con essi
propone una ben precisa visione del mondo, delle identità umane e di genere. L’influenza di

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questi contenuti non è da sottovalutarsi, soprattutto se si pensa che il target a cui sono
indirizzati è perlopiù quello infantile.
All’interno del lavoro di Mila et al. si trovano due interessanti studi: il primo, di Walma van
der Molen e van der Voort (2000) rileva che mentre gli adulti imparano più velocemente dal
testo scritto, per i bambini il modo in assoluto più celere di apprendere è osservando un video;
il secondo, ad opera di Mumme (2003) sottolinea invece quanto la facoltà di imitare azioni e
reazioni, acquisita intorno al primo anno d’età, si applichi anche ai comportamenti visti
attraverso uno schermo.
Con l’avvento dell’home video, il piccolo spettatore non si limita a vedere i film al cinema,
ma può ripetere la visione un numero illimitato di volte, arrivando spesso a conoscere per filo
e per segno i passaggi della storia preferita e addirittura a sapere a memoria le singole battute.
Ciò fa sì che gli elementi che compongono la storia vengano fatti propri ed entrino a far parte
del repertorio espressivo di riferimento del bambino.
Se si tiene in considerazione che il processo di apprendimento non è altro che una fase di
cambiamento nel comportamento a seguito di un’esperienza, anche il materiale audio-visivo
rientra tra le variabili che influenzano il fattore psico-emozionale, ovvero quello proprio della
personalità e degli stati emotivi, che, va ribadito, in un infante è in costante formazione (De
Lima, Salgado e Ciasca, 2010).
Certamente le influenze che determinano lo sviluppo di un infante sono molteplici, hanno pesi
diversi e agiscono in ambiti differenti: la famiglia, gli insegnanti, i compagni di gioco sono
tutti elementi che hanno un ruolo centrale nella delineazione identitaria di un individuo, nella
definizione del suo sistema di valori e del suo modo di rapportarsi al mondo e agli altri.
Queste fiabe-video influenzando la fantasia e l’immaginazione agiscono anche sulla visione
del reale determinandone il punto di vista. Si condivide il pensiero di Graziella Pirulla (2013,
p. 223) quando afferma: “fiabe e racconti fantastici attingono ad archetipi millenari e a
metafore della condizione umana: per questo hanno un valore che ne trascende la storicità. Le
fiabe popolari tradizionali riflettono però anche il sistema patriarcale in cui sono state
concepite quello che sancisce una netta separazione di genere per i ruoli dei personaggi e per
la loro rappresentazione”. La trasposizione Disney non si limita a tradurre in immagini le
dinamiche e i ruoli descritti nelle fiabe, da anche una forma precisa ai corpi dei personaggi.
Così i protagonisti delle fiabe e i loro corpi non sono più liberi di essere immaginati nella loro

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dimensione astorica e svincolata da criteri estetici determinati. Questo è particolarmente vero
per le principesse Disney, i cui corpi e le cui forme, negli anni, si sono adattati a rappresentare
la bellezza in modi diversi. Non sono trascurabili i cambiamenti avvenuti tra i corpi della
cosiddette epoche d’oro e d’argento2 Disney, quelli cioè di Biancaneve (1937), Cenerentola
(1950) e Aurora3 (1959) modellati sui composti ed eleganti fisici di ballerine classiche, e
quelli più esuberanti disegnati durante il rinascimento Disney, come quelli di Ariel4 (1989) e
Belle5 (1991).
Ai cambiamenti fisici si sono poi accompagnati dei cambiamenti caratteriali.
Alla luce del crescente dibattito in merito alle rappresentazioni della donna, anche la casa di
produzione californiana ha progressivamente adottato accorgimenti funzionali al
miglioramento dell’immagine del femminile da veicolare. Le principesse con il tempo hanno
guadagnato spessore nella psicologia e nel temperamento, ciò in alcuni recenti casi,
soprattutto con l’era del revival Disney, ha portato all’emergere di modelli positivi ed esempi
edificanti di femminilità.
Oltre all’interesse per il mutamento e l’evoluzione della rappresentazione della donna, nel
corso dell’elaborato, sarà preso in analisi anche l’aspetto dello spazio - in termini di tempo e
visibilità - ripartito tra ruoli maschili e femminili. A seguire verrà affrontata nel dettaglio la
presenza quantitativa dei personaggi in relazione al genere, per poi riprendere il discorso
rispetto alle fisicità delle protagoniste femminili dei film di animazione Disney.

2 La produzione cinematografica Disney viene abitualmente ripartita in epoche. Le otto ere sono così
cronologicamente suddivise: epoca d’oro - dal 1937 al 1942; epoca di guerra - dal 1942 al 1949; epoca d’argento
- dal 1950 al 1967; epoca di bronzo - dal 1970 al 1977; medioevo Disney - dal 1981 al 1988; rinascimento
Disney - dal 1989 al 1999; epoca sperimentale - dal 1999 al 2008; revival Disney - dal 2009 al 2016.
3 La bella addormentata nel bosco (Sleeping Beauty), Clyde Geromini et al., Walt Disney Productions, Usa,
1959.
4 La sirenetta (Little Mermaid), Ron Clements e John Musker, Walt Disney Feature Animation, Usa, 1989.
5 La bella e la bestia (Beauty and the Beast), Gary Trousdale e Kirk Wise, Walt disney Feature Animation,Usa,
1991.

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1.2 Un protagonista - Una protagonista: quantità, qualità e impatto dei personaggi in
relazione al genere

Per meglio comprendere l’impatto delle storie sulla formazione dell’immaginario di genere in
età infantile appare necessario fare riferimento a quantità e qualità di personaggi maschili e
femminili.
Elena Gianini Belotti nel suo libro Dalla parte delle bambine (1973, p. 103) cita uno studio
dell’Università di Princeton in merito al numero di protagonisti maschili e femminili nella
narrativa per l’infanzia. La ricerca evidenzia come all’interno delle 15 collane analizzate i
bambini siano protagonisti di 881 racconti mentre le bambine di 344. Sempre all’interno
dell’opera di Gianini Belotti, testo cardine per l’analisi del condizionamento precoce della
donna, viene riportata un’inchiesta di M. J. de Lauwe dal titolo L’enfant et son image che si
propone di analizzare i personaggi della letteratura e dei film francesi per ragazzi. Dallo
studio emerge che, mentre nei testi per ragazzi i personaggi sono esclusivamente maschili, in
quelli per ragazze sono al 57% maschili e al 43% femminili.
Questi dati fanno luce su una realtà in cui la donna, quando non viene esclusa, è collocata ai
margini e destinata a ricoprire ruoli di secondo piano. L’immagine di donne incapaci di essere
protagoniste assolute delle proprie storie impatta la realtà fornendo modelli per bambine che
si percepiranno, un domani, incapaci di essere “protagoniste” delle proprie vite.
Sempre rispetto alla ripartizione tra presenze maschili e femminili, tornando a trattare della
casa di produzione californiana, nonostante nei film delle principesse Disney le
protagoniste indiscusse siano appunto loro, le principesse, un recente studio condotto dalle
linguiste Carmen Fought e Karen Heisenauer, afferma che in buona parte dei casi si
registra una considerevole sproporzione nella quantità di ruoli maschili e femminili (Fig.1).
I dati finora raccolti dalla ricerca, tuttora in corso, evidenziano un notevole sbilanciamento,
specie per quanto riguarda le ultime produzioni, nella quantità di personaggi maschili.

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Fig. 1 - Numero di ruoli con battute nei film delle principesse Disney, dal 1937 al 2013

Nella prima fatica cinematografica Disney, Biancaneve, il rapporto tra i personaggi - il cui
numero complessivo è comunque esiguo - è di 2 a 10 per le presenze femminili. Nelle due
pellicole seguenti, entrambe risalenti agli anni ’50 del secolo scorso, pur non aumentando di
molto il numero di personaggi, la parità tra i generi è invece rispettata.

Trent’anni più tardi, con La Sirenetta, primo lungometraggio del rinascimento Disney teso
a riprendere la serie sulle principesse, la differenza nel numero delle presenze maschili e
femminili torna a radicalizzarsi, mantenendosi da allora in avanti altamente sbilanciata - e
sfavorevole per le donne. Da questa pellicola in poi viene proposto uno schema, già
presente all’interno dei musical di Broadway, che consiste nell’adozione di ampi cast.

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All’aumento dei personaggi secondari corrisponde un aumento di ruoli maschili, Karen
Heisenauer, in un’intervista al Washington Post, motiva questa tendenza in tal modo: “My
best guess is that it's carelessness, because we're so trained to think that male is the norm,
[…] So when you want to add a shopkeeper, that shopkeeper is a man. Or you add a guard,
that guard is a man.I think that's just really ingrained in our culture.”6 Il problema
principale, quindi, non riguarderebbe più le principesse e le loro personalità bensì il mondo
che le circonda e all’interno del quale sono inserite, un mondo popolato e retto quasi
esclusivamente da uomini. A questo esponenziale aumento dei ruoli maschili però non
corrisponde, perlomeno nelle pellicole dell’ultima generazione Disney, una netta
prevalenza di parole pronunciate da uomini. Come mostra il grafico in Fig.2, le produzioni
Disney più datate mostrano una propensione all’equità nella distribuzione della battute
assegnate a personaggi femminili e maschili, mentre in quelle edite a cavallo degli anni ’90
si registra una considerevole sproporzione, con le voci maschili che pronunciano sempre
almeno il 70% delle parole.

6 https://www.washingtonpost.com/news/wonk/wp/2016/01/25/researchers-have-discovered-a-major-problem-
with-the-little-mermaid-and-other-disney-movies/?hpid=hp_hp-more-top-stories_mermaid-145pm:homepage/
story#_blank

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Fig. 2 - Percentuale di parole dette in relazione al genere nei film delle principesse Disney, dal 1937 al 2013

In ultima analisi risulta essere estremamente indicativo l’ultimo film preso in considerazione,
Frozen (2013), nel quale le parole dette da personaggi femminili non vanno oltre il 41%. La
disparità pur non essendo eccessiva risulta curiosa se si considera che le principesse
protagoniste della storia, questa volta, sono due invece che una. Oltre a quanto viene detto e
da chi, è sicuramente interessante analizzare cosa viene detto, ovvero soffermarsi sulla qualità
dei messaggi veicolati attraverso i discorsi. Gli ultimi dati dello studio finora elaborati dalle
due linguiste riguardano proprio quest’aspetto e nello specifico indagano se i complimenti che
vengono indirizzati alle principesse siano riferiti maggiormente al loro aspetto fisico o alle
loro capacità.
Dalla lettura del grafico in Fig. 3 si evince una tendenza positiva sotto il profilo della
valorizzazione delle “capacità”. Infatti con il tempo è stato dato sempre più spazio alle
riflessioni sulle abilità delle protagoniste.
Focalizzare i rinforzi positivi su questo piuttosto che sulla semplice apparenza o sull’aspetto
esteriore significa istituire una scala di valori sana. Sottolineare che ad essere importante è la
sostanza e non la forma aiuta a combattere le insicurezze spingendo a ricercare una crescita
che è prima di tutto interiore.

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Inoltre nel processo di maturazione valorizzare i successi significa anche rendere gli
insuccessi, che prima o poi inevitabilmente andranno affrontati, più difficili da superare. In
sintesi è quindi preferibile che i complimenti siano indirizzati ad aspetti come l’impegno, la
dedizione e gli sforzi fatti per raggiungere un traguardo piuttosto che al raggiungimento del
traguardo in sé.

Fig. 3 - Percentuale di apprezzamenti estetici e relativi a alle capacità delle principesse Disney, nelle
tre ere

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1.3 Chi erano le prime principesse? Corpi e caratteri delle protagoniste femminili nelle
ere d’oro e d’argento Disney

Come si è accennato nel primo paragrafo di questo capitolo, i corpi delle principesse Disney
sono cambiati nel tempo rispecchiando di volta in volta idee differenti di bellezza.
In merito alle caratteristiche fisiche delle prime tre protagoniste si possono fare alcune
considerazioni che, a conferma di quanto precedentemente scritto, hanno a che vedere con
modelli estetici e di comportamento scelti ad hoc dalla casa di produzione californiana.
Biancaneve, Cenerentola e Aurora oltre a rispecchiare i canoni estetici eurocentrici della
Hollywood dell’epoca - carnagione chiara e occhi chiari - , con la loro pacata e spontanea
bellezza rappresentano l’ideale di semplicità della cosiddetta “ragazza della porta accanto”.
Queste fisicità vengono affiancate dalle composte e artificiali movenze mutuate dalla danza
classica; le modelle che hanno prestato i loro corpi alle tre principesse nella fase di live-
action7 sono infatti, tutte e tre, professioniste del balletto. Quello che viene proposto come il
naturalmente aggraziato modo di muoversi delle principesse è invece costruito e frutto di un
estremo rigore. L’atteggiamento da ballerina classica non è che una metafora utilizzata per
esprimere dei chiari riferimenti a classe e status. A questo proposito Elizabeth Bell autrice del
saggio “Somatexts at the Disney Shop, Constructing the Pentimentos of Women’s Animated
Bodies” (1995, in From Mouse to Mermaid p.110) scrive che: “royal lineage and bearing are
personified in the erect, ceremonial cariage of ballet and manifested not only in the dance
sequences, but in the heroines’ graceful solitude and poised interactions with others”.
La nobiltà espressa dai movimenti di queste principesse è anche elemento consistente del loro
modo di relazionarsi agli altri. L’estrema bontà delle eroine e la loro mitezza si concretizzano
in atteggiamenti che sono, a ben considerare, arrendevoli e passivi per i quali verranno
ricompensate con il matrimonio e le ricchezze che da esso derivano. In questo modo viene
istituita una pericolosa identità tra bontà e passiva accettazione della propria condizione: la
risoluzione dei problemi e il superamento degli ostacoli non devono così derivare
dall’impegno personale ma da aiuti meritati in funzione della propria remissività.

7 Per live-action si intende la fase in cui parte, o addirittura la totalità, del film viene recitata da persone in carne
ed ossa prima di essere animata. I movimenti degli attori sono la base su cui vengono costruite e modellate le
animazioni.

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Questi elementi, insieme, contribuiscono a creare nelle piccole spettatrici l’idea di una
necessaria correlazione tra la nobiltà, non solo di sangue ma anche d’animo, e la severità con
cui dev’essere trattato il proprio corpo.
Nell’articolo Gender Role Portrayal and the Disney Princesses apparso sulla rivista Sex Roles
(2011) viene esaminata la rappresentazione dei ruoli di genere nei film Disney, l’analisi
riportata si basa soprattutto sulle caratteristiche comportamentali che principi e principesse
manifestano. Il punto da cui parte lo studio è l’individuazione di atteggiamenti che
tradizionalmente sono riconosciuti come propri di un dato genere e la codifica di queste
caratteristiche è definita facendo riferimento alle precedenti ricerche nell’ambito del rapporto
tra genere e film d’animazione.8 Gli atteggiamenti considerati maschili sono: interesse nei
confronti della principessa, voglia di esplorare, forza fisica, assertività, imperturbabilità,
indipendenza, atleticità, uso delle facoltà intellettive, capacità di incutere timore, coraggio,
essere descritto come fisicamente attraente da un altro personaggio, dare consigli, essere un
leader. Quelli calcolati come femminili sono, invece: cura del proprio aspetto, debolezza
fisica, arrendevolezza, emotività, essere affettuosa, senso materno, sensibilità, incertezza,
mostrarsi collaborativa, essere considerata fonte di problemi, avere paura, vergognarsi,
scoppiare a piangere, essere descritta come fisicamente attraente da un altro personaggio,
chiedere consigli o aiuto, essere una vittima.

Fig. 4 - Numero di comportamenti codificati come maschili e come femminili adottati da principi e
principesse nei film delle principesse Disney, dal 1937 al 1959

8 Cfr. Do Rozario 2004; Dundes 2001; Durkin 1985; Hoerrner 1996; Klein et al. 2000; Leaper et al. 2002;
Thompson and Zerbinos 1995.

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La figura 4 riporta il quantitativo di comportamenti dei protagonisti codificati in base al
genere.
Le prime tre principesse - Biancaneve, Cenerentola e Aurora - adottano una quantità
nettamente maggiore di comportamenti classificati come femminili: ammontano
rispettivamente al 91.3%, l’82.6% e l’88.3% dei comportamenti totali. In questi tre
lungometraggi il tasso di atteggiamenti femminili delle protagoniste è di gran lunga più alto
rispetto alla tendenza generale dei film sulle principesse Disney9 che vede la percentuale
attestarsi al 65.3%.
In riferimento ai primi film, dallo studio emerge un alto grado di sterotipizzazione nei ruoli
rappresentati: l’immagine che in essi viene resa del lavoro domestico ne è un evidente
esempio.
Viene veicolata l’idea che occuparsi delle faccende di casa non faccia solo parte dell’essere
donna, ma sia anche un valido modo per guadagnarsi l’amore degli altri. Si dà per scontato
che gli uomini non abbiano le capacità per gestire l’economia domestica e farlo non risulta
parte di ciò che ci si aspetta da loro. Biancaneve, ad esempio, giunge alla conclusione che i
nani non hanno una madre unicamente perché la casa è sporca e disordinata ed è pulendo e
cucinando che si guadagna il loro affetto e la possibilità di vivere con loro, divenendo così, a
tutti gli effetti, la loro mamma “adottiva”. Sempre all’interno dell’articolo Gender Role
Portrayal and the Disney Princesses England et al. (2011, p. 563) riferendosi a Cenerentola
scrivono: “the princess did domestic work as an act of submission. She accepted, without
complaint the hard labor her step-mother assigned, and always sang and smiled pleasantly
while working”. Cenerentola vive la corvée con gioia e, pur essendo sottoposta ad una
condizione di servilismo, si dimostra sempre ben contenta mentre fa il suo dovere in casa. Ciò
oltre a ricollegarsi al discorso, precedentemente affrontato, sul temperamento arrendevole e
passivo delle prime principesse ribadisce una più generale propensione a proporre dei modelli
femminili che vivono con serena naturalezza un ruolo domestico stereotipato e oppressivo.

9 Nello studio vengono considerati i film prodotti fino al 2009, quindi fino a La principessa e il ranocchio -
prima pellicola appartenente all’era del revival Disney.

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1.4 Comparse rispettose, maschilisti convinti e bestie da educare: alcuni esempi di
principi Disney e i loro differenti ruoli

Il ruolo dei principi delle ere d’oro e d’argento Disney è decisamente marginale. Essi non si
vedono e non agiscono per buona parte delle pellicole, la loro funzione si riduce
fondamentalmente a salvare e sposare le principesse che, molto spesso, si innamorano di loro
senza conoscerli e senza un motivo preciso se non il venire scelte. Dai dati presentati nella
figura 410 però emerge come i pochi comportamenti codificabili di questi personaggi siano in
realtà molto equilibrati dal punto di vista del genere. Il principe de La bella addormentata nel
bosco è quello a cui viene dato più spazio tra i tre e pur mostrando molte caratteristiche
interpretabili come maschili si mostra anche molto spesso emotivo, affettuoso e ben disposto
a chiedere consigli e aiuto. Tutto ciò lo rende sicuramente il meno stoico tra i principi,
soprattutto se confrontato a quelli successivi. Nonostante nei film seguenti lo spazio riservato
ai principi aumenti notevolmente, nella maggior parte dei casi lo spessore di questi personaggi
rimane comunque ridotto. Tra le eccezioni va sicuramente considerato Bestia11: il suo ruolo
centrale nella storia richiede un’approfondita caratterizzazione del personaggio, del quale
vengono definite accuratamente psicologia e personalità. Parlare di lui non è interessante solo
perché è il primo principe di cui una principessa si innamora dopo una effettiva conoscenza,
ma soprattutto perché, con lui, la Disney struttura un discorso indirizzato alle donne rispetto
alla mascolinità e all’essere uomo. Per comprendere appieno quello che la casa di produzione
californiana intende veicolare tramite questo personaggio è necessario prima soffermarsi su
alcuni cambiamenti apportati alla storia durante il processo di adattamento cinematografico.
Una considerevole differenza riguarda la maledizione: nella versione cinematografica, viene
reso noto fin da subito che il principe si trova in quella condizione poiché ha rifiutato
l’ospitalità ad una vecchia mendicante che lo punisce con un sortilegio che trasforma lui in
bestia e tutti i domestici in oggetti. Sono dunque il suo egoismo e la sua incapacità di amare
ad essere condannati. L’unico modo per rompere l’incantesimo è riuscire ad amare e a essere

10 Vedi Paragrafo 1.3


11 La bella e la bestia (Beauty and the Beast), Gary Trousdale e Kirk Wise, Walt disney Feature Animation,Usa,
1991.

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corrisposto prima di compiere ventun anni: passata tale soglia d’età la sua condizione
diventerà irreversibile.
Nelle precedenti versioni della storia invece, il sortilegio a cui è sottoposto Bestia, oltre a
scoprirsi solo una volta sciolto l’incantesimo - nel finale - non è dovuto all’egoismo del
principe, bensì alla semplice malvagità di una strega. Visto che egli non ha fatto nulla per
meritare la maledizione non gli viene richiesto alcun cambiamento interiore: la possibilità di
tornare come prima dipenderà “solo” dal trovare qualcuno che sia in grado di vedere oltre il
suo aspetto fisico e di amarlo, senza specifici riferimenti temporali entro i quali il tutto debba
accadere.

La diversa natura della maledizione fa sì che anche caratterialmente la bestia del film Disney
differisca notevolmente da quella del racconto. Mentre nella fiaba originale il principe viene
presentato come maestoso, sofisticato e intelligente, quindi “degno” di ricevere amore, nella
trasposizione per il grande schermo egli risulta goffo, irascibile e infantile, quindi anzitutto
bisognoso di essere educato piuttosto che amato. Spesso gli ordini ringhiati da Bestia suonano
più come i capricci di un bambino che come la violenza verbale di un uomo adulto.
A titolo di esempio si riporta il dialogo che avviene tra Bestia e Belle nell’occasione in cui lei
gli disobbedisce rifiutandosi di scendere a cena con lui:

Bestia: “I thought I told you to come down to


dinner”
Belle: “I’m not hungry”

Bestia: “You come out or.. or…I break down the
door”
[a questo punto Bestia viene esortato dai domestici a
tentare di esse più gentile]
Bestia: “Would you come down to dinner…please?”

Belle: “No thank you”

Bestia: “You can’t stay in there forever”

Belle: “Yes I can”

Bestia: “Fine, then go ahead and stay”


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Il tentennamento di Bestia nella minaccia di sfondare la porta - che ha luogo nella seconda sua
battuta sopra riportata - tradisce la sua disabitudine ad essere contraddetto e il disorientamento
che ne deriva. Il carattere puramente formale della minaccia si evince dal non venire poi posta
in essere, rendendola solo un modo per affermare il proprio potere e la propria autorità, che
risultano di fatto inconsistenti perché legati ad un’immagine di sé che non rispecchia la realtà
interiore.
Singer, autore del libro illustrato targato Disney, presentando il personaggio scrive: “He had
grown up with everything he desired, yet his heart remained cold. He was selfish, spoiled, and
unkind. Yet because he was the prince, no one dared say no to him. No one dared try to teach
him a lesson" (1992, in Bell et al. 1995, pag. 168). Con questa descrizione Bestia viene
implicitamente discolpato del suo essere egoista, viziato e scortese e la preponderanza di
queste sue caratteristiche è attribuita al fallimento di chi doveva educarlo, o meglio
all’assenza di qualcuno che lo formasse adeguatamente. L’inconsapevolezza di agire nel male
funge così da attenuante per il suo comportamento e ne consegue che sia compito di qualcun
altro, magari di una donna, mostrargli che esistono delle alternative, educarlo ad atteggiamenti
positivi e trasformarlo in un uomo che può amare e che è possibile amare. Il corpo di Bestia
aggiunge altri elementi al quadro: è forte, imponente e trasmette un senso di autorità; queste
caratteristiche ultra-mascoline divengono però in questo caso un fardello di cui liberarsi, un
ulteriore limite alla possibilità di essere ciò che si potrebbe e si vorrebbe davvero.

Risulta poi interessante analizzare la figura di Gaston, l’antagonista bello e arrogante, altro
ruolo maschile all’interno della pellicola. Egli incarna il corrispettivo socialmente accettato di
Bestia, visto che in lui i tratti negativi dell’altro divengono delle qualità che lo rendono un
popolare esempio di mascolinità. Mentre il pelo che ricopre Bestia è un ulteriore fattore di
repulsività, Gaston non ha alcun problema a dichiarare “every last inch of me's covered with
hair”12, letteralmente “ogni centimetro di me è ricoperto di pelo”, perché il pelo non è altro
che un modo per confermare a tutti il suo essere “vero uomo”, ma, soprattutto, “vero
maschio”.

12 Frase presente nella canzone autocelebrativa dal titolo Gaston. in La bella e la bestia (Beauty and the Beast),
Gary Trousdale e Kirk Wise, Walt disney Feature Animation,Usa, 1991.

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Anche l’antagonista come il protagonista è egoista ed ego-centrato, solo che è anche sicuro di
sé, carico della spavalderia data dal suo successo sociale. Ciò emerge fin dal primo dialogo
nel quale compare:

Le tont: “You’re the gratest hunter in the whole


world! No beast alive stands a chance
against you…and no girl for that matter”
Gaston: “it’s true and I’ve got my sight on that girl
[…] she is the one, the lucky girl I’m going
to marry. The most beautiful girl in town,
that makes her the best and don’t I deserve
the best?”

Dalle parole di Gaston emergono però anche altri aspetti, uno tra questi è come il paradigma
classico dell’innamoramento Disney venga stravolto e distorto per rendere la bassezza del
personaggio.
Nei film precedenti alle principesse e ai principi, belli entrambi, non serve conoscersi per
innamorarsi, basta vedersi. In altre parole, l’aspetto caratteriale è in posizione subordinata
rispetto a quello estetico.
Gaston non è un principe ma un cacciatore maschilista e di conseguenza non “vede” la
principessa “la mira”13. Lo sciovinismo maschilista dell’antagonista si esprime in modo
chiaro anche in svariati altri momenti del film, come ad esempio quando afferma:

Gaston: “Belle it’s about time you get your head out
of those books and pay attention to more
important things…like me” [delle ragazze
sullo sfondo che sospirano sognanti] the
whole town is talking about it, it’s not right
for a woman to read, soon she starts getting
ideas and thinking”

13 “I’ve got my sight on that girl” “Ho quella ragazza nel mio mirino”

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Il carattere maschilista ed oppressivo di Gaston appare evidente anche nel modo in cui parla
(e si comporta) quando si reca a casa di Belle per farle una “proposta” di matrimonio:

Gaston: “This is the day your dreams come true”


Belle: “What do you know about my dreams
Gaston?”
Gaston: “Plenty! picture this [appoggia gli stivali
sporchi di fango sul libro che Belle stava
leggendo]: a rustic hunting lodge. My latest
kill roasting on the fire. And My little wife
massaging my feet while her little ones play
on the floor […]six or seven of them.

L’antagonista dà per scontato che una proposta di matrimonio fatta da lui non possa che essere
accettata, tuttavia quello che per lui è un idilliaco scenario di vita matrimoniale e che
dovrebbe, nel suo immaginario, rappresentare il sogno ancora irrealizzato di Belle è nei fatti
la realtà oppressiva e maschilista che costituisce il peggior incubo della protagonista. Nella
scena appena citata ci sono anche almeno due elementi visivi degni di nota.
Il primo è costituito dal gesto del cacciatore di appoggiare gli stivali infangati sul libro che
Belle stava leggendo, ovvero a calpestare con noncuranza quello che per la ragazza è più
importante, visto che i libri sono per lei simbolo di elevazione e via di fuga dalla realtà
provinciale. Così facendo Gaston metaforicamente calpesta i sogni e le aspirazioni di Belle.
Il secondo elemento visivo importante è individuabile nei movimenti dei personaggi durante
l’ultima parte della scena: Gaston incalza Belle in un angolo, lei riesce a sottrarsi e
allontanandosi sposta una sedia in modo da frapporla tra loro, lui la segue e con violenza
sposta la sedia.
I due si trovano ora nella stessa posizione di prima: l’imponente figura di lui sovrasta
nuovamente lei che ha le spalle appoggiate alla porta di ingresso. Quando Gaston prova ad
incalzarla ulteriormente per baciarla Belle apre la porta e si sposta facendolo capitolare fuori
in una pozza di fango.

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Il risvolto comico finale scioglie la tensione, ma senza di esso la scena ricorderebbe molto lo
scenario che precede una violenza domestica, risultando di gran lunga più spaventoso di
quello del bisticcio tra Bestia e Belle, di cui si è parlato in precedenza ambientato in un tetro e
fatiscente castello.
Ciò che emerge dalla trasposizione Disney de La bella e la bestia è che l’uomo, che per lungo
tempo si è crogiolato in un’immagine di sé potente ed egoista, è oggi impossibilitato a
distaccarsene, è rimasto legato ad un’idea di mascolinità dalla quale non riesce più a uscire,
una maledizione autoinflitta. Non da tutti però questa condanna è percepita come tale, ci sono
uomini come Gaston che vivono con disinvoltura il proprio machismo arrogante e violento.
In altri casi però, proprio come dimostra Bestia c’è chi si comporta in maniera negativa
perché nessuno gli ha insegnato a fare diversamente. In altre parole alcuni uomini finiscono
per agire così perché privi di modelli di riferimento edificanti e alternativi. La cosa più grave
è che, così come la maledizione non ha effetto solo sulla bestia ma coinvolge anche il resto
delle persone inermi che vivono e lavorano nel castello, spesso gli effetti di questo tipo di
mascolinità finiscono per ripercuotersi su terzi che vi si ritrovano implicati senza un motivo.

!19
Capitolo 2
Il genere e i giochi

I giochi e i giocattoli sono messaggeri del cambiamento sociale, aiutano a svelare l'evoluzione
della posizione del bambino nella società e la trasformazione delle categorie del genere nel
corso del tempo. Dietro la funzione del giocattolo si celano importanti simboli e rimandi sia ai
rapporti sociali genericamente intesi, sia alla rappresentazione dei due sessi: la loro
osservazione permette di esaminare le categorie del genere, la loro costruzione e le loro
eventuali variazioni.
Per queste ragioni, a seguire saranno proposte concettualizzazioni teoriche, ricerche
specifiche e considerazioni finali in merito alla funzione e alla natura del gioco nei bambini,
alla costruzione “vera e propria” dei ruoli di genere tramite l’uso dei giocattoli e, in ultimo,
alle influenze di pubblicità, packaging e marketing operate sui destinatari dei prodotti ludici.

2.1 Come si gioca? La funzione e la natura del gioco nell’infanzia

Il gioco è certamente una delle attività centrali nello sviluppo di un infante e, nel suo aspetto
socializzante, contribuisce a gettare le basi per la gestione delle interazioni umane. La
dimensione ludica e quella cognitiva sono da considerarsi, quindi, collegate e interdipendenti.
Sostiene Priulla che “osservando gli altri e imitandoli nell’attività ludica, i bambini acquistano
[…] una buona conoscenza della realtà circostante, fisica e sociale, che viene organizzata e
raccontata, in particolare per mezzo del gioco simbolico o di finzione”.
In pratica si gioca come si è imparato a fare e si impara dai giochi che si fanno. Ma se è vero
che la propensione al gioco è nel bambino innata e il desiderio di giocare si può ritenere
naturale, certamente i modi in cui questo desiderio si esprime sono da considerarsi frutto di
un’elaborazione culturale, dunque artificiali. Ne deriva che, spesso, il modo di giocare e le
preferenze nei giocattoli (di cui si parlerà in modo più approfondito nei prossimi paragrafi)
siano determinati da aspettative sociali e familiari più che da decisioni operate in completa
autonomia.

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Se per la scelta dei giocattoli la propensione è rinforzata soprattutto da pubblicità e marketing
nel caso del cosiddetto “stile ludico” l’ascendente dominante è, in modo più diretto, quello di
modelli e stereotipi proposti e imposti dalla società.
Nel modo di giocare, al genere si accordano una serie di caratteristiche. Usando le parole di
Elena Gianini Belotti si riscontrano “maggiore aggressività, sforzo muscolare, ricerca di
un’azione intensa nel maschio; preponderanza dell’aggressività verbale ma calma, stabilità,
“predilezione per i riti e per il cerimoniale che più tardi non fa che consolidarsi, una
sottomissione docile e quasi voluttuosa alle costrizioni formali” nelle femmine” (1973, p. 95).
Dall’analisi approfondita del testo emerge inoltre che le motivazioni alla base di questa
differenza non sarebbero di ordine biologico, ma sociale: la repressione della vivacità e
dell’agitazione motoria, attuata più spesso sulle bambine, le indurrebbe a scegliere giochi più
statici e ripetitivi, di matrice quasi ossessiva. Letti in quest’ottica, i virtuosismi con la corda e
il gioco della “campana”, ad esempio, divengono movimenti compulsivi estremamente
precisi, modi per incanalare la rabbia e l’energia derivanti dalle limitazioni a cui le giocatrici
sono sottoposte.
Interrogarsi rispetto ai bisogni nell’infanzia - da intendersi come mobilità ed esplorazione
dello spazio - risulta utile al fine di favorire un corretto sviluppo fisico e psicologico.
Il movimento, si sa, comporta un’ampia interazione con l’ambiente, è funzionale al processo
conoscitivo e all’arricchimento in fatto di stimoli ed esperienze. La possibilità di sperimentare
con libertà è però vincolata dalla presenza di una cornice favorevole: la potenziale curiosità
delle bambine rispetto ad alcuni ambiti è condizionata, nel suo essere soddisfatta, da ciò che
viene proposto come accettabile e accettato in relazione all’essere femmine.
Nell’immaginario collettivo le attività fisiche sono considerate un terreno prevalentemente
maschile. Nello sport, così come nel gioco, capita che pur dimostrando predisposizione e
interesse, una bambina accusi il pregiudizio dato dagli stereotipi di genere. A tal proposito è
utile citare Gianini Belotti quando scrive che “la bambina vivace, creativa, piena di energie,
quando si misura nei giochi di forza con i maschi prova sempre un sottile senso di disagio e di
colpa; oscuramente sa di non essere approvata, di deludere le aspettative altrui, ha sempre
davanti agli occhi il modello della bambina che non riuscirà mai ad essere. Nessuno si
rallegrerà che lei sia combattiva, coraggiosa, leale, indipendente: preferiranno che sia docile,

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conformista, pavida e ipocrita, salvo poi rimproverarglielo. Lo sviluppo femminile può essere
definito una frustrazione permanente” (1973, p. 101).
All’ostilità presentata dalla società nei loro confronti le piccoline avranno a disposizione due
risposte comportamentali fra loro alternative che dipendono, in gran parte, dal temperamento
personale: da un lato, tramite l’assunzione di una condotta “ribelle”, lotteranno per abbattere il
pregiudizio; dall’altro, attraverso l’adozione di un atteggiamento più conformista,
preferiranno soffrire l’impossibilità di svincolarsi dal ruolo cucito loro addosso, pagando un
prezzo alto ma ritenuto preferibile all’emarginazione che la diversità comporta. Va
sottolineato che nell’ipotesi in cui venga adottata la prima delle due reazioni comportamentali
proposte, le bambine si troveranno a dover faticare il doppio dei maschi perché da questi
venga loro riconosciuto il giusto merito.
Quanto appena affermato trova ampia conferma nell’analisi di Gianini Belotti, la quale,
scrivendo che “tutte le bambine restano in fondo delle ribelli impotenti, costrette a calcolare
ogni momento se convenga abbandonarsi alla ribellione o assoggettarsi alla dipendenza.
Quelle più vitali combattono più a lungo e più dolorosamente delle altre, ma il dilemma non
cesserà di presentarsi per tutta la vita, a ogni scelta, e di tenerle in uno stato perenne di
disimpegno e di attesa” (1973, p. 103), non fa altro che ribadire nero su bianco la
problematicità insita nella scelta delle opzioni di comportamento che le bambine prima, le
donne poi, sono spesso costrette ad affrontare.
Si deve però anche considerare che non sempre le identità collegate ai ruoli di genere sono,
nell’interazione tra bambini e bambine, rigide e invariabili. A volte, come dimostra lo studio
di Barrie Thorne - Gender play -, nella dimensione ludica i ruoli possono dimostrarsi fluidi e
mutevoli e: ciò è dovuto al carattere situazionale del genere. A scuola, ad esempio, la rigidità
dei confini e il peso delle differenze si dimostrano variabili a seconda della circostanza.
Nell’apprendimento e nella dimensione della classe gli individui sono, prima di ogni altra
cosa, studenti che imparano da un insegnante e che devono riprodurre lo stesso tipo di
conoscenza indipendentemente dalle loro diversità. Quando si esce dalla classe per la
ricreazione viene invece rimessa in moto quella che Thorne chiama “demarcazione dei
confini” e, quando ciò accade, “l’insieme generico di <<bambini e bambine>> si consolida in
due gruppi separati e reificati costituiti da <<i maschi>> da una parte e <<le femmine>>
dall’altra. In questo processo, categorie identitarie che in altre occasioni hanno una rilevanza

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minima nell’interazione, diventano il fondamento di collettività separate” (1993, cit. in
Connell 2009, p. 51).
In merito alla tematica affrontata da Thorne, vale la pena riportare l’esempio fornito da
Raewyn Connell in Questioni di genere (2009) a proposito del gioco dell’inseguimento.
Descrivendo questa comune attività ludica, l’autore illustra come la suddivisione “maschi
contro femmine” - e viceversa - trovi il suo carattere brioso nel fatto stesso di contrapporre i
generi e aumenti altresì la competitività elevandola dal piano individuale a quello di gruppo.
Le regole del gioco tuttavia non sono da considerarsi immutabili: può anche capitare che, a
volte, vengano operate consapevoli scelte di “tradimento” e si mostri scarsa considerazione
del criterio su cui si basa l’iniziale divisione in squadre.
Quando Connell scrive che “i bambini non sono passivamente <<socializzati>> a un certo ruolo
sessuale. È vero che imparano delle cose dal mondo degli adulti che li circonda: sulle identità
che hanno a disposizione, sulla loro messa in pratica, e, purtroppo, anche sull’ostilità verso
l’altro. Ma è altrettanto vero che essi lo fanno attivamente e nei loro propri termini: a volte
considerano il genere qualcosa di interessante, talvolta addirittura eccitante, e possono entrare
e uscire continuamente da raggruppamenti basati su questa categoria” (2009, p. 54) fa luce su
un aspetto estremamente significativo, ovvero sul rischio di considerare l’apprendimento del
genere da parte dei più piccoli come un processo chiuso e a senso unico.
Concepire solo la verticalità nella formazione dei modelli di genere vorrebbe dire giungere a
una conclusione errata e parziale. Nell’orizzontalità dell’interazione infantile difatti si
concretizzano dinamiche di creazione identitaria più libere, altrettanto forti e importanti.
Alla luce di quanto appena esposto resta però innegabile che la dimensione verticale della
creazione di ruoli e sfere concettuali associate ai sessi abbia un consistente peso sia nella
scelta del gioco, sia in quella dei suoi strumenti.
In una sorta di parallelismo tra crescita del bambino e acquisizione di consapevolezza
identitaria, non solo le forme del gioco assumo significato, ma i giocattoli stessi divengono
promotori di significati e ideali legati al genere.
La famiglia e la pubblicità, di cui si tratterà nei prossimi paragrafi, possono dirsi mezzi di
trasmissione della ripartizione basata sul genere che viene applicata ai giocattoli. Essi, spesso
percepiti come semplici oggetti, sono a tutti gli effetti un veicolo di stereotipi e modelli di
genere.

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2.2 A che gioco giochiamo? La costruzione dei ruoli di genere attraverso i giocattoli

Ciò che si è detto nel precedente capitolo rispetto all’artificialità dei modi in cui il gioco si
esprime è da ritenersi vero anche per quanto attiene la scelta dei giocattoli, visto che
anch’essa dipende da un determinato universo culturale.
Gli arredi e gli oggetti che circondano i bambini fin dalla nascita sono i primi evidenti simboli
atti a definire e rappresentare un’identità di genere.
Insieme a fiocchi azzurri e fiocchi rosa, vi è un’ampia gamma di elementi che costituisce il
mondo dei bebè (mobiles da appendere sopra alla culla, dentaruoli e sonagli) e che funge da
primo segnale demarcativo del sesso del neonato. Oltre all’aspetto cromatico, che è il segno
più eloquente e immediato per definire una specifica destinazione collegata al genere, anche
le forme e i soggetti rappresentati da questi oggetti, i primi ai quali si viene esposti esprimono
spesso una connotazione sessuale differenziata.
Queste influenze nei neonati non vengono recepite in modo conscio e perché si concretizzino
in una consapevole distinzione fra giochi “da maschi” e giochi “da femmine” è necessario
attendere qualche anno.
Dal primo anno di età, arrivando fino ai cinque-sei, l’attività del giocare si esprime sopratutto
tramite l’imitazione del comportamento degli adulti14: i bambini, indipendentemente dal
sesso, sono portati a riprodurre nel gioco aspetti della vita domestica.
Capita quindi che nella scelta dei giocattoli i bambini, tanto i maschi quanto le femmine, siano
propensi a desiderare degli strumenti che permettono loro di ricreare dinamiche proprie della
quotidianità, bambolotti con cui ripetere i gesti di cura parentale che sono rivolti a loro o
riproduzioni di elettrodomestici e utensili di casa necessari a svolgere le faccende domestiche
come vedono fare “ai grandi”. Ma, come fa notare Elena Gianini Belotti “mentre la bambina,
a quell’età, passa senza avvedersene dal gioco imitativo alla vera e propria partecipazione alle
attività casalinghe materne, ed è felice e orgogliosa che le venga richiesta nella misura delle

14 Si deve a Karl Groos (1896; 1899; 1922) l’ipotesi, oggi più accreditata, sulla funzione del gioco; esso
rappresenterebbe un “pre-esercizio”, ovvero un’azione preparatoria ad affrontare la vita adulta, un momento
fondamentale per o sviluppo delle componenti istintive e attitudinali della personalità.
Prima di lui si sono succedute altre interpretazioni; tra queste se ne ricordano due: la prima, attribuibile a Herbert
Spencer (1862) sosteneva che il gioco fosse una semplice forma di scaricare l’energia; la seconda, di Granville S.
Hall (1886), ipotizzava esso fosse la riproduzione di attività e comportamenti propri degli antenati.

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sue capacità con ampio margine per l’elemento gioco, il bambino a poco a poco le rinnega e
le cancella totalmente dal suo repertorio. Dopo i cinque-sei anni le strade dei due sessi
divergono profondamente: mentre i bambini guardano ormai ai lavori casalinghi con un
disprezzo dovuto alla raggiunta consapevolezza che quello non sarà mai il loro mondo, le
bambine vi sono riportate di forza dalla loro identificazione con la madre e dalle sue richieste
di aiuto” (1973, p. 86).
Alla maturata consapevolezza dei diversi ruoli esistenti per i differenti generi corrisponde
un’offerta in termini di giochi che rappresenta e ripropone i modelli suggeriti dalla società: i
bambini e le bambine dovranno quindi imparare ad indirizzare le proprie richieste verso i
giocattoli giusti, quelli che si confanno al loro sesso, se vorranno vederle soddisfatte. I
desideri considerati atipici ed eccessivamente distanti dagli stereotipi, oltre ad essere
difficilmente esauditi, possono comportare dei problemi nell’interazione con i pari: giocare
con giocattoli “inadeguati” e diversi da quelli del resto del gruppo è un fattore di
emarginazione.
I giocattoli considerati maschili hanno una natura dinamica e ruotano spesso attorno a concetti
quali “forza”, “lotta” e “competizione”, quelli pensati come femminili sono invece più statici
e si riferiscono di frequente a “cura” (di sé e degli altri) e “affetto”; la dinamica di gioco che
ne consegue sarà più propensa a tendere ad aggressività e controllo per i bambini, spinta
invece verso derive più emotive e d’attaccamento per le bambine.
Per quest’ultime inoltre, l’utilizzo di giochi sessualizzati fin dalla tenera età fa si che emerga
una più marcata tendenza all’apparenza, introducendo nel gioco delle dinamiche riferite a
quell’insieme di identità e modelli dominanti da considerarsi discutibili.
I giocattoli, descritti da Priulla come “prodotti da adulti che si rivolgo ai bambini” (2013, p.
15) sono dunque strumenti di connessione tra la società adulta e quella infantile che “non
hanno in sé alcuna aura di purezza e di innocenza” (ibidem)
Un chiaro esempio di quanto appena detto è incarnato da Barbie: gli adulti hanno creato una
bambola in cui un’alta considerazione dell’aspetto estetico e la peggior idea di superficialità
consumista femminile si fondono per riprodurre su piccola scala un’idea di femminilità
stereotipata e malsana. Le Barbie e quel tipo di bambole a differenza dei bambolotti non
portano l’attività ricreativa ad assumere e riprodurre le dinamiche di cura parentale ma,
tramite il gioco di finzione, proiettano le bimbe in un mondo adulto lastricato di cliché e

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concezioni erronee dell’essere donna. Il corpo delle Barbie rappresenta per le bambine
un’inarrivabile standard eurocentrico di perfezione fisica: alte, formose sì ma solo nei punti
“giusti”, con occhi grandi, gambe lunghe e dritte, vita esile e addome piatto.15 La
socializzazione a giocattoli di questo tipo non può che creare complessi e insicurezze rispetto
al proprio aspetto: a confermarlo è uno studio apparso sulla rivista Developmental Psychology
condotta nel 2006 dalle ricercatrici Helga Dittmar, Suzanne Ive e Emma Halliwell.
Nella ricerca si considera un campione di 168 bambine di età compresa tra i cinque e gli otto
anni a cui viene sottoposta una storia per immagini in tre varianti aventi ognuna un diverso
personaggio: nella prima variante la protagonista è una bambola Barbie, nella seconda una
bambola Emme16 , nella terza, da considerarsi variabile di controllo, la storia non ha alcun
personaggio ma solo immagini di luoghi e oggetti collegati al racconto. Terminata la fase di
esposizione alle figure è stato chiesto alle bambine di compilare una valutazione rispetto
all’immagine di sé. I risultati mostrano come nelle bambine più giovani - tra i cinque e i sette
anni e mezzo - le immagini in cui è presente Barbie facciano registrare livelli più alti di
insoddisfazione rispetto al proprio corpo, con un picco riscontrabile nella fascia d’età che va
tra i sei anni e mezzo e i sette e mezzo d’età. Nelle bambine un po’ più grandi - tra i sette anni
e mezzo e gli otto e mezzo - Barbie non influisce in modo particolarmente negativo
sull’autovalutazione del proprio essere e del proprio aspetto; le stesse bambine però, messe
davanti a Emme, hanno mostrato un maggior desiderio di essere magre da adulte.
Quello che se ne può dedurre è che bambole con forme più realistiche, in bambine con più di
sette anni, non solo potrebbero fallire nell’intento di diminuire l’insoddisfazione per il proprio

15 Nel 1968 nell’universo Barbie viene inserita l’amica afro-americana Christie, con il tempo la cerchia di
amiche multietniche della bambola si estende anche a ispaniche e asiatiche con l’aggiunta di Teresa, Kira e
Kayla. Da segnalare anche l’esistenza di un’amica in sedia a rotelle, Becky. Tutte queste bambole,
indipendentemente dall’etnia, a parte dei lievi cambiamenti nel colore della pelle e nella forma degli occhi
presentano lo stesso fisico di Barbie. Va notato anche che la loro diffusione non è lontanamente paragonabile a
quella della Barbie classica.

16 Emme (Melissa Owens Miller) è stata prima una giornalista televisiva, poi modella per “taglie forti” e attivista
nel campo dello sviluppo di una percezione sana dell’immagine di sé. La bambola Emme è stata creata
dall’azienda Tonner dolls nel 2002 ed è pensata per rappresentare un’idea di donna più vicina alla realtà. Le
proporzioni della bambola equivalgono, circa, a quelle di una taglia 46. La bambola Emme però, oltre ad essere
piuttosto costosa (il prezzo minimo è all’incirca 100 dollari), è considerata più un oggetto da collezionisti che un
giocattolo.

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corpo, ma potrebbero addirittura sortire l’effetto opposto. Le bambine che hanno già fatto
proprio l’ideale di magrezza proposto dalla società, nonostante non abbiano il desiderio di
essere più magre di quel dato momento, possono percepire le forme di Emme come una
minaccia proveniente dal futuro, un avvertimento rispetto alla possibilità di avere un giorno
un fisico simile. Esse, in altre parole, vengono abituate fin da piccole a temere di non
rientrare, da adulte, nei canoni di magrezza che la società richiede per essere considerate
belle.


Lo studio dimostra come prima l’applicazione e poi l’interiorizzazione di standard collegati


all’apparenza possa avere un effetto negativo sull’autostima e la percezione di sé, ma
soprattutto quanto il peso dei giocattoli e dei significati di cui sono portatori sia rilevante in
questo processo.
Come si è in parte già visto, i giocattoli oltre ad essere veicolo di messaggi rispetto al corpo
possono anche interagire con la percezione dei ruoli di genere e con il processo di costruzione
identitaria che ad essi si collega.
Un ulteriore conferma si rileva dai risultati di una ricerca pubblicata su Sex Roles nel 2014
nella quale, di nuovo, è Barbie a essere chiamata in causa. L’esperimento posto in essere da
Aurora M. Sherman e Eileen L. Zurbriggen si compone di due momenti funzionali a definire
quale eventuale grado di condizionamento bambole diverse, rappresentative di modelli
femminili, estetici e professionali diversi, hanno sulle giovanissime donne coinvolte. Durante
la prima fase dell’esperimento, le studiose hanno fatto giocare per cinque minuti 37 bambine
americane - di età compresa tra i quattro e i sette anni - con “fashion Barbie”, con “Barbie
dottoressa” o con una Mrs. Potato Head17.
Le due varianti di Barbie vedono la prima indossare un abito da sera, la seconda portare una
maglietta, dei jeans e il camice. A quattordici bambine è stata destinata Mrs. Potato Head, ad
altrettante “Barbie dottoressa”, alle restanti nove “fashion Barbie”.
Durante la seconda fase Sherman e Zurbriggen hanno sottoposto alle partecipanti una serie di
undici fotografie raffiguranti dei luoghi lavorativi associati ad una frase, rappresentanti

17 Mrs. Potato Head è la variante femminile di Mr. Potato Head, giocattolo piuttosto noto negli Stati Uniti.
Prodotto e distribuito dalla Hasbro, è il primo giocattolo a essere stato pubblicizzato in televisione. È un’ovale in
plastica, rassomigliante a una patata, al quale possono essere attaccate delle altre parti in plastica che solitamente
consistono in occhi, naso, bocca, orecchie e cappello. La scelta di questo giocattolo come variabile di controllo è
dovuta alla presenza di connotati esplicitamente femminili, pur non essendo sessualizzato.

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altrettante occupazioni - una neutra e le altre equamente ripartite tra professioni a
predominanza maschile e a predominanza femminile18 . La finalità delle domande
successivamente poste alle bambine era sapere quali tra quei lavori esse avrebbero potuto
svolgere una volta cresciute, quali invece avrebbero potuto svolgere i maschi.
Va specificato che le bambine sono state precedentemente informate dell’assenza di risposte
giuste o sbagliate e che queste non erano alternative tra loro.
Il risultato della ricerca mostra che le bambine che hanno giocato con Barbie, confrontate con
quelle esposte a Mrs. Potato Head, si dimostrano maggiormente inclini a percepire più lavori
come possibili per i maschi. Inoltre esse individuano un numero inferiore di potenziali
carriere future per sé in generale e non solo nell’ambito delle professioni a prevalenza
maschile. Che ciò si verifichi indipendentemente dal fatto che la Barbie di riferimento sia la
“fashion” o “dottoressa”, dimostra che quello che Barbie incarna non è alterabile attribuendo
alla bambola delle caratteristiche professionali edificanti, che quindi i messaggi che veicola
sono talmente radicati nella sua fisicità e nel suo bagaglio concettuale da rendere la
percezione che si ha di lei invariata anche quando le si conferiscono un ruolo e una cornice
differenti.
Nonostante le ricerche finora condotte, comprese le due, entrambe recenti, precedentemente
citate, ad oggi risulta impossibile dimostrare con assoluta certezza l’esistenza di una diretta
relazione tra i giochi svolti da bambini e bambina e le loro scelte future.
Resta però indiscutibile che i giocattoli suggeriscano e/o palesino pratiche d’inculturazione;
un'analisi delle loro caratteristiche funzionali, simboliche, rituali associata a una puntuale
osservazione dei loro aspetti materiali (forma, colore, dimensioni, consistenza, ecc.) è fra gli
strumenti conoscitivi indispensabili per indagare le possibili implicazioni del rapporto che
intercorre tra gioco e costruzione del ruolo di genere.
In tal senso gli strumenti attraverso i quali i giochi e i giocattoli vengono proposti a genitori e
figli, vale a dire le strategie di marketing, la pubblicità e il packaging, meritano un
approfondimento.

18 La professione neutra considerata è quella del cameriere. Le professioni a predominanza maschile sono:
muratore, pompiere, pilota di aerei, dottore/ssa e agente di polizia. Le professioni a predominanza femminile
considerate sono: infermiera/e, insegnante, bibliotecaria/o, maestra/o d’asilo, assistente di volo.

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2.3 Un gioco da ragazzi: l’influenza operata da pubblicità e packaging

I giocattoli, come detto, accompagnano la crescita del bambino fin dalla tenera età e hanno
un’indiscutibile importanza per la sua formazione essendo, tra le altre cose, funzionali alla
comprensione di meccanismi e regole.
Visto il peso in termini di tempo che i giocattoli occupano nella quotidianità dei più piccoli, è
possibile dire che essi costituiscono un “mezzo primario attraverso cui il bambino fa
esperienza della realtà che lo circonda” (Ciotti 2014, p. 2).
Lungo il percorso di crescita dell’infante, i giochi e i giocattoli operano, in modo più o meno
conscio, sulla formazione e sulla strutturazione di un’identità di genere. Al fine di
comprendere se i giocattoli siano oggetti effettivamente connotati dal punto di vista sessuale e
di conseguenza portatori di valori differenziali, gli aspetti interessanti da indagare, oltre a
quelli già esposti nei paragrafi precedenti, riguardano due mezzi tra loro complementari,
propri della promozione ai fini commerciali: la pubblicità e il packaging.
Va difatti ricordato che i giocattoli non sono solo meri strumenti ludici, ma anche beni di
consumo: non hanno solo una rilevanza sociale, ma anche economica - specie se si considera
la diffusione su larga scala di prodotti ricreativi per l’infanzia.
Le aziende produttrici elaborano strategie di mercato che tengono conto dei cambiamenti
socio-culturali, delle aspettative dei consumatori (genitori e bambini) e del grado di
soddisfazione delle nuove proposte, in un circolo che si completa tramite gli spot tv, i
cataloghi cartacei e i più recenti negozi on-line.
La pubblicità “contribuisce certamente, con la sua quantità, i suoi contenuti accattivanti, la
sua ideologia complessiva, a creare l'ambiente, il clima culturale in cui i bambini e i ragazzi
crescono, dal quale ricevono insegnamenti, imparano modelli di comportamento, assorbono
ideali” (Zanacchi 2010, p. 169), il packaging integra l’opera non essendo altro che il
confezionamento più accattivante possibile del prodotto, appositamente pensato per attirare
l’attenzione dei più piccoli.
La sociologa Mona Zegaï (2010) da un lato rileva che all'interno dell'universo dei giocattoli si
riscontra la presenza di sfere distinte che sembrano escludersi l’una con l’altra - quelle

!29
convenzionalmente femminili contrapposte a quelle prettamente maschili19; dall’altro
sottolinea come non siano solo i giocattoli “di per sé” a rafforzare le divisioni di genere, ma
anche il modo in cui vengono presentati.
Se si torna un momento al discorso precedentemente affrontato sulla fase “dell’imitazione”
vale la pena sottolineare che i piccoli non solo sono spontaneamente portati a imitare
comportamenti e atteggiamenti propri del mondo degli adulti che li circonda, ma anche a
identificarsi con i loro simili proposti dalla pubblicità. In altre parole, un bambino/una
bambina messi davanti a uno spot nel quale i protagonisti sono altri bambini, in essi molto
facilmente si rivedono, formulando il pensiero per cui “se lui/lei gioca così, lo voglio fare
anche io”.
Nel caso delle pubblicità e delle strategie di marketing rivolte a quel settore di beni di
consumo indirizzati ai bambini è interessante notare come diventino i codici visuali prima, il
linguaggio poi, le tecniche persuasorie messe in campo con più meticolosità.
Il differente target sessuale nei giocattoli, dimostrata da più studiosi20 , è fatta propria dal
mercato: i prodotti destinati ai più piccoli godono di una collocazione ad hoc posta messa in
atto dai rivenditori e tesa ad acuire la già consistente demarcazione tra significante e
significato.
Gli scaffali appositi in negozi specializzati e supermercati, vale a dire le sezioni “ragazzi” e
“ragazze”, sono anzitutto a dominanza cromatica blu, oppure rosa, ordinati secondo
etichettature apposite (per i maschi:costruzioni, avventura, guerra; per le femmine: casa, cura,
moda)
L’analisi di Mona Zagaï apparsa sui Chaiers du Genre nel 2010 si è specificatamente
concentrata sullo studio di diversi cataloghi di giocattoli21 . I dati raccolti hanno consentito di

19 Zagaï, come altri studiosi di cui si è già trattato, annovera nelle sfere convenzionalmente femminili quella
privata, domestica, della passività e della cooperazione e vi contrappone le sfere presentate come prettamente
maschili dell'esterno, del pubblico, dell'attività e della competizione. Inoltre anch’ella osserva che i giocattoli
destinati alle femmine sono spesso relativi alla sfera della maternità, dell'estetica, della cura (del sé e degli altri)
o dei mestieri domestici, e che quelli rivolti ai maschi sono macchinine, giochi da guerre, costruzioni.

20 Cfr. Belotti 1973; Tap 1985; Vincent 2001; Brougère 2003; Chaumier 2003; Baerlocher 2004.

21 La ricerca della Zagaï ha interessato le catene francesi sia della grande distribuzione - Auchan, Carrefour,
Leclerc, che specializzate - Fnac Éveil & Jeux, Joué Club, La Grande Récré, Toys’R’Us.

!30
individuare una netta contrapposizione tra il lessico impiegato nelle pagine dei depliant
dedicati ai maschi e quelle dedicate alle femmine e sulla loro interrelazione con dicotomie
rigide nelle quali la classica contrapposizione “da maschio”/“da femmina” si palesa e rinforza.
Se il mondo lessicale maschile può dirsi gravitante attorno a specifici oggetti - macchine,
trattori, elicotteri, aerei - e alla loro descrizione prettamente tecnica, quello femminile è più
spesso orientato a bambolotti e bambole - e all’insieme delle possibili azioni da compiere con
loro.
Per comprovare quanto appena illustrato si è deciso di condurre una ricerca sul catalogo
online dell’azienda italiana Giochi Preziosi22. Le categorie dei giocattoli in vendita sono
ripartite tra: personaggi e azioni, veicoli e piste, bambole, creatività, peluche e
intrattenimento.
Le prime due categorie sono principalmente destinate ai maschi e riportano descrizioni dei
prodotti commercializzati incentrate (1) sulla valorizzazione del movimento - declinato nelle
sue forme di azione, attacco, difesa, controllo ecc.; (2) sulla messa in risalto di eroi, guerrieri e
combattenti; (3) sulle caratteristiche tecniche - precise e concise.
Esempli significativi possono essere

“diventa un vero Ninjia con le repliche perfette delle armi […] indossa la
maschera del tuo eroe preferito e lanciati nella battaglia”
oppure
“gli Avengers stanno arrivando: sconfiggi i loro nemici con i potenti mezzi di
assalto. Capitan America moto con radiocomando. Controllo a infrarossi con
LUCI rosse e blu e SUONI (maiuscolo originale). La ruota anteriore si gira sul
proprio asse per cambiare direzione. Possibilità di comandare fino a 10 azioni.”

22 Il Gruppo Giochi Preziosi, fondato in Italia nel 1978 rappresenta oggi, con un fatturato annuo superiore ai 900
milioni di euro, una realtà industriale e commerciale affermatasi anche nel mercato internazionale. Si legge sul
sito del gruppo che esso rappresenta “una realtà fortemente strutturata e diversificata, volta a soddisfare le
esigenze dei bambini attraverso l'ideazione, lo sviluppo e la distribuzione di prodotti di vario genere ad essi
dedicati” e ancora che “il grande successo dell’azienda si fonda su un’incessante attività di ricerca e sviluppo, su
una strategia di Marketing efficace e continuativa, ma soprattutto su un forte spirito imprenditoriale […] è
l’entità a cui ogni bambino può fare riferimento per trovare quanto necessario per la sua crescita e
soddisfazione”; http://www.gruppopreziosi.it/www-grp/hp_corporate.php.

!31
Le bambole, destinate invece alle femmine, sono descritte facendo ampi riferimenti (1)
all’estetica e all’abbigliamento; (2) alla magia, all’incanto e al mondo fatato; (3) alla
dimensione della domesticità e della staticità. Esemplificative sono, per esempio, le
presentazioni di

Sbrodolina “la tenera e dolce compagna di giochi! Prenditi cura di lei: dalle il
biberon, poi premi il suo braccino sinistro e lei farà tante bollicine! Sbrodolina
Fa le Bolle ha nuovi vestitini!”
oppure di
Elsa 23 “la bionda principessa ha un abito bellissimo. Premendo la gemma sulla
collana il vestito si illumina magicamente e brilla per effetto della magia!”

Lasciando da parte i peluche, dei quali si può brevemente dire che abbiano una valenza neutra
(salvo i casi specifici nei quali assumano particolari funzioni proprie dell’universo
femminile), anche le categorie della creatività e dell’intrattenimento meritano alcune
considerazioni.
Per le bambine e ragazzine, le proposte della Giochi Preziosi - in linea con le altre case di
produzione - si riferiscono a tutto quell’insieme di attività proprie del mondo della bellezza e
del costume: Soy Luna è un intera collezione di prodotti per divertirsi, laddove il divertimento
diviene il sinonimo di “fare quello che si pensa facciano le donne adulte”.
I prodotti “diario segreto…con make-up!”, “roller-kit make-up”, “tattoo set”, “your nail”,
“your hair”, ecc. sono evidenti simboli di interpretazioni dell’età adulta femminile fortemente
stereotipate perché incentrate sull’apparenza, sulla “bella presenza” e, più in generale,
sull’estetica.
Per i bambini e ragazzini, invece, la creatività ha solo a che vedere con le costruzioni (nel
catalogo sono presentate repliche perfette “dell’assortimento Champions” - stadi di calcio
famosi), mentre l’intrattenimento è dato dai robot nella loro variante classica, oppure
zoologica (ad esempio Roboturtle Playset C-Turtle): in entrambi i casi sulle scatole sono
rappresentati sempre bambini e mai bambine, le quali appaiono invece sulle copertine dei
giochi a loro dedicati, molto spesso truccate, glitterate e vestite alla moda.

23 Elsa è la coprotagonista del film di animazione Disney Frozen (2013), regina del regno di Arendelle e sorella
maggiore di Anna.

!32
Naturalmente è lecito domandarsi se i giocattoli così marcatamente basati su una divisione dei
sessi siano un riflesso del mondo reale, oppure se, nel rifletterlo, facciano da cassa di
risonanza delle differenze di genere, aggravandole.
Quel che è certo è che i bambini, perché possano scegliere i propri modelli di riferimento, ne
necessitano molti da mettere a confronto, in modo libero e meno condizionato possibile,
perché solo l’assenza di schemi che fin dalla tenera età li costringano all’identificazione con
un genere e con le caratteristiche che artificiosamente a quel genere sono legate, consente loro
di crescere, formarsi e istituire autonomamente le loro relazioni con il mondo.

!33
Capitolo 3
Il genere e il linguaggio

Il linguaggio e i termini che sono propri di ciascuna lingua accompagnano le società e i loro
protagonisti principali, gli esseri umani, nel loro processo di costruzione identitaria.
Valgono le parole di Priulla (2013 p.132) quando sottolinea che l’uomo - genericamente
inteso “è il solo essere animato che comunica attraverso simboli. Tra noi e la realtà non c’è
contatto immediato, ma si frappone la mediazione dell’universo simbolico, le cui forme più
importanti […] sono la lingua, il mito, l’arte, la religione, la politica”.
Oggi i cosiddetti gender studies rappresentano un’importante settore a carattere multi e inter
disciplinare riferito allo studio del genere e delle identità sessuali nell’ambito della cultura e
della società. Su questa linea, la lingua si annovera di diritto tra gli elementi che meritano
attenzione, visto il bagaglio simbolico che incarna e che risulta necessario a dotare di senso il
mondo.
Con queste brevi considerazioni si vuole introdurre l’ultima tematica di rilievo dell’elaborato,
quella tesa a trattare il tema della lingua, del linguaggio e delle sue significative declinazioni
rispetto al genere.

3.1 La lingua dice molte cose: linguaggio, società e differenze di genere

Lo studio della relazione che intercorre tra il linguaggio e la rappresentazione della realtà è
oggi un ambito di ricerca interdisciplinare nel quale trovano spazio anche le considerazioni
che connettono lingua - linguaggio - (discriminazioni di) genere.
Studi ad hoc hanno portato ad annoverare il linguaggio come uno strumento tutt’altro che
neutro (Sapegno, 2010).
Se è vero che la comunicazione è una delle forme dell'immaginario e dipende da concezioni e
atteggiamenti mutevoli nel tempo nelle diverse situazioni sociali e culturali, allora è
altrettanto doveroso annoverare il linguaggio e il complesso di significati che esso cela (o
palesa) tra i fattori che influenzano le dinamiche di genere, sia nell’infanzia, sia nell’universo
degli adulti.

!34
Sono principalmente gli studi delle donne che, connotati da un certo grado di femminismo,
hanno prodotto una copiosa letteratura critica del linguaggio e delle pratiche linguistiche,
arrivando a identificarle come mezzi particolarmente efficienti per il prodursi e il rafforzarsi
di determinati valori e codici culturali.
Le femministe hanno a lungo sostenuto che il linguaggio, se sessista, possa avere
conseguenze reali rispetto alle relazioni di genere e al posizionamento di status di uomini e
donne.
Del resto, oltre all’immagine, anche il linguaggio si pone alla base della creazione dello
stereotipo24, ovvero “di una forma predefinita, dunque fissa e rigida […] una forma
semplificata, rozza, con la quale si pretende di descrivere una realtà complessa” (Priulla,
2013, p. 135).
Dalle ricerche svolte in merito a questo argomento pare che il genere grammaticale possa
influenzare il modo in cui le persone interpretano il mondo che le circonda, condizionandone
quindi la percezione e le idee relative ai ruoli connessi al genere.


Da che esiste il linguaggio sembra che una distinzione tra maschile e femminile, seppur in
modi differenti, sia sempre esistita e ad oggi non si conta alcuna lingua che non operi questo
tipo di discernimento. Ciò ha condotto all’idea che riferirsi alle categorie del genere sia
indispensabile tanto per l’organizzazione quanto per la struttura della società, al punto di
rendere tale pratica inevitabile per qualunque gruppo linguistico.
Le convenzioni grammaticali rispetto al genere hanno però recentemente portato l’attenzione
degli studi d’area a concentrarsi sul potere e sul ruolo che il linguaggio potrebbe avere nel
definire l’ordine sociale, nei termini di status collegato ai sessi e di idee rispetto ai ruoli
sociali di uomini e donne.
Secondo la critica femminista il linguaggio, seppur in diversa misura nelle differenti lingue,
segue sempre un modello androcentrico e ciò evidentemente comporta per le donne una
posizione di svantaggio nelle relazioni personali e professionali.

24 Il termine stereotipo, veicolato dal settore tipografico, è stato proposto nell’accezione che oggi risulta più
comune da Walter Lippmann in Pubblic Opinion (1922). L’intento dell’autore era quello di evidenziare il ruolo
cardine delle “piccole immagini” insite nella mente umana nella percezione sia degli eventi sociali, sia degli
individui.

!35
Il linguaggio non solo rifletterebbe convenzioni e sistemi di pensiero di una data cultura, ma
potrebbe anche modellare i processi cognitivi che determinano la comprensione del mondo
circostante, impattando così sulla pratica le nostre percezioni. Ne è un esempio il fatto che il
genere di un termine utilizzato per riferirsi a un oggetto inanimato ne influenzi la percezione
conferendo a quell’oggetto un carattere maschile o femminile. Si può pensare che, se il genere
nella grammatica influenza la percezione di oggetti inanimati, in modo simile possa influire
anche nell’ambito delle relazioni tra esseri umani.
Le asimmetrie nel linguaggio comportano una (nemmeno troppo) latente “definizione
dell’indefinito” che denota il dominio di un genere sull’altro: è il caso del cosiddetto maschile
generico. Nel pensiero femminista, il maschile generico non è altro che un modo per far
risultare invisibili le donne nel discorso storico e contemporaneo (Cameron, 1998 cit. in
Prewitt-Freilino et al.). Il maschile generico, nonostante si proponga di comprendere entrambi
i generi, dà invece loro una connotazione specifica, rendendo così l’inclusione delle donne
meno immediata.
Sono svariati gli esperimenti che hanno tentato di indagare la relazione impàri nel linguaggio,
motivo per cui si è pensato di illustrarne alcuni ritenuti particolarmente efficaci25.
L’obiettivo è quello di garantire una migliore comprensione delle conseguenze che una certa
scelta grammaticale possono avere su uomini e donne, mettendo in una posizione di
svantaggio quest’ultime.
Nell’esperimento del 1973 di Bem e Bem26 si nota che il tasso di risposta femminile a
un’inserzione per un lavoro tradizionalmente maschile - scritta utilizzando il maschile
generico - si ferma al 5%; nella variante in cui per l’annuncio è stata invece utilizzata
un’alternativa neutra nel genere, la percentuale sale al 25%.
Un altro esempio di quanto l’utilizzo del maschile generico influisca sulla percezione dei
contenuti di un messaggio e sulla risposta allo stesso è rappresentato dall’esperimento svolto

25 Gli esempi illustrati sono tratti principalmente dal saggio di Prewitt-Freilino et al. apparso nel 2012 sulla
rivista Sex Roles con il titolo “The gendering of language: a comparison of gender equality in countries with
gendered, natural gender, and genderless languages", 66(3/4) pp. 268-281.

26 Per un approfondimento si veda Bem, S. L., & Bem, D. J. (1973). Does sex-biased job advertising “aid and
abet” sex discrimination?, “Journal of Applied Social Psychology”, 3, pp. 6–18.

!36
da Hamilton et al.27 in ambito legale. Settantaquattro studenti di psicologia dell’Università del
Kentucky sono stati divisi in tre giurie, ciascuna composta da ventiquattro persone: ai gruppi
è stato chiesto di determinare se una donna avesse agito o meno per legittima difesa in un
finto caso di omicidio. Il materiale fornito ai partecipanti comprendeva una definizione di
legittima difesa stilata in tre varianti - una per ciascun gruppo - che differivano tra loro nel
termine utilizzato per identificare il soggetto: “lui”, “lui o lei” oppure “lei”. All’interno del
gruppo in cui la definizione era scritta utilizzando “lui” solo cinque individui si sono mostrati
inclini a riconoscere la legittima difesa, contro i sedici del gruppo “lui o lei” e gli undici del
gruppo “lei”. Entrambi gli esperimenti esposti evidenziano quanto un’asimmetria del
linguaggio, quale il maschile generico risulta essere, possa influenzare decisioni,
comportamenti e prospettive riferite alla realtà fisica, arrivando a condizionare perfino, come
nell’ultimo esempio, la percezione di colpevolezza o innocenza.
Come si è già detto, tutte le lingue operano una distinzione tra maschile e femminile, ma il
grado con cui lo fanno varia a seconda dei casi. Più o meno tutte le lingue possono essere
ricondotte ad una delle tre macro-categorie legate al genere: grammatical gender languages
(o gendered languages), natural gender languages e genderless languages28 . Le gendered
languages29 sono le lingue in cui ai nomi viene sempre assegnato un genere maschile o
femminile (in alcuni casi può esistere anche il neutro). In questa categoria, quando i nomi si
riferiscono a persone, generalmente ne riflettono il genere, e aggettivi e pronomi concordano
con il nome a cui sono riferiti.


27 Per un approfondimento si veda Hamilton, M. C., Hunter, B., & Stuart-Smith, S. (1992). Jury instructions
worded in the masculine generic: Can a woman claim self-defense when “he” is threatened? In J. C. Chrisler &
D. Howard (Eds.), New directions in feminist psychology: Practice, theory, and research, pp. 340–347, New
York, Springer.

28 Ci si riferisce qui alle categorie con i loro nomi in lingua inglese per non rischiare di incorrere in eventuali
errori di traduzione e di conseguenza rendere le categorie più difficili da identificare. Vengono quindi riportati i
termini così come sono stati studiati.

29 Alcuni esempi di lingue che fanno parte di questa categoria sono: russo, tedesco, italiano, francese, spagnolo,
ebraico.

!37
Le Natural gender languages30 mostrano una distinzione nel genere dei pronomi, la maggior
parte dei nomi invece non presenta alcuna connotazione riferita ad un genere preciso.


Ci sono infine le Genderless languages31 caratterizzate dalla completa assenza di una


distinzione grammaticale in merito al genere per quanto riguarda sia nomi che pronomi.

Se si parte dall’idea che al linguaggio corrisponda una precisa percezione del mondo in
relazione al genere, si può allora pensare che una lingua che opera più frequentemente la
distinzione tra maschile e femminile renda gli individui più predisposti a effettuare operazioni
di divisione tra uomini e donne. Nelle differenti culture i sistemi linguistici comporterebbero
così diverse concezioni e comportamenti rispetto a ruolo e condizione sociale degli individui,
a seconda che siano uomini o donne. All’assenza di un preciso genere nella grammatica, però,
non necessariamente corrisponde una neutralità maggiore.
In altre parole si può dire sia errato pensare che le società legate alle genderless languages
siano automaticamente le più neutre ed eque per quanto riguarda i ruoli di genere, visto che i
termini considerati neutri spesso possono risultare comunque faziosi.
Quanto si è appena scritto è già stato almeno in parte dimostrato dai due esempi
precedentemente illustrati - Bem e Bem e Hamilton et al. - tuttavia, vista l’importanza
accordata all’argomento, si è deciso di argomentare ulteriormente tramite la descrizione di
un’altra sperimentazione pratica.
Lo studio in questione, oltre a considerare il maschile generico “lui”, mira a comparare gli
effetti dell’uso della una forma onnicomprensiva neutra “loro”, con quelli della forma “lui o
lei”, quest’ultima da considerarsi non sono aperta a entrambi i sessi, ma anche in grado di
esplicitare le singole identità.
Prewitt-Freilino et al. nel loro saggio del 2011 ripropongo la ricerca di Hyde, svolta nel 1984
coinvolgendo 140 maschi e 170 femmine in età scolare32 . L’autore ha chiesto a bambini e

30 Alcuni esempi di lingue che fanno parte di questa categoria sono: l’Inglese e le lingue scandinave come
svedese, danese e norvegese.

31 Alcuni esempi di lingue che fanno parte di questa categoria sono: finlandese, turco, persiano, cinese e swahili.

32 Per un approfondimento si veda Hyde, J. S. (1984) Children's understanding of sexist language,


“Developmental Psychology”, 20, pp. 697–706.

!38
ragazzi di scrivere una storia partendo da un incipit dato. L’incipit in questione era “quando
un bambino va a scuola, [lui - loro - lui o lei] spesso il primo giorno si sente emozionato”33.
Dai risultati è emerso che quando sono state utilizzate le forme “lui” e “loro”, rispettivamente
il 12% e il 18% dei soggetti coinvolti ha contemplato la possibilità che queste formule
comprendessero entrambi i generi, scrivendo storie con protagoniste femminili; la percentuale
sale invece al 42% nel caso in cui è stata usata la formula “lui o lei”.
Appare ora evidente che anche l’uso di forme neutre rischia di portare con sé una forte
polarizzazione e che l’unico modo per garantire un’appropriata restituzione delle categorie a
cui ci si riferisce è, di fatto, includendole in modo esplicito nel discorso.

L’ultimo studio a cui si vuole fare riferimento cerca di dare una globale interpretazione del
rapporto che intercorre tra le lingue, considerate nel loro grado di “genderizzazione”, e il
livello di parità di genere presente nelle società in cui queste lingue vengono utilizzate.
L’indagine svolta da Prewitt-Freilino, Caswell e Laakso prende in esame centoundici Stati dei
quali si mette in relazione la lingua - riconducendola a una delle tre categorie sopracitate - con
l’uguaglianza tra i sessi in essi riscontrabile34.
Gli esiti della ricerca dimostrano l’esistenza di un legame tra il grado di “genderizzazione”
linguistica e il tasso di parità tra i sessi: negli Stati in cui è parlata una “gendered language” è
riscontrabile una minor parità di genere, soprattutto per quanto riguarda il campo della
partecipazione economica, rispetto agli Stati in cui vengono parlate delle “natural languages”
o delle “genderless languages”. I paesi a cui corrisponde una “natural language” sono
posizionati al primo posto nella possibilità d’accesso al potere politico per le donne.
Concludendo, alla luce delle considerazioni teoriche fatte e degli esperimenti che si è deciso
di riportare, si ritiene di poter affermare che il linguaggio, in tutte le declinazioni assunte nelle
diverse lingue, sia un fattore di condizionamento sociale importante.

33 L’italiano a differenza dell’inglese è una gendered language, quindi nella traduzione il nome e l’aggettivo ad
esso riferito risultano connotati da uno specifico genere. La frase originale è: “When a kid goes to school, [he/
they/he or she] often feels excited on the first day”.

34 I fattori utilizzati per determinare l’uguaglianza di genere sono: “Economic Participation and Opportunity”,
“Educational Attainment”, “Health and Survival” e “Political Empowerment”. Vengono poi considerate delle
covarianze quali: collocazione geografica, tradizione religiosa, tipo di governo e indice di sviluppo umano (per
quest’ultima voce è stata utilizzata la valutazione pubblicata dalle Nazioni Unite nel “Human Development
Index” del 2010).

!39
Le conseguenze che l’interrelazione tra linguaggio, società e genere portano con sé non sono
affatto residuali, ma fondative di un universo socioculturale connotato e diseguale.

3.2 Le parole sono importanti: disuguaglianza e discriminazione nella lingua italiana

Come si è detto nel paragrafo precedente, le lingue in cui a nomi, pronomi e aggettivi viene
conferito un genere sono riconducibili alla categoria delle gendered languages. La nostra
lingua è fra queste.
L’espressione sessismo linguistico - tradotta dal corrispettivo inglese linguistic sexism - nasce
e si consolida negli Usa a cavallo degli anni ’60 e ’70 del Novecento, in un periodo
storicamente connotato dalla presenza di una moltitudine di movimenti tesi a promuovere i
diritti delle minoranze (Priulla, 2013).
Il sessismo nella lingua italiana è argomento di cui si è discusso a lungo e, a partire dagli anni
Ottanta del secolo scorso, il dibattito, ampliandosi, è arrivato a coinvolgere l’opinione
pubblica.
Questo processo di sollecitazione della società può dirsi per alcuni versi riuscito, visto che a
esso va riconosciuto il merito di aver portato il dizionario Zingarelli35 ad aggiungere, nel
1994, una declinazione femminile per ottocento parole fino a quel momento utilizzabili solo
al maschile.
La riluttanza di molti ad affrontare il discorso rispetto all’importanza di operare un
cambiamento nella lingua al fine di renderla più rispettosa delle identità, è imputabile alla
superficialità con la quale viene considerata l’influenza del linguaggio sulla formazione di
categorie mentali e schemi di pensiero. Il linguaggio invece, sintomo evidente dell’entrata
definitiva nel mondo da parte dei bambini e presenza quotidiana nelle vite degli adulti,
elemento primo dell’interazione con l’altro, non può non considerarsi una variabile altamente
significativa nella costruzione dell’immaginario socio culturale di ciascuno, “nella
costruzione di nuovi orizzonti” (Priulla, 2013, p. 162).

35 La casa editrice Zanichelli, fondata dal libraio modenese Nicola Zanichelli nel 1859, ha oggi un catalogo che
conta oltre 2.500 opere; tra queste si trova il prestigioso vocabolario della lingua italiana, lo Zingarelli, da
sempre tra i più diffusi nel nostro paese.

!40
Esistono vari tipi di asimmetrie, più o meno evidenti, che contribuiscono a rendere una lingua
sessista e carica di stereotipi di genere. Priulla identifica i campi dell’etimologia, della
grammatica e della semantica come esemplificati delle asimmetrie di cui sopra.
Per ciò che concerne il primo settore indagato, nella lingua italiana, come nel resto delle
lingue romanze, molti termini sono di derivazione greco-romana; risalire all’etimo di taluni
lemmi, dunque alle loro forme più antiche, vuol dire imbattersi in significati altri rispetto a
quelli di attuale uso convenzionale.
Un esempio di queste asimmetrie etimologiche è il termine “virtuoso” che si forma dal latino
“vir” cioè uomo: la disposizione a fare del bene e la rettitudine sarebbero quindi
caratteristiche associabili all’essere uomo.
Tra le asimmetrie di tipo grammaticale si può annoverare il maschile generico, altresì detto
maschile neutro, di cui si è già parlato nel precedente paragrafo. Esso, pur essendo atto a
designare entrambi i sessi, denota una spiccata centralità del soggetto maschile all’interno del
discorso.
Un linguaggio che per convenzione diviene monosessuato è un linguaggio pericoloso perché
normalizza l’esclusione.
Tutte le professioni lavorative che godono di un solo indirizzo di genere, ovvero che esistono
solo nella forma al maschile, sono un esempio significativo, e al contempo comune, del
processo di rafforzamento - più o meno consapevole - delle asimmetrie grammaticali e
influiscono sulla costruzione della percezione dei significati profondi.
Viene spontaneo chiedersi perché esista il ministro e non la ministra, il chirurgo ma non la
chirurga, l’assessore ma non l’assessora.
Attualmente, la possibilità di accesso al mondo del lavoro ha superato buona parte dei limiti
una volta imposti dal genere, tuttavia non si può affermare che la lingua si sia adeguata al
cambiamento. Così, la percezione atipica di una donna che occupa delle posizioni lavorative
“da uomo” continua a rendersi tangibile e si cristallizza nell’inesistenza della declinazione al
femminile dei titoli che a esse corrispondono.
Sebbene negli ultimi tempi stampa e telegiornali, nella loro veste di promotori primi di
cambiamenti nel linguaggio comune, abbiano provato a introdurre declinazioni al femminile
di cariche lavorative, specie istituzionali, esistenti solo nella loro variante al maschile, il
tentativo non può dirsi del tutto riuscito.

!41
Il risultato anzi è spesso screditato, perché apostrofato di cacofonia; la “nuova” parola suona
strana, sia da leggere che da sentire, e ne consegue che non c’entri mai l’obiettivo di inserirsi
di diritto nel linguaggio ufficiale, limitandosi ad essere utilizzata e tollerata solo a livello
colloquiale.
Oltre al linguaggio tipicamente istituzionale (quello che, per intenderci, si riferisce alle
cariche dello Stato), anche il linguaggio burocratico e quello amministrativo possono dirsi
sofferenti dello squilibrio tra forme maschili dominanti e loro declinazioni femminili quasi
totalmente assenti.
In questi due ambiti settoriali però, il cambiamento di rotta, seppur lentamente, pare farsi
strada con più facilità e successo.
Tramite direttive ministeriali e iniziative dei singoli enti, la spinta per un linguaggio ufficiale
che renda conto di entrambi i generi si sta concretizzando in un graduale cambiamento di
tendenza.
Il mutamento auspicato però continua a essere osteggiato e ritenuto superfluo da alcuni, non
trovando così l’ampio sostegno necessario a una sua completa realizzazione.
Nella città di Modena, nel febbraio 2015, per esempio, dopo la delibera comunale a favore
dell’adozione di modulistica nella quale si facesse riferimento a entrambi i generi, l’ex
Consigliere Luigia Santoro (ncd) ha dichiarato che “chiedere di declinare al femminile le
qualifiche professionali è una specificazione demagogica che non aggiunge niente al ruolo
pubblico della donna. La carriera delle donne dipende da quanto sono brave e non dal fatto
che un nome sia declinato al maschile o al femminile, che è lo stesso”36.
Dichiarazioni di questo tipo riflettono la scarsa comprensione del fatto che un linguaggio
capace di rendere conto di tutte le identità combatte in modo attivo le capacità di esclusione
della parola producendo effetti sul modo fisico.
L’ultima tipologia di asimmetria, la più esplicita nel veicolare gli stereotipi, è certamente
quella di tipo semantico. Alcune parole modificano il loro significato nel passaggio da un
genere all’altro, cambiando nella valenza e arrivando, in alcuni casi, ad essere denigratorie
nella loro forma femminile.

36 http://www.comune.modena.it/salastampa/archivio-comunicati-stampa/2015/2/uso-del-genere-negli-atti-

amministrativi-2013-il-dibattito.

!42
Tra gli esempi più efficaci di asimmetria semantica si possono annoverare il termine
“governante” che, se al maschile significa “capo di governo”, al femminile identifica la
“collaboratrice domestica” e quello di “maestro” che nella sua forma esclusivamente maschile
significa “capo, guida”, mentre nell’accezione aperta ad entrambi sessi rimanda
all’insegnamento elementare.
Altra questione importante da mettere sul tavolo è quella che attiene a tutti i casi nei quali un
termine femminile ha un chiaro rimando a un comportamento sessuale, denigratorio per la
donna: una cortigiana, una donna facile, una donna disponibile hanno significati
estremamente diversi rispetto ai loro corrispettivi maschili - il cortigiano, l’uomo facile,
l’uomo disponibile (Priulla, 2013).
Anche la versione femminile di alcuni vocaboli propri della zoologia diventa, senza
edulcorazioni di sorta, un insulto pesante e sessista da rivolgere alla donna: “vacca”, “troia”,
“cagna”; nell’ottica maschilista, invece, essere definito uno “stallone” significa esaltare
l’essenza della potenza sessuale degli uomini.
Per concludere va ricordato che la relazione tra linguaggio e connotazione di genere varia con
il variare delle aree geografiche e linguistiche, col corso del tempo, e in rapporto alle culture
di appartenenza, proponendo messaggi che possono farsi veicolo di esclusione o di inclusione,
di stereotipi o di realtà ragionate e di volta in volta ridiscusse.
Perché al genere nella parola e nella società venga restituita la sua importanza non è
necessario solo un processo di riforma linguistica e di decostruzione dei significati ma, perché
il cambiamento sia vero ed effettivo, deve avvenire prima a livello individuale ed essere
spinto da una interiore volontà di progresso.

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Conclusioni

Nel corso dell’elaborato si è dato conto di come alcuni degli influssi esercitati dagli strumenti
e dai mezzi propri della società attuale influiscano sullo sviluppo della consapevolezza
identitaria.
Il processo, si è visto, inizia con l’infanzia e si rafforza via via con l’ingresso nel mondo degli
adulti, visto che nel corso della crescita gli individui sono continuamente sottoposti a input
che hanno, tra le varie caratteristiche, quella di provvedere a fornire riferimenti
comportamentali piuttosto influenti.
L’obiettivo principale della tesi è quello di far dialogare, sottolineandone le criticità, gli
elementi della vita quotidiana di bambini e bambine, uomini e donne e di derivarne
considerazioni in merito al loro rapporto con la strutturazione sia del singolo, che della società
nel suo complesso.
Il materiale audiovisivo, i giochi e i giocattoli e, infine, il linguaggio hanno rappresentato i
diversi macro-ambiti di ricerca proposti lungo la tesi.
I primi e i secondi vedono gli infanti rivestire un ruolo da protagonisti, essendo bambini e
bambine primi incubatori di visioni del mondo connotate dal punto di vista del genere,
artefatte e stereotipate.
Siccome lo stereotipo è un’immagine della realtà distorta, ma al contempo data per assodata,
alimentarne la costruzione tramite i cartoni animati cristallizza i problemi di inadeguatezza,
ponendoli peraltro in una forma rigida e astratta, pertanto più difficile da scalfire.
I maschi, ma ancor più le femmine, sono sicuramente vittime di alterazioni auto ed etero
indotte. Le bambine sono portate a crescere inseguendo ideali di bellezza e comportamento
alterati dal mondo magico e superficiale che viene loro proposto, oppure da quello di
introiezione di valori considerati, erroneamente, tipici dell’universo femminile - si parla in
questo caso del senso di maternità e cura, della propensione alla domesticità intesa come
esecuzione di lavori domestici, ecc.
Giochi e giocattoli, indagati nel corso del secondo capitolo, non differiscono in modo troppo
consistente dalle pellicole d’animazione per grado di influenza nella formazione di
diversificate sfere comportamentali associate al genere. Bambini e bambine sono messi a

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contatto con articoli che si differenziano per proposte di gioco, le quali enfatizzano per i
maschi la predisposizione all’azione, al movimento, al combattimento e per le femmine quella
al confronto estetico, alla riservatezza, alla compostezza. Se i bambini il più delle volte
giocano “contro” (i nemici, i mostri, gli alieni), le bambine giocano “con” (le bambole, gli
accessori per il trucco, le riproduzioni degli elettrodomestici).
Dato per assodato che i giocattoli abbiano una finalità ludico-ricreativa, puntuale deve essere
inoltre una loro riconsiderazione in termini di prodotti di consumo sottoposti alle leggi del
mercato; come tali, la loro promozione e il loro tasso di vendita sono regolati da dinamiche
che guardano oltre gli obiettivi primari di divertire, intrattenere e formare i bambini,
giungendo a propagandare anch’essi modelli di comportamento - o di riproduzione di questo -
suscettibili di giudizio.
Nel corso dell’ultimo capitolo il discorso ha voluto aprire anche all’universo adulto,
chiamando in causa lingua e linguaggi. Questi possono dirsi aspetti diversi di una stessa cosa
(la lingua parlata e scritta, i modi di dire), risultando fortemente interrelati, specie alla luce
delle implicazioni che hanno nel riprodurre diseguaglianze di genere. Queste ultime, proprio
perché veicolate attraverso la comunicazione e le sue forme, si radicano nella quotidianità di
qualsiasi società umana con un’ampia facilità. Le asimmetrie grammaticali, etimologiche e
semantiche evidenziate nel corso della trattazione, confermano il peso della lingua nella
formazione di costrutti mentali.
Su questa linea interpretativa che guarda alle riflessioni della lingua sull’ambiente socio-
culturale nel quale nasce e agisce, si è ritenuto doveroso fare un focus sull’italiano.
L’analisi dell’interdipendenza tra l’uso che viene fatto del genere nella nostra lingua madre e
le dinamiche di potere e/o di emarginazione che ne derivano, si dimostrano un punto di
riflessione utile a comprendere i processi in atto nella società.

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