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Lo specchio infedele

Antropologia
Università degli Studi di Pavia
22 pag.

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Matteo Canevari

Lo specchio Infedele

Prefazione

1.

La mente teatrale: Nella seconda metà del 900 si è formata la consapevolezza epistemologica
intorno alla funzione essenziale di metafore e modelli, cioè dell’immaginazione nella costruzione dei
concetti e delle teorie scientifiche. Le metafore rilevanti, cioè quelle poetiche, produttive, non sono
semplici sostituti della lettera, ma supplementi per una lettera che non c’è. Il teatro, con il suo
“magico apparato”, come lo definisce Goethe, educa la nostra vita immaginativa individuale a stare
correttamente tra reale e immaginario. Anche Freud ci parla dell’importanza della messa in scena
nelle relazioni con gli altri e nella costruzione della propria identità. Il teatro consente di avere una
concezione dinamica e relazionale della mente, di pensare l’estensione psichica come scena. Da una
parte, il teatro consente di parlare di processo psichico come discorso vivo e intersoggettivo;
dall’altra parte agisce il teatro nella sua valenza psicomorfica, come dispositivo psichico di
autoscopia collettiva. Ronconi dice: “Per me il teatro è una forma di conoscenza e di comunicazione,
non una semplice esperienza di gradimento o di riconoscimento”. Ronconi usa la metafora della
mente teatrale come campo emotivo e conoscitivo, un campo di relazioni tra autore, attore e
pubblico. L’azione incarnata sulla scena da una pluralità di voci diventa occasione di
autorappresentazione e di autocomprensione.

2.

Origine di una metafora: Il tema della rappresentazione è centrale in filosofia, tanto che- a partire da
Leibniz o Descartes- la conoscenza è stata definita proprio “rappresentazione”. Ma lo sviluppo
filosofico del concetto di rappresentazione (legata alla dicotomia tra vero e non-vero, l’essere e il
nonessere), non deve farne dimenticare l’origine: il concetto arcaico di rappresentazione non è un
concetto teoretico, ma teatrale, cioè legato a due oggetti chiave, l’immagine (eidolon) e la mimesis
(imitazione). Eidolon è la presentazione estatica di un orizzonte di senso. Questa concezione estatica
del concetto di immagine è presente nella cultura greco-arcaica con il significato di mimesthai che
significa “portare attraverso la danza alla rappresentazione”. È un venire alla rappresentazione a più
livelli: la danza greca culturale era sempre legata a “ritmo, accompagnamento musicale e parola
narrante, cioè ad una messa in scena narrante, cioè ad una messa in scena formale complessa”, che
è narrazione (mythos). Il teatro per i greci non è semplice spettacolo, svago, ma un’esperienza
radicale educativa dal forte legame sociale ed etico.

Introduzione

Clifford Geertz nel suo celebre saggio “Generi confusi” descrive il grande mutamento a suo dire in
atto nelle scienze sociali. Fino ad allora esse avevano preso in prestito modelli e modi di pensare
tipici delle scienze naturali; in un momento incerto, esse presero come modello le scienze umane,
quali la pittura, la grammatica, la letteratura, il gioco, il teatro. Da quel momento ha preso avvio un
vasto processo che ha portato l’antropologia (disciplina che pone al centro del suo studio i soggetti
viventi “colti nella loro capacità di produrre senso con il loro parlare e con le loro azioni”) ad adottare
come strumenti privilegiati l’analogia e la metafora nella traduzione culturale. Presupposto della
ricerca di Canevari, che prende le mosse dalla riflessione di Geertz, è che il rapporto tra il teatro e la
società, non è istituito dalle scienze sociali, ma è originario. Con questo si vuole dire che una
caratteristica epistemologica rilevante per quanto concerne le scienze sociali è che il teatro viene
spesso usato come modello della comprensione di significati individuali e culturali.

A partire dal gioco

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1.

“Il teatro appartiene alla forma di socialità propria del gioco”. Nel gioco l’immaginario diventa realtà;
il teatro, in quanto gioco imitativo della realtà è una forma simbolica capace di mettere in relazione il
reale con l’immaginario attraverso le modalità proprie dell’attività ludica.
A partire dallo studio pioneristico di Huizinga, la rilevanza del gioco per la formazione della struttura
sociale è stata considerata con interesse. Il gioco ha catturato l'attenzione di quegli studiosi che in
esso hanno riconosciuto la chiave per interpretare la radice più profonda di aspetti seri della vita
individuale e collettiva.
Il gioco permette di “correre rischi”, di spingersi al confine dell’accettabile, revocare in dubbio ciò
che vi è di più vero, di sperimentare l’insolito e l’inimmaginabile. E tutto ciò con la sicurezza di poter
tornare indietro, richiudere quella porta che il gioco ha aperto. Ma la porta si è comunque socchiusa
grazie al gioco, e se è possibile chiuderla, non è possibile dimenticare di aver gettato lo sguardo oltre
la soglia, non è possibile rimuovere il fatto di aver giocato con ciò che è più vero. È in questa
consapevolezza che riconosciamo la dimensione seria dell'esperienza ludica.
Nel gioco vi sono simboli che costituiscono l'universo semantico nel quale ci muoviamo, e si
mostrano nella dimensione originaria di prodotto culturale. Giocare è una produzione, o meglio una
“ri-produzione” del mondo umano che lo mostra di riflesso in quanto produzione e prodotto allo
stesso tempo. Vi è un rapporto di circolarità tra gioco e società, poiché il primo elemento riproduce il
secondo, ma ne è a sua volta il prodotto (il gioco è un fenomeno fortemente influenzato dalla società
e dalla cultura).
Il gioco ha una forte valenza “svelatrice” in quanto decostruisce, smonta le realtà, i “concetti solidi” e
li mette in discussione. Questo non vale solo per il gioco imitativo, ma per qualsiasi tipo di gioco:
persino nell’insensatezza di girare su sé stessi senza scopo, si esprime inconsapevolmente il fatto di
mettere in crisi la serietà del movimento efficace e ben finalizzato che domina la nostra vita
quotidiana. Il girotondo ricostruisce il mondo mano a partire dal bisogno di demolirlo nella sua
severità e lo ripresenta in forma analogica.

2.

Libertà ed eccezionalità del gioco: Huizinga (storico olandese) ha illustrato alcuni dei principi chiave
che definiscono il fenomeno ludico. Innanzitutto, il fatto che il gioco oltrepassa i limiti dell'attività
puramente biologica: è una funzione che contiene senso. Inoltre, il gioco permette di vedere
nell'attività ludica un aspetto fondamentale del processo sociale. Il gioco è un fenomeno culturale.
Secondo H. “ogni gioco è un atto libero. Gioco non è la vita ordinaria, è un allontanarsi da quella per
entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria.”
Libertà ed eccezionalità sono i due caratteri fondamentali dell’esperienza ludica che disegnano i
contorni di uno spazio simbolico nel quale la realtà e la serietà vengono sospese. Questo spazio
simbolico è generalmente anche delimitato in uno spazio fisico separato e da un tempo differente
che sospende quello dello scorrimento ordinario dell'esistenza e determina una certa “distanza” dal
mondo ordinario. Tale distanza però è relativa nel senso che l’evento ludico non accade mai
totalmente altrove rispetto al consueto, ma insiste sull’ordinario, scardinandolo dai suoi limiti: il
gioco intrattiene con la quotidianità un rapporto costante e qualificante. Questo rapporto è
essenziale. Il gioco non rimanda a un'alterità, ma anzi afferma il possibile all'interno dell’ovvio.
Gioco e festività: Callios, altro studioso del gioco, sostiene che l’esperienza ludica è strettamente
affine alla dimensione festiva: festa rappresenta ritorno mitico all’origine in cui nulla è stabile e tutto
è ancora possibile. La festa, come il gioco, destabilizza l’ordine e favorisce la rigenerazione delle
energie fondamentali su cui si fonda la società che ne esce profondamente rafforzata.
Esperienza ludica è creativa e allo stesso tempo distruttiva perché si pone al margine tra noto e
ignoto, profano e sacro. L'identità del gioco va a trovata esattamente in quella ambiguità indefinibile
dove i confini si confondono. L'esperienza ludica sovverte l'ordine costituito per sperimentare
liberamente nuove configurazioni possibili. Huizinga sostiene che “quelli ludici sono dei mondi
provvisori dentro il mondo ordinario, destinati a compiere un'azione conchiusa in sé ” nel senso che il

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gioco è un'esperienza che si autoproduce e trova il suo senso in sé. Sostenere che essa non ha
relazione con l'esperienza quotidiana e si esaurisce nel momento ludico, è fuorviante.
Gioco come attività disinteressata: il gioco è disinteressato, ma “serissimo”, istituisce l’”essere
diverso” come regola paradossale. Ciò che lo distingue dalle altre esperienze extra-ordinarie è quello
che Huizinga definisce “contegno ludico” = capacità di stare contemporaneamente dentro e fuori
dalla costruzione simbolica. Esempio: il bambino può essere dominato da un’emozione tale da
raggiungere lo stato del credere-di-essere, senza perdere completamente la coscienza della realtà
consueta. La distinzione netta tra realtà e non realtà è insufficiente per definire l'universo prodotto
dal gioco. Il mondo finzionale del gioco non è puro nulla, non è un semplice caos. Esso si colloca
esattamente in un'area di confine, istituendo un'altra realtà che accade al livello dell'esperienza e si
mostra in quanto finzione, pura produzione simbolica. Il contegno ludico di cui parla Huizinga è
espresso anche dallo psicanalista Erikson, con il concetto di “effettualità” = margine di variazione e
libertà creato da varie forme di azione reciproca. Il terreno del gioco è esattamente questa
eventualità che tiene insieme realtà e finzione nella consapevolezza della compresenza dell'una e
dell'altra. La capacità di stare dentro questa variazione è essenziale per il funzionamento del gioco.
La funzione vitale del gioco ha sia significato individuale sia collettivo. A livello singolare permette di
sperimentare la variazione del comportamento al di fuori di finalità utilitaristiche. A livello della
collettività impedisce l'irrigidimento della struttura sociale nei suoi modelli consolidati, rendendola
capace di un rinnovamento simbolico.

3.

La riflessione di Piaget sulla nascita del gioco simbolico a partire dalla presa di distanza dal gioco
puramente motorio mette in luce che l’emergere di questa abilità è legata ad un significativo
sviluppo della coscienza del bambino; Esso è correlato alla formazione di un meccanismo psichico di
distanziamento dalla realtà . Caratteristica del gioco simbolico è proprio lo spostamento degli schemi
già acquisiti. Si tratta di trasformare gli schemi con il risultato di svilupparne le potenzialità in senso
libero e creativo. In questo modo, l'insieme di attività consolidate che mettono il bambino in
relazione al suo mondo viene ritualizzato e astratto dalla realtà a cui normalmente queste attività
sono applicate. Esse cominciano allora a valere “in quanto tali”.

La finzione è l’unione di due condizioni, il reale e le esigenze libere dell’ego. Piaget fa l’esempio
teatrale del bambino che usa la scatola come un piatto pieno di pietanze. Ci troviamo di fronte a una
simile azione distorta della realtà: differenziazione tra significante (movimenti effettivamente
compiuti che costituiscono solo un tentativo di gioco) e significato (ciò che si sviluppa se portato a
termine in modo serio). È nello scarto del significante rispetto al significato che è possibile lo statuto
ambiguo della finzione teatrale: in esso risiede il senso della sua imitazione della realtà.
Nella capacità di evocare l’uno (il significato) maneggiando l’altro (il significante) si trova lo specifico
dell’arte teatrale come gioco simbolico collettivo capace di riflettersi nella consapevolezza di un
pensiero rappresentativo critico che sorge proprio a partire dall’esigenza di tale scarto. L'esperienza
ludica è un'attività volta alla distorsione della realtà ai fini della sua assimilazione all’io senza dirette
finalità adattive. Il gioco smonta la realtà oggettiva e permette al soggetto di ricostruirla a partire da
sé.
Afferma Erikson: “perché un bambino comprenda qualcosa deve costruirla egli stesso, deve
reinventarla”. S'intende dire che il margine di libertà della variazione ludica permette di
padroneggiare la realtà, ricreandola. Il gioco è una forma di appropriazione creativa dell'esperienza
che non si limita a riprodurla, imitandola, ma di smontarla per ricrearla in forme nuove. È lo stesso
Erikson a paragonare il gioco all’arte teatrale attraverso una similitudine tra il bambino e il
drammaturgo (ma anche attore e regista) che organizza la scena con gli elementi che dispone come
significanti del reale già dato, ricreando con essi un mondo simbolico. Il teatro si muove nell’ambito
libero dell’effettualità; ciò non significa che il teatro è pura immaginazione, al contrario, l’effettualità
performativa del teatro mantiene una dialettica aperta col reale, al quale ricorda sempre la sua (del
teatro) natura effettuale, cioè di finzione, che esso non deve perdere, pena l’irrigidimento delle sue
strutture. Il teatro attinge dalla vita quotidiana gli elementi che andrà a ricombinare in forma
simbolica. La similitudine tra teatro e gioco di Erikson è biunivoca, cioè si può leggere in entrambe le

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direzioni. Quello che vale per il gioco infantile, vale anche per la rappresentazione teatrale. Ciò che
accomuna bambino e teatrante è il fatto di guardare la realtà come artificio simbolico. Essi la
comprendono attraverso quello spostamento ludico di cui ci parla Piaget che separa significati e
significanti, gli oggetti con i loro segni.
La radice della parola teatro è THEA, visione che a sua volta è collegata al trauma, cioè che costringe
l’attenzione visiva. Il teatro è una visione che fa vedere il mondo reale come mondo simbolico,
organizzato in una messa in mostra agita che lo ricompone nei suoi elementi significativi, offrendoli
alla collettività.

4.

Un’ulteriore precisazione sul gioco simbolico permette di evidenziarne un punto molto importante. È
vero che anche il culto, come il teatro, è uno spettacolo, ma questo ha la pretesa di valere come
discorso serio. Il teatro invece vale come gioco non-serio, e la sua finzione vale in quanto artificio,
come scarto dalla realtà. Eco definisce “potenza del negativo” quell’elemento del gioco che si
realizza nello svuotamento delle regole di una cultura come atto funzionale all’apertura di un meta-
discorso su di esse. Questa funzione di negazione è sicuramente costitutiva della teatralità: prima
che la performance possa apparire in scena è necessario rimuovere tutto ciò che può essere
d’intralcio alla nascita del nuovo mondo immaginario. L'attore o lo spettatore deve essere indotto in
uno stato di purezza sorgiva che in molte culture si ottiene attraverso la trance e altre pratiche di
svuotamento e concentrazione che nella nostra società occidentale sono sviluppate in ambito
teatrale.

5.

Bateson descrive l’attività ludica in termini sociali come una forma di inquadramento dell’esperienza.
L’inquadramento consente all’uomo di individuare gli elementi rilevanti per la comprensione e
l’organizzazione di ciò che sta vivendo e di dotarlo di un significato. L’inquadramento è un fenomeno
sociale perché viene compreso e condiviso da un insieme di individui che lo riconoscono
implicitamente agendo di conseguenza e in modo comprensibile agli altri. In questo senso il gioco ha
uno statuto speciale perché è una sorta di paradigma generale per qualunque inquadramento. Nel
gioco gli inquadramenti, che normalmente sono impliciti nell’azione sociale, possono divenire
espliciti; infatti, il gioco è proprio quell’elemento paradossale che afferma il primato del mondo
simbolico su quello reale. Il gioco è l’unica esperienza che dichiara da subito la propria artificialità e
per questo trascina con sé tutti gli altri universi simbolici che proclamano la loro “naturalità”.
Bateson suggerisce che chi assiste al gioco non è un interlocutore passivo. Ma è compartecipe nella
creazione di senso di ciò che accade e la sua funzione ha un senso solo all’interno della cornice
creata dal gioco. La dimensione sociale è intrinseca nella dimensione simbolica (gioco e teatro); ciò
che è costruzione di significato per un soggetto presuppone di poter diventare senso per un altro.
Attori e spettatori collaborano a costruire i segnali metacomunicativi necessari per tenere in piedi lo
spettacolo, giocando allo stesso gioco ma con ruoli differenti. Il paradosso del messaggio
metacomunicativo:

“- questo è un gioco- tutto quello che accade all’interno del suo inquadramento è
contemporaneamente vero (perché sta accadendo nell'immediatezza dell'esperienza) e falso
(perché vale solo come segno artificiale di quella stessa azione che nel gioco significa sé stessa).”

In questo paradosso sta la chiave del superamento della dicotomia realtà/artificio e la via d'accesso
alla dimensione significante della finzione. Questo è il primo passo verso la presa di coscienza della
trasformabilità della realtà sociale comunemente condivisa, ma si presenta anche come metodo
funzionante all’indagine socioculturale propria della pratica antropologica.

6.

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Sclavi parla di exotopia, cioè di doppio sguardo. Chiamiamo exotopia questa attenzione dialogica in
cui l'empatia gioca un ruolo transitorio, dominata invece dal continuo ricostruire l'altro come
portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sensata della nostra e non riducibile alla nostra.
Le exotopia quindi è una struttura di comprensione del reale di tipo funzionale, duplice, paradossale
e aperta, e in quanto tale costituisce una precondizione per il riconoscimento dell'alterità. Essa è lo
strumento per comprendere la prospettiva dell'altro all'interno di un orizzonte sensato senza ridurre
le sue specificità, senza negarla nella sua alterità. La pratica teatrale allude ad un certo modo di
intendere la formazione dell’individualità, mutevole e processuale, che, ancora una volta, può
costituire uno strumento per l'indagine dei processi di soggettivazione degli attori sociali all'interno
delle cornici di inquadramento nelle quali si trovano ad agire. Del resto, il discorso sull’
interculturalità, prospettato a livello artistico come opportunità di emancipazione dalle rigidità
socialmente imposte e occasione di invenzione di sè, oggi è una realtà effettiva che attende ancora di
divenire consapevolezza diffusa.

La prospettiva drammaturgica
1.
Il rapporto tra ciò che accade sul palco e ciò che gli uomini fanno nel mondo è consolidato ormai da
moltissimo tempo. Gli uomini di teatro sanno che il gioco delle parti che mettono in scena per il loro
pubblico piace nella misura in cui allude alla realtà dell'esperienza vissuta, con tutta la sua
problematicità. Non di meno essi sanno anche che il rapporto tra vita e teatro è biunivoco, può
sempre essere ribaltato, e dunque la realtà sociale in cui l'uomo agisce può essere interpretata come
una grande messinscena dove ciascuno ha una parte, senza un copione definito. Vita e teatro sono
l'uno lo specchio dell'altra e si rimandano ininterrottamente. Vale la pena di comprendere che tipo di
specchio sono l'uno rispetto all'altro e quale rapporto viene istituito tra i due ambiti della
performance sia teatrale sia della vita reale. La performatività è strumento attraverso il quale la
società si mostra a sé stessa. È anche in questi termini che la performance è divenuta oggetto delle
scienze antropologiche, che l'hanno indagata nel teatro e in ambienti affini, sebbene differenti, come
la magia, il rito, la possessione e altre forme prototeatrali e parateatrali. Tutte queste esperienze
sono accumunate da diversi aspetti: la dimensione pubblica in cui accadono, la partecipazione
collettiva alla realizzazione dell'evento, la sospensione della quotidianità a favore di una dimensione
altra, la disponibilità della credenza di chi vi partecipa, la manipolazione simbolica della realtà. La
dimensione performativa può essere intesa come una certa modalità di organizzazione
dell'esperienza che la racchiude all'interno di un contesto noto, circoscritto e controllato che la
definisce in modo proprio e dà senso a ciò che accade al suo interno. Ciò che più la differenza
rispetto ad altri ambiti affini è che nella finzione teatrale l'efficacia simbolica appare in quanto tale, in
quanto prodotto intenzionale della manipolazione dei simboli collettivi senza che ciò sospenda la
propensione alla credenza che caratterizza l'esperienza performativa. Possiamo usare, per ciò che è
prodotto dall’efficacia simbolica performativa, la nozione di “idea pratica” sviluppata da Mauss a
proposito della magia. L'idea pratica è un effetto che prende corpo nell’azione, all'interno di un certo
campo di esperienza ristretto, capace di esercitare la sua influenza anche oltre quell’ambito ristretto
aprendolo alla realtà più ampia. Ciò vale per il rito, per la magia e per la teatralità. Riflettere sulla
dimensione performativa del teatro vuol dire prendere in considerazione anche questa dimensione
di efficacia simbolica nei rapporti che essa ha con il resto della vita della collettività.
2.
Il funzionamento del gioco di specchi tra teatro e realtà è stato oggetto dell'attenzione del sociologo
Erving Goffman. Egli ritiene è la metafora del teatro strumento efficace alla Sociologia per
interpretare la vita sociale in quanto costrutto collettivo. Tra realtà e finzione vi è una omologia che
permette di passare dall'una all'altra con facilità, interpretando la realtà sociale come se fosse una
messinscena che condivide con il teatro alcuni aspetti (Goffman dice: “la vita stessa è una recita”).
Tra vita e teatro vi è una osmosi che rende la relazione tra i due ambiti stretta. La realtà è omogenea
alla teatralità e il teatro non fa che rendere esplicito questo aspetto, implicito nella vita sociale. Per
uscire dalla contrapposizione dicotomica tra realtà e finzione e sfruttare quindi il paradigma teatrale

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come modello della realtà sociale, è necessario ripensare il loro rapporto a partire dagli aspetti che le
accomunano.
Anzitutto, esattamente come a teatro, nella vita sociale ciascuno è costantemente impegnato nell'
interpretare al meglio un ruolo e a sostenere una messa in scena credibile agli occhi degli altri. Poi, in
qualunque relazione, teatrale o reale, si instaura un rapporto necessario tra un soggetto che si
esibisce per un pubblico, che conferma la realtà dello spettacolo offerto credendovi e
compartecipando. Infine, come accade per l'attore e il suo pubblico, secondo Goffman, per quanto
credibile sia la messinscena ed efficace l’interpretazione del ruolo sussiste comunque l'impressione
di essere dentro ad una finzione. L'analogia tra teatro e realtà porta però con sé anche il rischio di
non poter più distinguere l'una dall'altra. A fondamento dell'approccio goffmaniano sta comunque la
distinzione tra teatro e società, tra messinscena deliberata e interpretazione della realtà “in quanto
messa in scena”.
La finzione teatrale può servire come termine di paragone per la decodifica della realtà, nel senso
che i meccanismi di costituzione del mascheramento della realtà devono essere riconosciuti per
pervenire a svelare la verità che la finzione occulta, una verità posta oltre gli sviamenti della
messinscena. Ma in questo modo, rischia di riaffacciarsi nell'impostazione del discorso del sociologo
quel paradosso che Diderot aveva identificato: la specificità della recitazione nella simulazione
spinge l'uomo di società a fare come l'attore, che reprime l'espressione diretta dei propri impulsi per
offrirne invece al suo pubblico una forma mediata e controllata, mimetica e dunque non sincera.
La prospettiva drammaturgica, come l'ha intesa Goffman, si rivela quindi problematica e limitante
per alcuni aspetti dell'indagine sui rapporti analogici tra scena e società. Infatti, se la realtà sociale
non è che è finzione dietro cui si nasconde la verità dell'individuo, ne viene meno l'interesse di
studio, oltre che la differenza rispetto al teatro vero e proprio. Il sociologo esprime una visione
conservatrice e ristretta del teatro, che concepisce solo come rappresentazione che imita la realtà
attraverso un artificio al quale nessuno, né l’attore né il suo pubblico, crede veramente.
Quello teatrale non è un inganno, è un medium di traduzione della realtà sociale in un'altra forma
che la rende visibile in quanto tale. Perché svolga la sua funzione di mediazione, di rivelazione e di
svelamento, la consapevolezza della specificità del regime di finzione proprio del medium teatrale
deve essere riconosciuta in modo esplicito.

3.
Ciò che è veramente significativo della relazione tra teatralità e realtà sociale è che sono entrambi
sistemi simbolici distanti ma fondati su una presunzione di efficacia che vale tanto per un campo
quanto per l'altro, permettendone l'intreccio e il riflesso delle immagini dall'uno all'altro. È possibile
collegare il fenomeno della possessione e della magia al teatro. Il problema è il rapporto tra
simulazione dell'attore (Stregone o invasato), Illusione ingannevole degli astanti e credenza nella
realtà degli avvenimenti che si presentano.
Prendiamo come esempio la descrizione della mania di Socrate nel Fedro platonico. Qui Socrate
definisce mania non espressione insolita dovuta a pazzia. Al contrario ritroviamo in Socrate un
atteggiamento di rispettoso interesse che gli permette di proporre un'analisi rigorosa dell’oggetto,
riconoscendone la dignità di fenomeno culturalmente rilevante. Ci dice che la mania è una forma di
invasamento che coglie in certi momenti alcuni individui, portandoli ad avere comportamenti insoliti
e ad esperire stati di straniamento da sé. Gli invasati non sono responsabili di ciò che fanno o dicono,
cose che invece vengono attribuite alla forza che li possiede. Per bocca di Socrate, Platone sostiene
che le forme proprie della mania sono quelle che “..ti vengono date per concessione Divina”
lasciando intendere di voler distinguere la mania da altri episodi di accessi incontrollabili dovuti a
semplice pazzia. Inoltre, ne dà una descrizione che dipende fortemente dalla dimensione sociale,
dall’insieme di credenze collettive che gli danno senso e che la distinguono da altre espressioni simili.
Quindi per comprendere il fenomeno della mania, bisogna fare riferimento al suo carattere pubblico
e condiviso.
Questa impostazione viene ripresa da Mauss per analizzare un fenomeno antropologico e sociale
come la magia. Egli sottolinea che atti alla cui efficacia non crede un intero gruppo, non sono magici.
Lungi dall’essere un fatto privato, la magia è un fatto pubblico, per essenza. Né patologia, né
inganno, ma piuttosto stato eccezionale di coscienza collettivo vissuto all'interno di un contesto
noto, circoscritto e controllato che contribuisce in modo determinante a definire il significato

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dell'esperienza. Nulla di occulto, ma esattamente come accadeva per Platone con la mania, ciascuno
conosce già il senso di ciò a cui è chiamato ad assistere e sa dargli il giusto significato.

Per Mauss, inoltre la magia non è una semplice credenza, ma è un insieme di pratiche, quindi è
azione significante. In essa gli atti e le rappresentazioni sono inseparabili, tali da poterla chiamare
idea pratica. La magia è inseparabile dalla dimensione performativa. Le trance non sono accessi
incontrollati, ma ricalcano sempre ruoli ideali noti a tutti e appartenenti al patrimonio immaginativo
collettivo. Inoltre, il tutto accade in un luogo distinto dal resto, spesso anche in un tempo separato
dal normale scorrimento della quotidianità (per es. di notte); questi sono segnali che indicano
l'eccezionalità del contesto. La magia è sostenuta da una effettiva volontà di credere. Credenza è
adesione di tutto l'uomo ad un'idea. Dalle riflessioni di Mauss possiamo ricavare che ciò che viene
chiamato magia è una certa forma di organizzazione, che coinvolge tutti i presenti. Il terreno su cui si
fonda la credenza nella magia non è L'inganno ma è invece rappresentato dall'orizzonte di attesa che
la performance Apri annuncia e dalla proiezione di sé nel centro della scena che coinvolge l'attore
mago il suo pubblico. È la collettività stessa ad esprimersi nella performance magica e
contemporaneamente a dare spettacolo di sé a sé stessa e, attraverso questa rappresentazione,
riappropriarsi di sé. I presenti, secondo Mauss, sono tanto coinvolti da cessare di essere semplici
spettatori e diventare co-protagonisti, spinti da un impulso a partecipare e ad agire insieme per
creare e mantenere la condizione eccezionale dell'evento. L'esperienza magica appare nello studio
dell'antropologo inscindibile dalla rappresentazione performativa.

Quella teatrale resta un’esperienza di finzione, in qualità di gioco, ma come accade per la magia, essa
non è una simulazione. È una realtà finzionale creata, come nel rito, dalla partecipazione collettiva
all'evento che sospende temporaneamente, senza cancellarla, l'incredulità.

4.

Gli elementi centrali della teatralità della possessione sono:

1. Rapporto realtà-finzione: Come si colloca la metafora teatrale rispetto alla realtà? Né


simulazione, né patologia, né pura realtà, né semplice artificio, la finzione performativa è
un'interpretazione di ruoli collettivamente inscenata e attesa, che riguarda tanto gli attori
quanto gli spettatori partecipanti inquadrati all'interno di un certo frame d’esperienza.

2. Aspetto formale: i riti di possessione sono riti spettacolari caratterizzati da un'espressività


drammatica nella quale si possono ritrovare quegli elementi che definiscono formalmente un
certo tipo di esperienza performativa. Ciò che conta non è tanto l'osmosi tra teatro e
quotidianità della vita sociale, quanto piuttosto la teatralità come esperienza extra ordinaria
che inquadra diversamente la realtà per riconoscerla. Il teatro non imita la realtà e la realtà
non è finta come il teatro; la teatralità istituisce una realtà altra all'interno della vita
ordinaria dove è possibile sperimentare la possibilità di vivere altrimenti. Il rapporto tra vita e
teatro va invertito rispetto a quanto ritiene Goffman: non è la vita ad essere una specie di
teatro, è il teatro ad essere una specie di vita. All'interno di questo gioco vi è una
semplificazione della dimensione sociale grazie alla quale i ruoli appaiono identità più
afferrabili e compiute e rispetto ad essi è più facile posizionarsi, differenziarsi o
appropriarsene. Il teatro è uno specchio della realtà, che però ne mostra la figura in
controluce, quella non vista. La teatralità, dunque, svela la sostanza della realtà sociale
rivelandone la natura di artificio simbolico, fondato sulla pratica collettiva della credenza.

3. Magico “se”: altro elemento della finzione performativa è il suo carattere aleatorio. Ciò che
conta nel rapporto tra vita e teatro è la leva introdotta tra questi due ambiti dal magico se
che, teorizzato da Stanislavskij, rappresenta l'essenza dell'esperienza performativa. Il magico
se è ideazione immaginativa, motore dell'azione, principio della creazione e motivo dello
spostamento da una realtà ad un'altra, inizio di una modalità di esperienza di sé diversa,
fondamento per creare forme di relazione nuove. Esso è la leva su cui fa forza l'esperienza

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performativa, per trasportarci in una dimensione di realtà alterata. Il magico se, dice
Stanislavski, ha provocato uno scatto, un modo diverso di vedere le cose a cui sono sensibili
gli attori ma anche gli spettatori. Le qualità che ne determinano l'efficacia sono
l’indeterminatezza che apre alla molteplicità del possibile, l'assenza di costrizione, la
chiarezza e la franchezza della sua azione che eliminano qualunque artificiosità ingannevole,
mostrando apertamente la misura della sua finzione. Attraverso questa apertura, a partire
dalle riflessioni sull'attore come ri-creatore di realtà è più agevole comprendere in che senso
il teatro si relaziona alla società nel suo insieme.

4. Qualità metaforica: La performance è una metafora della realtà che può essere colta
abbandonando il dualismo di Goffman (realtà\artificio, verità\imitazione) che è
controproducente per sviluppare il modello di un rapporto di rispecchiamento tra società e
rappresentazione drammatica. Deleuze supera questa tradizionale dicotomia rivalutando il
concetto di simulacro, affermando che non dev’essere necessariamente una copia, non deve
avere necessariamente un originale, ma esiste solo in quanto affermazione di una differenza.
Il simulacro esiste contemporaneamente come cosa e come segno. Applicando la concezione
di simulacro di Deleuze alla riflessione di Goffman, possiamo dire che il rapporto tra realtà
sociale e performance è un gioco di rimandi tra l'una e l'altra di sole copie che non hanno un
originale, tra cui vige un regime di differenza, ma non di estraneità, irriducibile a qualsivoglia
identità definita. Il filosofo americano Max black insiste sul fatto che quella metaforica è una
forma di pensiero che crea similarità piuttosto che esprimere somiglianze preesistenti; è in
questa qualità operativa, che integra due ambiti separati portandoli a lavorare l'uno
sull'altro, che risiede il valore cognitivo e creativo della metafora. Il valore metaforico del
teatro non è rappresentare il mondo dell'artificio rispetto alla realtà ma di aprire il reale alla
possibilità di una diversa comprensione. Paul Ricoeur, filosofo francese, sostiene che la
metafora è una innovazione semantica e non un semplice artificio o metro di paragone per la
verità. Il teatro, in quanto rappresentazione metaforica, realizza quel luogo di mezzo dove i
significati si manifestano e si rinnovano. La sua specificità è lo stare in mezzo tra la realtà e
l’artificio per far apparire quel luogo della finzione a cui entrambi alludono.

5. Inquadramento sociale degli eventi: Gli eventi della performance sono inquadrati all’interno
di un contesto noto, che è quello sociale e, in questo modo, gli eventi della realtà, a seguito
della semplificazione subita per essere rappresentati, possono essere compresi a partire dei
concetti goffmaniani di framework e di keying.

5.

Goffman nelle sue due più importanti opere introduce la questione dei frameworks (inquadramenti)
e del loro rapporto con la nozione di key (importante per comprendere il senso della trasformazione
della realtà operata dal teatro). Goffman distingue frameworks naturali e sociali; noi ci concentriamo
su quelli sociali poiché il concetto di framework è il primo a rivelarsi necessario per la comprensione
dei fatti sociali 🡪 quando un individuo della nostra società occidentale riconosce un particolare
evento, tende a impiegare strutture o schemi di interpretazione primaria. Una struttura primaria è
considerata capace di tradurre ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto senza significato della
situazione, in qualcosa di significativo. Con il concetto di framework quindi ci troviamo là dove
l'esperienza esce dall'anomia, per diventare significativa acquisendo caratteristiche che qualificano
gli oggetti. Non è rilevante che il soggetto sia consapevole dei suoi inquadramenti della realtà: i
frameworks non hanno bisogno di essere visibili per essere efficaci. Anzi sono condizione perché sia
possibile la visibilità di qualcosa “in quanto qualcosa”. La totale inconsapevolezza della loro esistenza
ne potenzia l'efficacia, poiché accresce il sentimento di naturalezza che ne accompagna l'azione. I
frameworks sono in sé trasparenti. Ogni società produce i propri inquadramenti ed ogni soggetto
sociale vi si relaziona\adegua fino a riconoscere correttamente la realtà che essi gli presentano come
realtà in sé.

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Quindi: Framework = schema o struttura che ci permette di categorizzare gli eventi della realtà
sociale. Questi schemi sono impliciti e fanno sì che gli eventi della realtà acquistino un significato.

Col processo primario di inquadramento degli eventi in quanto fatti sociali, si combina il processo di
keying. Questa nozione indica il processo di ritrascrizione dell'evento sociale in base ad una certa
chiave di trasformazione che lo riproduce in forma diversa. Il keying è un re-inquadramento, un
inquadramento di secondo livello grazie al quale è possibile percepire il primo inquadramento,
quello normalmente invisibile. Questa chiave di trasformazione è uno dei principi fondamentali per
comprendere il lavoro di trasformazione metaforica che la teatralità opera sulla realtà sociale. Nel
momento in cui essa è rappresentata sulla scena, la realtà sociale è allo stesso tempo ri-presentate e
ri-creata, ovvero trasferita da un inquadramento ad un altro che non occulta il primo frame e non
nasconde sé stesso, ma al contrario, mostrando il proprio artificio, mostra anche la natura artificiale
del frame sociale di partenza. Lo stesso Goffman sostiene che è più semplice sottoporre a keying gli
eventi sociali rispetto a quelli naturali, in quanto essi sono fatti simbolici che con più facilità possono
essere estrapolati dall'insieme e manipolati in quanto tali. Ed è in effetti di questi fatti che la
teatralità si occupa, sin dalle origini.

6.

Goffman individua alcune basic keys proprie della società occidentale, tra le quali annovera il
dramatic scripting. Nella sua riflessione il teatro è una delle modalità attraverso la quale la nostra
società re-interpreta se stessa, per vedersi e riconoscersi. La sua analisi della teatralità mette in luce
alcuni nuovi aspetti molto importanti: Goffman chiarisce la specifica qualità del keying teatrale
sostenendo che il teatro fornisce un modello dimostrativo della vita, una sceneggiatura degli
atteggiamenti sociali. Egli ci parla di inquadramento operato dalla teatralità non come artificio
ingannevole, ma secondo la macrocategoria del “make-believe” che solo impropriamente possiamo
tradurre con finzione, ma che è meglio intendere come “effetto di credenza”. Il teatro, quindi non è
più considerato emblema dell’artificiosità ingannevole da cui diffidare, ma al contrario è riconosciuto
come modello che rappresenta il processo di costituzione della realtà stessa nel processo della sua
produzione. La categoria del “make believe” risulta quindi strategica per comprendere tanto il
funzionamento della finzione teatrale quanto il rilievo che esso ha per interpretare il processo di
costituzione della realtà sociale quotidiana. Goffman individua nel pubblico un elemento essenziale
del processo di trasformazione creativa teatrale, necessario per creare l'effetto make believe senza il
quale non vi è finzione e non vi è espressione analogica delle strutture della realtà. Il fatto che ciò
che è prodotto in senso teatrale è messo in atto per un pubblico, ne determina il significato.

Lo spettatore è parte integrante del processo di keying, come abbiamo visto anche per la
performance magica. Entrambi gli spettatori, sia quello della performance teatrale sia quello della
performance magica, sono chiamati a credere a ciò a cui assistono. Ma nel teatro c’è una differenza
essenziale: il pubblico deve sapere che ciò a cui assiste è una finzione a cui viene richiesto di credere
“come se” fosse vera. In questa ambigua consapevolezza del “magico se” di Stanislavskij sta lo
specifico della valenza cognitiva della metafora teatrale. Solo se la realtà di riferimento e l'artificio
trasformativo sono compresenti e riconosciuti, la metafora può sprigionare tutta la sua forza
creativa, perché la sua creatività sta nel fatto che essa è una forza trasformativa della realtà con cui
entra in relazione. Il teatro può avere un pubblico perché parla della vita di quel pubblico, dei suoi
sistemi, e per orientarvisi nelle situazioni più complesse e compromettenti. Senza questo legame
sarebbe privo di attrattiva. La teatralità si distingue da altre forme performative come il rito, che
appiattisce la finzione sulla realtà proprio per questo.

Si capisce quindi perché ciò che maggiormente si presta alla trasformazione drammatica, secondo
Goffman, sono proprio quei fatti sociali vissuti come di vitale importanza da una collettività. Rispetto
ad essi, la comunità sente il bisogno di mettere in opera un mezzo capace di ricrearli e riproporli
all'attenzione per prenderne atto, riconoscerli nella loro realtà. Quei fatti rappresentano le origini
delle crisi che premono sui confini simbolici di una società; essi costituiscono la materia che si presta
alla ripresentazione drammatica. A partire da ciò ritroviamo la stessa direttrice di ricerca che
conduce Turner alla riflessione sul dramma sociale.

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Ancora un aspetto della ricerca di Goffman sulla teatralità: Agendo su un tipo di esperienza contraria
a quella consueta della performance, vale a dire il mantenimento del “make-believe” che abbiamo
posto al centro della teatralità, le altre forme operano allo stesso modo della truffa, con la quale
condividono la struttura artificiosa dell'inganno di cui solo alcuni sono consapevoli. Nel teatro, a
differenza della truffa, la finalità non è mantenere in piedi la credenza nella finzione, ma far crollare
la fiducia nella struttura del reale riproducendola perfettamente e segretamente, per poi smentirla e
smontarla di colpo rivelando il trucco della messinscena. Così facendo, queste pratiche performative
come il teatro ottengono un effetto di svelamento della sua artificialità. Goffman la chiama
“esperienza negativa”, nel senso che trae il suo carattere da ciò che essa non è. Quella negativa è
l'esperienza di un vuoto che si apre nelle strutture consuete di organizzazione dell’esperienza stessa,
senza che esse siano sostituite da altre strutture di significato. In questo modo la performance
ingannevole ottiene un effetto disvelante. Nel momento in cui le strutture di significato collassano
lasciando trasparire l'inganno della messa in scena, il soggetto prova una sensazione di smarrimento
e di consapevolezza singolare.

La prospettiva comunitaria

1.

La nozione di performance culturale nasce dallo studioso americano Singer; consiste nell'ambito di
creazione e trasmissione di significati culturali attraverso la forma dell'azione di cui ciascuna aveva
uno spazio, un tempo, un programma organizzato di attività, un insieme di esecutori, un pubblico e
una circostanza che dava occasione alla performance. Con questa descrizione, ritroviamo molti degli
elementi che caratterizzano la teatralità in quanto performance. Il teatro è un sistema simbolico
agìto di cui sono parte pubblico e attori che con le loro azioni, svolte all'interno di un quadro di
riferimento che dà loro il giusto senso, intessono una rete di significati comprensibile per chi vi è
implicato. Secondo Singer, a identificare questi eventi performativi contribuiscono non solo i
caratteri formali indicati sopra, ma anche i modi di comunicazione non verbali come canto, danza,
recitazione e racconto. Singer li considerava media culturali e riconosceva che un'analisi dettagliata
di essi può essere determinante per comprendere come vengono trasmessi e comunicati sia i valori
culturali, sia i processi e cambiamenti della cultura.

2.

Victor Turner = antropologo che si è occupato delle performance culturali, arrivando a maturare una
sua prospettiva drammaturgica dei fenomeni sociali. Nella sua opera più significativa, Antropologia
della performance, in uno dei saggi del testo, riprende la riflessione di Singer sull’importanza delle
performance culturali, ma si spinge oltre le sue osservazioni affermando che le performance culturali
non sono semplici schermi riflettenti di una cultura, ma possono diventare esse stesse agenti attivi di
cambiamento, rappresentando l'occhio con cui la cultura guarda sé stessa.
Nei lavori sulla società Ndembu, Turner si confronta con una serie di eventi collettivi nei quali
riconosce una dinamica evolutiva ricorrente che definisce “dramma sociale”. Essa è un rito collettivo
che comprende quattro fasi:

1. un'infrazione nel contesto di relazioni sociali regolari e organizzate che provoca il conflitto;

2. la crisi durante la quale il conflitto si estende all'intera collettività;

3. la messa in opera di meccanismi riparatori che possono comprendere dei rituali pubblici che
ripresentano in forma simbolica quanto avvenuto e come la società si relaziona a questa
crisi;

4. la risoluzione della crisi o con la reintegrazione dei soggetti che l'hanno provocata o con la
loro esclusione dal consesso collettivo.

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I drammi sociali hanno a che fare con aspetti problematici di una società e con le strategie attraverso
le quali la collettività vi si rapporta per mettere in opera delle modalità di ricomposizione degli
equilibri, quando possibile. È una rielaborazione simbolica collettiva, un gruppo tocca i propri limiti,
messi in fibrillazione dalla crisi in atto e ne saggia tanto la consistenza e l'estensione, quanto le
possibilità di ricomposizione.
La nozione di dramma in Turner svolge la funzione di una metafora. Attraverso la lente metaforica
del dramma, egli ravvisa nella dinamica e nel contenuto di tali strategie simboliche di elaborazione
delle crisi sociali un paradigma di tipo teatrale, cogliendo l'analogia tra gravità reale dei casi limiti,
dramma sociale e rappresentazione drammatica; quindi, Turner parte da un bagaglio culturale che
costituisce il background della sua precomprensione della rappresentazione delle crisi nelle società
Ndembu. Egli riconosce nel dramma sociale alcuni elementi assimilabili a quelli della tragedia
classica. Sono:

1) la rottura dell'ordine 2) la crisi che si manifesta davanti alla collettività 3) il sentimento della
costruzione dei limiti del fato (della società stessa) 4) la necessità della ricomposizione
dell'ordine o dell'espiazione della colpa.

Non è possibile sovrapporre perfettamente questo schema al dramma sociale degli Ndembu, ma con
flessibilità possiamo concepire la tragedia classica come se fosse una riproposizione artistica, dei
drammi sociali della cultura greca arcaica, in modo da poterla vedere come una sorta di elaborazione
ellenica delle crisi che li percorrevano quelle società. E dunque, di riflesso, nella tragedia è possibile
scorgere il paradigma metaforico che permette di comprendere altre crisi equivalenti, differenti per
molti aspetti, ma riconducibili allo stesso quadro esplicativo di riferimento per la loro forma.
Clifford Geertz attribuisce alcuni meriti alla prospettiva turneriana, sostenendo infatti che essa può
descrivere alcune delle caratteristiche più profonde dei processi sociali. Egli però dà solo
parzialmente credito agli aspetti formali dell'indagine di Turner, richiamando l'attenzione sul fatto
che l'interpretazione di quella forma di esperienza è da ricercarsi all'interno dell'orizzonte culturale
che le è proprio 🡪 in sostanza critica questa visione perché corre il rischio di applicare in modo
pedissequo uno schema universale ad ogni caso singolo. Perché il paradigma di Turner possa avere
un fondamento, alla descrizione formale deve essere associata una descrizione densa (thick
description) ben accorta degli elementi propri che compongono la rete simbolica in cui l'evento
performativo avviene.
Comunque merito di Turner è quello di aver sottolineato che le performance sono degli strumenti
efficaci di trasmissione culturale. Geertz si sofferma soprattutto sulla funzione conservatrice che
questi eventi possono svolgere, ma nella prospettiva drammaturgica di Turner si evidenzia
l'importanza del coinvolgimento della collettività nella riproposizione performativa della realtà
simbolica. Nel corso della sua riflessione, l'attenzione di Turner si sposta verso la fase intermedia dei
rituali collettivi nella quale vede aprirsi il campo innovativo del possibile accanto alla reiterazione
conservativa del già noto. Elemento di valore di tale prospettiva è che la riflessione di Turner ha
restituito alla concezione sociologica del teatro la sua connotazione originaria di creazione (poiesis)
collettiva a discapito di quella imitativa e passiva tramandata da una lunga tradizione. Lo strumento
di analisi che gli ha permesso di scomporre l'insieme complesso del dramma negli elementi semplici
di cui è costituito e quindi di riconoscerne le qualità specifiche, è la scansione triadica dei riti di
passaggio proposta da Arnold van Gennep.
L'aspetto più interessante risulta quello della fase intermedia detta liminale, in cui il noto e il
consueto sono sospesi per essere sottoposti a trasformazione. È questa la nozione grazie alla quale
Turner riconosce che i drammi sociali non sono semplicemente delle performance culturali che
ripropongono e comunicano i valori già noti o prendono atto dei cambiamenti avvenuti nella società
(come sostiene Singer), ma contengono in sé una carica creativa e trasformativa che si sprigiona a
partire dalla sospensione rituale delle norme collettive e tacitamente condivise, cioè a partire dalla
rottura della routine determinata dall'esplosione pubblica della crisi. La parte più interessante dei
drammi sociali è dunque quella centrale, più performativa, perché in quella fase la performance
sociale supera la dimensione della semplice replica imitativa della realtà. Gli attori in essa non si
limitano ad esporre la crisi, ma portano la collettività a confrontarsi con sé stessa. In altri termini, con
il semplice fatto di rappresentare pubblicamente la crisi, il dramma sociale mette in atto la dinamica
teatrale dell'agire e del vedere, del reale e del fittizio, del personaggio e della persona, portando con

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sé tutta la carica creativa che essa contiene. Questa fase cruciale della rappresentazione della crisi
davanti alla collettività da parte degli attori sociali, implica il coinvolgimento attivo dell’intera società
nel ruolo di pubblico. Ciò corrisponde all' identificazione di un luogo altro in cui può proiettarsi il
desiderio collettivo di agire ed essere diversamente. Non solo, ma tale fase è costituita da una serie
di azioni che ricreano il comportamento sociale, esibendolo e rinnovandolo. Il dramma sociale non
rappresenta solo una presa di coscienza dei valori della società, dei suoi limiti, che sono esibiti nel
dramma; ma essa comprende anche l'ideazione di una differenza possibile rispetto al noto attraverso
la riproduzione della crisi nel medium del dramma culturale che implica danza, canto, recitazione,
mascheramento e altri artifici performativi che, ricreando il comportamento sociale lo mettono sotto
la lente, lo scompongono e così facendo ne permettono sia apparizione e quindi la presa d’atto, sia la
presa di distanza critica.
Questa fase cruciale della rappresentazione è imperniata sul “magico se” di Stanislavskij, che
comporta un nuovo e diverso inquadramento (frame) degli eventi che non sono più percepiti come
delle necessità ineluttabili, ma come elementi di un insieme composito che può essere oggetto di
ripensamento e di organizzazioni collettive, di cui il medium performativo costituisce al tempo stesso
l'espressione e il modello.
L'interesse principale di Turner per i drammi sociali, quindi, risiede nel rapporto dialettico espresso
tra i processi socioculturali che si riscontrano nella quotidianità e le possibilità trasformative delle
strutture ad essi sottese implicitamente che si manifestano nel dramma culturale. Perché una simile
dinamica possa innescarsi, quando una situazione critica mina la continuità dell’insieme dei rapporti
sociali e del sistema di valori di riferimento e subentra una fase di modificazione, si apre uno spazio
per l'indeterminato, simbolico nel quale il vecchio ordine può essere destrutturato e un nuovo può
essere realizzato.
Quello offerto è uno spazio riflessivo e creativo, dove la società si osserva, sperimenta diverse
possibilità di riorganizzazione e prende atto dei motivi delle sue crisi, rinnovandosi di conseguenza. È
questo lo spazio liminale individuato da Turner nel dramma sociale, condizione di soglia tra una
realtà e l'altra; esso permette l’esperienza del semiserio = particolare modalità di esperienza del
mondo caratterizzata contemporaneamente dalla partecipazione e dal distacco, che è possibile
provare proprio in certe situazioni come il teatro, il gioco, sospensione della quotidianità. Tale
esperienza del semiserio permette di essere dentro le cose, ma anche di riconoscerne l'aspetto
funzionale di costrutti collettivi ed è uno spunto per l’antropologia per rapportarsi con alcuni dei suoi
contesti di studio. Il semiserio indica l'atteggiamento secondo il quale la dimensione fittizia della
realtà sociale appare “in quanto metafora senza originale”, ovvero metafora che si rivela a sé stessa
in quanto tale, cioè costruzione sociale arbitraria. L'atteggiamento semiserio rimette in gioco i
rapporti tra struttura e anti-struttura, tra forma e significato, rifacendosi al concetto di liminale che
Turner usa. In questo senso, il teatro si configura come una metafora epistemologica della realtà
sociale; secondo quanto scrive Umberto Eco: “metafora epistemologica vale a dire 🡪 il modo in cui le
forme dell'arte si strutturano, riflette il modo in cui la cultura vede la realtà” quindi egli aveva già
sottolineato come il teatro, e in generale le forme artistiche, siano delle metafore epistemologiche
della realtà sociale.
Ulteriore aspetto da sottolineare è che con il concetto di liminalità del dramma culturale, che indica
una fase indeterminata che può evolvere in un momento disfunzionale rispetto alla conservazione
dell’esistente, Turner supera lo struttural-funzionalismo classico e mette in questione il rapporto tra
struttura e momenti antistrutturali, proponendo una concezione della realtà sociale come di un
insieme complesso, animato da un equilibrio dinamico e instabile. I fenomeni antistrutturali liminari,
che sospendono il noto per l'ignoto, sono dei momenti di critica riflessivi e creativi capaci di proporre
e realizzare nuovi equilibri. Secondo Turner il dramma offre alla società gli strumenti espressivi per
dirsi, per riconoscersi in quanto costruzione culturale, per reinventarsi.

Turner esprime questa particolarità delle performance attraverso l’immagine dello specchio. Se i
drammi culturali sono uno specchio della collettività perché essa si guardi, sono però degli specchi
magici che deformano e trasformano oltre che riflettere. È in queste deformazioni che possiamo
vedere possibili variazioni rispetto alla realtà data. Va aggiunto che il teatro è uno specchio
trasparente che rivela da subito il proprio artificio in quanto finzione.
La dialettica di cui parla Turner non è solo quella tra struttura e anti-struttura, ma anche di dialettica
metacomunicativa tra contenuto e contenitore. In questo modo il dramma viene definito come un

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meta-genere, ovvero come un particolare meta-discorso attraverso il quale la società parla di sé
stessa. Questa nuova dialettica mostra per via analogica ciò che normalmente resta inespresso nella
vita sociale. Essa ha dunque un effetto disvelante, più sottile di quanto il contenuto in sé delle
performance culturali possa esprimere. Turner chiama “generi dominanti”, “drammi culturali” e
“performance culturali” i momenti centrali dei drammi sociali nei quali avviene la rielaborazione
performativa della crisi. La performance culturale, dunque segna un limen che oltre a istituire una
soglia all'interno della quale l'evento performativo è possibile e sensato, introduce la discontinuità
nel continuum quotidiano che permette ai membri di una collettività di divenire consapevoli della
natura, struttura, della loro vita come membri di una comunità socioculturale.

3.
Metafora dello specchio: Quello teatrale è uno specchio infedele perché è trasparente, rivela il
proprio trucco e così facendo mostra indirettamente l'artificio del gioco di riflessi che la società
mette in atto per proiettare la propria immagine. L'immagine dello specchio allude a quelle
potenzialità metacomunicative della performance teatrale che sono parte integrante del messaggio
performativo. Se il teatro ha queste potenzialità, lo si deve, secondo Turner, ancora una volta alla
sua qualità di gioco. Turner chiama questa particolare qualità della performance culturale, comune al
gioco, in vari modi diversi: “modo congiuntivo”, “carattere di Orexis”, “come se”. La dimensione
giocosa delle performance culturali le qualifica in modo indipendente dall’insieme del processo
rituale nel quale sono inserite. Il momento liminale del dramma sociale è un'unità di senso che può
godere di un'esistenza autonoma; è proprio la sua qualità di evento anti-strutturale che ne definisce
il funzionamento, il significato all'interno di una concezione processualista della società. Turner
sottolinea questa riflessione introducendo il concetto di liminoide. A differenza di quelle liminali, le
esperienze liminoidi non sono legate ad un contesto rituale, e non determinano il cambiamento
permanente di status di chi vi si sottopone. Esse piuttosto appartengono a quelle performance
culturali che hanno continuato a vivere di vita autonoma conservando le qualità liminali, e possono
svolgere il ruolo di momenti anti-strutturali all'interno delle società complesse. L'insieme dei
fenomeni liminoidi è assai vasto e caratteristico dello sviluppo delle società complesse
contemporanee, di cui costituiscono i momenti ludici, le parentesi rispetto al flusso delle continuità
più seria, e non sono riconducibili solo alla dimensione della performance. Al contrario, hanno a che
fare con tutti quegli ambiti di libertà in cui la critica e l'immaginazione creativa possono esercitarsi.
I fenomeni liminoidi sono caratterizzati dal fatto di essere un'apertura indeterminata permanente,
che lascia nel “possibile” ciò che ha tratto nella loro orbita di influenza. Tra questi fenomeni liminoidi
ovviamente collochiamo anche le performance teatrali come momenti capaci di rappresentare uno
specchio in cui una collettività può vedere riflessa la propria struttura socio simbolica. Ma questa
dialettica, innescata dai momenti anti-strutturali, non deve essere pensata nei termini del semplice
ribaltamento della struttura; piuttosto, deve essere ricondotta ad una concezione più complessa
della società. Possiamo affermare che fenomeni liminoidi vanno concepiti, nella prospettiva del
gioco, come una sperimentazione di repertori variabili. Essi mantengono i membri di una società in
uno stato di maggior elasticità nei confronti del sistema stesso, e quindi delle possibili modifiche.

Con anti-struttura intendiamo il sistema latente nelle sue potenzialità alternative. In questo senso, i
momenti liminoidi possono costituire spazi nei quali trovano espressione le posizioni marginalizzate,
dove è possibile integrare più visioni del mondo. Turner attribuisce un ruolo di grande importanza
nella società complessa della postmodernità a momenti ludici e creativi. Le performance culturali
possono rappresentare non solo un’occasione per sperimentare una integrazione multiprospettica,
ma anche un paradigma per pensarla e quindi descriverla. Osservare la società con la lente offerta
dalla metafora del teatro la fa vedere come un campo aperto di possibilità di significazione, un gioco
dinamico di prospettive invece che come un sistema di datità naturali, un insieme di identità fisse.
A questo proposito, Marc Augè propone un parallelo tra lo sguardo dell'artista sulla società e quello
dell'antropologo. L'antropologo e l'artista hanno uno scopo in comune: mettere in questione
l'ovvietà delle asserzioni per risalire alle domande che le hanno generate. Entrambi non si
soffermano davanti a schemi prefissati o a pregiudizi, ma si pongono delle domande e le loro
risposte sono quasi sempre incerte. Il parallelo tra arte e antropologia mette in luce un comune
terreno di indagine che rende possibile l'osmosi dall'una all'altra in un gioco di rimandi che può
essere rivelatore e produttivo, come nel caso del teatro. Turner per primo ha messo in luce le

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opportunità offerte da questo rapporto tra arte performativa e comprensione della società,
sostenendo che: “l'uomo è un animale che rappresenta, un Homo performans, nel senso che le sue
performance sono riflessive: rappresentandole, l'uomo si rivela a sé stesso.” Tale riflessività può
essere al singolare, quella dell'attore che prende parte alla performance o plurale, cioè integra una
molteplicità di voci, di ruoli, di sguardi e di rapporti che ne costituiscono la specificità riflessiva. La
performatività è essenzialmente collettiva: la dimensione performativa è dunque rappresentativa
della cultura come interminabile impresa collettiva di elaborazioni di un universo simbolico, alla cui
estensione e al cui senso i diversi membri di una società sono da sempre chiamati a dare il proprio
contributo. Di tale impresa, la performance culturale può fungere da paradigma di pensabilità della
società nel suo insieme.
Deriu aggiunge alle potenzialità riflessive delle arti performative un ulteriore elemento delle arti
performative, che ne inquadra la funzione e il ruolo nella società contemporanea. Egli parla della
performance come di un contromovimento, che non si limita all'apertura di un altro orizzonte
possibile all'interno del quale collocare la propria identità. Il rinnovato potenziale critico delle arti
performative risiede, secondo Deriu, anche nel fatto che esse costituiscono appunto un
contromovimento rispetto alla direzione in cui spingono le logiche performative della tecnologia che
tendono sottomettere l’uomo al principio unificante della performance secondo standard predefiniti.
Se Deriu sottolinea la funzione critica, sovversiva e disfunzionale dell'arte performativa, Augé insiste
sul fatto che essa nella società contemporanea svolge anche una funzione vicaria del rito, in quanto
soddisfa il bisogno umano essenziale di “vivere un inizio”. E ciò è vero per il teatro, che è arte della
partecipazione dal vivo, che chiede al suo pubblico una presenza attiva. Esso è armonizzante,
terapeutico delle possibili patologie sociali che scaturiscono dal mancato riconoscimento.
In questo senso il dramma è magico e curativo anche se non fornisce soluzioni ma resta sempre
opera aperta. Non solo, ma il teatro fornisce “le parole per dire” tale sofferenza del mancato
riconoscimento, per farla esistere socialmente.

È come se l'arte performativa fornisse il lessico - di azione, gestuale - per condividere tale dolore e
con ciò avviasse l'insieme sociale alla sua guarigione grazie all' efficacia simbolica rappresentata dalla
messa in opera nel medium drammatico. Per esempio, Levi-Strauss scrive, a proposito del rapporto
tra sciamano e curatore, che lo sciamano fornisce all’ammalato un linguaggio nel quale possono
esprimersi certi stati non formulati. Il passaggio a questa espressione verbale fa passare alla fase
dello svolgimento del rito, a cui viene sottoposto l’ammalato. La differenza con il dramma è che il
linguaggio performativo non è supposto come permanente, ma è temporaneo, analogico e
situazionale ed è destinato ad una collettività, ad un pubblico più vasto. Si può dire che esso sia
universale. Così, ad esempio, il dramma di Amleto non riflette solo il “marcio” in Danimarca, ma
rappresenta una situazione in cui la maggior parte degli uomini può riconoscersi e fare propria. Il
ruolo del pubblico si rivela dunque importantissimo nel definire il significato pieno della
performance, che senza il riscontro con una collettività di riferimento risulterebbe incompleta.
Giacchè elabora la definizione di spettatore partecipante, adeguata a sintetizzare quanto detto sul
dramma. Turner parla di communitas per sottolineare questo aspetto collettivo del dramma.

4.

Il potenziale trasformativo della situazione liminoide proprio del teatro non riguarda solo colui che
partecipa attivamente in qualità di attore all'evento drammatico, ma coinvolge l'intera comunità
perché il teatro è un “fare esperienza” partecipe. Di cosa si fa esperienza? Innanzitutto, non è
possibile parlare di un semplice assistere, quanto piuttosto di un “essere presente” in quanto evento
che accade realmente, dal vivo. Dunque, esso conserva un margine di imprevedibilità. Turner scrive
che la parola dramma deriva dal greco dran che vuol dire fare, quindi lavorare. Il dramma è un lavoro
nel senso che è quell’opera che si fa insieme attraverso l'azione. Esso è specchio della società, nel
senso che è ciò che la società fa con sé stessa, prendendo se stessa come oggetto di riflessione. In
questo senso, un dramma rappresenta la società: non si tratta di una semplice imitazione ma di una
lavorazione collettiva che proviene da ciò che ciascuno già sa e già è nell’insieme. Possiamo dire che
il teatro non è imitativo ma “mediativo”, nel senso che introduce il suo oggetto in un medium - la
performance - che lo lavora per renderlo visibile. Un dramma non è realmente completo fino a
quando non è inscenato, cioè recitato di fronte a un pubblico punto si tratta di mettere in

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discussione i principi ordinatori della vita reale. Ad essere dunque coinvolti nella situazione
trasformativa liminoide non sono solo gli attori del dramma, ma anche del pubblico. È la collettività
che è chiamata a partecipare all'evento inscenato per interrogarsi e mutare. Con ruoli differenti,
attori e spettatori entrano in una modalità di relazione e di comprensione di sé rinnovata, propria
della situazione liminoide. Come mette in luce Schechner, tale trasformazione nel caso del rituale di
iniziazione è supposta essere permanente, un cambiamento di status, mentre nel caso delle
performance culturali essa è temporanea. Ciò non toglie, però virgola che tale esperienza sia parte
integrante degli eventi performativi e che la sua ricaduta sia reale, se non permanente. La
dimensione di lavoro collettivo del dramma ha permesso a Turner di concepire questo aspetto
attraverso la nozione di communitas, che sottolinea l'aspetto esperienziale collettivo.

Il ruolo dello spettatore va riconosciuto a partire da una sua cultura generale di riferimento, da una
serie di concezioni acquisite, opinioni, attitudini e atteggiamenti corporei e relazionali. L'esperienza
teatrale interviene in senso trasformativo su tutto questo insieme, che costituisce la totalità di
un'esistenza sociale che lo spettatore ovviamente porta con sé a teatro e che pone a confronto con
l'evento performativo a cui è esposto.

Giacchè parla di “teatro mentale” per qualificare l’esperienza dello spettatore/partecipante,


sottolineando il fatto che esso non è passivo, ma reagisce davanti allo spettacolo. È attraverso la sua
reazione, che lo spettatore è portato a ricomprendere sé stesso, a riposizionarsi rispetto alla
situazione offerta dalla performance teatrale. L’eccezionalità della teatralità risiede anche nel fatto
che lo spettatore somiglia all’attore, e per questo lo giudica mentre lo sfida; per questo
l'identificazione e la proiezione è meno facile e immediata di quanto avviene nel cinema, per questo
il confronto e il contrasto è una modalità ineliminabile del loro rapporto. Questa relazione
contraddittoria obbliga continuamente lo spettatore a riposizionarsi rispetto alla scena, agli attori,
agli eventi. Grazie a questo dinamismo, lo spettatore acquisisce uno sguardo multiprospettico.
Giacchè chiama “visione” questo gioco dei contrari, ovvero il teatro se compreso come evento che
collega attori e spettatori, mostrare e vedere, nascondere e credere.

5.

Turner dedica diverse riflessioni al concetto di communitas indicando 2 livelli relazionali propri di
qualunque sistema sociale: 1) quello della società come sistema strutturato e spesso gerarchico di
posizioni politico-giuridico-economiche, che separano gli uomini in termini di “più” e “meno”. 2)
Emerge nel periodo liminale, quello della società come comitatus, comunità. Gli eventi performativi,
grazie alla loro liminalità, hanno il potere di dare vita ad una comunità paritaria di senso e di
esperienza tra coloro che vi prendono parte. Essi permettono il riconoscimento di un legame umano
essenziale senza il quale non ci potrebbe essere società. Nella communitas non si realizza
semplicemente l'esperienza di una coappartenenza originaria di tutti gli uomini che va al di là delle
differenziazioni sociali che li distinguono, nella direzione di un’eguaglianza ideale; Piuttosto è
l'autenticità di un rapporto quella che si sperimenta, una relazione basata sul riconoscimento
reciproco che integra il sentimento dell'appartenenza all' insieme con la conservazione delle
specificità del singolo. La communitas però è intrinsecamente dinamica, non essendo mai
completamente realizzata.

La prospettiva performativa

1.

Il fenomeno liminoide della performance culturale descritto da Turner, condivide un altro aspetto
con i fenomeni liminali originari, oltre all'eccezionalità dell'evento, ed è che come per le iniziazioni,
anche per entrare nella condivisione della communitas performativa, sia come attore, sia come
spettatore, è necessario subire un processo di adattamento alla nuova realtà che passa per la
destrutturazione dell'uomo vecchio per far nascere l'uomo nuovo, capace dell’esperienza
eccezionale del teatro. Questo vale sia per l’attore che per lo spettatore, che sono entrambi esseri
liminali. L'attore in primis va costruito come essere umano adatto ad attraversare diverse identità e
riprodurle sulla scena, ma anche lo spettatore non può restare tale e quale. Entrare a teatro,

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partecipare ad una performance, significa accettare un patto di condivisione che si conferma
nell’accettazione delle regole sottese al gioco di finzione e culmina nella disponibilità a rivedere la
propria posizione. Attore e spettatore sono dunque entrambi “esseri liminali” che gravitano sul limite
socialmente riconosciuto del possibile, attraversandolo in una direzione e nell'altra. Turner definisce
questa condizione di liminalità entrando nella dimensione finzionale del poter-essere: l'essere
betwixt and between per indicare come il ruolo degli attori e degli spettatori sia intercambiabile.
Scrive che questa condizione di liminalità e queste persone liminali (persone al limite) non sono né
da una parte né dall’altra; stanno in uno spazio intermedio tra le posizioni assegnate e distribuite
dalla legge, dal costume, dalle convenzioni.

Quella dell’attore, prima di essere una professione, è una funzione sociale che può essere
interpretata di volta in volta da soggetti diversi ma che resta qualificata da connotazioni formali
specifiche. L'attore è un essere liminoide. Per questa sua funzione liminoide egli condivide la sorte,
senza identificarsi con essi, con molti altri uomini che vivono sul confine del noto come artisti,
sciamani ma anche poveri, migranti e asociali.

“Il corpo dilatato dell'attore è ciò che trasporta lo spettatore nei territori sconosciuti della propria
esperienza”. Nell’offerta che la figura liminoide dell'attore fa di sé nella performance, egli è
l'incarnazione realizzata di un'esperienza collettiva possibile che non si limita a ribadire ciò che è
socialmente già noto ma contribuisce a trasformarlo. Qui parliamo di attore e di attorialità non come
una professione, perché prima di essere arte scenica, quella attorale è “arte di vita”, potremmo dire
modus vivendi che ha a che fare con la quotidianità in modo più immediato di quanto qualunque
paradigma sociologico drammaturgico possa sottolineare. Si parla di una autenticità della vita in
scena, perché in scena non va un inganno ma una sorta di vita particolare a cui lo spettatore è
invitato a partecipare per riconoscerle un valore simbolico che aspira all' universalità, per il solo fatto
che è posta nel cono di luce della teatralità, e in questo sta il suo valore metaforico per l'analisi
sociale.

2.

È importante sottolineare quanto sia essenziale la fase preparatoria del laboratorio nell’evoluzione
del teatro occidentale contemporaneo che ripercorre in modo originale la pratica propria anche
delle iniziazioni. La libertà, l'apertura al cambiamento e la spontaneità sono ritenute non delle
qualità immediate e naturali dell'uomo, ma delle conquiste da realizzare grazie ad un training
specifico, a volte molto lungo per chi lo sviluppa a livello professionale. Questo “laboratorio” che
costituisce la fase iniziale, preparatoria, della performance teatrale è incentrato sulla
destrutturazione di ciò che è noto, prima di realizzare un nuovo modo di essere dell’attore. Ciò che
vi è di davvero anti-strutturale nella performance è proprio il fatto che essa è un evento creativo che
prende le mosse dalla messa in tensione deliberata delle strutture socio-simboliche preesistenti, sia
nell'atteggiamento del corpo, sia nelle forme della relazione. L'enfasi, la stranezza dei movimenti
tipici dell’azione drammatica che costituiscono l'arte dell'attore non sono degli abbellimenti estetici
della performance; sono al contrario lo strumento attraverso il quale l'esperienza creativa si genera e
il contenuto originale dell'evento si offre all'attenzione partecipante del pubblico. Il corpo, quindi, è
un elemento centrale.

Ciò che mostra la pratica teatrale è che per entrare in una differente forma di socialità, il corpo è il
veicolo che deve essere reso adatto a farne esperienza. L'attore va costruito come essere umano
adatto ad attraversare diverse identità e riprodurle sulla scena, ma anche lo spettatore non può
restare tale e quale. Entrare a teatro, partecipare ad una performance, significa innanzitutto
accettare un patto di condivisione che passa per l'assunzione implicita di un ruolo di testimone
compartecipe dell'azione, si conferma nell'accettazione delle regole sottese al gioco della finzione, si
completa nel riconoscersi destinatario della corrispondenza dell'azione drammatica e culmina nella
disponibilità a rivedere la propria posizione, proiettandosi nelle diverse prospettive della realtà
scenica. Hastrup parla di inculturazione quotidiana a proposito dell’insieme di attività attraverso le
quali il corpo è implicitamente formato come prodotto culturale (diventando così ricettacolo della

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memoria sociale collettiva = habitus), e di acculturazione per quanto riguarda le tecniche apprese
coscientemente attraverso le quali avviene un processo di formazione di secondo livello. La vita
quotidiana è costellata di apprendimenti pratici di secondo livello (pratici, igienici, ludici, sportivi,
medici); tra questi, si collocano anche le tecniche della rappresentazione che hanno come punto di
partenza il corpo e come finalità la trasformazione che in esso si produce. In questo senso non vi è
una differenza tra gli apprendimenti della teatralità e gli altri apprendimenti della quotidianità e
questo fatto permette la permeabilità reciproca. Gli apprendimenti possono essere messi sotto il
riflettore di un'analisi esplicita attraverso una pratica come quella teatrale che ha la finalità di
riconoscerli, riproporli e trasformarli. Franco Ruffini propone la distinzione tra teatri di
inculturazione e teatri di acculturazione. I primi nella loro ricreazione della realtà mettono l'accento
sulla somiglianza con la realtà stessa, mentre i secondi si basano sulla produzione ex novo,
costruzione di una realtà altra, parallela anziché speculare. Però Ruffini stesso sottolinea che in
entrambi i casi si tratta pur sempre di finzione.

In questo senso, quello con la pratica teatrale può essere per l'antropologia un rapporto
d’interlocuzione che permette il ritorno riflessivo sulla quotidianità con una finalità di decodifica
della sua origine, del suo senso, della sua struttura e della sua dinamica. Grazie al discorso della
Hastrup, si precisa un certo rapporto tra ricerca antropologica e cultura teatrale che apre la
possibilità di un’antropologia della performance che si propone di indagare le modalità e l'oggetto
degli apprendimenti sociali insiti nell'agire a partire dall’attenzione alle tecniche del corpo, grazie a
cui essi si radicano. Lei stessa istituisce un parallelo tra l'attenzione al corpo che l'attore presta nel
suo lavoro e l'esperienza di ricerca dell'antropologo fondata sul fatto che anch’egli, nella sua ricerca
sul campo, apprende delle pratiche altrui per esperienza diretta, grazie ad uno specifico
disciplinamento del proprio corpo. Tale addestramento non ha nulla di meramente meccanico ma al
contrario si presenta come l'incorporazione riflessiva di un nuovo habitus attraverso un processo di
destrutturazione dell'abitudine pregressa e di acquisizione per acculturazione di nuovi modi di agire.
L'attore e l’etnografo si somigliano nel fatto che fanno emergere gli impliciti culturali dell'habitus
proprio e altrui, attraverso un processo di oggettivazione che passa per la loro riacquisizione
consapevole.
Per apprezzare appieno le potenzialità trasformative e conoscitive dell'esperienza teatrale dobbiamo
prendere spunto dalla figura eccezionale dell'attore. Il lavoro dell'attore mostra di riflesso che questa
pratica corporea, che ha incorporato la norma, diviene forma di vita, modalità di relazione,
atteggiamento e postura, e nello stesso modo anche racconto di vita, biografia, forma di esperienza
impressa nell'immaginario e istoriata nei corpi. La nozione performativa del teatro mette in luce la
realtà fattuale di esperienza di forme di socialità, mettendo in luce molteplici modellamenti che
hanno prodotto quella forma di vita, quell’ identità, quella percezione di sé e dell'altro.

Il messaggio che la corporeità porta in scena, arriva dunque con ben altre immediatezze rispetto alla
semplice narrazione, perché viaggia sui canali metacomunicativi dell'analogia situazionale, che
definiscono in modo sintetico le modalità in cui la relazione avviene e come il soggetto si determina
nel contesto. Proprio perché mette in scena in forma d'azione le storie dei singoli soggetti, il teatro
dà loro visibilità, attenzione, e dunque dignità sociale, riportando al centro dello sguardo la forma di
vita che essi rappresentano. Soprattutto nel caso in cui l'azione inscenata è espressione di un disagio,
abbiamo a che fare con una rappresentazione indiretta delle forme di inculturazione sociale, rispetto
alle quali il corpo leva il suo grido di ribellione che andrà interpretato nel suo giusto senso: non
sintomo di malattia psichica, ma segno di marginalità simbolica e fisica rispetto ai confini di una
società nella quale quella biografia non ha né campo, né voce, né visibilità, né attenzione, se non
attraverso la maschera della messa in scena. Attribuire un significato sociologico alla pratica
performativa vuol dire riconoscerle la capacità di mettere in luce per via analogica le modalità di
costituzione del soggetto sociale, a partire dalle strategie di costituzione della sua fisicità. Significa
lavorare sui codici incorporati perché di essi si possa prendere coscienza individualmente e
collettivamente, perché si possa capirne l'efficacia simbolica nella percezione del reale.

3.

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Bourdieu attribuisce un ruolo essenziale all’insieme delle pratiche corporee nel processo di
inculturazione, attraverso il quale il capitale simbolico di una data società si riproduce
collettivamente. Il sistema simbolico si trasmette singolarmente e si costituisce socialmente. Egli
chiama il complesso incorporato di queste pratiche, habitus.
L’habitus si presenta come un modus operandi socialmente riconosciuto e singolarmente appreso,
che sottende implicitamente ad un modus cogitandi divenuto visione collettiva del mondo.
Rifacendosi al Leibniz della “monadologia”, che sostiene che le monadi si accordano l'una con l'altra
perfettamente, pur senza avere contatti diretti tra loro, in virtù di una legge insita che fa sì che
ciascuna sostanza, pur seguendo la propria legge, si armonizzi perfettamente con tutte le altre,
Bourdieu afferma che l’habitus non è altro che questa legge insita in ciascun agente sin dalla
primissima educazione. È chiaro che all’interno di questo sistema ordinato, c’è l’individuo che ha un
suo spazio di interpretazione personale dell’ortoprassi indotta dall’habitus.
L’habitus è una struttura anonima, che non dipende dalle intenzioni e dalla comprensione dei singoli
per la sua efficacia; Produce i suoi effetti in modo indipendente. Esso è l’insieme entro il quale il
singolo si identifica immediatamente, si posiziona e si muove nelle sue molteplici relazioni. È
importante sottolineare un carattere peculiare dell’habitus, che Bourdieu chiama “amnesia della
genesi”: grazie ad essa l'habitus si costituisce come un fatto compiuto. Ciò significa che alla storia
della formazione dell’identità si sostituisce il prodotto oggettivato del processo stesso, con il risultato
che in questo modo il fatto della sua produzione rimanga nascosto. Quindi l’habitus, nell’azione e
relazione reciproca dei diversi agenti sociali, è un sistema di organizzazione, classificazione e
comprensione della realtà che si presenta sotto l’aspetto rassicurante dell’ovvietà e della
naturalezza. Si impone come un sistema di normatività che condiziona il modo in cui i soggetti
vedono gli altri e se stessi.
Detto in altri termini, le relazioni interpersonali non sono mai delle relazioni da individuo a individuo,
ma la verità delle interazioni è sempre sovraordinata.
Bourdieu prende le mosse tanto dal naturalismo ingenuo, che concepisce la trasparenza delle
relazioni alle intenzioni degli agenti, quanto da un oggettivismo ottuso, che si ferma alla
constatazione della datità della realtà in quanto tale senza porsi la questione della sua origine
genealogica. Si tratta di una concezione che mette in evidenza la dimensione artificiale del contesto
sociale a cui corrisponde una portata culturale di comprensione della stessa che interviene nella
relazione rispetto a qualunque fenomeno presente nel campo. Ma come avviene il radicamento delle
strutture implicite dell'habitus e come accade la magia dell'oblio della loro costituzione? Il corpo è
matrice primaria dell'orientamento del mondo, è originalmente apertura all'esperienza della datità e
fonte primaria della soggettività, come gli studi di Maurice Merleau-Ponty hanno sviluppato
ampiamente. Su questa corporeità vivente si esercita un'intera geometria collettiva che le dà forma,
ovvero le dà una certa forma collettivamente riconosciuta e oggettivamente adeguata al contesto,
ciò che prima abbiamo chiamato habitus. Prima ancora dell'azione sullo spirito, è il corpo ad essere
oggetto delle maggiori attenzioni da parte della società. Su questa configurazione originaria si
edificherà una coscienza che si concepirà come indipendente, fondata su di sé e autocentrata, libera
e autonoma. Poi a questo lavoro originario sul corpo si affiancheranno aspetti immateriali
puramente simbolici come fiabe, filastrocche, detti, proverbi, miti e condizioni generali che
costituiscono i fondamenti immaginativi e cognitivi di un certo sistema simbolico. La pratica
laboratoriale teatrale può far riemergere quella origine degli universi simbolici dall'oscurità
sprofondata nella cecità del corpo, in cui il processo di inculturazione ha introdotto le forme
dell'ortoprassi. Tutte le società attribuiscono dei valori e dei dettagli apparentemente insignificanti
come quelli del contegno, dell'atteggiamento dei modi corporei e verbali. Nella formazione di questa
ortoprassi corporea hanno una grande rilevanza i gesti minuti, le posture, gli atteggiamenti,
comportamenti e tutti i disciplinamenti che riguardano il corpo nel suo stare con sé e nel suo
rapporto con altri, tutti aspetti che ritroviamo anche nel laboratorio teatrale. Grotowski scrive che vi
sono in ogni paese tipi di comportamento che è necessario infrangere se si vuole creare. Creare
significa togliere via la nostra maschera abituale. Dalle strategie implicite di inculturazione, di
trasmissione degli schemi di riferimento fanno parte due elementi della massima importanza per la
nostra riflessione: l’imitazione delle azioni degli altri e i giochi. Entrambi sono parte integrante anche
della pratica teatrale. Sul gioco in particolare la prossimità con la teatralità è evidente nel fatto che
tutti i giochi richiedono ai ragazzi di mettere in pratica, secondo il modo del “ far finta di”. Inoltre, il
teatro in quanto performance è una messa in forma di azioni, la sua essenza sta nel far agire i suoi

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attori all'interno di un campo relazionale deliberatamente creato per l'evento. Dunque, il teatro può
esercitare un potere creativo sulle forme di cognizione della realtà che si fondano sul principio
imitativo di Bourdieu. Quindi, in definitiva, allo stesso modo per cui giochi e imitazione sono
strumenti generatori della matrice originaria dell'habitus, può funzionare da destrutturatore delle
strutture apprese, da occasione di invenzione di nuove composizioni possibili e, dunque, da
strumento di risocializzazione e di cambiamento sociale.

4.

Abbiamo visto che possiamo considerare la relazione tra teatralità e socialità in due modi diversi. Il
primo modo è quello di vedere il teatro come riferimento metaforico per interpretare la realtà
sociale; il secondo è quello che mette in luce la centralità della pratica sociale della teatralità. Nel
primo ciò che emerge del teatro è la dimensione fittizia della sua realtà, che può fungere da
paradigma interpretativo per comprendere la realtà sociale. Della realtà sociale allora emerge
l'aspetto di costruzione simbolica collettiva, sul cui statuto di realtà è possibile formulare una
riflessione di tipo ermeneutico a partire dall' effetto distanziante che la metafora teatrale produce
rispetto all'immediatezza del reale. In questo caso, il problema è che la relazione secondo cui il
teatro sarebbe la metafora della realtà verrebbe ad essere biunivoca e questo porterebbe a delle
aporie difficilmente risolvibili.

Nel secondo caso invece abbiamo considerato il rapporto tra socialità e teatralità come originario e
non istituito dalle scienze sociali, intendendo il teatro come uno specifico fatto sociale che intrattiene
già dei rapporti con il resto della società che deve quindi essere riconosciuta. In questo senso è
possibile considerarlo come un paradigma per interpretare la realtà a posteriori. Questo approccio
permette anche di andare oltre la concezione drammaturgica del teatro, dove si trova la dimensione
performativa che ne evidenzia il carattere di azione reale, dal vivo, in presenza collettiva e pubblica;
senza la quale la teatralità risulterebbe mutilata delle sue dimensioni espressive essenziali e
originarie. Ciò che emerge è che il rapporto analogico tra teatro e società ha da guadagnare se
teniamo in considerazione almeno tre accezioni di teatralità:

1. Il teatro come forma di creazione di realtà, svolge una funzione specchio rispetto alla
società, ma non ne restituisce l'immagine, piuttosto produce una lavorazione di secondo
livello dell'immagine sociale stessa; in quanto tale ha un’efficacia nella trasformazione della
comprensione della realtà e
dell'identità.

2. Il teatro come fatto sociale riproduce forme di relazione differenti e rinnovate rispetto a
quelle sociali più o meno fisse; questo ne fa un campo di sperimentazione di forme
progressive e di socialità possibili e un terreno di esperienza protetto per esprimere anche
modalità di relazioni distruttive, dolorose, alienanti e frustranti.

3. Il teatro come esperienza del creare intercetta gli aspetti più profondi e nascosti dei processi
di inculturazione presenti in qualunque società, per intervenire in senso trasformativo.

Queste tre accezioni sono un patrimonio di sapere che è stato elaborato in maniera condivisa grazie
ad un dialogo tra scienze sociali e pratica teatrale e appartiene ad entrambe le tradizioni di pensiero,
tanto degli antropologi quanto dei teatranti.
Non è immaginabile alcuna strategia creativa del tutto originale senza una destrutturazione
deliberata e riflessiva dell'habitus acquisito, sul modello del lavoro dell'attore su sé stesso. Questa
concezione ci permette di ragionare sulla cultura nei termini di significato emergente, ovvero del
risultato precario e mutevole di un processo inarrestabile costituito dalla dinamica tra la
riproduzione delle norme già note e l'improvvisazione creativa dei singoli che le rinnova, perché le
reinterpreta nel rapporto con altri elementi. Deriu sostiene che performance indica un concetto
intrinsecamente polisemico, riconducibile a diversi ambiti di esperienza, aspetto che ne costituisce la
ricchezza. Quella teatrale è un certo tipo di performance che per le proprie caratteristiche può

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fungere da metafora specchio, capace di rappresentare le altre e mostrarle nella loro dinamica
costitutiva. Deriu indica le qualità che definiscono la performance culturale in:

a) l'azione come materiale di costruzione, nel senso che la creazione di senso della
performance è rappresentata dal comportamento vivente dell'uomo,
b) l'azione dal vivo, la quale implica che la performance è sempre un evento, è occasione di
esperienza collettiva per un pubblico che testimonia e partecipa della creazione di senso
dell'azione
c) la presenza di un doppio piano, qualità centrale per la nostra riflessione.

A tal proposito, secondo Deriu, caratteristica delle arti performative è che esse richiedono un agire
che è anche un eseguire. E se non sono mai solo mera riproposizione di modelli acquisiti, ma sempre
interpretazione di essi secondo uno stile che resta singolare, non sono nemmeno il prodotto di una
presunta spontaneità immediata. Questo aspetto mette in luce che le performance culturali sono
delle riproduzioni dell'azione sociale, ma non nel senso che ne rappresentano l'identico. Al contrario,
le performance sono caratterizzate da una distanza rispetto alla realtà, funzionale alla messa in opera
della sua riproduzione mediata. Dunque, se sono lo specchio dell’azione sociale, non lo sono in modo
fedele all'originale. In questa infedeltà sta il margine di autonomia riflessiva che appartiene alle
performance culturali. Esse sono sé stesse e altro da sé: In ciò consiste il loro potenziale
disfunzionale riguardo i modelli culturali acquisiti e condivisi, rispetto ai quali le performance
culturali risultano decentrate anche quando hanno lo scopo di riconfermarli, perché in ogni caso
sussiste la distanza tra riproposizione dei modelli nella realtà e il loro status ideale, che nessuna
rappresentazione può soddisfare appieno. Anche questo secondo aspetto presenta un interesse per
il sapere antropologico che di tale analogo decentramento ha fatto un fondamento del proprio
metodo di ricerca.

5.

Ritorniamo a Turner. Egli scrive che un dramma sociale corrisponde esattamente alla descrizione
della tragedia greca che Aristotele dà nella “Poetica”, nel senso che è imitazione di azione di
carattere elevato e completa di una certa estensione e che ha un inizio, un centro e una fine, e ciò
non è dovuto ad un tentativo illegittimo di imporre un modello etico occidentale dell'azione scenica
al comportamento sociale di un villaggio africano, ma al fatto che esiste un rapporto di
interdipendenza tra i drammi sociali e i generi di performance culturale, probabilmente in tutte le
società. L'antropologo insiste proprio sulla circolarità del rapporto tra società e rappresentazione
scenica, che è intrinseco alla società stessa e non ha quindi un carattere accessorio ed estemporaneo
ma invece strutturale. Da queste riflessioni di Turner ci sono due elementi molto rilevanti: da una
parte, l’aver riconosciuto cosa si debba intendere per imitazione nelle arti performative, proprio a
partire dalle analisi di Aristotele. L'arte drammatica non è un fatto di solo testo, e nemmeno
imitazione di azioni tratte dalla realtà ed elaborate ad un livello di generalità superiore, capace di
ricavarne un valore paradigmatico universale.

Schechner sottolinea tale processo di significazione proprio della rappresentazione, affermando che
ogni cosa ha una propria estensione vitale, la propria forma immanente. È questa forma che l'arte
imita.
Il secondo aspetto illuminato da Turner è la dialettica circolare di scambio incrociato tra dramma e
società. Il concetto che riassume l'intreccio essenziale tra questi due aspetti è ancora una volta la
nozione di performance, che descrive la teatralità nell’esperienza unica di trovarsi betwixt and
between. Per Turner quello di performance è un concetto olistico che indica la totalità degli aspetti di
un evento pubblico eccezionale che si dà come una riproposizione dell’accaduto e del nodo, ad un
livello di generalità superiore. Lo schema che esprime la relazione tra socialità e performatività è il
famoso circolo intrecciato proposto da Schechner nel 1977.

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Il circolo è rappresentato dal simbolo dell'infinito tagliato orizzontalmente da una linea retta.
L'anello di sinistra rappresenta il dramma sociale: sopra la linea c'è il dramma esplicito, sotto c’è la
struttura retorica implicita. L'anello di destra rappresenta il dramma scenico: sopra la linea c'è la
performance visibile, e sotto il processo sociale implicito, con le sue contraddizioni strutturali. Le
frecce vanno da sinistra a destra e rappresentano il corso dell'azione. Nel punto di intersezione le
frecce scendono di nuovo per formare il modello estetico nascosto che sorregge il dramma sociale
manifesto.
Turner non condivide appieno questo modello, ma ne comprende tutta l'efficacia poiché esso mette
in evidenza la relazione dinamica tra il dramma sociale e i generi performativi culturali. Egli considera
questa relazione in senso lineare, dalla società al teatro, dalla struttura all’anti-struttura, ma
l’esperienza registica di Schechner porta a privilegiare una relazione di implicazione circolare tra
dramma sociale e dramma culturale.

6.

In conclusione, possiamo sottolineare che grazie al concetto di performance comprendiamo il teatro


in quanto fatto sociale, evento che si inserisce con la sua specificità nel continuum della società
quotidiana, introducendovi l'alternativa e la varietà del possibile. La performance è l'occasione
collettiva per
la

ripresentazione della realtà, un aspetto che Schechner sviluppa con il concetto di “comportamento
recuperato”. È azione che coinvolge diversi “attori”, dal pubblico agli attori veri e propri passando
per i diversi maestri di cerimonia che la rendono possibile. Quello performativo non è un
comportamento spontaneo, è mediato e ricomposto a vari livelli, e ciò ne determina le qualità
specifiche all'interno del contesto allargato delle normali relazioni sociali.

Questa complessa lavorazione del comportamento quotidiano è il modo in cui l'attività performativa
crea la propria specifica forma di realtà esperienziale. Recuperare il comportamento vuol dire
trattarlo come un insieme di sequenze comportamentali, che possono essere smontate, analizzate e
ricomposte in modo indipendente dalla forma in cui si presentano nella realtà.
Riorganizzazione, esagerazione, ripetizione, frammentazione, reiterazione, interruzione dei
movimenti e dei moventi dell'azione, seriazione, tipizzazione, ecc., sono i modi in cui la performance
recupera il comportamento sottraendolo all’immediatezza. Tutto ciò è fatto in vista della produzione
di un livello di cognizione della realtà differente, che allude alla dimensione quotidiana, ma che
rispetto ad essa gode di un'indipendenza assoluta, ottenuta al prezzo di una dura disciplina che
scompone, analizza, incanala, forma e trasforma il comportamento quotidiano. Senza forzare
l'analogia, si potrebbe dire che tra comportamento normale e comportamento recuperato vi è la
stessa differenza che Lévi-Strauss pone tra il “crudo” e il “cotto”: La performance è un atto culturale
fortemente mediato, prodotto da una rielaborazione di secondo livello, che si pone dalla parte del
“cotto”, per così dire, rispetto ad una quotidianità sociale che se pur mediata anche essa, si presume
immediata e spontanea per via della sua incoscienza, e dunque è impropriamente collocata perlopiù

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della parte del “crudo”. Ma acquisire e riproporre comportamenti altrui è un modo per
appropriarsene, per comprenderli e dare loro riconoscibilità collettiva all'interno di un contesto di
senso condiviso, creato dall'evento stesso. Scrive Schechner che tutte le vere performance
condividono questa qualità del “non e non-non”. Oliver non è Amleto, ma non è neanche “non
Amleto”: la sua rappresentazione oscilla fra la negazione del personaggio impersonato (io sono io) e
l'altra negazione di non essere lui (io sono Amleto). L'addestramento del performer è volto non tanto
a trasformare una persona in un'altra, quanto a sviluppare le sue possibilità di agire fra due identità:
in questo senso recitare è un paradigma di liminalità. Essere all’interno di un contesto performativo
significa dunque avere un livello di consapevolezza che permette di comprendere allo stesso tempo
la realtà dell’esperienza e la sua finzione, oscillando tra l’una e l’altra. È questa capacità di essere
dentro e fuori, di essere sé e di essere diverso, a fare della performance una chiava esperenziale per
orientarsi nella complessità sociale.

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