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Riassunto dettagliato del libro

TEORIE CRITICHE DEL NOVECENTO


CAPITOLO 1
FORMALISMO, STRUTTURALISMO, SEMIOLOGIA E CRITICA STILISTICA
Nel primo trentennio del Novecento, la critica letteraria ricevette un impulso fondamentale e
innovativo dalla linguistica che elaborò le riflessioni sul linguaggio.
Coloro che videro lo stretto legame tra linguistica e critica letteraria, furono in paricolar modo i
formalisti russi, obiettivo del formalismo russo era quello di creare una scienza letteraria basata
sulle specifiche proprietà del materiale linguistico, non si trattava né di una metodologia né di una
teoria estetica.
Il termine formalismo fu coniato con intenti denigratori e attribuito a un comune atteggiamento
critico di due gruppi di studiosi: quelli appartenenti al Circolo di Mosca fondato nel 1914-15, tra
questi Roman Jakobson (1896-1982) e quelli appartenenti all’ OPOJAZ, la “Società per lo studio del
linguaggio poetico”, costituita a Pietroburgo nel 1917 e rappresentata da Viktor Sklovskij (1893-
1943) e da Jurij N. Tynjanov (1894-1943).
I due gruppi partivano da prospettive diverse: il Circolo di Mosca aveva soprattutto interessi
linguistici, mentre i rappresentanti dell’OPOJAZ erano critici letterari.
Il punto di contatto tra i 2 gruppi era rappresentato essenzialmente dall’atteggiamento del critico
formale, il quale non esprime un giudizio di valore e coltiva un unico interesse: l’opera in sé. Non
tanto nel suo contenuto, nella sua significatività, nella sua eticità, nella sua esteticità o nel suo
rapporto con la realtà sociale, ma nella sua dimensione di prodotto letterario, costituito da
“materiali”. Materiali appartenenti alla tradizione, ma rimessi in gioco attraverso lo
“straniamento” linguistico e resi di nuovo godibili a un’attenzione altrimenti distratta
dall’automatismo della percezione.
Non è possibile capire la genesi del formalismo senza tener conto delle poetiche simboliste che, se
da una parte avevano richiamato l’attenzione sul valore simbolico del linguaggio, dall’altra
avevano determinato l’esigenza di assumere atteggiamenti meno mistici di fronte al linguaggio
letterario. Anche il futurismo influenzò il formalismo: le digressioni paradossali (pensiamo a
Sklovskij) che spesso accompagnano argomentazioni teoriche, ci riconducono ai moduli stilistici
dei manifesti futuristi.
Ebbero un ruolo molto importante, nell’evoluzione del formalismo, alcune idee fondamentali del
grande linguista ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913). Egli sosteneva che la lingua, come
“sistema di segni”, potesse essere esaminata nella sua sistematicità, quale struttura organizzata in
un sistema di relazioni significative, studiate sia in prospettiva sincronica che diacronica.
L’interesse dei linguisti saussuriani rimase localizzato intorno a problemi strettamente linguistici,
relativi alla langue (codice linguistico della collettività) e alla parole (attualizzazione individuale
delle potenzialità del codice linguistico).
I formalisti russi spostarono la loro attenzione sul problema della letterarietà come fenomeno di
espressione dell’arte. Ciò che il critico deve considerare nell’opera letteraria è la tecnica, l’artificio
linguistico: infatti è proprio la diversità della tecnica, l’elemento distintivo dei generi letterari
osservati sincronicamente e diacronicamente. Sono proprio le caratteristiche linguistico-formali
della prosa e della poesia a costituire il centro d’interesse dei formalisti, che cercano di individuare
i criteri organizzativi e distintivi del linguaggio in componimenti letterari appartenenti ai diversi
generi.
Il formalismo “meccanicistico” di Sklovskij indaga con formule geniali il linguaggio letterario.
Nel primo testo antologizzato S. spiega come nell’arte ci siano vari metodi per sottrarre l’oggetto
all’automatismo della percezione e fa riferimento a quello di cui si servì Tolstoj.
Il procedimento dello straniamento in Tolstoj consiste nel fatto che non chiama l’oggetto con il suo
nome, ma lo descrive come se lo vedesse la prima volta: per cui adopera nella descrizione
dell’oggetto non le denominazioni abituali delle sue parti, bensì quelle delle parti corrispondenti in
altri oggetti. S. porta un esempio di come T. stranii il concetto di fustigazione attraverso due
perifrasi.
Nel secondo testo viene stabilito il limite tra:
MOTIVO- la più semplice unità narrativa che risponde figurativamente alle diverse esigenze
dell’intelletto primitivo o dell’osservazione quotidiana.
e
INTRECCIO- il tema in cui vengono ordite le diverse situazioni-motivi.
Può riscontrarsi una coincidenza degli intrecci anche là dove non si possa ipotizzare nessun
prestito. Le coincidenze si possono spiegare soltanto con la presenza di leggi generali della
costruzione dell’intreccio.
Nell’analisi di un’opera d’arte, dal punto di vista della composizione dell’intreccio, non c’è la
necessità di capire “il contenuto”. C’è solo la necessità di comprendere la forma, come legge della
costruzione dell’oggetto.

Tynjanov, grande amico e interlocutore di Sklovskij, stabilì che il principio costruttivo e


organizzativo dell’opera letteraria non è statico, l’opera non è un’unità chiusa e fissata nelle sue
forme, ma un insieme dinamico in sviluppo. Gli elementi di un’opera si correlano e integrano
dinamicamente. La specificità del fenomeno letterario è legata al tempo e alla ricezione, la
categoria della letterarietà è storica, non assoluta e fondata specificamente sui principi di
“evoluzione” e di “dominante”.
È possibile definire il linguaggio poetico soltanto in relazione a sé stesso prescindendo da un
contesto che motivi la scelta della forma?
Questo ambito problematico prelude l’evoluzione del formalismo verso lo strutturalismo.
Di fondamentale importanza per capire questo passaggio sono le questioni poste da Tynjanov e
Jakobson nel saggio del 1928 “Problemi di studio della letteratura e del linguaggio”, dove si
puntualizza che anche la storia letteraria è caratterizzata da un insieme di leggi strutturali.
La contrapposizione di sincronia e diacronia, che contrapponeva il concetto di sistema al concetto
di evoluzione, perde la sua importanza poiché ogni sistema è dato necessariamente come
un’evoluzione e dall’altro lato, l’evoluzione ha inevitabilmente un carattere sistematico.
C’è bisogno di un’analisi della correlazione della serie letteraria con le altre serie storiche. Questa
correlazione (il sistema dei sistemi) ha sue proprie leggi strutturali che devono essere studiate. È
metodologicamente pernicioso considerare la correlazione dei sistemi senza tener conto delle leggi
immanenti ad ogni sistema.

Nel 1929, vennero formulate le Tesi del Circolo linguistico di Praga, considerate il manifesto dello
strutturalismo linguistico.
Il formalismo aveva già dato un contributo fondamentale: riproponendo una distinzione tra
linguaggio letterario e linguaggio pratico, considerati come due realizzazioni dello stesso sistema
linguistico e individuando i fattori genetici dei processi espressivi della poesia (il ritmo) e della
prosa (la sintassi). Dobbiamo sicuramente riconoscere ai formalisti di aver avviato, all’epoca, quel
processo di avvicinamento (auspicato da Jakobson) tra linguistica e critica letteraria, ma i limiti
delle loro posizioni, primo tra tutti il loro antistoricismo, suscitarono molte reazioni negative e
furono riconosciuti anche da loro stessi, basta ricordare le parole di Sklovskij nella prefazione
all’edizione italiana di Teoria della prosa (1976).
La fine del movimento formalista fu provocata dalla diaspora, per motivi politici, degli
appartenenti ai due circoli di Mosca e Pietroburgo, che si rigenerò, in un certo senso, nel Circolo
linguistico di Praga, che vedeva tra i propri collaboratori alcuni studiosi già noti come formalisti.
Lo strutturalismo, nato nel 1929, anno della pubblicazione delle Tesi, affronta lo studio della lingua
letteraria con criteri metodologici più rigorosi e usando come punto di partenza specifico la
linguistica.
Nonostante Ferdinand de Saussure non abbia usato il termine “struttura”, è opinione diffusa che lo
strutturalismo europeo sia stato ispirato dalla dottrina saussuriana e in particolare da alcuni temi
affrontati dal ginevrino quali:
• l’assetto sistematico del linguaggio.
• il suo sdoppiamento in langue e parole.
• il segno linguistico costituito da significante e significato.
• il loro legame necessario e arbitrario.
• il principio dell’arbitrarietà del segno, comunque controllato dal sistema della lingua che
pone un limite all’arbitrarietà.
• i punti di vista sincronico e diacronico necessari per lo studio della lingua.
Ovviamente il Circolo di Praga prende le distanze dalla scuola di Ginevra, gli strutturalisti
ritengono infatti che possano essere individuate le “leggi di struttura dei sistemi linguistici”, leggi
nelle quali Saussure non credeva, sostenendo l’arbitrarietà del segno non totalmente
razionalizzabile.
Diverse furono le revisioni rispetto all’intransigenza teorica del primo formalismo e le nuove
intuizioni:
• il recupero della problematica di Tynjanov sulla necessità di storicizzare i processi letterari
che esigono una considerazione sul piano sincronico e diacronico.
• l’introduzione del concetto di struttura funzionale al di fuori della quale non possono
essere comprese le funzioni dei vari elementi fonologici, morfologici e semantici.
• l’affermazione della necessità di utilizzare la linguistica da parte degli storici della
letteratura;
• l’insistenza sull’importanza del procedimento del parallelismo nel linguaggio poetico.

Proprio il linguaggio poetico continuerà ad essere oggetto di studio per Jakobson, il suo famoso
saggio “Linguistica e poetica” costituirà uno dei punti di riferimento e di partenza per lo
strutturalismo letterario in Europa.
Il saggio si proponeva di “tracciare delle note riassuntive sulle relazioni tra poetica e linguistica”.
Per Jakobson, la poetica ha diritto al primo posto tra gli studi letterari, essa tratta problemi di struttura
verbale, dato che la linguistica è la scienza che investe globalmente le strutture linguistiche, la poetica può
essere considerata come parte integrante della linguistica.
La confusione terminologica tra “studi letterari” e “critica” induce lo studioso di letteratura a sostituire con
un giudizio soggettivo e censorio la descrizione dei valori intrinseci dell’opera letteraria; nessuna
proclamazione dei gusti e delle opinioni personali di un critico sulla letteratura creatrice può sostituirsi a
un’analisi scientifica obiettiva dell’arte del linguaggio.
Per Jakobson “un linguista sordo alla funzione poetica del linguaggio, come uno studioso di letteratura
indifferente ai problemi della linguistica e incompetente dei suoi metodi sono (…) dei manifesti
anacronismi”.
Gli studi letterari, tra i quali la poetica occupa il posto centrale, implicano, esattamente come la linguistica, lo
studio sincronico e lo studio diacronico. La descrizione sincronica considera non solo la produzione letteraria
di una data epoca, ma anche quella parte della tradizione letteraria che per l’epoca in questione è ancora vitale
o è stata richiamata in vita.
Centrali nel saggio di Jakobson, sono le sue considerazioni sulle funzioni della lingua: egli ne
individua 6 una per ogni fattore costitutivo del processo linguistico:

CONTESTO (F. REFERENZIALE)


MITTENTE MESSAGGIO (F. POETICA) DESTINATARIO
(FUNZIONE EMOTIVA) CONTATTO (F. FATICA) (FUNZIONE
CONATIVA)
CODICE (F. METALINGUISTICA)

Difficilmente un messaggio verbale assolve soltanto una funzione. La diversità dei messaggi non si
fonda sul monopolio dell’una o dell’altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico tra di esse.
L’interesse di J. si concentra sulla funzione poetica, che si realizza attraverso il significante
particolarmente strutturato.
Se la sequenza di un’espressione verbale prevede la combinazione di elementi selezionati tra quelli
offerti dalla lingua, in base al principio della dissimilarità/similarità, la sequenza di un’espressione
poetica è selezionata e combinata secondo il principio dell’equivalenza e della similarità, che
prevalgono sulla contiguità, cioè sulle regole logiche della successione e della coordinazione sul
piano morfologico e sintattico.
Il significante è in sé stesso portatore di un significato. Il livello dove è più facile percepire la
combinazione ricorrente è quello fonico-ritmico; il ritmo e la rima sono gli elementi ricorrenti per
eccellenza nel linguaggio poetico, ma la rima in particolare mostra un altro principio organizzatore
del linguaggio poetico: il “parallelismo”. Il significante in poesia è strutturato in parallelismi, essi si
proiettano come significati sulle strutture semantiche e si caratterizzano per somiglianze e per
contrasto.
Gli elementi descritti moltiplicano i significati del linguaggio poetico, li sovrappongono in una
ridondanza di senso che provoca un’ambiguità semantica, qualità intrinseca del linguaggio
letterario (William Empson 1906-1984).
La ricorrenza e l’equivalenza, elementi portanti del linguaggio poetico, fondano un sistema di
correlazioni e di rapporti, strutturato e riconoscibile nella poesia metrica e regolare, preferita da
Jacobson come oggetto di studio.

In ambito linguistico nasce agli inizi del secolo anche la cosiddetta critica stilistica, e fu proprio un
allievo di de Saussure a occuparsene considerandola una disciplina autonoma: Charles Bally.
La stilistica linguistica di Bally studia i rapporti tra i mezzi espressivi e il sistema, osserva ciò che
nella lingua varia, le tendenze costanti che si manifestano nel sistema, escludendo dalla sua ricerca
lo studio individuale e letterario degli scrittori impiegato in funzione estetica.
Grande filologo romanzo, attento allo studio individuale e insieme a quello particolare di ciascuna
epoca, fu Erich Auerbach (1892-1957), tedesco di nascita, costretto a fuggire in Turchia per motivi
razziali, approdò negli stati uniti, dove rimase fino alla morte.
La sua opera più famosa “Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale”, raccoglie studi sulla
letteratura europea da Omero ai contemporanei.
L’argomento degli studi, afferma A. è l’interpretazione della realtà per mezzo della
rappresentazione letteraria o imitazione; il punto di partenza è la questione della mimesi, intesa
come copia della verità.
L’interpretazione dei testi si sviluppa intorno ad alcune idee direttive: una di queste è la
mescolanza di stili, che A. collega alla concezione della realtà, quale traspare dalle opere della
tarda antichità e del Medioevo, in cui convivono il sublime e il tragico, mescolanza che crea la
prima breccia nella teoria classica dell’arte.
Molto noti in Italia gli Studi su Dante, l’autore si è interrogato su quale concezione del divenire e
della storia porti allo stile illustre dantesco. La riflessione del critico sulla Divina Commedia è
suggerita dall’interpretazione figurale della Bibbia desunta dalle lettere di san Paolo.
L’interpretazione figurale stabilisce che un fatto che accade sulla terra, non significa solo sé stesso
ma anche qualcosa che preannuncia e che troverà il proprio compimento nel piano di salvezza
divino di cui tutti gli avvenimenti sono un’immagine riflessa.
Nel passo A. mette in luce che nella Commedia sono molte le apparizioni fenomeniche terrene il
cui riferimento al piano divino è ben precisato; tra di esse la più importante dal punto di vista
storico-politico e la più stupefacente per un osservatore moderno è la monarchia universale di
Roma, la quale secondo la concezione dantesca è il preannuncio concreto e terreno del regno di
Dio. Ma la Commedia si fonda ovunque su una concezione figurale, basti prendere in esame tre
dei più importanti personaggi che appaiono in essa, Catone Uticense, Virgilio e Beatrice. La loro
apparizione nell’aldilà è un compimento della loro apparizione sulla terra, e quest’ultima è una
figura di quella dell’aldilà. Un avvenimento di significato figurale conserva il suo significato
letterale e storico, non diventa un puro simbolo, rimane avvenimento.
Nel caso di Catone Uticense, che in terra realizza la sua parte di tutore della libertà politica, che era
solo figurale e ai piedi del Purgatorio, appare come tutore della libertà eterna degli eletti, la
corrispondenza non si realizza soltanto attraverso il carattere, ma anche attraverso il ruolo, in
questo caso l’interpretazione figurale scioglie l’enigma dell’apparizione di Catone in un luogo
dove si è stupiti di trovare un pagano. In questo caso si riconosce chiaramente la concezione
dantesca: il carattere e la funzione dell’uomo hanno il loro posto prestabilito nell’ordine divino,
quale sulla terra è figurato e nell’aldilà è realizzato.
L’interpretazione figurale che si poneva accanto a quella allegorico-spirituale, si contrapponeva
alla svalutazione della struttura della Commedia operata dalla critica crociana; A. cercò di
dimostrare non solo che non c’è contraddizione tra poesia e struttura ma che la stessa struttura è
poesia.

Lo strutturalismo e la semiologia
La grande espansione dello strutturalismo nell’Europa occidentale avvenne in Francia a partire
dagli anni Sessanta e provocò una vera e propria euforia per la teoria della letteratura e le
domande che questa poneva all’autore, al contesto, al lettore.
Roland Barthes fu una figura fondamentale per lo strutturalismo e la semiologia francesi. Nel
volume “L’avventura semiologica” viene riportata una conferenza dove egli racconta il tormentato
rapporto con le discipline oggetto della sua ricerca e ne descrive le fasi alterne, caratterizzate ora
dal desiderio di attribuir loro un fondamento scientifico, ora dal semplice piacere di creare sistemi
di analisi e applicazioni critiche.
Un ruolo importantissimo ebbe il gruppo di “Tel Quel”, costituitosi intorno a Julia Kristeva.
Il formalismo e il marxismo erano i due punti di riferimento per ricercare le leggi dei sistemi
letterari.
Gli studi letterari si concentrano, all’epoca, sulle leggi che determinano la struttura dei linguaggi
poetico e prosastico. Roland Barthes ribadisce che compito del critico non è spiegare e giudicare i
contenuti, ma provare la coerenza dei sistemi simbolici.

Il proclamato disinteresse per il significato del segno linguistico e per la sua storicizzazione crea
uno spazio allo sviluppo della semiologia (che de Saussure aveva definito la scienza che studia “la
vita dei segni nella società”).
Negli anni 60 prende piede la Scuola di Tartu-Mosca che annovera tra gli studiosi più importanti
Jurij Michajlovic Lotman.
Studiosi di varia formazione dedicano le loro ricerche semiotiche all’arte, al gioco, ai
comportamenti umani e li interpretano e analizzano come linguaggi di comunicazione.
Successivamente l’attenzione si concentra sui testi artistici, nei quali si ricercano non solo le
strutture che si iterano ma anche le nuove, che realizzano, in un gioco di novità e ripetizione, la
trasmissione della cultura. Lotman, studioso geniale, docente dell’università di Tartu, cerca di
definire le caratteristiche del linguaggio della poesia che, come quello delle arti, conserva un alto
margine di non traducibilità. L’intraducibilità del messaggio artistico crea le premesse per
un’esplosione di senso: l’impossibilità di traduzione del linguaggio poetico in altri linguaggi
artistici è motivo generatore di nuovi sensi, che si producono nell’utilizzazione di codici differenti,
poiché la diversità del codice condiziona il senso del messaggio.
L’ispirazione è per Lorman quel momento di massima tensione creativa, emotiva e intellettuale, in
cui d’un tratto (in maniera esplosiva) una situazione di intraducibilità si trasforma in una
situazione di traducibilità. La sua realizzazione è sempre interna a una coscienza individuale: la
coscienza collettiva interviene soltanto a fruire del risultato.
Per la scuola di Tartu Mosca il passaggio dai processi graduali a quelli esplosivi fu determinato
dallo spostamento del centro dell’attenzione scientifica dalla linguistica alla semiotica dell’arte.
L’opera d’arte nasce nel momento dell’esplosione e non può essere compresa se non si acquisisce
consapevolezza della natura della sua nascita.

CAPITOLO 2
CRITICA PSICOANALITICA E TEMATICA
(Il Sogno in Freud è la via regia per accedere all’inconscio, è la realizzazione di un desiderio. I
desideri proibiti vengono “camuffati” attraverso una serie di simboli (resi attraverso una serie di
figure retoriche) che solo l’analista può svelare.
Il sogno ha infatti un contenuto manifesto (quello che si ricorda quando ci si sveglia) e un
contenuto latente (quello proveniente dall’Es). Il contenuto manifesto traveste e camuffa quello
latente: il sogno si presenta perciò come una sorta di rebus che l’analista esperto può svelare.
Il sogno angoscioso (incubo) viene ricondotto anch’esso alla dinamica della soddisfazione del
desiderio.
Il sogno è l’appagamento di un desiderio.)
L’interesse della critica per l’inconscio (dell’autore, del personaggio dell’opera o del lettore) si deve
in gran parte alla riflessione sull’attività di Sigmund Freud, scopritore dell’inconscio. I critici
hanno utilizzato la sua ricerca per interpretare e suggerire metodi di analisi dei testi letterari.
Riflessioni sui testi letterari sono disseminate in molte opere di F. (es: ne “L’interpretazione dei
sogni”, nell’epistolario), ed evidenziano un interesse e uno sguardo costantemente rivolto alla
letteratura e agli scrittori.
L’immaginazione letteraria e i meccanismi della sua organizzazione sono oggetto, nel 1907, di una
conferenza di Freud, “Il poeta e la fantasia”. Qual è la genesi del materiale poetico?
Il poeta trae godimento dall’attività fantastica come il bambino dal gioco, l’attività fantastica
compensa la mancanza di appagamento del desiderio, ottenuta durante l’infanzia attraverso il
gioco. La creazione fantastica è un sogno ad occhi aperti che si realizza in tre momenti: 1) prende le
mosse da un’occasione offerta dal presente e capace di risvegliare desideri; 2) si ricollega a
un’esperienza risalente in genere all’infanzia; 3) crea una situazione relativa al futuro che
rappresenta l’appagamento di un desiderio.
Il poeta è un sognatore ad occhi aperti che può attingere a materiali fantastici depositati nella
tradizione o creare liberamente interpretando conflitti della vita interiore. Il poeta a differenza di
un qualunque sognatore, addolcisce le sue fantasticherie e ci seduce mediante un godimento
puramente formale, definito da F. “premio di seduzione”.
In “Totem e tabù” F. affermerà che solo nell’arte è possibile che un “uomo logorato dai desideri”
elabori un’azione che assomiglia all’appagamento e che questo gioco, in grazia dell’illusione
artistica, provochi delle risonanze affettive come se si trattasse di cosa reale.
Freud non si pone soltanto lo sconfinato problema della creatività, ma anche quello più limitato
dell’effetto di piacere e della tecnica dell’opera e dei meccanismi attraverso i quali il processo di
simbolizzazione si traduce in particolari forme linguistiche.
Ne “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” F. afferma in particolare il problema del
piacere che ogni motto di spirito determina nel fruitore, un piacere dovuto alla tecnica
dell’arguzia, con cui viene elaborato il motto, capace di sfuggire all’azione demolitrice e inibitoria
della critica. Attraverso il motto di spirito tendenzioso si possono manifestare desideri il cui
contenuto non è possibile dichiarare apertamente, la rimozione e la censura vengono sbarazzate
dalla risata che procura piacere liberando energie represse.
Nel saggio su Leonardo, invece, F. rivolge la propria attenzione alla biografia dell’autore, utilizza
l’arte in funzione di un biografismo psicanalitico, sul quale egli stesso, comunque, nutriva
perplessità, ma assai praticato dai primi cultori della critica ispirata alla psicanalisi.
Da quanto abbiamo detto possiamo distinguere due interessi prevalenti in Freud: quello biografico
e quello linguistico.
I primi tentativi di applicazione delle teorie psicanalitiche alla letteratura apparvero su “Imago”
(1912), rivista nata con l’intento di mettere a confronto sapere analitico e problematiche della
creatività artistica, diretta dall’allievo di Freud Otto Rank. Proprio su “Imago” nel 1914, egli
pubblicò il noto saggio Il doppio, in cui egli analizza diverse opere letterarie di vari autori,
cercando di dimostrare non tanto la loro “interdipendenza” sul piano letterario, quanto la
presenza di una loro identica struttura psichica. “Tutti soffrivano di chiari disturbi psichici o di
vere e proprie malattie nervose e mentali. Il loro comportamento quotidiano, manifestatamente
eccentrico, si distingueva per l’eccesso nel bere, nell’uso di oppiacei, nella vita sessuale, soprattutto
nei suoi aspetti anomali. Qualche anno dopo F. riprenderà alcune osservazioni di Rank, nel suo
scritto “Il perturbante”.
Nei confronti di un atteggiamento troppo attento alle patologie degli scrittori polemizzò Carl
Gustav Jung. Affrontando la questione del rapporto tra psicologia analitica e arte Jung sostiene
che lo psicologo di fronte all’opera d’arte non deve ricercare quali condizioni umane l’abbiano
prodotta ma da dove trae quel significato.
Il mistero della creatività, per J., non può essere spiegato dalla psicologia, ma soltanto descritto.
Deve essere distinta l’analisi psicologica dell’opera d’arte letteraria, dall’analisi letteraria dell’opera
stessa; ciò che può risultare interessante per l’una può non essere significativo per l’altra poiché
opere di scarso valore letterario sono spesso assai interessanti per lo psicologo e viceversa.
È vero che nelle opere possiamo rintracciare la psicologia dell’artista “fino alle estreme
ramificazioni”, J. riconosce questo alla scuola Freudiana, ma viene criticata e negata la pretesa che
l’analisi spieghi “l’essenza dell’opera d’arte”.
Tutto ciò che riguarda personalmente il poeta (le sue patologie, le sue nevrosi) può rappresentare
un vantaggio o un impedimento, ma non è essenziale per la sua arte. A Jung non interessa il poeta,
ma il processo creativo, che può essere sottoposto alle intenzioni dell’artista oppure sfuggirgli
(poeta introverso ed estroverso).
Nel testo antologizzato "Psicologia analitica e arte poetica" J. afferma che alla psicoanalisi interessa
la parte della formazione dell’opera d’arte (processi di formazione artistica), non l’essenza
dell’arte, quest'ultima non può divenire oggetto di indagine psicologica ma soltanto di un esame
estetico-artistico.
L’indirizzo psicologico inaugurato da Freud ha dato nuovi slanci agli storici della letteratura,
incitandoli a mettere in rapporto alcune particolarità dell’opera d’arte con le esperienze intime e
personali dell’autore. I metodi di Freud permettono di vedere in modo più profondo e completo le
influenze che esercitano sulla creazione artistica gli avvenimenti che risalgono sino alla prima
infanzia. Impiegati con tatto e con misura, essi offrono sovente un quadro d'insieme piacevole circa
la maniera in cui la creazione artistica è, da una parte, intessuta nella vita dell'artista e, dall'altra
parte, si libera di tale groviglio.
L'essenziale, nel metodo riduttivo di Freud è che esso raccoglie gli indizi delle cause subconsce e
preconsce e ricostruisce i processi elementari inconsci per mezzo dell’analisi e dell’interpretazione.
Per dare all’opera d’arte ciò che le è dovuto, è necessario che la psicologia analitica escluda ogni
pregiudizio di carattere medico. L’opera d’arte non è una malattia, quindi richiede un
orientamento diverso da quello medico.
C'è una grande differenza tra l' approccio medico-paziente e l' approccio critico-opera, se il medico
deve ricercare le cause di una malattia per eliminarla, il critico non deve cercare le condizioni
umane che hanno preceduto l'opera d'arte, ma cercherà invece il senso dell'opera stessa.
Si potrebbe quasi dire che l'opera d'arte utilizza l’uomo e le sue disposizioni personali
semplicemente come terreno nutritivo, impiegando le energie secondo leggi proprie e modellando
sé stessa secondo ciò che vuole divenire.
Esistono due tipi di autori:
-primo tipo introverso : l'autore è un tutto unico con il processo creativo: L'autore utilizza il suo
giudizio più acuto e sceglie le sue espressioni e il suo stile in piena libertà. La materia che egli tratta
è sottoposta alla sua intenzione artistica.
-secondo tipo estroverso: colui che vede l’opera d’arte come qualcosa che si è impossessato di lui.
L’opera è un qualcosa che l’autore stesso non sa spiegare, viene sommerso da un fiume di idee e di
immagini che non sono dovute alla sua volontà.
(Platone: parla di una sorta di esperienza mistica che si impossessa dell’autore)
L’autore si sdoppia, è come se vedesse una seconda persona che è stata preda di una volontà
estranea alla sua.
Schiller aveva già avvertito la diversità tra i due modi in cui l’opera d’arte si manifesta e aveva
parlato di:
-sentimentalità;
-ingenuità;
il motivo per cui l’autore romantico utilizza questi 2 termini, è che aveva sott’occhio soprattutto
l’attività poetica.
L'opera non creata è, nell'animo dell'artista, una forza naturale che si realizza o con potenza
tirannica, o con sottile scaltrezza, senza tenere alcun conto del benessere personale dell'uomo che
porta in sé la forza creatrice. Quest'ultima vive e cresce nell'uomo, come un albero cresce nel suolo
da cui assorbe il suo nutrimento. La psicologia analitica lo definisce "complesso autonomo". A
questo punto verrà chiesto"come può la psicologia analitica contribuire a risolvere il problema
principale della creazione artistica? La psicologia come ogni altra scienza, non reca che un modesto
contributo a una conoscenza migliore e più profonda dei fenomeni della vita, ma essa è lontana
dall'assoluto, tanto quanto le sue sorelle.
Tutto ciò che abbiamo detto fino ad ora non è che fenomenologia psicologica, ciò che si manifesta.
Abbiamo parlato così spesso del senso e del significato dell'opera d'arte, ma l'arte significa
realmente qualcosa?
Forse l’arte non “significa” nulla; forse non ha alcun "senso" almeno nell'accezione che noi diamo
qui a questa parola. Forse essa è come la natura, che semplicemente “è” e non significa nulla. Si
potrebbe dire che l’arte è bellezza e che nella bellezza essa si realizza e si soddisfa. Essa non ha
bisogno di alcun senso, la questione del senso non ha nulla a che fare con l’arte. Trovare un senso è
più importante per chi osserva l’opera rispetto all’opera stessa e a chi l’ha creata.
Nell’ultimo paragrafo l’autore torna a parlare del processo creativo, il complesso autonomo
creatore. Non è possibile assolutamente sapere al principio le componenti del complesso
autonomo creatore, finché l’opera non ci avrà aperto le vie che ci conducono alle fondamenta.
L’opera ci offre una perfetta immagine. Quest’ultima possiamo sottoporla all’analisi, purché si
possa scorgere in essa il simbolo.
I simboli sono polisemici-possono avere diversi significati.
(la questione dell’immagine la ritroveremo nell’altro libro “interpretare l’immagine dell’alterità”)
Gerhart Hauptmann da autore realista, comincia ad appoggiare il simbolismo.
A quale immagine primordiale dell’inconscio collettivo si può far risalire l’immagine sviluppata
nell’opera d’arte?

Charles Mauron nella sua opera “Dalle metafore ossessive al mito personale. Introduzione alla
psicocritica”, mette a punto un metodo di indagine definito “psicocritica”. La sua ricerca si fonda
sulla presenza accertabile empiricamente, attraverso il confronto e la sovrapposizione dei testi, di
reti fisse di associazioni che si ripetono, talvolta in modo ossessivo, in opere di uno stesso autore.
La ripetizione e la trasformazione di queste strutture associative ci conduce al “mito personale”
dello scrittore e alla genesi complessa dell’opera. La psicocritica ha come oggetto di studio la
personalità inconscia dello scrittore, sa di essere parziale e infatti vuole “integrare una critica totale
e non sostituirsi ad essa”. Mauron più volte riafferma questa funzione di complementarietà della
psicocritica che intende accrescere la comprensione delle opere letterarie “scoprendo nei testi fatti e
relazioni rimasti finora inavvertiti o insufficientemente rilevati”.
M. afferma di aver accertato nel 1938, in vari testi di Mallarmé, la presenza di una fitta rete di
"metafore ossessive", nel 1954, a proposito di Racine formulò l'ipotesi di "mito personale", che è
proprio di ciascuno scrittore e che è obiettivamente definibile.
Formazione del metodo psicocritico
In quale modo questo metodo può accrescere la nostra comprensione delle opere letterarie?
Ciò che può essere determinato dall’analisi di un’opera letteraria è il contesto in cui questa è stata
scritta.
Nel caso di un’opera letteraria, le variabili si classificano in tre gruppi:
-l’ambiente e la sua storia;
-la personalità dello scrittore e la sua storia;
-il linguaggio e la sua storia;
Le nostre attività critiche:
-storia delle idee e delle strutture sociali;
-ricerca delle fonti;
-stilistica; etc.
Dove si colloca la psicocritica? La psicocritica intende accrescere la nostra conoscenza delle opere
letterarie semplicemente scoprendo nei testi fatti e relazioni rimasti finora inavvertiti o
insufficientemente rilevati, i quali trarrebbero origine dalla personalità inconscia dello scrittore.
M. individua tre tendenze essenziali della critica contemporanea:
-classica (precedente a Freud) non si pone il problema dell’inconscio, tradizionalmente essa si
dedica ad analizzare ciò che l'autore ha pensato, sentito, voluto;
-medica (quella di Freud) interpreta le opere come semplici espressioni di un inconscio spesso
patologico;
-tematica (quella di Yung) essa cerca di penetrare, nell'opera di ogni scrittore le manifestazioni dell'
"Io profondo";
Il dissidio si manifesta nella parte da assegnare alla personalità inconscia nella creazione letteraria.
La psicocritica è per prima cosa questa tecnica. Essa cerca le volontarie associazioni di idee sotto le
strutture volute dal testo. La tecnica deve annullare (provvisoriamente) le seconde affinché le
prime compaiano.

Gaston Bachelard, uno dei più grandi interpreti di simboli poetici, utilizzò a suo modo le teorie
psicoanalitiche, dichiarando esplicitamente il proprio interesse per Jung. Fu autore di numerose
opere nelle quali delinea una dottrina dell’immaginazione letteraria la quale, “pur spontanea come
pretende di essere”, è pur sempre un’immagine riflessa e controllata, che ottiene la propria
autonomia soltanto superando una censura. “Lo scrittore, in virtù della bellezza dell’immagine
“sublima” una reverie ben nota agli psicoanalisti”. Il termine reverie, difficilmente traducibile in
italiano, indica una fantasia, una fantasticheria simile a un sogno, anche se il fenomeno si colloca
nello stato di veglia; i sensi si armonizzano nella reverie poetica che ascolta la polifonia dei sensi
registrata dalla coscienza poetica attraverso il linguaggio. Il fenomenologo dell’immaginazione
deve cercare di rivivere questi slanci della fantasia. Numerosi i debiti nei confronti delle teorie non
solo junghiane ma anche romantiche sull’arte, e nei confronti della tradizione francese.
Assai noti sono i saggi di B. dedicati all’immaginazione materiale dei quattro elementi (terra,
fuoco, aria e acqua; ogni scrittore propende verso un particolare elemento, influenzato in questo
dal proprio temperamento.

Un grande consenso hanno avuto in Europa gli studi di Northrop Frye che ispirandosi a Jung,
ricerca gli “archetipi” dei generi e dei temi dell’opera letteraria.
In “Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari”, egli
analizza in quattro saggi altrettante modalità critiche: quella storica, etica, archetipica e retorica che
rispettivamente vengono definite come teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi. Il mito si
adatta alla natura e ne assume l’andamento ciclico. Questo movimento mitico preesiste ai generi
letterari ed è una categoria più ampia; i mythoi o trame generiche sono quattro: la commedia, il
romance, la tragedia, l’ironia e la satira, connesse rispettivamente al mithos delle 4 stagioni.
Le numerose classificazioni di simboli, di archetipi, di immagini che F. rintraccia nella letteratura
mondiale dalla Bibbia a Joyce, sono accompagnate da lunghe riflessioni sulle funzioni e sulle
finalità della critica alla quale è dedicata una Introduzione polemica.
Frye considera la critica indispensabile per comunicare intorno alla letteratura e per arricchire la
vita attraverso il sapere.

Assai noti in Italia anche gli studi- ma siamo già in un contesto poststrutturalista- di Harold Bloom
Che utilizza l’opera di Freud per reinterpretare la letteratura alla luce del complesso edipico. Il
poeta forte vive nei confronti dei suoi predecessori una rivalità che cercherà di smantellare
riformulando in modo diverso la tradizione e cercando la propria originalità creativa. In
un’interpretazione quasi romantica della letteratura, l’eroe poeta combatte una battaglia
individuale alla ricerca della propria originalità. Il valore del genio per Bloom è da contrapporre
alla mancanza di qualsiasi fede obiettiva del decostruzionismo.

In Italia, i giudizi e i pregiudizi di Croce nei confronti della psicanalisi determinarono le molte
difficoltà di coloro che per primi cercarono prospettive alternative rispetto a quelle della critica
idealistica crociana. Fra questi Giacomo Debenedetti, che ritenne che l’opera di certi autori non
possa spiegarsi se non alla luce della loro situazione psicologica. Le sue lucide indagini sul
personaggio-uomo, raccolte nei “Saggi critici” e nel “Romanzo del Novecento” gli consentirono
“di essere uno psicanalista della poesia”.
Le lezioni di Debenedetti formarono, negli anni 50, un eclettico cultore della critica psicanalitica in
Italia, Mario Lavagetto, che lontano dalla ricerca di canonizzazioni metodologiche usa in modo
duttile le indicazioni di Freud.
Nei suoi primi scritti emerge un interesse, anche se particolarmente orientato, per i rapporti tra
opera e biografia: sono gli stati d’animo dell’autore, sostiene L., che agiscono su temi e forme
letterarie. Dedicherà particolare attenzione a Saba e Svevo, due autori che conoscono e utilizzano le
teorie di Freud, ambedue amati e studiati da Debenedetti.
La gallina di Saba (1974)
Lavagetto qui propone una lettura unitaria e rigorosa del Canzoniere e mette in evidenza come
Saba utilizzi le proprie conoscenze della psicoanalisi. (interesse biografico)
Lo studioso analizza la produzione sabiana a partire da una provocatoria affermazione di
Gianfranco Contini: “Saba nasceva psicanalitico prima della psicoanalisi”, per sviscerare la
complessità del rapporto tra Saba e la nuova teoria freudiana, L. concentra la sua attenzione su un
simbolo ricorrente della sua produzione: la gallina.
Questo animale domestico, dalle fattezze apparentemente innocue e rassicuranti, compare in
numerosi testi sabiani, sia in poesia che in prosa, che L. passa in rassegna mettendone in rilievo i
richiami interni ed esaltandone le suggestioni, fino al punto di sostenere che per Saba la “gallina è
un animale sacro”.
Il testo che funge da palinsesto è la lirica “A mia moglie”, collocata in apertura della sezione “Casa
e campagna” e dedicata a Lina.
Il tenero entusiasmo del poeta ricorda quello francescano delle Laudes Creaturarum, ma se al
centro dell’universo de5il santo di Assisi c’è Dio, del quale ogni elemento del creato è segno, al
centro di quello sabiano c’è la moglie, la cui vitalità istintiva si inserisce compiutamente in un ciclo
naturale dal quale il poeta sembra escluso. E in questa primitiva adesione alla natura, la gallina fa
da capofila, da “immagine madre”, fa notare L., del suo universo poetico e affettivo.
Il critico evidenzia poi significati più nascosti a partire dal racconto del 1913 intitolato “La gallina”,
poi messo in relazione con un episodio realmente accaduto al poeta, facendo costanti riferimenti a
Totem e Tabù di Freud, secondo L. vero punto di partenza dello stesso Saba.
Conclude comunque affermando che “ci muoviamo su un terreno dove la contraddizione è un
elemento indispensabile per raggiungere la possibile (sempre precaria) certezza”.
Secondo Lavagetto non si può prescindere dalla psicologia per comprendere Saba. E inoltre pensa
che Saba fosse diretto conoscitore dello scritto di Freud “Totem e tabù”.
“Credo che potremmo riprendere, anche nel caso Saba, una formula che Proust ha utilizzato per la
Recherche, quando diceva che l’io che si trova al centro della sua opera “non è me”.
Certamente sarebbe un errore ridurre quell’io che ci parla, si pronuncia, racconta la propria storia,
l’edifica e la costruisce, a un puro e semplice “io” contingente, un “io” anagraficamente
identificabile con l’uomo Umberto Saba. Non ci sono dubbi però che nella costruzione di quell’io,
in maniera molto sistematica, Saba si serve di tratti e di elementi che sono desunti direttamente
dalla propria biografia e che risultano, all’interno dell’opera, riarticolati.
Per utilizzare ancora una volta un’immagine proustiana, e per suggerire anche una sorta di
possibile, cauto punto di riferimento, potremmo dire che la vita di Saba, in qualche modo, viene
esplicitamente presentata come l’alfabeto da cui si ricavano, una per una, le parole della poesia.
Un personaggio, dunque, ma un personaggio che è modellato con molto accanimento e con
sostanziale impudicizia su quella che era la fisionomia dell’uomo concreto Umberto Saba”.
Principi di teoria critica sono espressi da L. nei due interventi che compaiono nel recente volume:
“Il testo letterario. Istruzioni per l’uso” (1996). La critica non può basarsi su criteri scientifici che
hanno dimostrato la propria fallibilità, non si può dare carattere di leggi alle generalizzazioni del
critico.
“La critica appare da un lato depauperata di certezze e di paradigmi, dall’altro restituita alle
modalità e ai limiti di una conoscenza eminentemente dialogica: con i rischi, i dubbi, le avventure,
le approssimazioni e le strategie che le sono proprie”.
Strategie critiche individuate: commento, spiegazione, storicizzazione, traduzione, decostruzione,
interpretazione.
L. si sofferma sull’analisi e sul valore dell’indizio, della traccia per cogliere le intenzioni strategiche
dell’autore intenzionali o preterintenzionali, oppure le intenzioni del tutto ricostruite dal lettore su
indizi non offerti ma ricomposti e, quindi, con esito sicuramente “non arbitrario”.
Nel testo antologizzato tratto da “Freud la letteratura ed altro” (1985), l’autore fa riferimento
direttamente ai testi di Freud per analizzare il rapporto tra psicoanalisi e critica letteraria.
È interessato, in particolare, a cercare tra gli scritti di Freud gli spunti atti a dare forma a una
metodologia analitica per lo studio delle opere letterarie, che abbia una coerenza interna e sia
coerente con la teoria della psicoanalisi.
Inizialmente la ricerca sembra dare esito positivo, dato che vengono elencati una serie di
“successi” della psicoanalisi così come elencati dallo stesso Freud.
Psicoanalisi e opera d’arte
“Tra i molti possibili lettori di un libro ce ne sono alcuni, i critici, a cui sono toccati in sorte un
calamaio, della carta e la licenza di dire quello che vogliono. È il loro mestiere a indurli a
riprendere, nel modo meno diplomatico, due domande che abbiamo ripetutamente sfiorato:
-C’è qualcosa nell’opera d’arte, o relativo all’opera d’arte, su cui la psicoanalisi sia in grado di dirci
una parola decisiva?
-C’è qualcosa, viceversa, su cui la psicoanalisi non abbia nulla da dirci? E ancora, in modo più
cauto e indiretto, è possibile ricavare dall’insieme degli scritti di Freud una serie di indicazioni (o
di prescrizioni) metodologiche di cui la critica possa servirsi?
I successi della psicoanalisi:
- “è stato dimostrato che i miti e le fiabe autorizzano una interpretazione allo stesso modo dei
sogni”.
- “sono state seguite le vie tortuose che dall’urgere del desiderio inconscio portano alla
realizzazione dell’opera d’arte”.
- “si è imparato a comprendere il valore effettivo che l’opera d’arte ha sul pubblico”.
- “dell’autore stesso si è spiegata tanto l’intima affinità quanto la diversità rispetto al nevrotico e si
è mostrata la connessione tra il suo talento, le sue esperienze fortuite e la sua produzione”.
La psicoanalisi sembra in grado di dirci una parola decisiva tanto sulla genesi dell’opera d’arte
quanto sulla sua ricezione e sui “poteri magici” che le consentono di sopraffare lo spettatore e di
trascinarlo là dove i confini tra il reale e l’immaginario si confondono.
Miti e fiabe come i sogni
L. nota come per Freud i miti e le fiabe “autorizzano un’interpretazione allo stesso modo dei
sogni”.
Freud ha distinto il contenuto onirico manifesto dal contenuto latente, ossia il significato profondo
del sogno che viene manipolato e deformato dal “lavoro onirico” per sfuggire alla censura.
Siccome il sogno è una sorta di “drammatizzazione”, di trasformazione dei pensieri in immagini, è
di somma importanza sapere quali sono i meccanismi del suo linguaggio. Freud ne ha individuati
due: La condensazione e lo spostamento.
Con la condensazione i vari sentimenti e i pensieri vengono unificati in un’unica rappresentazione
sulla base di qualche fattore in comune (una sorta di metafora).
L’analogia del processo onirico col linguaggio poetico può essere sottolineata, sul piano semantico,
osservando come la sovra determinazione dei sogni, la loro ricchezza di significati sia assimilabile
alla iperconnotazione e alla polisemia del testo artistico.
Lo spostamento è una specie di deviazione dell’interesse, su elementi marginali o secondari
dell’azione, uno dei tanti trucchi per mascherare il vero significato dell’inconscio. L’accentuazione
del dettaglio, della parte per il tutto è un procedimento simile alla metonimia.
Il lavoro del critico
L. prosegue affermando che se possiamo applicare a miti e fiabe lo stesso procedimento dei sogni,
possiamo cogliere il significato più nascosto, che non viene detto e si manifesta soltanto nelle
interferenze.
Anche il non detto, gli spazi vuoti tra le parole, sono segni da mettere insieme per arrivare a un
senso unitario. Il critico deve fare attenzione sia alla parte formale del testo, con le sue lacune,
deformazioni, interruzioni, spostamenti, sia alla biografia dell’autore. Bisogna portare in luce
l’aspetto latente dell’opera d’arte, insomma deve fare attenzione a tutti quei procedimenti simbolici
che permettono di leggere l’altro testo, scritto al di sotto di quello esplicito.
L’interpretazione non può essere altro che il tentativo di proporre un altro testo, equivalente, ma
per un motivo o per l’altro più soddisfacente.
Analisi dell’opera d’arte
Attenzione però alla dicitura freudiana “miti e fiabe”, che non sono opere d’arte che mettono in
gioco il giudizio estetico in quanto tale o la spiegazione del talento artistico. (pag 120)
L’analisi estetica è per Freud fondamentale per giungere alla completezza, in questo senso quella
psicoanalitica non sarà che un’analisi elementare, da considerarsi premessa e completamento
dell’analisi estetica.
Conclusione di L. (che estrapola da Freud, con una forzatura): Nessuna lettura psicoanalitica può
esaurire l’interpretazione dell’opera d’arte e rendere superflua l’analisi estetica ma è ormai
impossibile pensare a un’analisi estetica che prescinda dalla psicoanalisi.
Mancanza di una teoria sistematica:
Per quanto riguarda Freud ci abbia lasciato diversi contributi all’interpretazione psicanalitica di
opere artistiche, non si può certo dire che egli intendesse con tali prove fondare un nuovo tipo di
critica. È anzi chiaro in lui un prudente riserbo contro i pericoli di indebite generalizzazioni.
Il primo rischio di un approccio psicanalitico deviante consiste nel considerare l’opera d’arte un
semplice documento o banco di prova per la verifica della teoria medica, una conferma, ad
esempio, di certe esperienze cliniche.
Forse per questo in lui manca del tutto una sistematizzazione teorica della psicoanalisi applicata
alla letteratura, scrive Lavagetto.
“In nessun caso, come in questa zona di confine, Freud sembra poco propenso ad assumersi
responsabilità metodologiche, a prescrivere e formalizzare una strategia”. Se si vogliono trovare
dei programmi per una critica letteraria per L. li si potranno cercare nel Protokolle.

Francesco Orlando (Palermo, 1934- Pisa, 2010)


Con Orlando si va in una nuova direzione. Per quanto abbiamo costituito dei modelli della prima
critica psicanalitica, i saggi freudiani mostrano in modo lampante alcuni limiti di fondo, è lo stesso
Freud ad affermare che il suo interesse era prevalentemente contenutistico, mentre in vari saggi
teorici lo specifico dell’arte viene giustamente individuato nel carattere formale della struttura
significante.
Le nuove ricerche psicoanalitiche puntano soprattutto sul problema della comprensione della
forma, incrociandosi significativamente con le moderne metodiche della linguistica, dello
strutturalismo e della semiologia.
Gli studi di Orlando si orientano nella direzione già intrapresa da alcuni studiosi di coniugare la
psicoanalisi con la linguistica, anche contaminando le suggestioni della psicoanalisi con quelle
provenienti da discipline diverse, quali ad esempio la neoretorica.
Linguaggio letterario e inconscio
Punto di partenza delle sue teorie è l’intuizione contenuta in Delimitazioni di campo (in Per una
teoria freudiana) in cui si evidenzia la diversità fondamentale tra il sogno e il messaggio letterario
che presuppone, a differenza del primo, un destinatario e un’articolazione formale in vista di una
comunicazione. Di conseguenza particolare valore assume l’opera di Freud Il motto di spirito in
cui si trovano preziose indicazioni sulle strategie di un linguaggio della comunicazione in
relazione all’inconscio. A parere dell’autore, un punto di contatto fra linguaggio letterario e
linguaggio dell’inconscio si avrebbe nella preponderanza del significante verbale sul significato:
l’inconscio si permette qualunque mescolanza o slittamento da un significato a un altro, se i
significati offrono la coincidenza anche più accidentale, la somiglianza anche più approssimativa.
Un solo significante, per esempio, può comandare più significati.
Metodologia di Orlando
Nell’opera “Lettura freudiana della Phèdre”, Francesco Orlando espone il significato
dell’espressione “lettura freudiana” e opera una serie di premesse metodologiche fondamentali a
capire il suo metodo di lavoro.
Lettura freudiana non significa soffermarsi sugli aspetti biografici e patologici di Racine, sul
rapporto tra vita e opera, né sui personaggi della Phèdre.
Né la biografia di un’opera né la psicologia della sua creazione possono essere decisive per la sua
comprensione e questo perché un’opera non è un discorso che l’autore rivolge a sé stesso bensì ad
altri. Volendo parlare del successo artistico con termini presi in prestito dall’economia, si direbbe
che i consumatori dell’oggetto che è l’opera d’arte, per spiegare l’oggetto stesso, contano almeno
quanto il suo produttore. Ma l’oggetto è in questo caso fatto di parole: sostituendo ai termini presi
in prestito dall’economia quelli che posso prendere in prestito dalla linguistica, si dirà che la
Phèdre è un messaggio (opera)che va da un destinatore (autore- Racine) a dei destinatari (i lettori
di tante epoche).
Psicoanalisi del linguaggio
Così come i lettori, dal pubblico iniziale di Racine, si sono fatti sempre meno determinabili (si sono
ampliati sempre di più nel corso dei secoli), anche il messaggio, fatto di parole e quindi di tipo
linguistico, concerne all’ambito dell’immaginario e bisogna pertanto analizzare un problema di
valori di significato contenuti nel testo, dunque il ricorso alla psicoanalisi può essere utile se
riuscirà a far comprendere meglio l’oggetto, cioè il testo e i suoi significati. La psicoanalisi andrà
quindi usata in senso linguistico, dove con linguaggio intendiamo qualsiasi sistema di segni (gesti,
simboli visivi, immagini, musica).
“La scoperta dell’inconscio umano da parte di Freud non solo è stata la scoperta di qualcosa che ha
un linguaggio; ma è stata una scoperta resa possibile, e suscettibile di controllo e approfondimento
ulteriore, unicamente dalle manifestazioni di questo linguaggio.”
“Freud ha denunciato un linguaggio dove non se ne sospettava l’esistenza (i lapsus) o lo ha
decifrato laddove era rimasto indecifrabile (i sogni). Qualcosa di simile ha fatto anche con i sintomi
nevrotici, attraverso cui ha scoperto che l’inconscio parla, sebbene il soggetto non lo sappia e gli
altri non lo capiscano.”
In che rapporto è il linguaggio del lapsus, dei sogni, dei sintomi, con quello normale della parola?
Comunicazione involontaria
Anche se può aprire spie sull’inconscio la parola comporta per sua natura una comunicazione
volontaria e cosciente tra un soggetto e altri; fra destinatore e destinatario.
I lapsus e i sogni sono un linguaggio involontario, incomprensibile allo stesso soggetto, ma che
possiede una sua logica interna, una coerenza che ha spiegato lo stesso Freud nelle sue opere. Di
tale coerenza e leggi può risentire anche la parola?
La risposta di Orlando è affermativa, perché anche la comprensione dell’inconscio può essere
mediata dalla parola e la psicanalisi era inizialmente chiamata anche talking cure, cura possibile
solo attraverso la parola.
Significante e significato
Il legame tra inconscio e parola è secondo Orlando ancora più evidente se si analizza l’opera di
Freud Il motto di spirito e i suoi rapporti con l’inconscio, del 1905 considerata insieme
all’interpretazione dei sogni molto più importante delle opere in cui Freud parla di letteratura, per
il rapporto tra critica e psicoanalisi.
Freud non conosce la scienza della linguistica ma allo stesso modo riesce a dimostrare che la logica
interna del motto di spirito ha qualcosa a che spartire con quella del sogno e dell’inconscio in
generale.
Nel motto di spirito “accidentali punti di contatto tra significanti favoriscono la manifestazione
di significati nascosti: determinano l’elaborazione di simboli di cui si veste il sogno, il luogo di
minore resistenza dove si produce il lapsus, il comportamento che la sua ripetizione obbligata
rende un sintomo”. (pag 124)
Inconscio e poesia
Ma il predominio del significante è tipico anche della poesia, quindi anche il linguaggio della
poesia, come quello del motto di spirito, ha qualcosa in comune con quello dell’inconscio.
Il rapporto tra poesia e storia può essere compreso solo tenendo conto della logica dell’inconscio e
viceversa la poesia può essere considerata un linguaggio attraverso cui si manifesta l’inconscio.
È quello che Orlando tenta di dimostrare con la sua “lettura freudiana” della Phèdre, in cui il
critico dimostra che la letteratura può essere considerata una forma di compromesso, che riesce a
far emergere il represso (termine preferito a rimosso) contro le censure moral-comportamentali.
Il ritorno del represso in letteratura
Secondo Orlando, la letteratura attuerebbe un “ritorno del represso” non solo di quello individuale
inconscio o rimosso, ma anche dei contenuti sociali e coscienti. Nella sua Lettura freudiana della
“Phèdre”, il critico ha definito tre accezioni del represso:
1, “ritorno del represso come presenza di qualità formali assimilabili a quelle del linguaggio
dell’inconscio secondo la descrizione di Freud”;
2, “ritorno del represso come presenza di contenuti censurati dalla repressione sociale che grava
sul sesso;
3, “ritorno del represso come presenza di contenuti censurati da una repressione ideologico-
politica”.
Il ritorno del represso si manifesta in particolare nelle figure retoriche e nei passi a più ampia
densità figurale. Quindi bisognosi di interpretazione, e ha una valenza testuale da individuare con
precisione.
Orlando mira quindi all’analisi del testo prima che a quella dell’autore (anche se non considera
secondarie le questioni biografiche) e coniuga le teorie freudiane con quelle marxiste di analisi
sociale e quelle linguistico-strutturaliste.

Capitolo 3
L’AREA MARXISTA: TEORICI E CRITICI
I fondamenti della teoria letteraria e della critica marxista sono da ricercarsi nelle indicazioni –
scarse ma significative–presenti nelle note sull’arte di Marx (1818-1883) e di Engels (1820-1895).
In “Scritti sull’arte” di Friedrich Engels
• «Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati,
necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.
• L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia
la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale.
• Il modo di produzione della vita condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro
essere sociale che determina la loro coscienza».
Determinismo economico
La vita materiale condiziona direttamente i processi spirituali, a livello del singolo e della
collettività.
Struttura: Forze di produzione + Rapporti di produzione
• Forze di produzione: mezzi tecnici (energia, materie prime, strumenti, conoscenze tecniche e
tecnologia)
• Rapporti di produzione: rapporti di natura economica e sociale generati dalla divisione del
lavoro e della proprietà
Sovrastruttura: Insieme delle istituzioni giuridiche, politiche, credenze religiose, morali, filosofiche
vigenti in una data società.
STRUTTURA ECONOMICA E SOVRASTRUTTURA INTERAGISCONO IN MODO DIALETTICO
CONDIZIONANDOSI VICENDEVOLMENTE.
INTRECCIO STRUTTURA- SOVRASTRUTTURA
“Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la
potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante.”
CONTRO LE CATEGORIE UNIVERSALI
Arte: genesi storica
Impossibilità di dare giudizi e definizioni universali
LE TEORIE LETTERARIE CHE PRETENDONO DI ATTRIBUIRE ALLA LETTERATURA UN
CARATTERE DI UNIVERSALITÀ APPARTENGONO ALL’IDEOLOGIA (ALLA FALSA
COSCIENZA DEL REALE CHE LA CLASSE DOMINANTE ELABORA A SUO USO E
CONSUMO)
• L’ideologia non è che l’espressione ideale di determinati rapporti materiali: con essa si presenta e
rappresenta (e in questo gli intellettuali giocano un ruolo di primo piano) l’interesse dalla classe
dominante come interesse comune di tutti i membri della società, dando alle sue idee la forma
dell’universalità.
• Progressivamente l’ideologia si rende indipendente dai rapporti materiali e di classe che l’hanno
originata, ponendosi rispetto ai membri della società come norma di orientamento culturale e di
condotta, come strumento materiale e morale di dominio su di essi.
• «[…] L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza,
ma con una coscienza falsa.
• Le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe più di
processo ideologico. Così egli immagina delle forze motrici false o apparenti.»
Storicismo
• Le manifestazioni «spirituali» dell’uomo sono quindi espressione della base socio-economica da
cui derivano.
• Nell’arte, definibile solo in termini concretamente storici, sono riflessi, ma in modo non
meccanicamente mimetico, i reali rapporti socioeconomici che si instaurano in un determinato tipo
di società.
• Immagine tuttavia mistificata e mistificante perché è prodotta da una «falsa coscienza» (per Marx
ideologia), non prodotta dalla realtà materiale che l’ha creata.
CRITICA MARXISTA
• Non è interessata a emettere il crociano giudizio estetico, per sua natura sovrastorico, ma cerca
conferme alle affermazioni di Marx sull’egemonia anche spirituale della classe dominante.
• Avendo un obiettivo gnoseologico l’arte non può che essere realistica e la critica è
categoricamente storicistica.
• L’arte fa conoscere, collabora a radicare e diffondere le idee dominanti (naturalizzate, rese
innocenti) e sarà parimenti utile per trasformare quelle stesse idee.
UTILITA’ + IMPEGNO ETICO-IDEOLOGICO
Teoria del realismo
• Dal punto di vista marxista, il Realismo non è una caratteristica dell'arte ma una vera e propria
tendenza, che esprime la poetica più adeguata a rappresentare le contraddizioni della società
capitalistica. Questo perché l'arte realistica è l'unica in grado di mettere a confronto con la realtà il
sistema elaborato dalla classe dominante, reso universale, e dunque di denunciarne la falsità.
• La letteratura deve utilizzare le sue potenzialità di denuncia per risvegliare la coscienza degli
uomini e portarli alla mobilitazione.
• «[…]la tendenza deve sorgere dalla situazione e dall’azione stesse senza che vi si faccia
esplicitamente riferimento, e il poeta non deve dare al lettore già bella e pronta la futura soluzione
dei conflitti sociali che descrive» (Engels)
Marx ed Engels sono sostenitori della teoria estetica del «nonostante che» (PaoloOrvieto):
Nonostante che uno scrittore abbia idee reazionarie, se ci dà un quadro esauriente della società
è un grande della letteratura.
Esempio (Engels): «[…] Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga maggiore di
tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comédie humaine un’eccellente
storia realistica della società francese poiché […] descrive la spinta sempre crescente della
borghesia in ascesa contro la società nobiliare […]. Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la
sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; […] Ma
nonostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara, come
quando fa entrare in azione proprio gli uomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, e
cioè i nobili.»
Metodo critico (Carlo Salinari) Introduzione a Scritti sull’arte di Engels, 1973
1. Necessità di individuare con esattezza la genesi storica dell'opera d'arte, collocandola all'interno
della tradizione e della situazione reale - operazione indispensabile per cercare di arrivare a un
massimo di oggettività riguardo al gusto estetico.
2. Scomposizione dell'opera nelle sue varie parti e analisi dei rapporti tra di loro e tra il loro
insieme e la situazione reale in cui nasce l'opera - rapporti che possono essere di somiglianza o di
dissimiglianza, e quindi che ci permettono di apprezzare le costanti o le devianze dell'opera stessa.
3. Analisi finale dell'opera tenendo presenti tutte le informazioni ricavate dallo studio della sua
genesi storica e dalla sua scomposizione in parti.
4. Formazione di un giudizio sull'opera (giudizio di valore), secondo parametri prettamente
pragmatici, in particolare sulla maggiore o minore validità della rappresentazione dell'opera della
situazione reale, e quindi della maggiore o minore validità dell'opera in quanto portatrice di un
messaggio reale, vero, non-ideologico (in senso marxista), cosciente.

Letteratura e società
• La sociologia della letteratura è considerata tradizionalmente fiancheggiatrice se non derivazione
della teoria e critica marxiste, in quanto ricerca sistematica dei rapporti, reciproci, tra letteratura e
società.
• Molti dei teorici e critici marxisti possono essere considerati anche teorici e fondatori di una
sperimentale sociologia della letteratura.
• I reciproci rapporti tra opera d’arte e società è anche il tema portante della linea marxista o
premarxista della Scuola di Francoforte.
1922: Si forma il nucleo originario della Scuola di Francoforte presso il celebre Istituto per la ricerca
sociale, fondato da Felix Weil e diretto da Karl Grunberg (marxista, storico austriaco).
Principali esponenti (intreccio di filosofia, sociologia, psicologia, critica letteraria) :
-Max Horkheimer
-Theodor W. Adorno
-Walter Benjamin
-Herbert Marcuse
-Erich Fromm
-JürgenHabermas
1936: Horkheimer inaugura la «Rivista per la ricerca sociale», prestigioso Organo della scuola, di
fama internazionale.
Da Francoforte agli USA
• Con l’avvento del nazismo il gruppo francofortese deve emigrare all’estero, prima a Ginevra, poi
a Parigi e, infine, a New York (la stessa sorte si era abbattuta sul Circolo di Vienna, un gruppo di
scienziati e filosofi che si riunivano periodicamente a Vienna, appunto, dando vita al
Neopositivismo; anche gli esponenti di questa «concezione scientifica del mondo» a partire
dall’Anschluss e migrarono per lo più negli Stati Uniti).
• Al termine della Seconda Guerra Mondiale: alcuni esponenti della scuola sono rimasti negli
Stati Uniti (Marcuse, Fromm, Neumann) altri, come Horkheimer, Adorno e Pollock, sono tornati
in Germania ed hanno dato di nuovo vita all’Istituto per la ricerca sociale.
OBIETTIVI DELLA SCUOLA DI FRANCOFORTE:
Sul piano filosofico la Scuola di Francoforte è sostanzialmente una teoria critica della società
presente, alla luce dell’ideale rivoluzionario di un’umanità futura libera e disalienata, ossia una
forma di pensiero negativo proteso a smascherare le contraddizioni profonde dell’esistente. Il
compito che la Scuola si prefigge: svolgere ricerche collettive e interdisciplinari, tenendo presenti i
metodi della sociologia, della ricerca storica, dell'economia politica e del marxismo.
• Oggetto di studio: sono le società industriali e i modi di vivere che in esse tendono a realizzarsi.
L'indagine è volta ad analizzare l'autoritarismo, il conformismo, l'alienazione che si presentano in
forma più o meno latente nelle società industrializzate
• La scuola di Francoforte si rifà a tre autori fondamentali: Hegel, Marx e Freud.
Walter Benjamin (1892-1940)
• «Marxista più per forza degli eventi che per talento naturale» scrive Paolo Orvieto, sicuramente
marxista non ortodosso, ma gran parte delle sue riflessioni sono svolte in prospettiva materialistica
e con grande attenzione ai problemi del marxismo anche se in modo critico. Critico e filosofo
eclettico, riflette anche sulla mistica ebraica.
• Figure fondamentali per il suo avvicinamento al marxismo: Asja Lacis (regista lettone con cui
inizia una relazione intellettuale e sentimentalenel1924) e Berthold Brecht (conosciutonel1928).
• Vita estremamente travagliata: Fallisce il tentativo di abilitarsi come professore universitario (tesi
non accettata nel 1924), si trasferisce a Parigi (1933), internato come cittadino tedesco nel 1939,
dopo l’occupazione tedesca fugge al confine con la Spagna, braccato, dopo il mancato visto per gli
USA, si suicida nel 1940.
Opere antologizzata “Il dramma barocco tedesco”, 1928
Discontinuità
Estremamente originale l’elaborazione finale di Benjamin sulla storia (Tesi sul concetto di storia):
• La rivoluzione non è il punto di arrivo, garantito alle classi oppresse dal progresso linearmente
avanzante, ma un’intermittenza della storia, un punto di rottura del continuum temporale, che può
espandersi o contrarsi di nuovo per il ritorno al potere del «corteo dei vincitori».
• Ragiona sulla storia a partire dall’idea di discontinuità (polemica storicismo): occorre partire
dalle esigenze del presente e chiamare a raccolta le opere del passato, soprattutto quelle interrotte,
represse, ridotte al silenzio.
• Critico: deve strappare le opere dal loro tempo di origine per sprigionare ciò che ancora
interessa il momento attuale.
Quando l’opera si afferma in quanto «rovina», allora si carica del contenuto di verità, di uno
spessore ideologico che appartiene tanto all’opera quanto all’interprete, che è sempre un
«ideologo», un filosofo e perciò libera l’oggetto dalla sua tradizione per estrapolarne significati
inediti, polemici e provocatori rispetto alla continuità storica.
Il passato illumina il presente e viceversa e solo in un determinato presente è possibile quella
interpretazione del passato.
L’allegoria, preferita al simbolo, apre al «contenuto di verità» perché incorpora nell’oggetto (nel
testo) un significato(l’idea) segreto, più ampio.
Parole chiave
Allegoria: categoria fondamentale dell’estetica di Benjamin che trova applicazione in tutti e tre gli
ambiti della sua critica: il Barocco tedesco, il Moderno di Baudelaire e l’Avanguardia del primo
Novecento. (Alla trattazione dell’allegoria è dedicata la seconda parte del Dramma barocco
tedesco, intitolata Allegoria e dramma barocco.)
Allegoria vs Simbolo
Mentre il simbolo richiama classicamente l’idea della bellezza, plasticità, organicità (illusione
pienezza di senso), l’allegoria esibisce baroccamente il suo statuto anticlassico e perciò brutto,
enigmatico, frammentario, disorganico (lavoro di congiunzione dei frammenti in una
composizione ipotetica)
• «La storia in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di inopportuno, di doloroso, di sbagliato, si
configura in un volto – anzi: nel teschio di un morto. E benché a questo manchi ogni libertà
‘simbolica’ dell’espressione, ogni armonia classica della forma, ogni umanità – non soltanto la
natura dell’esistenza umana tout court, ma anche la storicità biografica di un singolo si esprime
significativamente, in forma di enigma, in questo suo aspetto, l’aspetto naturale supremamente
degradato. […] Con ciò l’allegoria si pone al di là della bellezza.»
• Mortificazione delle opere: non, quindi – romanticamente – risveglio della coscienza nelle opere
viventi, bensì insediamento del sapere in esse, nelle opere morte. La bellezza che dura diventa
oggetto del sapere […]. Quel che certo rimane è che senza qualcosa che sia degno di sapere
nell’interno non si dà bellezza. […] • Oggetto della critica filosofica è dimostrare che la funzione
della forma artistica è appunto questa: rendere quei concreti contenuti storici che stanno alla base
di ogni opera significativa contenuti di verità filosofica.»
CHOC (urto, trauma, scandalo, impatto)
Lo choc allegorico è un’arma, anche politica, con cui partecipare a una positiva catastrofizzazione
apocalittica- rivoluzionaria della storia. L’allegoria rivela così il suo valore non solo estetico
artistico ma anche teologico-politico. Significa qualcos’altro da ciò che è, è bruttezza che può
ribaltarsi in nuova bellezza, frammento in nuova totalità, distruzione in redenzione. L’allegoria è la
forma critica di un’anti-arte che può ribaltarsi nella nuova rivoluzione. Intima affinità lega per
Benjamin l’allegorista barocco e l’intellettuale artista-tecnico rivoluzionario de L’autore come
produttore (conferenza tenuta a Parigi nel 1934).
Il marxismo letterario è da lui riformulato in modo originale:
• La scrittura letteraria non è chiamata a «rappresentare» dall’esterno il movimento storico della
realtà politico-economica (come nella teoria del realismo, formulata anche da Lukács), ma deve
situarsi dentro i rapporti di produzione e cercare di essere a sua volta produttiva.
• Scardinato quindi il rapporto struttura-sovrastruttura.
• L’analisi della produttività avviene tramite l’analisi della tecnica letteraria solo la «tendenza
letteraria», quindi le scelte tecniche del testo, possono ricondurre alla tendenza politica dell’autore
e quindi far formulare un giudizio.
Montaggio
• Il compito del critico è duplice: partire dai frammenti storici, deautomatizzarli dal loro
significato consueto e stabilito dalla classe dominante e, allora – tramite un effetto choc e di
risveglio – far esplodere i dati (il testo) verso nuovi significati che sfuggono alla gestione borghese;
farli esplodere verso il futuro (passato e presente si illuminano a vicenda) impregnati di nuove
intenzionalità.
• Nei passage scriverà che bisogna «adottare nella storia il principio del montaggio», considerando
il montaggio letterario come principio epistemologico su cui fondare un nuovo approccio, di
stampo materialistico e antistoricistico, alla storia e alla critica della cultura, alla ricerca di
«immagini dialettiche» (momento in cui il passato si contrae nell’attimo ed entra a far parte
dell’umanità redenta, momento del risveglio, cesura nel movimento del pensiero)
Da I «passages» di Parigi
• «La prima tappa di questo cammino consisterà nell’adottare alla storia il principio del
montaggio. Nell’erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi
costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo
momento il singolo cristallo dell’accadere totale. Nel rompere, dunque, con il naturalismo storico
popolare. Nel cogliere la costruzione della storia in quanto tale. Nella struttura del commento.
• […] Nell’immagine dialettica, ciò che è stato in una determinata epoca è sempre, al tempo stesso,
il «da sempre-già-stato». Ma ogni volta esso si manifesta come tale solo agli occhi di un’epoca ben
precisa: ovvero quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio
quest’immagine di sogno. […] lo storico si assume il compito dell’interpretazione del sogno.
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936
Più facilmente assimilabile alla critica marxista è il Benjamin interprete della cultura e arte di
massa:
• Nella riproducibilità tecnica dell’arte – esasperata dalla fotografia e dal cinema – vede la perdita
dell’«aura» della prima unica e irriproducibile opera d’arte, perciò oggetto sacro di culto,
sconsacrato dalla moderna riproduzione in serie.
• Questa desacralizzazione tuttavia apre l’opera alla valutazione sociale e politica.
• La tecnica offre chance rivoluzionarie che possono essere sfruttate in senso produttivo o
distruttivo.
Decadenza dell’aura
• L’avvento delle nuove tecniche artistiche, come la fotografia e il cinema, cambia le modalità
dell’arte in genere.
• Mentre le forme classiche (come la pittura) si basano sull’unicità dell’opera, cioè sul valore
esclusivo dell’originale rispetto alle copie, nella fotografia e nel cinema l’opera può riprodursi in
un infinito numero di copie tutte perfettamente equivalenti all’originale, che di per sé non esiste
più.
• La «riproducibilità tecnica» porta le opere verso il pubblico con molto maggiore disponibilità di
quanto non accada al pezzo unico (andando incontro all’urto e allo choc)
• Mentre l’oggetto d’arte esclusivo si allontana in una particolare atmosfera (aura) sacrale ed è
trattato come una specie di culto, nelle moderne arti Benjamin vede avanzare il «valore
espositivo», cioè la possibilità di un’esperienza più diffusa e libera dei prodotti artistici.
«Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di ‘aura’; e si può dire:
ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’‘aura’ dell’opera d’arte. […] La tecnica
della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il prodotto all’ambito della
tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto d’un evento unico una serie
quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce
nella sua particolare situazione, attualizza il prodotto. […] il cinema. Il suo significato sociale,
anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in essa, non è pensabile senza quella distruttiva,
catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale.»
Di alcuni motivi in Baudelaire, 1939 (esempio di analisi testuale)
Baudelaire per Benjamin era autore decisivo della modernità e prototipo di allegoria moderna. Al
centro del saggio c’è il tema della perdita dell’aura che si incontra con la «caduta dell’aureola»
descritta da Baudelaire in un passo la cui importanza, scrive «non risulterà mai sopravvalutata».
Interessante (e poco marxista ortodosso) è il modo di congiungere realtà esterna e immaginario
testuale, senza esimersi mai dall’analisi minuziosa del testo.
-La massa è talmente intrinseca a Boudelaire che si cerca invano in lui una descrizione di essa.
Come i suoi oggetti essenziali non appaiono mai, o quasi, in forma di descrizioni.
-Baudelaire non descrive la popolazione né la città. E proprio questa rinuncia gli ha permesso di
evocare l’una nell’immagine dell’altra. La sua folla è sempre quella della metropoli, la sua Parigi è
sempre sovrapopolata. La massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi.
Analisi del sonetto “A una passante”
L’esperienza della folla è per Benjamin al centro del testo di Baudelaire anche quando non appare.
Si tratta della costellazione segreta, del significato allegorico secondo. Con il realismo: la presenza
degli oggetti è ancora più forte se essi sono coperti da un velo. Il sonetto viene analizzato nel segno
dello choc, che per un attimo estranea la passante della folla, ma subito la fa ricadere nella
moltitudine.
Illuminazione-catastrofe azione-contrazione
Theodor W. Adorno e il marxismo
• Conduce una critica della società borghese su basi hegeliane e marxiste, tenendo anche conto
degli apporti forniti dalla psicoanalisi.
• A suo avviso, con il passaggio al capitalismo la vita individuale diviene pura funzione delle
forze oggettive che governano la società di massa; la sfera individuale si riduce all'ambito fittizio
del consumo.
• In tale condizione, la produzione dell'alienazione si manifesta in quanto struttura e
sovrastruttura risultano intrecciate in una connessione di accecamento sociale.
• La cultura si riduce a industria culturale e la scienza è asservita al profitto, diventa cioè
strumento di dominio sulle cose e sugli uomini.
Industria culturale
• Adorno e Horkheimer coniano la locuzione «industria culturale» per evitare di utilizzare
l’espressione «cultura di massa» (che potrebbe far pensare ad una cultura che scaturisce
spontaneamente dalle masse stesse).
• L’industria culturale, invece, allude alla «preordinata integrazione, dall’alto, dei suoi
consumatori» dove questi ultimi non sono per nulla i sovrani, i soggetti, di tale industria, bensì gli
oggetti.
• L’industria culturale suscita i bisogni e determina i consumi degli individui, rendendoli passivi e
etero-diretti, annullandoli come persone e riducendoli ad una massa informe: «L’industria
culturale, la società ultra organizzata, l’economia pianificata hanno beffardamente realizzato
l’uomo come essere generico: privo di coscienza individuale, di iniziativa morale autonoma,
manipolato a piacere» (Dialettica dell’illuminismo). L’individuo, come essere generico, diventa
«l’assolutamente sostituibile, il puro nulla».
• L’industria culturale (che produce merci culturali) è il mezzo attraverso cui il sistema impone
valori e modelli di vita funzionali al dominio di classe delle minoranze, creando vaste zone di
consenso.
• Le società nazi-fasciste, socialiste e capitaliste sono ugualmente caratterizzate dal dominio della
razionalità strumentale (ratio tecnologica).
• «Adorno è fuggito dalla Germania nazista e viene a contatto diretto con l’altra faccia della società
di massa: dal totalitarismo della violenza del nazismo a un’altra forma di totalitarismo quello
fondato sull’onnipotenza del mercato. Mentre il primo riduce la società ad una caserma, spinge
un’intera nazione all’autodistruzione della guerra totale e insieme progetta l’eliminazione fisica di
un intero popolo, il secondo agisce sulle emozioni, gli affetti, gli impulsi, soprattutto quelli latenti,
per fare della società un grande supermercato.» (Ricciardi M., La comunicazione. Maestri e
paradigmi, La Terza, 2010, p.147)
Il NEOCAPITALISMO sfrutta, ai fini della propria conservazione, l’idea della “bontà” del sistema
e della “felicità” degli individui eterodiretti che lo costituiscono.
La critica a Benjamin
• Adorno critica aspramente Benjamin e la sua distinzione tra un’arte assoggettata al sistema
(come la fotografia nella pubblicità) e un’arte autentica, politicizzata, capacedi smuovere le masse:
il nuovo sistema capitalistico-industriale ingloba infatti ogni cosa, alimentandosi e fagocitando
anche ciò che apparentemente sembrerebbe andargli contro.
• Secondo Adorno Benjamin pecca di ingenuità: le coscienze del proletariato che nelle teorie di
un’arte “del popolo” dovrebbero recepire le opere artistiche politicizzate sono in realtà già
“precostituite” dal sistema: il collettivo non è cioè in grado di valutare e recepire l’arte, in quanto i
suoi gusti e le sue scelte, per quanto egli si creda libero, sono standardizzate e pilotate dal
mercato e dal sistema, il quale “addormenta” le coscienze
Teoria estetica (1970)
• Ciò che nell’estetica contemporanea per Benjamin è solo una mutazione, accettabile perché
«tecnicamente» inevitabile, si tramuta in catastrofismo nelle incursioni letterarie di Adorno: la
massificazione e commercializzazione nelle società moderne privano l’uomo di ogni identità, lo
disumanizzano.
• La salvezza sta anche nella filosofia e nell’arte, ma non in quella di consumo, bensì in quella che
contrappone l’individuo alla società, che si oppone alla violenza della società industriale, che non
si allinea e smaschera la produzione programmata e mercificata della cultura di massa.
• Siamo agli antipodi del realismo: l’arte, quella contestatrice, è solo quella moderna. I campioni
per lui sono Beckett e nella musica Schönberg, che propongono un’arte solipsisticamente negativa,
un’arte della non-prassi. Solo in un tipo di arte di questo genere ci potranno essere scintille di
libertà vera.
“Il marxismo diventa elitario” (Paola Orvieto, pag 145)
«[…] Nel mezzo dell’utilità dominante, l’arte ha dapprima realmente qualcosa dell’utopia in
quanto è l’Altro, è quel che è esente dall’ingranaggio del processo di produzione e riproduzione
della società, è ciò che non è sottoposto al principio di realtà.
• […] Il contenuto di verità delle opere d’arte va giudicato in base alla misura in cui esse sono
capaci di configurare l’altro procedendo dal sempre-uguale. Nell’opere d’arte e nella riflessione su
di essa lo spirito viene preso in sospetto poiché esso può intaccare il carattere di merce dell’opera e
mettere in pericolo la sua sfruttabilità sul mercato.» (p.175)
La musica: arte elitaria
• Esalta il concetto di musica come luogo di conoscenza, opponendosi alla musica mercificata e
standardizzata della radio e del jazz (da lui inteso come emblema della musica commerciale).
• L’unica arte possibile è un’arte completamente refrattaria al mercato: Adorno a tale
proposito parla di musica difficile, dissonante, non divulgabile, cacofonica, elitaria (musica
dodecafonica di Arnold Schönberg): un tipo di arte (criptica) che crea conoscenza (indiretta) e
pretende conoscenza e coltezza nell’ascoltatore.
• Questa musica nuova e radicale provoca nell’ascoltatore non una conciliazione, ma una
rottura, uno straniamento, svolgendo una sorta di azione guastatrice: spaesando, inquietando,
facendo sorgere domande. Solo in coloro che hanno gli strumenti conoscitivi per comprenderla.

Capitolo 4
Fenomenologia, ermeneutica, testualità e teoria della ricezione
Nello strutturalismo e nella semiologia, il soggetto, inteso come lettore e interprete di un testo
(specificatamente letterario) è emarginato in nome di un metodo sovraindividuale che si professa
scientificamente e universalmente valido.
Con la fenomenologia in parte e, soprattutto, con l'ermeneutica novecentesca, questa concezione
cambia radicalmente, il significato è trascendente rispetto alle singole interpretazioni, incluso una
volta per tutte nel testo (dall'autore stesso o dalle strategie testuali), oppure il significato si forma e
si altera nelle vischiose maglie dell'interpretazione, in continua e instabile mutazione (secondo cicli
storici o situazioni del soggetto lettore).
A partire da Husserl (padre della fenomenologia) la realtà è solo quella che viene percepita (e
configurata) dalla nostra personale coscienza: gli oggetti sono "intenzionati" dalla coscienza di chi
li percepisce. Ma questo non vuol dire che la sostanza (l'essenza) dell'oggetto percepito, nel nostro
caso il testo letterario, si modifichi di volta in volta a seconda delle differenti realizzazioni operate
dalle singole coscienze: l'oggetto ha e mantiene una sua struttura essenziale che permane immutata
attraverso le innumerevoli esperienze di lettori e interpreti: ha una sua struttura fisica-ontologica
verificabile.
Quindi ammessa un'ampia gamma di interpretazioni, sussiste pur sempre un criterio di maggiore
o minore approssimazione alla verità dell'oggetto: l'interpretazione è circoscritta. C'è un categorico
rifiuto di ogni metodologia o ideologia aprioristica universalmente valida (idealismo crociano,
marxismo, strutturalismo, semiologia, psicoanalisi, ecc).
L'interpretazione inizia e si risolve nel dialogo tra soggetto e oggetto, quest'ultimo non è in balia
della coscienza dell'interprete, ma è un prodotto unitario e omogeneo di una coscienza, quella
dell'autore, implicato nel testo.
L'oggetto (il testo) non esiste al di fuori della coscienza del lettore ed è anche il prodotto organico
di una mente pensante, della coscienza dell'autore che, quindi, quale funzione catalizzatrice,
organizza tutti gli elementi testuali, innanzi tutto al livello superiore dei significati, in sistematiche
reti tematiche. Il critico deve perforare la superficie, per andare oltre il testo e far emergere la
griglia di temi (spesso radicati nel profondo).
In Italia una contenuta apertura fenomenologica è attuata da Anceschi, ma soprattutto da Umberto
Eco, primo avanguardista teorico dell'"apertura" semantica dell'opera letteraria, poi paladino de "I
limiti dell'interpretazione". Eco dalla sua posizione fenomenologica afferma che bisogna scegliere
tra intentio auctoris (che postula un senso immutabile del testo, basato sulle intenzioni dell'autore,
è l'assioma della critica erudita o filologica) e intentio lectoris (che autorizza l'anarchia delle
interpretazioni) e intentio operis: il significato dell'opera, radicato nella struttura semantica
portante, può espandersi in più direzioni, anche oltre le intenzioni dell'autore, ma sempre entro un
non illimitato perimetro ermeneutico. Il lettore empirico non può disattendere del tutto il "lettore
modello" che l'opera ipotizza e presuppone.
Un testo è un artificio teso a produrre il proprio lettore modello. Il lettore empirico è colui che fa
una congettura sul tipo di lettore modello postulato dal testo. Il che significa che il lettore empirico
è colui che tenta congetture non sulle intenzioni dell'autore empirico, ma su quelle dell'autore
modello. L'autore modello è colui che, come strategia testuale, tende a produrre un certo lettore
modello. Ed ecco che a questo punto la ricerca sulla intenzione dell'autore e quella sulla intenzione
dell'opera coincidono, nel senso che autore (modello) e opera (come coerenza del testo) sono il
punto virtuale a cui mira la congettura.
Jean-Paul Sartre parla di una critica che parte da premesse filosofiche e dalla sua esperienza
diretta. Nel saggio programmatico "Che cos'è la letteratura?" troviamo considerazioni sulla lettura.
L'opera d'arte è, in quanto mondo dell'immaginario, antirealtà. Torna l'assioma fenomenologico: la
realtà in sé non ha senso, ha il significato che le conferisce la mia coscienza. L'opera d'arte non
esiste nella realtà, assurge alla vita solo grazie ai lettori, ai quali si "appella" per esistere: "il lettore è
consapevole di svelare e di creare nello stesso tempo, di svelare e di creare svelando". I dati iscritti
nel testo sono incontrovertibili e oggettivi (guidano la lettura), ma il lettore va oltre i segni scritti,
verso l'inespresso, verso la struttura profonda e il "silenzio". Lo svelamento-creazione è un atto di
immaginazione che si sovrappone all'atto di immaginazione dell'autore, che perciò limita l'arbitrio
del lettore.
L'obiettivo della lettura è dunque quello di ricostituire la coscienza performante e intenzionale
dello scrittore, semmai tramite la "psicanalisi esistenziale", cioè l'evidenziazione degli oggetti, della
qualità in cui il soggetto ha scelto di incorporare la libertà della sua scelta originaria.
Un più stretto collegamento dell'ermeneutica col soggetto interpretante si ha con il vero fondatore
dell'ermeneutica novecentesca, il grande filosofo Martin Heidegger. L'oggetto (il testo) non ha più
una sua stabilità essenziale, perché ogni interpretazione si fonda su di una "pre-comprensione":
comprende il testo secondo idee precostituite essendo ogni interprete incastonato- quasi incastrato-
in un tempo e in una situazione storica, con le sue idee e distorsioni.
L'oggetto (il testo) è determinato dalla situazione storica e, per di più, non è mai conoscibile come
essenza in sé ma solo nel e tramite il linguaggio, bensì il linguaggio è "la casa dell'essere".
Tra i più acclamati seguaci di Heidegger va citato Hans Georg Gadamer. Egli rivendica per le
discipline umanistiche esperienze extrametodiche: solo nei settori scientifici valgono il metodo e la
verifica obiettiva. Comprendere non è mai un'operazione vergine, non avviene al di fuori delle
heideggeriane "pre-comprensioni", al di fuori di un alveo che G. chiama "pregiudizio", scavato da
società, famiglia, ceto, nazione ecc. Il pregiudizio, proprio perché inalienabile, perde il valore
negativo (gnoseologico ed etico) che aveva prima; così come anche il concetto di "autorità" non
significa più "sottomissione e obbedienza", bensì l'inevitabile punto di riferimento di ogni processo
ermeneutico. La comprensione non è un atto ingenuo, ma un più o meno volontario e inevitabile
ossequio all'autorità e alla tradizione, anch'essa rivalutata. L'opera d'arte è determinata dalle sue
interpretazioni che, variando da situazione a situazione, da orizzonte a orizzonte di comprensione,
mutano l'opera stessa. La comprensione è un dialogo, uno sforzo, in cui sono implicati tanto il
soggetto interpretante quanto l'oggetto da interpretarsi; è un progressivo adattamento dell'io
all'altro, per cui non tutti i pregiudizi- nel dialogo resi coscienti- si riveleranno parimenti utili per
la comprensione. L'obiettivo ultimo è la "fusione di orizzonti".
Parzialmente affiancabile al dialogo della comprensione gadameriana è pure la polifonia o
dialogicità di Michail Bachtin, pluridiscorsività che riguarda sia la produzione che la ricezione
dell’opera d’arte, contro la ricezione monologica della linea hegeliano-idealistica (e se vogliamo
marxista): ogni testo artistico, in quanto prodotto di un autore, di una persona-soggetto: non è
quindi una “cosa” come il testo scientifico, dialoga con un’altra coscienza (quella del critico); al
momento dell’interpretazione entra in un complesso e variegato contesto; ogni testo “è sempre
dentro questo contesto incompiuto”, attraversato da più voci auscultabili ma mai esauribili o
meglio sono circoscrivibili a seconda del nuovo contesto dell’interprete (in ogni dialogo il lettore
rivolge le proprie domande al testo). “La conoscenza dialogica ha il carattere di evento”. E poi alla
comprensione si assomma sempre la valutazione, le prospettive e i codici etico-ideologici.

Nel dibattito sulla più o meno aperta (o storicizzata) competenza del lettore entrano i componenti
della cosiddetta Scuola di Costanza, con esponenti più significativi Wolgar Iser e Hans Robert
Jauss.
Secondo Iser ogni testo esibisce tecniche e convenzioni letterarie imposte dall’epoca: in primo
luogo le dipendenze extratestuali, il “repertorio”, “esso può avere la forma di riferimenti alle opere
precedenti o a norme storiche e sociali, o a tutta la cultura dalla quale il testo è emerso”.
Il testo può confermare o, nelle opere più significative, destabilizzare o modificare questa realtà
extratestuale. Il testo si presenta al lettore con le sue “strategie” intratestuali, con l’organizzazione
strutturata, sull’asse della jakobsoniana “combinazione”, degli elementi interni, che perciò
circoscrivono sia il significato dell’opera che le possibilità interpretative del lettore.
La lettura, tramite la parziale trasgressione del testo, modifica il lettore, lo rende cosciente dei
propri limiti: i testi (migliori) provocano, nei lettori (migliori), la “negazione”, l’”evocazione di
elementi familiari e determinati soltanto per cancellarli”. La lettura è il risultato di un processo
biunivoco, tra un interprete che in un certo modo produce il testo e un testo che con le proprie
“strategie” inquadra la lettura in una cornice predeterminata, per cui “l’opera letteraria non
coincide mai completamente né con il testo, né con la sua concretizzazione.
Ogni opera, per natura polisemantica, per non dispendere all’infinito il proprio significato,
programma il suo “lettore implicito”, una ipotetica indicazione di ruolo per il lettore reale; e
tuttavia la lettura non potrà mai comunque esaurire il testo: permangono sempre degli spazi vuoti.
In sostanza la lettura non è mai un processo lineare e programmabile verso il nocciolo di “verità”,
ma è essa stessa un complicato gioco di “pretensioni” e “ritenzioni”, di aspettative formulate,
tradite o modificate, un “punto di vista vagante”.

Ancor più risolutamente per Jauss, la letteratura è determinata dalla sua ricezione storica, ogni
“orizzonte di interpretazione” muta l’opera letteraria. Nel saggio “Storia della letteratura come
provocazione nei confronti della scienza della letteratura”, J. contesta, oltre alle tradizionali storie
positivistiche o idealistiche, ogni riduzione teorica e astratta dell’arte. L’interpretazione, dipende
invece inesorabilmente dalla permutabilità delle varie ricezioni storicamente disposte, dagli
“effetti”, piuttosto che dai valori.
Nel triangolo della comunicazione (autore, opera e pubblico) l’obiettivo andrà spostato sul terzo
elemento, da sempre trascurato. Piuttosto che storia della letteratura, storia delle varie ricezioni
della stessa opera (diacronia di sistemi sincronici, come per i formalisti russi).
Scrittura (testo) e lettura sono due entità che si condizionano a vicenda: la lettura cerca di trasferire
il testo dal suo passato, dalla sua alterità, al presente, alla visione dei lettori storicamente dislocati,
sui quali agisce in profondo. Perché la lettura sia davvero trasformativa, Jauss riattiva (nella sua
fase più matura) il “piacere” di leggere, studia la possibile compartecipazione con i personaggi. La
lettura non è solo un piacere ma implica, soprattutto se si tratta di critica, anche l’obbligo di
oggettivare gli orizzonti del passato.
Esiste per Jauss, come per Eco, una sorta di intentio operis: l’opera è aperta e, tuttavia, circoscrive i
suoi significati nella dimensione del comunicabile e del sociale. Ogni nuovo orizzonte trasforma
l’opera (salvandola dall’oblio), tuttavia trascinandosi dietro le originarie direttive semantiche,
limitando così l’arbitrio del lettore. Comprendere sta allora, come per Gadamer, nella fusione di
due orizzonti, del passato e del presente. La parziale stabilità semantica è assicurata
“dall’orizzonte d’attesa” che “predispone il suo pubblico ad una forma ben precisa di ricezione”.
Senza più barriere o freni inibitori (di carattere soprattutto culturale) è il “piacere del testo”
propagandato da Roland Barthes, un piacere che nasce da premesse contestatarie, letterarie e
politiche, se vogliamo: siamo prossimi al famigerato ’68.
L’intelligenza di B. decontamina in parte il piacere della lettura da implicazioni troppo
scopertamente politiche, per fargli esprimere il fastidio, viscerale, per tutto ciò che è stereotipo. La
lettura è un modo per annientare il fastidio del già detto. B. arriverà a dire che “ogni lingua”,
perché codificata, “è fascista”.
Già in “critica e verità” aveva contestato “l’asimbolia” della critica accademica, distinguendo dalle
più oggettive “scienza della letteratura” e “critica”, la “letteratura” stessa, che si costituisce non
sulla razionalizzazione ma sul desiderio: riempie della propria soggettività (o sovrascrittura) i
vuoti della ragione e degli alienati codici.
Nel testo antologizzato “Sulla lettura” presente ne “Il brusio della lingua”, B. afferma che ogni
lettura è attraversata dal desiderio. Ogni lettura si svolge all’interno di una struttura e non nello
spazio presunto libero di una presunta spontaneità: non esiste alcuna lettura “naturale” o
“selvaggia”, la lettura non oltrepassa la struttura, ma è ad essa sottomessa, ne ha bisogno, la
rispetta.
Il desiderio non può essere nominato e neppure detto, tuttavia è evidente che esiste un erotismo
della lettura. B. porta come esempio l’episodio della “Ricerca del tempo perduto” in cui Proust ci
mostra il giovane narratore mentre si chiude nei suoi cabinets di Combray a leggere.
La lettura desiderante appare quindi contrassegnata da due tratti fondamentali:
-Isolandosi per leggere il soggetto-lettore viene interamente trasportato nel registro
dell’immaginario in cui si identifica con altri soggetti umani. Tutta l’economia del suo piacere
consiste nel coltivare il rapporto dualistico con il libro, con il quale si rinchiude da solo, cui sta
incollato e “col naso sopra”.
-Il secondo tratto è dato dal fatto che durante la lettura, nel corpo si mescolano e si intrecciano tanti
moti diversi: il fascino, la “vacanza”, il dolore, la voluttà; la lettura produce un colpo sconvolto, ma
non frantumato (altrimenti la lettura non apparterrebbe al campo dell’immaginario).
Questa è la situazione del soggetto umano, almeno nel senso in cui cerca di comprenderlo
“l’epistemologia psicanalitica”. Il lettore è il soggetto per eccellenza, il campo della lettura è quello
della soggettività assoluta. Non si può ragionevolmente sperare in una Scienza della lettura: “la
lettura è proprio quell’energia, quell’azione che coglie in quel certo testo, in quel certo linguaggio,
proprio ciò che non permette di essere esaustivamente definito dalle categorie della Poetica”.

Capitolo 6
La critica militante. La saggistica. La critica degli scrittori
CRITICA MILITANTE:
Enza Biagini cerca di dare una definizione a partire da quella dell’aggettivo “militante” presente
nel dizionario Battaglia (pag 317 del manuale)
Si deducono dalla definizione:
1.Il concetto di militanza come partecipazione e impegno alla vita letteraria e artistica
contemporanea. Prendendo posizione a favore di determinate correnti letterarie, di dati indirizzi
artistici, culturali, ideologici (il critico militante si schiera, non è mai neutrale)
2. Il rapporto con la contemporaneità
3.L’Opposizione alla critica accademica (situazione non normativa, molti critici sono stati
contemporaneamente accademici e militanti)
Quest’ultima affermazione ha comunque senso se si pensa agli antecedenti storici dei critici
militanti: letterati che hanno praticato l’estetica come “attività effimera” nel contesto della
letteratura periodica a partire dal Settecento.
(Baretti e “La frusta letteraria”, Pietro e Alessandro Verri, Beccaria e “Il caffè” possono essere
considerati antesignani della critica militante)
LE FORME DELLA CRITICA MILITANTE
Solo dai primi del Novecento la “critica militante” ha assunto il carattere distintivo che ancora
adesso funziona in quanto etichetta peculiare.
Caratteristiche antiaccademiche, di esercizio di gusto e di azione sul contemporaneo, che si
esprimono in diverse forme:
A.LA RECENSIONE (anche stroncature)
B.L’ ARTICOLO (l’elzeviro, della terza pagina, cioè articolo di fondo di un giornale, dedicato ad
argomentazioni di carattere letterario, artistico, storico, erudito, spesso con taglio critico. Così
chiamato dal carattere tipografico in cui un tempo era stampato e perché usato ad Amsterdam dai
tipografi Elzevier).
C.IL SAGGIO (forma più consona, anche se non tutta la saggistica è militante).
Tutte queste forme hanno come elemento comune quello del tono libero e creativo.
Contesto della critica militante
I confini della critica militante non sono di facile definizione, perciò non è facile proporre neanche
una storia di questo tipo di critica.
Si può provare a farlo attraverso singoli nomi, lo stile delle singole opere (per esempio “la prosa
d’arte” fino agli anni 30), gli argomenti ricorrenti (per Croce l’anti novecentismo, per Debenedetti
il romanzo, per Luciano Anceschi il Barocco) i contesti d’azione (le riviste), i gruppi (manifesti di
poetica: surrealismo, futurismo, ermetismo).
La storia della critica militante è una storia di autori, riviste, poetiche e movimenti letterari.
Alle generazioni poetiche si potrebbero far corrispondere altrettante generazioni critiche.
La critica militante va di pari passo con la contemporaneità letteraria.
Per una nuova critica
Dal dopoguerra in poi la critica militante tende a coincidere con l’impegno politico, generalmente
di stampo ideologico marxista.
In questa fase impegnata la critica militante diventa propositiva in senso culturale e politico per
fondare una “nuova cultura” (Una nuova cultura è il titolo del dibattito proposto da Vittorini nel
1945 mentre fondava la rivista “il Politecnico” in cui auspicava una nuova cultura che non
consolasse solo l’uomo nelle sofferenze, ma intervenisse, impegnandosi nella creazione di una
nuova società umana e solidale.)
La società non è cultura perché la cultura non è società. È la cultura non è società perché ha in sé
l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non
sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la
società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze
invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a
eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che
si trasformi tutta la vecchia cultura.
L’ESIGENZA DI <<VERE PRESENZE>>
In una fase più recente, neostoricista e postideologica, la critica militante ha puntato invece a
revisionare tutte le idee correnti del secolo scorso, stabilendo anche bilanci negativi nei confronti di
un versante del Novecento letterario e artistico reputato formalista, poco impegnato e “non
giudicante”.
Da qui la tendenza a ricostruire la storia della critica militante novecentesca e a evocare figure di
“critici-scrittori”, “scrittori-lettori”, ritenuti antagonisti degli specialisti e in grado di esercitare
liberamente gusto e “giudizio” di valori.
Vere presenze è il titolo di un libro di George Steiner.
Secondo lui agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi. Tutto il suo
libro è un grido d’orrore per quello che accade nel mondo universitario. I suoi studenti a
Cambridge hanno un esame in cui discutono l’opinione di T.S. Eliot su Dante senza dover leggere
Dante. Quello che ci vuole è un’interpretazione dinamica, un’interpretazione che sia azione e
non passività. Leggere la critica, leggere i testi “secondari”, significa essere passivi, come
davanti alla televisione, significa rinunciare alla responsabilità dell’azione.”
Benedetto Croce può essere considerato il critico militante per eccellenza, che praticava tutti i
generi prima citati, si è molto espresso riguardo al rapporto della critica con la contemporaneità.
Nel passo “L’avversione alla letteratura contemporanea” del 1945 (pag 332)
“Un sentimento di avversione e di dispregio si stabilisce di frequente negli amatori e custodi della
grande poesia del passato di fronte alla poesia e letteratura loro contemporanea e si manifesta nel
non degnarla di attenzione e in una certa preconcetta ostilità che l’animo equo riesce a vincere non
senza sforzo.” (…)
Nella concezione dell’idealismo Crociano c’è una grande mescolamento di poesia e non poesia,
perché vengono messi di fianco a testi che hanno valore altre che non ne hanno. Il critico ha il
dovere proprio di non dare importanza a opere che non meritano di essere messe in luce. Perché le
opere del passato ci appaiono così alte e luminose? Proprio grazie ai critici che hanno gettato
nell’oblio le opere che non meritavano di essere ricordate.
Benedetto Croce dice di aver esercitato la severità che altri non esercitano, ma anche di aver
contribuito a far rendere giustizia ad ingegni ed opere sincere e se nel primo caso egli ha provato
dispiacere per aver dovuto recare dolore a uomini come Pascoli e Fogazzaro (duramente criticati),
del secondo caso gli rimane sempre il dolce ricordo.
La critica degli scrittori
La nozione di critico-scrittore o scrittore-critico si deve a Luciano Anceschi.
Studioso di estetica e critico letterario Anceschi fu uno dei più acuti interpreti delle poetiche dalle
quali si sviluppò la letteratura italiana più innovatrice dell’ultimo Ottocento e del primo
Novecento. Insegnò estetica nell’università di Bologna dal 1952. Sensibile ai nuovi orientamenti
culturali, si schierò a favore dell’Ermetismo e della Neoavanguardia, affiancando all’attività di
teorico quella di critico militante.
Molto significativa l’opera “Fenomenologia della critica” nella quale nel precisare che “le maniere
di far critica sono varie, anzi ipoteticamente infinite”, ha individuato la figura del critico,
precisandone i possibili connotati: critico scrittore, critico saggista, critico scienziato, critico
filosofo, riservando a quest’ultimo una considerazione particolare e distinta.
Si sofferma anche sulla definizione di “critica dei poeti”, cioè dei poeti che fanno critica e riflettono
su di essa, andando di fatto a definire il concetto di scrittore(poeta)-critico, che altro non è che uno
scrittore (poeta o romanziere) che non fa solo critica.
La critica di questi scrittori o poeti, anche quando non è riferita alla propria opera creativa, non è
quasi mai scindibile da essa e, soprattutto, quasi mai è scissa dalla poetica personale (si pensi alle
interpretazioni simboliste di Dante da parte di Pascoli o alle riflessioni di Pirandello sul teatro o
sull’umorismo).
CRITICA INSCINDIBILE DALL’OPERA CREATIVA
Nello scrittore che è anche critico la lezione di stile, di commento, di valutazione e storia letteraria
applicata su altri testi e autori vale soprattutto per la completezza della sua vicenda personale o
per spiegare in modo intrinseco quanto egli crea.
Il poeta, lo scrittore critico è, dunque, anche sempre critico di sé stesso.
Questo “diritto di prelazione” di significato da parte dell’opera creativa su quella critica non è però
segno di dipendenza limitativo, né di importanza secondaria per la comprensione e la storia di
gruppi letterari o riviste, di generi e rapporti con altre letterature.
La storia della critica degli scrittori coincide quindi in pratica con la storia della letteratura e la
storia delle poetiche.
CRITICA COME COLLABORAZIONE ALLA POESIA
Se va tenuto presente, naturalmente, che classificazioni di questo genere offrono sempre condizioni
“al limite”, per cui di rado si danno esempi perfettamente calzanti al modello, dall’altra parte
anche qui come nelle prospettive del critico poeta converrà, per i nostri rilievi, non uscire troppo
da quegli esempi contemporanei che abbiamo direttamente vissuto.
L’esempio portato per l’Italia è quello di Giuseppe De Robertis che “realizzò sé stesso pienamente
come scrittore per la critica” e parlò della critica come di “collaborazione alla poesia”.
De Robertis caso esemplare di critico scrittore
Anceschi aggiunge, portando l’esempio di De Robertis (pag 329-330) che “il critico scrittore tende a
risolvere sé stesso come critico scrittore nella critica quale egli fa, non trascura le possibilità
inventive del proprio discorso letterario, la sua possibilità di fertili scoperte verbali, e di coerente
organizzazione delle sue scoperte verbali. Egli è anzi scrittore affatto e prevalentemente in quanto
critico, e non in quanto poeta e narratore. La critica è per lui un genere della letteratura”
Questo critico partecipa del gusto della sua epoca, promuove e guida questo stesso gusto, elabora i
principi, costruisce gli strumenti stessi del giudizio.
La critica in questa prospettiva ha una sua autonoma forza sistematica e organizzatrice, che trova
in sé stessa il proprio valore.
De Robertis porta nel testo i principi che sono alla base dell’approccio al testo. Il testo
antologizzato (pag 334) è tratto da Saper leggere, in Scritti vociani e infatti la forma di questo
saggio si avvicina molto allo stile della prosa e della poesia vociane.
Altra figura che viene accostata a quella del critico-scrittore da Anceschi è quella del saggista, che
viene definito “scrittore di indole particolarissima” (pag 330) e in grado di operare in modi critici e
talora anche di agire sulla critica.
Il saggista tratta dell’arte in modo libero e aperto, senza preoccupazioni sistematiche e quindi è in
grado anche di denunciare limiti delle filosofie e ideologie dominanti, segnando zone inesplorate e
rivelatrici (vengono citati Benjamin e Adorno).
Il saggismo è per Anceschi “una particolare tecnica del conoscere- anche del conoscere estetico-
attraverso la letteratura”.
Per Anceschi caso esemplare di critico saggista è Joseph Addison. Saggista, drammaturgo e uomo
politico. La sua personalità da moralista, psicologo e umorista si espresse pienamente nelle pagine
dello Spectator, e nei suoi saggi diede vita a tipi assurdi a espressione caratteristica del loro tempo.
Categoria fondamentale esposta da Anceschi è quella del poeta critico, cioè del poeta/scrittore che
si fa anche critico letterario e adopera nella sua critica i principi stessi della sua poetica. Tali
poeti critici spesso arrivano a riflettere sulla storia stessa della poesia, oppure sul ruolo della critica
letteraria.
Eugenio Montale fu il caso esemplare di poeta critico
Montale definisce quello della critica come “secondo mestiere”.
In un’intervista afferma: “I poeti hanno sempre fatto molti mestieri. E non mi pare, salvo eccezioni,
che il secondo mestiere li abbia danneggiati. Il poeta non può vivere di poesie, non guadagna
abbastanza, anzi ordinariamente non guadagna nulla, talvolta spende di tasca sua per pubblicare.
Così cerca un mestiere che senta affine. Il giornalista può essere uno. È sempre scrivere, è muoversi
in un ambiente contiguo.” (da La poesia e il resto, intervista di R.Baldini).
La sua critica, sempre connotata da un certo umorismo, inizia già nei primi anni ’20, quando
collabora a Genova con diverse “gazzette” locali e riviste. La sua attività si intensifica negli anni
successivi soprattutto per motivi contingenti.
Al Corriere, dal 1948, scriverà più di cento articoli l’anno.
In questo “ambiente contiguo” si muove fino alla fine della vita e i suoi pezzi di saggistica sono
raccolti in Auto da fè. Cronache in due tempi e Nel nostro tempo.
Recensisce opere in versi e in prosa e si occupa anche di critica musicale.
Nelle sue pagine si nota che Montale non si lascia mai imbrigliare da mode, ideologie o correnti di
pensiero, da vero e proprio critico militante irregolare.
Celebre il suo intervento sulla poesia di Gozzano, meritevole di aver saputo “attraversare” D’
Annunzio, per approdare a un territorio tutto suo.
La dimensione europea di Montale, si vide anche nella critica di autori stranieri come Eliot (Eliot e
noi 1947) di cui fu anche traduttore e in tutti i suoi interventi è sempre possibile rintracciare
elementi della sua poetica e più o meno espliciti paragoni con la sua opera.
Nel testo riportato (p. 355), tratto da “Nel nostro tempo”, Montale opera una riflessione proprio
sul genere della critica, definita “il vero genere letterario del nostro tempo”. Per Montale la critica è
la vera impalcatura all’interno della quale si deve collocare l’opera letteraria e in rapporto alla
quale bisogna studiarla. L’esperienza estetica “non ha bisogno di oggetti assoluti ma di rapporti, e
non può fare a meno degli interpreti di tali provvisori rapporti, cioè dei critici”.
Allo stesso modo però, non bisogna intendere le direzioni proposte dalla critica come verità
assolute.
Nell’intervento di Montale si avverte l’importanza della storicizzazione della poesia e della
ricostruzione di una linea della tradizione lirica italiana (di cui si era occupato, con esiti diversi,
soprattutto Ungaretti nei suoi Saggi critici e nelle sue lezioni brasiliane, nei suoi rapporti con
simbolismo e letterature europee, inglesi e americane).
Montale si sente un testimone partecipe della sua epoca, di cui conosce le basi e anche gli aspetti
negativi, tuttavia l’impegno, l’engagement ideologico, non è per lui condizione necessaria all’arte
né condizione negativa in sé.
Ambiguità, ironia fanno parte della sua critica come della sua poesia.

Carlo Emilio Gadda è stato scrittore poeta e ingegnere, ricordato soprattutto per le sue
innovazioni linguistiche e narrative, per “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” e “La
cognizione del dolore”.
La sua attività come critico è molto importante in quanto con articoli e interventi sparsi fu uno dei
primi a inaugurare la ricognizione sulla tradizione del romanzo del Novecento, individuandone
una visione asimmetrica, di “caos”, che darà il via alla stagione sperimentale del romanzo
novecentesco.
Il testo antologizzato Un’opinione sul Neorealismo (pag 354) sintetizza il rapporto tra la poetica
di Gadda e il realismo, in rapporto alla verità effettuale.
Per Gadda la realtà è una dinamica di relazioni, secondo le quali la materia si organizza e
razionalizza: da ciò deriva l’istanza di un linguaggio complesso configurato su questa realtà.
La realtà infatti, non è che una confusa e ininterrotta concatenazione di eventi e così la letteratura
stessa, che si rivela incompiuta. Gadda presenta una concezione relativistica della realtà:
ingegneristica è la sua volontà di coordinare i caotici referti di una realtà magmatica, ingegneristica
è anche la sua concezione combinatoria del linguaggio (infatti per Gadda si parla di pastiche,
mosaico, etc.)
Gadda sottolinea come non ami troppo quei suoi colleghi che basano la loro poetica sull’idolatria
degli eventi, perché non ebbe mai a mitizzare i fatti in quanto tali, anche quando l’attenzione alla
fattualità, alla concretezza degli eventi, colti nella dimensione storica e sociale, andava per la
maggiore, come negli anni del Neorealismo. La scrittura neorealista, per Gadda, non è altro che un
elenco di fatti, che non può descrivere la complessità della realtà, in quanto essa è magmatica.
Egli definisce il “fatto” come il residuo fecale della storia, quello che conta non è il fatto in sé ma
quello che c’è dietro.
Realismo espressionista.

L’IMMAGOLOGIA INTERCULTURALE NELL’ATTUALE CONTESTO CULTURALE E


MEDIALE
1)L’IMMAGOLOGIA COMPARATISTICA: UNA DEFINIZIONE
L’imagologia letteraria è una delle principali aree di ricerca della Letteratura comparata; oggi, essa
viene praticata principalmente in Francia, in Germania, Olanda e nei Paesi slavi.
Essa indaga attorno alle manifestazioni letterarie (e non solo) di images, stereotipi e pregiudizi
sulle altre nazioni e culture.
Allo stesso tempo, la ricerca imagologica si occupa delle definizioni letterarie della propria
identità collettiva (nazionale o culturale), ossia delle auto-images, che solitamente sono
strettamente connesse con le visioni dell’altro, ossia le etero-images;
L’imagologia verte principalmente sulla messa in luce del contenuto ideologico di un ‘testo della
cultura’.
Essa è un campo d’indagine della letteratura comparata che prevede una serie di teorie / concetti
chiave e di strumenti metodologici, che possono essere utilmente applicati alla letteratura del
viaggio; l’occhio dello scrittore-viaggiatore viene ricollegato alla mente della cultura
d’appartenenza e al corpo testuale più ampio che definisce un immaginario culturale.
L’Odeporica è un campo estremamente eterogeneo ed è da tempo studiata in ambito
comparatistico (e nelle singole letterature nazionali) focalizzando su: il potere trasformativo del
viaggio; testimonianze testuali/letterarie dell’incontro con l’altro; serbatoio antropologico;
documento storico, linguistico, letterario; la personalità dello scrittore-viaggiatore; documento
culturale (testo che rimanda ad un più ampio discours culturel).
Gli studi imagologici interagiscono quindi con lo studio (sociologico, antropologico) dell’identità
nazionale e culturale, e sono sempre più aperti a varie tipologie testuali; -focalizzandosi anche
sulle narrazioni e le immagini di sé (strettamente connesse con quelle delle altre nazioni), si studia
il loro impatto sulla formazione dell’identità nazionale/culturale;
l’Imagologia è una disciplina comparatistica che (per molti studiosi) ha come obiettivo principale
la demistificazione (procedimento diretto a liberare l’intelletto da pregiudizi, luoghi comuni) di
immagini nazionali e culturali;
Essa si occupa, infine, dello studio della frammentazione/ibridazione identitaria, nonché sulla
cristalizzazione di nuove
Gli studi imagologici sono espressione di un approccio sovranazionale alla letteratura; essi
presuppongono un atteggiamento neutrale rispetto al proprio oggetto/campione di studio.
«Praticare la letteratura comparata nel senso ristretto del termine significa dunque soprattutto e in
primo luogo servirsi di questa visione “neutrale”, di questo modo di pensare che conduce a delle
conoscenze alle quali le diverse filologie non avrebbero alcun accesso. Ma significa anche imparare
ad avvicinarsi alle letterature e alle culture nazionali mirando a sviluppare un’attitudine
intellettuale sovranazionale, che tende verso una visione universale. Ed è questo, in sostanza, uno
degli scopi più importanti del nostro lavoro.» (Hugo Dyserinck)

2) IMAGES LETTERARIE VS. STEREOTIPI SOCIALI


-Stereotipo: “Visione semplificata ma largamente condivisa su una persona, un gruppo, un aspetto
della realtà”; l’uso di stereotipi è funzionale alla conservazione di un pensiero, di un sistema di
valori; lo stereotipo è un rafforzativo identitario;
-Image letteraria: “Immagine di un altro paese (di un’altra cultura) e della sua popolazione. Si
tratta di una struttura complessa e stratificata nella quale elementi ideologici, estetici e intertestuali
si compenetrano e interagiscono”;
-l’etero-image di una nazione/cultura è sempre connessa e dialoga con le auto-images culturali;
l’immaginario (‘imagérie’, ‘réverie’: Daniel-Henri Pageaux) di una cultura ‘altra’ mette in gioco
entrambi i versanti.

3) I CONCETTI CHIAVE DELL’IMAGOLOGIA


L’immaginario letterario e culturale dell’altro può essere descritto (in forma schematica)
attraverso tre attitudini mentali:
-fobia (disprezzo dell’altro, considerato come inferiore oppure come portatore di valori
negativi/degradanti),
-mania(ammirazione dell’altro, considerato come superiore oppure come portatore di valori
positivi/indispensabili),
-filia (considerazione dell’altro come pari, sul piano valoriale).
Auto-immagini ed etero-immagini hanno uno statuto rappresentativo, legato alla loro
costruzione discorsiva (Hugo Dyserinck): l’obiettivo dell’imagologia non è di studiare il presunto
carattere di una collettività nazionale o culturale, ma analizzare come questo sia stato costruito
attraverso delle immagini letterarie e culturali, attraverso delle strutture imagotipiche che spesso
coinvolgono la visione di più culture.

4) ALCUNI STRUMENTI METODOLOGICI


-Analisi semiotica e lessicale (si agisce sul piano micro-testuale: parole chiave, aggettivazione,
ricorenze lessicali);
-Analisi semantica e strutturale (esame delle scelte linguistiche, collegate su un piano macro-
testuale; riccorrenza di schemi mentali: assimilazione vs. differenziazione);
- Analisi antropologico-strutturale (focus sulle principali unità tematiche di un testo; sul suo
contesto spaziale e temporale; le sue strutture opposizionali; la mitizzazione di corpi e/o di spazi);
- Identificazione di uno scenario (in quanto risultato di una struttura tematico-imagotipica; può
coincidere con una porzione testuale; con un ‘mito’; con l’intero testo imagotipico).

- L’imagologia, oggi, è sempre più orientata in senso interdisciplinare: studio dei meccanismi di
rappresentazione e delle funzioni socio-politiche dei dispositivi di identificazione (ponendo quindi
in secondo piano il valore informativo/fattivo delle immagini letterarie).
- Sebbene le images letterarie e culturali non siano necessariamente dotate di uno statuto di realtà,
esse possono avere delle importanti conseguenze sulla realtà.
- Uno degli obiettivi principali di questa branca della comparatistica letteraria è la demistificazione
di strutture imagotipiche. L’Imagologia si pone quindi un obiettivo eticopolitico: il sogno
goethiano della ‘migliore intesa tra i popoli’, la sperimentazione nel ‘Laboratorio Europa’ della
convivenza pacifica di culture diverse.

ESEMPIO TESTUALE: ENNIO FLAIANO TEMPO DI UCCIDERE


CARATTERISTICHE TEMATICHE DEL ROMANZO
- narrazione in prima persona attorno un’avventura non eroica vissuta dall’io narrante come
ufficiale del Regio Esercito Coloniale durante la Guerra d’Etiopia (3 ottobre 1935 – 9 maggio 1936);
- nonostante l’ambientazione, non si tratta di un romanzo «di guerra»; piuttosto, possiamo
associarlo al genere della letteratura di viaggio (continuo spostamento del protagonista-narratore,
infine ripartenza per l’Italia);
- vicende che muovono da un banale mal di denti, evolvendo verso una spirale di errori e di
fatalità (morte di un’indigena con cui l’ufficiale ha avuto un rapporto e che forse era affetta da
lebbra);
- più che narrare di azioni militari, è posta al centro la noia dei soldati, i loro “passatempi”, la
paralisi (che è anche di tipo morale) che investe l’esercito italiano;
- altrettanto centrale il tema della malattia (dal mal di denti alla lebbra), legato a quello dei sensi
di colpa dell’ufficiale;
- terzo elemento tematico fondamentale: il caso e l’errore (la scelta della scorciatoia, con tutte le
sue fatali conseguenze), il gioco degli equivoci (il protagonista fraintende segni e gesti con cui
gli indigeni comunicano con gli invasori), infine la mancanza di senso.

CARATTERISTICHE STILISTICHE DEL ROMANZO


- cortocircuiti linguistici (ad es. “rottami di buoni propositi”, “[l’altopiano] osservatorio olfattivo
delle iene”, ecc.);
- uso dell’ironia (il camaleonte “con la sigaretta in bocca”), di battute, di aforismi (“l’Africa è lo
sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza”, ecc.);
- toni dichiaratamente surreali;
- romanzo psicologico, lontano dagli stilemi (ma anche dai temi) del coevo Neorealismo.
CARATTERISTICHE IMAGOLOGICHE DEL ROMANZO
- di primario interesse la lunga descrizione dell’incontro con l’indigena che si lava nel fiume, che
il protagonista-narratore al termine della scena uccide (fortuitamente);
- caratterizzazione graduale della donna etiope (image): la sua assimilazione al paesaggio; il
dubbio che possa avere dei pensieri; negazione di una psicologia; «animalizzazione» (donna-
preda);
- la scena dell’«incontro» (che in realtà narra di una violenza sessuale e di un omicidio) si lega
esplicitamente ad un immaginario culturale fortemente improntato sull’ideologia fascista e su
una mentalità maschilista;

IMMAGINI DELL’ALTERITÀ NELLA LETTERATURA DI GUERRA E NELLE LETTERATURE


DEL MONDO ARABO
Lo studio della letteratura di guerra non nasce in ambito comparatistico. Sono tre i testi fondatori
di questo settore di studi:
• Berbard Bergonzi, Heroes’Twilight (1965)
• Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra (1970)
• Paul Fussell, The Great War and Modern Memory (1975)
Pur nelle loro differenze metodologiche, culturali e ideologiche, i tre saggi sono accumunati da un
approccio esclusivamente nazionale al corpus di testi della Grande guerra (Bergonzi e Fussell
rivolti all’ambito britannico, Isnenghi a quello italiano).
Testi successivi hanno dato ampia prova dell’importanza di una prospettiva comparatistica di
tipo transnazionale nell’analisi di questo importante ambito testuale, in grado di abbracciare la
materia nella sua complessità:
• A.D Harvey, AMuse of Fire (1998)
• Alberto Casadei, Romanzi di Finisterre (2000)
Portando agli estremi una simile direttrice, si potrebbe affermare, provocatoriamente, che la guerra
stessa vada letta come «un’orribile forma di comparatistica violenta e sanguinaria; […] confronto
letterario letale; […] scontro brutale di visioni e speranze e illusioni diverse che mettono
malamente in contatto i popoli»
(pag 214).
La guerra, come momento drammatico di incontro/scontro, segnato dall’antagonismo, ma anche
dalla scoperta di sé in contrapposizione all’altro, rappresenta un momento "catalizzatore di
immagini", di rappresentazioni:
• Rappresentazioni di sé: come singoli individui e in quanto membri di una collettività nazionale
(auto-immagini).
• Rappresentazioni dell’altro: i singoli nemici e collettivamente il nemico, la nazione nemica
(etero-immagini).
«La letteratura di guerra affronta nei modi più disparati il confronto con l’altro, che
immancabilmente diventa quasi sempre anche una riflessione su sé stessi (come membri di una
collettività, sia nazionale che regionale, o in senso più ampio come rappresentanti di una civiltà);
riformulando questa considerazione in termini imagologici, diciamo che le narrazioni di guerra
costruiscono assai di sovente (e forse inevitabilmente) etero-immagini e auto-immagini». (pag
203)
Lo studio della letteratura di guerra, per essere davvero efficace, necessita quindi degli strumenti
dell’imagologia, vale a dire di una delle traiettorie più promettenti della letteratura comparata.
Come sostiene Joep Leerssen:
«Lo studio delle immagini nazionali è di per sé un'impresa comparativa: affronta le relazioni
internazionali piuttosto che il definirsi delle identità nazionali. Allo stesso modo, i modelli
nazionali saranno più chiaramente riconoscibili quando studiati sovranazionalmente come
fenomeno multinazionale». (pag 214)
Cosa si intende per letteratura di guerra?
La letteratura di guerra è una categoria ampissima, comprende ogni «testo narrativo, sia di
invenzione che di testimonianza, o poetico, che veda l’esperienza di guerra, diretta o mediata,
come la componente principale o una delle principali componenti, in misura tale che
l’eliminazione della guerra dal testo lo snaturerebbe irrimediabilmente» (pag 202). La guerra può
essere al centro della scena o sullo sfondo, ma anche nel momento in cui la guerra non è al centro
della scena, è necessario che il suo rilievo sia tale da condizionare la vicenda narrata. Come
sottolinea Viet Thanh Nguyen:
«[…] una guerra non è solo il conflitto a fuoco, ma le persone che fanno i proiettili e consegnano i
proiettili e, cosa forse ancora più importante, pagano per i proiettili, i cittadini distratti complici in
quello che King chiama la "brutale solidarietà" del fratello bianco e del nero». (pag 202)

Peter Jones, nel suo War and the Novelist (1976) distingue tra:
• combat novel: testo narrativo concentrato unicamente sull’aspetto militare, che omette o relega
sullo sfondo tutto ciò non concerne l’esperienza sul campo di battaglia, del combattente in quanto
combattente;
• war novel: testo narrativo che tratta della guerra prendendo in considerazione la vita dei
personaggi prima e dopo l’esperienza bellica. L’attenzione è rivolta sia al fronte vero e proprio
("teatro di guerra") che alle conseguenze che il conflitto ha sul quadro "civile", sulle vite di quelli
che sono "restati a casa". (Es.Guerra e pace di Tolstoj).
In Italia si parlerà di "narrazioni di combattimento" e "narrazioni di guerra", intendendo il
termine narrazione come equivalente dell’inglese narratives, che comprende tanto la cosiddetta
memorialistica che il romanzo.
A queste due categorie va accostata la poesia di guerra, che può a sua volta essere suddivisa in:
• "poesia di combattimento" (Wilfried Owen, Giuseppe Ungaretti,Pierre DrieulaRochelle)
• "poesia di guerra" («Alle fronde dei salici» di Salvatore Quasimodo)

PREMESSE METODOLOGICHE ALLO STUDIO IMAGOLOGICO DELLA LETTERATURA DI


GUERRA
• L’analisi imagologica è un’analisi letteraria, non sociologica o storica.
Paul Fussell riporta, nel suo Wartime (Tempo di guerra, 1989), alcuni tratti della
rappresentazione degli italiani ben radicati nella letteratura della seconda guerra mondiale in
lingua inglese, per cui il soldato italiano è rappresentato come un codardo vanaglorioso,
sempre ben vestito e tutt’altro che pronto al sacrificio. Compito dell’imagologo non sarà quello
di verificare se tale immagine risponde al vero, ma considerare questo tipo di rappresentazioni
in quanto strategie testuali e rappresentazioni letterarie. L’immagine letteraria può trovare
una valida interpretazione solo se presa in considerazione in quanto stereotipo.
• La rappresentatività o, al contrario, l’unicità di uno stereotipo non è questione
sociologica, bensì intertestuale.
«Quando si afferma che il soldato italiano è comunemente rappresentato come tutt’altro che
coraggioso e indifferente ai disagi, non si fa un’affermazione sociologica, bensì si ragiona in
termini intertestuali» (pag 204). Tale immagine dell’italiano non viene, cioè, presa in
considerazione perché oggettivamente vera o radicata nell’opinione pubblica di un
determinato contesto storico, ma perché presente intutta una serie di testi di diversi autori.
Unico compito dell’imagologo è quello di verificare il ricorrere di simili immagini in
letteratura, evidenziando i casi in cui ci si discosti da quel determinato stereotipo, e le modalità
che danno luogo a tale divergenza.
Il compito di verificare se una determinata rappresentazione abbia o meno un’aderenza ai
fatti, possa o meno essere considerata una verità storica, al di là della finzione letteraria, spetta
allo storico.
Tale verifica è tutt’altro che facile, in quanto le immagini prese in considerazione
dall’imagologia non consistono mai in enunciazioni facilmente valutabili nella loro oggettività
("La Francia è una repubblica") ma in asserzioni altamente soggettive difficilmente appurabili
empiricamente ("I francesi sono individualisti che amano la libertà"). Di questa soggettività
l’imagologo deve sempre tener conto nel suo interpretarle.
• Il rappresentato (spected) viene delineato nella prospettiva di quel particolare testo scritto
da quello specifico autore (spectant), oltre che dalla complessa interazione tra contesto
storico-culturale e convenzioni letterarie.

• Luis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte,1932).


• Blaise Cendrars, La main coupée (La mano mozza,1946).
Nonostante i due autori siano entrambi francesi, sostanzialmente coetanei, abbiano combattuto
tutti e due contro lo stesso nemico tedesco durante la Grande guerra, i loro grandi romanzi sono
portatori di due etero-immagini del nemico totalmente differenti. Più simpatetico il primo, più
legato a stereotipi xenofobi il secondo. Certamente le ragioni di tali differenze possono essere lette
alla luce delle esperienze personali vissute dagli autori, ma andranno in primo luogo cercate nella
specificità del testo, oltre che in tutta una serie di elementi a esso correlati, come la data di
pubblicazione.

Lo stesso vale per le auto-immagini: «La nostra razza è superiore a tutte le altre razze perché sa
capire, dosare tutto nel tempo e nello spazio. […] il popolo italiano ha una grande anima
potentissima, geniale, ricca di tutte le possibilità improvvisatrici […] l’anima italiana […] è scattata
nel momento più pericoloso, sicura d’improvvisare ciò che non aveva preparato, e d’imparare la
guerra facendola e vincendola».
L’alcova d’acciaio di Filippo Tommaso Marinetti, 1921
Ci si deve sempre chiedere se Marinetti scriva, di volta in volta, in quanto italiano, oppure non sia
possibile che scriva invece (o allo stesso tempo), in quanto borghese, intellettuale futurista,
nazionalista interventista, milanese, ecc. Non bisogna dimenticare che la soggettività delle auto-
immagini è anch’essa non solo geografica, ma anche temporale e storica: questo testo è posteriore
alla vittoria del 1918, e non c’è dubbio che una simile rappresentazione del popolo italiano non
avrebbe mai potuto essere scritta dopo il disastro del 1943 e tutto quello che ne è seguito.
Non bisogna credere, tuttavia, che le autoimmagini siano sempre encomiastiche o apologetiche:
«La Germania, coi pomelli accesi, traballava allora al colmo dei suoi orrendi trionfi, in procinto di
conquistare il mondo in virtù del solo trattato ch’era disposta a osservare e che aveva firmato col
suo sangue. Oggi, avvinghiata dai demoni, coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore
con l’altro, precipita di disperazione in disperazione. Quando toccherà il fondo dell’abisso?
Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo
crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle
vostre povere anime, o amico, o patria!» Thomas Mann, Doctor Faustus, 1947
Ancora una volta il contesto storico è determinante: se nelle narrazioni della prima guerra
mondiale i tedeschi possono essere minacciosi, in quelle della seconda diventano il più delle volte
sinistri.

La specificità del testo (sia esso letterario, cinematografico, fumettistico, ecc.), così come le sue
funzioni, condizionano il modo in cui si articolano auto- ed etero-immagini. Si prenda, ad
esempio, l’immagine dei tedeschi in tre pellicole ascrivibili al genere del film di guerra:
• K. Annakin, A. Marton, B. Wicki, The Longest Day (Il giorno più lungo, 1962).
• Steven Spielberg, Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan,1998).
• Christopher Nolan, Dunkirk (2017).
Mentre The Longest Day presenta un’intenzione epica che porta a dare pari dignità ai comandanti
tedeschi (interpretati da attori tedeschi che recitano nella propria lingua, sottotitolati, e diretti da
un regista tedesco) e a quelli inglesi, francesi, americani, il film di Spielberg muove da premesse
quasi documentaristiche per poi spostasi in direzione di una storia avventurosa poco verosimile,
dove i tedeschi sono i mostri malvagi contro cui lottano un gruppo di eroi (se non supereroi)
americani. Nolan, infine, regista di diversi film fantascientifici, racconta l’avanzata nemica come
una vera e propria invasione aliena, mostrando i soldati nemici il meno possibile.

Dallo stereotipo nazionale allo “scontro di civiltà”


In relazione al ben più complesso quadro attuale occorre tenere conto non solo delle auto-
immagini ed etero-immagini riferibili ad un determinato ambito nazionale, ma anche, e
soprattutto, a quelle relative ad intere civiltà. Già con la seconda guerra mondiale lo stereotipo
nazionale trascolora facilmente in uno stereotipo etnico, ad un discorso essenzialmente razzista.
Quella nazista è stata essenzialmente una guerra razziale, e difficilmente può essere compresa
senza tenere conto di tale dimensione. Ora, con l’emergere di testi letterari sulle guerre più recenti,
come quella del Golfo e dell’Afghanistan, così come di una "letteratura della migrazione", lo
scenario appare sempre più quello dello "scontro tra civiltà":
«non è più questione di tedeschi visti dagli inglesi, o di stereotipi statunitensi del giapponese o del
vietnamita,ma di Occidente contro Islam».(pag 210)

Immagini dell’alterità: il mondo arabo


Nel corso della sua storia, la civiltà arabo-islamica ha espresso molteplici immagini dell’alterità.
Già le tribù che vivevano in epoca preislamica nella Penisola Araba individuavano nel linguaggio
il denominatore comune della loro identità.
Con il termine ajam si indicavano i non-Arabi, "coloro che parlavano in maniera non chiara".
Dal VII secolo l’avvento dell’Islam, con l’unificazione delle tribù e con l’affermazione e
l’espansione dei califfati, ha rafforzato la consapevolezza di una identità "araba".
Il termine ajam ricorre almeno 4 volte nel corano.
A partire dal 750 d.C., Quando il Califfato abbaside si insedia a Baghdad, prende avvio quella che
Frederick Starr definisce l’epoca dell’"Illuminismo centroasiatico”. Nei circa cinque secoli della sua
durata l’Asia centrale diviene il fulcro intellettuale di tutto il mondo, caratterizzandosi per una
straordinaria vivacità culturale che si apre agli influssi occidentali, assimilandoli senza tuttavia
negarne l’origine. Lo storico Ibn Khaldūn (1332-1406), ad esempio, attribuisce agli ‘ajam e non agli
arabi il merito di aver reso grandiosa la civiltà arabo-islamica. Lo stesso atteggiamento di apertura
si ritrova negli scritti del X secolo degli Ikhwān al-Ṣ afāʾ ("Gli amici sinceri"), società di carattere
filosofico-religioso, in cui si può leggere che l’uomo ideale dovrebbe avere «origine persiana,
religione araba, […] condotta irachena, mitologia ebraica, comportamento cristiano, ascetismo
damasceno, scienza greca, lucidità induista» (180), oppure nelle opere di diversi letterati, tra cui
Sa‘īd al-Andalusī , il quale indica nei Persiani, Caldei, Greci, Copti, Turchi Indiani e Cinesi le
grandi civiltà del suo tempo.
Le regioni dell’Asia centrale divengono, in quei secoli, «un ponte temporale e geografico,
ponendosi in tale processo come il grande tramite fra l’antichità e il mondo moderno» (Frederick
Starr).
Si pensi al ruolo fondamentale dell’opera del persiano Avicenna, nel veicolare il pensiero filosofico
di Aristotele nell’Europa medievale.
La dicotomia che vede il mondo diviso in "Oriente" e "Occidente" nasce in Europa,
presumibilmente durante l’Illuminismo. È solo dopo il XVIII secolo, con la nahḍa, il cosiddetto
"risveglio arabo", che le diverse immagini dell’alterità espresse dal mondo arabo-islamico iniziano
a dividere l’universo storico-geografico, politico, culturale in due poli, e non in senso contrastivo.
Liberatosi dall’ingerenza dell’impero ottomano il mondo arabo guarda all’Occidente come ad un
modello da raggiungere, nell’ottica di ridurre il divario politico, culturale e tecnologico che lo
separa dall’Europa.
A seguito della colonizzazione europea su tutto il mondo arabo «il volto di un’Europa ammirata in
quanto modello culturale da emulare si sovrappone a quello di una potenza oppressiva e
sfruttratrice, un ostacolo per qualsiasi sogno di libertà e progresso» ( pag 182), dicotomia che
persiste in epoca post-coloniale, con il solco reso ancora più profondo dai tanti conflitti interni e
internazionali che si estendono a tutti i paesi arabi, in un contesto che vede gli Stati Uniti imporsi
come superpotenza neo-coloniale.
• Guerra del Golfo (1990-1991)
• Attacco alleTorri Gemelle (11 settembre 2001)
• Invasione dell’Iraq (2003)
• Rivoluzioni arabe (2011)
• Guerra inSiria (2011)
• Nascita del nuovo Stato Islamico/ISIS (2014)
• Nuove ondate migratorie
La deterritorializzazione, le continue guerre, la distruzione di interi paesi hanno fatto sì che temi
come quelli dell’alterità, dell’estraneità, della disgregazione identitaria, rivestano sempre più un
ruolo centrale nella produzione narrativa araba. L’attuale contingenza storica ha portato molti
autori arabi a ripensare la propria identità in risposta a tali eventi drammatici, nel tentativo di
superare perdite, traumi, disastri. Sono queste le ragioni per cui, secondo Amin Maalouf, «si
afferma ad alta voce la propria appartenenza, spesso con tono di sfida e di solito contro un nemico,
reale o immaginario che sia» (pag 185).
Si ridefinisce la propria identità anche alla luce delle violenze perpetrate di volta in volta dai
regimi interni e dai movimenti terroristici in cui non ci si riconosce.
Un altro dei motivi più ricorrenti è quello dell’esilio, e quello della perenne condizione di
sradicamento che ne consegue.

Pag 37 del libro rosso Pageaux


Non bisogna confondere l’ideologia (rappresentazione concettuale), con l’immaginario vero e
proprio (riservato ai simboli, hanno una pregnanza, una riconoscibilità).
Tre livelli fondamentali di studio, che noi riteniamo parte di un approccio teorico alla letteratura:
1)rapporto tra testo e contesto.
2)studio delle forme e delle strutture di ciò che costituisce il testo.
3)studio dell’argomento della letteratura, dell’immaginario del testo.
A questi 3 livelli egli ne aggiunge un quarto:
4)Processo della comunicazione letteraria.
LETTURA IMAGOLOGICA DI HEART OF DARKNESS DI CONRAD
Lo studio della letteratura di viaggio
<<Tout récit est un récit de voyage>> Michel de Certeau
Nella sua più ampia accezione, ogni narrazione è una narrazione di viaggio, in quanto
organizzazione di eventi che si muovono nello spazio e nel tempo. Provocatoriamente potremmo
definire letteratura di viaggio sia L’Ulysses di Joyce che la Commedia di Dante.
Possiamo individuare due fondatori-viaggiatori: Erodoto (autore delle Storie, opera monumentale
in 9 libri, che analizzava le popolazioni che si trovavano vicino a quella greca, viaggiò in Egitto e in
Asia per comprendere meglio gli altri popoli e riportare la storia ai greci) e Plinio (che decise di
viaggiare per poter scrivere la sua enciclopedia Naturalis historia).
Come per la letteratura di guerra, andrà considerata letteratura di viaggio quella produzione
letteraria (narrativa e non) che avrà come suo tema portante il tema del viaggio, la cui elisione
comporterebbe un immediato snaturamento del testo.
La letteratura di viaggio è per sua natura abituata a valicare i confini. Tale caratteristica è anzi la
sua cifra distintiva:
“Attraversare la frontiera per vedere cosa c’è oltre, confrontare l’interno con l’esterno, il qua e
l’altrove, per raccontare il confronto traducendo e interpretando l’incontro con l’altro” (Domenico
Nucera).
Da questo punto di vista la letteratura di viaggio è già di per sé una forma di comparazione, fa cioè
quello che la comparatistica letteraria aspira sempre a fare: guardare oltre per comparare. Lo
studio di questa categoria letteraria rientra dunque nel campo d’azione della Letteratura
comparata, se non altro perché si tratta di una letteratura per sua natura internazionale.
Lo studio della letteratura di viaggio si avvale, da questo punto di vista, delle molteplici
prospettive metodologiche sorte in seno alla comparatistica:
-gli studi postcoloniali, quando il viaggio e l’incontro con l’altro è funzionale alla costruzione di
un’ideologia dominante, fornendo ad esempio un’immagine in grado di giustificare gli interventi
dell’Europa verso le culture dominate nel mondo;
-i gender studies, in quanto la scrittura di viaggio è stata ritenuta sin dalle sue origini una
prerogativa maschile, concezione ampiamente messa in discussione dall’Ottocento;
-l’imagologia, poiché la letteratura di viaggio, avendo come suo momento fondativo il contatto con
l’altro e l’alterità, presenta un’altissima densità di immagini di luoghi e popoli;
-lo studio della cosiddetta letteratura della migrazione, vale a dire la letteratura di viaggio verso la
nostra cultura e verso di noi, a nostra volta visti come diversi.
Tre costanti tematiche della letteratura di viaggio, che sono anche i tre momenti costitutivi di
essa:
Partire: Dal sostantivo Pars, partis, cioè parte, frazione, contiene in sé l’atto della separazione, del
distacco (dipartita). La stessa radice è però contenuta in parere, partorire, che ricollega la parola
all’atto opposto della nascita.
Viaggiare: Dal provenzale viatge, a sua volta dal latino viaticum, vale a dire “gli alimenti necessari
per compiere la via”. Riprendendo la sua etimologia il viaggio è “ciò che si consuma durante la
strada”. La sineddoche da voce alla necessità di considerare il viaggio sulla base di ciò che ha
alimentato il suo percorso, come tale esperienza sia stata recepita e trasformata.
Tornare: Deriva invece dal latino tornus, vale a dire il tornio, qualche cosa che gira in torno. Insita
nella parola è quindi l’azione di riportarsi al punto di partenza; ma non si torna mai come si è
partiti. Il ritorno qualifica e completa il viaggio.
Joseph Conrad (1857-1924)
La prima parte della vita del grande romanziere è segnata dai tanti viaggi avventurosi per mare
che lo porteranno a visitare in lungo e in largo i territori dell’immenso Impero britannico.
Tra il 1878 e il 1890 Conrad, inizialmente come semplice marinaio e poi come ufficiale, affronta una
serie vertiginosa di viaggi.
Nel 1890, ormai già naturalizzato cittadino britannico, soddisferà il suo giovanile desiderio di
visitare l’Africa, partendo alle dipendenze della Società di Commercio del Belgio per quello che lui
stesso definisce “l’unico suo viaggio in acqua dolce”, capitano di un battello a vapore lungo il
tortuoso fiume Congo.
Il genocidio delle popolazioni del Congo
Ciò che Conrad vide in Africa non solo si riversò nelle pagine di Heart of Darkness (il percorso di
Marlow segue fedelmente quello dello stesso Conrad), ma si tradusse in una visione amara e
senza speranze sull’umanità che l’autore non abbandonò per il resto della sua vita.
In Congo Conrad contrae febbri malariche, dissenteria e un principio di gotta, che mineranno per
sempre la sua salute. Nel suo viaggio lungo il fiume lo scrittore osserva gli esiti della spietata
politica imperialista belga, e stringe amicizia con Roger Casement, diplomatico britannico che
portò avanti una strenua campagna di denuncia contro gli enormi soprusi subiti dalle popolazioni
autoctone, schiavizzate e utilizzate come manodopera nello sfruttamento del territorio.
Leopoldo II di Belgio non ha mai nascosto le sue mire imperialiste. Nel 1876 dichiarò: “La storia
insegna che le colonie sono utili… Diamoci da fare per averne una anche noi… Guardiamo dove ci
sono terre non occupate, popoli da civilizzare e guidare allo sviluppo, assicurandoci al tempo
stesso nuove fonti di guadagno, impiego per le nostre classi medie, un po’ di azione per il nostro
esercito e per tutto il Belgio l’opportunità di provare al mondo che anch’esso è un popolo
imperiale, capace di governare e illuminare gli altri”.
In 23 anni di esistenza, nel Congo leopoldino morirono circa 10 milioni di persone, direttamente
per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei
raccolti. In quello che ormai è riconosciuto come un vero e proprio genocidio venne sterminata
quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
Di fronte alla crescente ostilità dell’opinione pubblica e sotto la pressione di Inghilterra, Francia e
Germania, nel 1906 Leopoldo II fu costretto a nominare una commissione d’inchiesta che, recatasi
sul posto, rimase sconvolta dalle atrocità del regime coloniale.
Nell’agosto del 1908 Leopoldo II si vide costretto a passare la gestione del Congo al governo belga.
Per otto giorni bruciò la maggior parte degli archivi relativi alla gestione della colonia e ridusse al
silenzio i testimoni diretti: “Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto a sapere ciò che
vi ho fatto”.
UNA LETTURA POSTCOLONIALE DI HEART OF DARKNESS
Nel saggio del 1975 An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness lo scrittore e critico
letterario Chinua Achebe (tra i suoi lavori più celebri per il romanzo Things fall Apart) sostiene che
il romanzo di Conrad sia retto da una visione eurocentrica e sostanzialmente razzista definendo lo
stesso autore un thoroughgoing racist. Ad essere messa sotto accusa, in primo luogo, è l’immagine
deformata e faziosa dell’Africa, ridotta a un mero “campo di battaglia metafisico privo di qualsiasi
riconoscibile umanità, in cui l’Europeo errante entra a proprio rischio e pericolo”.
Attraverso gli occhi di Marlow verrebbe cioè descritto un luogo del tutto irreale, remoto e
selvaggio, lontano da qualsiasi idea di civiltà, modellato sui pregiudizi di un conquistatore bianco
che sembra addirittura sconvolto all’idea che gli indigeni vadano considerati esseri umani proprio
come lui.
Nonostante siano diversi i luoghi in cui Conrad denuncia apertamente gli orrori del colonialismo
(orrori a cui aveva potuto assistere in prima persona) e si dimostra immune ad ogni preconcetto
razzista (ad esempio in An Oucast of the Islands i conquistatori europei sono presentati come
deboli e incompetenti, al contrario dei nativi indonesiani, che dimostrano in diverse occasioni un
animo eroico), per Achebete è ingiustificabile che proprio l’Africa debba essere il palcoscenico in
cui mettere in scena la degenerazione della civiltà occidentale o la spersonalizzazione
dell’individuo.
Heart of Darkness, da questo punto di vista, non è un’opera sull’Africa, ambientato in quel
continente, in una zona precisa, in un momento storico ben inquadrato, ma come nella realtà
coloniale l’Africa è sfruttata per raccontare altro, l’irrimediabile deriva morale dell’Europa
imperialista.
L’Africa diventa, così, l’allegoria dell’incapacità dell’uomo bianco di avere il pieno controllo di
quella wilderness, talmente aliena e distante da apparire affascinante.
Kurts rappresenterebbe, in tal senso, la più compiuta rappresentazione della paura dell’uomo
europeo di perdere, sotto l’influsso di un mondo selvaggio, la superiorità del civilizzatore in lui
connaturata, assimilando le abitudini dei nativi (going native).
L’Africa ancora una volta è relegata sullo sfondo, un palcoscenico stereotipato e posticcio, privo di
ogni significato autonomo.
In un’intervista Achebe definisce Conrad un “disrespectful visitor”.
Lettura del punto 4 del punto 5 del punto 7 del punto 1 del pdf
Six black man> sei uomini neri, selvaggi infelici

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