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Dispense Pomilio

Emilio Villa o l’estensione del punto di vista critico

Emilio Villa non è stato solo un artista e un poeta, ma anche un critico, che nelle sue critiche ha trattato
spesso di artisti a lui contemporanei. Nelle sue critiche troviamo enunciati anche alcuni nuclei fondamentali
del suo pensiero e della sua azione poetica: c’è l’indagine della pittura oltre la pittura, la permanenza
dell’antico nel contemporaneo, la possibilità di confrontarsi con storie e culture lontane nel tempo, la
ricerca del gesto “originario” tanto nell’arte quanto nella parola. Villa è dunque esemplare nel concepire la
critica come osservazione e denuncia, sulla linea di Baudelaire o Apollinaire. Non solo segue, ma affianca gli
artisti e l’arte del suo tempo, ponendosi nel panorama artistico non da fuori ma da dentro, come artefice lui
stesso di ciò di cui parla. Affronta l’arte da artista a sua volta, utilizzando dunque la critica come strumento
di indagine sui processi creativi. Attraverso la parola Villa indaga i processi mentali puntando ad ampliare i
propri confini, denunciando in tal modo una prassi che si confronta soltanto col certo, il già affermato,
senza cogliere l’inedito. Non cerca dunque mai di seguire una tendenza o un modello già consolidato. In
questo la sua scrittura non aiuta, perché la sua parola sfugge continuamente, procede per associazioni, si
interrompe ed è difficile coglierne il senso. Ma questo è proprio quello che Villa vuole, impedire di fermarsi
su un senso definito, far saltare prospettive ed orientamenti.

Non usa la parola per rendere “comprensibile” l’arte, ma come strumento per attraversarla: non bisogna
capire, ma cercare (anche nuovi percorsi di conoscenza). In quanto lui stesso poeta riesce a osservare e
pensare oltre i confini prestabiliti: la critica è per lui atto creativo a sua volta, e non deve preoccuparsi di
essere in linea con il pensiero del suo tempo. Per lui arte, critica e sguardo sono tutti sullo stesso piano, e
invita l’osservatore a compiere lo stesso. Villa è oltre il dibattito tra astrazione e figurazione, oltre il
surrealismo, oltre le tendenze americane dell’action painting e dell’espressionismo astratto: la sua
posizione non si accorda con nessuna delle tendenze storiche del suo tempo. La sua è una prospettiva
internazionale. Nell’analizzare artisti come Burri, Villa coglie come la sua sia una pittura tesa alla
realizzazione di un atto creativo, come ci si trovi (negli anni Quaranta) ad un punto di svolta importante,
complice anche il colore, che nel caso di Burri è opaco. Villa si concentra dunque sui processi piuttosto che
sulle opere, sulla formazione piuttosto che sulla forma. Anticipa dunque le performance e gli happening
artistici che sarebbero nati di lì a poco. Il tema delle origini è centrale nella sua scrittura critica, così come la
certezza di dover aprire i propri confini geografici e culturali, per individuare l’inedito attraverso l’esercizio
critico, oltre le regole del già acquisito e rassicurante. Questo suo punto di vista è ben espresso nel suo
testo “Attributi dell’arte odierna”.

Edoardo Sanguineti.

→ Il suo rapporto con gli artisti italiani. L’attività di scambio tra Sanguineti e i pittori italiani ha avvio ad
inizio anni Cinquanta durante la fondazione del “Movimento Nucleare”. Obiettivo dell’arte nucleare era
riportare in modo realistico il senso della catastrofe incombente, unendo il

clima delle esplorazioni stellari al senso di apocalisse imminente. Tipici del movimento erano immagini
embrionali, paesaggi informi, estetica onirica e colori vividi, un immaginario che influisce sulla seconda
raccolta di poesie di Sanguineti “Erotopaegnia”, e più tardi (nel 2003) su “Il gatto lupesco”. Quest’ultimo è
un contenitore di viaggi, luoghi, enigmi, proverbi e filastrocche, tutti scritti nella lingua rivoluzionaria di
Sanguineti, frutto dell’alienazione storica che si avvicina al parlato quotidiano. Il tono è autoironico, e
Sanguineti è in grado di far emergere motti di spirito dal fondo dell’inconscio, rompendo gli abituali nessi
consequenziali. → Scrittura e descrizione in Sanguineti. Per Sanguineti la descrizione, o meglio l’ecfrasi, è un
genere antico tanto nella poesia quanto nella pittura. Per lui, tuttavia, non è importante tanto descrivere
quando “prendere occasione da”, trarre spunto dal materiale di partenza per poi stravolgerlo anche
completamente. Dunque afferma di oscillare tra descrizione fedele vera e propria e testo come “pretesto”,
nel senso di ciò che viene prima di un testo e poi se ne va per conto suo. Nel 1982, insieme a Enrico Baj,
nasce l’Alfabeto Apocalittico, 21 ottave per ogni lettera dell’alfabeto italiano, che quando vengono lette in
pubblico per la prima volta danno vita quasi ad un happening. I testi dell’Alfabeto Apocalittico divennero
poi anche musica. → Su “Laborintus” di Sanguineti. In Sanguineti si ritrova sia una tensione verso il reale sia
la forte coscienza del piano artistico. Tra le sue influenze troviamo Bacon e Baj, poiché come loro anche
Sanguineti rappresenta una sorta di corpo grottesco, simbolo dell’uomo alienato della società
contemporanea. In Laborintus troviamo tutto, troviamo il tema dello straniamento, che non è proprio solo
dell’uomo ma anche della poesia, che – trovandosi in un momento di crisi – si appoggia anche all’arte,
come nel caso di Sanguineti appunto. Il Laborintus descrive dunque uno straniamento cosciente. → La
poesia di Sanguineti. Quella di Sanguineti può essere definita action-poetry, una poesia d’azione che trova
le sue ragioni di essere nel suo “farsi”, nel lasciar capire a chi legge i processi a cui il poeta ha fatto ricorso
mentre scriveva.

Toti Scialoja.

→ Come nascono le sue poesie. Per Scialoja (qui parla nel 1986) ogni parola in poesia si riappropria del suo
enigma originario, fondato su una qualità fonico sillabica. È proprio a partire dal suono di una parola che
Scialoja compone le sue poesie (fa l’esempio di “zanzara”). La parola della poesia è infatti la parola detta,
non la parola scritta, dunque quella che tiene conto del suo suono. La poesia, per lui, va infatti pronunciata,
non può rimanere solo nel campo della scrittura. Nelle sillabe delle parole si trova un inconscio linguistico
che, a partire dal suono, permette di creare associazioni e apparizioni. La poesia è dunque
un’organizzazione sillabica che crea un labirinto, un luogo nuovo. La parola poetica è concettuale, rimanda
sempre ad altri significati: la parola fa nascere un’epifania. La parola poetica, inoltre, è paragonata da
Scialoja al periodo dell’infanzia, è come un luogo di origine. E così anche la sua pittura nasce dall’ignoto,
non nasce da qualcosa di prefigurato: come la pittura si costituisce all’interno della pennellata, così la
poesia si costituisce all’interno della parola. Il paragone che Scialoja fa riprende anche il nonsense, che non
è un qualcosa privo di senso, bensì una forma poetica che cela un enigma, enigma che è poi la sostanza
stessa della poesia. La poesia nasce da un atto fulmineo, è istantanea, è un labirinto di suoni e di concetti. E
se le parole sono allora inesistenza, forse affidata alle parole della poesia l’inesistenza diviene qualcos’altro,
qualcosa di concreto e tangibile.

Italo Calvino.
→ Saggio di Marco Belpoliti. Tra tutte le arti la pittura è quella che interessa maggiormente Calvino, che ha
sempre scritto di mostre e recensito opere del presente e del passato. La pittura è dunque importantissima
per Calvino, che vede lo spazio pittorico come superficie della narrazione e della rappresentazione. Per
Calvino la pittura serve ad indagare il “meccanismo del pensiero”: ciò significa che analizza e scrive opere di
altri per ricavarne ragionamenti anche sulla propria attività. La superficie pittorica è dunque lo schermo su
cui proiettare se stesso e il proprio mondo narrativo, anche se dalle sue analisi ricava anche ragionamenti
illuminanti per comprendere le opere degli artisti analizzati. Illuminante in questo senso l’analisi sull’opera
del pittore Giulio Paolini, una riflessione sullo spazio del pensare e dello scrivere. Per Calvino la MENTE è
come un teatro, un luogo dove far agire i pensieri: non conoscendo la pittura se non da esterno, Calvino
cerca di risalire a quei meccanismi mentali che la pittura ha in comune con la scrittura, cercando dunque un
universale che le unifichi.

Calvino su Giulio Paolini. Nel 1975 Calvino apre con un suo scritto il volume di Giulio Paolini “Idem”, uno dei
suoi scritti più impegnativi sull’arte. Nello scritto interpreta l’opera dell’artista, riflette sulla propria attività
di scrittore e medita sui meccanismi del pensiero. Secondo Calvino lo spazio che occupano le opere di
Paolini è uno spazio mentale, dato dal rapporto tra chi fa il quadro, chi guarda il quadro e il quadro stesso
come oggetto. Nello scritto Calvino paragona l’opera del pittore alla sua di scrittore, che a confronto giudica
fallimentare perché non in grado di mettere in atto questo stesso processo di spazio mentale. Per questo
Calvino analizza opere pittoriche per cercare di capire cosa comunicano, e cosa a sua volta vorrebbe
comunicare anche lui. Dunque, Calvino si situa su un doppio piano, di interpretazione dell’opera dell’altro,
ma anche di traduzione verso la sua opera. Nella sua analisi Calvino analizza anche l’autore dell’opera, che
vede come parte integrante dell’opera stessa. Per Calvino “vedere” significa avere uno sguardo mentale:
così come il pittore “vede” la sua pittura, così lo scrittore “vede” la sua scrittura. Dipingere e scrivere
significano prima di tutto vedere. Su un punto Calvino sembra distaccarsi totalmente da Paolini e dalla
pittura in generale: mentre la pittura è totalità, e ad essa “nulla si può aggiungere”, la sua scrittura è invece
molteplicità (basta pensare ad esempio a “Se una notte d’inverno un viaggiatore”), dunque mentre il
mondo di Paolini è un mondo fatto di pensieri, quello di Calvino è un mondo di oggetti. Il rapporto col
mondo degli oggetti, dunque allontana lo scrittore dal pittore, mentre ad avvicinarlo è lo sguardo, una sorta
di sguardo “tattile” che vorrebbe toccare ciò che vede.

Calvino su Saul Steinberg. Nel testo “La penna in prima persona” (1977) dedicato al disegnatore americano
Saul Steinberg, Calvino rende protagonisti tre scrittori, quali Cavalcanti, Michelangelo e Galileo. Non è un
caso che Calvino analizzi Steinberg, artista che viaggia su diverse correnti che cerca di unificare. Sceglie
questi scrittori per parlare di Steinberg perché tutti e tre uniscono disegno e scrittura in un’unica attività,
accomunata dal segno grafico. Per Calvino, infatti, l’atto materiale

della scrittura-disegno è la vera sostanza del mondo. In questo senso è importantissima l’attività visiva,
poiché il mondo è disegnato da ogni attività umana: l’arte deve dunque elaborare un’estetica attraverso il
suo fare, così che il fare dell’arte è un pensare, e il disegno ne è la forma sensibile.

In un altro testo dedicato a Steinberg, Calvino tratta di una serie di altri disegni dell’artista. In questo senso
ci si chiede quale rapporto intrattenga il testo narrativo di uno scrittore con l’opera dell’artista per cui è
stato scritto. La risposta varia da scrittore a scrittore. Tra testo e immagine è però possibile una circolazione
di senso. Per Calvino le immagini sono molto importanti, perché donano uno scatto necessario
all’immaginazione dello scrittore.

Il tema della città in Calvino e De Chirico. Nello scritto “Gli dèi della città”, Calvino esprime il proprio
“metodo” per “vedere” la città. Per vederla bisogna scartare tutte le immagini precostituite che si hanno su
di essa, semplificare la proliferazione del molteplice e collegare i frammenti sparsi in un disegno unitario. Il
tema della città riprende la conoscenza del reale in generale, tema su cui Calvino ritorna spesso nei suoi
scritti dedicati all’arte. Ad esempio, in occasione di una mostra di De Chirico nel 1983 legge il racconto “Le
città del pensiero”, un succedersi di quadri visivi e spazi mentali abitati dai personaggi scaturiti dai quadri di
De Chirico. La descrizione di questi spazi è dominata da una forte angoscia, il paesaggio dechirichiano
induce ad una dilatazione del tempo e dello spazio. Ospite ideale di questa città è il pensiero, poiché in
mezzo a questi spazi interminabili e impraticabili per l’uomo, il pensiero invece può circolare liberamente.
Questa città è dunque una città platonica, una città delle idee.

Calvino su Shusaku Arakawa. Per quanto riguarda invece la forma dello spazio della mente, luogo in cui lo
scrittore allestisce i propri racconti, in uno scritto dedicato al pittore nippo- americano Arakawa, Calvino
scrive che “la mente prende forma di molte forme, ma non tutte le stanno bene, ma un quadro di Arakawa
sembra fatto apposta per contenere la mente”. Qui Calvino parla sia della mente di Arakawa, che della sua
mente, che della mente universale, quella mente a cui tutti pensiamo quando pensiamo il concetto stesso
di “mente”. E poiché la mente somiglia ai quadri dell’artista, Calvino descrive i quadri e la mente,
trovandovi un denominatore comune, quelle unicità all’interno della complessità. Per Calvino la mente è
simile ad un foglio su cui i segni vanno e vengono, è uno spazio bianco, una superficie su cui allestire. Così,
proprio come la mente, anche i confini del quadro sono infinitamente estensibili: il tema della mente come
mondo infinitamente estensibile è proprio dell’ultimo Calvino. Calvino cerca infatti una mappa delle mappe,
che traduca il mondo in segni, in scrittura, che faccia sì che nessun’altra cosa si interponga tra il soggetto e
le cose.
Calvino e la fotografia. Tra i problemi principali dell’opera di Calvino c’è quello della “vertigine da infinito”,
vale a dire la consapevolezza che – nel momento in cui si sta scrivendo qualcosa – si vorrebbe in realtà
scrivere tutto quello che NON si sta scrivendo, in una sorta di vertigine infinita di possibilità. L’infinità è
dunque il limite verso cui si spinge tanto la scrittura di Calvino quanto la fotografia di Antonino Paraggi : la
fotografia, come immagine del reale, potrebbe aspirare a raccogliere l’immagine di tutti gli avvenimenti
contenuti nel tempo e nello spazio. La fotografia va dunque considerata come vera metafora della scrittura,
così come Calvino la considera: capace di esaurire il mondo e che, al pari della scrittura, ha nell’occhio il suo
principale organo descrittivo. Calvino è interessato alla fotografia perché questa gli sembra imparentata
con la scrittura: si pone il

problema di ciò che resta fuori dallo sguardo dello scrittore-fotografo, poiché nello scrivere o nel
fotografare qualcosa resta inevitabilmente fuori qualcos’altro. L’ossessione di quel qualcosa che scivola via
da questa “rete” è l’ossessione di Calvino di dover catturare il mondo. Ma per forza di cosa, la presenza
nella scrittura e nella fotografia, indica un’assenza. Punto di partenza di Calvino è dunque l’immagine, la
consapevolezza visiva del proprio lavoro. Per Calvino esistono due diversi processi immaginativi: il primo
che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva, l’altro che parte dall’immagine visiva e arriva alla parola
(es. descrizione di un quadro). Tra gli oggetti che alludono alla visività di Calvino troviamo dunque un libro,
una penna, attraverso cui si realizza l’atto materiale dello scrivere, una mappa, oggetto visivo che permette
di uscire dal labirinto dell’indistinto e rende visibile lo spazio (che è poi lo scopo della lettura/scrittura). Per
Calvino questo ipervisualismo significa anche essere consapevole che anche l’opposto di ciò che si vede
potrebbe essere vero o verosimile: per quanto ci si sforzi di costruire la propria conoscenza su ciò che vede
l’occhio, bisogna sempre tener conto che questo potrebbe anche essere ingannevole. Dunque quarto
oggetto da aggiungere alla lista è quello della cornice, che segna i confini di ciò che si vede, così come nel
quadro essa separa ciò che è all’interno da ciò che è all’esterno dell’opera.

→ Saggio di Calvino. Per Calvino le opere che espone il pittore non sono dei veri e proprio quadri, bensì
momenti del rapporto tra chi fa il quadro, chi lo guarda e il quadro come oggetto materiale. Lo spazio
occupato dall’opera è soprattutto uno spazio mentale. Queste opere non fissano il rapporto tra l’io e il
mondo, ma un rapporto che esiste a prescindere dall’io e il mondo, rapporto che anche lo scrittore
vorrebbe fissare ma non riesce. Anche lo scrittore vorrebbe raggiungere la stessa calma interiore del
pittore: lo scrittore guarda le opere del pittore cercando di tradurre ciò che essere gli comunicano in
qualcosa che vorrebbe comunicare lui. Calvino, inoltre, afferma di vedere l’autore dell’opera non come
soggetto, ma come elemento dell’opera stessa. Lo scrittore ammira molto l’impersonalità assoluta a cui
arriva il pittore, ma non ama quando questa riporta in ballo l’io. Si domanda, però, se non sia questa la via
per annullare l’io individuale: annullare l’io individuale per identificarsi con l’io della pittura di ogni tempo,
che è poi l’ambizione del pittore. Per quanto riguarda il prendere forma del quadro, Calvino afferma che il
quadro nasce sulla tela, ma pennellata dopo pennellata il fantasma mentale dal quale il pittore era partito
nel dipingere viene soppiantato dalla necessità che porta le forme ad organizzarsi tra loro. In tal modo il
lavoro del pittore parte dal presupposto che la pittura sia già un tutto finito a cui non bisogna aggiungere
nulla. In una sua tautologia, il pittore tende a ricondurre il molteplice all’uno (mentre lo scrittore semmai fa
il contrario). Così, nel fare nuove opere, il pittore cerca sempre di inserirvi anche quelle precedenti per
costruire un’opera unica, che funga da sorta di autobiografia. E lo scrittore, guardando questo tutto, vede
ciò che lui stesso vorrebbe scrivere.

Giorgio Manganelli.
Nel 1986, Giorgio Manganelli elaborava prose sulla base di immagini, che diedero vita ai Salons. Nel suo
saggio dedicato a Manganelli, Federico Francucci descrive la particolare modalità di sguardo dello scrittore,
che, come prima conseguenza, fa percepire l’illusorietà delle immagini.
Manganelli descrive ciò che vede il suo sguardo, così che i suoi pezzi sull’arte sono ecfrastici a tutti gli
effetti. Punto focale è cosa Manganelli veda e, di conseguenza, cosa non veda, cosa rimane fuori dal suo
sguardo. Innanzitutto, va detto che Manganelli si è interessato all’arte fin da giovane e ha sempre scritto di
arte. L’alta elaborazione stilistica è sempre un fattore preponderante nella sua critica d’arte, sebbene non
vorrà mai pretendere di essere un esperto, ma anzi sottolineerà sempre come quello non sia il suo mondo.
Eppure, così facendo, diventerà un osservatore le cui intuizioni saranno spesso più autentiche di quelle dei
professionisti. Un esempio di questo suo osservare è dato da “Antologia privata”, testo del 1989 in cui
Manganelli inserisce tre scritti dedicati all’arte, tra cui uno dedicato al pittore Pitocchetto (alberto ceruti). In
questo Manganelli parla del pittore lombardo, che aveva sempre preso i poveri come soggetto dei suoi
quadri: da “non- critico-d’arte”, Manganelli afferma di poter dire che quello che spinge Pitocchetto a
raffigurare i poveri non è un amore per questi ultimi, bensì si tratta semplicemente di una scelta stilistica e
pittorica, che gli permette di utilizzare certi colori proprio appunto della miseria e della povertà. Dunque, il
suo sguardo da non-critico è quello più veritiero, che coglie le reali ragioni dietro le scelte stilistiche di
Pitocchetto. Dunque, nella sua “critica d’arte”, Manganelli descrive ciò che non è propriamente visibile, o
che comunque non tutti vedono. L’ecfrasi di Manganelli sta dunque nel concentrarsi su ciò che gli altri non
vedono, ciò che si trova agli angoli nascosti dei quadri. Questo modo di fare di Manganelli proviene sia dalla
formazione personale dell’autore (cultura romantico-decadente), ma anche da una pratica diffusa nella
letteratura del Novecento.

Manganelli su Scialoja. Per esemplificare il modo di vedere di Manganelli può essere utile analizzare ciò che
egli ha scritto in riferimento all’opera di Toti Scialoja. In particolare, del periodo siciliano di Scialoja, a
partire dal 1985, periodo in cui il pittore riconquista il colore dopo una fase di neri e grigi. Fu infatti proprio
Manganelli, per conto delle Edizioni della Cometa, a stendere un’analisi su questo ultimo periodo pittorico
di Scialoja, intervento che prese il nome di “ La scoperta di un itinerario”. In questo testo Manganelli
descrive la pittura di Scialoja come un muoversi di frammenti dinamici, un’inquietudine ritmica: la sua è
un’ecfrasi, una descrizione di un quadro non figurativo. Tutto è ritratto in continuo movimento, ma questo
movimento è anche immobile perché recitato-rappresentato: linee e grumi di colore vengono interpretati
da Manganelli come “fantasmi”, “ombre” o “ectoplasmi”, mentre il colore rosso viene associato al sangue.

Luigi Malerba.

Prefazione di Malerba a “Le pietre volanti”. Nella sua prefazione a “Le pietre volanti”, del 1992, Malerba
afferma che il libro nasce da una sua inquietudine e da una gita nella campagna toscana. Afferma che tutto
nasce davanti a due quadri di Fabrizio Clerici (“Corpus Hermeticum” e “Un istante dopo”), pittore cui
effettivamente si ispira il protagonista dell’opera, Ovidio Romer. L’inquietudine scaturita da questi due
quadri ebbe poi effettivo riscontro durante un colloquio con l’autore stesso nella sua casa di campagna
toscana. Nel suo colloquio con Clerici, Malerba afferma di aver sentito un punto di incontro tra la sua
indagine letteraria e quella pittorica dell’artista. Malerba, sempre nella sua prefazione, afferma però poi
che i fatti raccontati non sono ispirati a Fabrizio Clerici, ma sono soltanto una sua finzione letteraria.

Saggio di Marcello Carlino su “Le pietre volanti”. Il protagonista de “Le pietre volanti”, Ovidio Romer,
consegna all’interno del testo un memoriale – che lui definisce romanzo – che ricade sotto la categoria di
“finzione”. Si tratta di una finzione che non cerca neanche di mascherare il suo essere finta. Così questo
memoriale/romanzo, che dovrebbe servire a Romer per ricomporre i frammenti del suo vissuto, presenta
motivi talmente romanzeschi che risulta difficile assimilarli come verosimiglianti. La ragione di questo
indirizzo nella sua narrazione memorialistica sta nella personalità anaffettiva e visionaria di Romer, che non
calcola i confini tra la realtà e la sua mente narcisistica. Romer tiene inoltre anche un secondo quaderno,
dove descrive la sua intera produzione artistica, così che si è portati a pensare che in “Le pietre volanti” ci
sia un racconto primo sopra un racconto secondo, dunque due piani narrativi. Si può dire che il senso del
testo sia allora un’ecfrasi della pittura di Ovidio Romer, che in più punti coincide con quella di Fabrizio
Clerici. In questo senso “Le pietre volanti” è una sorta di metaromanzo. Se Fabrizio Clerici era un metafisico,
erede della pittura metafisica del primo Novecento, così possiamo dire che anche la narrativa di Malerba è
in qualche modo tendente a questa corrente, e lui stesso è probabilmente un neo-metafisico, un post-
surrealista, un neo-manierista.

Nanni Balestrini.
Andrea Cortellessa su Nanni Balestrini e la poesia espansa. Nel realizzare “Collage degli anni ‘60”, il poeta
Nanni Balestrini afferma di aver ritagliato, combinato e incollato titoli di giornali di cui faceva già largo uso
per le poesie che scriveva, in un’operazione che gli permetteva di uscire dalla soffocante pagina del libro. Si
trattava dunque di una liberazione dalle parole, che si poneva come figura di un’altra liberazione. La sua
poesia, in tal modo, acquista un senso meta-poetico, dove i frammenti si sconnettono e poi si riconnettono;
inoltre, la parola di Balestrini, in questo contesto, si riallaccia ad altre forme espressive, in particolare alle
immagini artistiche. L’emarginazione della poesia negli ultimi decenni dal contesto sociale e mediale è stata
vissuta con naturalezza dagli autori della Neoavanguardia, che l’hanno vissuta come una poesia espansa,
una expanded poetry. Oggi la poesia espansa non è quella che si chiude in sé stessa, ma è quella che si
nutre di nuovi immaginari, di nuovi concetti, che estende i propri confini nel territorio dell’immagine, della
performance, dell’installazione. Oggi, ad esempio, le forme definite iconotestuali sono delle ibridazioni che
ci fanno vedere come immagine e scrittura possano concorrere a produrre un nuovo senso. E proprio i
poeti della Neoavanguardia sono stati i primi a praticare con naturalezza queste nuove forme, ispirati a loro
volta dai poeti della prima avanguardia (es. Balestrini stesso si ispira inizialmente ad Apollinaire), in una
commistione di carattere poetico e visivo, praticata appunto dallo stesso Balestrini.

La Expanded Poetry. Dalla fine degli anni Ottanta con il termine “iconotesto” si indica quell’insieme di opere
in cui sono compresenti testo e immagini, come in una stampa illustrata, ma senza che il testo sia
subordinato alle immagini o viceversa. Testo e immagini, nell’iconotesto, si trovano in un complesso
rapporto d’interdipendenza. La tradizione iconotestuale è riemersa nella letteratura degli anni Novanta
grazie all’opera di Sebald “Vertigini”, del 1990 e “Austerlitz”, del 2001, opere a partire dalle quali questa
tendenza si è rapidamente espansa. Nel panorama italiano, capostipite di questa tendenza
all’iconotestualità, ben prima di Sebald, è proprio Nanni Balestrini, con la sua opera “Blackout” del 1980.
Blackout non solo “forza” il linguaggio

della poesia ad uscire da sé stesso per accedere al territorio dell’immagine, ma “forza” anche il territorio
della letteratura a farsi storiografia del presente. Questa tensione alla narratività dunque si espande,
parallelamente alla ricerca iconotestuale. Narratività e ricerca iconotestuale dunque si intersecano, perché
parole e immagini dipendono appunto l’una dall’altra. Dunque, iconotesti poetici sono sempre testi anche
narrativi e viceversa, ed è significativo in questo contesto come proprio l’opera di Balestrini Blackout si
ponga a cavallo tra la sua produzione poetica e quella narrativa.

Saggio di Tommaso Ottonieri su Balestrini. Da qualsiasi parte si abbia accesso alle parole di Nanni Balestrini,
è come se ci si ritrovasse in un campo aperto, dove dal linguaggio si passa ai linguaggi, dove l’arte di
Balestrini punta a diventare totale. La filosofia del Montaggio di Balestrini sta nel conflitto, nella
costituzione di un’immagine nuova, nella capacità utopica di costruire un’altra profondità del reale. Ed è
proprio a partire dal conflitto dei linguaggi che nascono infinite possibilità di fuga. La scrittura nasce proprio
come atto visivo (dapprima scolpita nella pietra).

Appendici

Saggio di Maurizio Fagiolo Dell’Arco sull’arte negli anni ’60. Negli anni Sessanta si imposta un nuovo
rapporto con la realtà. Il New-Dada impone una ri-disposizione delle cose del mondo, in nome del nuovo
modello dell’action-painting. La Pop-Art (1961), indica un rapporto più stretto tra l’artista e i mass-media,
una prospettiva sociale. In Italia, molti degli artisti di questa nuova avanguardia guardano al simbolo,
all’oggetto, alla realtà, rifacendosi spesso alle proposte del Gruppo 63 e ai poeti “novissimi”. I tratti di questi
artisti ricordano quelli del poeta moderno: discontinuità del processo immaginativo, compresenza di vari
ordini di discorso, scomposizione ricomposizione della struttura sintattica ecc. Questi pittori cercano
un’arte che, come i “novissimi”, sia fedele al mondo oggettivo e intanto pronta a registrare quanto avviene
“dentro”. Si vuole rinnovare la visione del mondo, visione che passa anche attraverso il nuovo rapporto con
i mass- media. Lo spazio diviene irreale e sognante. L’arte cessa di avere funzione di denuncia o ironica ma
si riconosce nella realtà, e dunque riesce ad operarvi. Questa nuova prospettiva artistica è ripresa da artisti
come Rotella, Perilli, Novelli, Pistoletto, Pascali, Tacchi, ecc. C’è chi, nello stile, sceglie il reportage, chi la
moralistica, chi il dramma, la tragedia, il film muto e così via. Mimmo Rotella, con i suoi manifesti lacerati
nel 1954, è un vero precursore del movimento “novissimo”. Achille Perilli sceglie le scene della memoria e
del sogno in strisce che ricordano quelle dei fumetti. Gastone Novelli non cerca l’immagine ma il segno, non
la parola ma la lettera, auspica un ritorno al nucleo originario della vita. Mario Schifano sperimenta il
reportage e la messa a fuoco. Franco Angeli dipinge i simboli politici, tramutando quello che all’inizio
sembra compiacimento in sarcasmo.

Guido Biasi. Il diario di Guido Biasi, scritto ad una sola persona, è testimonianza e manifesto di tanti diversi
sportelli aperti sul mondo. Tutto il mondo oggettuale e visivo di Guido Biasi rimanda all’organico, ad una
matrice “ombelicale” che sta alla base di qualsiasi atto culturale.

Punto di partenza per comprenderlo meglio può essere il Manifesto per una Pittura Organica del 1957,
stilato ai tempi della sua adesione al Movimento di Pittura Nucleare, prima ancora di fondare il Gruppo 58 a
Napoli. Già dal Manifesto si possono cogliere i tratti di quella che poi sarà la neoavanguardia. Il diario di
Biasi, scritto all’amico Mario Persico, è una sorta di “mnemoteca”, una lunga lettera scritta nel giugno del
1960 all’amico dopo aver abbandonato Napoli per Parigi, centro della nuova cultura. Il libro si configura
dunque come una sorta di libro-oggetto pieno di versi, schizzi, aforismi e così via, che si caratterizza
pertanto come una sorta di teca con tanti sportelli aperti, più verbale che visiva.

Guido Biasi (1933-1983) e Mario Persico furono compagni di studio: Guido più estroverso, Mario più
riflessivo anche in merito alle proprie invenzioni. Finché Guido rimase a Napoli il loro lavoro di pittori
procedette di pari passo, orientati verso un neofigurativismo, quasi astrattismo. All’inizio entrambi avevano
anche un forte interesse per le forme organiche e antropomorfe, Guido in particolare insisteva su forme
quasi fetali. Guido, però, a differenza di Mario spaziava maggiormente, e questo lo portò ben presto a
trasferirsi a Parigi alla fine degli anni Cinquanta. Da lì prese vita il fitto scambio epistolare con Mario, e
prese vita il corposo diario della “Lunga Lettera”, di cui Mario pubblicò subito dei paragrafi su Documento-
sud n.5 nell’autunno del 1960. La Lettera prese corpo tra paragrafi, disegni, foto: non fu dunque mai
preparata come bozza, ma si configurò da subito come vero e proprio libro-oggetto.

Gastone Novelli.

Pittura procedente da segni. Redatto nell’aprile 1964 con il titolo “Linguaggio magico”, il testo viene
pubblicato nel novembre del 1964 con un nuovo titolo. Qui Gastone Novelli espone per la prima volta
alcuni dei principi fondanti della sua poetica, dalla distinzione tra linguaggio “accademico” e linguaggio
“magico”, alla relazione tra immagine e parola. Novelli parte dalla catalogazione di strumenti, quali segni e
alfabeti, in una struttura. I segni sono infatti concreti quanto le immagini: essi formano un universo, ed ogni
universo è un possibile linguaggio. Con linguaggio si intende un “linguaggio magico”, linguaggio in grado di
elaborare un sistema. L’esecuzione è il momento principale della fattura di un’opera: un’opera, poiché fa
parte di un universo definitivo, è sempre fruibile, anche se non serve ad una determinata società in un
determinato momento. La pratica del proprio universo è per l’artista importantissima.

Novelli e il problema del linguaggio (saggio di Claude Simon). Una pittura di Novelli può essere afferrata
solo dopo un’attenta osservazione. Da un lato troviamo le nostre sensazioni, dall’altro colori e suoni: da
queste due categorie, incontrandosi, deriva il linguaggio attraverso cui l’uomo si definisce. Novelli dipinge
grandi superfici con semplici macchie di colore, con estrema raffinatezza. In un secondo momento passa
invece a dipingere grigi e bianchi, con macchie incerte, questa fase dopo la guerra, nei confronti della quale
sentiva di dover andare oltre. Successivamente cerca una sintesi tra questi due poli opposti, dipingendo la
“Première Salle de Musée”, un muro di grigi e bianchi ma su cui ora appaiono macchie di colore. La sua è
una sorprendente ricerca pittorica e grafica, disegna l’innominabile pur sapendo che esso è un’illusione che
non si può afferrare: la vita sfugge, per Novelli, al nostro desiderio di conoscenza e di possesso.

Gianfranco Baruchello.

Saggio di Paolo Fabbri su Gianfranco Baruchello. Gianfranco Baruchello afferma di non essere mai stato
stimolato dalle immagini, ma da parole e idee. Le sue opere raffigurano infatti entità (piccole figure) e
grandezze (vaste tele) non mimetiche, più pensate e immagine che non viste. I suoi sono dunque “quadri a
parole”, che figurano un pensiero che si forma in bocca. Quando parliamo proiettiamo figure, e la prima è
quella del nostro corpo, così che la parola si fa autoritratto. Gli ampi spazi di Baruchello sono disseminati da
pittogrammi concreti e ideogrammi astratti, chiamati a tal proposito “Baruglifici”. I Baruglifici sembrano
essere nonsense, privi di significato, ma sono in realtà estremamente ingegnosi per il loro essere al limite
dei codici linguistico e visivo.

Saggio su “Tam Tam” su Gianfranco Baruchello. Dietro l’ironia della pittura di Baruchello c’è la messa in crisi
delle distanze e degli avvicinamenti della pittura moderna. Baruchello sottrae alle sue opere la dimensione
temporale.

Per Baruchello bisogna pensare energia sentendosi energia, bisogna farsi Zero dello Spazio tramite artifici
visivi che consentono di rimanere ancorati a qualcosa da cui ripartire ogni volta che il pensiero riprende a
procedere. Bisogna prendere a pretesto l’esistenza della Statua, in particolare del suo occhio, per attribuire
a quest’ultimo la capacità simbolica di vedere cose che il nostro occhio non può vedere: questo artificiale
Zero dello Spazio viene chiamato Occhio di Pietra.

Adriano Spatola.
Quando si parla di Adriano Spatola si parla di poesia concreta, ovvero la dimensione materica della nuova
poesia: ciò significava che le parole non venivano più usate per il loro significato, ma per i valori grafici e
visivi che potevano assumere. La poesia concreta opererà fin dentro la parola, smontandola e
ricomponendola, procedimento che risulta chiaro negli “Zeroglifici” di Spatola. Dalla poesia concreta si
inizia a realizzare l’ideale di una poesia universale comune.

Spatola fu poeta, teorico e critico della neoavanguardia italiana, sovvertitore di modelli linguistici ed
espressivi, in particolare nel settore sonoro e visivo. Oggi, sul rapporto tra parola e immagine sappiamo
molto di più, sappiamo che la loro forma aggiunge sempre un significato sostanziale, a seconda di come è
guardata, infatti, la parola può assumere nuovi significati. Le opere di Spatola puntano tutto sul significante,
piuttosto che sul significato: il suo zeroglifico non cerca implicazioni nella realtà, ma è esso stesso realtà.
Emblematico della poesia concreta di Spatola è il suo poema-puzzle “Poesia da montare” del 1965, giochi a
incastro di lettere e frammenti di lettere che implicano l’intervento diretto da parte del fruitore, che nelle
varie fasi di montaggio “legge” le forme. Nella poesia concreta il pubblico è dunque coinvolto come parte
attiva, aperto ad una plurisensoralità data proprio dall’opera in atto stessa. In questa sperimentazione
verbo-visiva, la poesia si fa oggetto e in quanto tale rifiuta i canoni tradizionali della lettura: l’unica
definizione che sembra poterla contenere tutta è “totale”. Adriano Spatola è tra i primi ad avvertire questa
nuova dimensione creativa, e nel suo saggio “Verso la poesia totale” indica chiaramente la vastità della
ricerca, che ponendosi al di là di qualsiasi limitazione di tipo linguistico, strutturale, metodologico, tecnico,
disciplinare o mediatico procede verso la totalità, organizzandosi come atto inglobante. Spatola comprese
dunque fin da subito che l’arte della parola sarebbe stata coinvolta in processi di sconfinamento linguistico
e di contaminazione inter-artistica sempre maggiore. Delinea dunque ben presto l’idea di una poesia come
centro della realtà. Dietro il progetto di poesia totale, inoltre, si affaccia il progetto utopico di superare la
scissione tra soggetto e oggetto, tra realtà e prassi. Spatola cerca un linguaggio che esca dalle consuetudini,
vuole aprirsi verso un nuovo mondo “abitabile mentalmente”. Sede di questo nuovo tipo di poesia, che
richiede autonomia completa, sarà la rivista “Tam Tam”. La parola mette in discussione sé stessa.

Su “Zeroglifico” di Spatola (saggio di Giulia Niccolai). I primi contatti di Spatola con la poesia concreta
risalgono al 1964, quando – a partire dal Parasurrealismo – comporrà i primi puzzle- poems, che si
concretizzeranno poi proprio in “Zeroglifico”. La stessa parola “zeroglifici” esprime la volontà di tornare al
grado zero della scrittura e quindi della parola. Giulia Niccolai analizza attentamente tutto questo.
“Zeroglifico” significa l’annullamento del messaggio semantico fermo, restando il messaggio iconico. I
primi zeroglifici erano stampati su schede sciolte di cartoncino rigido raccolte in un contenitore a forma di
busta, che potevano essere lette secondo una sequenza “a caso” da parte del lettore. Col passare degli anni
questi zeroglifici si sono caricati di connotazioni di ipotetiche note musicali, di riduzione segnica (come da
spartito) di un componimento musicale. Negli zeroglifici viene cancellato ogni significato obbligato. Lo
zeroglifico esce allo scoperto quando si porta alla luce ciò che giace sotto il semplice segno verbale. Questi
nuovi segni, così scoperti, possono poi dar vita a numerosi nuovi significati ed interpretazioni. Il segno inizia
a prendere significato soltanto nel momento in cui è visto.

Saggio di Michele Cometa “La prospettiva iconotestuale”.


Iconotesti. Nella letteratura esistono forme chiamate fototesti, che prendono vita poco dopo l’invenzione
della fotografia. Se prima si faceva fatica ad accettare questa forma letteraria, oggi invece essa occupa un
posto di rilievo nel canone letterario anche alto. Ma che cos’è un fototesto? Per capirlo bisogna adottare un
approccio interdisciplinare che tenga conto del rapporto tra testo e immagine, del verbale e del visuale.
Possiamo definirlo come “un artefatto in cui segni verbali e visuali si mescolano per produrre una retorica
che dipende dalla compresenza di parole e immagini”. Va inoltre detto che – nell’era della multimedialità –
non è detto che i fototesti siano solo e soltanto tradizionali prodotti a stampa, ma possono ormai essere
anche prodotti digitali. Per definire un fototesto non è detto, inoltre, che debba esserci la prevalenza del
medium verbale rispetto a quello visuale: va sempre presa in considerazione la compresenza dell’elemento
verbale e di quello visuale, anche quando ci sembra che uno dei due manchi del tutto. Il fototesto è un
ibrido, dove la parola non può rinunciare all’immagine in nome di una sua purezza: l’ibrido scaturisce
dall’incontro di due forme. Per molti autori la combinazione tra testo e fotografia marca una crisi della
rappresentazione, più che un vantaggio: il fototesto è infatti lo scarto tra verbale e visuale, per cui produce
una frattura tra ciò che si vede e ciò che è esistito. Il dialogo sugli iconotesti si è fatto sempre più
importante soprattutto con l’avvento della fotografia, che ha sostituito il disegno e ha “costretto” il teorico
della letteratura ad approfondire l’esistenza dell’immagine fotografica. Nel parlare di fototestualità bisogna
inoltre tener conto di due condizioni

- una di carattere teorico afferma che il problema del rapporto tra immagine e testo è qualcosa di
inevitabile, poiché tutte le arti si mescolano e vengono a contatto
- l’altra di carattere storico riguarda la terminologia, che ha visto le definizioni di fototesto farsi via
via sempre più complesse: non esiste infatti solo il termine fototesto, ma anche altri termini come
“photo-essay”, “foto-epigramm”, “photographic novel” e così via.

Retoriche del foto-testo uno studio che voglia sistematizzare il fototesto non può non tener conto del
complesso rapporto tra immagine, dispositivo e sguardo. In primis, infatti, l’atto della fruizione – quindi
dello sguardo – nel fototesto è molto più complesso rispetto al semplice atto di lettura (retoriche dello
sguardo); inoltre bisogna tener conto del dispositivo tramite cui si fruisce del fototesto e della sua
impaginazione (retoriche del layout); infine il sistema di integrazione tra elemento testuale ed elemento
visivo rende l’esperienza di lettura di un fototesto molto più complesso della singola lettura verbale
(retoriche dei parerga). Il discorso sui fototesti deve dunque articolarsi su questi tre piani, affinché si
pongano le basi di una teoria delle fototestualità. In primis la retorica dello sguardo deve interrogarsi su
tutte le implicazioni che lo sguardo fotografico può avere per la letteratura. Ad esempio, una forte
manipolazione dello sguardo in fotografia è data dal rapporto tra sfocato/messa a fuoco, alternando ciò che
si vede a ciò che si nasconde. Per quanto riguarda la retorica del layout, bisogna invece sottolineare in
primo luogo come la retorica dell’immagine, oggi, non deve definire solo il rapporto tra testo e immagine,
ma studiare anche i rapporti che si creano tra immagine e immagine, a prescindere dal testo. Lalla Romano,
per esempio, ha dedicato particolare attenzione al layout del proprio fototesto (es. nel riadattamento
costante del suo “Lettura di un’immagine” del 1975). Nella scrittura ecfrastica, troviamo che il testo e
l’immagine, in alternanza, assumono i caratteri di descrizione e di esemplificazione, senza che si possa
capire se è il testo ad illustrare l’immagine o l’immagine a commentare il testo. Gli effetti del layout sul
lettore possono essere molteplici, può guidare il lettore, oppure può costringerlo a riformulare una
narrazione a partire dalle sole immagini. Il layout implica inoltre che si tenga conto di scelte principalmente
fotografiche, come l’effetto zoom ad esempio; non solo, all’interno del materiale fotografico possono
confluire una serie di elementi che non sono soltanto la foto propriamente detta, quali cartoline, lettere,
ricette, manoscritti, ecc. In ultimo abbiamo le retoriche dei parerga, che tengono conto del fondamentale
fatto per cui nella fruizione di un fototesto è impossibile distinguere l’atto della visione dall’atto della
lettura. Parerga e immagini vanno dunque di pari passo nei fototesti. Va poi detto che i parerga non sono,
all’interno dei fototesti, dei meri elementi testuali, poiché sono fondamentali nella costituzione
complessiva del layout (es. relazione tra didascalia e immagine).

Le forme dei fototesti: emblema, atlante, libro illustrato. Nel provare a dare una prima sistematizzazione al
fototesto, si possono distinguere tre modalità di costruzione:

1. la forma- emblema
2. la forma-atlante
3. la forma-illustrazione.

Queste tre forme vengono continuamente rielaborate nelle sperimentazioni fototestuali, stabilendo
relazioni tra loro e non cristallizzandosi mai in forme fisse. Nella forma-emblema prevale il ruolo
dell’autore ed una retorica dello scambio tra le varie parti che costringe il lettore ad una visione/lettura
monodirezionale. La forma-illustrazione propone invece la visualizzazione di un testo.

La forma-atlante, infine, è un dispositivo che ha preceduto la fotografia, ma che grazie all’avvento di


quest’ultima ha potuto rendere virtualmente infinita la manipolazione delle immagini. Non va poi
trascurato il patto che il lettore instaura con il fototesto, cosa che avviene in ogni ecfrasi o rapporto tra
testo e immagine: l’illustrazione semplice richiede il grado più basso di partecipazione del lettore, mentre la
tripartizione dell’emblema (inscriptio, pictura, subscriptio) richiede uno spazio più ampio per la ricezione.
Queste tre forme, in generale, vanno considerate come dominanti che di volta in volta entrano in gioco. Nel
caso della forma-emblema, troviamo la giustapposizione tra un titolo (inscriptio), foto (pictura) e un
epigramma o commento (subscriptio). Anche nel caso della forma-atlante bisogna sempre tener conto della
relazione che si instaura tra testo e immagine, e non della quantità di testo che a volte può ridursi anche ad
una semplice didascalia. La forma-illustrazione, infine, è apparentemente la più semplice, ma anche essa
nel corso del Novecento ha spesso subito modifiche interessanti: l’ecfrasi è sì la verbalizzazione di un
messaggio, ma anche l’illustrazione è la visualizzazione di un testo.

I fototesti e la memoria. In una futura teoria sui fototesti, sarà necessario considerare il fototesto come un
caso particolare dell’iconotesto letterario, non solo perché l’iconotesto rappresenta un dispositivo in cui
convivono testo e immagine, ma anche perché il fototesto puro (dato quindi dalla mera giustapposizione di
testo e immagine) sembra essere più un’eccezione che una regola. Gli autori sembrano stimolati a forme
più complesse di integrazione tra testi e immagine. Per fare tutto questo sarà sicuramente necessario
studiare i modelli formali di emblema, illustrazione e atlante, così come le retoriche di sguardo, layout e
parerga, magari utilizzando strumenti più raffinati. Il successo del fototesto nel Novecento non va ricercato
solo nel fascino che esercita la sua forma, ma ha anche ragioni estrinseche: esso rielabora il passato
traumatico dei singoli e della collettività, passa attraverso l’autobiografia e la memoria. La fotografia e la
letteratura possono reinventare la storia.

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