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Mila Spada 1FSDA

Saggio breve sul tema del vuoto nell’arte contemporanea


Intro
Cercando di capire quale fosse il comune denominatore tra la musica che ascolto, le immagini e
gli artisti che sento vicine alla mia sensibilità, mi sono resa conto che è il vuoto il tema ricorrente.
Mi sono accorta che questa sensazione di sospensione, attesa e profonda introspezione senza
meta mi fa sentire a casa, mi provoca quasi un senso di nostalgia in ricordo di una stasi dei sensi
che mi porta a guardare la realtà con un campo di profondità sempre più ampio; mi porta a
riconoscere che l’equilibrio è dato anche dal vuoto.

L’artista che inizialmente avevo scelto era Lucio Fontana, ma scrivendo e approfondendo
l’argomento mi sono resa conto che per restituire una riflessione completa, dovevo rivolgere il mio
sguardo anche ad altri rilevanti artisti dell’arte contemporanea cui è molto caro questo tema. Ho
strutturato il saggio in questo modo:

• La videoarte di Bill Viola - attraverso l’archetipo dell’acqua, raffigura la natura temporanea del
mondo fenomenico e dilata il momento di “vuoto” attraverso l’immersione, sospensione e
sublimazione del corpo

• Il vuoto nella corrente realista, Goustave Courbet - che raffigura questa “sospensione” nel
momento saliente privo di emotività (che paradossalmente trasmette un’estremo
coinvolgimento) dato dall’istante “neutro” che divide il susseguirsi di due sentimenti nell’animo
del soggetto

• Le opere surrealiste di Kay Sage - il vuoto e il sogno si sovrappongono creando scenari dove lo
spazio e il tempo sono distorti e cristallizzati nella loro percezione

• l’arte concettuale di Giulio Paolini - interpreta il vuoto come avvenire, mette in scena l’attesa di
un’immagine che elude ogni tentativo di fissazione, per rimanere sospesa nella dimensione del
potenziale

• La ricerca spazialista di Lucio Fontana - sigilla l’istante con un gesto rapidissimo che per
l’artista ha il volare filosofico di atto di fede nell’infinito, le sue tele si articolano in una
dimensione atemporale e trascendono la bidimensionalità pittorica

Ho colto quindi l’occasione per interrogarmi e in primis capire come, nell’arte contemporanea, sia
vissuto e interpretato il vuoto, in secondo luogo mi sono chiesta come mai ne sia così
involontariamente affascinata, ma non credo che questa sia la sede adatta dove raccogliere i miei
pensieri a tal proposito.

1. Bill Viola
La ricerca per la stesura di questo saggio non è stata così semplice, tra gli articoli e i libri che ho
letto, spesso ho visto confondere la ricerca spazialista di Fontana con uno studio dello spazio fine
a sè stesso, oppure la parola “sospensione” fraintesa, invece che un brevissimo momento privo -
quindi paradossalmente carico - di emotività, questa diventa un pretesto di distacco per l’autore o
il soggetto rappresentato. Per evitare equivoci, quindi, chiameremo vuoto l’incontro tra spazio e
tempo, quell’istante che sta tra la fine di un momento e l’inizio di quello successivo.

Trovarsi in uno stato di sospensione significa essere come un corpo lanciato con forza verso
l’alto, che rallenta fino a fermarsi nel momento in cui la forza di gravità e il movimento
ascensionale in rallentamento si equivalgono; significa provare quel senso di estasi e nulla totale
dopo un tuffo in acqua da una notevole altezza, quando il corpo è a metà tra l’affondare e il
riemergere. Bill Viola è un artista contemporaneo italo-americano che ha sapientemente portato
alla luce questa particolarissima sensazione, attraverso un linguaggio che che nel corso degli anni
è stato in grado di portare agli antipodi.

Reflecting Pool (1979) è considerata l’opera più radicale di tutta la storia della videoarte[1].
Teorizzata intorno al concetto originario di battesimo, simbolo di purificazione e iniziazione, il
protagonista, nell’atto di tuffarsi in uno specchio d’acqua di fronte a sé, rimane immobile nel suo
salto. Dopo essere svanito, il buio pervade la superficie dell’acqua, dove si riesce ad intravedere
una figura, come un’allucinazione; quindi l’uomo riemerge dall’acqua nudo, purificato.

Il suo corpo è indagato come un’essenza transitoria che oscilla tra la labilità degli eventi, visti
soprattutto come condizione riflessa, sfuggente e sospesa, lo sdoppiamento fisico (la figura è
esposta contemporaneamente come reale e virtuale) e un’idea di immobilità solo apparente, che
allude sia al suo contrario, sia al concetto di infinito.[2] Il bordo della piscina è la soglia da
superare, l’acqua lo specchio da infrangere, fluido purificatore e medium riflettente di immagini e
azioni reali e illusorie. Il proposito è creare una connessione tra un “al di qua” e un “al di là” che
non si consuma, rimane implicita, sospesa, nel tentativo di sollecitare un risveglio visivo ed
emotivo.

Gli elementi che compongono quest’opera, l’acqua, il fitto bosco che circonda lo scenario, il buio,
il vuoto - il «posto [che c’è] prima e dopo l’immagine»[3] - sono metafora di una soglia che viene
marcata, la soglia dello spazio e del tempo, concetti finiti e misurabili e allo stesso tempo infiniti e
non quantificabili. «Chi sono? Dove sono? Dove vado?» All’ultima domanda non abbiamo la
possibilità di ribattere, dice Viola, (e non solo lui), se non attraverso un’autentica risposta data al
«Chi sono?» iniziale - la chiave dell’esistenza parte dalla consapevolezza di se stessi.

Con Ascension (2000), il corpo è chiamato a uscire dall’oscurità di questi abissi emozionali che
rischiano di intrappolarlo, lasciandolo in una stasi apatica e surreale. Nelle acque blu intenso di
Ascension il piombare fragoroso del corpo diventa indice di una spiritualità sospesa nel confronto
simultaneo del mondo interiore, per lo più inesplorato, e con uno superiore altrettanto ignoto.
Accompagnata da una miriade di effervescenti bollicine e un frastuono assordante, la figura
dell’uomo che precipita in acqua a braccia sollevate, nella stessa familiare posizione che abbiamo
incontrato infinite volte nell’iconografia cristiana, condensa in un unico momento due fasi e due
ritualità opposte. Nel clima di sospensione, intensificato dalla lentezza della durata, il liquido
profondo, amniotico, accoglie il corpo con fare elastico che ne implica una riemersione,
un’ascensione. In quest’opera Bill Viola ci propone la caduta che non ci era data a vedere in
Reflecting Pool: il momento catartico che nell’opera del 1979 viene sottintesa qui viene dilatata, a
completa disposizione della contemplazione.

2. Goustave Courbet
“Non ho voluto imitare né gli uni né copiare gli altri; né ho studiato l’intenzione di raggiungere
l’inutile meta dell’arte per l’arte. Ho voluto semplicemente attingere dalla perfetta conoscenza della
tradizione e il sentimento ragionato e indipendente della propria individualità; (…)
Essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell’arte viva, questo è il mio scopo.”
Goustave Courbet, 1851
La sua visione del presente risiede nelle riflessioni sulla condizione esistenziale dell’individuo e
sulle manifestazioni esteriori di una ricerca inesausta. Un'opera giovanile, il Disperato (1843) ci
presenta il giovane Courbet con gli occhi sbarrati, le narici dilatate, la bocca leggermente aperta,
una mano che afferra la testa e l'altra che tira con violenza i capelli; si spinge verso l'osservatore,
quasi sul punto di saltargli addosso. In apparenza può sembrare un tentativo di catturare in modo
realistico, come se stesse davvero accadendo, l'effetto di un'espressione momentanea, uno
studio di realtà.[4] Ma più guardo il dipinto, meno mi sembra plausibile una mera ricerca di questo
tipo: l’obiettivo non è quello di rappresentare l’espressione sul suo volto, quanto piuttosto di
dipingere in azione, e in un certo senso drammatizzare, il suo “accorgersi” di essere un disperato.
Cosa vedono i suoi occhi è il riflesso di un giovane libero e dannato, con i capelli scompigliati, le
guance rosse e con uno sguardo che ha la stessa fugace durata della sua presa di coscienza, che
cristallizza il momento esatto che sta tra il prima e il dopo.

Difficile per un uomo nel fiore degli anni arrivare a dichiarare a gran voce quale sia per lui la natura
delle cose reali e al contempo la propria “appartenenza totale alla libertà” - ossia la volontà di
accettare e rappresentare la realtà per quella che è - ma anche di ingaggiare una strenua lotta
politica contro quella che era la percezione della realtà dei tempi. Per questo il suo guardare i
poeti a lui contemporanei risente di una incomprensione che, a tratti, sfocia in disprezzo. L’onestà
pittorica di Courbet diventa contrattacco alla fiaba sociale, al modello luccicante di società e a
quanto di artefatto il suo tempo sia in grado di produrre, arrivando a vivere con pregiudizio il
modo in cui la poesia arriva a indagare il rapporto con quel tutto. Sono gli anni in cui la poesia si
interroga sulla deriva della società, che in Baudelaire approderà alla ricerca di una dimensione
onirica e immaginaria come rifugio dal mondo reale, rifiutando così il realismo e il positivismo[5].

Il tema dell’onirico invece, per Courbet, viene rielaborato ed espresso ancora una volta come
necessità di narrare la vita e il reale attraverso l’opera.

Una delle sue sorelle è assopita per la stanchezza mentre fila, l’artista la ritrae seduta su una
sedia imbottita e lo scialle che le circonda le spalle; il fuso è sostenuto appena da un dito, la testa
leggermente reclinata ma ancora in tensione. Quell’attimo colto nella sua spontaneità, lontana da
pose per composizioni artefatte, è identificabile come l’istante che precede l’abbandono della
donna al sonno più profondo. Si può prevedere che la tensione del collo l’attimo dopo lascerà la
testa poggiarsi sulla spalla destra, il filo sorretto si poggerà sulle sue gambe rilassate, la bocca
ora serrata lascerà intravedere una fessura. Sono questi gli istanti fugaci rubati al tempo in grado
di qualificare l’arte: “Il quadro offre uno spazio per esistere a qualcosa in noi che
ignoravamo” (David Bosc).

3. Katherine Linn Sage
Riallacciandomi al tema dell’onirico, e naturalmente approfondendo “il vuoto” nell’arte
contemporanea, non posso che citare l’opera di Kay Sage. In un modo surrealista, la sua pittura
risuona di sconvolgenti paradossi e qualità allucinatorie, rappresentando profondissimi orizzonti
deserti costellati di architetture e materia accatastata indecifrabile.

Nelle sue tele sono rinvenibili alcuni elementi ricorrenti: quello che appare con maggiore evidenza,
come soggetto/oggetto dominante nei suoi quadri, è il drappo. Questi drappi sospesi, piegati,
antropomorfizzati, concentrano in sé l’enigmaticità della scena. La presenza del tessuto gioca un
ruolo veritativo tra il fenomenicamente percepibile e il celato, rievocando i back-stage teatrali con
chiaro riferimento metafisico, ma anche il velo di Maya[6], illusoria realtà che priva l’uomo della
diretta esperienza della Verità. Il drappo spesso si erge sospeso nell’aria, imperturbabile al vento,
stagliando una netta ombra sotto di sè. In the third sleep ne potrebbe essere un esempio: qui il
drappeggio pare essere appuntato nella sua estremità più alta così da ricadere morbido fino alla
superficie dove poggia, una struttura a rampa che attraversa un paesaggio arido. La sorprendente
composizione suggerisce le forme e gli spazi mistificanti dei mondi onirici, riflettendo il fascino dei
surrealisti per l’inconscio[7], e restituendo, attraverso la corda arancione che serpeggia nella parte
inferiore della tela, una visione del suo complesso percorso di vita interiore.

Un altro elemento centrale è riferibile ai varchi. Le varie aperture e porte divengono i passaggi
visibili, aperture metaforiche tra dimensioni esistenziali differenti. Il prima e il dopo vengono
chiaramente identificati dal limen che taglia diverse dimensioni comunicanti. Non ci è sempre dato
sapere però come avvenga il passaggio da una parte all’altra, cosa succederà una volta superata
la soglia o cosa è successo fino a quel momento: Sage fissa l’immagine di quello che è il
presente, come un varco che abbiamo l’obbligo di superare ogni istante per dare vita al
susseguirsi del tempo.

Un ulteriore oggetto iconico significativo che possiamo riscontrare in dipinti come My room has
two doors, oltre al discorso dei varchi, è una possibile chiave di lettura che l’artista ci fornisce a
tal proposito: l’uovo, che posto di fronte all’aprirsi di un passaggio lascia presagire la natività, il
passaggio all’essere, il divenire. Oltre a richiamare alla mente dipinti iconici dove questo simbolo è
centrale, a questa prospettiva il passaggio si carica anche di una semantica inversa in cui il
passare può essere sempre assunto come un trapassare, verso deserti solitari che restituiscono il
vivente alla solitudine cosmica del proprio destino. Ed è proprio attingendo da memorabili opere
sacre come la Pala di Montefeltro,1472, di Piero della Francesca che l’uovo diviene
contemporaneamente rappresentazione della purezza e perfezione del concepimento del Messia
che della sua futura risurrezione.

4. Lucio Fontana
“La vita tranquilla è scomparsa”, scrive nel suo celebre testo, “e anche la creazione artistica deve
adeguarsi al movimento, alla rapidità, deve sorpassare le tradizionali distinzioni tra colore e suono,
tra spazio e tempo, tra pittura e scultura”. Le riflessioni dell’artista, che a tratti possono ricordare i
precetti dell’avanguardia futurista, trovano riscontro nel suo progressivo disinteresse verso la
scultura comunemente intesa, a favore invece della sperimentazione su tela. Sperimentazione su
tela, però, non semplice pittura: Fontana non considera la tela un banale supporto
convenzionalmente adibito all’attività artistica, come un attore può concepire il palcoscenico o un
poeta il foglio di carta. Lui tratta la tela allo stesso modo in cui, da scultore, adopera la terracotta,
il ferro, la ceramica - la tela è materia, e in quanto tale deve essere lavorata, plasmata, modificata,
fino al suo definitivo superamento[10].

Inizia nel 1949 la serie dei Concetti spaziali e, oltre ai tagli e i teatrini, i Buchi, laddove il “buco”
non è da intendersi come un gesto distruttivo ma, al contrario, come un atto costruttivo, ricorrente
sia nelle opere legate al supporto bidimensionale - sempre però smentito come tale dall’atto
stesso della perforazione, che immette nell’opera non solo la terza dimensione, ma anche la
quarta, ossia quella temporale – che in quelle scultoree.

Per l’artista invece i Tagli, corrispondono alla creazione di uno spazio filosofico e concettuale, a
una dimensione sospesa – da qui il sottotitolo Attese – in cui l’uomo, liberato dalla schiavitù dello
spazio e del tempo, appartiene in uguale misura alla contingenza del futuro. Lo spazio che vi è
alluso non è più terreno, né certamente prospettico o materico; ha invece senso d’allusione
infinita, cosmica (a volte persino sottolineata da uno sperimentale effetto di luce retrostante).

Se, in un processo astraente, la purezza della superficie monocroma di Fontana assume

sicuramente il valore di una spazialità altra, incommensurabile e ulteriore, certo è che, quasi nulla
nell’intera opera di Fontana tende a risultare in due dimensioni: ciò non accade nei Buchi, nei Tagli
e, tantomeno, nei Teatrini, che per Fontana erano tutti, come già si è detto, Concetti spaziali, ossia
il risultato di un vitalismo d’espansione spaziale, frutto di un dialogo paritario tra materia, segno,
movimento e luce, teso verso la quarta dimensione.

Cosa vuole mostrare Fontana, forando la tela? Cosa c’è, continuiamo a chiederci, oltre quel
quadro, quella superficie, quello spazio, oltre tutte queste parole gettate al vento? Cosa si cela
dietro? Di fatto, cosa propone l’artista è uno squarcio che lascia intravedere nient’altro che il nulla
più assoluto, ovvero il muro. Oltre il taglio di Fontana c’è il muro.

Si potrebbe pensare che sia il vuoto dell’ignoto a emergere, ciò che non ci è consentito
conoscere, nei suoi quadri prende una forma e in realtà questa forma non è nient’altro che la
soglia del tangibile squarciata, il velo di Maya lacerato; di fatto è il vuoto il protagonista dei suoi
Concetti Spaziali. Sotto questa luce, escludendo il concetto di tempo che indubbiamente è
fondamentale per leggere l’opera, ma che in questo testo abbiamo già affrontato, i Buchi
diventano segno quasi in sordina; la superficie si distingue come un’apparizione, diventa
«presenza» di là da ogni concetto di contaminazione della bidimensionalità spaziale. Direi anzi che
non vuole affatto contaminarla: ma rispettarla profondamente, per accentuarne l’astrazione di
purezza.

5. Giulio Paolini
La spazio-temporalità che ha caratterizzato le Attese e i Concetti Spaziali di Fontana la si può
ritrovare, interpretata in maniera opposta, da Paolini, in particolare nelle sue opere su carta. Il
rapido impeto di lacerare la tela, che perforata lascia scoperto il vuoto che nasconde, è l’opposto
rispetto lo strappo, che fuori controllo quanto accurato va a strappare la superficie della carta per
isolarne una parte o per dividerla in più pezzi. Si tratta di due gesti opposti e complementari: il
primo implica precisione e distanza (l’artista non tocca il foglio con le mani, ma utilizza un
taglierino Stanley[8]), introduce una nuova dimensione, è un taglio che si apre e si chiude
nell’attimo della perforazione; il secondo implica al contrario approssimazione, tempo e rapporto
tattile diretto col foglio, decontestualizza quest’ultimo, ed è indeterminabile.

Posti in dialogo, i due gesti tra loro antifrastici rivelano l’essenza della superficie utilizzata: l’essere
uno spazio vergine destinato a immagini metafisiche che hanno a che fare con i pieni e i vuoti del
supporto stesso.

Dalla sua prima opera, Disegno geometrico (1960), realizzata a soli vent’anni, Giulio Paolini ha
sviluppato la propria ricerca indagando gli elementi costitutivi del quadro, lo spazio della
rappresentazione, il fenomeno del vedere e la figura dell’autore. Nel corso del tempo la
focalizzazione sull’opera considerata nel suo divenire – alla ricerca della propria possibilità di
definizione – lo ha portato a concentrare l’attenzione in misura crescente sul gesto
dell’esposizione, fino a mettere in gioco la legittimità o necessità di questo stesso mostrarsi.

I suoi lavori non hanno “nulla da dichiarare”: non vogliono comunicare alcunché, per limitarsi a
evocare le premesse del loro manifestarsi.

Costituiti principalmente da tele bianche, fogli da disegno, calchi in gesso, riproduzioni


fotografiche, volumi in plexiglas e da un vasto repertorio di elementi iconografici (da particolari di
dipinti antichi a frammenti di visioni siderali), mettono in scena l’attesa di un’immagine che elude
ogni tentativo di fissazione, per rimanere sospesa nella dimensione potenziale.

Il costante rinvio del momento della rivelazione lascia spazio all’interrogazione della
rappresentazione come tale: all’impalcatura che la annuncia, al catalogo di ipotesi che la precede
e al mistero che la preclude allo sguardo immediato.

Giulio Paolini, infatti, focalizza le sue riflessioni sul ruolo dell’artista, sullo spazio e gli strumenti
della rappresentazione, sulla relazione tra autore e opera, opera e osservatore, osservatore e
artista; si interroga sullo spazio concettuale che sta tra il creatore e la creazione, che, in mancanza
di risposte certe, nelle sue opere viene identificato e rappresentato come mancanza di un nesso
tangibile, come “vuoto” inesauribile.

Egli definisce il gesto intrinseco della tecnica del collage in questo modo:

“Qualora non sia necessario delimitare con precisione un margine, ossia tracciare una riga dritta
sul foglio oppure scontornare una figura con la forbice, mi sembra più corretto appropriarmi di un
frammento di carta, toccandola, sentendone la consistenza, lasciandola dialogare con la mano che
la strappa e a cui fa resistenza.”
In altre parole, per indagare questo tema, egli si appropria di un elemento preesistente (un foglio
di carta, oppure un particolare desunto da materiali a stampa) che dichiara di essere stato parte di
qualcos’altro proprio attraverso il proprio margine strappato. Il frammento lacerato può perciò
dirsi concettualmente similare al motivo iconografico paoliniano delle rovine antiche, in quanto,
come queste, evoca un vuoto: a essere rilevante non è ciò che resiste al gesto della lacerazione
oppure alla consunzione dettata dal tempo, ma la parte invisibile, assente, irrimediabilmente
perduta.

È l’irregolarità del margine dell’elemento lacerato e applicato sul supporto a rendere quel
brandello “simile a un meteorite che provenendo dallo spazio assoluto e infinito dell’universo, si
conforma in modo casuale durante il tragitto per poi cadere sulla terra in un punto preciso”.

Lo strappo mette in luce per contrasto, dunque, l’impossibilità di una stabilità e interezza da parte
dell’immagine, colta nel suo continuo divenire[9].

Bibliografia:
1. J. P. Fargier, The Reflecting Pool de Bill Viola, Crisnée, Belgio, Éditions Yellow Now, 2005, ed.
it. The Reflecting Pool di Bill Viola, Roma, Bulzoni Editore, 2009.

2. Adreina Di Brino, http://www.arabeschi.it/il-riflesso-di-un-bill-viola-tra-passato-e-presente-


per-unarte-senza-tempo/#sdendnote12anc, 27/05/21

3. Bill Viola in R. Violette, B. Viola (edited by), Bill Viola, Reasons, p. 207.

4. Michael Fried, "Courbet's Realism", University of Chicago Press, 1992

5. Cercando Courbet, La chiara fontana, David Bosc, 2017

6. Kay Sage, https://fantasticonellarte.wordpress.com/2016/10/23/kay-sage/, 29/05/21

7. Art Institute Chicago, https://www.artic.edu/artworks/53237/in-the-third-sleep, 29/25/21

8. Come Lucio Fontana realizzava i suoi tagli https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/


come-lucio-fontana-realizzava-i-suoi-tagli

9. Giulio Paolini e le opere su cartahttps://www.doppiozero.com/rubriche/5622/201711/giulio-


paolini-opere-su-carta

10. Opere del color Fieldhttps://artemoderna.altervista.org/opere-del-color-field/

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