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Identità e alterità
nello spazio poetico
di Giuseppe Armani
ABSTRACT
Proprio come il tempo,innanzitutto misurato,calcolato,controllato nel faticoso e incessante tentativo di un dominio
lacunoso,incompiuto che è sempre da ricominciare, lo spazio viene abitualmente trattato come un dato fisico, oggettivo.
Misurato, calcolato, delimitato,appropriato, consumato e poi spesso quando non serve più lasciato al suo destino.
Occupato, - riempito – o abbandonato - svuotato - la concezione dello spazio è generalmente legata all’interesse portato
alla sua geometria - forme e dimensioni - e alle posizioni degli oggetti (distanze e contiguità) che lo configurano come
qualcosa di esteriore e innanzitutto manipolabile. Eppure questa semplificazione strumentale dice ben poco della nostra
“esperienza” dello spazio. Perché questa modalità di concepirlo non è che uno dei momenti che ne costituiscono l’esperienza
umana,e non il principale. Anzi sovente non è che la risultante finale - un certo modo di organizzarne la rappresentazione
poi artatamente legittimata a prerequisito per il suo utilizzo - di altre dimensioni che ne animano la pratica L’esperienza
dello spazio infatti,lungi dal ridursi/riassumersi nella conoscenza socialmente validata e circolante, trova nella sensazione
e nella percezione- come ci ricorda il geografo Yi-Fu Tuan (1977) - due salienze originarie e a questa preliminari. Questi
momenti oscillano tra le emozioni che lo spazio suscita a un individuo e il pensiero che da queste su di esso alimenta e
hanno come mediazione il corpo,le cose,il movimento e il tempo vissuti,praticati,raccontati. L’esperienza dello spazio
comprende così anche e soprattutto le sensazioni (gli odori,la consistenza,i suoni,i rumori) e la percezione visiva in
rapporto agli oggetti e ai movimenti corporei nello spazio (dentro, fuori, grande, piccolo, largo, stretto, chiaro,
scuro,lontano,prossimo). Ma dal momento in cui viene sentito e percepito in un certo modo,descritto con certe
parole,percorso e abitato seguendo certe modalità abitudinarie e ripetute,lo spazio costituisce una categoria culturale in
quanto tale. Vale a dire diviene un tratto identitario e un costrutto del pensiero – categoria e strumento – fino a creare e
ricreare una realtà a un altro livello che non quello puramente geofisico. Fino a poter parlare – come la civiltà dell’antica
greca ci ha insegnato - di uno spazio del discorso,di uno spazio dell’immagine ,di uno spazio di vita … infine di uno
spazio politico quali altrettante brecce aperte nel muro delle apparenze e delle consuetudini percettive. Attraverso queste
brecce affluisce e prende consistenza uno “spazio umano” infinitamente più vasto dello spazio fisico in cui si muovono i
corpi.
Il contributo, grazie ad alcune esemplificazioni sottratte alle voci più sorvegliate della poesia del ‘900, intende
rimarcare la extra-ordinaria capacità dell'espressione poetica di dilatare e deformare lo spazio fino a fare emergere dalla
sua riconfigurazione (dei sensi/di senso) la valenza tutta umana del "milieu" (ambiente) come luogo di messa-in-
scena/coreografia del vissuto (chorésie ... dal costrutto di chora come introdotto nel Timeo da Platone - spazio delle
possibilità e del divenire - ). Allo spazio geometrico ed euclideo della razionalità cartesiana infatti la creazione poetica più
avvertita ed esigente oppone/propone una topologia deformabile e flessibile (congruente con le possibilità di movimento di
un corpo reale e simbolico) dove,per esempio,nella dinamica emotiva e affettiva che mobilita,lasciare un luogo non è
solamente produrre una metrica della distanza ma anche "lasciarci occhi,cuore,memoria ... e infine una parte di se stessi”.
La cultura greca ricorreva a numerosi vocaboli - termini - modalità per definire lo spazio e il luogo, differenziando e
articolando due dimensioni dell’ecumene (spazio abitato dall’uomo) che,originariamente complementari, si sono contese a
partire da Platone e Aristotele sino ad oggi la sovranità ultima su cosa debba intendersi per queste categorie gemelle in cui
si mette in scena la vicenda umana e così “vitali” non solo per il pensiero ma anche per la stessa vita e sopravvivenza
dell’uomo. L’antica ambivalenza dell’origine dello spazio-luogo sembra tuttora orientare la “schisi” nella riflessione
occidentale tra l’astrazione scientifica (spazio geometrico) dello spazio misurato e cartografato (cui rimanda la topografia
dello spazio fisico geografico) e il concreto sensibile dello spazio sociale e vissuto (cui rimandano la topologia dello spazio e
le geometrie non euclidee).
Poniamo questa pro-vocazione di R.M. Rilke a inizio e conclusione del presente contributo. In
modo che partiti dalle domande che pone alla fine del nostro percorso dovremmo poter meglio
intenderne (e forse comprenderne) più a fondo le suggestioni. E dunque intravedere anche possibili
risposte.
AUTO-BIOGRAFIA di … ?
Perché Rilke si pone – e ci pone - la domanda Chi ci ha rivoltati in questo modo? Perché ,spettatori,il
nostro sguardo si limita a ciò che appare,che sembra? Cosa della nostra conoscenza ci allontana (ci
congeda) da quell’altrove,da quel di-fuori che solo ci consentirebbe di rimanere (non andare-via)? Con il
pronome deittico della prima persona plurale (noi) Rilke accomuna autore e lettore in una stessa
condizione prevalente di vita (così noi viviamo). Ciò che a una prima lettura potrebbe essere inteso come
una circostanza della sua biografia nell’ultimo verso viene esteso a una condizione condivisa con altri e
da altri (tutti gli altri).
Se esiste una situazione autobiografica poetica,una condizione autobiografica che traspare da
una silloge di poesie o tra i versi di un poema queste costituiscono non tanto tratti della carta d’ identità
di un soggetto specifico (un individuo in carne e ossa) quanto l’ipotetica carta di alterità delle sue
transazioni con gli altri,con l’ambiente in cui vive e che porta in sé e con sé.
H. MICHAUX
Ogni avventura espressiva – insomma - non è che la cartografia immaginaria delle peripezie di
un’alterazione: delle speranze,dei desideri,delle attese,forse delle illusioni e delle delusioni di un essere
che esistendo si è “alterato”. Come dire: l’autobiografia di una sete. Il lavoro autobiografico di un
poetica,nella sua ricerca,nella sua ostinazione punta meno a ricostruire la genesi di un individuo (del
tipo: “ Guardate come sono diventato quello che sono!”) che a fare apparire come si è fatto essere:
rifatto,disfatto,contraffatto … come è stato scavato dalla sua stessa sete,svuotato dall’interno e riversato
fuori,tracciando la sua traiettoria,lasciando i segni del suo passaggio. Come cioè ha provato ad
attraversare qualcosa di anonimo e impersonale … che è come dire: come affronta e sostiene la
dimensione di “ comune mortale ” Perché una poetica alla fine non è che la notifica di una condizione
comune, della dimensione che ci accomuna: la profonda ignoranza di chi siamo. Se dunque di
autobiografia si tratta … allora anche di tratta di autografia, allografia, autonecrografia, eterografia …dal
momento che una poetica mette in intensità tutte le grafie possibili. In intensità … e in ellissi .
L'ellissi (dal greco elleípō, > ometto») è una figura retorica che consiste nell'omissione, all'interno
di una frase, di uno o più termini … (impliciti,sottintesi,mancanti …) Se c’è un autobiografia poetica …
ebbene questa non può che essere ellittica … una sorta di biografia bucata (perché vivendola vi sono
state praticate nel tempo perforazioni aerandola,sono stati scavati pozzi e cercate correnti d’aria … nel
sottosuolo) piuttosto che ritessuta secondo una continuità. Un’autobiografia fatta semplicemente di
apparizioni, scomparse, circostanze …
IDENTITA’ ?
Quando ci si domanda di parlare di noi per presentarci ad un’altra persona perché possa
costruirsi una cornice complessiva, anche se solo abbozzata, e farsi un’idea del nostro progetto di
mondo scopriamo ben presto che, per avvicinare l’interlocutore ai nostri lineamenti dobbiamo
condurlo attraverso una strada laterale e non diretta. Parliamo della famiglia, del lavoro,dei nostri
percorsi scolastici e formativi ,delle affiliazioni sportive,professionali, delle attività di socializzazione
informale e dei luoghi e delle pratiche di interesse. Insomma: parliamo del nostro ambiente e contesto,
più o meno scelto. Quello praticato,agito,sperimentato. Dove è il nostro « Io» ? Da nessuna parte …
in quanto non è una cosa. Come ci ricorda J. Bruner l’ « Io », non è che « un punto di vista che tenta di
unificare il flusso dell’esperienza in una storia coerente » : una storia composta da spezzoni,di frammenti tenuti
insieme da un filo “narrativo” e da sempre connessa con altre storie e da queste arricchita (alterazione)
PORTRAIT (RITRATTO)
Ma cosa accade quando un poeta cerca di presentarsi,di fare segno di sé al lettore per permanere
(trattenersi … dice R.M. Rilke) in un’immagine?
Grazie a questa presentazione, ottenuta con un linguaggio delocutivo (che sembra non rivolgersi
ad alcuno) una persona è mostrata, esibita senza alcuna risonanza emotiva e affettiva. Senza
comprensione di sorta. Ci risulta difficile accettare che questa sia un’autopresentazione. Non vi è
nessun tentativo di seduzione nei confronti del lettore, nessun movimento verso di lui presentando una
versione estratta da una delle giornate migliori dell’autore. Nessuna promozione dell’immagine. Si
potrebbe obiettare che in fondo non è un autoritratto, ma la trasfigurazione linguistica di una scena
“interiore”: dello stile di personalità o di tratti caratteriali che non possono essere figurati in una forma
pittorica come per esempio un viso
“ … Una testa senza capelli, due occhi in linea, (…) un naso piatto …” (1)
Un testo che inizia con la descrizione di oggetti giustapposti, introdotti con l’articolo indefinito
indeterminato. Non abbiamo altro che l’indeterminatezza di una raffigurazione visuale colta in un
effetto di oggettività realistica. “ Ci sono …” – sottinteso – delle parti di un corpo. Ma come fuori
dal tempo, linguisticamente non introdotto. Il fatto che lo spazio sia dato come riempimento anonimo
rimarca l’inerzia inesauribile della presenza,dell’insistenza dello spazio. L’effetto estraniante della
spazialità pura, dell’estensione sospende la possibilità di valutare se siamo in
presenza di un vivo o di un defunto.
LO SPAZIO SIMBOLICO
Lo spazio simbolico è quello spazio dove un soggetto è in condizione di rappresentare sé-stesso.
Rappresentazione che non può avvenire che all’interno di un orizzonte in cui è già da sempre
tematizzato un incontro con l’altro e dunque anche una distanza che consenta di avviare una prossimità
o un allontanamento. Prima ancora di conoscere l’identità dell’altro (quale lettore?) e dunque prima di
conoscere la propria identità (quale autore?) gli interlocutori dello spazio simbolico - poetico si sono –
potremmo azzardare - già incontrati . La scoperta dell’altro non è tanto la percezione di un personaggio
da parte di un soggetto in una crono-logia sequenziale. Ma la stessa messa in scena dei due, l’uno per
l’altro. Simultanea,contemporanea. E’ grazie alla mediazione degli occhi dell’altro - proiettati nel testo -
che il soggetto è in grado di percepire la propria immagine vista come rinviata da una sorta di specchio
vivente. Grazie all’altro è in grado di vedersi. Nessuno potrebbe parlare senza contemporaneamente
intendersi,udendo la propria voce come proveniente da un Altro (l’ipercorrezione linguistica,
l’autonimia, le autocitazioni … ne sono esempi lampanti). Rispetto al frammento poetico di autoritratto
citato potremmo dire che l’introduzione differita del deittico ‘mio’ non sta tanto a significare che < Io
autore > (elocuzione) mostro a < te lettore > (allocuzione) che la testa,gli occhi,il naso (de locuzione iniziale) sono miei
(elocuzione finale) > . Quanto piuttosto che < Io autore mi sto mostrando davanti a te lettore come colui che ritarda
la sua presentazione; come colui che effettua un movimento di riappropriazione di qualcosa che - grazie a questo
movimento - è da intendere come poco prima non riconosciuto in quanto proprio,allontanato >
EFFETTO di SENSO
La forma dei versi restituisce indirettamente l’estraneità che il tempo,il dolore,la stanchezza
fanno precipitare nello spazio vissuto di qualcuno …. al punto da non più (volere? sapere? potere? Vi è
oscillazione costante della modalizzazione) riconoscere nemmeno se stesso.Accogliersi.Accettarsi.
Questo è l’effetto di senso finale che il testo nella sua concreta co-enunciazione realizza, produce.
AUTORITRATTI …
VISO
“ Nient’altro che un viso,vagamente
che deve essere il mio …
… non potendo essere di nessun’altro
FERNANDO PESSOA
“Per me nessuna eco
MASCHERA
“… Labbra molto sottili, mascelle serrate,
narici e orecchie grandi … aperte (…)
questa maschera su un corpo
rigorosamente immobile …”
F. PONGE
“La pensée comme grimace”
Insomma: nemmeno con gli autoritratti le cose vanno meglio. A voler descrivere e presentare il
proprio viso è come se apparisse l’altro volto del viso, un viso del viso, una sorta di faccia decomposta. Una
trama nascosta che viene mostrata. Solamente guardato, o preso da uno sguardo dislocato, nella
dissolvenza di uno sguardo che sfuma contorni e profili come se gli occhi fossero le finestre cieche di
una facciata, la sensazione che si ha nella lettura degli autoritratti in versi spesso è quella di un incontro
mancato. Sorprendendo questo viso nella lettura, un viso che non ci sta guardando,abbiamo la
sensazione di un malessere : come fossimo testimoni di uno scena a cui non avremmo dovuto assistere.
Il fatto è che un poema ci mette in faccia non un ritratto ma un’aporia fondamentale della nostra
esistenza: quello che vediamo all’esterno non è altro che la proiezione di un interno extravertito,
spazializzato, dove distanze multiple percorrono la nostra prossimità,la nostra intimità. A prima vista
non dovrebbe essere così difficile : basterebbe riproporre il riflesso di un modello e dunque figurare
l’immagine del volto esattamente come si fa con un quadro. Tuttavia tanto nella pittura (in minor
misura) quanto nella letteratura l’esperienza dell’autoritratto appare quasi invariabilmente sotto il segno
del molteplice,della diffrazione,della contraddizione. Una figura come una ‘natura morta’ si profila
nell’autoritratto di una persona, di un soggetto. Pierre Reverdy,uno dei teorici del cubismo e della
spazializzazione del poema tramite il piano libero, pensa a uno spazio poetico destinato a percorsi di
lettura aperti attraverso frammenti di rappresentazione da più punti di vista. Questo spinge il lettore a
implicarsi dinamicamente,a far camminare il proprio sguardo negli spazi bianchi per stabilire e definire
relazioni
B. NOËL,
L’Ombre du double
PIERRE REVERDY
“Et là” in “ Plupart du temps”
1915 -1922, Coll. Poésie Gallimard 1969
Giuseppe Armani Pagina 7 di 12
Identità e alterità nello spazio poetico
“ Io. Un’adolescente?
Dovrei baciarla sulla fronte,per la sola ragione
che la data di nascita è la stessa?
Lei sa poco ma con caparbietà.
Io so molto di più ma non in modo certo” W. SZYMBORSKA
“Un’adolescente ” in “La gioia di
scrivere” tutte le poesie Adelphi 2009
Spazio necessario,questa distanza consente all’io di percepirsi come un altro in una differenza
che è nello stesso tempo un legame se … “ nell’io che parla vi è qualcosa di totalmente eterogeneo rispetto al me
incarnato che vive (…) e tuttavia sono votati l’uno all’altro, fanno e vanno insieme 1”
DISTANZA … IN POESIA
La poesia non tratta la distanza secondo un approccio scientifico: non le interessa l’esattezza
della misura, né telescopica, né microscopica. Per essa e in essa “avvicinarsi” è andare verso qualcuno o
qualcosa con vista, udito, tatto, olfatto. Distanziarsi è un lasciare non solo il posto ma anche occhi e
mani … sul posto, perderli. La distanza mette in rapporto corpi e desideri facendo un arbitraggio tra ciò
che è desiderato e l’ostacolo che lascia risolvere al lettore. Ordinariamente il prossimo (chi è vicino) è
una situazione benevolente. E l’allontanamento e la separazione sono una sofferenza. Ma nello spazio
poetico avvicinarsi è rischioso, pericoloso. La distanza può essere lo spazio dove alberga l’interdetto e
dunque una protezione. Nessuna regolarità,nessuna legge,nessuna promessa di istruzioni d’uso pertanto
nel poema : si ha a che fare non con “uno” o con “lo” ma con “dello” spazio plastico,deformabile
“La morte dell’immaginazione è quello che spaventa di più. Quando il cielo lassù è
solo rosa e i tetti sono solo neri: quella mente fotografica che dice una verità senza valore sul
mondo. Dobbiamo muoverci per dare un senso al mondo (…) Quanti futuri ? Di quante morti
diverse posso morire? ”
S. PLATH “Diari” (1952-1962)
Adelphi 2009
Così il luogo del soggetto … il luogo più proprio … è quel punto indecifrabile dove un’unità
distinta sfuma,tramonta in mille frammenti,dove si svela una molteplicità ce ne è la trama ordinaria.
J. L. BORGES
“Vaniloquio” in Fervore di
Buenos Aires Adelphi 2009
“Sono un cattivo pubblico per la mia memoria. Nei suoi racconti io sono sempre più
giovane. Ma ogni specchio per me ha notizie differenti! All’apparenza tutto torna. Eppure
niente è somigliante ”
W. SZYMBORSKA
“Vita difficile con la memoria ”
In “La gioia di scrivere”
tutte le poesie Adelphi 2009
L’IMPRESA di VIVERE
Il progetto di mondo l’abbiamo da tempo appaltato (significati, categorie, classi di cose che
troviamo già belle e pronte). Grazie a questo capitolato di appalto comune possiamo esercitare la
fiducia quotidiana che ci mantiene in questo mondo (chi ci incontrerà ci chiamerà con il nostro nome;
ritroverò in un luogo sicuro la traccia delle cose che mi sostiene come “qualcuno” riconoscibile). E
classifichiamo. Operiamo distinzioni,ci appoggiamo a concetti generali, inseguiamo le asimmetrie come
certezze fisse. Fino a trasformare questi giudizi nei pregiudizi. Ma è questa è una vita o solo un rimedio
efficace per tenerla lontana,la vita?
… δακρυόεν γελάσασα …
(OMERO,ILIADE,CANTO VI)
Nel canto VI dell’Iliade Ettore sposo di Andromaca, incontra la moglie, prima di scontrarsi con
Achille, davanti alle porte Scee, le grandi porte di Troia, porte mai aperte ai nemici. Tra Andromaca ed
Ettore c’è philotes, l’amore passionale. Sono genitori di un figlio nato dall’amore. Ettore è parakoites,
compagno di letto, uomo pienamente maturo, forte, virile, affettuoso, coniuge. A un certo punto
Andromaca dice rivelgendosi a Ettore
Andromaca: [429-230] “ […] Ἕκτορ ἀτὰρ σύ μοί ἐσσι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ ἠδὲ
κασίγνητος, σὺ δέ μοι θαλερὸς παρακοίτης· […] [429-230]
[429-230] “ ora mi resti solo tu, Ettore caro, tu padre mio, tu madre, tu fratello, tu amato
marito”
Ettore è per Andromaca dunque non solo marito, ma padre, madre, fratello. Ettore,come se
presentisse la sua fine, prima invoca Zeus perché renda illustre la vita del figlio e poi fa un gesto …
[482] Ὣς εἰπὼν ἀλόχοιο φίλης ἐν χερσὶν ἔθηκε παῖδ᾽ ἑόν· ἣ δ᾽ ἄρα μιν
κηώδεϊ δέξατο κόλπῳ δακρυόεν γελάσασα·
[482] Così disse. E ripose il suo bambino nelle braccia dell’amata sposa che stringendolo al
petto sorride tra il pianto
Scrive Omero che Andromaca […] sorride tra il pianto […], (δακρυόεν γελάσασα).
Sorride … perché rivede Ettore. Piange perché … ha il presagio di vederlo vivo per l’ultima
volta. Il sorriso equivale alla sensazione di gioia per la presenza. Il pianto al dolore per l’assenza che
verrà. Pensieri ed emozioni antitetici s’intrecciano dove il piacere presente amplifica il dolore
imminente, la presenza anticipa l’assenza. Il sorriso copre il dolore ed il dolore amplifica l’affetto.Il
pianto rende umido il volto e lo protegge
2 Seguendo le indicazioni di A.BERQUE geografo francese nonché profondo conoscitore della cultura giapponese come
riprese in Jacques Lévy & Michel Lussault (dir.), Dictionnaire de la géographie et de l'espace des sociétés, Paris, Belin, 2003
3 PLATONE, TIMEO (52a-53b),
4 ARISTOTELE, FISICA, Libro IV
fasci di relazioni e in questo senso ricomprende una logica del predicato e non del soggetto molto
simile all’approccio giapponese del medium (Fu-do) che il luogo (Basho) esprime5 : le cose si
apprendono, secondo la logica del luogo (basho no ronri), dalle relazioni (predicazioni) che intessono con
altre cose. Così se pur abbiamo il topos di un corpo è la chora delle relazioni in cui questo è preso che
lo fanno evolvere,cambiare,mutare. Per dire questi cambiamenti non abbiamo che il ragionamento
bastardo (come dice Platone,che ricorre alle analogie e alle metafore. La chôra è, al fondo, lo spazio in
cui il “tutto” si colloca e contemporaneamente lo “spazio generato” dalle relazioni del tutto.
Giuseppe Armani
Fiorenzuola d’Arda,23 ottobre 2011
Giuseppe Armani è nato a Bobbio (PC) il 16 aprile 1956 e vive a Fiorenzuola d’Arda (PC). Ha acquisito
una formazione di livello universitario riferita alle scienze umane e sociali e alle scienze economiche. Dal 2004 è
Responsabile del Sistema Qualità del settore socio-educativo del Comune di Fiorenzuola d’Arda. Dal 2008 è
Responsabile dell’Ufficio di staff al Sindaco e alla Giunta Comunale e dal 2010 è Responsabile della Pianificazione e
del Controllo strategico del Distretto socio-sanitario di Levante della Provincia di Piacenza. In ambito professionale è
stato relatore a diversi convegni nazionali e internazionali e ha pubblicato diversi contributi (sia su riviste che in volumi
collettanei) e un volume sui temi della ricerca e sviluppo di metodologie educative e formative, dell’ orientamento scolastico
e professionale e dell’evoluzione della governance pubblica. È Maestro Internazionale di scacchi (FIDE ICCF) dal
2001.Studioso di linguistica, di filosofia e di letterature straniere si occupa da circa trent’anni dell’epistemologia dello
spazio e della relazione tra spazio e linguaggio, in particolare nella riflessione critica delle scienze umane e sociali e nella
produzione poetica europea dell’800 e del ‘900. Ha scritto quattro raccolte di aforismi, saggi su Rainer Maria Rilke,
Osip Mandel’Stam, André Du Bouchet, Pierre Reverdy, numerosi racconti, tre romanzi e una decina di sillogi poetiche.
Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in diversi Premi Letterari e molte sue poesie sono pubblicate in antologie poetiche.
La silloge poetica Thlenai (Leonida edizioni 2011) si è classificata prima alla II edizione del Premio
Letterario Internazionale “Città di Martinsicuro” 2010. Sempre da Leonida Edizioni a giugno 2011 è stato pubblicato
il saggio Dall’Intervallo. Intorni della parola poetica e sono in uscita due raccolte poetiche Flatus Vocis e Ordine
Revocato
5Si veda al riguardo l’opera del filosofo nipponico NISHIDA e in particolare « Basho » (Luogo) del 1927 e l’opera di
WATSUJI,in particolare il costrutto di fûdo-sei (equiparabile al latino medietas )