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Louis Paul Marie Léger

La mitologia slava

19011

1 Titolo originale: L. Léger, La mythologie slave, Ernest Leroux, Paris 1901. Traduzione dal
francese: © associazione culturale Larici, 2010.

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Indice

3 Premessa del Traduttore


4 Introduzione
11 Capitolo I. Le fonti della mitologia slava
I cronicisti indigeni; la Cronaca russa detta di Nestore, le Cronache ceche di Cosma,
dello pseudo Dalimil, la Cronaca polacca di Długosz – I cronicisti stranieri: Adamo da
Brema, Helmold, Tietmaro, Saxo Grammaticus, la Knytlinga Saga, gli storici Ottone di
Bamberga, i Bizantini – I monumenti figurati – La lingua – Documenti apocrifi
34 Capitolo II. Il Dio supremo
36 Capitolo III. I due grandi dèi degli Slavi russi e baltici Perunŭ (Perun) e
Svantovit
I due sistemi russo e baltico – Perunŭ secondo i testi slavo-russi; suo culto in Russia –
Divinità con nomi simili in altri paesi slavi: Parom, Proven, Porenutius – Perunŭ e
Sant’Elia – La quercia albero sacro – Svantovit dio di Rügen; suo culto – Svantovit e
San Vito; il presunto Svantovit della Galizia – Gli dèi in vit: Rugievit, Gerovit ecc.
61 Nota complementare sulla scoperta dell’idolo dello Zbrucz
62 Capitolo IV
Volosŭ in Russia e Velesŭ in Boemia – Volosŭ e san Biagio – Chorsŭ – Dažbogŭ –
Simarglŭ - Mokošĭ – Svarogŭ, Svarožicŭ, Suarasici – Stribogŭ – Trojanŭ, Trajan;
tradizioni russe e balcaniche
64 Capitolo V. Divinità inferiori
Triglav – Jula – Radigast – Podaga – Pripegala – Zcernoboch – Divinità anonime –
Rinvit, Turupid, Puruvit, Pisamar, Tiernoglav - Dee – Gli dèi domestici
87 Capitolo VI
Le divinità del destino – Le Vila – Le Rusalka – Le ninfe delle acque presso i Cechi e i
Polacchi
96 Capitolo VII
Il culto; i sacrifici – Luoghi dei sacrifici – Templi – Idoli – Boschi sacri – Fonti – Maghi –
Oracoli
103 Capitolo VIII
La vita nell’oltretomba – Gli Slavi vi credevano? – Testimonianze contraddittorie – Il
Nav, il dio Nya – Il Raj – Modi e luoghi di sepoltura – Feste funerarie – Il culto degli
antenati in Russia
108 Appendice. Svatovit e san Vito
112 Illustrazioni e loro spiegazione
118 Note sugli idoli slavi
120 Indice degli storici citati

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Premessa del Traduttore

L’Autore ha traslitterato la maggior parte di nomi e termini dall’antico-


russo. Nella traduzione, autori e loro opere, personaggi storici e città sono
scritti nella traslitterazione internazionale moderna per essere più
facilmente individuabili e rintracciabili, mentre i nomi di dèi e demoni sono
lasciati in antico-russo o come l’Autore ha deciso.
A questo proposito è utile sapere che, se la grafia originale è differente
per la presenza di segni oggi in disuso, non così è la loro traslitterazione che
si limita, nella maggioranza dei casi, a togliere i suoni non più in uso, come
la ŭ a fine parola: l’antico-russo Perunŭ (Перунъ) corrisponde al moderno
Perun (Перун), Svarogŭ (Сварогъ) a Svarog (Сварог), Dažĭbogŭ (Дажьбогъ
) a Daž’bog (Дажьбог), Velesŭ (Велесъ) o Volosŭ (Волосъ) a Veles (Велес),
Stribogŭ (Стрибогъ) a Stribog (Стрибог), Chŭrsŭ/Chorsŭ (Хърсъ) a Chors
(Хорс), Simarĭglŭ/Simarglŭ (Симарьглъ) a Simar’gl (Симарьглъ), Mokošĭ
(Мокошь) a Mokoš’ (Мокошь), Trojanŭ (Троянъ) a Trojan (Троян). Ciò vale
anche per altri termini, come skotŭ che oggi è skot e così via.
Le citazioni in latino sono state lasciate in originale. Parole e frasi in greco
sono state riprodotte come immagine per evitare errori di trascrizione.
A fine libro (pp. 235-239), Léger ha inserito un Supplemento con questa
premessa: «I paragrafi relativi a Svarog, a Svarožičŭ, Svarasici e Stribog
dovevano essere inseriti dopo la pagina 124. Sono stati omessi per errore.
Li diamo qui.» Nella traduzione sono stati collocati nel posto indicato.
Le note dell’Autore (N.d.A.) comprendono sia quelle originali di Léger, sia
i lunghi riferimenti bibliografici inseriti nel testo che appesantiscono la
lettura. Autori e titoli sono stati controllati: le opere sono state messe, la
prima volta che si incontrano, con il titolo esteso e non abbreviato come
sull’originale. Eventuali integrazioni sono poste tra parentesi quadre o come
nota del traduttore (N.d.T.).
Per non aggiungere altre numerose note, a fine libro si è predisposto un
indice alfabetico dei nomi degli storici citati nel libro con le informazioni
essenziali al loro riconoscimento.

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Al mio vecchio amico e collega


V. JAGIĆ
questo libro è cordialmente dedicato

Introduzione

La mia attenzione si è concentrata per la prima volta sulla mitologia slava


molto tempo fa. Quando, nel 1865, ho iniziato le mie ricerche sulla
conversione degli Slavi al cristianesimo, ho dovuto necessariamente
chiedermi quali fossero le idee religiose degli Slavi pagani e vi ho dedicato
loro una ventina di pagine nel mio libro su Cirillo e Metodio 1. Esse erano
abbastanza nuove per quei tempi, ma si basavano, in parte, su documenti
allora considerati autentici che poi risultarono essere apocrifi. Attorno al
1880 il decano Lichtenberger mi fece l’onore di chiedermi un riassunto della
mitologia slava per la sua Enciclopedia di Scienze Religiose. Ciò mi diede
l’opportunità di rivedere i miei studi di un tempo, che non avevo mai perso
di vista: la mia traduzione della Cronaca russa detta di Nestore2, alla quale
consacrai tanti anni, mi aveva riportato continuamente su quei temi delicati.
Il saggio per l’Enciclopedia di Scienze Religiose, notevolmente ampliato e
rimaneggiato, apparve nel 1882 sulla Revue de l’Histoire des Religions. Una
parziale tiratura fu messa in commercio con il titolo Esquisse sommaire de
la mythologie slave3 che, stampato in un esiguo numero di esemplari, è da
tempo esaurito. È stato ristampato nel secondo volume dei miei Nouvelles
études slaves4.
Nello scrivere quel riassunto pensavo innanzitutto di soddisfare la
curiosità del pubblico francese, che non ha accesso alle opere slave e non sa
nemmeno in quali libri tedeschi può trovare indicazioni attendibili su questo
difficile argomento. C’è da dire che avevo reso un servizio agli stessi Slavi,
poiché essi non possedevano la minima sintesi critica. Stojan Novaković,
ministro della Pubblica Istruzione a Belgrado e uno dei nostri più dotti
colleghi, fece tradurre in serbo il mio lavoro sul Prosvetni Glasnik5,

1 Ed. Vieweg, Paris 1868. (N.d.A.)


2 La Povest’ vremennych let (Cronaca degli anni passati) è anche conosciuta come Cronaca
di Nestore perché attribuita al monaco Nestore del monastero delle Grotte di Kiev. Fu
scritta intorno al 1116 e Léger ne pubblicò la traduzione in francese nel 1884. Una
traduzione italiana della Cronaca è in www.larici.it. (N.d.T.)
3 Librairie Leroux, Paris 1882 (N.d.A.)
4 Librairie Leroux, Paris 1886. (N.d.A.)
5 Bollettino della Pubblica Istruzione, n. 1, 1883. (N.d.A.)

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traduzione poi ristampata sulla rivista Slovinac allora edita a Ragusa. Anche
un illustre slavista, Polivka, mi fece l’onore di tradurre il mio Esquisse in
lingua ceca su Sbornik Slovanský, diretto dal defunto Edward Jelinek,
aggiungendovi delle note interessanti1. Più recentemente ne è apparsa
un’edizione russa curata da Gornickij, professore al ginnasio di Penza, su
Filologičeskie zapiski2.
D’altronde, qualificatissimi slavisti – Ralston sull’Athenaeum3, Jagić
sull’Archiv für slavische Philologie4, Baudouin de Courtenay sulla Rivista del
Ministero dell’Istruzione pubblica5 – avevano accolto il mio modesto saggio
con una tale simpatia che mi sentivo impegnato a riprenderlo e ampliarlo.
Purtroppo le esigenze del mio insegnamento al Collège de France6 mi
assorbirono a lungo su altri temi: il primo dovere di un docente è quello di
insegnare ed egli non ha il diritto di inseguire le questioni di scienza pura
finché non vengono soddisfatte le necessità dei suoi studenti.
Finalmente, nel 1895, potei dedicare due semestri all’esposizione della
mitologia slava. Riviste con attenzione, le lezioni di quel corso diventarono
le memorie pubblicate nel 1896 sulla Revue de l’Histoire des Religions. Tre
delle più importanti furono ristampate separatamente (Pérunŭ et Saint Élie,
Svantovit et les dieux en vit, L’empereur Trajan dans la mythologie slave)7.
Due sono state inviate all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres8, che
sembrava avere interesse per la novità di quegli studi.
Riunendo in questo volume tali lavori di gran pazienza, non nasconderò
tutto ciò che manca loro per costituire un monumento definitivo. Tale
monumento nessuno l’ha ancora eretto e dubito che possa mai esistere.
Non c’è alcuna speranza di avere in lingua slava opere analoghe a quelle
che nel nostro secolo hanno trattato la mitologia degli Indù, dei Greci, dei
Romani, dei Celti e dei Germani. I materiali sono molto scarsi e non sarebbe
utile rimpiazzare i testi e i monumenti con ipotesi.

II

Alcune opere sulla mitologia slava sono apparse dopo che un giovane
scienziato russo, Kajsarov, pubblicò a Gottinga – nel 1803 – il libro Versuch

1 Sbornik Slovanský (Raccolta slava), nn. 8 e 9, 1883. (N.d.A.)


2 Filologičeskie zapiski (Memorie filologiche), Voronež 1898. (N.d.A.)
3 8 aprile 1882. (N.d.A.)
4 Tomo VI, p. 318. (N.d.A.)
5 In russo, marzo 1882. (N.d.A.) – Il titolo esatto della rivista è Žurnal Ministerstva
Narodnago Prosveščenija. (N.d.T.)
6 Il Collège de France era ed è un istituto di ricerca di eccellenza con sede a Parigi. Léger vi
studiò e dal 1883 fino alla morte (1923) occupò la cattedra di Lingua e letteratura slava
che era stata dello scrittore polacco Adam Mickiewicz. (N.d.T.)
7 Alcune copie di queste opere furono messe in commercio dalla libreria Maisonneuve [di
Parigi]. (N.d.A.)
8 L’Accademia delle Iscrizioni e delle Belle Lettere era ed è una società di studiosi di scienze
umane. Fondata nel 1663, ebbe tra gli accademici Louis Léger dal 1900 al 1923. (N.d.T.)

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einer slawischen Mythologie in alphabetischer Ordnung1. Questo lavoro ha


attirato l’attenzione di Dobrovský che vi ha dedicato uno studio critico nel
volume intitolato Slavin2. Dobrovský non era particolarmente esperto della
materia, ma, con il senso critico che lo caratterizzava, metteva in guardia
Kajsarov e i suoi successori contro una tendenza spiacevole della pigrizia
umana: «Io consiglio ai futuri mitologi di non attaccarsi agli scrittori
posteriori, ma di citare per ogni voce il testo più antico».
Ahimè, abbiamo pochissimi testi antichi! Per quanto mi riguarda, credo di
aver seguito il saggio consiglio del patriarca della slavistica; mi sono
imposto di leggere in originale tutti i testi latini, greci e slavi sull’oggetto di
questi studi. Credo di aver scoperto lungo il percorso alcuni dettagli sfuggiti
ai miei predecessori. Mi sono quindi permesso di presentare qualche nuova
ipotesi.
A parte lo studio di Kajsarov, Dobrovský non ebbe altre possibilità di
occuparsi di mitologia slava, ma richiamò l’attenzione di Šafarik. Oltre alle
sue memorie sulle Rusalka, su Svarogŭ e, ahimè, al lavoro sul presunto
Černoboh (dio nero)3 di Bamberga, ristampato nel volume III delle opere
complete4, egli aveva compilato un indice dei nomi mitologici slavi che
figurano nelle appendici del II volume delle Antiquités5. Tale indice era il
programma di una mitologia slava che non ha mai scritto. Vi sono inclusi
molti nomi che oggi devono essere rimossi dai quadri mitologici e rispediti
nel regno della fantasia (Karus, Karevit, Krodo, Polel’) o del folclore (Koščéj,
Hasterman, Kesna, ecc.)
Nel 1842 a Leopoli (Lemberg), Hanuš pubblicò il libro Wissenschaft des
slawischen Mythus; opera che oggi non è possibile consultare senza
pericolo. Si può dire altrettanto dei lavori di Hanuš in lingua ceca relativi alla
mitologia (eccetto il suo Bajeslovny Kalendár6 che è piuttosto un repertorio
di folclore). Tutte le opere di questo periodo sono inoltre distorte dall’uso di
documenti apocrifi.
In Russia, Sreznevskij fece apparire a Char’kov, nel 1846, una sua

1 Nato nel 1782 e ucciso nel 1813 durante la battaglia di Hanau, Kajsarov è stato da più di
un punto di vista un precursore. Nel 1806 ha presentato all’Università di Gottinga una tesi
sull’emancipazione dei servi della gleba: De manumittendis per Russiam servis,
Dissertatio inauguralis philosophico-politica. Il suo saggio sulla mitologia slava è stato
tradotto in russo (Mosca, 1807, II ed., ib., 1819). Suchomlinov gli ha recentemente
dedicato una lunga citazione nel tomo LXV dello Sbornik della Sezione russa
dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo (San Pietroburgo 1899). (N.d.A.) – Il
titolo esatto della tesi è Dissertatio inauguralis philosophico-politica de manumittendis per
Russiam servis (Dissertazione inaugurale filosofico-politica sulla liberazione dei servi della
gleba in Russia). (N.d.T.)
2 Seconda edizione, p. 263 e seguenti. (N.d.A.)
3 L’Autore usa la grafia ceca (Černoboh), ma in russo è Černobog. Altre varianti del nome
sono Czorneboh, Czernebog, Czarnobóg, Crnobog. (N.d.T.)
4 Sebrané Spisy, Praga 1865. (N.d.A.)
5 Seconda edizione, Praga 1863. (N.d.A.)
6 Il titolo esatto è Bajeslovny Kalendár Slovansky. CILI Pozustatky Pohansko-Svatecnych
Obraduv Slovanskych, 1860. (N.d.T.)

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memoria molto informata sui santuari e i riti degli Slavi pagani1.


Negli articoli che egli ha dato al Slovnik Naućny (Enciclopedia Ceca) di
Rieger e alla Rivista del Museo di Praga, Karel Jaromir Erben ha fornito
contributi significativi allo studio della mitologia slava. Meditava di riunirli in
un libro che sarebbe stato certamente interessante, ma che non avrebbe
avuto un carattere assolutamente critico e definitivo. La morte non gli
permise di compiere il lavoro, d’altronde Erben usava dei documenti apocrifi
e confondeva volentieri la mitologia con il folclore. Infatti, nel 1866 lesse
alla Società Reale delle Scienze di Praga e pubblicò sul Časopis Českého
Musea2 un lavoro sulla cosmogonia degli Slavi pagani partendo dalle canzoni
dei Ruteni della Galizia. Mi ricordo che questa memoria fece gran rumore tra
i mitologi del mondo; in realtà non ha insegnato nulla di slavo e nulla di
nuovo. Le canzoni e le leggende della Galizia su cui Erben si basava sono
puramente e semplicemente prese in prestito dai libri apocrifi, cioè dalla
letteratura cristiana.
Affinché la mitologia slava entri definitivamente nel regno della scienza,
occorre che il terreno sia liberato dal materiale apocrifo che lo ingombra. I
progressi della critica in questi ultimi anni hanno finalmente permesso di
realizzare questa preliminare condizione. Senza dubbio il campo della
mitologia slava è diventato molto stretto, ma almeno si sa da dove si deve
partire, anche se non sempre si sa dove si sta andando.
La grande opera del russo Afanas’ev: Concezioni poetiche degli Slavi sulla
natura3 costituisce ancora oggi uno dei repertori più preziosi, ma l’autore
vuole riportare le teorie mitologiche alla sua epoca così che la mitologia
annega nel folclore4. È perciò molto poco critico.
Vi sono inoltre forti riserve da fare intorno al libro del defunto
Kotljarevskij: Le usanze funerarie degli Slavi pagani. Ho letto questo libro
tempo fa con il mio rimpianto amico Bergaigne. Egli ne era molto entusiasta
e aveva proposto di fare noi due la traduzione; malgrado il mio rispetto per
la memoria di Bergaigne e di Kotliarevskij che erano entrambi miei cari
amici, credo di poter dire che il nostro lavoro sarebbe stato tempo perso.
Delle duecento pagine che compongono il volume5, non ce ne sono da

1 Si tratta di Svjatilišča i obrjady jazyčeskogo bogosluženija drevnich slavjan po


svidetel’stvam sovremennym i predanijam. (N.d.T.)
2 Anno 1866, p. 35. (N.d.A.)
3 In tre volumi, Mosca 1866-69. (N.d.A.)
4 Cfr. su Afanas’ev la giustissima nota di Kirpičnikov nell’opera di Vengerov: Kriliko
bibliografičeskij slovarĭ russkichŭ pisatelej; (Dizionario degli scrittori russi), t. I, p. 860 e
seguenti. È in gran parte su Afanas’ev che il defunto Ralston ha improntato i materiali
delle sue due opere sui canti e i racconti del popolo russo: Songs of the Russian people,
London 1872; Russian folk-tales, London 1873). (N.d.A.) – Nell’opera Concezioni poetiche
degli slavi sulla natura (Poetičeskie vozzrenija slavian na prirodu), Aleksandr Afanas’ev
riunì quegli elementi dei racconti popolari interpretabili come trasposizioni dei fenomeni
della natura: sole, stelle, pioggia, acqua e tempesta. Non avendo basi scientifiche, l’opera
fu criticata ma non scalfì la sua fama di favolista. (N.d.T.)
5 Il titolo russo del libro è: O pogrebal’nych obyčajach jazičeskich slavjan, Mosca 1868. Una
seconda edizione è stata pubblicata dall’Accademia di San Pietroburgo nelle opere

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tenere più di una cinquantina. Kotliarevskij si avvalse di testi apocrifi e i


testi arabi che cita mi sembrano riferirsi meno agli Slavi russi che ai
Varjaghi, cioè agli immigrati scandinavi.
Non ci sarebbero che dieci pagine da utilizzare del libro di Famincyn sulle
divinità degli antichi Slavi1.
Nella critica giustamente severa che fece di questo libro2, Jagić diede
saggi consigli per i mitologi3. In particolare, mise in guardia contro gli abusi
del folclore, contro la mania di vedere miti ovunque. Faceva notare che a
forza di mettere la mitologia dappertutto, si sarebbe provocata una reazione
di scetticismo che screditava tutta la scienza. Musicologo illustre, Famincyn
non era preparato sugli studi sulla mitologia slava e meno ancora sugli studi
di mitologia comparata nelle sue relazioni con le altre lingue indoeuropee4.
Come esempio di tale reazione di scetticismo, citerò un curioso articolo di
Kirpičnikov sulla Rivista del Ministero dell’Istruzione pubblica5. Dopo questo
saggio, che esaurisce l’intera mitologia slava in una ventina di pagine
assolutamente negative, sembra che si debba abbandonare ogni ricerca sul
tema. Vi è invece qualcosa da fare.
Nel 1870, nelle brevi pagine che scriveva per l’Enciclopedia ceca
pubblicata a Praga da Rieger6, Erben diceva: «La mitologia slava è una delle
branche più difficili della slavistica, molto è stato scritto su di essa, ma,
eccetto qualche buon articolo su alcuni punti isolati, si attende ancora un
lavoro d’insieme definitivo». Qualche anno più tardi, Krek scrisse sull’Archiv
für slavische Philologie: «Per quanto riguarda la mitologia slava, i risultati
positivi finora ottenuti non sono in rapporto con il lavoro speso. Nessuno si
rende meglio conto di questo stato di colui che si impegna a buttare a mare
tutto ciò che appartiene al caos delle ipotesi contrastanti basato spesso
sull’arbitrario o sull’a priori»7.
Krek si impegnò a condensarne i risultati, così difficili da ottenere, in
alcune pagine della sua bella opera Einleitung in die Slavische
Literaturgeschichte8. Essi offrono, in un linguaggio accessibile alla maggior

complete di Kotljarevskij, 1891. (N.d.A.) – Nel libro, Kotljarevskij raccolse tradizioni,


leggende, reperti archeologici degli Slavi e di altre tribù indoeuropee. (N.d.T.)
1 [Famincyn], Bozěstva drevnich slavjan, San Pietroburgo 1884. (N.d.A.)
2 In Archiv für slavische Philologie, t. IX, p. 168. (N.d.A.)
3 Menziono a memoria il libro in lingua polacca di Szulc: Mythologija Słovianska (Poznań,
1881). Non c’è assolutamente nulla. E direi la stessa cosa di un libro più recente firmato
M.K., O religii pogańskich Słowian. (N.d.A.) – Il titolo esatto del libro di Kazimierz Szulc è
Mythyczna historya polska i mythologia słowiańska (Storia dei miti polacchi e mitologia
slava), edito a Poznan nel 1880 e non nel 1881. Quanto al secondo titolo, O religii
pogańskich Słowian. Pogląd ze stanowiska kulturno historycznego (La religione pagana
slava. Panorama dal punto di vista della cultura storica; Leopoli 1894) studi più recenti lo
attribuiscono ad Antoni Miecznik. (N.d.T.)
4 Cfr., oltre all’articolo di Jagić, quello di V. Miller sulla Rivista (russa) del Ministero
dell’Istruzione pubblica, 1884, prima uscita. (N.d.A.)
5 In russo, settembre 1885. (N.d.A.)
6 In Slovník naučný, t. VIII, p. 603. (N.d.A.)
7 In Archiv für slavische Philologie, 1876, p. 134. (N.d.A.)
8 Seconda edizione, Graz, 1887, pp. 378-440. (N.d.A.) – Il libro Einleitung in die Slavische

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parte degli studiosi, una sintesi molto breve, quasi completa e


sufficientemente chiara di quali siano le fonti che ci parlano di mitologia
slava. Le note di questa sintesi sono spesso molto più lunghe del testo di
riferimento e il lettore estraneo ai nostri studi rischia di affogare o di
perdersi. Tuttavia, pur apprezzando l’ottimo lavoro, credo che non esaurisca
l’argomento e che, in un libro scritto in francese e alla francese, sia
necessario procedere altrimenti.
Il libro di Krek si indirizza in primo luogo ai lettori slavi: sono trascurati
moltissimi dettagli supposti già conosciuti o reperibili dai lettori nei testi
originali. Krek ammette anche alcuni testi oggi riconosciuti come apocrifi.
A mio avviso, un libro chiaro e completo sulla mitologia slava deve
esaurire i testi fondamentali liberandoli da tutte le parti arbitrarie, da tutte
le ipotesi oziose, da tutto il guazzabuglio del folclore slavo, germanico o
anche indoeuropeo.
Avevo sperato di trovare questo lavoro nel libro pubblicato a Praga nel
1891 da H. Máchal1: Nákres slovanského bájesloví (Cenni sulla mitologia
slava). «I saggi sulla mitologia – scriveva Máchal nella prefazione – sono in
gran parte dispersi in diverse raccolte slave, non esiste un lavoro d’assieme.
Pertanto se ne reclama la necessità. Ho così deciso di raggruppare i
principali fatti della mitologia slava in un insieme che fornisca il riassunto
delle idee leggendarie del popolo slavo»2.
Purtroppo delle duecentoventi pagine di questo prezioso volume,
solamente una sessantina appartengono alla mitologia slava. Il resto è
dedicato al folclore, alle leggende riferite ai fenomeni meteorologici, ai
racconti cosmogonici, a personaggi o tradizioni che possono anche essere
circolati tra gli Slavi, ma che sono arrivati a loro dalla tradizione cristiana o
da leggende straniere. Così egli inizia con un capitolo sulle idee
cosmologiche degli Slavi che appartengono alle leggende cristiane, ai libri
apocrifi. Si veda anche ciò che riguarda Rachmanes3, Perchta4, Lucia, i giorni
personificati, Lunedì, Mercoledì, Venerdì.
Tutta questa parte improntata al folclore merita certamente di essere
tradotta. Il folclore degli Slavi è infinito e gli sono dedicate riviste
specializzate: in Boemia (Česky Lid), Polonia (Wisła), Russia (Živaja starina
), Croazia (Sbornik za narodni živo), Bulgaria (Sbornik za narodni
umotvorenia). Per riassumere tutto ciò che è apparso finora occorrerebbero
non so quante decine di volumi.
Pur rendendo giustizia al nobile e utile lavoro di Máchal, mi era

Literaturgeschichte (Introduzione alla storia della letteratura slava) fu pubblicato per la


prima volta nel 1874. (N.d.T.)
1 Non H. Máchal, ma Jan Máchal. (N.d.T.)
2 Cfr. sul libro di Máchal l’Archiv für slavische Philologie, volume XVII, p. 583 e seguenti.
Nonostante le carenze o i presunti errori, il libro è un prezioso repertorio di mitologia e
soprattutto di folclore. (N.d.A.)
3 Rachmanes significa in yiddish “compassione”. (N.d.T.)
4 Perchta (splendente) è una divinità presente nelle tradizioni germanica e ceca. (N.d.T.)

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impossibile seguirlo su un terreno così vasto e scarsamente definito1.


Oltre queste opere, devo menzionare i lavori, per me molto utili, di Jagić,
Brückner, Maretić, pubblicati sull’Archiv für Slavische Philologie, quelli di
Aleksandr Veselovskij pubblicato nella Memorie dell’Accademia di San
Pietroburgo. Questi lavori e altri ancora dispersi nelle raccolte più svariate
saranno menzionati a tempo e luogo.
Il campo della mitologia slava mi sembra unicamente delimitato dai testi
o i monumenti – se ne esistono – relativi al periodo pagano della vita storica
degli Slavi: se questi testi o monumenti possono essere spiegati o
completati da una qualche tradizione popolare, io invoco questa tradizione
(per esempio, sul culto degli Penati2, le idee sulla vita dell’oltretomba). Ma
non ritengo che il folclore faccia parte della mitologia. Me ne stacco a priori.
Sarebbe troppo lungo studiare in quale misura esso sia stato modificato
dalle leggende cristiane, dai prestiti dai popoli vicini (i Greci e gli Albanesi
presso gli Slavi meridionali; i Finni, i Varjaghi e i Tatari presso i Russi; i
Tedeschi presso i Cechi o i Polacchi). Mi rifiuto di riprendere nuovamente la
falsariga del libro, insieme utile e pericoloso, di Afanas’ev.
Se ho respinto per principio il folclore, tranne in alcuni casi ben definiti,
ho altresì ignorato risolutamente, per spirito di prudenza o di scetticismo,
come si vedrà, la mitologia lituana della quale non so nulla. Ho rifiutato
tutte le teorie, tutti i sistemi, ho negato qualunque contatto – per quanto
attraente – con la mitologia dei popoli orientali, del mondo classico o
germanico. Ho raccolto i frammenti sparsi nei testi che mi sono diventati
familiari in oltre trent’anni di studi assidui, ma non pretendo di riunirli in un
sistema.
Così com’è, questo libro colmerà una lacuna nella nostra letteratura
scientifica, oserei dire nella letteratura scientifica europea. La simpatia con
cui i miei colleghi slavi hanno accolto i saggi che l’hanno preceduto mi
permette di sperare che faranno una buona accoglienza anche a questo
volume, essi vi troveranno particolari che non figurano nelle opere
precedenti e una serie di ipotesi o interpretazioni che non pretendo di
imporre ma di cui rivendico la piena responsabilità. La lettura di queste
pagine sarà sicuramente per molti lettori non slavi una rivelazione; farà
definitivamente scomparire dai nostri repertori, almeno spero, gli errori che
finora li hanno rovinati e che si continuano a ripetere. Forse questo saggio
ispirerà ai più sapienti o ai più abili di me il desiderio di approfondire
ulteriormente queste delicate ricerche. Ma, ahimè, fintanto che i testi e i

1 A proposito della prima edizione del libro di Krek, Miklošič scriveva su Jenaer
Literaturzeitung [Rivista letteraria dell’Università di Jena], 1875, p. 43: «Noi dichiariamo
che non apparteniamo a quei mitologi che credono di poter trarre dai racconti la fede
pagana dei popoli slavi». Polivka ha citato questo passaggio in una nota della sua
traduzione ceca del mio Esquisse (Sbornik Slovansky, 1883, p. 392) e aggiunge: «Ora
non si può negare che più di un’idea pagana possa essere conservata sotto una forma
cristiana. Ma occorre procedere con molta cautela e critica». È ciò che talvolta mi sforzo di
fare (cfr. per esempio il capitolo Perunŭ e Sant’Elia). (N.d.A.)
2 Spiriti protettori della famiglia e della casa nella religione romana. (N.d.T.)

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monumenti dell’epoca pagana si ostineranno a farci sbagliare, sarà ben


difficile mettere la mitologia slava sullo stesso piano di quelle di altri popoli
indoeuropei.

Post Scriptum – La trascrizione seguita in quest’opera è la trascrizione


impiegata nei lavori scientifici di filologia slava scritti in tedesco. Chiedo
subito l’indulgenza del lettore per gli sbagli che saranno rimasti nonostante
la revisione molto attenta effettuata da me e dal mio devoto allievo e amico
Jules Preux.

Maggio 1901

Capitolo I
Le fonti della mitologia slava

Le fonti della mitologia slava sono abbastanza numerose, ma nessuna ci


dà qualche indicazione; esse non permettono di farci un quadro completo
dell’insieme della mitologia, tuttavia ci illuminano sulla natura di un certo
numero di divinità, sul culto cui erano oggetto, sui riti e le superstizioni degli
Slavi pagani.
Non abbiamo monumenti figurati di questo culto, almeno di un’autenticità
indiscutibile: quelli a lungo considerati tali, come gli idoli di Prillwitz e il
leone di Bamberga, sono stati riconosciuti apocrifi. Qualche vago frammento
del tempio di Arkona sull’isola di Rügen1, un idolo – un po’ sospetto –
scoperto in Galizia, qualche scultura conservata nel Museo di Danzica che
non è forse né slava né mitologica: ecco tutto ciò che ci resta di quel culto
così ricco, di cui Adamo da Brema, Helmold, Saxo Grammaticus, Tietmaro,
le biografie di Ottone di Bamberga, la Cronaca russa detta di Nestore ci
hanno descritto i templi e gli idoli2. Non abbiamo un testo slavo del periodo
pagano. I canti e i racconti popolari, le cui origini si perdono nella notte dei
tempi, si sono modificati gradualmente sotto l’influenza delle idee cristiane o
delle letterature straniere.
I principali testi sulla mitologia sono dovuti a preti cristiani, talvolta slavi,
come l’autore della Cronaca russa, più spesso stranieri, e, quel che è
peggio, preti tedeschi. Essi mostrano un profondo orrore per il paganesimo
slavo e non fanno che difendere il loro animo, rintracciando gli abomini delle

1 L’isola di Rügen è considerata l’ultima roccaforte del paganesimo slavo. Vi era la


cittadella-tempio di Arkona, dedicata al dio Svantovit, risalente al IX-X secolo e distrutta
nel 1168-1169 dai Danesi. (N.d.T.)
2 «Invaluitque in diebus illis per universam Sclaviam multiplex ydolorum cultura… Mira
autem diligentia cirea fani diligentiam affecti sunt» (Helmold, I, 52), «Preter penates enim
et ydola quibus singula oppida redundabant…» (ib., I, 83). Helmold nota come una
notevole particolarità: «Prove deus Aldenburg quibus nulle sunt effigies expresse». «Quot
regiones sunt in his partibus, tot templa habentur et simulacra demonum singula ab
infidelibus coluntur…» (Tietmaro, VI, 24). Potrei fornire all’infinito simili citazioni. (N.d.A.)

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pagani, la caduta dei loro idoli, la rovina dei loro templi1.


I testi relativi alla mitologia slava devono essere cercati:
1. Nelle cronache primitive dei paesi slavi redatte da autori nazionali;
2. Nelle cronache latine, tedesche o danesi, come Tietmaro, Adamo da
Brema, Saxo Grammaticus, la Knytlinga saga2, o nelle agiografie tedesche
(per esempio, le biografie di Ottone da Bamberga);
3. Nei testi bizantini: Procopio, Costantino Porfirogenito, che forniscono
solamente indicazioni molto brevi;
4. Nei testi arabi (Masudi, Ibn Fozlan), che sono molto vaghi e che
devono essere attentamente controllati, perché bisogna determinare se
intendono parlare degli Slavi dell’antica Russia o dei Varjaghi scandinavi.
5. Nel folclore attuale – riti, racconti o canti – in quanto questi fatti o
documenti confermano le indicazioni dei testi;
6. Negli scritti teologici del Medioevo che fanno riferimento a usanze
pagane vietate dalla Chiesa;
7. Infine, nella lingua che, nelle sue forme più antiche e anche in quelle
moderne, è testimone dei secoli passati e che, soprattutto nella
toponomastica, ci fa scoprire o supporre i luoghi di culto e ci insegna quali
idee si fissavano ai personaggi, agli idoli, ai riti, ai fenomeni della vita
religiosa tra gli Slavi pagani.

I. I cronacisti indigeni dei diversi Paesi slavi

La Cronaca detta di Nestore costituisce, per lo studio della Russia


primitiva, un documento inestimabile. Il cronicista scriveva alla fine dell’XI
secolo o all’inizio del XII. La Russia era stata convertita ufficialmente al
cristianesimo nel 988. L’annalista aveva conosciuto i figli dei primi cristiani e
raccolse informazioni precise sul culto dei loro padri. Essa ci fornisce dettagli
più o meno accurati su Perunŭ e Velesŭ, su Dažbogŭ, Stribogŭ, Mokošĭ,
Simarglŭ. Se alcuni nomi sono stati sfigurati da ricordi classici o da
interpolazioni maldestre, ce ne sono altri che sono assolutamente indubbi e
la cui esistenza è confermata da altri testi. Ci offrono informazioni più o
meno dettagliate sugli idoli, i sacrifici, i maghi, le rusalie (feste pagane), i
banchetti funebri. La Cronaca di Novgorod3 conferma alcuni passi della
Cronaca detta di Nestore.
Uno dei continuatori della prima Cronaca (manoscritto detto Ipaziano4)

1 Cfr. Tietmaro (VI, 23): «Quamvis autem de hiis aliquid dicere perhorrescam, tamen ut
scias, lector amate, vanam eorum superstitionem inanioremque populi istius
executionem, qui sunt vel unde huc venerint [dii Liuzicorum] strictim enodabo». (N.d.A.)
2 La Knýtlinga saga (Saga dei discendenti di Canuto) è una saga islandese scritta intorno al
1260 che parla dei re danesi dal IX secolo al 1187. (N.d.T.)
3 La Crónaca di Nóvgorod (o Prima Cronaca di Novgorod), scritta tra il XIII e il XIV secolo,
narra la storia della città di Novgorod la Grande e dei popoli slavi dalle origini. (N.d.T.)
4 Il manoscritto detto Ipaziano (Ipat’evskij) è una riscrittura della Cronaca di Nestore
redatta all’inizio del XV secolo, probabilmente nella città di Pskov, e rinvenuto nel 1807
nel monastero di Ipat’iev, presso Kostroma. Lo scritto termina con l’anno 1292. (N.d.T.)

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mette all’anno 1114 una lunga digressione sul dio Svarogŭ, digressione che
coinvolge il dio Sole, Dažbogŭ, gli Egizi ecc. In quel passaggio, come nei
nomi di alcune divinità citate nella cronaca fondamentale, non è difficile
sospettare influenze straniere.
I dati forniti dalle cronache russe sono completati con alcuni documenti
della letteratura del Medioevo, con gli Sbornik o raccolte di brani religiosi1,
con le traduzioni di testi bizantini che interpretano i nomi degli dèi ellenici
come quelli delle divinità slave o presunte tali. I sermoni non fanno che
vaghi cenni ai rituali pagani. Il poema epico intitolato Canto della schiera di
Igor’2 contiene alcune allusioni mitologiche, ma mi sembrano molto
sospette. È forse possibile che un cristiano del Medioevo, un uomo
illuminato, un chierico, si sia divertito a evocare i ricordi pagani, che abbia
chiamato i venti i nipoti di Stribogŭ, che abbia appellato due volte un
principe russo come il nipote di Daždbogŭ, che abbia identificato il sole nel
grande dio Chorsŭ dicendo che il principe Vseslavŭ3 precedeva la marcia di
Chorsŭ? Devo ammettere che queste bestemmie mi paiono assolutamente
inverosimili per la penna di un cristiano del Medioevo4.
Gli Slavi meridionali serbi e bulgari non ci hanno lasciato cronache che
raccontino il culto dei loro avi pagani. Le leggende latine o slave relative agli
apostoli Cirillo e Metodio ci dicono che gli abitanti della Grande Moravia e
della Pannonia furono definitivamente convertiti al cristianesimo dai due
missionari5, ma esse non ci danno alcuna indicazione sul culto che quegli
Slavi professavano prima. Alcuni Sbornik russi erano in origine di redazione
jugoslave, ma non ci forniscono nuove informazioni.
Il cronicista ceco Cosma di Praga (XII secolo)6, il padre della storia
boema, racconta, in un latino a volte barbaro e a volte fiorito, le avventure
dei principi leggendari – Krok, Libuše, Přemysl, Neklan, Hostivit ecc. – ma si
mostra molto riservato per tutto ciò che riguarda la mitologia slava. Quando
è costretto a fare qualche allusione agli dèi del periodo pagano, Cosma dà
loro dei nomi classici7: «Ergo litate diis vestris asinum ut sint et ipsi vobis in

1 Con il termine slavo sborník (raccolta, antologia, collezione) si definisce un insieme di


pensieri od opere, anche non religiosi, di un personaggio. (N.d.T.)
2 Sull’originale francese è Le dit de la bataille d’Igorĭ (Il detto della battaglia di Igor’), in
slavo è Slovo o polku Igoreve e qui si è preferito il titolo più noto in italiano: Canto della
schiera di Igor’. Narra la sfortunata campagna di Igor’ Svjatoslavič, principe di Novgorod-
Severskij, contro i Polovcy (o Cumani) nel 1185. La traduzione italiana curata da
Domenico Ciampoli è in www.larici.it.(N.d.T.)
3 Vseslav Brjačislavič (1029-1101), principe di Polotsk e, nel 1068-1069, gran-principe di
Kiev. (N.d.T.)
4 Per la Cronaca detta di Nestore, non posso che rimandare alla mia edizione francese
(Leroux, Paris 1884), per i testi slavo-russi alle edizioni della Commissione archeografica
russa. Ho già espresso i miei dubbi sul poema di Igor’ nella mia Littérature russe, II ed.,
pp. 21-23). (N.d.A.)
5 Per la vita dei santi, cfr. in www.larici.it. (N.d.T.)
6 La Chronica Bohemorum, composta all’inizio del XII sec. dal monaco Cosma di Praga,
decano del capitolo di Praga, abbraccia tutta la storia ceca dalle mitiche origini all’avvento
sul trono di Sobeslav I. (N.d.T.)
7 In Fontes rerum bohemicarum, t. II, Praga 1874, p. 21. (N.d.A.)

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asylum. Hoc votum fîeri summus Jupiter et ipse Mars, sororque ejus Bellona
atque gener Cereris jubet…». Si può concludere da questo testo che i Cechi
adoravano Perunŭ (Jupiter), Svantovit (Marte), una dea della guerra e un
dio degli inferi, di cui non ci viene rivelata l’esistenza o il nome? Altrove
Cosma dice che la principessa Teta ordinò al popolo di adorare le Oreadi, le
Driadi, le Amadriadi1, e aggiunge la precisazione: «sicut et hactenus multi
villani vel pagani, hic latices seu ignes colit, iste lucos et arbores aut lapides
adorat, ille montibus sive collibus litat, alia quæ ipse fecit, idola surda et
muta rogat et orat»2. Questo testo ci spiega bene che i Cechi adoravano gli
idoli, ma purtroppo non ce ne dà i nomi. Un altro passo non meno
interessante ci è fornito all’inizio del capitolo III, dove si elencano i riti
pagani che il principe Břetislav II soppresse, e i maghi e gli stregoni che
fece espellere3. E questo è tutto.
La cronaca in versi detta di Dalimil4 che si ispira a Cosma non aggiunge
nulla di positivo alle informazioni già tanto vaghe del suo prototipo.
Tuttavia, siccome è scritta in lingua ceca, ci dà alcuni dettagli che non
compaiono nella fraseologia latina del prototipo. Così ci dice che gli antichi
Cechi chiamavano nav il mondo dei morti:

Potom Krok jide do navi.


Poi Krok andò nel nav.

Ci insegna anche – se si corregge il testo in un certo modo – (II, v. 6)


che Čech5 emigrò dalla Croazia in Boemia, portando sulle spalle i suoi

1 Le leggende ceche raccontano che dal matrimonio segreto tra il principe e condottiero
Krok e una ninfa nacquero tre figlie: Kazi, Teta e Libuše. Kazi conosceva i segreti delle
erbe, Teta controllava il sereno e la pioggia, Libuše profetava. Teta era una sacerdotessa
pagana che introdusse i riti pagani, tra cui quello delle ninfe della mitologia greca: le
Oreali (ninfe dei monti), delle Driadi (dei boschi) e delle Amadriadi (degli alberi e in
particolare delle querce). (N.d.T.)
2 In Fontes rerum bohemicarum, t. II, Praga 1874, p. 8. (N.d.A.)
3 Ecco il testo integrale: «…Novus dux Bracislaus junior… omnes magos, ariolos et sortilegos
extrusit regni sui e medio, similiter et lucos sive arbores, quas in multis locis colebat
vulgus ignobile extirpavit et igne cremavit. Item et superstitiosas institutiones, quas
villani adhuc semipagani in Pentecosten tertia sive quarta feria observabant, offerentes
libamina super fontes mactabant victimas et dæmonibus immolabant, item sepulturas,
quæ fiebant in silvis et in campis, atque scenas, quas ex gentili ritu faciebant, in biviis et
in triviis, quasi ob animarum pausationem, item et jocos profanes, quos super mortuos
suos, inanes cientes manes ac induti faciem larvis bachando exorcebant; has
abominationes et alias sacrilegas adinventiones dux bonus, ne ultra fierent in populo Dei,
exterminavit». (N.d.A.) – Břetislav II fu principe ceco dal 1092 al 1100. (N.d.T.)
4 Al canonico Dalimil fu attribuita la prima cronaca boema in lingua ceca a noi giunta, che
narra della storia ceca dalla torre di Babele all’incoronazione di Giovanni di Lussemburgo
(1310) e termina nel 1314. Compilata in versi, in seguito fu anche attribuita a un
cavaliere dell’ordine gerosomilitano della città di Mlada Boleslav. (N.d.T.)
5 Czech, o Praotec Čech (Progenitore Ceco): la leggenda narra che Čech e Lech erano due
fratelli capitribù che lasciarono la terra natia dilaniata dalle guerre, attraversarono l’Oder e
l’Elba e giunsero nella selvaggia e inabitata foresta boema. Čech baciò quella terra e la
benedisse col nome di Cechia, quindi posò al suolo le immagini dei dedki (antenati) che

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antenati (dĕdky své), cioè i suoi Penati.


La Cronaca di Pulkava (XIV secolo)1, basata su quella di Cosma, è
completamente muta sulla religione dei Cechi pagani. Contiene vaghe
allusioni al culto degli Slavi del Brandeburgo: «cum in dicta marchia gens
adhuc permixta Slavonica et Saxonica gentilitatis ritibus deserviret et
coleret ydola»2; e un po’ più oltre (anno 1153) rivela l’esistenza a
Brandeburgo di un idolo con tre teste3 adorato dagli Slavi e dai Sassoni.
La cronaca di Gallus4 (inizio del XII secolo), che non era di origine
polacca, trascura volutamente di soffermarsi sul periodo pagano. Tutto ciò
che ci dice dei Polacchi prima del cristianesimo è che essi erano poligami:
«Istorum gesta quorum memoriam oblivio vetustatis abolevit et quos error
et ydolatria defœdavit, memorare negligamus»5. Altrove6 mette a confronto
i Prussiani pagani con le fiere.
La Cronaca del Magister Vincentius7 non è meno sprezzante delle cose
pagane, non vi fa alcuna allusione.
Il primo cronicista, o piuttosto il primo storico polacco del Medioevo che si
sia occupato della religione degli Slavi pagani, è l’arcivescovo Długosz, o
Longino, che scrisse, verso la fine del XV secolo (1455-1481), la Historia
Poloniæ8. A quel tempo il paganesimo era scomparso da molti secoli dalla
Polonia propriamente detta, e fino a qualche anno fa si è data ben poca
importanza alle informazioni di Długosz sugli antichi dèi del suo paese. Di
recente Brückner ha cercato di riabilitare Długosz riguardo alla mitologia
slava9. Długosz ha una passione per la patria polacca, non rinnega niente
delle sue origini, ma, siccome è imbevuto di mitologia classica, cerca i suoi

aveva portato con sé e accese un gran falò. Vennero fatti sacrifici agli dèi: a Perun che
abbatte la folgore, a Veles che governa i morti, a Vesna dea della primavera, Kupalo dio
dell’estate, Morana dea dell’inverno. (N.d.T.)
1 La Chronica Przibiconis dicti Pulkava (Cronaca del sacerdote Přibík detta di Pulkava) fu
scritta per ordine di Carlo IV intorno al 1330. (N.d.T.)
2 In Fontes rerum bohemicarum, t. V, p. 15. (N.d.A.)
3 Ib., p. 88. (N.d.A.)
4 Galli Anonymi Chronicon, in Bielowski, Monumenta Poloniæ historica, t. I, L’vov 1864. Su
Gallus cfr. la recente memoria di Max Gumplowicz: Bischof Balduin Gallus von Kruszwica
(Sitzungsberichte der kais. Akademie, Vienna, 1895). (N.d.A.)
5 Cfr. Adamo da Brema, Descriptio insularum Aquilonis a proposito dei riti dei pagani
scandinavi: «Cæterum neniæ quæ in ejusmodi ritu libationis fieri solent multiplices et
inhonestæ ideoque melius reticendæ» (28). (N.d.A.) – Descriptio insularum Aquilonis è
l’ultimo dei quattro libriche compongono l’opera Gesta Hammaburgensis Ecclesiæ
Pontificum (Gesta dei vescovi della Chiesa di Amburgo) che Adamo da Brema completò
nel 1075 e rielaborò successivamente. Vi sono descritti la geografia, le arti e i costumi dei
popoli scandinavi e la loro evangelizzazione. (N.d.T.)
6 Libro II, cap. XLIII. (N.d.A.)
7 Chronica seu originale regum et principum Poloniae, conosciuta anche col titolo Magistri
Vincenti dicti Kadlubek Chronica Polonorum (Cronaca dei Polacchi del Magister Vincentius
Kadlubek), scritta tra il 1190 e il 1208 in quattro volumi. (N.d.T.)
8 Il titolo esatto è Historia Polonica usque ad annum 1480, scritta nel 1455-1480 e
pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1711. (N.d.T.)
9 In Archiv für slavische Philologie, t. XIV, p. 170 e seguenti. (N.d.A.)

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dèi tra gli antichi Polacchi, arrivando a trovarne sei1. Individua Giove in
Yesza, Marte in Liada, Venere in Dzydzilelya, Plutone in Nýja, Diana in
Dzewana, Cerere in Marzana. Conosce un dio della temperatura (temperies)
chiamato Pogoda, un dio della vita, Žywie. Sostiene che c’è un tempio di
prim’ordine a Gniezno: «delubrum primarium ad quod ex omnibus locis
fiebat congressus». In lui è evidente l’influenza delle idee cristiane. Essendo
Gniezno la metropoli cattolica, la sede del primate, egli vuole che essa
svolgesse lo stesso ruolo nei tempi pagani. Parla di templi, idoli, sacerdoti,
boschi sacri, sacrifici (anche umani) e di feste annuali, alcune delle quali si
sono conservate malgrado il cristianesimo, e di cui una è chiamata Stado.
Egli subisce l’influenza di reminiscenze classiche o cristiane; prende per
nomi di divinità delle formule che si ritrovano in questo o quell’altro
ritornello popolare. Tuttavia, data la scarsità delle fonti slave tra i popoli
occidentali, la sua testimonianza non è assolutamente da respingere. Se
l’identificazione di Plutone con Nyja è discutibile, è però vero che nyia è
imparentato con il nav dei Cechi e ciò ci permette di interpretarlo meglio.
Brückner ha anche trovato2 qualche indicazione mitologica in una raccolta
di sermoni polacco-latino conservati presso la Biblioteca di San Pietroburgo
e li ha recentemente pubblicati. Riguardano in particolare le figure mitiche
inferiori e alcune di esse ci spiegano gli errori di Długosz.

II – I cronicisti stranieri

Se i cronicisti cechi e polacchi hanno volutamente trascurato il periodo


pagano della storia delle loro nazioni, gli stranieri che ci raccontano le lotte
dei Tedeschi o dei Danesi contro gli Slavi del Baltico oggi scomparsi, o gli
sforzi dei missionari germanici per convertirli sono in genere meglio
informati. Infatti, è soprattutto grazie alla loro testimonianza che possiamo
farci una chiara idea della vita religiosa degli Slavi dei Paesi baltici e
dell’Elba, in particolare degli abitanti dell’isola di Rügen. Non dimentichiamo
che nel X secolo tutti i paesi situati sulla riva destra dell’Elba e della Saale
(eccetto l’area compresa tra la foce dell’Elba e il fiume Trave) erano ancora
abitati dalla razza slava.
Adamo da Brema, maestro delle scuole di questa città, canonico della
cattedrale, è l’autore delle Gesta Hammaburgensis ecclesiæ pontificum.
Visse nella prima metà dell’XI secolo al confine dello Slavia in una città che
aveva la pretesa di essere la loro metropoli cristiana; aveva frequentato i
Danesi e aveva potuto consultare gli archivi dell’arcivescovo e ascoltare le
storie dei missionari. Nelle Gesta Hammaburgensis ecclesiæ pontificum
racconta la storia della sua città e di quelle delle nazioni vicine, in
particolare degli Scandinavi e degli Slavi baltici; nel libro III descrive gli
sforzi del principe Gottschalk per convertire gli Obotridi, confinanti con l’Elba

1 Cfr. Długosz, Opera omnia, t. X, Kraków 1873, p. 47 e seguenti. (N.d.A.)


2 In Archiv für slavische Philologie, cit., p. 183 e seguenti. (N.d.A.)

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e il Baltico1. Per principio non insiste sulle cose pagane: «Inutile est acta
non credentium scrutari»2. Tuttavia gli scappa più di un dettaglio
interessante per i nostri studi. Così delinea la città di Rethra con il tempio
eretto in onore dei demoni, «quorum princeps est Redigast»3, attesta4 la
riluttanza degli Slavi al cristianesimo e i cattivi trattamenti che riservano ai
sacerdoti, racconta5 che nella stessa città di Rethra il vescovo Giovanni fu
sacrificato al dio Redigast6. Dichiara che gli abitanti di Rügen sono più
attaccati al culto dei demoni degli altri Slavi7. Elenca diverse volte le torture
inflitte ai cristiani dagli Slavi pagani o eretici. Purtroppo non ebbe l’idea di
dare sugli idoli slavi e il loro culto dei dettagli più completi di quelli che dà8
sulle divinità scandinave Thor, Wodan e Fricco9. Crede in una certa parentela
tra le superstizioni dei Sassoni, degli Slavi e degli Svedesi10. Il suo odio
verso il paganesimo non gli impedisce di proclamare le buone qualità degli
Slavi pagani11. Cita spesso i rapporti di testimoni oculari. La sua buona fede
non è in dubbio, noi non abbiamo da deplorare che la scarsità di
informazioni forniteci.
L’opera di Helmold, Chronicon Slavorum, è, come suggerisce il titolo, una
delle principali fonti per la storia degli Slavi nel Medioevo. Nativo
dell’Holstein, Helmold era sacerdote della chiesa di Lubecca, parroco di

1 Gli Obotridi (o Obodriti) era un popolo slavo stanziato nelle regioni di nord-est della
Germania di oggi. Tra il IX e il XII secolo furono in guerra con i re danesi per la
supremazia nel Mar Baltico. Si convertirono al cristianesimo sotto l’influenza dei missionari
tedeschi. Al loro principe Gottschalk (o Godescalco; morto nel 1066) si ascrive la
fondazione delle diocesi di Oldenburg, di Ratzenburg e del Meclemburgo. (N.d.T.)
2 Il passo esatto sarebbe «Meo autem arbitratu, sicut inutile videtur, eorum acta scrutari,
qui non crediderunt…» (Libro I, cap. 63). (N.d.T.)
3 Libro II, cap. XVIII. (N.d.A.) – Il principe dei demoni Redigast (o Radigost) prese il nome
da una città, situata probabilmente nel Meclemburgo, che si chiamava Redigast, Radgosc,
Radigost, Riedigost, Rhetra e Rethra. In seguito e per tutto il testo, la si è indicata con
Rethra, che è il nome più comune, e non con Rhetra come fa l’Autore usando una rara
forma tedesca. (N.d.T.)
4 Libro II, 40, 41. (N.d.A.)
5 Libro III, 60. (N.d.A.)
6 Adamo di Brema è stato pubblicato da Lappenberg in Pertz (Monumenta Germaniæ
Historica, t. VII) e ristampato ad Hannover, in usum scholarum, 1 vol. in-8°, libreria
Hahn, 1876. La prefazione indica le migliori edizioni, traduzioni o commentari,
Recentemente la geografia di Adamo di Brema è stata studiata da Auguste Bernard, De
Adamo Bremensi geographo (tesi presentata alla Facoltà di Lettere di Parigi, Hachette,
1896), e da S. Günther, Sitzungsberichte der königl. böhmischen Gesellschaft der
Wissenschaften, Praga, 1894. L’opera di Adamo di Brema si ferma al 1072 ed è
completata da un curioso capitolo geografico: Descriptio insularum Aquilonis. Cfr. anche
Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelaller, IV ed., Berlino, 1877. (N.d.A.)
7 In Descriptio insularum, 18. (N.d.A.)
8 Capitoli XXVI, XXVII, XXVIII. (N.d.A.)
9 Wodan è il nome tedesco di Odino. Fricco è il nome latinizzato di Freyr. (N.d.T.)
10 Libro I, 8. Orderic Vital (XII secolo) identifica la religione degli Slavi Ljutiči con quella dei
Germani: «In Leuticia populosissima natio constitebat quæ Guodenen et Thurum
Freamque aliosque falsas deos colebat», in Monumenta Germaniæ Historica, t. XX, p. 55.
(N.d.A.)
11 Libro II, 19. (N.d.A.)

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Bosau (sul lago di Plön) nel paese degli Slavi Vagri1. Legato ai vescovi di
Oldenburg, Vicelin e Gerold, si associò a loro negli sforzi per evangelizzare
gli Slavi pagani. Fu inviato in missione presso i Vagri nel 1155 e fu ricevuto
dal principe Pribislav, di cui lodò l’ospitalità. Pribislav era un cristiano2.
Helmold ha degli Slavi una pessima opinione, forse a causa del loro
attaccamento al paganesimo: «Slavorum animi naturales sunt infidi et ad
malum proni ideoque cavendi». Li considera di una «natio prava et
perversa» e ritiene il loro paese «terra horroris et vastæ solitudinis»3.
Tuttavia riconosce che i Tedeschi si comportano male con loro. Egli tratta,
oltre ai Vagri, i Ljutiči4 e gli Obotridi situati tra l’Elba e l’Oder. La loro
conversione, o il ritorno alla fede cristiana dopo la loro defezione, è l’oggetto
principale della sua cronaca; scrive «ad laudem Lubeccensis ecclesiæ» nella
dedica del libro. Egli ha seguito Adamo da Brema, al quale fa numerosi
riferimenti («testis est magister Adamus»), ma aggiunge delle tradizioni
scritte e i racconti degli anziani slavi, «qui omnes barbarorum gestas res in
memoria tenent»5. Sembra aver conosciuto la lingua degli Slavi: ne cita
qualche parola e riproduce i nomi esattamente. Dà maggiori informazioni di
Adamo di Brema sulla religione degli Slavi pagani, sul culto del Dio nero6, su
quello di Proven, sull’idolo Podaga, sul tempio di Rethra e sul dio Radigost,
su Siva, la dea di Polabi7, sugli dèi che hanno degli idoli e su quelli che non
ne hanno; ci informa che gli Slavi amano fare idoli policefali (particolare
confermato in altri testi), che riconoscono l’esistenza di un dio superiore dal
quale discendono tutti gli altri, che hanno dei boschi sacri8. Egli conosce
l’esistenza di Svantovit, dio dell’isola di Rügen, e immagina la confusione di
questa divinità con il san Vito dei monaci di Corvey9. I capitoli 52 e 83 del
suo primo libro e il capitolo 12 del secondo10 costituiscono una delle fonti più
importanti per i nostri studi, ma non la sola come immagina Völkel, un

1 I Vagri, abitanti della Vagria, regione a sud-est dell’Holstein (Germania), erano slavi
imparentati con gli Obotridi. (N.d.T.)
2 Vicelin (o Vizelin; 1086-1154) fu vescovo di Oldenburg dal 1149 e Gerold (?-1163) gli
successe. Il principe dei Vagri, Pribislav (morto dopo il 1156), fu pagano e nemico del
cristianesimo fino al 1156, quando si convertì. (N.d.T.)
3 Libro I, 27. (N.d.A.) – La citazione esatta è «Nil autem mirum, si in nacione prava atque
perversa, in terra horroris et vastæ solitudinis…». La seconda parte riprende un passo
dell’Antico Testamento in latino: «Invenit eum in terra deserta, in loco horroris, et vastæ
solitudinis…» (Dt 32,10). (N.d.T.)
4 I Ljutiči componevano una tribù slava che abitava presso il corso inferiore dell’Oder e a
ovest di questo. Le fonti li nominano per la prima volta nel 983 quando si rivoltarono
contro le autorità tedesche a est dell’Elba. (N.d.T.)
5 Libro I, 16. (N.d.A.)
6 Libro I, 52. (N.d.A.)
7 I Polabi erano gli Slavi che abitavano i territori compresi tra il basso Oder e il basso Elba.
(N.d.T.)
8 Libro I, 83. (N.d.A.) – Nell’edizione consultata non è al cap. 83 ma all’84. (N.d.T.)
9 L’Autore approfondirà più avanti questa questione. (N.d.T.)
10 Nell’edizione consultata il cap. 83 del primo libro corrisponde all’84. Inoltre il cap. 12 del
secondo libro risulta essere il 108, essendo la Cronaca divisa in due libri ma con i capitoli
numerati in progressione. (N.d.T.)

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commentatore della Cronaca. La Cronaca non oltrepassa l’anno 11701.


Tietmaro (nato nel 976, morto nel 1018) era un canonico di Magdeburgo
e accompagnò l’imperatore Enrico II in una spedizione contro il principe di
Polonia, Boleslao il Coraggioso2. Nel 1009 diventò vescovo di Merseburgo,
città di origine slava posta sul fiume Sala alla frontiera tra Sassonia e
Slavia. Il suo nome significa situata tra le foreste: mese, tra; bor, foresta.
Tietmaro, ispirato dalle memorie classiche, ne dà una diversa etimologia,
perché vuole collegare le origini ai Romani: «Et quia fuit hæc apta bellis et
in omnibus semper triumphalis antiquo more Martis signata est nomine».
Tuttavia egli non ignora l’etimologia slava e vi fa allusione: «Posteri autem
(cioè gli Slavi) Mese, id est mediam regionis, nuncupabant eam, vel a
quadam virgine seducta». Il suo patriottismo germanico gli impedisce di
usare una etimologia slava. Trascura volutamente di indagare sulle origini
pagane della propria diocesi e comincia la sua storia verso la fine del IX
secolo. A quel tempo Merseburgo era ai confini del mondo germanico e sulla
riva destra del fiume Sala vivevano diversi popoli membri della grande
famiglia dei Serbi o Sorabi3.
Suo malgrado, Tietmaro ha dovuto imparare qualche nozione della loro
lingua e all’occasione ne fa sfoggio: «Belegori quod pulcher mons dicitur»
(VI, 56); «Bele Knegini, id est pulchra domina» (IX, 4); «Bolizlaus qui major
laus interpretatur» (IV, 45); «Dobrawa quæ bona interpretatur» (IV, 55)4.
Tutte le sue traduzioni non sono felici, per esempio quando traduce
Medeburu (il bosco ricco di miele) con mel prohibe. Ha molti buoni motivi
per non amare gli Slavi: due dei suoi antenati (I, 10) sono stati uccisi in
combattimento contro di loro. La loro religione pagana gli sembra
naturalmente abominevole: «Cum execranda gentilitas ibi veneraretur»
(VIII, 59). «Quamvis autem de hiis aliquid dicere perhorrescam, tamen, ut
scias, lector amate, vanam eorum superstitionem…» (VI, 23). Tuttavia,

1 Pubblicata per la prima volta a Francoforte nel 1556, la Cronaca di Helmold è stata
ristampata varie volte, in particolare da Leibniz negli Scriptores rerum brunswicensium e
nei Monumenta Germaniæ Historica di Pertz (t. XXI). Un’edizione in usum scholarum è
stata pubblicata ad Hannover da Pertz nel 1868. Essa è stata studiata da Völkel, Die
Slavenchronik Helmolds (tesi di Gottinga), Dantzig, 1873; da Hirsekorn, Die
Slavenchronik des Presbyter Helmold, dissertazione inaugurale, Halle, 1874; da Broska,
Forschungen zur deutschen Geschichte, t. XXII (1882); da J. Paplonski nella prefazione
della sua traduzione polacca [Helmolda Kronika slawianska z XII wieku] (Varsavia, 1862);
da Lebedev, in russo, nel suo Saggio sulle fonti della storia degli Slavi baltici dal 1131 al
1170 [Obzor istočnikov istorii baltijskich slavjan s 1131 po 1170 god]. Lebedev, al quale si
deve un importante lavoro su L’ultima lotta degli Slavi contro la germanizzazione
[Poslednjaja bor’ba baltiyskich slavjan protiv onemečenija] (Mosca, 1876) ha fatto seguire
questo lavoro da uno studio critico molto approfondito sulle fonti. Egli dedica a Helmold
un centinaio di pagine (pp. 119-207). Avrò ancora occasione di citare Lebedev a proposito
di Saxo Grammaticus e della Knytlinga saga. (N.d.A.)
2 Boleslao il Coraggioso o Boleslaw I Chrobry (967-1025), duca di Polonia dal 992 (nel 1025
col titolo di re). (N.d.T.)
3 Detti anche Sorbi o Serbi bianchi. (N.d.T.)
4 Anche in questo caso nelle edizioni consultate combaciano i testi ma non i riferimenti.
(N.d.T.)

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nonostante i suoi pregiudizi, gli sfuggono delle preziose indicazioni. Ci dà i


nomi dei luoghi sacri, come la montagna del pagus Silensis (VIII, 59), il
bosco sacro di Zutibure1. Menziona una dea anonima la cui immagine era
portata su una bandiera dai Ljutiči (VIII, 65). Afferma che tra gli Slavi
pagani tutto finisce con la morte (I, 14), ma tale asserzione è detta alla fine
di una storia di fantasmi. Tietmaro è sostanzialmente superstizioso e ama
descrivere sogni e apparizioni; se dalla sua affermazione si concludesse che
gli Slavi non credevano nei fantasmi, sarebbe veramente una curiosa
testimonianza a loro favore. Sa che avevano degli idoli (III, 19). Infine,
nonostante la sua riluttanza, dedica due intere pagine a descrivere la città
dei Redariani2 che egli chiama Riedegost e che era uno dei principali
santuari della loro religione. E in ciò è in contraddizione con Adamo di
Brema, che conferisce alla città il nome di Rethra, e al dio quello di
Redigast, ma non è questo il momento di trattare tale delicata questione.
Egli descrive il tempio di questa città, gli idoli, soprattutto quello di
Zuarasici3, e la testimonianza che ci dà sul culto di questo dio è confermata
da una lettera di san Bruno all’imperatore Enrico II4. Tietmaro conosce
l’esistenza di sacerdoti addetti al culto del dio e descrive gli oracoli resi dai
cavalli sacri e qui ancora una volta la sua testimonianza è confermata dal
biografo di Ottone di Bamberga e di Saxo Grammaticus5. Egli sa che i templi
e gli idoli sono molto numerosi tra i Ljutiči. Helmold si esprime in termini
analoghi. Tietmaro scrive: «Quot regiones sunt in his partibus, tot templa
habentur et simulacra demonum singula ab infidelibus coluntur» (VI, 25). A
sua volta dice Helmold: «Præter penates et idola quibus singula oppida
redundabant» (I, 163)6.

1 Zutibure rappresenta Sveti o Svantibor, il bosco sacro. Questo nome diventò per i
tedeschi Sciudibure e oggi è Schkeitbar! La montagna del pagus Silensis è nominata in
una bolla di Eugenio II mons Silentii. Tali distorsioni ci aiutano a capire come il nome del
dio Svantovit sia stato tradotto con Sanctus Vitus. (N.d.A.) – In latino pagus significa
villaggio, mentre mons, monte. Così, secondo un’interpretazione, silensis è il genitivo
dell’aggettivo (qui sostantivato) silens, mentre silentii lo è del sostantivo silentium, che
rimandano entrambi al silenzio, tuttavia silens non indica la totale assenza di rumore, ma
il fruscio del vento nei campi o tra le foglie. (N.d.T.)
2 I Redariani costituivano una delle tribù situate sul bacino del fiume Peene. (N.d.T.)
3 Cfr. il capitolo su Zuarasici (Svarožičŭ). (N.d.A.)
4 L’imperatore Enrico II (973-1024), cattolico e in seguito venerato come santo, non esitò
ad allearsi con gli Slavi pagani per vincere la cattolica Polonia e di ciò fu criticato del
missionario san Bruno di Querfurt che scrisse: «»È giusto perseguitare una nazione
cristiana e concedere amicizia a una nazione pagana? In che modo può Cristo avere
relazione con Satana? In che modo possiamo paragonare la luce al buio? Non è meglio
combattere i pagani per il bene del cristianesimo, piuttosto che far torto ai cristiani per
onori terreni?». (N.d.T.)
5 Cfr. il capitolo su Svantovit. (N.d.A.)
6 Pubblicata per la prima volta a Francoforte nel 1586, la Cronaca di Tietmaro è stata
ristampata nel volume III de Scriptores rerum germanicum da Lappenberg. L’edizione di
Lappenberg è stata riedita da Fr. Kurze (in usum scholarum, Hahn, Hannover 1889).
Questa edizione, attentamente riveduta e annotata, accompagnata da un commento e da
due indici, è una delle migliori raccolte in usum scholarum e da questa sono prese le mie
citazioni. La parte che concerne i rapporti tra l’Impero e la Polonia è stata ristampata da

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Saxo Grammaticus era danese. Sappiamo poco della sua vita. Era
chierico, e morì all’inizio del XII secolo. Fu un seguace di Absalon, vescovo
di Lund in Scania, uno degli statisti e dei prelati più importanti del
Medioevo1. Absalon fu consigliere intimo di re Valdemaro e suggerì la
spedizione contro i Wendi2 o Slavi pagani che portò alla caduta di Arkona,
nel 1168, alla sottomissione dell’isola di Rügen e alla distruzione del
paganesimo slavo. Fu su esortazione di Absalon che Saxo scrisse le Gesta
Danorum: è un prosatore lucido ed elegante, che si ispira ai classici latini,
soprattutto a Valerio Massimo3. È un testimone oculare degli eventi che
descrive? Lo si può supporre, ma non c’è prova. In ogni caso, il vescovo
Absalon, che prese parte a quei grandi avvenimenti aveva provveduto a
prendere serie informazioni. Il suo patriottismo danese è forse più ardente
della sua fede cristiana, l’ha usato a profitto e nella sua prefazione ci fa
conoscere, avendoli tradotti in versi latini, le antiche canzoni popolari
(«majorum acta patrii sermonis carminibus vulgata»), i racconti degli
Islandesi (Tylensium) e quelli del vescovo Absalon («Absalonis asserta docili
animo stiloque complecti cure habui»).
La sua storia è l’unico documento significativo che abbiamo sulle lotte
degli Slavi di Rügen contro i Danesi, su Arkona, il grande santuario del
paganesimo slavo, sul culto e la distruzione dell’idolo di Svantovit. Per
quanto riguarda questa divinità, Saxo è molto più completo di Helmold ed è
con evidenza ben informato. Come Helmold confonde Svantovit con San
Vito, ma questa confusione tra il dio pagano e il santo cristiano è facilmente
spiegabile con le idee che circolavano in quell’epoca. Per quanto Saxo
Grammaticus sembri un po’ fanatico, non gli si può rimproverare di aver
avuto i pregiudizi della sua epoca e della sua rango. Noi gli dobbiamo anche
delle preziose informazioni sul culto di Rugievithus, di Porevitus e di

Bielowski nel Volume I dei Monumenta Poloniæ historica (op. cit., pp. 230-318). Essa è
accompagnata da una interessante introduzione. La Cronaca di Tietmaro è stata studiata
da Wattenbach, Geschichtsquellen; da Strebitzki, Thietmarus quibus fontibus usus sit
(Königsberg, 1870); da Fortinskij, Titmar Merzeburgskij i ego chronika (Tietmaro di
Merseburgo e la sua Cronaca), San Pietroburgo, 1872); da F. Kurze nella prefazione alla
sua edizione. (N.d.A.) – Nell’edizione consultata il rimando è I, 84. Inoltre, due titoli
vanno precisati: W. Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter bis zur
Mitte des XIII Jahrhunderts, Berlin 1858; J. Strebitzki, Thietmarus episcopus
Merseburgensis quibus fontibus usus sit in chronicis componendis quæstiones criticæ,
Königsberg 1870. (N.d.T.)
1 La vita di Absalon è stata scritta da Estrup e tradotta in tedesco da Mohnike: Absalon
Bischof von Roeskilde… aus dem dänischen, 1832. (N.d.A.) – Absalon (1128-1201) fu un
arcivescovo cattolico e un potente politico danese, consigliere di Valdemaro I re di
Danimarca dal 1157 alla sua morte (1182). Lo storico danese Estrup pubblicò Absalon
som Helt, Statsmand og Biskop (Absalon come eroe, statista e vescovo) nel 1826, ripreso
da G. Mohnike con il titolo Absalon, Bischof von Roeskilde und Erzbischof von Lund,
Eroberer der Insel Rügen und Bekehrer derselben zum Christenthum, als Held,
Staatsmann, und Bischof, Leipzig 1832. (N.d.T.)
2 O Venedi. (N.d.T.)
3 Scrittore latino, vissuto tra il I secolo a.C. e il I d.C., Valerio Massimo scrisse Factorum et
dictorum memorabilium libri IX (Nove libri su fatti e cose varie da ricordare), in cui
raccolse fatti e aneddoti ripresi da fonti latine e greche. (N.d.T.)

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Porenutius1, sugli oracoli, sui sacrifici e sulle superstizioni degli Slavi di


Rügen, informazioni che ha saputo da Absalon in persona, di cui riferisce le
imprese2.
A fianco della storia di Saxo Grammaticus si piazza la Knýtlinga saga
(Historia Knytidarum, cioè Storia dei discendenti di Knyd). Scritta su
ispirazione del vescovo Absalon, contiene solo poche righe sul periodo che ci
interessa. Conferma la storia di Saxo Grammaticus e la completa:
impariamo i nomi di tre dèi che non sono in Saxo: Turupid, Pizamar e
Tiarnoglovius. I primi due nomi sono molto difficili da restituire, il terzo è
più chiaro e significa, evidentemente, il dio o l’idolo dalla testa nera
(čarnoglavy). Per quanto minime, queste indicazioni non sono da ignorare.
La Knýtlinga saga comprende la storia danese dall’inizio del X secolo e
termina al 1187. È attribuita a Olaf Tordson, che si suppone abbia
conosciuto la storia di Saxo e vi si sia ispirato. In essa sono orribilmente
storpiati i nomi propri: il principe Pryslav è diventato Freedevus e non sono
trattati meglio i nomi delle divinità. Siccome Tordson è contemporaneo agli
ultimi eventi che racconta, ha potuto raccogliere quelle informazioni che
mancano in Saxo Grammaticus3.
Le biografie del vescovo Ottone di Bamberga costituiscono un documento
particolarmente importante per lo studio della mitologia slava. Originario
della Svevia, Ottone era nato nella seconda metà dell’XI secolo. In gioventù
visse per qualche tempo in Polonia, contribuì al matrimonio del principe
Władysław Herman con Giuditta, sorella dell’imperatore Enrico IV4. Ottone
imparò la lingua polacca, la cui conoscenza gli fu naturalmente molto utile

1 Rugievithus, Porevitus e Porenutius sono i nomi che Saxo Grammaticus dà agli dèi slavi
Rinvit, Porevit e Porenut. Verranno analizzati più avanti. (N.d.T.)
2 Stampata per la prima volta a Parigi nel 1514, la Historia Danica è stata pubblicata per
l’ultima volta da Alfred Holder (Libreria Trübner, Strasburgo 1886). Preceduto da una
biografia copiosa e accompagnata da un buon indice, questa edizione purtroppo manca di
sommari, commenti, indicazioni cronologiche e non è fatta per agevolare il compito degli
storici che la vogliono consultare. Holder ha elencato nella sua bibliografia tutte le opere
di cui Saxo Grammaticus è stato oggetto fino al 1886. Ha tuttavia ignorato il lavoro di
Lebedev nell’opera che ho sopraccitato: Saggio sulle fonti della storia degli Slavi baltici (in
russo, Mosca, 1876). (N.d.A.) – L’edizione di Holder s’intitola Saxonis Grammatici Gesta
Danorum; Historia Danica è il titolo di traduzioni precedenti. Il titolo originale dell’opera di
Lebedev è Obzor istočnikov istorii baltijskich slavjan s 1131 po 1170 god. (N.d.T.)
3 L’edizione che ho consultato è quella pubblicata in Scripta historica Islandorum
(Copenhagen 1842, t. XI). La Knýtlinga saga è stata particolarmente studiata da
Dahlmann nella sua Storia della Danimarca (Geschichte von Dänemark, Amburgo [1843],
pp. 1840-43), da Wattenbach, da Lebedev. Essa comprende in tutto cinque pagine
relative al nostro soggetto. Il passaggio che ci interessa è stato riprodotto, testo e
traduzione, in Monumenta Germaniæ Historica di Pertz, t. XXIII, ultimo volume. Questo
volume offre anche una parte della cronaca di Saxo. (N.d.A.) – Scripta Historica
Islandorum de Rebus Gestis Veterum Borealium è un’opera di S. Egilsson in cui sono
tradotte in latino le saghe islandesi. (N.d.T.)
4 Fu per celebrare l’alleanza tra la Polonia e la Boemia che Władysław Herman (o, in
italiano, Ladislao; 1040-1102), duca di Polonia dal 1079, sposò nel 1082 Giuditta di
Boemia, sorella dell’imperatore Enrico IV del Sacro Romano Impero. (N.d.T.)

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durante le sue missioni tra gli Slavi del Baltico1. Al ritorno in Germania
diventò vescovo di Bamberga e fu consacrato a Roma, il 13 maggio 1106.
Lasciò un buon ricordo in Polonia. Nel 1123, il principe Boleslao III lo invitò
a evangelizzare gli Slavi della Pomerania. Entrò in quella provincia e fu
ricevuto dal principe Vratislao2 che era un cristiano (era stato battezzato a
Merseburgo). Ottone visitò le città di Pyritz, Kamien, Wollin, Stettin,
Kołobreg (ora Kolberg)3, eresse alcune chiese, istituì un vescovo di
Pomerania a Wollin. In questa prima missione avrebbe convertito più di
ventimila pagani e costruito undici chiese. Ma, dopo la sua partenza, le
apostasie furono numerose. All’inizio del 1128 l’apostolo ritornò in
Pomerania da Magdeburgo, visitò Havelberg, Uznoim, Volegost4, Stettino,
Wollin e ritornò alla sua diocesi nel mese di dicembre.
Ebbo, monaco di Bamberga, scrisse nel 1151, o 1152, la Vita Ottonis5.
Aveva conosciuto il vescovo, aveva goduto i racconti dei suoi compagni,
compresi quelli del prete Udalrico6 che aveva accompagnato Ottone nella
sua seconda missione e che sembra essere stato un osservatore intelligente
e in buona fede. Ebbo è dunque un testimone molto degno di fede
soprattutto per ciò che riguarda la seconda missione. È meno attendibile
sulla prima. Egli riporta una lettera autentica del vescovo al papa. È un
uomo coscienzioso che sembra incapace del minimo inganno. Ci si può
fidare di lui, non dimenticando, naturalmente, che è un uomo del Medioevo
e un uomo di Chiesa. Egli crede ovviamente ai miracoli e ne racconta
qualcuno che non è, in realtà, troppo inverosimile.
Ebbo constata subito il fanatismo pagano dei Pomerani: «Tamtum esse
gentis illius ferocitatem – dice il duca di Polonia, – ut magis necem ei inferre
quam jugum fidei subire parata sit». Egli racconta che gli abitanti di Julin
(che prendeva il nome da Giulio Cesare!)7 onoravano una colonna eretta in
onore di questo grand’uomo. Dopo varie vicissitudini il vescovo Bernardo
convinse gli abitanti di Julin a farsi battezzare e insegnò loro a seppellire i
morti nei cimiteri, piuttosto che nelle foreste o nei campi, a non mettere i
bastoni sulle tombe8, a non costruire case per gli idoli, a non consultare più
le pitonesse, a non ricorrere alla stregoneria. I sacerdoti di Julin cospirarono
la morte del vescovo. Presero un idolo di Triglav e lo affidarono alle cure di
una anziana donna che lo nascose in un albero cavo. Il vescovo costruì a
Julin due chiese cristiane e, per conciliarsi maggiormente il favore dei nuovi

1 «Linguam quoque terræ illius apprehendit» (Herbord, III, 32). (N.d.A.)


2 O Wartislaw I (morto nel 1135), primo duca di Pomerania. (N.d.T.)
3 Sono i nomi tedeschi delle città di Pyrzyce, Kamień Pomorski, Wolin, Szczecin (o, in
italiano, Stettino) e Kołobrzeg. (N.d.T.)
4 Uznoim è Usedom e Volegost è Wolgast. (N.d.T.)
5 Il titolo esatto è Vita Ottonis episcopi Bambergensis. (N.d.T.)
6 Udalrico da Bamberga, chierico della cattedrale e maestro di retorica. La prima missione
di Ottone avvenne dal maggio 1124 al febbraio 1125 e raggiunse Stettino da Gniezno. La
seconda missione fu nel 1128 e raggiunse Demmin e Usedom. (N.d.T.)
7 Wollin, Wolin, Julin, Jumne e Vineta sono nomi della stessa città. (N.d.T.)
8 Senza dubbio per riconoscerli. (N.d.A.)

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convertiti, le dedicò a due santi slavi: san Vojtěch (Adalberto) e san Vaclav,
entrambi originari della Boemia (Libro I)1.
Il Libro II torna sulla storia della città di Julin, costruita da Giulio Cesare e
che conserva la sua lancia. Questa città era famosa per il culto di un idolo,
purtroppo senza nome, che richiamava ogni anno un gran concorso di
persone. La conversione è stata puramente superficiale. Alcuni pagani
nascondono in casa dei piccoli idoli decorati d’oro e d’argento. Il popolo
accorre a frotte alla tradizionale festa: eleva idoli e ritorna al paganesimo.
Stettino e Julin avevano ciascuno tre montagne, sulla più alta delle quali
c’era l’idolo di Triglav. Un racconto sulla seconda missione di Ottone ci dice
che questi idoli dovevano avere dei vestiti o ornamenti mobili2. Quando il
vescovo arriva nella città di Hologast3 un sacerdote pagano si mette gli abiti
dell’idolo e si fa passare per il dio allo scopo di eccitare i suoi correligionari.
Ottone va in seguito nella città di Chozegow, oggi Gützkow. Vi trova templi
splendidi («magni decoris et miri artificii») per i quali gli abitanti avevano
speso la somma di trecento talenti. Non ci dice, però, quanto valevano
questi talenti. Gli abitanti gli offrono del denaro per lasciare intatti quei
santuari. Lui rifiuta, distrugge gli idoli. Di questi idoli, Ebbo ci fornisce
informazioni preziose. Erano, dice, «miræ magnitudinis et sculptaria arte
incredibili cœlata», privi di braccia e mani, gli occhi cavati, le narici tagliate;
molte coppie di buoi li trascinavano a stento al rogo. Questa testimonianza
concorda in modo singolare con quella di Tietmaro (V, 23): «Hujus parietes
variæ deorum, dearumque imagines mirifice insculptæ exterius ornant…
interius autem dii stant manu facti, singulis nominibus insculptis, galeis
atque loricis terribiliter vestiti…».
Di Stettino, Ebbo ci descrive (II, 15) dei monumenti del culto pagano
assai difficili da interpretare. C’erano, dice, in quella città «pyramides
magnæ et in altum more paganico muratæ». Il vescovo predica su una di
queste piramidi che aveva evidentemente avuto un carattere religioso.
Erano delle tombe, erano dei pulpiti? Ebbo non aggiunge, purtroppo, alcun
dettaglio specifico in questa troppo breve descrizione. Ottone (18) va poi a
pregare nei pressi di un noce4 o piuttosto un nocciolo sacro («idolo
consecratum») situato vicino a una sorgente e ordina di tagliarlo. Gli
abitanti di Stettino lo supplicano di risparmiare l’albero i cui frutti
alimentano il guardiano. Egli acconsente. Noi incontreremo più di un testo
sugli alberi sacri5.

1 Sant’Adalberto (in cèco: Vojtĕch; 956?-997), monaco benedettino, fu vescovo di Praga dal
982, missionario in Ungheria (994-95) e in Polonia dove fu ucciso. San Venceslao (in
cèco: Václav; 907?-935), duca di Boemia dal 921 al 929, fu il primo santo boemo e fu
nominato protettore della Boemia. (N.d.T.)
2 Cfr. Tietmaro, VI, 23: «In pago Riedirierum… dii stant manu facti…, galeis atque loreis
terribiliter vestiti». (N.d.A.)
3 Hologast è l’antico nome della fortezza della città di Wolgast. (N.d.T.)
4 Dubito che il noce prosperi alla latitudine di Stettino. (N.d.A.)
5 Sulla persistenza del culto degli idoli, il recente libro di W. von Sommerfeld, Geschichte
der Germanisierung des Herzogtums Pommern (Lipsia, 1896), fornisce un testo curioso

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Herbord non aveva conosciuto Ottone: «Ipsum autem – dice – in carne


non vidi», ma aveva incontrato un membro della prima missione che gli
aveva fornito dei particolari ignorati da Ebbo1. Ha dato al suo racconto la
forma letteraria di un dialogo tra Timon, priore del monastero di San
Michele a Bamberga, e il monaco Siegfried dello stesso monastero. Timon
era stato al servizio del vescovo per cinque anni, Siegfried per quindici e
aveva accompagnato Ottone nella sua prima missione. I racconti che
Herbord gli mette in bocca sono molto vivaci, animati; sembrano essere
stati scritti sotto l’immediata impressione degli avvenimenti e provengono
da un narratore intelligente. Herbord si serve spesso del racconto di Ebbo e
di quello del monaco di Priefling2. È molto più erudito del suo predecessore
e mette in bocca ai suoi personaggi dei lunghi discorsi. Gli storici tedeschi
non sono d’accordo sul valore della sua opera. Jaffé si mostra molto severo,
Köpke e Klempin sono più favorevoli. Kotljarevskij dice che è un lavoro di
cui ci si può fidare. Petrov conferma lo scetticismo di Jaffé. Herbord ed Ebbo
sono talvolta complementari: Herbord è più completo sulla prima missione,
Ebbo sulla seconda3.
Herbord è naturalmente mal disposto verso i Pomeraniani4 che considera
un popolo perfido (II, 6) e di cui segnala la barbara crudeltà (4, 7, 11, 24) e
il fanatismo pagano (II, 26)5. Ci comunica l’esistenza di una casta

preso a prestito dal Mecklenburgisches Urkundenbuch. Nel 1219, il vescovo di Schwerin,


Brunsward, lamenta ancora di dover far la guerra agli idoli. (N.d.A.) – Il titolo completo è
Geschichte der Germanisierung des Herzogtums Pommern oder Slavien bis zum Ablauf
des 13. Jahrhunderts. Mecklenburgisches Urkundenbuch è una raccolta di testi sulla storia
medioevale della regione del Mecklenburg (Meclemburgo), dalle prime tradizioni scritte
fino alla fine del XIV secolo. Fu pubblicato dall’Associazione per la storia e l’antichità di
Meclemburgo dal 1863. (N.d.T.)
1 Su Herbord l’Archiv für slavische Philologie (X, p. 813) cita le opere di Haag (1874), di
Zettwitz (1876), che non ho visto. Esse sono state riassunte e discusse da Petrov nella
Rivista del Ministero dell’Istruzione pubblica, (in russo) 1882-83. (N.d.A.) – Il monaco
tedesco Herbord (morto nel 1168) scrisse, in polacco, Dialog o życiu św. Ottona biskupa
Bamberskiego (Dialogo sulla vita di Santo Ottone vescovo di Bamberga) nel 1158-59.
(N.d.T.)
2 Al monaco benedettino Botho o Potho da Priefling (ora Prüfening, vicino a Ratisbona)
furono attribuiti il Liber de miraculis Sanctae Dei genitricis Mariae (scritto forse nella
seconda metà del XII secolo e edito a Vienna nel 1731) e la Vita Erminoldi abbatis
Pruveningensis, sul primo abate di Priefling (1114-1121), pubblicato a metà del XIX
secolo. (N.d.T.)
3 Herbord non conosceva la lingua slava come si può giudicare dall’etimologia che dà alla
parola Pomerania: «Pomerania provincia ex ipsa nominis etymologia qualitatem sui situs
indicare videtur. Nam POME lingua Sclavorum juxta sonat vel CIRCA, moriz autem MARE;
inde POMERANIA quasi POMERIZIANA, id est juxta vel circa mare sita». La forma usata
dallo slavo sarebbe ovviamente Pomorania. (Pomorie, lungo il mare, da po, lungo a, e
more, mare; la forma polacca è ancora oggi Pomorze). Allo stesso modo, egli cerca di
spiegare la parola contina dal latino continere. (N.d.A.) – La traslitterazione corretta dal
russo è Pomor’e. (N.d.T.)
4 I Pomeraniani (o Pomerani) costituivano da uno dei gruppi degli Slavi occidentali.
Abitavano la Pomerania, regione storica sulla costa meridionale del mar Baltico, compresa
all’incirca tra la Vistola e l’Oder. (N.d.T.)
5 «Apud christianos, aiunt, fures sunt, latrones sunt, truncantur pedibus, privantur oculis et

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sacerdotale presso i Pomeraniani (II, 29) e di templi che chiama «continæ»


e «fana» (ib. 31). Questa parola continæ lo imbarazza e cerca di
interpretarla con il latino: «Sclavica lingua in plerisque vocibus latinitatem
attingit, et ideo puto ab eo quod est continere continas esse vocatas».
Descrive queste continæ alle quali presta una rara magnificenza e di cui
elenca i tesori1. Racconta che il vescovo prese da tali continæ un idolo di
Triglav per inviarlo a Roma e attestare il trionfo della fede; vicino a uno dei
templi erano una quercia e una sorgente sacra. Egli narra i riti di divinazione
per i quali serviva un cavallo meraviglioso che il vescovo fece vendere
all’estero, «asserens hunc magis quadrigis quam propheciis idoneum» (II,
33)2. Quando tutta la città si fu convertita, il sacerdote incaricato della cura
di questi animali era l’unico a persistere nella religione pagana. I templi
pagani furono distrutti, gli idoli spezzati (II, 36). Nonostante i suoi
pregiudizi, Herbord rende omaggio all’onestà e all’ospitalità della Pomerania.
Nel Libro III, descrive l’ostilità dei sacerdoti pagani contro il cristianesimo
(III, 4) e i loro sforzi, i loro inganni per opporsi al suo progresso; descrive
nella città di Hologast (id., 6) il tempio del dio Gerovit3 «qui lingua latina,
Mars dicitur», lo scudo sacro rubato da un chierico audace, poi il tempio
vasto e magnifico della città di Gozgaugia (sic) (Gützkow). I pagani
tenevano talmente al tempio che chiesero di conservarlo, anche
consacrandolo al culto cristiano, ma il vescovo resistette e il tempio fu
distrutto insieme agli idoli. La città di Stettino, che Ottone credeva di aver
interamente convertita, era parzialmente ritornata al paganesimo. Herbord
ci attesta gli sforzi dei sacerdoti pagani per eccitare il popolo contro il
vescovo e i suoi compagni (III, 14), la loro accanita resistenza agli sforzi dei
missionari (III, 17, 18, 20), la tragica morte di uno di questi sacerdoti,
diventato folle (id., 25), forse per la disperazione di aver assistito alla
caduta della religione nazionale4.

omnia genera scelerum et pænarum christianus exercet in christianum. Absit a nobis


religio talis». (N.d.A.)
1 Pertz, edizione di Hannover, interpreta contina dal polacco konczyna, limis, fastigium:
contina igitur ædificia fastigata. Questa interpretazione è errata. Si veda oltre. (N.d.A.)
2 Questi riti di divinazione si ritrovano in altri testi che abbiamo segnalato altrove (cfr. il
capitolo su Svantovit). Ci si avvicina alla leggenda ceca di Libuše che indica ai Cechi il loro
futuro principe. (N.d.A.) – Sono numerose le leggende sulla mitica principessa slava
Libuše, che profetizzò, intorno al VII secolo, l’origine di Praga: «Vedo una grande città la
cui gloria toccherà le stelle… cui darete il nome di Praha». (N.d.T.)
3 O Žerovid. (N.d.T.)
4 I testi sulla vita di Ottone di Bamberga sono stati pubblicati da Köpke in Pertz (
Scriptores, t. XII e XX). Il dialogo di Herbord De Vita Ottonis è stato pubblicato
separatamente da Pertz ad Hannover (editio in usum scholarum) nel 1868. Cfr. anche
Bibliotheca rerum germanicarum, 1869, p. 580-841; Ebonis vita Ottonis (Berlin, 1863);
Herbordi Dialogus de Ottone, episcopo Bambergensi (ib., 1869). Klempin ha studiato le
biografie di Ottone di Bamberga nei Baltische Studien (t. XI, fasc. 1, Stettino, 1842).
Un’opera fondamentale è quella di A. Kotljarevskij, l’eminente slavista di cui la scienza
piange la morte prematura: Le biografie di Ottone di Bamberga dal punto di vista della
storia e dell’archeologia slava (in russo, Praga, 1874, stamperia Klaudy). Questo libro è
un vero e proprio Corpus di testi relativi agli Slavi della Pomerania. La biografia di Herbord

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Una terza biografia di Ottone di Bamberga è dovuta a un anonimo che si


suppone sia stato un monaco nel monastero di Priefling; egli ha goduto di
Ebbo e di Herbord, ma ha anche sfruttato i racconti di alcuni ecclesiastici,
(«quæ a notis religiosisque personis») non indicati chiaramente, che hanno
soprattutto un carattere leggendario. La sua opera è molto breve. Crede,
anche lui, alla storia della lancia di Giulio Cesare, che avrebbe dato il nome
alla città di Julin. (Non c’è da stupirsi che, se mettono Giulio Cesare tra gli
Slavi del Baltico, abbiano sostituito san Vito a Svantovit!) Egli ripete
l’etimologia fantastica delle continæ. Di queste ne conosce due. Cita il culto
di Triglav e di un cavallo che serviva per le divinazioni.
Gli scrittori bizantini, che si occupano degli Slavi pagani, Procopio,
Costantino Porfirogenito, Leone Diacono sono molto scarni su quanto
concerne la loro religione. Procopio di Cesarea visse nel VI secolo e
accompagnò Belisario nelle campagne in Asia, Africa e Italia. È uno storico
serio che non lascia libera l’immaginazione. La parte delle sue Storie che ci
interessa è quella che ha per oggetto le guerre dei Goti, e i racconti che ha
raccolto sono spesso il risultato di osservazioni personali. Sulla mitologia
slava ci dà soltanto delle brevi ma preziose informazioni, forse influenzate
dalle idee cristiane o pagane. Ci racconta che gli Slavi adoravano un Dio
supremo, creatore del fulmine, dei fiumi e delle ninfe, che essi ignoravano il
concetto di destino1. Quest’ultima affermazione non è confermata dal
folclore moderno, né dai testi del Medioevo.
Gli altri scrittori bizantini, Leone Diacono e Costantino Porfirogenito,
forniscono brevi indicazioni che saranno esaminate a tempo debito. Leone
Diacono visse in un’epoca (X secolo) in cui i Bizantini erano in costante
contatto con Bulgari e Russi; Costantino Porfirogenito, il cui libro su questi
temi è un prezioso contributo alla storia del X secolo, ha purtroppo
trascurato di delinearci le cose pagane2.
I teologi russi ci danno alcune informazioni. Ilarion (XI secolo), uno dei
fondatori del monastero Pečerskij a Kiev, nel suo Discorso sulla legge data
per mezzo di Mosè e la verità giunta per mezzo di Gesù Cristo, oppone la
Russia pagana alla Russia cristiana: «Noi non ci appelliamo più servitori
degli idoli, ma cristiani, noi non costruiremo più i kapišča (templi pagani),
ma le chiese di Cristo, noi non immoleremo più gli uni e gli altri ai demoni,
ma Cristo s’immola per noi»3.

è stata studiata da Petrov nei suoi articoli sulla Rivista del Ministero dell’Istruzione
pubblica (in russo), 1882 e 1883. (N.d.A.) – Il titolo russo del libro di Kotljarevskij è
Skazanija ob Ottone Bambergskom v otnošenii slavjanskoj istorii i drevnosti, Praga 1874).
(N.d.T.)
1 De bello Gothico, t. III, c. XIV. (N.d.A.)
2 Il libro di Costantino VII di Bisanzio, detto il Porfirogenito, è De Administrando Imperio, di
cui è la traduzione in www.larici.it). (N.d.T.)
3 Più avanti spiegheremo il significato della parola kapišča. Può voler dire anche idoli. Cito
dal testo di Polevoj (Storia della letteratura russa, V ed., p. 19), non avendo a portata di
mano quello di Ilarion. (N.d.A.) – I riferimenti esatti sono: P.N. Polevoj, Istorija russkoj
literatury v očerkach i biografijach: 862-1852, San Pietroburgo 1874 (I ed.); Ilarion,
Slovo o zakone i blagodati (Discorso sulla Legge e sulla Grazia). (N.d.T.)

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Altri testi solitamente anonimi citano i nomi più o meno esatti, più o
meno mutilati, delle divinità pagane che i Russi pagani adoravano1.

III – I monumenti figurati. La lingua

Non abbiamo monumenti autentici o attribuibili con certezza a una


divinità. Il cristianesimo non ha lasciato nulla dei templi descritti da
Helmold, Saxo Grammaticus, Tietmaro o dagli storici di Ottone da
Bamberga. Gli idoli, che erano innumerevoli, sono stati distrutti, quelli che
sussistono sono – eccetto le rovine insignificanti del tempio di Arkona – di
dubbia autenticità. Tali sono i bassorilievi dell’Altenkirchen sull’isola di
Rügen, l’idolo trovato nel fiume Zbruč e ora conservato nelle collezioni
dell’Accademia di Cracovia, che riproduciamo, le informi sculture conservate
nel Museo di Danzica e che sono state riprodotte per la prima volta
sull’Archiv für Anthropologie (1894)2. Se ne troverà la riproduzione alla fine
di questo volume. Se questi monumenti sono slavi, come si può supporre,
non corrispondono affatto alle descrizioni dei testi del Medioevo. Non hanno
nulla in comune con gli idoli scomparsi che Tietmaro ci presenta con
compiacenza come esempi di arte meravigliosa3. Quando uno dei miei
studenti disse che andava a visitare la Germania settentrionale, gli chiesi di
verificare se nei musei vi fosse qualche frammento della religione slava, ma
egli non trovò nulla.

La lingua – Se i monumenti figurati sono scomparsi, le parole sono


rimaste. In una memoria molto interessante, Miklošič ha studiato la
terminologia cristiana dei popoli slavi4. Tale terminologia ha ereditato essa
stessa una terminologia pagana che può essere messa a profitto. Si
compone di due elementi: gli uni sono puramente slavi, gli altri sono presi
in prestito da una lingua straniera. Senza pretendere di fare lo spoglio di
ogni vocabolario pagano slavo, segnaliamo alcuni elementi.
Cominciamo con il nome della divinità. La parola che significa Dio è
ancora oggi in tutte le slave bog. Non è stata portata dal cristianesimo. La
troviamo nei nomi delle divinità pagane citati nella Cronaca russa detta di
Nestore: Stribogŭ, Dažbogŭ, e in Helmold («Zcerneboh, id est deum
nigrum»)5.
La parola è considerata identica al sanscrito bhaga. È un epiteto di Dio e

1 Cfr. gli autori citati in Krek, Einleitung…, op. cit., p. 394 e seguenti. (N.d.A.)
2 Mi si segnalano anche delle statue slave (?) nelle collezioni dell’Accademia delle Scienze di
Monaco. Non ne ho la fotografia sotto gli occhi. (N.d.A.)
3 «Fanum de ligno artificiose compositum… Hujus parietes variæ deorum dearumque
imagines mirifice insculptæ exterius ornant; interius autem dii stant manu facti, singulis
nominibus insculptis, galeisque atque loricis terribiliter vestiti…» (Chronicon VI, 23, o 17).
(N.d.A.)
4 Memorie dell’Accademia delle Scienze di Vienna, Vienna 1875. (N.d.A.)
5 Chronicon Slavorum, I, 52. (N.d.A.)

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il nome proprio di un dio vedico (antico persiano baga, antico battriano1


bagha, dio). Bhaga in sanscrito significa anche benessere, felicità. Non è
facile da determinare se è dal primo o dal secondo significato che deriva la
parola slava2. Accanto a bog, Dio, e a tutti i termini che esprimono l’idea di
divinità, si hanno bogatŭ ricco e ubogŭ, povero, zbožje, frumentum in
ucraino, zbožo, fortuna, pecus in wende di Lusazia3, il ceco zboží, fortuna,
merce. Alcuni autori separano i due significati e vogliono vederne due radici
diverse. Questa distinzione non pare necessaria. L’idea di Dio e l’idea del
bene si spiegano facilmente l’una con l’altra.
Come antitetica alla parola panslava bogŭ, troviamo la parola anch’essa
panslava bĕsŭ, demonio, genio del male. Sembra anteriore al cristianesimo
che ha molto semplicemente trascritto le parole . Miklošič
l’ha collegata alla radice bi, colpire. Forse è questa parola bésŭ che si trova
nel nome della divinità dell’isola di Rügen che la Knytlinga saga chiama
Pisamar.
Un’altra parola, čertŭ, si incontra in russo, ucraino, polacco, ceco, serbo
di Lusazia (e in Lituana) e in sloveno nel verbo čertiti, detestare. Essa è
completamente sconosciuta nelle lingue slava, serba e bulgara. Finora si
ignora la sua etimologia. Io la metterei volentieri con l’antico alto-tedesco
scrato (cfr. il capitolo sugli dèi domestici).

I luoghi di culto – La parola božnica (da bogŭ, dio) designa nelle antiche
cronache russe i santuari cristiani. La lingua cristiana ha creato per
descrivere i templi cristiani delle parole come cerkovĭ e kostelĭ che
corrispondono all’antico alto-tedesco chirichha (derivato a sua volta dal
greco )4 e dal latino castellum.
Per il periodo pagano abbiamo una parola attestata da Herbord, lo storico
Ottone da Bamberga. È contina da lui applicata ai templi dell’isola di Rügen.
Questa parola è sufficientemente spiegata dallo slavo. Lo slavone kąšta (=
kontja) indica semplicemente la casa; kontina, come chramŭ, significa casa
degli dèi. Questa etimologia mi sembra molto più verosimile di quella che è
stata proposta dall’editore tedesco di Herbord: il polacco konczyna. Ma
konczyna significa semplicemente: estremità, fine5, e non ha nulla in
comune con l’idea di un edificio.
La parola slava chramŭ aveva originariamente il significato di edificio
religioso. La parola kapište6 attestata da numerosi testi slavi, significava

1 Il battriano è un’antica lingua iranica nord-orientale, parlata nella regione della Battria in
Asia centrale e scomparsa nel IX secolo. (N.d.T.)
2 Il germanico Gott e il lituano devas hanno solo il senso teologico. (N.d.A.)
3 Lingua dei Serbi di Lusazia (detti Wend dai Tedeschi medioevali), abitanti slavi della
Sassonia e di una parte della Prussia nel Medioevo. (N.d.T.)
4 Kluge, Etymologische Wörterbuch der deutschen Sprache. (N.d.A.) – Libro pubblicato nel
1864. (N.d.T.)
5 Il suo significato è ora limitato a “arto”. (N.d.A.)
6 Cfr. Sreznevskij, Materialy dlja Slovarja Drevnie-Russkago Jazyka, San Pietroburgo 1896,
sub voce. (N.d.A.) - Il titolo esatto è Materialy dlja slovarja drevne-russkago jazyka po

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originariamente il luogo dove si conservano gli idoli (kapĭ). Allo stesso modo
kumirište è il luogo in cui si trovano gli idoli.
Per designare gli idoli ci sono in slavone cinque parole diverse: kapĭ,
bolvanŭ, istukanŭ o stukanŭ, kumirŭ e modla.
Kapĭ significa idolo, questa parola si incontra ancora sotto la forma
kapište che, seguendo il significato del suffisso ište1, vuol dire molti idoli o
tempio degli idoli. Mi pare difficile non collegare kapĭ alla parola kip che
esiste ancora in sloveno e in serbo-croato e che vuole dire esattamente
statua. La parola kip si ritrova nel magiaro kép. È probabilmente di origine
turca: hep, keb in lingua uigura2. Avrebbe inizialmente designato gli idoli
delle popolazioni turche vicine agli Slavi.
Balvanŭ è una parola turca.
Istukanŭ è semplicemente il participio presente passivo del verbo
istukati, scolpire.
Kumirŭ, a priori, non ha una fisionomia slava. La parola ha dato
kumirište, luogo dove si adorano gli idoli. Non è rimasta che in russo e non
è passata in altre lingue slave. Si suppone, dice Miklošič3, che sia di origine
finlandese: kumarsaa, onorare (Veske4 scrive kumartaa e lo avvicina al
mordvino komans). Ma questa origine sembra poco probabile al
lessicografo; non ci sono, dice, prestiti così antichi dal finlandese.
Modla sembra essere di origine slava, ed è ovviamente correlata al verbo
modliti, pregare, che sotto varie forme è usato in tutte le lingue slave.
Modla, nel senso di idolo, si trova solo in lingua ceca, dove ha avuto anche il
significato di tempio, e in lingua polacca, dove ha assunto anche il
significato di preghiera. Manca in russo che, d’altronde, ha il verbo molitĭsja,
pregare.
L’idea di sacrificio è espressa da termini puramente slavi: obétŭ (la cosa
promessa), žréti (sacrificare), žrŭtva. La parola sembra voler dire
approssimativamente lodare5. Originariamente non è esistita in lingua slava
e russa.
Zakolŭ, , ciò che si sgozza (radice kol, sgozzare).
Tréb (radice terb, esigere) tréba, ciò che gli dèi esigono: «I pride
(Vladimirŭ) kŭ Kievu i tvorjase trebu kumiromŭ» (e Vladimir andò a Kiev e
fece un sacrificio agli dèi)6.

pis·mennym pamjatnikam (Materiali per un dizionario di antico-russo secondo i


monumenti letterari). (N.d.T.)
1 Ište è un suffisso accrescitivo, designa anche il domicilio, il luogo dove abitualmente si
compie un’azione. (N.d.A.)
2 Storicamente, gli Uiguri (alleati, uniti) costituivano un gruppo di tribù di lingua turca che
viveva nell’odierna Mongolia. (N.d.T.)
3 Etymologisches Wörterbuch, sub voce. (N.d.A.) – Il riferimento completo è: F. Miklošič,
Etymologisches Wörterbuch der slavischen Sprachen (Dizionario etimologico delle lingue
slave), Vienna 1886. (N.d.T.)
4 Slavjano-finskija kul’turnyja otnošenija po dannym jazyka, Kazan’ 1890, p. 143. (N.d.A.)
5 Miklošič, Etymologisches…, op. cit., sub voce. (N.d.A.)
6 Letopisĭ po ipatskomu spisku, San Pietroburgo, 1871. (N.d.A.) – Vladimir I (958-1015),
gran-principe di Kiev, cristianizzò la Rus’ nel 988-989 e fu proclamato santo dalla Chiesa

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La radice tréb entra in un numero molto elevato di nomi geografici.


Occorrerebbe sapere se i luoghi da essa designati siano antichi luoghi di
culto1. Questi luoghi sono molto numerosi in Polonia, Boemia, nei paesi
abitati dagli Slavi dell’Elba, molto rari in Russia. Mi propongo di studiare un
giorno la loro distribuzione e il loro significato.
La preghiera si esprime con il verbo modliti sę, che appartiene a tutte le
lingue slave e sembra collegarsi a modla, idolo. Nei suoi studi di
terminologia cristiana delle lingue slave (§ 28), Miklošič l’aveva collegato
alla radice sanscrita mrd, «conterere» e supponeva che quel verbo
riflessivo, il cui regime è al dativo, esprimesse originariamente un’idea di
contrizione. Modliti sę Bogu: contrirsi davanti a Dio. Da allora ha rinunciato
a questa etimologia. È in effetti molto difficile separare modliti da modla
(cfr. sopra).
Il sacerdote cristiano si chiama specificamente svęštenikŭ. La parola
deriva dalla radice svęt ed è la traduzione del greco , dal latino
sacerdos. Indica colui che si occupa particolarmente di cose sacre. L’idea
della santità doveva essere sconosciuta ai pagani e ci si è chiesti se
originariamente la radice svęt non esprimesse semplicemente l’idea di forza
e di potenza2. Il termine pagano era, tra i russi, žrĭcŭ3, il che significa
esattamente il ministro preposto ai sacrifici (cfr. sopra). Non abbiamo alcun
termine per gli altri popoli slavi.
Tra gli Slavi occidentali, i Cechi, i Polacchi4, i Serbi di Lusazia, oggi si
trova la parola knéz, ksiądz, che propriamente significa principe e deriva
dall’antico alto-tedesco kuning. Si tratta di un termine rispettoso analogo
alla parola «monsignore», che noi diamo ai principi laici e ai prelati, o a
dom derivato dal latino dominus. Forse rimanda al periodo pagano in cui il
capo della tribù era senza dubbio anche il sacrificatore, l’esecutore dei riti
religiosi. Notiamo che questa parola è utilizzata soprattutto tra i Cechi e i
Polacchi, cioè nei due paesi i cui i testi non parlano né dell’esistenza di
templi pagani, né di una casta sacerdotale.
Oltre ai sacerdoti troviamo il mago, in slavone vlŭhvŭ, in russo
volšebnikŭ. Questa parola si trova solo in slavone e in russo. Si collega a
una radice vels, vlŭsnąti, balbettare, il mago è colui che mormora parole
misteriose. Tra i Cechi e i Polacchi si chiamava čarodějnik, czavodziej, colui
che fa degli incantesimi, čary. In ceco e in wende occidentale, čara significa
linea, raggio: non sarebbe colui che traccia dei segni, dei caratteri? In ceco
si trova anche černoknižnik, in polacco czarnoksięžnik, colui che usa i libri
neri. Questo vocabolo è chiaramente posteriore all’epoca pagana.

ortodossa. (N.d.T.)
1 Miklošić, Die Bildung der Ortsnamen aus Personennamen im Slavischen, p. 65, ne elenca
un gran numero e li collega a nomi di persona. (N.d.A.) – Libro pubblicato nel 1864.
(N.d.T.)
2 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 397. (N.d.A.)
3 L’Autore scrive žrĭcŭ (attuale trascrizione žrĭc), ma si intende žrec (plurale žreci) che
infatti significa sacerdote pagano. (N.d.T.)
4 E presso gli Ucraini e i Lituani essendo sotto l’influenza polacca. (N.d.A.)

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Sulle idee che gli Slavi si facevano della vita dell’oltretomba, il


vocabolario, così come i testi, ci dà solo vaghe indicazioni. La parola navĭ
sembra indicare dove i morti vanno dopo questa vita. Ne discuteremo a
proposito delle idee degli Slavi sull’immortalità dell’anima1. La parola raj è
stata accettata dalla terminologia cristiana, in cui in tutte le lingue slave
significa paradiso. Evidentemente, durante il periodo pagano, rispondeva a
un’idea analoga. La Chiesa cristiana ha potuto accettarla senza esitazione.
Sui riti funebri i testi antichi ci hanno lasciato due parole, strava e tryzna,
una attestata da Iordanis2, l’altra dagli annali russi. Nonostante le opinioni
contrarie3, non esito a vedere nella strava celebrata dopo la morte di Attila
una parola slava che designi un banchetto funebre4.
I cronacisti russi segnalano le tryzna celebrate in onore dei morti5.
Considero la tryzna in relazione con la strava di Iordanis. È ancora un
banchetto funebre. Il carattere della tryzna mi sembra del tutto spiegato
con il messaggio di Ol’ga ai Drevliani: «Ecco io vengo da voi, preparate
molto idromele (medy mŭnogy) nei pressi della città, là dove avete ucciso
mio marito e io farò una tryzna a mio marito»6.
Dopo aver riportato le fonti autentiche o probabili della mitologia slava,
conviene dire una parola sui documenti apocrifi, che fino ad anni recenti
hanno distorto i lavori relativi ai nostri studi e che hanno indotto in gravi
errori degli studiosi come Grimm, Hanuš, Lelewel, Erben, Jireček, Palacký,
Kotljarevskij. Si fa ancora uso delle loro opere ed è buona cosa mettere il
lettore in guardia contro le inesattezze che essi non hanno potuto evitare.
Una delle mistificazioni più audaci del XVIII secolo è stata la produzione
di idoli detti di Prillwitz e delle iscrizioni che li decorano. Potocki, Lelewel,
Kollár si sono lasciati prendere da questi grossolani falsi. Senza entrare nei
dettagli su tale lunga mistificazione, mi accontento di rimandare il lettore
all’articolo di Jagić sull’Archiv für slavische Philologie7. Accanto agli idoli di
Prillwitz e alle sedicenti iscrizioni runiche di Mikorzin, si può mettere il leone
della cattedrale di Bamberga, perfettamente autentico in se stesso, ma sul
quale Šafarik ha erroneamente creduto di decifrare un’iscrizione runica con
il nome del dio nero8.

1 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 419. Il termine è stato usato per descrivere l’inferno, vŭ
navechŭ, (Miklošič, Lexicon Palaeoslavenico-graeco-latinum, sub voce).
(N.d.A.)
2 L’Autore scrive Jornandes, ma è Iordanis, tra le cui opere è De origine actibusque
Getarum, pubblicata nel XIX secolo nei Monumenta Germaniæ Historica. (N.d.T.)
3 Cfr. la discussione in Krek, Einleitung…, p. 435. (N.d.A.)
4 Così Iordanis descrive la cerimonie funebre: «Postquam talibus lamentis est defletus,
stravam super tumulum eius quam appellant ipsi ingenti commessatione concelebrant »
(De origine actibusque Getarum, XLIX, 258). (N.d.A.)
5 Letopisĭ po ipatskomu spisku, p. 36, 37, 44; po lav. spisku, p. 77, 81, 87, 116. (N.d.A.)
6 Il passo si trova nella Cronaca di Nestore nel capitolo “Ol’ga, reggente di Svjatoslav, e gli
ambasciatori drevljani” della traduzione in www.larici.it. (N.d.T.)
7 T. V, pp. 193-215, e t. II, p. 388. (N.d.A.)
8 Egli ha pubblicato su questo tema nel 1837 sulla Rivista del Museo ceco una memoria che
purtroppo è stata raccolta nelle sue opere (Sebrané spisy, Praga, 1865, pp. 96-110).

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È inoltre opportuno ricordare come apocrifo, e di pura immaginazione, il


ritratto di Radigast che orna alcune edizioni di Helmold (Lubecca, 1659) e
altre pubblicazioni tedesche1.
Nel XIX secolo in Boemia si è prodotta una serie di testi relativi al
Medioevo da cui i mitologi hanno a lungo attinto materiali ai quali si deve
oggi rinunciare. Citiamo innanzitutto le poesie conosciute sotto il nome di
Giudizio di Libuše e di Manoscritto di Kralovedvor2. Hanno preso in prestito
l’indicazione su alcune divinità, Bies, Tras, Morana3, sul destino delle anime
dopo la morte, ecc. Una falsificazione ben più grave è quella della Mater
verborum. Essa ha avvelenato per mezzo secolo tutte le pubblicazioni
dedicate ai nostri studi. La biblioteca del Museo di Praga possiede un
manoscritto della Mater verborum, una sorta di dizionario latino compilato
da Salomone III, vescovo di Costanza, che sembra risalire al XIII secolo ed
è accompagnato da glosse tedesche e ceche. Alcune glosse sono autentiche,
ma tutte quelle che concernano la mitologia slava sono state prodotte nel
XIX secolo. Le ho già elencate precedentemente nella Revue d’histoire des
religions4. Le riprodurrò qui per mettere in guardia i lettori contro l’uso che
hanno fatto molti miei predecessori5. I canti del presunto Veda slavo

(N.d.A.)
1 Su questo ritratto, cfr. l’articolo di Jagić (Archiv für slavische Philologie, t. V, p. 204).
(N.d.A.)
2 Io li ho tradotti in francese e pubblicati presso la Libreria Internazionale nel 1866. In quel
momento la loro autenticità mi sembrava assodata. Essa è poi stata attaccata con tali
argomentazioni che oggi non lo credo più. Alcuni studiosi molto autorevoli vi credono
ancora, per esempio Krek, Einleitung…, op. cit., p. 418. (N.d.A.)
3 L’ultima è conosciuta anche coi nomi di Marzanna, Mara, Marzena e Morena. (N.d.T.)
4 Anno 1881, t. IV, p. 134 e 135. (N.d.A.)
5 Belboh (il dio bianco), beel, baal, ydolum.
Besy (i demoni), demonibus.
Das (il diavolo), genius.
Devana letnicina i perunova dci (Dievana figlia di Letna e di Perunŭ), Diana Latone e Jovis
filia. Questa glossa è una delle più audaci. Tende a introdurre nel mito slavo una divinità
simile a Diana figlia di una dea Letna ovviamente identica a Latona e del dio Perunŭ che
viene così identificato con Giove. Ma la religione slava non offre finora alcuna traccia di
antropomorfismo, non ci sono mai questioni sugli amori degli dèi, meno ancora sui loro
matrimoni. Si vede tutta la gravità dell’inganno.
Lada, Venus, dea libidinis, cytherea.
Liutice (La Furieuse), furia, dea infernalis.
Perun (Perunŭ), Jupiter.
Perunova, Jovis sororem. (Gli dèi slavi non hanno né sorelle né spose).
Prije (gradevole), Aphrodis greca, latina Venus.
Radihost, vnuk krtov. (Radihost nipote di Krt, cioè senza dubbio del demonio). Mercurius
a mercibus et dictus. Questa glossa aveva per fine: 1) di far credere al culto di Radhost in
Boemia; 2) di dare a questo dio immaginario una analogia, fino ad allora sconosciuta, con
una divinità latina.
Svatovit, Ares, bellum. Nel manoscritto originale era: Ares bellum nuncupatur. È con
nuncupatur che il falsario ha fabbricato Svatovit. In due altri luoghi egli ha tradotto Marte
e Mavors con Svatovit.
Sytivrat, Saturnus. La parola Sytivrat è fabbricata in modo da fornire materia a
interpretazioni diverse. Jacob Grimm l’ha lasciata nella sua mitologia tedesca.
Stracec sytivratov syn (Stracec figlio di Sytivrat). Picus, Saturni filius. Straka in ceco vuol

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pubblicati dal defunto Verković, le canzoni serbe edite nel 1870 a Belgrado
da Milojević sono state fin dalla loro apparizione convincenti imbrogli1.
È veramente un danno. Queste raccolte fantastiche ampliano
singolarmente l’orizzonte dei nostri studi.

Capitolo II
Il Dio supremo

Gli antichi Slavi conoscevano uno dio supremo che governava il loro
pantheon come Zeus dominava quello ellenico e Giove quello latino?
Procopio di Cesarea (VI secolo), in un famoso capitolo dedicato alle guerre
contro i Goti, descrive i costumi degli Slavi e dice qualche parola sulla loro
religione. Citiamo una volta per tutte: avremo diverse occasioni per
tornarvi: «Gli Slavi – dice – credono che ci sia un dio produttore del fulmine
e unico padrone dell’universo, essi gli sacrificano buoi e ogni specie di
vittime. Non conoscono il destino e non ammettono che giochi qualche ruolo
nelle vicende umane. Quando si vedono minacciati dalla morte per malattia
o in combattimento, promettono, se vi sfuggono, di fare immediatamente
un sacrificio, lo fanno quando sono sfuggiti e pensano di avere riacquistato
la loro vita con questa offerta. Inoltre adorano i fiumi e le ninfe e altre
divinità e durante questi sacrifici fanno delle divinazioni»2.
Questa testimonianza si applica agli Slavi vicini all’impero bizantino. Per
quanto riguarda gli Slavi del Nord abbiamo un testo quasi simile in Helmold
(I, 83): «Tra i vari dèi ai quali essi attribuiscono i campi, le foreste, i dolori e
piaceri, essi non negano che un Dio domini gli altri dal cielo. Questo dio
onnipotente non si occupa che degli affari celesti. Gli altri hanno ciascuno le
proprie funzioni e gli obbediscono, procedono dal suo sangue e sono più
importanti quelli che sono più vicini a questo dio degli dèi». Purtroppo né
Helmold, né qualunque altro testo, conferma quanto è detto qui sulla

dire gazza.
Trihlav (a tre teste), triceps, qui habet capita tria capræ. I mitografi non hanno mancato
di sfruttare queste tre teste di capra e hanno tratto un sacco di conclusioni.
Veles, Pan, imago hircina.
Ziva (la vita). Dea frumenti, Ceres, Siva imperatrix. Questa parola è stata fabbricata una
volta con la parola latina aiunt, un’altra volta con sive.
Non ho dato in questa lista che i nomi di divinità, escludendo quelli che si rapportano al
culto e che sono assai numerosi. Tutti i trattati di mitologia slava sono stati infettati con
citazioni dalla Mater Verborum. È indispensabile che il lettore venga avvertito una volta
per tutte. Occorre rinunciare assolutamente a cercare in Boemia delle divinità sulle quali
non si possiedono che testi apocrifi. (N.d.A.) – Il manoscritto Mater Verborum è un
dizionario in lingua ceca scoperto nel 1818 e ritenuto del X-XIII secolo. Solo alla fine del
XIX secolo si appurò che molte voci erano falsificate e moderne. (N.d.T.)
1 Cfr. sul Veda slavo i miei Nouvelles études slaves (Paris, 1880, p. 49 e seguenti). (N.d.A.)
– Le opere citate sono: Verković, Veda slovena, Belgrado 1874 e Milojević, Pesme i običaji
ukupnog naroda srpskog (Canzoni e costumi di tutto il popolo serbo), Belgrado 1869.
(N.d.T.)
2 [Procopio] De bello gothico, libro III, cap. XIV. (N.d.A.)

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genealogia e la parentela degli dèi slavi. Forse il cronicista si è puramente e


semplicemente lasciato influenzare dai suoi ricordi dell’antichità classica. Tra
tutte le divinità che conosciamo ce ne sono soltanto due i cui nomi possono,
a rigore, tradire un’affiliazione: Suarasici (che sarebbe uno Svarožičŭ o figlio
di Svarogŭ), Porenutius che potrebbe essere un Porenovič, o Perunovičŭ, o
figlio di Perunŭ… ed è tutto.
Altrove, Helmold sembra indicare che Svantovit era questo grande dio –
pur destinandolo a essere confuso con San Vito (II, 12): «Svantovit, il dio
della terra dei Rugiani, ha ottenuto il principato fra tutti gli dèi degli Slavi.
Ancora nel nostro tempo, non solo il paese dei Wagri, ma tutte le province
slave gli inviano annualmente i loro tributi e lo riconoscono per il dio degli
dèi (Illum deum deorum esse profitentes)».
Qualunque fosse il nome del Dio supremo, gli Slavi del Baltico se lo
figuravano come «pieno di gloria e di ricchezze», come si può giudicare
dalla testimonianza di uno dei biografi di Ottone di Bamberga. Ebbo
racconta (II, 1) che il missionario san Bernardo aveva cominciato a
predicare la fede cattolica nella città slava di Julin 1. Si presentò a piedi nudi
e con vesti misere. Gli indigeni gli chiesero cos’era venuto a fare. Egli
dichiarò che era il servo del vero Dio creatore del cielo e della terra, da lui
inviato per strapparli dagli errori dell’idolatria: «Come possiamo credere –
dissero quelli – che tu sia il messaggero del dio supremo che è glorioso e
pieno di tutte le ricchezze, quando tu sei così miserabile da non avere
nemmeno le scarpe? … Tu ingiuri il dio supremo». Ottone di Bamberga
tenne conto di questa lezione e si presentò davanti agli Slavi con un
magnifico corteo. Ma il testo di Ebbo non è chiaro, e ciò che gli Slavi
dicevano del dio supremo potrebbe di fatto applicarsi al Dio dei cristiani.
Il trattato stipulato nel 945 tra gli Slavi e i Greci e riportato dalla Cronaca
russa di Nestore porta la seguente menzione: «Coloro dei russi cristiani che
violeranno questo trattato saranno puniti dal Dio onnipotente, quelli che non
sono battezzati non riceveranno alcun aiuto né da Dio, né da Perunŭ» 2.
Questo Dio anonimo opposto a Perunŭ è forse il dio supremo del pantheon
slavo, ma non ha un nome particolare, forse più semplicemente il Dio dei
cristiani è stato introdotto nel testo su insistenza dei Greci, ai quali Perunŭ
non sembrava essere una garanzia sufficiente. Perunŭ sembra essere stato
il grande dio dei Russi. In una traduzione slavone della leggenda di
Alessandro citata da Afanas’ev3, la parola Perunŭ traduce il greco Zeus. Nei
canti serbi – in cui si trovano tracce evidenti di paganesimo – si incontra
una supplica al nome di Dio Altissimo e di San Giovanni:

1 Boleslao III (o Bolesław IIII; 1085-1138, duca di Polonia dal 1102) inviò il monaco
eremita spagnolo Bernardo (o Bernhard) a cristianizzare la Pomerania nel 1122. Questi si
recò a Julin (Wolin) accompagnato dal suo cappellano e un interprete, ma gli abitanti li
cacciarono dalla città. In seguito Bernardo fu nominato vescovo di Lebus (diocesi di
Gniezno). (N.d.T.)
2 P. 41 della mia traduzione. (N.d.A.) – Corrisponde al paragrafo “Sottomissione dei Greci e
nuovo trattato di pace (945)” della traduzione in www.larici.it. (N.d.T.)
3 I, 250. (N.d.A.)

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Višnjim Bogom i Svetim Jovanom.


Questo dio altissimo è evidentemente il Dio dei cristiani.

La lingua ceca conosce il nome d’uomo Svéboh e dei nomi di luogo


Svébohy. Erben e, dopo di lui, Polivka hanno supposto che questa forma dia
il nome del grande dio primitivo: Sveboh = colui che è dio da se stesso.
Questa forma si incontra soltanto in Boemia. Si trova in ceco e in slovacco
una forma praboh, prabŭh. Il prefisso pra corrisponde al latino per, al
tedesco ur; Perdeus, Urgott, il dio antico, il dio per eccellenza. Le altre
lingue slave ignorano tali forme che d’altronde non sono documentate nei
testi antichi. Il ceco conosce anche una forma Přebůh nella locuzione: Ach
Bože, Přebože, Oh, mio dio, gran dio! una forma Rozbože (stesso senso)
nell’interiezione: Ach Bože, Rozbože. Il prefisso roz ha lo stesso significato
di pře. Sarebbe azzardato concludere da queste locuzioni attuali l’esistenza
di una forma anteriore al periodo cristiano1. In sintesi i testi slavi non ci
forniscono alcuna precisa indicazione che confermi le affermazioni di
Procopio e di Helmold.

Capitolo III
I due grandi dèi degli Slavi russi e baltici Perunŭ (Perun) e
Svantovit

La mitologia slava si riallaccia dal punto di vista delle fonti a due sistemi
differenti: il sistema russo attestato nei documenti slavo-russi, il sistema
degli Slavi polabi (del bacino dell’Elba) o baltici, attestato in documenti latini
di origine germanica. Non c’è praticamente alcun nesso o collegamento tra i
due, al massimo si possono citare divinità come Prone, Porenutius il cui
nome ricorda vagamente quella di Perunŭ, e lo Svarogŭ della cronaca russa
che può essere – Dio sa per quali collegamenti – imparentato al Suarasici
degli scrittori germanici, il Volosŭ russo che si crede di ritrovare molto
lontano dal Mar Baltico, anche sulle rive dell’Elba nel Veles ceco.
Dopo aver studiato i due grandi dèi di ciascun sistema, il Perunŭ dei
Russi, lo Svantovit dell’isola di Rügen, esamineremo separatamente, per
quanto possibile, ognuno dei due sistemi mitologici, il russo e il baltico,
riferendo le somiglianze e i punti di contatto se esistono.

PERUNŬ

Perunŭ è fra gli dèi del pantheon slavo uno di quelli su cui abbiamo più
documenti. Il suo culto ci è attestato da fonti incontestabili. Il suo nome
compare a più riprese, non solo nella Cronaca russa detta di Nestore, ma
anche nel testo assai curioso dei trattati conclusi dai Russi con l’impero

1 Il serbo di Lusazia impiega una forma přibog: idolo, dio assistente, nebengott. (N.d.A.)

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bizantino nel 907 e 9451. I Russi giurano il primo trattato sulle loro spade
per Perunŭ loro dio e per Volosŭ, dio del bestiame. Il secondo trattato è più
esplicito, si esprime così: «Se un principe o qualcuno del popolo russo viola
ciò che è scritto su questo foglio, che egli muoia con le sue stesse armi, e
sia maledetto da Dio e da Perunŭ per aver violato il suo giuramento».
Il cronicista aggiunge: «La mattina dopo, Igorĭ chiamò gli ambasciatori
(greci) e andò verso la collina dove si trovava Perunŭ e Igorĭ fece
giuramento così come coloro dei suoi ufficiali che erano pagani e i Russi
cristiani fecero giuramento nella cappella di Sant’Elia». Ho volutamente
sottolineato questo passaggio; noi cercheremo di stabilire quali rapporti
potevano esistere tra il dio pagano e il profeta biblico.
Perunŭ è ancora invocato come supremo garante nel trattato concluso da
Svjatoslavŭ con i Greci nel 971: «Se non osserviamo ciò che abbiamo
enunciato sopra, saremo maledetti dal Dio in cui noi crediamo, da Perunŭ e
Volosŭ, dio del bestiame».
Seguendo la stessa cronaca, il principe Vladimirŭ, nel 980, stabilì su una
collina di Kievŭ molti idoli: in primo luogo quello di Perunŭ, che era di legno
con la testa d’argento e la barba d’oro; Perunŭ era circondato da altre
divinità che saranno studiati specificamente: Chorsŭ, Dažbogŭ, Stribogŭ,
Simarglŭ e Mokošĭ. A tutti si offrivano sacrifici umani. Un altro principe,
Dobrynja, eresse un idolo di Perunŭ sulle rive del fiume Volchovŭ a
Novgorod.
Nel 988, Vladimirŭ si convertì al cristianesimo e ordinò di distruggere gli
idoli: fece bruciare gli uni e gettare gli altri nel fuoco: «Egli ordinò di
attaccare Perunŭ alla coda di un cavallo e di trascinarlo dalla cima fino in
basso, lungo la via per Boričev2, fino al ruscello e ordinò a dodici uomini di
percuoterlo con le verghe. Mentre lo trascinavano lungo il torrente fino al
Dnepr, gli infedeli piangevano per lui. E, dopo averlo trascinato, lo buttarono
nel Dnepr. Vladimir disse ai suoi servi: “Se si ferma da qualche parte,
spingetelo dalla riva fino a quando non ha superato le rapide, solo allora lo
lascerete. Il vento lo gettò su un fondale che fu poi chiamato il Fondale di
Perunŭ, nome che porta ancora oggi».
Così verso l’inizio del XII secolo, la memoria di Perunŭ era ancora
conservata nei dintorni di Kievŭ da un nome topografico. Questo nome
scomparve presto in quelle regioni. Ma lo si trova in altre località. Barsov3
segnala un Perunovo nel bacino del Volga, e un Perynŭ vicino a Novgorod la
Grande, sulla riva sinistra del Volchovŭ, dove si elevava la statua di Perunŭ
che fu distrutta dal vescovo Akim (Ioachim) quando Novgorod fu convertita
al cristianesimo. La cronaca di Novgorod ci racconta così questo episodio:

1 Cronaca detta di Nestore, tradotta da L. Léger, Paris, Leroux, 1884. Consultare l’indice sub
voce Perun. (N.d.A.) – Il passo riferito a Svjatoslav compare nel paragrafo “Guerre di
Svjatoslav contro i Greci e trattato di pace (971)”. Quello di Vladimir è in “Battesimo del
popolo russo (988)” della traduzione in www.larici.it. (N.d.T.)
2 Oggi è un quartiere di Kiev. L’Autore ha scritto Boričevo. (N.d.T.)
3 Očerki russkoj istoričeskoj geografij, Varsavia, 1885. (N.d.A.) – Del 1885 è la seconda
edizione del libro, la prima è del 1873. (N.d.T.)

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«Durante l’anno 6497 (989), Vladimirŭ si convertì… Il vescovo Akimŭ venne


a Novgorod e distrusse i luoghi dei sacrifici (trebišta) e fece rovesciare
Perunŭ e ordinò di gettarlo nel Volchovŭ e di trascinarlo nel fango,
battendolo con le verghe e spezzandolo; e un demonio entrò in Perunŭ e
cominciò a gridare: “O guai a me, sono caduto in queste mani senza pietà!”
E galleggiò attraverso il grande ponte e gettò il suo bastone (o la sua mazza
) sul ponte e ancora oggi con quel bastone degli insensati si flagellano per
far piacere ai demoni. E ordinò che nessuno lo ricevesse, e un abitante della
Pidba1 andò al mattino sulla costa del fiume nel momento in cui Perunŭ
toccava la riva e lo spinse con un palo: “Mio piccolo Perunŭ (Perušice), tu
hai finora bevuto e mangiato abbastanza, ora continua a galleggiare lontano
da qui”. E l’immondo oggetto scomparve»2.
Gli stessi dettagli sono ripetuti nella compilazione intitolata Compendio
degli Annali delle chiese di Novgorod, che compare nella stessa collezione
della cronaca. Una testimonianza molto curiosa è quella dell’italiano
polacchizzato, Guagnini, che pubblicò nel 1578 l’opera intitolata Sarmatiæ
europææ descriptio: «In questo punto – dice Guagnini – si elevava un
tempo l’idolo di Perunŭ, là dove ora è il monastero di Perunŭ, così chiamato
dal nome di questo idolo. Era adorato dai Novgorodiani. Rappresentava un
uomo che tiene in mano una pietra focaia, simile al fulmine, perché la
parola perunŭ presso i Russi e i Polacchi, significa fulmine. In onore di
questo idolo un fuoco di legno di quercia bruciava giorno e notte, se questo
fuoco si spegneva per negligenza dei servi incaricati della sorveglianza, essi
erano spietatamente puniti con la morte»3.
Questi particolari tanto precisi hanno un carattere molto serio di
verosimiglianza: ma dove li aveva presi Guagnini?
A queste testimonianze puramente storiche, possiamo aggiungerne altre.
Il nome di Perunŭ si incontra in un numero molto elevato di testi del XIV e
XV secolo sulla religione degli antichi Russi4. Citerò solo i principali. Una
carta galiziana del 1302 designa, come marcante il confine di una zona, una
quercia detta di Perunŭ5. In un testo del romanzo di Alessandro, il nome di
Zeus è tradotto Perunŭ6. In un testo apocrifo, il Dialogo dei tre santi, si
legge: «Ci sono due angeli di tuono, l’elleno Perunŭ e l’ebreo Chorsŭ».
Anche l’esistenza di Perunŭ come dio del tuono è stabilita in Russia da una
serie di testi incontestabili. È il dio supremo di cui parla Procopio di Cesarea
? Non si può affermare, ma è certamente il produttore

1 Ruscello affluente del Volchovŭ. (N.d.A.)


2 Cronaca di Novgorod, edizione della Commissione archeografica, pp. 1 e 2, San
Pietroburgo, 1879. (N.d.A.)
3 Lo scritto di Guagnini fu inserito nella raccolta curata da Giovan Battista Ramusio (1578)
ed è in www.larici.it.
4 Sono stati identificati da Krek, Einleitung…, op. cit., pp. 384-386. (N.d.A.)
5 Golovačkij, Crestomazia russa (citato da Máchal, Mitologia slava, in ceco), p. 22. (N.d.A.)
– Il titolo russo è Ó-szláv chrestomatia, Bécs 1854. (N.d.T.)
6 Afanas’ev, Concezioni poetiche degli Slavi sulla natura, I, p. 250. (N.d.A.) – Il titolo russo
è Poetičeskie vozzrenija slavjan na prirodu. 3 voll., Moskva 1865-1869). (N.d.T.)

1
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del fulmine dello storico bizantino1.


Tra gli Slavi meridionali, serbi e bulgari, nessun testo storico menziona il
nome di Perunŭ. Si incontra in una canzone popolare raccolta da Rakovski2.
Ma questo testo è fortemente sospetto. La parola perun nel senso di tuono
(cfr. oltre) non è né serba, né bulgara. Si è costretti a ripiegare su alcuni
nomi geografici, botanici o altri. Tale è quello della perenuga o perunika
comune a Bulgari, Serbi e Croati e che designa l’iris germanica. È stato
osservato che questa era forse la parola veronica sfigurata dall’etimologia
popolare. Ma la veronica non ha nulla in comune con l’iris germanica. Si è
osservato inoltre che la stessa pianta è chiamata in serbo bogiša e che essa
passa per curare alcune malattie (Bogiša, la pianta divina, da Bog, dio). Si
cita in Bulgaria una montagna chiamata Perin planina o Piren planina e si
vuole che essa sia la montagna di Perunŭ. Questa approssimazione è
accettata da importanti autorità, Miklošič e Krek. Kostantin Jireček3 riallaccia
con maggiore verosimiglianza questa denominazione all’albanese perdon
che significa il ponente.
Fra gli sloveni si è preteso di constatare l’esistenza di Perunŭ come nome
d’uomo. Krek, che è sloveno lui stesso, cita un villaggio di Perun (Perunja
ves), un picco di Perun (Perunj vrh). Un bosco di Perun si incontra nei
dintorni di Poljica sulla costa croata. Ma bisognerebbe sapere a che epoca
datano questi nomi. Essi possono essere di recente fabbricazione. Perun,
nome proprio, se davvero esiste, non è più semplicemente un soprannome?
Ritorniamo verso nord. Nelle canzoni slovacche riunite da Kollár4,
vediamo figurare un dio Parom che lancia il fulmine:

Buoh Parom za oblakami;


A vidi to nahněvany.
Tresk! Zahrmi jej do čela
Hned i z deckem zkameněla.
Il dio di Parom dietro le nuvole
Vide ciò adirato.
Improvvisamente lancia un fulmine sulla sua fronte.
Immediatamente con il suo bambino ella fu pietrificata5.

1 Procopio, De bello gothico, Libro III, cap. XIV. (N.d.A.)


2 Nell’opera intitolata Gorski Pŭtnik, il pellegrino della foresta, che non ho sotto mano. I
versi dove si cita Perunŭ sono tratti dal Dizionario bulgaro di Djuvernua (Mosca, 1886).
Rakovski come Verkovič è assolutamente sospetto. I. Šišmanov, di Sofia, che conosce
mirabilmente il folclore bulgaro, mi ha dichiarato in una recente lettera che non aveva
incontrato da alcuna parte il nome di Perunŭ. (N.d.A.) – L’opera di Djuvernua (che l’Autore
scrive alla francese: Duvernois) si intitola Slovarʹ bolgarskogo jazyka, po pamjatnikam
narodnoj slovesnosti i proizvedenijam novejšej pečati (Dizionario della lingua bulgara nei
monumenti della letteratura popolare e nelle opere moderne). (N.d.T.)
3 Storia dei Bulgari (edizione russa), Odessa, 1882. (N.d.A.) – La prima edizione (in ceco e
in tedesco) avvenne nel 1876. (N.d.T.)
4 L’Autore si riferisce alla raccolta in due volumi di canzoni popolari intitolata Narodnie
zpievanky (1834-1835), prima antologia di poesia popolare slovacca. (N.d.T.)
5 Si tratta di una madre che si è permessa di pulire il suo bambino con un pezzo di pane e

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O ancora:

Za onijeh časov
Za starych Bohov
Za Boha Paroma.
In quei giorni,
Al tempo degli dèi antichi,
Del dio Parom.

Questi testi sono classici e finora nessuno li ha contestati. Tuttavia vorrei


vederli confermati da altre testimonianze oltre a quella di Kollár1. Vorrei
sapere a che epoca risalgono. Kollár aveva una incredibile fantasia e uno
spirito molto poco critico. Secondo il Dizionario ceco di Kott2, si trovano
anche nei paesi slovacchi le forme Param e Baram, un verbo peruntati,
colpire col fulmine, e un aggettivo perunský, che ha relazione col fulmine. In
Boemia il nome di Perun non esiste nei testi antichi o autentici. Lo si cita
come nome di persona3, ma ciò può essere, come in lingua slovena, un
soprannome. I nomi ausiliari in oun non sono rari in lingua ceca: běhoun il
corridore; křikloun, il banditore, ecc.
Tra gli Slavi baltici o polabi, il giovedì era chiamato perendan4. La parola
sembra provenire dal tedesco donnerstag. Ma la parola peren significa il
tuono o il dio del tuono?
È Perunŭ che bisogna riconoscere nel Proven di Helmold5? «Arrivammo –
scrive Helmold – nella Slavia ulteriore6, e penetrammo in una foresta. Là,
tra alberi molto vecchi, vedemmo delle querce consacrate a Proven, dio di
questo paese; esse erano circondate da un recinto di legno cui si accedeva
attraverso due porte. Tutti i villaggi di questo paese abbondano in penati e
in idoli, ma questo luogo è il santuario di tutta la regione. Il popolo, il re e i
sacerdoti vi si riuniscono per i giudizi. L’accesso al santuario non è permesso
che ai sacerdoti e a coloro che vogliono sacrificare o a coloro che sono in
pericolo di morte e ai quali il diritto d’asilo non viene rifiutato, perché gli
Slavi hanno tanto rispetto per i loro santuari che non vogliono neppure
lasciare sporcare del sangue di un nemico il perimetro del tempio».
Altrove in Helmold7, si trova un Dio Prove: «Deus Altenburgensis terræ»,

ha così profanato il dono più prezioso della divinità. (N.d.A.)


1 Cfr. il mio studio su Kollár e la poesia panslavista nel volume intitolato Russes et Slaves
(Parigi, 1890). (N.d.A.)
2 Sub voce: Perun. (N.d.A.) – Il riferimento è a Česko-německý slovník (Dizionario ceco-
tedesco) che Kott scrisse nel 1878-1893 e integrò successivamente. (N.d.T.)
3 Krek, p. 389. (N.d.A.)
4 Schleichier, Laut und Formenlehre der polabischen Sprache, San Pietroburgo, 1871.
(N.d.A.)
5 Helmold, Chronica Slavorum, I, 83 (ristampato da Pertz nei Monumenta Germaniæ
Historica, Hannover, 1868). (N.d.A.)
6 Slavia orientale, corrispondente alle aree russe, ucraine e bielorusse. (N.d.T.)
7 Libro I, 52 e 93. (N.d.A.)

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cioè particolarmente onorato a Stargard, che non ha statue («quibus nullæ


sunt effigies expressæ»). I nomi di Prove e di Proven sono forse identici a
quello di Perunŭ. Helmold conosceva non solo il nome dell’idolo, ma anche il
sacerdote che lo serviva8.
Un dio di nome Porenutius era onorato, secondo la testimonianza di Saxo
Grammaticus, ad Arkona sull’isola di Rügen3. Il nome di Porenutius potrebbe
rappresentare una forma di Porenovič, figlio di Poren (Perunŭ?). Non
abbiamo esempio seri sulla filiazione degli dèi slavi. In tutti i casi, la
descrizione di questa divinità baltica non assomiglia a quella che la cronaca
russa ci fornisce dell’idolo Perunŭ. L’idolo di Arkona aveva quattro volti, un
quinto viso sul petto, la mano sinistra che toccava la fronte di questa faccia
e la mano destra il mento. Non ci si immagina un dio del tuono in un tale
atteggiamento meditativo4.
In Polonia si segnala un certo numero di località i cui nomi sono ancora
oggi Peruny, Piorunow; questi sono forse, molto semplicemente, località
sulle quali il fulmine ha colpito anticamente. La parola piorun viene anche
comunemente utilizzata per descrivere il fulmine e fornisce pure un certo
numero di derivati. Si conoscono alcune pietre con il nome di piorunek5. Un
racconto raccolto in Galizia nel circondario di Tarnobrzeg, presso i
Lasowiacy,6 sembra dimostrare che la memoria del Piorun o Perun pagano
viveva ancora in quei paesi7. Eccone la traduzione: «Un certo signore aveva
l’abitudine di andare a caccia la domenica. Una domenica partì per la caccia,
e quando venne l’ora della messa egli non aveva ancora ucciso niente. A un
tratto, una nuvola nera coprì il cielo e il tuono si fece sentire in lontananza.
Il signore guardò e scorse sul fiume un grosso e brutto uccello nero
appollaiato su una pietra. “Non ho ucciso nulla, si disse, bisogna almeno che
uccida questo”. Nello stesso tempo gli sovviene che da sette anni porta nel
suo carniere una cartuccia benedetta. Carica il fucile e abbatte il brutto
uccello. Il signore lo prende, lo guarda, non aveva mai visto niente di così
orrendo. “È un peccato, dice, aver perso una cartuccia per un uccello tanto
brutto”. Ma egli sente dietro di sé una voce che gli grida: “Non pentirti di
quello che hai fatto, sono sette anni che inseguo questo uccello senza
riuscire a raggiungerlo. Mentre lo guardavi, io avevo la mira su di te; se tu

8 «Visitavit Altenburg – egli dice parlando del vescovo – et receptus est a barbaris
habitatoribus terræ illius quorum deus erat Prove. Porro nomen flaminis qui preerat
superstitioni eorum erat Mike». Egli sa pure il nome del principe che si chiamava «Rochel,
de semine Krutonis». (N.d.A.)
3 Saxo Grammaticus, ed. Holder, Strasburgo 1886, p. 578. (N.d.A.)
4 «Hæc statua quatuor facies repræsentans quintam pectori insertam habebat, cujus
frontem leva, mentum dextera tangebat». Helmold fa osservare (I, 83) che gli Slavi del
Baltico prediligono gli idoli policefali: «Multos etiam duobus vel tribus vel eo amplius
capitibus exsculpunt». (N.d.A.)
5 «Vulgus nostrum lapillos quosdam, virgæ in lapidem versæ et confractæ similes putat
esse fulminis» (Linde, Dizionario polacco, alla parola piorun). (N.d.A.)
6 Sull’originale Lasovales. I Lasowiacy, o Lesioki, erano un gruppo etnico di lingua polacca
che abitava un’ampia zona verso la confluenza tra la Vistola e il San. (N.d.T.)
7 È stato pubblicato sull’Archiv für slavische Philologie, V, p. 631. (N.d.A.)

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non l’avessi ucciso, ti avrei ucciso io”. Il signore ebbe paura, guardò e vide
un uomo gigantesco, alto come un albero, armato di un fucile lungo come
un tronco. Era Pieron che caccia sempre quei brutti uccelli. Essi sono
chiamati i volubili perché volano molto in fretta. Pieron prese la mano del
signore e conversò molto tempo con lui; esaminarono i loro rispettivi fucili e
Pieron disse che non avrebbe più cacciato la domenica, poi volò via come il
vento».
Noi abbiamo qui riunito tutti i testi in cui il nome di Perunŭ appare nella
sua forma originale o più o meno travisata. È un dio del tuono e del
temporale. Abbiamo volutamente lasciato da parte tutti i confronti che sono
stati proposti sia con il lituano, sia con il sanscrito 1. Senza ricorrere ad
analogie sospette, il nome di Perunŭ si spiega sufficientemente da solo per i
suoi elementi slavi.
Ounŭ, unŭ, è un suffisso d’agente. Si trova in slavone: běgunŭ fuggitivo;
vědunŭ, mago. Si usa ancora oggi correntemente in russo: opekunŭ, tutore;
govorunŭ un chiacchierone; igrunŭ, un giocatore, ecc. Sappiamo d’altra
parte, che per il russo, il polacco e lo slovacco perunŭ, piorun, parom
significano fulmine. Le altre lingue slave impiegano esclusivamente per
designare il tuono la radice grem o grom. Cosa vuol dire la radice per? Essa
esprime un’idea di sforzo violento, di colpo. Perą, in slavo, vuol dire io
colpisco2. Questo è un epiteto che si adatta bene al dio del tuono.
È forse a Perunŭ che pensa Procopio nel passaggio seguente: «Essi
riconoscono un solo Dio produttore del fulmine e gli offrono dei buoi e ogni
specie di vittime»3.
Il ruolo che egli svolge nel pantheon degli Slavi pagani, il profeta Elia lo
svolge nel folclore degli Slavi cristiani, soprattutto di coloro che sono rimasti
più fedeli alle tradizioni primitive, dei Russi, dei Serbi e dei Bulgari. Abbiamo
visto sopra, in un trattato tra Russi e Greci, i Russi pagani giurare su Perunŭ
e i cristiani davanti a Sant’Elia. È forse una coincidenza che il profeta biblico
si opponga al dio del tuono?
Nella Bibbia Elia appare come padrone degli elementi. L’acqua e il fuoco
del cielo gli obbediscono.
Egli annuncia al re Achab che per sette anni «non ci sarà né rugiada né
pioggia, se non quando lo dirò io»; ha fatto scendere il fuoco dal cielo che
consuma l’olocausto; annuncia e dà la pioggia alla terra riarsa. Se ne sta
davanti all’Eterno: «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e
gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il
Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore
non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non
era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero»4.
Elia non muore di morte naturale, ma è asceso al cielo in modo

1 La mitologia lituana è ancora da studiare. Per questi confronti, cfr. Krek, Einleitung…, op.
cit., p. 385. (N.d.A.)
2 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., sub voce. (N.d.A.)
3 De bello gothico, III, 14. (N.d.A.)
4 1 Re 5,1 e 19,11-12. L’Autore dà una diversa numerazione (XXX, 19).

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miracoloso… «Mentre camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e


cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo.
Eliseo guardava e gridava: “Padre mio, padre mio, cocchio d’Israele e suo
cocchiere”. E non lo vide più»1.
Ovviamente, questi racconti dovevano incantare delle immaginazioni
ossessionate dal mito di una divinità che presiede i grandi fenomeni
dell’atmosfera, i fulmini, i lampi.
Uno studioso greco, Politis, nel suo studio sul sole nelle tradizioni
popolari greche, ha cercato di identificare sant’Elia con Helios.
L’accostamento era già stato fatto da Voltaire nel Dictionnaire
philosophique2. È molto probabile che l’identità dei due termini abbia agito
sull’immaginazione dei Greci che furono i maestri religiosi dei Russi. Il culto
di sant’Elia si sviluppa un modo particolare nei paesi greci: numerose
cappelle o monasteri di Costantinopoli erano sotto la sua invocazione, gli si
dedicavano cappelle sulle colline3. Il tredicesimo giorno delle calende di
agosto, i Greci celebravano dei giochi scenici per ricordare l’ascesa di Elia al
cielo4. Tra i personaggi dell’Antico Testamento, Elia era evidentemente uno
di quelli che avevano colpito più profondamente l’immaginazione dei neofiti
russi, slavi e varjaghi. Ricordava assieme il Perunŭ slavo e il Thor
scandinavo che conduceva un carro trainato da due capre facendo sprizzare
scintille dalle nuvole e rimbombare il suono del tuono. Sant’Elia è, di tutti i
santi del cristianesimo, il primo che la Russia ha adottato; è uno di quelli il
cui culto è restato il più tenace e il più popolare. Quel carro aveva alzato in
cielo il profeta biblico, ancora oggi il contadino moscovita crede di sentirlo
nei giorni di tempesta. Si invoca Elia contro le ferite causate dalle armi da
fuoco – cioè le armi tonanti, – lo si invita a lanciare il fulmine e i lampi
contro i nemici di Dio. È da lui che dipendono la rugiada, la pioggia, la
grandine, la siccità. L’ufficio del giorno della sua festa dice che egli può dare
o negare la pioggia. In tempi di siccità, si recita una preghiera così
concepita: «Elia con la sua parola trattiene la pioggia e con la sua parola la
fa scendere. Noi ti preghiamo, o Signore, affinché con le nostre preghiere

1 2 Re 2, 11-12. L’Autore dà una diversa numerazione (IX, 14).


2 Voltaire pubblicò il Dizionario filosofico in forma anonima nel 1764. Alla voce “Elia ed
Enoch” ha scritto: «Il nome Elia è palesemente collegato a Elios, il sole. L’olocausto
offerto da Elia, e acceso con il fuoco celeste, è un’immagine di ciò che possono fare i raggi
del sole riuniti. La pioggia che cade dopo i caldi canicolari è un’altra verità fisica. Il carro
di fuoco e i cavalli infuocati che rapiscono Elia in cielo sono un’immagine forte dei quattro
cavalli del sole. Il ritorno di Elia alla fine del mondo sembra accordarsi con l’antica
opinione secondo cui il sole si sarebbe estinto nell’acqua, in mezzo alla generale rovina
che gli uomini aspettavano: infatti, quasi tutta l’antichità fu a lungo convinta che il mondo
sarebbe stato presto distrutto». (N.d.T.)
3 Kondakov, Chiese e monumenti di Costantinopoli (in russo), Odessa 1886). (N.d.A.) – Il
titolo originale è Vizantijskie cerkvi i pamjatniki Konstantinopolja (Atti del VI Congresso di
Acheologia, Odessa 1887). (N.d.T.)
4 Legatio Liutprandi (Leone Diacono, ed. Bonn, p. 356): «Decimo tertio kalendas augusti
quo die leves Græci raptionem Eliæ prophetæ ad cœlos ludis scenicis celebrant». Devo la
comunicazione di questo testo alla gentilezza del signor Schlumberger. (N.d.A.)

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mandi l’acqua dal cielo alla terra». La sua festa si svolge il 20 luglio (2
agosto), cioè durante la stagione dei grandi temporali e delle grandi siccità.
Novgorod aveva nel Medioevo due chiese, una per Elia il bagnato, l’altra
per Elia il secco. Si andava in processione dall’una all’altra secondo i bisogni
dei lavoratori.
Il 20 luglio (2 agosto) il contadino russo si aspettava di vedere un
temporale o la pioggia. Un tempo secco in quel giorno annunciava numerosi
incendi. Il santo, quando si trovava sul suo carro di fuoco, salvava i campi
dei lavoratori caritatevoli e devastava quelli degli avari. Nel governatorato di
Kurskŭ e Voronežŭ, alla fine del raccolto, si lasciava sul terreno una
manciata di spighe legate in onore del profeta Elia. È ciò che si dice: legare
la barba di Elia. Sarebbe un vago ricordo della barba d’oro di Perunŭ.
In alcune province si celebrano ancora dei veri sacrifici. Nel governatorato
di Kaluga si uccide una bestia, la si fa cuocere, si vende la sua carne e si dà
alla chiesa il denaro raccolto. Altrove uccidono un bue o un vitello e si
riuniscono in banchetto per mangiarlo, o meglio ancora si uccidono giovani
agnelli e si fa benedire la loro carne dal sacerdote1.
Secondo una leggenda della Bucovina, Dio, l’indomani della creazione,
vide il paradiso invaso da tutti i diavoli che Satana aveva creato. Ordinò a
Elia di mettere in movimento il tuono e i lampi. Elia fece echeggiare tanto il
tuono e cadere tanta acqua che i demoni furono precipitati sulla terra.
Secondo un’altra leggenda della stessa provincia, Dio, dopo aver creato il
mondo, fece anche il tuono e i lampi e li affidò al diavolo. Ma egli li usò così
male che Dio incaricò Elia di riprenderli e di riportarli in cielo.
Fra gli Slavi meridionali, il ruolo del profeta Elia non è meno notevole. È
qualificato con l’epiteto gromovnik2, cioè il tuono, e ha un importante posto
nelle epopee popolari. Esse ci raccontano come il mondo fu diviso tra san
Giovanni, san Pietro e sant’Elia. Elia ebbe per sé le nuvole e tuoni. Punisce i
cattivi chiudendo le sorgenti dal cielo, «in modo che i bambini piccoli si
riducano a leccare la sabbia arida»3.
Il giorno di S. Elia (Ilinŭ denŭ) è in Bulgaria un giorno di festa, una festa
ufficiale. Quel giorno, in alcuni cantoni, si celebrano dei riti analoghi a quelli
che abbiamo precedentemente menzionato in Russia e hanno un aspetto
singolarmente pagano4.

1 Afanas’ev, Concezioni poetiche degli Slavi sulla natura, op. cit., t . I, passim. (N.d.A.)
2 Nodilo, Rad Akademie Jugoslavenske, Memorie dell’Accademia di Agram, t. LXXXIX.
(N.d.A.)
3 Veselovskij, Ricerche sulle origini della poesia religiosa in Russia, San Pietroburgo, fasc. 5,
pp. 82-83, e fasc. VIII (Memorie dell’Accademia delle Scienze). Sbornikŭ (Raccolta di
folclore bulgaro,di scienze e letteratura), Sofia, 1889 e seguenti, t. III, p. 15; t. V, p. 29;
t. X, p. 24. Cfr. anche la raccolta di poemi pubblicati dai fratelli Miladinovci, p. 525.
(N.d.A.)
4 Sant’Elia gioca un ruolo importante anche nel folclore e nel culto in Romania. La sua festa
è celebrata in tutte le campagne. Egli colpisce con il fulmine coloro che nel suo giorno si
permettono di lavorare. Gli è consacrata una settimana intera, dal 20 al 27 luglio, che si
chiude con il piccolo sant’Elia, che è ancora più temibile del grande sant’Elia. Egli picchia
gli infedeli con la sua gruccia. Le sue chiese sono molto numerose (Informazioni fornite da

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Nel 1886, un ceco residente nella Bulgaria meridionale, Voraček, fu


testimone di una festa a sant’Elia celebrata a Javorovo, a 20 chilometri da
Filippopoli1. Ecco un riassunto della sua storia.
I paesani iniziano a uccidere una mucca su una collina coltivata a querce.
L’uccisione ha un carattere interamente rituale. Il sacerdote si toglie il
berretto, si fa il segno della croce, così come tutti gli astanti, e procede
all’immolazione dicendo «Che sant’Elia ci assista». L’animale ucciso viene
tagliato a pezzi e la sua carne cotta in pentola. Solo gli uomini partecipano
all’operazione. Quando la carne è cotta, arrivano le donne e i bambini:
fanno il segno della croce ripetendo: «Che sant’Elia ci assista». Il sacrestano
e il sacerdote si presentano a loro volta con l’incensiere, l’aspersorio e le
candele. Il sacerdote benedice l’acqua. Le donne hanno portato dei vasi,
qualche pezzo di pane, del liquore e del vino. Ognuno riceve una porzione di
zuppa e alcuni pezzi di carne. Si organizza un banchetto campestre; la festa
si conclude con il choro tradizionale2. Secondo Voraček, questa solennità si
celebra nella più ampia parte della regione dei Rodopi. Egli segnala anche
nella regione molte rovine di cappelle dedicate a sant’Elia.
Nei canti serbi e croati, Elia è chiamato cocchiere celeste. Colpisce i
demoni col fulmine su ordine di Dio. Egli gioca ancora un altro ruolo. È colui
che mangia la luna e la divora tutta intera se Dio non sostituisce ciò che ha
assorbito3.
Gli sloveni si figurano i venti come dei fratelli nemici che passano il loro
tempo a litigare. Sant’Elia scatena su di loro la pioggia per calmarli4.
Così, tra Russi, Serbi, Bulgari e Sloveni, sant’Elia appare come il santo del
tuono, il supremo padrone della pioggia, dei venti e delle tempeste. Non è
temerario supporre che il suo culto sia stato sostituito a quello dello Zeus
slavo, di Perunŭ, la cui esistenza è così chiaramente documentata negli
antichi testi russi.
La quercia sembra essere stato l’albero sacro di Perunŭ come era l’albero
sacro di Zeus.
Abbiamo summenzionato il testo galiziano che identifica una quercia di
Perunŭ come limite di un campo e il testo di Helmold sulla quercia che erava
nel santuario del dio Proven. Nella Vita del vescovo Ottone di Bamberga, di
Herbord5, si tratta di una grande quercia che sorgeva nei pressi di Stettino e
attorno alla quale sgorgava una sorgente. Il popolo la venerava come
abitata da un dio. Un’altra quercia sacra è menzionata tra gli Slavi di Russia

Calojano di Bucarest). (N.d.A.) – La festa di sant’Elia in Bulgaria è chiamata ancora oggi


Ilinden (parola unica). (N.d.T.)
1 Sbornik Slovanský (Rivista slava e ceca), t. V, Praga 1886. (N.d.A.) – Filippopoli è il nome
italiano della città di Plovdiv. (N.d.T.)
2 Danza nazionale. (N.d.A.)
3 Fr. Krauss, Sagen und Märchen der Südslaven, I, 64. (N.d.A.)
4 Kres (Rivista slovena), IV, 402. (N.d.A.)
5 Libro II, 31. Questa Vita figura in Monumenta Germaniæ Historica di Pertz (t. XII) ed è
stato stampato ad Hannover in usum scholarum (1868). (N.d.A.) – Il titolo esatto è
Dialogus de vita Ottonis Babenbergensis, scritto nel 1139. (N.d.T.)

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da Costantino Porfirogenito1. Egli racconta un viaggio dei Russi sul Dnepr:


«Quando arrivano, ha scritto, ad un’isola che porta il nome di San Giorgio2,
su quest’isola compiono i loro sacrifici poiché una quercia enorme si erge là;
essi sacrificano galli vivi. Piantano delle frecce in cerchio: altri offrono pezzi
di pane e di carne e un po’ di tutto quello che possiedono, come vuole il loro
costume. Ed essi tirano a sorte a proposito dei galli per sapere se devono
sgozzarli, mangiarli o lasciarli in vita»3.
Il cronicista ceco Cosma, che evita accuratamente tutti i dettagli un po’
specifici sul culto pagano, parla solamente del culto dei boschi e degli alberi
(lucos et arbores), senza specificare la quercia. Similmente, un altro testo
boemo, l’Omeliario del vescovo di Praga, menziona il culto dei boschi e degli
alberi (lucos et arbores), ma senza nominare la quercia4.
Questo albero è menzionato positivamente nella cronaca di Hájek (XVI
secolo)5. Hájek merita poco credito per tutto ciò che concerne la storia
propriamente detta; era forse meglio informato sulle credenze popolari. Egli
racconta (ad annum 991) che sulla collina di Petřin (Lorenzberg), che
domina a Praga la riva sinistra della Moldava6, i Cechi accesero durante
l’inverno, vicino a una grande quercia, un fuoco dal quale apparivano forme
fantastiche.
In serbo, una specie di quercia si chiama grm. Si è tentato di avvicinare
questo nome dalla radice grm, tuonare. Ma grŭmŭ in slavo ha un senso
molto più ampio; designa un gruppo di alberi7 e non ha nulla in comune con
l’idea di un tuono. È possibile però che l’etimologia popolare abbia stabilito
in seguito un collegamento che non esisteva in origine.

SVANTOVIT

Se Perunŭ era il grande dio della Russia kievana e novgorodiana,


Svantovit era il grande dio degli Slavi dell’isola di Rügen e delle coste del

1 De administrando imperio, cap. IX. (N.d.A.) – Cfr. nel sito www.larici.it al cap. 9. (N.d.T.)
2 Su altre traduzione è san Gregorio, cfr. in www.larici.it. (N.d.T.)
3 Il Regolamento ecclesiastico di Pietro il Grande (1721), segnala tra le superstizioni anche
l’usanza di pregare sotto una quercia di cui il sacerdote distribuisce poi i rami ai fedeli.
Nella Piccola Russia [oggi Ucraina] si crede che, durante i temporali, Dio o sant’Elia
inseguano i demoni che si nascondono nelle case, nelle chiese, sotto alcuni alberi,
specialmente sotto una quercia (Máchal, p. 63). Ecco il testo del Regolamento di Pietro il
Grande (§ V): «Si possono anche incontrare alcune cerimonie sconvenienti e persino
dannose. Abbiamo sentito che nella Piccola Russia, in un certo giorno di festa, si conduce
in processione una donna alla quale si dà il nome di Piatnica (Paraskeva, Venerdì) e che
vicino alla chiesa il popolo le rende omaggio con dei doni nella speranza di ottenere
qualche vantaggio. Nello stesso modo in un altro luogo i pope insieme con il popolo
recitano le preghiere davanti a una quercia, dopo di che distribuiscono i rami alla gente
come segno di benedizione» (traduzione Tondini, Parigi 1874). (N.d.A.)
4 Das Homiliar des Bischofs von Prag, Beiträge zur Geschichte Böhmens, t. I, Praga 1863
(questo testo è del XII secolo). (N.d.A.)
5 Kronyka Czeská (Cronaca ceca), pubblicata per la prima volta nel 1541. (N.d.T.)
6 L’Autore usa il nome ceco del fiume: Vltava. (N.d.T.)
7 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., p. 80. (N.d.A.)

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Baltico. È quanto ci attesta Helmold nel capitolo 52 della sua Cronaca: «Tra i
molti dèi degli Slavi domina Zvantevith, dio della terra degli abitanti di
Rügen. È colui i cui oracoli sono i più sicuri. Accanto a lui gli altri dèi non
sono che semidei. Anche per lo speciale onore essi si sono abituati a
sacrificare ogni anno un cristiano estratto a sorte. Inoltre, essi inviano ogni
anno da tutte le province slave dei contributi per i sacrifici. Hanno un
rispetto straordinario per il tempio di questo dio; non ammettono facilmente
che si giuri per lui, né che i suoi dintorni siano contaminati anche in tempo
di guerra1. Da tutte le province degli Slavi si cercano oracoli e si invia
qualcosa per fare sacrifici. I mercanti che arrivano in questo paese non
hanno il diritto di vendere o acquistare se non hanno offerto un prezzo
pregiato delle loro merci. Solo dopo questa offerta, possono esercitare il
loro commercio».
Altrove2 Helmold racconta come, nel 1168, Valdemaro, re di Danimarca,
attaccò l’isola di Rügen con un grande esercito e una flotta considerevole.
S’impossessò dell’isola e gli abitanti, per riscattarsi, acconsentirono a tutto
ciò che veniva loro chiesto. Così egli fece portare un idolo molto antico di
Zvantevith che era adorato da tutta la nazione degli Slavi, ordinò di fargli
passare una corda attorno al collo, di tagliarlo a pezzi e gettarlo nel fuoco.
Egli distrusse il suo tempio, il suo culto, e saccheggiò il suo ricco tesoro… Un
po’ più avanti3, Helmold, che, come abbiamo visto in precedenza, identifica
Svantovit con san Vito o san Guido, insiste ancora sull’importanza del culti
di Svantovit: «Era il primo di tutti gli dèi slavi, colui che dava le più gloriose
vittorie, colui che forniva gli oracoli più sicuri, Ancora al nostro tempo si è
visto non solamente i Vagri, ma anche tutte le province slave, inviare dei
tributi annuali a Rügen e proclamare Zvantevith il dio degli dèi. Presso di
loro il re è poco considerato in confronto al sacerdote. Perché è il sacerdote
che interpreta gli oracoli e spiega i sortilegi. Egli dipende dalla magia e il re
e il popolo dipendono da lui4. A volte sacrificavano un cristiano e
sostenevano che gli dèi erano particolarmente soddisfatti dal sangue
cristiano…». «L’oro e l’argento presi dal nemico erano in parte versati nel
tesoro di Zvantevith» (I, 38).
Il culto di Svantovit è citato anche da Saxo Grammaticus: «C’era, presso
gli abitanti di Arkona sull’isola di Rügen, un idolo particolarmente onorato
dagli indigeni e dal popolo dei dintorni, ma falsamente indicato con il nome

1 Helmoldi presbyteri Chronica Slavorum, edizione di Pertz in usum scholarum, Hannover,


1868. Libro I, 6. «Nam neque juramentis facile indulgent, neque ambitum fani vel in
hostibus temerari patiuntur». Questo passaggio piuttosto oscuro è spiegato con le
seguenti righe nel cap. 83: «Tantam enim sacris suis Sclavi exhibent reverentiam, ut
ambitum fani nec in hostibus sanguine pollui sinant. Jurationes difficillime admittunt, nam
jurare apud Sclavos quasi perjurare est ob vindicem deorum iram». (N.d.A.)
2 Libro II, cap. XII. (N.d.A.)
3 Stesso capitolo. (N.d.A.)
4 Cfr. Libro I, 6: «Flaminem suum non minus quam regem venerantur». (N.d.A.)

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di San Vito»1. Più avanti2 descrive il tempio di Arkona: «Nel mezzo della
città c’era una piazza su cui sorgeva un tempio di legno molto bello,
rispettabile non solo per la magnificenza del suo culto, ma anche per l’idolo
che racchiudeva. L’esterno o il perimetro dell’edificio erano ornati da
sculture delicate (accurato celamine) grossolanamente dipinte e
rappresentanti diversi oggetti»3.
«Vi si entrava da una sola porta. Il tempio stesso era circondato da un
doppio recinto: il recinto esterno era ricoperto da un tetto rosso, il recinto
interno era composto da tendaggi sostenuti da quattro pali e non
comunicava con l’esterno che attraverso il tetto. Nell’edificio c’era un idolo
immenso, era molto più grande che in natura, aveva quattro colli e quattro
teste4; due sembravano guardare il petto e due la schiena, dal davanti e dal
dietro uno sembrava guardare a destra e uno a sinistra. La barba era
rasata, i capelli rasati alla maniera di Rügen. Teneva nella mano destra un
corno fabbricato con vari metalli; ogni anno il sacerdote lo riempiva di vino
(mero)5, e dallo stato della bevanda prediceva i raccolti dell’anno seguente.
La mano sinistra aveva un arco, il braccio pendeva lungo il corpo. Una
tunica avvolgeva il corpo dell’idolo e scendeva fino alle gambe; era fatto di
legni differenti e così abilmente uniti alle ginocchia che il punto di contatto
può essere visto soltanto dopo un minuzioso esame. I piedi erano
appoggiati a terra, ma non si vedeva come erano fissati.
«Vicino all’idolo si vedeva un freno, una sella e varie insegne della
divinità. Si ammirava soprattutto una spada colossale di cui il fodero e l’elsa
erano d’argento e finemente cesellati.
«Così come si celebrava la grande festa del suo culto. Una volta all’anno,
dopo il raccolto, una folla numerosa si radunava davanti al tempio,
sacrificava dei capi di bestiame e prendeva parte a un grande festino
religioso. Il sacerdote, che, contrariamente della moda del paese, portava la
barba e i capelli molto lunghi, aveva soltanto il diritto di entrare nel
santuario. Il giorno che precedeva la funzione sacra, egli puliva
accuratamente con una scopa il tempio, dove solo lui aveva il diritto di
entrare, avendo cura di trattenere il respiro. Ogni volta che aveva bisogno di
respirare, correva alla porta in modo che la divinità non fosse macchiata dal
contatto di un respiro umano6.

1 Historia Danica, ed. Holder, Strasburgo, 1886, libro XIV, p. 444. «Erat enim simulacrum
urbi præcipua civium religione cultum… sed falso sacri Viti vocabulo insignitum». (N.d.A.)
2 Ibid., p. 565. (N.d.A.)
3 Cfr. Tietmaro, Chronicon, Libro VI. Descrizione del tempio dei Redariani. (N.d.A.)
4 Gli idoli policefali sono comuni fra gli Slavi del Baltico, per esempio il dio Triglav, il dio
Porenutius a quattro teste più una quinta sul petto. «Multos [deos] duobus vel tribus, vel
eo amplius capitibus exsculpunt» (Helmold, I, 83). «Dum in urbe Brandenburgensi
ydolum tribus capitibus inhonestum ab incolis coleretur» (Cronaca di Pulkawa, ad annum
1156, Fontes rerum Bohemicarum, t. V, Praga, 1893, p. 89). (N.d.A.)
5 O, più verosimilmente di idromele. (N.d.A.)
6 Il Domostroĭ, Ménagier russo del XVI secolo, prescrive al fedele che bacia la Croce o le
immagini di trattenere soprattutto il suo respiro. (N.d.A.) – Il Domostroj (ordine di una
casa) è un documento del XVI secolo, elaborato sotto gli auspici del metropolita Makarij,

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«Il giorno dopo, mentre il popolo erano riunito davanti ai cancelli, egli
tolse la coppa dalle mani dell’idolo ed esaminò se la quantità di liquido era
diminuito rispetto a un segno fatto in precedenza; in questo caso egli
prediceva la carestia per l’anno successivo. In caso contrario, prevedeva
l’abbondanza. In seguito a queste previsioni, avvertiva di utilizzare più o
meno largamente i beni della terra. In seguito versava ai piedi dell’idolo,
come libagione, il beveraggio dell’anno precedente e riempiva il corno di un
nuovo liquore. E, dopo aver venerato la statua fingendo di offrirle da bere,
le chiedeva con una invocazione solenne ogni sorta di beni per sé e per la
patria, la ricchezza e la gloria per i cittadini. Poi ingoiava d’un fiato il
contenuto del vaso, lo riempiva di nuovo e lo rimetteva nella mano destra
della statua.
«In seguito, si metteva di fronte alla statua un dolce condito con il miele,
rotondo e alto quasi quanto un uomo. Il sacerdote si poneva dietro al dolce
e domandava al popolo se lo vedeva. Se il popolo rispondeva
affermativamente, egli esprimeva il voto di non essere visto l’anno
seguente. Questo desiderio aveva per oggetto non la sorte del sacerdote o
del popolo, ma l’abbondanza del raccolto futuro1. Poi salutava il popolo a
nome dell’idolo, esortandolo a perseverare nella loro devozione e nei loro
sacrifici, e gli prometteva come ricompensa alcune grandi vittorie per terra
e sul mare.
«Il resto della giornata era consacrata al festino; si mangiava la carne
delle vittime, li si costringeva a seguire l’intemperanza. In questa festa ciò
era fatto come atto di pietà per violare la sobrietà, era sconveniente
osservarla. Ogni anno, tutti gli uomini e tutte le donne versavano una
moneta per il culto del dio. Gli si assegnava un terzo del bottino, come se
avesse contribuito a farlo arrivare. Aveva al suo servizio trecento cavalli e
trecento cavalieri; tutto ciò che acquistavano con le armi o con il furto era
affidato alla guardia del sacerdote, egli fabbricava delle insegne o degli
ornamenti (con i metalli); si conservavano queste spoglie in scatole che

che descrive dettagliatamente il funzionamento di una casa cristiana russa: vita spirituale,
civile e familiare. La prima versione fu redatta a Novgorod o a Mosca agli inizi del XVI
secolo; la seconda versione fu compilata dall’arciprete Silvestro, consigliere dello zar Ivan
il Terribile, verso la fine dello stesso secolo. Alla fine del XVIII secolo fu pubblicato un
testo che riuniva le due versioni. (N.d.T.)
1 L’ultima sera dell’anno, nella Piccola Russia si preparano molti dolci per la cena. Li si
mettono davanti al capofamiglia e si fanno uscire bambini. Essi rientrano e domandano
dov’è il padre. “Non mi vedete, figli miei?” “No, papà!” “Dio voglia che sia sempre così!”,
cioè che noi abbiamo ancora il grano, tanto quanto stanotte». (Spedizione etnografica
nella Russia di sud-ovest. Materiali raccolti da Čubinskij, t. III, San Pietroburgo, 1872). Lo
stesso fatto è notato da Schein (Šejnŭ) nel governatorato di Mogilev (Materialy dlja
izučenija byta i jazyka russkago naselenija sěvero-zapadnago kraja), t. I, parte II, p. 607
). In Erzegovina (secondo Karadžič, Dizionario serbo, sub voce milati se), due persone
mettono tra loro il pane o il dolce di Natale česnica e uno dice all’altro: “Mi vedi?” L’altro
risponde: “Un po’”. La prima replica: “Che non ti possa vedere neanche un po’ l’anno
prossimo!” (cioè: possa il grano essere così abbondante e il pane così grande che non ti si
veda dietro di esso.). (N.d.A.) – Il titolo russo del libro di P. Čubinskij è Trudy
etnografičesko-statističeskoj ekspedicii v záp.-russkij kraj, Petrohrad. (N.d.T.)

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contenevano una quantità considerevole di somme d’argento e tessuti di


porpora usati; vi si accumulavano anche tutte le offerte pubbliche o private
raccolte da questuanti assidui.
«Questa statua, che raccoglieva i tributi di tutta la Slavia, riceveva inoltre
i doni dei re limitrofi, e questi doni erano a volte dei veri sacrilegi. Così il re
di Danimarca, Sueno, per renderlo favorevole, fece omaggio di un vaso
prezioso, preferendo una religione straniera alla sua. Più tardi egli fu punito
per questo sacrilegio con una morte tragica1. Questo dio aveva ancora dei
templi in molti luoghi; erano serviti da sacerdoti di ordine inferiore. Aveva
un cavallo per sé di colore bianco; era un crimine tirare i peli della sua
criniera o della sua coda. Solo il sacerdote aveva il diritto di farlo pascolare
e di montarlo. Secondo gli abitanti di Rügen, Svantovitus (è così che si
chiamava l’idolo) combatteva su questo cavallo contro i suoi nemici. La
principale ragione di questa convinzione era il fatto seguente: la mattina il
cavallo appariva spesso coperto di fango e di sudore come se avesse
percorso grandi distanze. Questo cavallo serviva anche a prendere gli
auguri2. Quando occorreva entrare in guerra, i sacerdoti disponevano
davanti al tempio una triplice fila di lance. Si legavano due lance di traverso
con la punta in basso. Al momento della spedizione, si faceva una preghiera
solenne, il cavallo era guidato da un sacerdote: se, per attraversare le file di
lance, partiva con lo zoccolo destro era un buon auspicio per l’esito della
guerra; se partiva con lo zoccolo sinistro si abbandonava la spedizione. Si
faceva lo stesso per le spedizioni marittime o le varie imprese»3.

1 Si tratta di Svend (Sweyn) Tveskæg detto Barbaforcuta, re di Danimarca dalla fine del
986 alla morte (1014) e di Inghilterra per cinque settimane (1013-1014). Le notizie
fornite dai cronacisti sono controverse e messe in dubbio dagli storici, per esempio pare
che non abbia avuto una morte tragica. (N.d.T.)
2 Secondo Tietmaro, gli Slavi abitanti la città di Riedegast (Rethra?) si servivano anche del
cavallo per conoscere il futuro: «Cum huc idolis immolare seu iram eorum placare
conveniunt, sedent hi duntaxat cæteris astantibus et invicem clanculum mussantes
terram cum tremore infodiunt, quo sortibus emissis rerum certitudinem dubiarum
perquirant. Quibus finitis, cespite viridi operientes equum qui maximus inter alios habetur
et ut sacer ab his veneratur super fixas in terram duarum cuspides hostilium inter se
transmissarum supplici obsequio ducunt et præmissis sortibus [quibus id] exploravere
prius, per hunc quasi divinum denuo auguriantur» (Chronicon, VI, 24). Questa divinazione
per il cavallo si ritrova a Stettino (Herbord, Vita Otthonis, II, 33). «Habebant caballum
miræ magnitudinis… Iste toto anni tempore vacabat tantæque fuit sanctitatis ut nullum
dignaretur assessorem, habuitque unum de quatuor sacerdotibus templorum custodem
diligentissimum. Quando ergo itinere terrestri contra hostes aut prædatum ire cogitabant,
eventum rei hoc modo per illum solebant prædicere: Hastæ 9 disponebantur humo,
spacio unius cubiti ab invicem disjunctæ. Strato ergo caballo atque frenato, sacerdos
tantum freno per jacentes hastas in transversum ducebat ter atque reducebat. Quod si
pedibus inoffensis hastisque indisturbatis, equus transibat, signum habuere prosperitatis
et securi pergebant; sin autem, quiescebant». Sulla divinazione per il cavallo, cfr. anche:
Jahn, Die Deutschen Opfergebräuche, Breslau 1883, p. 24) Hopf, Thierorakel und
Orakelthiere, p. 68; Saupe, Der Indiculus superstitionum, Leipzig 1891, p. 18; Tobolka nel
Časopis (Rivista) del Museo di Olomouc (Ollmütz), 1894. (N.d.A.)
3 Occorre rapportare al culto di Svantovit il drappo religioso chiamato stanitsa di cui parla
Saxo Grammaticus (p. 569): «Questo drappo è di una grandezza e di un colore
straordinari. Era quasi venerato tra gli abitanti di Rügen quanto la maestà di tutti gli dèi.

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Dopo aver descritto l’idolo e spiegato i dettagli del suo culto, Saxo
Grammaticus racconta come fu distrutto dai Danesi1: «Esbern e Sueno
furono inviati dal re per rovesciarlo. Bisognava impiegare il ferro e fare
attenzione di essere schiacciati dalla caduta della statua; i pagani avrebbe
creduto che il loro dio si vendicava… L’idolo cadde rumorosamente… Il
tempio era decorato di stoffe di porpora, che l’umidità fece cadere a pezzi, e
di corna di animali selvatici; si vide a un tratto un demone andarsene dal
tempio sotto forma di un animale nero. Si ordinò agli abitanti di gettare le
corde intorno all’idolo per portarlo fuori dalla città; ma, in seguito a un
timore religioso, essi ordinarono a dei prigionieri e a dei mercenari stranieri
di rovesciare il dio, pensando che fosse meglio esporre alla sua collera dei
personaggi ignobili. Essi credevano che la maestà del dio, che avevano
adorato per così lungo tempo, avrebbe punito severamente coloro che
mettevano le mani su di lui. Si sentivano le grida più diverse: gli uni si
lamentavano dell’offesa recata al loro dio, gli altri li canzonavano.
Ovviamente i più saggi si vergognavano di aver abusato per tanti anni di un
culto così grossolano. L’idolo fu portato al campo e fu esaminato con
curiosità da un gran numero di spettatori. Venuta la sera, i cuochi lo
ruppero in pezzi per accendere il fuoco. Gli abitanti di Rügen dovettero in
seguito consegnare il tesoro che avevano consacrato a Svantovit».
La Knytlinga saga (Historia Knutidarum) ci fornisce quasi gli stessi
dettagli. Il re ordinò a Sonius, figlio di Ebbius, di entrare nella cittadella di
Arkona e, nel tempio, di rovesciare l’idolo di Svanteviz e di spogliare il
tempio. Questo ordine fu eseguito da Svein, vescovo, e da Sonius2.
Helmold e Saxo Grammaticus sono d’accordo nel designare sotto il nome
di Svantovit il grande dio dell’isola di Rügen (in slavo Rana)3. Inoltre,
entrambi concordano nello spiegare il nome Svantovit con quello di un santo
cristiano, san Vito («Sanctus Vitus») o di san Guido: «Ai tempi
dell’imperatore Luigi II4, cioè verso la metà del IX secolo, i monaci di Corvey
penetrarono nell’isola di Rügen, dove era il focolaio principale dell’errore e la
sede dell’idolatria. Essi predicarono la parola di Dio e istituirono un
santuario in onore di Nostro Signore Gesù Cristo e di San Vito, patrono di
Corvey. Ma ben presto gli abitanti di Rügen cacciarono i sacerdoti e
ritornarono alle loro antiche superstizioni. Perché questo san Vito, che noi
confessiamo martire e servitore di Cristo, essi lo adorarono come un dio,
preferendo la creatura al creatore. E non c’è sotto il cielo dei barbari che
abbiano tanto in orrore i cristiani e i sacerdoti. Essi non si vantano che del

Quando lo portavano davanti a loro, essi credevano tutto lecito… La loro superstizione era
tale che l’autorità di quel pezzo di stoffa superava quella del re». Svantovit è prima di
tutto un dio guerriero e il drappo è certamente un simbolo di guerra. (N.d.A.)
1 P. 574. (N.d.A.)
2 Scripta historica Islandorum. Hafniæ, 1842, t. XI, p. 348. (N.d.A.)
3 Secondo Hilferding (Storia degli Slavi baltici, p. 173), il nome di Szventevit è ancora
menzionato in un documento di Federico Barbarossa del 1170 (Codex Pomeranus n. 28).
Non ho visto questo testo. (N.d.A.)
4 Luigi (Ludovico) II detto il Balbo (846-879), re di Aquitania e poi dei Franchi. (N.d.T.)

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nome di san Vito, al quale essi hanno anche dedicato un tempio e un idolo,
oggetto di un culto premuroso e che essi considerano come il primo dei loro
dèi. Da tutte le province slave si arriva qui a chiedere gli oracoli e celebrare
i sacrifici annuali. Gli abitanti onorano il sacerdote non meno del re.
Tuttavia, poiché nel momento in cui essi hanno per la prima volta rinunciato
alla fede cristiana, questa superstizione ha persistito presso gli abitanti di
Rügen fino ai nostri giorni»1.
Secondo Helmold, il nome di Svetovit sarebbe dunque semplicemente
un’alterazione di san Vito; il dio pagano si sarebbe sostituito al santo
cristiano. Helmold trascura, però, di cercare quello che avrebbe potuto
essere il precedente nome di questo dio così popolare. Nel libro II, capitolo
XII, egli racconta brevemente la conquista di Rügen da parte dei Danesi, la
distruzione dell’idolo di Zvantevithus, del suo tempio e del saccheggio della
sua chiesa.
«In tutta la nazione degli Slavi, che è divisa in province e in principati,
quella degli abitanti di Rügen era la più ostinata nelle tenebre dell’infedeltà,
essa vi persiste ancora ai nostri giorni2. Una voce assai tenue («tenuis
fama») racconta che Ludovico, figlio di Carlo3, offrì una volta la terra di
Rügen al beato Vito di Corvey, perché egli fosse il fondatore del monastero.
Dei predicatori venuti da questa abbazia convertirono, dicono, il popolo di
Rügen e lì fondarono un oratorio in onore del martire Vito, al culto del quale
la provincia fu dedicata. Presto gli abitanti di Rügen abbandonarono la luce
della verità e caddero in un errore peggiore del primo4; perché quello stesso
san Vito che noi chiamiamo il servitore di Dio, hanno cominciato ad adorarlo
come un dio, facendogli una gran statua, e servono la creatura invece del
creatore. Ma questa superstizione si stabilì così bene che Zvantovit, dio
della terra di Rügen, diventò il primo dio degli Slavi, ecc.»5. Saxo
Grammaticus dichiara da parte sua (p. 444) che il tempio più frequentato di
Arkona portava a torto il nome di san Vito6.
Così, secondo Helmold e Saxo Grammaticus, se gli abitanti di Rügen

1 Helmold, Libro I, 6. (N.d.A.)


2 «Metuuntur propter familiaritatem deorum vel potius dæmonum quos majori cultu
venerantur quam ceteri» scrisse Adamo da Brema (Descriptio Insularum Aquilonis, 165).
(N.d.A.)
3 Ludovico I il Pio, re dall’814 all’840, figlio di Carlo I. (N.d.T.)
4 Cfr. Matteo 27, 64. (N.d.A.)
5 Fu l’abate di Corvey, Boso, a portare le reliquie di san Vito al monastero: «Qui cum esset
admirandæ sanctitatis ad augmentum virtutum suarum beatæque memoriæ Saxoniæ
preciosum attulit thesaurum reliquias videlicet pretiosi martyris Viti» (Widukindi Res
gestæ Saxoniæ, Libro III, 2). Queste reliquie erano molto ricercate nel Medioevo. Agli inizi
del X secolo il duca di Boemia, Vacslav, ricevette dall’imperatore un braccio di san Vito ed
eresse la cattedrale di Praga che porta ancora il nome di san Vito. L’abbazia di Corvey era
stata fondata nell’822 dai monaci benedettini di Corbie, in Piccardia, da cui il suo nome:
«Veniente eo ad urbem que nova Corbia vocatur, ab ea nomen sortita, unde cepit scilicet
ab illa Francorum Latinorum Corbia, ubi requiescit sanctus Vitus infans et martir…»
(Thietmari Chronicon II, 19 (11) ad ann. 1002). (N.d.A.)
6 Cfr. p. 568: «Servitutem superstitione mutarunt instituto domi simulacro, quod sancti Viti
vocabulo censuerunt». (N.d.A.)

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adoravano un dio chiamato Svantovit, è perché essi avrebbero distorto a


proprio vantaggio il nome di san Vito importato dai monaci di Corvey.
Adamo da Brema, al quale Helmold ha preso in prestito delle informazioni
generali sull’isola di Rügen (I, 2), non dice nulla circa l’acquisizione di
questa isola da parte dei monaci di Corvey nel IX secolo, dell’introduzione
del culto di san Vito e della sua trasformazione in un dio pagano. Secondo
Völkel1, queste due favole, benché Helmold invochi la veterum antiqua
relatio, sarebbero state inventate fin dal XII secolo. I monaci di Corvey
facevano d’altronde valere ben altre pretese assai poco giustificate. Si deve,
credo, ritornare al ragionamento di Helmold e di Saxo Grammaticus. Non
sono i pagani che, convertiti al culto di san Vito, hanno trasformato questo
santo in divinità pagana, al contrario sono i monaci che, trovando radicato il
culto di Svantovit, hanno cercato di sostituirlo con un santo il cui nome era
abbastanza simile. Essi avevano proprio sotto mano san Vito, le cui reliquie
erano state portate da Corbie, in Piccardia, alla Nova Corbeia germanica.
Questi pii inganni, queste confusioni dei nomi sono frequenti nel Medioevo2.
Essi spiegano la sostituzione del culto di san Vito con quello di Svantovit.
L’odio degli Slavi del Baltico per il cristianesimo era profondo ed era
sostenuto da un clero interessato a conservare il proprio prestigio. È
possibile ammettere che avesse potuto tollerare che il grande dio nazionale
ricevesse il nome di un santo cristiano? Secondo la testimonianza di
Helmold, che abbiamo già riportato, a volte si sacrificava un cristiano a
Svantovit e il sacerdote affermava che nessun sacrificio era più gradito al

1 Die Slavenchronik Helmolds, Gœttingue, 1873. Völkel rinvia alle seguenti opere: Wigger,
Mecklenburgische Annalen, Schwerin 1861, pp. 144, 148; Harenberg, Monumenta
historica adhuc inedita, Braunschweig 1750, Prolegomena critica; Wigand, Geschichte der
gefürst, Reichsabtei Corvey, p. 148; Ledeburg, Allgemein Archiv für die Geschichtskunde
des Preussischen Staats, V, p. 331 e seguenti; Giesebrecht, Wendische Geschichten, p.
280 e seguenti. (N.d.A.)
2 Sarei grato ai lettori di questo lavoro di volermi gentilmente segnalare con testi di valore
degli esempi di idoli o di personaggi pagani trasformati in santi cristiani corrispondenti. Si
citano spesso come esempio di questo fenomeno il tempio di santa Vittoria a Fourrières
(Campi putridi), una sant’Afrodisia che avrebbe sostituito Venere, un sant’Amadore che
avrebbe rimpiazzato Cupido. Ce ne devono essere altri. Vorrei delle indicazioni precise.
(N.d.A.)

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suo Dio1. Gli Slavi amavano prendersi gioco delle cose cristiane; Tietmaro2
racconta un curioso aneddoto. Il sacerdote tedesco Boso, per istruire più
facilmente gli Slavi che aveva convertito, o meglio che credeva di aver
convertito, aveva scritto delle preghiere slave e chiese agli Slavi di cantare
queste preghiere dopo averne spiegato l’oggetto. «Ma questi malvagi, per
derisione, parodiarono le parole dicendo ukri volsa, ossia in latino eleri stat
in frutectum, la luce è nel bosco, invece di ripetere con il sacerdote Kyrie
eleison. E loro dicevano: Così parla Boso; ma egli parlava in modo diverso».
Gli Slavi di Rügen avrebbero potuto parodiare il nome Sanctus Vitus,
rendendolo Svantovit, ma è improbabile che avessero tenuto
definitivamente questo nome per il grande dio nazionale, meno probabile
ancora è che essi avessero applicato il nome Vito ad altri dèi. Il loro
fanatismo religioso esclude assolutamente questa ipotesi. Inoltre troviamo
in Saxo Grammaticus un dio Porevithus3, un dio Rugievithus4; in Ebbo e in
Herbord, biografi di Ottone di Bamberga, un dio Herovith o Gerovith5.
Parleremo più avanti di queste divinità.
Se la terminazione vit (o vith) non è il nome di san Vito, che cosa
rappresenta? La prima parte della parola non dà dubbi: svent6 vuol dire
santo. Nonostante un avvicinamento puramente esteriore, la parola non ha
nulla in comune con il latino sanctus, di cui è anche l’esatta traduzione. Qui
ci troviamo di fronte a una semplice coincidenza. Vit ha notevolmente
esercitato l’ingegnosità degli etimologisti. Essi si sono battuti per spiegarlo

1 «Mactantque diis suis hostias de bobus et ovibus, plerique etiam de hominibus cristianis
quorum sanguine deos suos oblectari jactitant» (Helmold, I, 52. Cfr. ib., 83). «Nec tam
dulcia vel iocunda nobis fuerunt Slavorum pocula quod videremus compedes et diversa
tormentorum genera quæ inferebantur Christicolis de Dania advectis». – Cfr. la Cronaca
detta di Nestore, cap. XXXIX (p. 66 della mia edizione). [Stesso capitolo in www.larici.it.
(N.d.T.)]).
«Maligni homines insano furore correpti, magno tumultu, securibus et gladiis aliisque telis
armati, sine ulla reverentia in ipsam ducis curtim irrumpentes, mortem nobis sine ulla
retractatione, nisi quantocius de curia et de ipsa civitate fugeremus comminabantur»
(Herbordi Vita Ottonis, II, 24).
Adamo da Brema: «Deinde reliquam peragrantes Sclavoniam Sclavi rebellantes omnes
ecclesias incenderunt et ad solum diruerunt. Sacerdotes autem et reliquos ecclesiarum
ministros variis suppliciis enecantes nullum christianitatis vestigium trans Albiam
reliquerunt (II, 40)». Ciò accadde nel 1002. Più oltre (III, 50, ad ann. 1066), Adamo da
Brema racconta ciò che segue: «Johannes episcopus senex cum ceteris christianis in
Magnopoli civitate (Mecklenburg) captus servabatur ad triumphum. Ille igitur pro
confessione Christi fustibus cæsus, deinde per singulas civitates Slavorum ductus ad
ludibrium, cum a Christi nomine flecti non posset, truncatis manibus ac pedibus in platea
corpus ejus projectum est, caput vero ejus desectum, quod pagani conto præfigentes in
titulum victoriæ deo suo Redigast immolarunt… Itaque omnes Sclavi, facta conspiratione
generali, ad paganismum denuo relapsi sunt, eis occisis qui perstiterunt in fîde». Tuttavia,
secondo le testimonianze di Adamo di Brema e di Helmold, gli abitanti dell’isola di Rügen
erano ancora più fanatici degli altri Slavi. (N.d.A.)
2 Chronicon, II, 37 (ad annum 97). (N.d.A.)
3 Op. cit., p. 578. (N.d.A.)
4 Ibid., p. 577. (N.d.A.)
5 Monumenta Germaniæ Historica di Pertz, XII, p. 868. (N.d.A.) – O Žerovid (N.d.T.)
6 Cfr. zend: çpeñta, stesso senso. (N.d.A.)

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in modo isolato, senza accorgersi che si incontra in moltissimi nomi propri


slavi. Semovith (o Semovithaii, leggendario principe di Polonia) è
menzionato nella Cronaca di Gallo1 (XII secolo). Il nome Ziemovit compare
più volte nella storia della Polonia, in particolare tra i principi della Mazovia e
scompare solo nel XV secolo2. La Cronaca ceca di Cosma (secoli XI-XII) cita
un principe di Boemia Hostivit (Hostivit, Hostiwyt, Goztivit), padre di
Borivoj, il primo duca cristiano di Boemia, e questo nome è ripetuto in altri
storici boemi, compresa la Cronaca in versi (in ceco) di Dalemil3.
L’elemento vit figura anche in Eginardo, negli Annali e nella vita
dell’imperatore Ludovico, dove si parla di un personaggio chiamato
Liudevitus; si tratta di un principe slavo della Pannonia inferiore4. Nei
documenti storici sugli Slavi meridionali, vediamo apparire volta a volta
Vitadrag, Vitodrag, Vitomir, Vitoslav, Vitomysl. Tutti questi personaggi sono
slavi, ed è impossibile spiegare il loro nome con quello di San Vito.
Tra le numerose interpretazioni che sono state proposte, la più verosimile
mi pare quella che ammette che l’elemento vit rappresenti una radice vit o
vêt che significa parola. Svent ha preso il significato di santo sotto
l’influenza del cristianesimo. Forse anche prima, dato che è stato coniugato
dal tedesco heilig, significando forte, sicuro, certo. Il nome di Svantovit
troverebbe quindi la sua spiegazione nelle parole di Helmold che abbiamo
citato sopra: «Zvantevit, deus terræ Rugianorum, inter omnia numina
Slavorum primatum obtinuit, clarior ut victoriis, efficacior in responsis»5.
Tale interpretazione mi sembra la più verosimile6. Ma qui siamo nel regno

1 Libro I, cap. III. (N.d.A.)


2 Cfr. O. Belzer, Genealogia Piastów (genealogia dei Piast), Cracovia, 1895, in-4° (abstract
nel Bollettino della Accademia Internazionale delle Scienze di Cracovia, gennaio 1896).
(N.d.A.)
3 Fontes Rerum Bohemicarum, t. II, pp. 17, 18, 369, 386. (N.d.A.)
4 «Contra Lindevitum quoque sclavum ex Pannonia». I diversi testi che lo riguardano sono
raccolti nel volume XII dei Documenta Historiæ Croaticæ periodum antiquum illustrantia
(pubblicati dall’Accademia di Agram). (N.d.A.)
5 Per questa discussione si veda Maretić nel suo studio sui nomi serbi e croati, Memorie
dell’Accademia di Slavi meridionali (Rad Akademije jugo-slavenske), t. LXXXI, Agram,
1886. In un lavoro pubblicato l’anno successivo sull’Archiv für slavische Philologie, Maretić
ha modificato le sue conclusioni e presentato una nuova interpretazione. Vit per lui
significherebbe lætus e Svantovit vorrebbe dire fortis lætusque (Archiv für slavische
Philologie, t. X, p. 136). Miklošič afferma nel suo dizionario etimologico che vit nel nome
di Svantovit è assolutamente inspiegabile in slavo e rappresenta molto semplicemente san
Vito. Quale che sia il rispetto dovuto a Miklošič, è consentito non essere sempre d’accordo
con lui. Il suo ipercriticismo lo trascina talvolta assai lontano, le sue etimologie non sono
sempre infallibili. Così, a p. 148 del suo dizionario, egli cita un termine sloveno, kurent,
korent, korant, kore fastnacht (vigilante) e aggiunge Vergl. Kir. kurent, fröhliche
hochzeitsarie. Non so che cosa sia lo sloveno kurent, vigilante, ma posso affermare che
l’ucraino kurent, «aria allegra» è semplicemente preso in prestito dal polacco kurant, che
ha lo stesso significato e cioè non è che la trascrizione dal francese «courante», sorta di
danza, e, di conseguenza, aria di danza:
«…il faut que je te chante
Certain air que j’ai fait de petite courante».
(Molière, Les Fâcheux, II, 5). (N.d.A.)
6 Cfr. la Nota complementare. Jagić (Archiv für slavische Philologie, t. XIX, p. 368) pensa

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delle ipotesi, e vale la pena ricordare le altre interpretazioni che sono state
proposte.
Quello che ha a lungo prevalso, e che era stato proposto dal XVI secolo in
Germania, interpreta Svantovit per lumen1. Dal punto di vista fonetico
questa interpretazione non è difendibile. Non è chiaro come la lettera s sia
scomparsa. Dobrowsky ha fatto di vit l’abbreviazione di Vitenz, il cavaliere,
l’eroe. Più recentemente Krek2 riallaccia vit alla radice vi, vé, soffiare.
Svantovit è per lui il soffio potente. Ciò che gli sembra confermare questa
ipotesi è il passaggio, citato sopra, dove Saxo Grammaticus dice che il
sacerdote che puliva il santuario di Arkona non osava respirare per paura di
insozzarlo col suo respiro impuro. Così Svantovit è volta a volta, secondo gli
interpreti, un dio solare, un dio guerriero, un dio del vento, un dio che fa gli
oracoli, un dio forte e allegro, o semplicemente un santo cristiano
trasformato in idolo pagano.
Di tutte queste interpretazioni, la più verosimile dal punto di vista
linguistico mi sembra essere, ripeto, quella che interpreta vit come oracolo,
consiglio. D’altronde, come si può giudicare dai testi di Helmold e di Saxo, le
attribuzioni di Svantovit erano le più varie: egli non si accontentava di dare
gli oracoli, ma la ricchezza dei raccolti, i successi delle imprese di guerra o
commerciali dipendevano ugualmente da lui. Teneva nello stesso tempo un
arco, simbolo della guerra, e un corno per bere. Il tempio di Svantovit era
situato nella città che Saxo Grammaticus chiama Archon, Arcon3, Arkon, e
che dette il suo nome a una provincia. Tale nome non pare slavo e se ne
ignora l’origine4. In altri testi si trovano le forme Arekunda, Arekonda. Non
era propriamente una città, ma semplicemente un recinto fortificato che
circondava il tempio. Il tempio di Arkona fu distrutto dal re di Danimarca
Valdemaro il 15 giugno 1168. Quel giorno era precisamente quello in cui la
Chiesa celebra la festa di san Vito. Questa coincidenza probabilmente non è
puramente casuale. I Danesi hanno voluto colpire lo spirito dei pagani,
distruggendo in quel giorno il loro grande santuario nazionale.
Non si sa cosa diventò il sommo sacerdote dell’idolo; se si fosse
convertito al cristianesimo, Saxo l’avrebbe sicuramente raccontato. Egli
scomparve o fu ucciso nei combattimenti. Il principe Tetislav5 abbracciò il
cristianesimo.
Nel 1868, in occasione del sesto centenario della distruzione di Arkona,
una commissione archeologica è stata istituita6 per studiare le antichità

alla radice vi, combattere. L’ipotesi è certamente molto ingegnosa. (N.d.A.)


1 Svit. (N.d.A.)
2 Krek, Einleitung, op. cit., p. 396. (N.d.A.)
3 «Arcon oppidum vetustissimi simulacri cultu inclytum» (XIII, p. 505). Questo simulacrum
è evidentemente l’idolo di Svantovit. (N.d.A.)
4 A meno che il nome di un santuario celebre per i suoi oracoli non si colleghi alla radice
rek, parlare. (N.d.A.)
5 Tetislav, principe di Rügen nel XII secolo, è noto anche con altre grafie: Tetislaw, Tezlaw,
Tetzlaw. Tezlaf, Tetzlaff, Tezlav, Tetzlaw, Tetzlaf, Tetzlaff, Tetzlav, Teslaw. (N.d.T.)
6 J. Wünsch, Rujana (Rügen) sulla rivista ceca Osvéta, Praga 1875. Io non ho visto il lavoro
di questa commissione. Sfortunatamente non ho trovato nulla di specifico nella brochure

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dell’isola. Essa ha trovato poco. L’isola è stata erosa dalle onde del Mar
Baltico che hanno portato via circa un metro ogni tre anni. Secondo i calcoli
di uno studioso ceco che l’ha visitata per una dozzina di anni, oggi il recinto
che corrisponde alla cinta classica di Arkona non occuperebbe che un quarto
del recinto originale. Ancora oggi si pretende di mostrare nella chiesa di
Altenkirchen un’antica immagine di Svantovit. (Si veda la riproduzione a
fine volume). Essa non risponde affatto alla descrizione di Saxo
Grammaticus. Sotto il portico della chiesa è sigillato nel muro un blocco di
pietra sul quale è scolpita una figura di un uomo di circa tre piedi di
lunghezza. Rappresenta una persona che tiene sul petto un enorme coppa
per bere. Il blocco è steso per terra per attestare, dicono gli abitanti, che il
paganesimo vinto si umilia davanti al cristianesimo. Purtroppo è sigillato nel
muro e non si può sapere cosa c’è dall’altro lato. Altenkirchen – lo dice il
nome – è ovviamente uno dei primi santuari cristiani dell’isola. Del resto il
personaggio che il blocco pretende di rappresentare non ha che una sola
testa. Noi sappiamo che Svantovit ne aveva quattro1.
Si è creduto di trovare un’immagine di Svantovit in un idolo che è stato
scoperto circa mezzo secolo fa in Galizia. Esso, senza essere la replica
esatta di quello descritto da Saxo Grammaticus, offre alcuni punti di
somiglianza che possono, a seconda del punto di vista in cui ci si trova,
confermare o far sospettare la sua autenticità. È stato scoperto nel 1848,
dopo un lungo periodo di siccità, nelle acque dello Zbrucz sul campo di
Kociubinczyki, vicino a Husyatin (Galizia orientale). La Società delle Scienze
di Cracovia (Towarzystwo naukowe) fu informata di questa scoperta dal
conte Mieczysław Potocki che offrì questo pezzo curioso per le loro
collezioni. Essa incaricò uno dei suoi membri, l’ingegnere Teofil Żebrawski,
di andare a prendere possesso dell’idolo. Una nota del conte Potocki e una
relazione di Żebrawski sono state inserite nell’Annuario (Rocznik) della
Società delle Scienze di Cracovia al 1852. Żebrawski riferisce una parola
curiosa che ci spiega la scomparsa di molti monumenti pagani. Il conte
Potocki, proprietario del campo di Kociubinczyki su cui l’idolo era stato
scoperto, aveva pensato di metterlo su un tumulo. Un paesano gli disse:
«Se era un santo, non avremo nulla da obiettare, ma se voi ci metterete
questo turco, lo faremo a pezzi». L’idolo, beninteso, non recava alcuna
iscrizione. Alcuni dettagli gli sono valsi il nome di Svantovit, sotto il quale si
designa ancora oggi a torto o a ragione2.
Questa è una statua quadrata sormontata da quattro teste, tutte riunite

di Rudolf Baier, Die Insel Rügen nach ihrer archaeologischen Bedeutung (Stralsund 1886).
Mi accontento di rinviare all’Archiv für Anthropologie, t. XXI, p. 591, e all’Anthropologie,
1894 (art. di Salomon Reinach). (N.d.A.)
1 Questo monumento è stato riprodotto in Aarboger for nordisk Oldyndighed og Historie,
1873, p. 327 (comunicazione del professore V. Thomsen), sull’Archiv für Anthropologie, t.
XXI, e nell’Anthropologie di Salomon Reinach. Si veda anche l’Archiv für Anthropologie
1898. L’ho riprodotto alla fine del volume. (N.d.A.)
2 Una rivista archeologica pubblicata negli ultimi anni in lingua polacca porta il nome di
Swiatowit. (N.d.A.)

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sotto un unico cappello. Essa è stato scolpita nella pietra calcarea silicea. La
sua altezza è di circa otto piedi (2,70 m); sulle quattro facce le braccia sono
rappresentate in rilievo. La mano destra è sollevata sul capezzolo sinistro.
La mano sinistra riposa quasi all’altezza dell’ombelico. Su entrambi i lati le
mani non tengono nulla. Su uno di essi la mano destra tiene una sorta di
anello, su un’altro un corno per bere (il corno di cui si parla chiaramente in
Saxo Grammaticus e si trova in molti altri monumenti)1. Su tre lati si
scorgono i piedi sporgenti, posati su un bassorilievo raffigurante una donna
(o un bambino), una sorta di cariatide sostenuta essa stessa da un
personaggio inginocchiato. Da un lato figurano una spada e un cavallo.
Quindi una serie di dettagli concordano con quelli che ci sono stati forniti da
Saxo Grammaticus. Anche gli archeologi polacchi non hanno esitato a
identificare la scoperta di Zbrucz come l’idolo descritto da Saxo
Grammaticus2. Ma questi dettagli (in particolare il cavallo) rendono proprio
la scoperta un poco sospetta. Se abbiamo a che fare con un lavoro prodotto
nel XIX secolo, è naturale che il falsario era ansioso di dargli tutti gli
attributi del vero Svantovit. Accolto con entusiasmo dai Polacchi, soprattutto
Lelewell che ha descritto e riprodotto l’idolo nella sua memoria sull’idolatria
slava3, lo Svantovit di Galizia lo è stato più freddamente tra gli Slavi. I
mitografi più recenti, Krek e Máchal, lo ignorano completamente.
Ho aperto un’inchiesta in Galizia circa l’autenticità di questo monumento.
Il mio dotto collega, professor Baudouin de Courtenay, dell’Università di

1 Oltre al lavoro di Weigel (Archiv für Anthropologie, t. XXI, p. 591), cfr. le memorie di A.
Hartmann, Becherstatuen in Ost Preussen (stessa raccolta, stesso anno, fasc. III). (N.d.A.
) – Il testo di Wiegel si intitola Bildwerke aus altslavischer Zeit del 1882, pubblicato in
libro nel 1892. (N.d.T.)
2 L’idolo in questione è apparso sulla copertina della Rivista di archeologia pubblicata a
Leopoli ma che ritengo non esca più. (N.d.A.)
3 Lelewell crede anche agli idoli di Prillwitz e al leone di Bamberga. Egli dichiara che i Danesi
conservano nel Museo di Copenaghen un idolo di Svantovit, il quale, secondo Thomsen,
non è mai stato illustrato. Tutte le questioni di mitologia e di linguistica slava mancano
completamente di critica. Secondo le informazioni raccolte a Cracovia da Beaudouin de
Courtenay, l’idolo sarebbe stato scoperto da un ingegnere (di cui non ha potuto dire il
nome), un emigrato polacco arrivato da Parigi o dal Belgio durante il periodo
rivoluzionario del 1847-1848. Egli comunicò la sua scoperta a Potocki, ma fu
improvvisamente costretto a lasciare la Galizia in seguito agli eventi politici. Potocki si
attribuì il merito della scoperta e inviò il monumento alla Società delle Scienze di Cracovia
(cfr. più oltre). Svantovit era il dio degli Slavi baltici, ma il suo culto si diffuse anche tra gli
Slavi della Galizia attuale? Non c’è alcun cenno a Svantovit negli annali polacchi, del resto
molto poveri di indicazioni mitologiche. La Cronaca polacca del Magister Vincentius,
vescovo di Cracovia, racconta all’anno 1109 il seguente episodio: « Est beati Viti Crusvicæ
(a Kruszwica nella Grande Polonia) basilica in cujus pinnaculo quidam inæstimabilis et
habitus et formæ visus est adolescens, cujus indicibilis, ut aiunt, splendor non modo
urbem sed urbis quoque proostia illustrabat. Hic eo desiliens cum aureo pilo turmas
eminus antecedit, non paucis claram numinis virtutem cernentibus et rei tantæ mysterium
tacita veneratione stupentibus; donec ad urbem Nakel pilum quod gestabat, quasi
vibrans, disparuit…». Incoraggiato da questo prodigio, Boleslao marciò contro la città di
Nakel e se ne impadronì. Si è visto nel ruolo assunto dal santuario di San Vito un vago
ricordo di Svantovit (Vincentii Cracoviensis episcopi Chronicon, in Bielowski, Monumenta
Poloniæ historica, II, p. 340). (N.d.A.)

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Cracovia, che pure non ha la pretesa di essere mitologo, mi scrive che non
vede alcuna ragione per cui si sia costruito questo idolo. Ahimè! gli idoli di
Prillwitz, le pietre runiche di Mikorzyn1 sono ormai riconosciuti per delle
falsificazioni evidenti. E noi ne avremmo molti altri da rilevare nella storia
degli Slavi nel XIX secolo. Queste mistificazioni si spiegano di solito con un
patriottismo mal inteso, si crede di creare dei titoli di nobiltà a popoli infelici
o ingiustamente disprezzati.
D’altra parte Kętrzyński2, direttore dell’Istituto Ossolinskich di Leopoli
(Lemberg), mi comunica le osservazioni seguenti: «Si dice che questo idolo
ha dovuto stare un migliaio di anni nell’acqua: esso dovrebbe essere
sprofondato parecchio nel fango, essere stato levigato dal corso d’acqua,
portare uno strato grossolano di limo. Ma nessuna di queste circostanze si è
verificata. Per un dio l’idolo ha troppi ornamenti impossibili da spiegare.
Perché Swiatovit (?) è raffigurato uomo e donna insieme? (Uno dei lati ha le
mammelle rigonfie.) Si conosceva da noi, mille anni fa, l’esistenza di
cariatidi? La parte superiore ricorda la descrizione di Saxo Grammaticus ma
è proprio questo fatto che è sospetto. La spada ricorda la forma di un
karabela (spada polacca)»3.
A fianco di Svantovit si dovrebbero mettere altre divinità simili il cui nome
termina in vit e che sembrano imparentate con il gran dio di Arkona, che
non ne sono forse che una replica o una variante. Saxo Grammaticus4 ci ha
descritto l’idolo Rugievithus (il Vit di Rügen) che era adorato nella città di
Karentina5. Esso era in un santuario chiuso soltanto da tendaggi di porpora.
Aveva una testa a sette facce. Teneva una spada nella mano destra; sette
spade erano appese alla cintura. La sua taglia era più grossa di quella di un
uomo, la sua altezza era come quella del vescovo Absalon che, alzandosi in
punta di piedi, toccava a malapena il mento con una scure che portava
abitualmente. Saxo Grammatieus compara Rugievit a Marte e dichiara che
presiedeva alla guerra. Quando i Danesi entrarono nel santuario, trovarono
l’idolo in uno stato deplorevole. Le rondini avevano fatto i nidi nelle pieghe
del suo volto («sub oris ejus lineamentis»), o piuttosto il suo volto e il suo

1 Su questi monumenti apocrifi, cfr. l’articolo di Jagić, Zur Slavischen Runenfrage, in Archiv
für slavische Philologie, t. V, p. 193. Weigel, nel lavoro sugli idoli slavi cui ho fatto
riferimento, riproduce e interpreta l’idolo di Zbrucz senza emettere alcun dubbio sulla sua
autenticità. Hartmann e Salomon Reinach ne ammettono l’autenticità. Confesso che io
non ne sono ancora convinto. Srezněvskij, che ha studiato l’idolo di Cracovia, si mostra
molto prudente. Sarei felice di vedere questa delicata questione definitivamente risolta in
un modo o nell’altro. Incaricato nel 1874 di una missione al Congresso Archeologico di
Kiev, ho visitato le collezioni di Cracovia. L’idolo in questione appartiene attualmente
all’Accademia delle Scienze di questa città. Majer, presidente dell’Accademia, mi ha
gentilmente offerto una riduzione che ho offerto io stesso al Museo di Saint-Germain,
dove è indicato con il n. 21.886. Salomon Reinach, in relazione col Museo, ha riprodotto
questo idolo nell’Anthropologie, 1894, p 174, e mi ha dato il suo cliché. Il barone d’Avril
ha inoltre fornito all’Istituto un facsimile del monumento. (N.d.A.)
2 Sull’originale è Kentrzynski, ma è un refuso. (N.d.T.)
3 Si veda più avanti. (N.d.A.)
4 P. 577. (N.d.A.)
5 Chiamata anche Charenza, Karentia, Karenz, Gharense, Korenitza. (N.d.T.)

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petto erano imbrattati dei escrementi. Non c’era niente di piacevole a


vedere quell’idolo; la scultura era molto grossolana. I Danesi gli spezzarono
le gambe (l’idolo era di legno di quercia) con un’ascia, il dio cadde e gli
indigeni, vedendo la sua impotenza, cambiarono il loro culto in disprezzo.
Vicino al santuario di Rugievit si elevava quello di Porevit 1. Questo dio
aveva cinque teste, ma non portava armi. Absalon ordinò di portare l’idolo
di Porevit così come quello di Porenutius fuori della città e di bruciarli. Gli
abitanti si rifiutarono a lungo di eseguire l’ordine; avevano paura di perdere
l’uso delle loro membra se si fossero prestati a questo sacrilegio. Absalon
assicurò loro che non avevano da temere alcuna punizione. Sueno, per
mostrare come bisognasse disprezzare questi dèi, si gettò sopra gli idoli e
obbligò gli abitanti di Karentina a trainarlo «nec minus trahentes rubore
quam pondere vejcavit», dice ironicamente Saxo Grammaticus2.
Infine, dalle biografie di Ottone di Bamberga si apprende l’esistenza di un
dio chiamato Herovith o Gerovit. Ebbo descrive il tempio di Gerovit, qui
lingua latina Mars dicitur, e che chiama anche Deus militiæ (Ebbo3 pensa
forse al tardo latino guerra). In questo tempio era sospeso uno scudo di
grandezza sorprendente che non era permesso di toccare ad alcun mortale.
Era dedicato al dio Gerovit e quando lo si portava davanti ai guerrieri, esso
dava loro la vittoria. Un prete tedesco se ne impossessò un giorno e, grazie
al prestigio di questa arma formidabile, poté sfuggire ai pagani che lo
inseguivano. Alla sola vista dello scudo essi scappavano o si gettavano
faccia a terra. Gli Havolini4 celebravano una festa in suo onore, all’inizio di
aprile. Gerovit era anche onorato a Velegost (Hologasta, Volgast), sulle rive
della Piena5, gli si era dedicato un tempio. Quando il vescovo Ottone si
presentò davanti a questa città la trovò imbandierata di drappi e
occupatissima a celebrare una festa in onore di Gerovit6. È ben difficile
ammettere che tutti questi nomi di fisionomia e di attributi così differenti

1 La Knytlinga saga (op. cit.) menziona sia l’idolo di Renvit che quello di Puruvit. (N.d.A.)
2 Saxo cita alcune punizioni soprannaturali inflitte dagli dèi, o piuttosto dai demoni, agli
Slavi pagani. Porta un esempio difficile da tradurre: «Nec mirum si illorum potentiam
formidabant a quibus stupra sua sæpe numero punita meminerant. Si quidem mares in ea
urbe cum fœminis in concubitum adcitis canum exemplo cohærere solebant, nec ab ipsis
morando divelli poterant, interdum utrique perticis e diverso appensi inusitato nexu
ridiculum populu spectaculum præbuere. Ei miraculi fœditate solennis ignobilibus statuis
cultus accessit creditumque est earum viribus effectum quod dœmonum erat præstigiis
adumbratum». Questo dettaglio si trova ripetuto nella Knytlinga saga. Un po’ più avanti
(p. 579) Saxo Grammaticus racconta i miracoli seguiti alle preghiere dei nuovi sacerdoti
cristiani: «Nec prædicationis eorum ministerio miracula defuere». Evidentemente egli
intende opporre a quei miracoli pagani, che non nega, dei miracoli cristiani non meno
convincenti. (N.d.A.)
3 Ebbo (III), in Pertz, Monumenta Germaniæ Historica, VII, p. 861, 865; Herbord, III, 6.
(N.d.A.)
4 In francese Havoliens, in russo Chavolini. Era una delle tribù slave insediate tra l’Elba e
l’Oder. (N.d.T.)
5 Affluente del fiume Oder. (N.d.A.)
6 «Civitas vexillis undique circumstantibus cujusdam idoli Geroviti nomine celebritatem
agebat». (N.d.A.)

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non siano che degli omonimi del san Vito di Corvey.

Nota complementare sulla scoperta dell’idolo dello Zbrucz

Kętrzyński, direttore dell’Istituto Ossolinskich di Leopoli, ha volentieri


condotto per me un’inchiesta sulle circostanze in cui era stato scoperto
l’idolo dello Zbrucz. Pawłowicz, di Leopoli, ha redatto per lui la nota
seguente che traduco letteralmente:
«Nel 1873 ho incontrato, sulle acque di Iwonicz, il signor Korwin
Bieńkowski, ingegnere, che mi ha detto quanto segue:
«Nel 1848 ho trascorso qualche tempo a Liczkowa, proprietà di
Konstantin Zaborowski, in Podolia, tra Husiatyn, Satanów e Tusk. Un giorno
del mese di agosto, viaggiavo a cavallo lungo lo Zbrucz non lontano dalle
colline di Miodobor dove si vedono ancora oggi le rovine; le acque erano
basse a causa della prolungata siccità. Ho visto al di sopra della loro
superficie, qualcosa che assomigliava a un berretto. Convinto che là vi fosse
un annegato, mi gettai in acqua; arrivato vicino all’oggetto, mi resi conto
che si trattava di una figura di pietra; essa emergeva dal fondo dell’acqua
ed era inclinata diagonalmente dalla riva russa alla riva galiziana. In questo
punto, il fiume era abbastanza profondo e non c’era un vortice violento; io
non ho potuto riconoscere immediatamente le forme o le dimensioni
dell’oggetto. Mi parve straordinario e decisi di estrarlo dall’acqua con l’aiuto
dell’intendente Gawlowski, che attualmente risiede a Leopoli; approfittai del
fatto che il posto di guardia cosacco della riva russo era abbastanza
distante. Fu necessario impiegare per questo lavoro sei paia di buoi che con
gran difficoltà tirarono la statua fuori dell’acqua. Quando essa fu emersa, si
constatò che la parte inferiore era staccata. Il colore della pietra, quando
uscì dall’acqua, era del tutto bianca e non si scurì che dopo qualche giorno.
La statua uscita dall’acqua fu depositata nella corte, sotto la grondaia di un
capannone dove rimase fino a quando il proprietario la cedette a Mieczysław
Potocki, conservatore delle antichità della Galizia, che lui stesso offrì poi alla
Società delle Scienze di Cracovia. Poco tempo dopo fui costretto dalle
circostanze politiche a lasciare il paese per lungo tempo.
«Così non fu Potocki – che si attribuiva l’onore della scoperta e che non fu
altro che il donatore – ma Bieńkowski che la scoprì e la portò alla luce.
«Verso la fine della sua vita, Bieńkowski aveva indirizzato una richiesta al
Comitato permanente al fine di ottenere una gratificazione per il servizio
che egli aveva reso all’archeologia. Non so se l’abbia ottenuta.
«E. Pawlowicz.
«Leopoli, 10 gennaio 1896».

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Capitolo IV

VOLOSŬ-VELESŬ

Vicino a Perunŭ, nel trattato che abbiamo citato sopra, figura, come
garante degli impegni assunti dai Russi, Volosŭ dio del bestiame1. Non è
chiaro perché un dio del bestiame si trovi richiamato solo accanto al dio del
tuono. Ci si può chiedere se le parole «dio del bestiame» non siano, sotto la
penna del cronicista cristiano, un epiteto sprezzante, qualcosa che assomigli
a dio dei bruti, dio degli imbecilli. (La parola skot, bestiame, ha oggi in
Russia questo doppio significato.) Comunque sia, Volosŭ figura in altri testi
slavoni russi. Il monaco Iakov (XI secolo), nella sua biografia di san
Vladimir2, ha scritto che Vladimir fece gettare un idolo di Volosŭ nella
Počajna3. Secondo il biografo di Avraamij di Rostovŭ (XII secolo), l’apostolo
avrebbe distrutto in questa città4 un idolo di pietra di Velesŭ (sic), dio per il
quale i Finni vicini degli Slavi avevano una venerazione particolare 5. La
forma Velesŭ si ritrova anche in un celebre testo di origine greca: Il viaggio
della Madre di Dio fra i tormenti6. Egli è associato a Trojanŭ, Chorsŭ (Chŭrsŭ
) e Perunŭ. Lo si trova sotto la forma Velesŭ nel Canto della schiera di Igor’,
testo contro il quale faccio, come si sa, le più manifeste riserve7.
Il nome di Velesŭ-Volosŭ si è perpetuato nel folclore russo e sembra
essersi identificato con quello di Vlasij o san Biagio, patrono del bestiame8,
come Perunŭ si è confuso con sant’Elia. Qui l’identificazione è più curiosa:
essa porta allo stesso tempo il nome e gli attributi del personaggio mitico.
Naturalmente, come si è voluto prendere Svantovit per san Vito, la scuola
ipercritica nega l’esistenza di Volosŭ-Velesŭ come un dio pagano e ne fa
semplicemente un sostituto di san Biagio.

1 Krek ha pubblicato nel 1876 sull’Archiv für slavische Philologie, uno studio su Veles, Volos
und Blasius. Questo lavoro è ora vecchio e incompleto insieme. (N.d.A)
2 Citato da Krek, op. cit., p. 452. Non ho il testo slavone sotto gli occhi. (N.d.A) – Fu il
metropolita Makarij (XIX secolo) ad attribuire al monaco Iakov Černorizec (XI secolo) due
scritti sulla vita e la conversione del santo principe Vladimir di Kiev e uno sui santi Boris e
Gleb. (N.d.T.)
3 Affluente del Dnepr. (N.d.T.)
4 Rostovŭ [Rostov] si trova nell’attuale governatorato di Jaroslavl’. (N.d.A.)
5 In Krek, ib. (N.d.A.)
6 Jagić, Archiv für slavische Philologie, XI, p 305. (N.d.A.) – Il Viaggio della Madre di Dio fra
i tormenti (Choždenie Bogorodicy po mukam) fu liberamente tradotto, dal greco, in Russia
nel XII secolo e pubblicata per la prima volta in Occidente nel 1893 dal britannico
Montague Rhodes James. In essa si racconta che sul Monte degli Ulivi, quindi poco prima
della Dormizione, la Vergine Maria prega Cristo di mostrale l’inferno e l’aldilà. Appare
l’arcangelo Michele che porta la Vergine a ovest dove ella vede la terra aprirsi, rivelando la
fine di coloro che non adoravano la S. Trinità, e una grande oscurità dove giacciono gli
infedeli (tra cui gli idoli), anime tormentate dai demoni con la pece bollente, per le quali
nessuno (né Abramo, Giovanni il Battista, Mosè o san Paolo) può intercedere. (N.d.T.)
7 Sreznĕvskij non ha affatto espresso la forma Velesŭ nei suoi Materiali per un dizionario
dell’antico russo, egli non conosce che la forma Volos. (N.d.A.)
8 Ci si riferisce a san Biagio vescovo di Sebaste morto nel 316. (N.d.T.)

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Secondo Afanas’ev1, ecco ciò che accade al momento del raccolto. Uno
dei mietitori prende una manciata di spighe e la lega. Questa manciata è
sacra. Nessuno deve toccarla. Ciò è detto «torcere la barba di Volosŭ o
Perunŭ». La barba di Volosŭ protegge le messi contro ogni forma di
maleficio. È chiamata anche la barba di Elia, di san Nicola o di Perunŭ2.
A proposito della confusione di Volosŭ-Velesŭ con i santi cristiani, Buslaev
ha notato un particolare curioso. Vi era nell’antica Russia, a sedici miglia da
Vladimirŭ una località chiamata Volosovo, in cui si trovava un monastero di
San Nicola; questo monastero aveva forse sostituito un luogo consacrato al
culto di Volosŭ. A Novgorod, un tempio di san Biagio fu costruito sul sito
dove si elevava un idolo di Volosŭ3.
Coloro che parteggiano per l’identità di san Biagio e di Volosŭ-Velesŭ
fanno notare che alcuni santi russi sono entrati nel pantheon degli
allogeni pagani4, così come san Nicola è diventato un dio tra i Samoiedi; allo
stesso modo san Biagio (Vlasŭ-Volosŭ) avrebbe potuto diventare un dio tra
gli Slavi pagani del Dnepr o del Volga. Una questione delicata è quella di
sapere come Volosŭ abbia potuto diventare Velesŭ; io non conosco alcun
esempio di tale mutazione in russo nei nomi propri. Vlad dà Volod e mai
Veled.
Una questione altrettanto imbarazzante è quella di sapere come il latino
Blasius (diventato in ceco, conformemente a leggi molto normali, Blažej
(pron. Blajeï) avesse potuto dare in questa stessa lingua la forma Veles. Ma
è certo che la parola Veles compare nei testi cechi del XV e del XVI secolo.
Essa non designa una divinità in particolare, ma il demonio. I testi sono
assai vaghi. «Lasciamo questi peccati da Veles» (o il Veles) (sermone del
1471). «Quale demone, quale Veles l’ha eccitato contro di me?» scrive
l’autore noto sotto il nome di Tkadleček (il tessitore, XIV secolo)5. Tomáš
Rešel (XVI secolo), scrive nella sua traduzione del Libro di Gesù di Sirach (o
Ecclesiastico) di Caspar Huberin: «Un uomo voleva che la moglie diventasse
un’oca selvatica, fuggisse al di là del mare e non tornasse più». Il testo
tedesco dice: «dass ein solch boess Weib wer ein Ganss und fluege über
Meer und keme nimmermehr heim»; il traduttore ceco ha detto: «Che la
donna diventi un’oca selvatica e che ella fugga da qualche parte presso
Velesŭ (k Velesu) al di là del mare». Questa glossa di Rešel è stata
riprodotta da uno scrittore ceco del XVI secolo, Zamrský. In questi differenti
testi, Veles vuole ovviamente dire il diavolo. Noi non troviamo Veles né in
Polonia, né presso gli Slavi meridionali.

1 T. I, p. 697. (N.d.A.)
2 Afanas’ev, op. cit., p. 474, 475, 476, 697-98. (N.d.A.)
3 Pogodinŭ, Drev. Russkaja istorija, II, p. 637. (N.d.A.) – Il riferimento esatto è M.P.
Pogodin, Drevnjaj Russkaja istorija do Mongolskogo iga (Storia dell’antica Russia fino alla
dominazione mongola), in tre volumi, 1871. (N.d.T.)
4 Allogeno: che appartiene a un’etnia diversa. (N.d.T)
5 Tkadleček è il titolo di una delle poesie più importanti del tardo Medioevo tedesco che fu
scritta da un anonimo alla fine del XIV secolo o all’inizio del XV, al quale si dette come
nome Tkadleček. (N.d.T.)

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Sicuramente il nome di Velesŭ-Volosŭ è difficile da spiegare con una


radice slava. Miklošič1 – qui, sia detto per inciso, ha trascurato o ignorato la
forma ceca Veles2 – ritiene che, nonostante le difficoltà fonetiche bisogna
collegare Volosŭ-Velesŭ al greco , come si collega Svantovit a san
Vito. È stato segnalato un altro avvicinamento, un dio scandinavo Volsi che
risponde a Priapo3, che merita di essere studiato attentamente. Gli
Scandinavi erano numerosi a Kiev e avrebbero potuto portare con sé il
nome di una delle loro divinità. Questa è una questione per gli scandinavisti.
Il folclore lituano conosce anche un diavolo Welnes che alloggia su una trave
del fienile o nel focolare della fattoria4.
Sia quel che sia, il cristianesimo ha dovuto mettere a profitto l’indubbia
5
somiglianza dello slavo Velesŭ-Volosŭ e del greco . Ci sono due
santi Biagio: l’uno, originario di Cesarea di Cappadocia e pastore ,
l’altro vescovo e martire. Questo è naturalmente il primo che nella sua
qualità di pastore è il patrono delle greggi. Egli è onorato come tale dai
Greci. Avrebbe strappato a un lupo affamato il maiale di una povera donna6.
In Bulgaria il suo culto è molto diffuso. È grazie a lui che le pecore hanno un
bel vello (vlasŭ). Egli le preserva da una malattia chiamata anche vlasŭ7. Si
riconosce qui l’influenza dell’etimologia popolare. È così che, in alcune
province, san Cornelio è il patrono delle bestie con le corna, santa Lucia
guarisce le malattie degli occhi e sant’Aignan (pron. teignant) la tigna. In
Russia, san Biagio è invocato nelle epizootie: si porta la sua immagine nelle
stalle dove ci sono animali malati8.
A fianco di Perunŭ e di Velesŭ, noi vediamo emergere nei testi russi un
certo numero di altre divinità, Chorsŭ (Chorŭsŭ, Chŭrsŭ), Daždŭbogŭ,
Stribogŭ, Smorglŭ o Simarglŭ, Mokošĭ.
La Cronaca detta di Nestore ci dice sotto l’anno 980 che Vladimir eresse
su una collina gli idoli di queste divinità accanto a quelli di Perunŭ. La sua
testimonianza è confermata da un’infinità di testi che vanno dal XII al XV
secolo9. Considereremo successivamente queste diverse divinità.

1 Miklošič, Etymologisches…, op. cit., sub voce. (N.d.A.)


2 Miklošič aveva appena letto gli antichi testi cechi. Sembra averli ignorati per partito preso.
(N.d.A.)
3 Archiv für slavische Philologie, XII, p. 601. (N.d.A.)
4 Globus, 1898, 318. (N.d.A.)
5 Sulle difficoltà fonetiche, cfr. la discussione di Krek, op. cit., p. 476. Krek suppone che
Veles fosse la forma primitiva. (N.d.A.)
6 Bernhard Schmidt, Das Volkleben der Neugriechen, 1, 35. (N.d.A.) – Il titolo completo è
Das Volksleben der Neugriechen und das hellenische Altertum, Leipzig 1871. (N.d.T.)
7 Articolo di Šišmanov in Bŭlgarski Sbornikŭ, t. IX, p. 531. (N.d.A.)
8 [Aleksej] Popov, Vlijanie cerkovnogo učenja (Kazan’, 1883, pp. 113-115). (N.d.A.) – Il
titolo completo è Vlijanie cerkovnogo učenija i drevnerusskoj duchovnoj pis’mennosti na
mirosozercanie russkogo naroda i v častnosti na narodnyju slovesnost’ v drevnij do
petrovskij period (L’influenza della dottrina della Chiesa e la scrittura nella visione
dell’antico mondo spirituale del popolo russo e in particolare la letteratura popolare del
periodo antico prima di Pietro il Grande). (N.d.T.)
9 Questi testi sono elencati e citati nel libro di Krek, Einleitung…, op. cit., pp. 384-385.

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CHORSŬ

I testi non ci forniscono alcun orientamento sul ruolo e le competenze di


questa divinità. Lascio volutamente da parte il Canto della schiera di Igor’
che mi sembra molto sospetto e dopo il quale si è fatto di Chorsŭ uno dio
solare1. Un testo scoperto da Sreznĕvskij cita, tra Perenŭ (Perunŭ) e Mokošĭ,
Apolinŭ, ossia Apollo. Se Apollo sta qui per Chorsŭ, Chorsŭ è ovviamente un
dio del sole. Il suo nome non compare nelle lingue slave di etimologia
soddisfacente, coloro che lo collegavano all’iraniano2, Khor, Khores, Khoreš,
non lo sono più. Si è anche provato a stabilire una relazione tra questo dio
puramente russo e l’aggettivo chorošŭ che significa buono. Tale
approssimazione non può più sostenersi dopo che Jagić ha dimostrato che
l’aggettivo deriva dalla radice chorn che esprime, tra altre, l’idea di
custodire, conservare, e di conseguenza mettere in ordine. Non sarebbe
semplicemente il greco e questo nome non potrebbe essere stato
dato a una statua d’oro da alcuni artigiani greci che dovevano essere
piuttosto numerosi a Kiev? Menzioniamo ancora il testo tratto da un apocrifo
che dice: «Ci sono due angeli del tuono, l’Elleno (il pagano) Perunŭ e l’Ebreo
Chorsŭ». Jagić suppone che Chorsŭ sia identico a Dažbogŭ. Questo nome di
Dažbogŭ, di origine sud-slava si sarebbe sostituito a quello di Chorsŭ perché
ha una fisionomia più slava3.

DAŽBOGŬ

Abbiamo numerosi testi su questa divinità al di fuori della Cronaca detta


di Nestore, che ci dicono che Vladimir eresse il suo idolo a Kiev. Lo
incontriamo nella traduzione slavone di Giorgio Amartolo in cui il suo nome
traduce il greco e nel testo infinitamente curioso della Cronaca detta
ipaziana, sotto l’anno 1114. Traduco questo testo integralmente:
«In quest’anno fu fondata Ladoga e gli abitanti di Ladoga mi raccontarono
questo: Quando c’è un gran temporale, i bambini trovano degli occhi di
vetro… sulle rive del Volchovŭ. È l’acqua che li rigetta. Io ne raccolsi più di
cento, e ce ne sono di diverse specie. Questo fatto mi sorprese ed essi mi
dissero: Questo non è sorprendente. Noi abbiamo ancora dei vecchi che
sono andati nel paese degli Iugri e dei Samoiedi; là essi hanno visto una
tempesta in quel paese del nord. Ma in questa tempesta cade un piccolo

(N.d.A.)
1 Il principe Vsevolodŭ corse prima del canto del gallo da Kievŭ a Tmutorakanŭ [Kiev,
Tmutorakan] e tagliò la strada al grande Chorsŭ [Chors], cioè – secondo i commentatori –
arrivò a Tmutorakanŭ prima dell’alba. (N.d.A.) – Vsevolod Jaroslavič (1030-1093) fu
gran-principe di Kiev dal 1078 alla morte. (N.d.T.)
2 Cfr. Krek, p. 391. (N.d.A.)
3 Archiv für slavische Philologie. t. V. pp. 8-9. Recentemente si è proposto un avvicinamento
tra Chorsŭ e il vogulo Kwores, soprannome del dio del cielo. (N.d.A.) – Il vogulo, o mansi,
è una lingua ugro-finnica parlata nella Russia settentrionale a est degli Urali. (N.d.T.)

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scoiattolo, un neonato si direbbe; egli cresce e si incammina sulla terra.


Viene un’altra tempesta; sono dei piccoli cervi che cadono in questo
temporale; essi crescono e si incamminano sulla terra. Ma se qualcuno non
presta fede a quello che legge il fronografo (sic. Il cronografo in questione è
Giorgio Amartolo).
«Al tempo di Provŭ (Probus), ci fu una grande pioggia e un gran
temporale e cadde del grano mescolato a molta acqua e se ne riempirono
delle grandi casse. Nello stesso tempo di Avrilien (Aureliano) scesero dei
frammenti d’argento e in Africa caddero tre grandi pietre. Tuttavia, dopo il
diluvio e la separazione delle lingue, cominciò a regnare Mestromŭ della
razza di Cham, dopo di lui Eremia, dopo di lui Feosta che gli Egiziani
chiamavano Svarogŭ1. Ma mentre questo Feosta regnava in Egitto, caddero
delle tenaglie dal cielo e si cominciò a forgiare le armi, perché prima si
combatteva con bastoni e pietre. Ma questo Feosta (Hefaistos) stabilì per le
donne la legge di non sposare che un solo uomo, di vivere castamente, e
ordinò di punire gli adùlteri. Questo è il motivo per cui è stato chiamato il
dio Svarogŭ; perché prima di lui le donne si concedevano a chi volevano
loro e conducevano una vita bestiale; quando avevano un figlio, esse
l’aggiudicavano a chi volevano dicendo: Ecco il tuo bambino – e l’uomo
faceva una festa e l’accettava. Ora Feosta distrusse questa legge e stabilì
l’uso che ogni uomo avrebbe avuto una sola moglie e ogni donna un solo
uomo. Chiunque violava questa legge sarebbe stato gettato in una fornace
ardente. È per questo che si è chiamato Svarogŭ e gli Egizi l’adoravano.
Dopo di lui regnò suo figlio chiamato il Sole, che lo si chiamò Dažbogŭ per
7470 giorni. Ma il re Sole figlio di Svarogŭ, che è Dažbogŭ, era un uomo
vigoroso. Apprese da qualcuno che c’era una donna egizia ricca e che
qualcuno voleva fare adulterio con lei; egli volle prenderla e non volendo
violare la legge di suo padre Svarogŭ, prese con sé pochi uomini e dopo
aver visto il momento in cui ella commetteva adulterio, la sorprese di notte
con il suo complice, la fece torturare e camminare vergognosamente in tutto
il paese, e la vita pura si stabilì in Egitto».
Il testo appena letto è tradotto da Giorgio Amartolo 2, eccetto
naturalmente le glosse che noi abbiamo sottolineato e sono opera del
traduttore. Torneremo in seguito su Svarogŭ; notiamo semplicemente che
Dažbogŭ è qui identificato con il Sole ed è considerato figlio di Svarogŭ.
3
Altrove, si tradusse il greco . Questa identificazione è confermata
dalla interpretazione della parola Dažbogŭ. Se si ammette che bog significhi
dio, è il dio che dona, che feconda, è colui che dà la ricchezza.
Il nome di Dažbogŭ non si trova nei testi occidentali. In alcuni racconti

1 Su Svarogŭ, si veda più avanti. (N.d.A.)


2 Monaco greco del IX secolo, autore di un . V. Krumbacher, Geschichte der
Byzantinischen Litteratur, p. 429. (N.d.A.) – Non V. Krumbacher ma Karl Krumbacher; il
titolo completo è Geschichte der byzantinischen Literatur von Justinian bis zum Ende des
oströmischen Reiches, pubblicato nel 1891. (N.d.T.)
3 Si veda Jagić, Archiv für slavische Philologie, t. V, p. 1. (N.d.A.)

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popolari serbi ci sono un Dabog, che è il re della terra, e un Bog, re del


cielo. Questi testi sono stati trovati nel dizionario serbo-croato
dell’Accademia di Agram e da Jagić (Archiv für slavische Philologie, V, p. 114
)1.
Il Dabog serbo è identico al diavolo. Certamente, la parola dabog non è
lontana dal latino diabolus, ma in serbo si è formata la parola «diavolo» sul
greco e pronuncia diavo. Foneticamente dabog potrebbe sostituirsi
a diavo.

SIMARGLŬ

Una divinità più imbarazzante da spiegare è quella che le cronache russe


designano con il nome di Simarglŭ o di Sima e Rgla. Come si vede Simarglŭ
è in una parola sola o è divisa come fecero i testi posteriori in Sim e Regl,
non ottenendo alcun senso in slavo. Questo è un dio straniero. Finora le
ipotesi non hanno dato un’interpretazione soddisfacente. Si è pensato a un
testo della Bibbia (2Re 17): «Le nazioni fecero ciascuna i loro dèi… le genti
di Cuth fecero Nergal , gli uomini di Hamath fecero Aschima
»2. Il confronto è allettante, ma c’è una grave difficoltà.
sono femminili in greco e nel testo slavo originale noi
abbiamo solo una parola ed è maschile. Una congettura ingegnosa è quella
3
di N. Gedeonov che vede in Simarglŭ la corruzione del greco .
In sintesi, Simarglŭ non appartiene al pantheon slavo e fino a nuovo
ordine ci è impossibile sapere qual è la vera divinità che il cronicista ha
voluto designare con questo nome strano.

MOKOŠĬ

Non siamo meno imbarazzati nel determinare l’esatta natura di Mokošĭ,


una delle divinità di cui Vladimir eresse l’idolo sulla collina di Kiev. Mokošĭ
non è soltanto attestato dalla Cronaca fondamentale, ma anche da altri testi

1 In Archiv für slavische Philologie, V, p. 114. Dažbogŭ compare anche nel Canto della
schiera di Igor’ quando il popolo russo è chiamato il nipote di Dažbogŭ. Una tale
denominazione sembra impossibile sotto la penna di un cristiano. Questo epiteto mi pare
un argomento terribile contro l’autenticità, se non l’intero canto, almeno di certi passaggi.
(N.d.A.)
2 «Tuttavia ciascuna nazione si fabbricò i suoi dei e li mise nei templi delle alture costruite
dai Samaritani, ognuna nella città ove dimorava. Gli uomini di Babilonia si fabbricarono
Succot-Benòt; gli uomini di Cuta [Cuth o Cuthah] si fabbricarono Nergal; gli uomini di
Amat si fabbricarono Asima» (2Re 17,29-30). (N.d.T.)
3 Archiv für slavische Philologie, t. V. p. 6. Un idolo a sette teste sarebbe stato nella lingua
degli Slavi baltici Sedmaruglav (cfr. Triglav). Questo nome si sarebbe qui sfigurato
arrivato fino in Russia, come quello di Suarasici? Questa ipotesi non è mai stata emessa
finora. Mi permetto di rischiarla. (N.d.A.) – Lo storico citato non è N. Gedeonov ma
Stepan Gedeonov, autore dell’opera Varjagi i Rus (1876), in cui cercò di dimostrare
l’origine slava occidentale del Varjaghi. (N.d.T.)

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slavo russi del Medio Evo1. In un testo religioso del XVI secolo, un
nomocanone citato da Veselovskij2, figura un personaggio di nome Mokuša
che svolge il ruolo di una strega. Il sacerdote che confessa una donna
chiede: «Non sei andata a vedere Mokuša?» Nel nord della Russia il folclore
conosce ancora oggi Mokuša. È una donna che appare durante la Grande
Quaresima, visita le case, sorveglia le filatrici3. Se il loro arcolaio si agita,
cigola durante il loro sonno, dicono che è Mokuša che ha filato. Ella si
occupa anche del bestiame; se un agnello non tosato perde la lana, si dice
che Mokuša l’ha tosato; la notte si lascia vicino alle forbici un fiocco di lana.
È una offerta a Mokuša4.
Se il nome Mokuša non è di origine finlandese, deve collegarsi alla dea
Mokošĭ della Cronaca. Nulla indica gli attributi di questa dea. Il suo nome
può essere collegato alla radice mok (umidità, morbidezza), ma il suffisso
ošĭ è imbarazzante. Jagić5 fa di Mokošĭ di traduzione dal greco . Egli
cita, oltre Tichonravov, dei testi di cui non ho davanti l’originale e secondo i
quali Mokošĭ sarebbe la traduzione dal greco , ossia la divinità
impura che suggerisce il peccato di Onan6.

SVAROGŬ, SVAROŽIČŬ, SVARASICI

Nel capitolo dedicato a Dažbogŭ, abbiamo citato un frammento tradotto


dal greco (dopo il testo detto ipatievskij) di Giorgio Amartolo, nel quale il
nome di Svarogŭ compare tradotto da . Il nome di Svarogŭ non si
trova che in questo unico testo.
Al contrario uno Svarožičŭ o figlio di Svarogŭ, si incontra nei testi russi
del XIV, XV e XVI secolo. Essi spiegano Svarožičŭ col fuoco. «Essi invocano il
fuoco, chiamandolo Svarožičŭ».
Questo Svarožičŭ fa naturalmente pensare a un dio Zuarasici, di cui
Tietmaro segnala l’idolo nel tempio di Redigast presso i Rethari (VI, 23):
«All’interno del tempio si trovano degli dèi fatti a mano, dei fatti a mano,
ciascuno con il proprio nome inciso, vestiti in modo terribile con elmi e
corazze; il primo tra essi si chiama Zuarasici; egli è onorato più di tutti gli
altri da tutti i pagani. Accanto a questi dèi sono i loro stendardi che lasciano
il tempio soltanto per le spedizioni».
D’altra parte l’esistenza di un dio chiamato Zuarasici ci è attestata da una
lettera di san Bruno all’imperatore Enrico II. Questo documento risale ai

1 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 395 e 407. (N.d.A.)


2 Rivista (russa) del Ministero dell’Istruzione pubblica, luglio 1889. (N.d.A.)
3 Miklošič, nel suo dizionario etimologico [op. cit.], ha una distrazione singolare. Dichiara
che la parola Mokošĭ è presa in prestito da uno sbornik del XVI secolo. Ma questa parola si
trova in tutte lettere nella sua edizione di Nestore: Chronica Nestoris (Vienna, 1860), p.
46, riga 27. (N.d.A.)
4 Barsov, Commentario del Canto della schiera di Igor’ citato da Veselovskij, op.cit. (N.d.A.)
5 In Archiv für slavische Philologie, V, p. 7. (N.d.A.)
6 La derivazione di Mokošĭ è contestata da Krek, op. cit., p. 407, ma i testi citati da Jagić
sono molto precisi e non sembrano dare adito a un’altra interpretazione. (N.d.A.)

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primi anni del secolo XI. L’imperatore, per fare la guerra ai Polacchi, si era
alleato con il popolo slavo dei Veleti, allora pagani. Bruno gli rimproverò
questa alleanza e lo interpellò così: «Bonumne est persequi christianum et
habere in amicitia populum paganum? Quæ conventio est Christi ad Belial?1
Quæ comparatio lucis ad tenebras ? Quomodo convenient Zuarasiz diabolus
et dux sanctorum vester et noster Mauritius? Qua fronte coeunt sacra
lancea et diabolica vexilla?»2 Ciò che risulta molto chiaramente da questo
testo è che lo Zuarasici degli Slavi dell’Elba è un dio guerriero. Uno Svarasiz
figura anche nella Knytlinga saga3.
Questo Dio è evidentemente imparentato con lo Svarožičŭ russo che
sembra lui stesso derivato da Svarogŭ. Ma Svarožičŭ è un dio indigeno
russo o molto semplicemente importato in Russia? Jagić4, suppone che
Zuarasici, altrimenti detto Svarožič, è semplicemente stato importato dagli
stranieri e che su questa forma patronimica si sia costruita una forma
Svarogŭ.
L’ipotesi è certamente molto ingegnosa. Jagić fa notare che Svarogŭ e
Svarožičŭ non figurano nelle antiche cronache russe, ma apparirono molto
tardi. Egli suppone che venissero da Novgorod che era in rapporti costanti
con gli Slavi del Baltico. D’altra parte, il traduttore andando a interpretare il
nome di , ha potuto pensare al verbo russo svaritĭ, svarivatĭ,
forgiare. Questa ipotesi non toglie nulla alla realtà dello Svarozici o Suarasici
di Tietmaro e di Bruno.
Krek (p. 332) tiene per l’autenticità di Svarogŭ e gli dà un’interpretazione
indo-europea (sanscrito svarga, il cielo mutevole, il cielo nuvoloso). Ma non
si spiega come svarogŭ avrebbe dato Svarožičŭ. Nebo (in slavo, cielo) dà un
aggettivo nebeskij, celeste, e non nebesič. Svarogŭ, nel senso di cielo,
avrebbe dato Svarožskij. Syrku5 segnala la parola rumena svarogŭ che
significa secco, magro, surriscaldato. Questa parola non è certamente di
origine latina. Syrku suppone che sia stata presa in prestito dalle lingue
slave, dove aveva un senso di sole. Miklošič6 ha rilevato come nome di
località presso i Casciubi, Svaroženo. Egli suppone una radice sŭr, che non
giustifica altrove. Sarebbe interessante individuare la località detta
Svaroženo; ma Miklošič non fornisce alcuna indicazione precisa.
Insomma è certo che non vi era tra gli Slavi dell’Elba un dio – molto
probabilmente un dio della guerra – che si chiamava Suarasici. La finale qui
sembra un patronimico. Ma noi non abbiamo, in quel poco che sappiamo di
mitologia slava, alcun esempio di famiglia o di filiazione di divinità. Non
sappiamo chi è il padre di Suarasici. Lo Svarogŭ russo sembra sospetto. È
un danno. Questa sarebbe la chiave di volta del sistema mitologico russo

1 Lettera di San Paolo ai Corinzi, II, VI, 15. (N.d.A.)


2 Bielowski, Monumenta Poloniæ historica, t. I, p. 226. (N.d.A.)
3 Archiv für slavische Philologie, IV, p. 124). (N.d.A.)
4 Archiv für slavische Philologie, IV, 412. (N.d.A.)
5 Rivista (russa) del Ministero dell’Istruzione pubblica, maggio 1887. (N.d.A.)
6 Dict. étym. sub voce Svarogŭ. (N.d.A.)

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baltico1.

STRIBOGŬ

L’idolo di questo dio appare a Kiev insieme a quelli di Perunŭ, di Chorsŭ,


di Mokošĭ (si vedano i riferimenti su queste divinità).
Il suo nome è composto, come quello di Cernibog di Helmold e di
Dažbogŭ delle Cronache russe. A parte la Cronaca detta di Nestore, non si
ritrova che in testi dubbi come il Canto della schiera di Igor’. Ma il modo
stesso in cui vi figura è uno degli argomenti che io invoco per contestare
l’autenticità di questo testo. Non ammetto che uno scrittore cristiano del
XIII secolo possa aver avuto l’idea di designare i suoi compatrioti e
correligionari come nipoti di un dio pagano. Un po’ più lontano l’autore del
Canto chiama i venti i nipoti di Stribogŭ. Se questa descrizione fosse stata e
autentica e esatta, essa avrebbe potuto farci luce sul ruolo e gli attributi del
dio.
Miklošič rinuncia a spiegare questo nome. Jagić lo fa provenire da un
verbo stěrěti, lituano styrieti, starr, steiff sein, erstarren essere rigido o
congelato. Questo sarebbe un dio del freddo. Non ha alcuna analogia
conosciuta presso i popoli slavi al di fuori della Russia.

TROJANŬ – TRAIANO

Esiste nella letteratura greca del Medioevo, un racconto intitolato:


Rivelazione della Santa Madre di Dio sulle punizioni
. Questo documento è stato
tradotto in slavone russo nel XII secolo2. La Vergine ottiene dal Signore il
permesso di visitare gli inferi condotta dall’arcangelo san Michele, che le
mostra i tormenti dei dannati e le spiega le ragioni per cui sono stati puniti.
I primi peccatori che la Vergine vede entrando negli inferi sono quelli che
non hanno creduto al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. In questo
passaggio, la traduzione slavone aggiunge una glossa abbastanza lunga:
«Costoro sono quelli, dice, che hanno dimenticato Dio, che hanno chiamato
dèi gli oggetti che Dio aveva fatto per il nostro uso, il sole, la luna, la terra,
gli animali, i rettili, che si sono fatti degli dèi di pietra con degli uomini come
Trojanŭ, Chorsŭ, Velesŭ, Perunŭ». Un apocrifo del XVI secolo, l’Apocalisse
degli Apostoli, associa Trojanŭ a Perunŭ, a Chorsŭ, a Diĭ (Zeus)3. Aggiunge
che questi pretesi dèi erano degli uomini; Perunŭ viveva tra i Greci, Chorsŭ

1 Šafárik ha dedicato un lavoro speciale a Svarogŭ in Rospravy z oboru véd slovanských,


Praga 1865. (N.d.A.)
2 Ho avuto sotto gli occhi il testo greco e la traduzione slavone, secondo uno sbornik del XII
secolo, proveniente dal monastero di San Sergio, pubblicato dal defunto Sreznevskij,
Drevnie pamjatniki russkago pis’ma i jazyka, San Pietroburgo 1869, in-4. (N.d.A.) – Già
citato nel paragrafo dedicato a Volos. (N.d.T.)
3 Testo pubblicato da Tichonravov e citato da J. Šišmanov nello Sbornik o Raccolta bulgara
di folclore, di scienze e di letteratura, t. IV, Sofia 1891. (N.d.A.)

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a Cipro; Trojanŭ era imperatore a Roma.


Il Canto della schiera di Igor’ menziona quattro volte Trojanŭ e chiama la
Russia il paese di Trojanŭ. Ho fatto altrove1, e le mantengo, tutte le mie
riserve sul testo. Ma se ci fosse stata falsificazione o interpolazione, è pur
vero che il falsatore non ha inventato il nome di Trojanŭ e che l’ha preso in
testi precedenti o nella tradizione popolare.
Nel governatorato di Kiev, si segnala ancora oggi il Valŭ Trojanovŭ (Mura
di Traiano). A queste mura, dice Kotljarevskij, si collegano alcune tradizioni
mitiche in cui si tratta di Trojanŭ, zar Ermlianskij (vale a dire rimlianskij,
romano)2. Queste tradizioni erano arrivate in Russia dagli Slavi meridionali,
soprattutto dai Bulgari, sempre in contatto con i Rumeni, forse dagli stessi
Rumeni. La memoria di Traiano è rimasta molto viva in Romania; si
segnalano ancora in questo paese un valul lui Trajan (fossato di Traiano),
una calea lui Trajan (strada di Traiano); una masa lui Trajan (tavola, roccia
di Traiano); un pratul lui Trojanŭ (prato di Traiano)3.
Nomi simili si trovano in Bulgaria. La strada romana, passando per
Serdica (oggi Sofia), che univa l’Italia a Costantinopoli, è ancora chiamata
dai Bulgari Trojanovŭ pŭtŭ; Trojanski pŭtŭ; dai Turchi, Trajan jol.
Il viaggiatore dalmata Verantius (Vrančić), che attraversò questo paese
nel 1553, sentì parlare della strada di Traiano e fu sorpreso di vedere il
nome del grande imperatore mantenuto da questi popoli barbari 4. A Hissar,
a nord di Filippopoli si elevano delle rovine romane, che i Bulgari chiamano
Trojanovgrad (il castello di Traiano), mentre i Turchi le attribuiscono ai
Genovesi e le chiamano Djenevizler5.
A sud di Ichtiman6 Ihtiman si apre, nella Sredna Gora (Foresta centrale),
l’infilata delle Porte di Traiano (Trojanova vrata), un tempo famosa per le
gesta dei briganti7. Sul sito della città attuale di Stara Zagora (Eski Zağra) si
elevava la città di Ulpia Augusta Traiana; Pansaba8, oggi Kyustendil, doveva

1 La Littérature russe, op. cit., p. 22. (N.d.A.)


2 Kotliarevskij, Opera omnia, edizione dell’Accademia di San Pietroburgo, t. IV, p. 512.
(N.d.A.)
3 Xenopol, Histoire des Roumains, Leroux, Paris 1896, t. I, p. 107. (N.d.A.) – L’Autore cita
la versione francese (Histoire des Roumains de la Dacie Trajane depuis les origines
jusqu’a l’Union des Principautés en 1859), ampliata, della Istoria românilor din Dacia
Traiană che Xenopol pubblicò in sei volumi tra il 1888 e il 1893. (N.d.T.)
4 Iter Buda Adrianopolim, anno 1553, pubblicato per la prima volta da [Alberto] Fortis nel
suo Viaggio in Dalmazia, ristampato da Szalay nelle Monumenta Hungariæ, Historici
scriptores, t. II. (N.d.A.) – Cfr. in www.larici.it. (N.d.T.)
5 K. Jireček, Cesty po Bulharsku (Viaggio in Bulgaria), Praga 1888, p. 75). (N.d.A.)
6 Nome tedesco della città di Ihtiman nella regione di Sofia. (N.d.T.)
7 Una vista dell’infilata e una incisione del XVIII secolo rappresentanti la porta di Traiano
(secondo Marsigli) figurano alle pagine 648-649 e 656-657 della bell’opera di
Schlumberger, L’epopea bizantina nel X secolo. Questa porta è stata distrutta da un
pascià verso il 1835 o 1836. Gli abitanti del paese l’attribuiscono anche all’eroe serbo
Marko Kraljević. (N.d.A.) – Il titolo esatto dell’opera di Schlumberger è L’Epopée
byzantine à la fin du dixième siècle, Parigi 1896-1905. Marko Kraljević (o Marko
Mrnjavčević) fu re della Serbia dal 1371 al 1395. (N.d.T.)
8 Pautalia (o Pautalija), poi sotto Traiano diventò Ulpia Pautalia. (N.d.T.)

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la sua organizzazione a Traiano; anch’essa sul Mar Nero, Ulpia, oggi


Anchialo; il villaggio di Devna si erge sul sito di una Marcianopolis fondata
da Traiano. Così, la memoria del grande imperatore si ritrova in quasi tutti i
paesi bulgari.
Il suo nome si incontra anche nelle regioni serbo-croate. A Mostar, in
Erzegovina, un ponte sulla Neretva è chiamato ponte di Traiano; in
Dalmazia, le rovine della città romana di Burnum si chiamano il castello di
Traiano; lo stesso nome viene dato alle rovine di un antico castello serbo
vicino a Novi Pazar. La famosa tavola di Traiano e i resti del ponte sul
Danubio sono, dopo più di dieci secoli, in terra serba; il castello di Kulina,
rovinato nel Medio Evo, porta ugualmente il nome di Traiano.
Il nome di Traiano, sotto la forma diminutiva Trajko, è ancora molto
utilizzato in Bulgaria. L’etimologia popolare lo collega alla parola trajamŭ, io
persisto, io duro. Nell’XI secolo, fu portato da un zarevič bulgaro, figlio dello
zar Samuele1. Nei canti popolari serbi c’è un personaggio chiamato Trojan.
Secondo il dizionario serbo di Vuk Karadžić, nei pressi delle rovine del
castello di Trojan sul monte Tser, nei dintorni di Šabac, viveva una persona
con tale nome. Tutte le notti se ne andava a Syrmia a vedere qualche donna
o ragazza. Egli non poteva uscire sotto i raggi del sole perché l’avrebbero
annientato2. Quando arrivava dalla sua amante, si dava dell’avena ai cavalli.
Dopo che i cavalli avevano mangiato l’avena e il gallo aveva cantato,
tornava al suo castello. Una notte, il fratello o il marito di una delle sue
amanti sostituì l’avena con della sabbia e tagliò la lingua a tutti i galli per
impedire loro di cantare. Quando il re pensò che era giunto il momento di
andarsene chiese al suo servitore se i cavalli avevano mangiato l’avena. Il
servo gli rispose negativamente. D’altra parte, i galli non avevano cantato.
Trojan si attardò con la sua bella e, alla fine, si rese conto della situazione,
saltò a cavallo e fuggì verso il suo castello, ma il sole lo aspettava sulla
strada. Si nascose in un pagliaio, ma sfortunatamente le bestie rovesciarono
il mucchio e, bruscamente esposto ai raggi solari, Trojan svanì.
Una variante di questo racconto è stata rilevata da Miličević nella sua
descrizione della Serbia3: «Lo zar Trojan viveva in un castello in cima al
monte Cer. Egli aveva tre teste. (Queste tre teste si spiegano chiaramente
con l’etimologia popolare: troje significa tre in serbo.) L’una mangiava gli
uomini, l’altra il bestiame, la terza il pesce. Egli trascorreva il giorno nel suo
castello sul Cer e la notte nel suo castello della Cerina sulla Sava. Il popolo

1 K. Jireček, Storia dei Bulgari, edizione russa, Odessa 1882, pp. 93-95. (N.d.A.) – Smuele
(Samuil) fu zar di Bulgaria dal 987 alla morte avvenuta nel 1014. (N.d.T.)
2 Questa è la leggenda greca del principe che non riusciva a sopportare il sole
(Schmidt, Griechische Märchen, op. cit., Leipzig, 1877, p. 30-31). Haxthausen (Studien
über die neuere Zustaende Russlands, II, p. 460) ha raccolto su Traiano una leggenda
analoga in Bessarabia. (N.d.A.) – L’opera del barone von Haxthausen si intitola Studien
über die innern Zustände, das Volksleben und insbesondere die ländlichen Einrichtungen
Rußlands, Hannover 1847-1852. (N.d.T.)
3 Kneževina Srbija, Belgrado 1870. (N.d.A.) – L’opera, di Milićević, è del 1876, non del
1870. (N.d.T.)

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si preoccupò di questo stile di vita e si recò da San Dmitrij, uno dei servi di
Trojan, e lo pregò di chiedere al suo padrone ciò di cui avrebbe potuto aver
paura, «Non ho paura che del sole» rispose Trojan.
San Dmitrij fece sostituire l’avena dei cavalli con la sabbia, tagliò la
lingua dei galli, ecc. Trojan si sciolse al sole.
Il resto della storia si complica di una serie di etimologie popolari. Trojan,
nella sua fuga, diventò sordo (ogluveo) vicino al villaggio di Glouchci, perse
le sue scarpe (tabani) vicino al villaggio di Tabanovci; diventò cieco (oslepeo
) vicino al villaggio di Slepević; perse il suo scudo (štit) a Štitar e la
catastrofe finale lo colpì (se desila mu) nel villaggio di Desić.
San Dmitrij fu ucciso dagli amici di Trojan e gettato nella Sava.
Sulle rive di questo fiume, nel distretto di Šabac sono le rovine del
castello di Kulina. Il popolo serbo ne attribuisce la fondazione allo zar
Trojan.
Karadžić ha pubblicato, nei suoi racconti in lingua serba1, una storia che
non ho sotto sottomano dove lo zar Trojan è raffigurato con gli occhi di
capra.
Nel XII secolo, Tzétzēs nei Chiliades (Tomaschek lo riferì per primo nella
Zeitschrift für Östeirreichische Gymnasien), conosceva la leggenda con le
orecchie di capra e ne diede un carattere simbolico.
(Si dice che Traiano2 abbia orecchie di
capra.) Egli cerca di interpretare questa storia, sia perché Traiano era
lubrico come una capra, sia perché come la capra egli sapeva rincorrere i
nemici di Roma nei luoghi più ripidi.
Köhler, che si occupò anche di questa leggenda, la spiegava con la
somiglianza delle parole .
Secondo Bertrandon de la Broquière, che scriveva nel XV secolo, la città
di Traianopolis era stata costruita «da un imperatore chiamato Traiano, il
quale, ci dicevano i Greci, ha un orecchio come un ariete».
Secondo un racconto bulgaro di Stara Zagora3, c’era una volta uno zar
Traiano, che aveva le orecchie d’asino. L’indiscrezione del suo barbiere
ricorda la storia di Mida. Una variante di Nevrokop, in Macedonia,
rappresenta Traiano con le orecchie di capra. Il barbiere affidò il suo segreto
a un pozzo abbandonato. Poco dopo dei viaggiatori trovarono vicino al pozzo
un albero del quale ogni foglia recava le parole rivelatrici. L’imperatore si
recò a vedere il pozzo e l’albero e concluse filosoficamente: «Quello che è
stato dato da Dio, non si può nascondere». E da quel momento non coprì
più le orecchie.

1 Srpske Pripovetke, II ed., Vienna, pp. 150-152. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Srpske
narodne pripovetke, edito nel 1821. (N.d.T.)
2 Nella frase in greco è Trojanos (Trojan), ma l’Autore usa Traiano (Trajan), perché da
questo punto in poi le figure dello zar bulgaro e dell’imperatore romano si identificano.
Nella frase seguente è citato Köhler che rileva la somiglianza tra Trojanos (Trojan) e
tragos (caprone). (N.d.T.)
3 Pubblicato sul Periodičesko Spisanie di Sofia, t. IV, p. 182. (N.d.A.)

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Nei canti bulgari raccolti dai fratelli Miladinovci ce ne sono due in cui si
tratta di una città di Trojan grad, Troem (canti 31 e 38) i cui abitanti sono
cattivi cristiani e devono subire diverse prove. Il canto 31 è stato raccolto a
Kukuš in Macedonia. Il secondo non reca indicazioni precise, ma secondo i
testi che vi si avvicinano deve appartenere alla Rumelia orientale (Bulgaria
meridionale). Il testo non è abbastanza chiaro perché si possa decidere se si
collega alla leggenda di Traiano o alla leggenda di Troia che gioca un ruolo
considerevole nella letteratura degli Slavi meridionali.
Come mai Traiano è diventato un dio, o almeno un demone – nel senso
cristiano – tra gli Slavi del Sud o dell’Est?1 Jagić ha proposto molto tempo fa
un’interpretazione molto ingegnosa e plausibile. Le rovine più importanti dei
paesi danubiani sono attribuite a Traiano o portano il suo nome. Ora,
l’immaginazione popolare popola le rovine di demoni e di fantasmi; è
naturale che uno di questi demoni sia Traiano stesso, che diventa un dio
come Perunŭ, Chorsŭ o Dažbogŭ. Gli Slavi balcanici rapidamente convertiti
al cristianesimo avrebbero trasmesso il culto di Traiano ai Russi che lo
mantennero a lungo. Si può anche supporre che il ricordo delle gesta di
Traiano si fosse imposto nei popoli balcanici di cui gli Slavi raccoglievano le
tradizioni, che essi trovarono l’idea di un dio collegato a questo illustre
personaggio (divus Augustus) che conservarono e amplificarono. Per ciò che
sappiamo della loro mitologia propriamente detta sia in Russia, sia presso
gli Slavi baltici, non si trova un altro esempio di uomo divinizzato, ma
abbiamo visto nel secolo scorso e anche nel nostro alcuni settari russi
divinizzare il loro imperatore Pietro III, altri dargli per luogotenente
Napoleone per ripristinare sulla terra il regno della giustizia, o anche
proclamarlo il loro Messia. Non si trova alcun fenomeno analogo nella storia
degli Slavi pagani.

Capitolo V
Divinità inferiori

TRIGLAV

Torniamo ora agli dèi del sistema baltico di cui abbiamo già studiato il
principale rappresentante, Svantovit.
Dopo di lui uno dei principali era Triglav. La sua esistenza ci è
testimoniata soprattutto dagli storici del vescovo Ottone da Bamberga.
Aveva a Stettino, dice uno di essi, Herbord2, quattro continæ, cioè quattro
templi. Della parola continæ, il tedesco Herbord non si imbarazza affatto:

1 Egli è diventato santo negli scritti di Procopio (306, 5), che cita una roccaforte
. È un «castellum divi Trajani». Divus in greco è stato tradotto con
. Non esiste un san Traiano. Jireček, Das Christliche Elément in der Balkänländer, Vienna
1805, p. 8. (N.d.A.)
2 Herbord, II, 32. (N.d.A.)

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«Sclavica lingua in plerisque locis latinitatem attingit et ideo puto ab eo


quod est continere continas esse vocatas». Con simili etimologie si può
facilmente derivare Svantovit da sanctus Vitus. Il commentatore moderno
dell’edizione Pertz non è più felice di Herbord. Egli suppone che contina sia
una parola slava e l’interpreta per il polacco konczyna (fastigium). Questa
spiegazione è falsa; konczyna vuol dire estremità, termine, e non ha altro
significato. Kontina è evidentemente connessa alla radice kont che ha dato
in serbo kuća, casa, in bulgaro kąšta, ecc.
Una di queste quattro continæ, la principale, era meravigliosamente
decorata e ornata di sculture raffiguranti uomini, uccelli, quadrupedi, così
abilmente riprodotti che li si sarebbe creduti vivi, così ingegnosamente
colorati che né la pioggia né la neve ne alteravano i colori. C’è
evidentemente in queste righe qualche esagerazione. In questa contina si
accumulava la decima di tutto il bottino sottratto al nemico: coppe d’oro e
d’argento, corni dorati incastonati di pietre preziose, armi e piatti preziosi.
Due di questi templi erano dedicati al dio Triglous. Il nome slavo è
evidentemente alterato e non è difficile ripristinarlo nella sua forma reale:
Triglav, dio o idolo a tre teste. Ancora oggi il monte Triglav (a tre picchi, a
tre teste), che fa parte delle Alpi della Carniola1 è sfigurato dai Tedeschi in
Terglou. Ritroviamo il nome di Triglav in una antica cronaca della città di
Branibor (Brandeburgo)2. Ottone da Bamberga fu ammesso a predicare il
cristianesimo tra gli abitanti di Stettino. Essi l’accolsero senza avversione,
convinti che i loro dèi si sarebbero ben difesi. Egli usò largamente della
tolleranza concessagli e, aiutato dai suoi sacerdoti, cominciò a distruggere
le continæ a colpi di scure e roncola. Quando il popolo vide che gli dèi non si
difendevano, attaccò anch’esso i templi, se ne divise le ricchezze e portò via
il legno per cuocere i cibi. Per quanto concerne l’idolo di Triglav, il vescovo
ne spezzò il tronco, portò via le tre teste e le inviò a Roma per attestare la
conversione della città3. Tuttavia, acconsentì a rispettare una quercia sacra,
«umbre atque amenitatis gratia».

1 Regione slovena. (N.d.T.)


2 «Temporibus Svigeri decimi tertii episcopi Brandenburgensis fuit in Brandenburg rex
Henricus qui slavice dicebatur Pribislaus, qui christianus factus, idolum quod in
Brandenburg fuit cum tribus capitibus quod Triglav slavice dicebatur destruxit»
(Frammento Chron. Brandenb., in Mader, p. 264). È a questo dio, e forse a questo testo
che fa riferimento il cronicista ceco Přibik di Pulkava (XIV secolo; Fontes rerum
bohemicarum, t. V, p. 89): «In illis diebus fuit quidam Henricus rex Prybislaus slavonice
nominatus urbis Brandenburgensis et terrarum adjacencium, sicut Brandenburgensis
testatur Chronica… Hic dum adhuc gens esset ibi permixta Slavonica et Saxonica,
deserviens ritibus paganorum et in urbe Brandenburgensi ydolum tribus capitibus
inhonestum ab incolis colebatur». Il traduttore ceco ha tradotto: «Imajice tu kakú modlu
trihlavatu nectnu i velmi škaredu» (un idolo a tre teste immondo e molto brutto). (N.d.A.)
– Il frammento dovrebbe essere della Chronica marchionum brandenburgensium, inserita
nell’opera Chronicon Montis-Sereni, sive, Lauterbergense ante 440 annos collectum …
nunc demum una cum veterum Misniæ Marchionum in eodem monumento æri inciso,
aliorumque monasteriorum Chronicis vetustis ac fundationibus ex Codd., di Mader,
Joachim Johann Mader (1626-1680), pubblicata nel 1665. (N.d.T.)
3 Herbord, II, 32. (N.d.A.)

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Tra gli accessori del culto di Triglav figurava a Stettino, come ad Arkona
(si veda il capitolo su Svantovit) un cavallo sacro. Era un cavallo nero, ben
nutrito, di dimensioni notevoli; nessuno doveva montarlo e uno dei quattro
sacerdoti era particolarmente responsabile della cura. Esso dava degli
oracoli. Quando si pensava di intraprendere una spedizione via terra, si
depositavano sul terreno nove lance distanti un cubito1 le une dalle altre. Il
cavallo veniva sellato e imbrigliato, il sacerdote lo teneva per la briglia e gli
faceva passare tre volte nei due sensi lo spazio occupato dalle lance. Se lo
attraversava senza toccarle, era di buon auspicio e si intraprendeva la
spedizione. In caso contrario, si rinunciava2. Per eliminare questa forma di
divinazione, Ottone immaginò di far vendere il cavallo di Stettino in un
paese straniero3, dopo aver convinto gli abitanti che era più adatto a tirare
un carretto che a fornire oracoli. Secondo un altro biografo4, la sella di un
cavallo divino era d’oro e d’argento ed era tenuta in una delle continæ.
Troviamo l’idolo di Triglav nella città di Volyn. Dopo la conversione della
città i sacerdoti rimasti fedeli al culto degli idoli la lasciarono e si ritirarono
in campagna5. «E siccome Ottone distrusse i templi e le immagini degli dèi,
essi portarono fuori dalla provincia una statua d’oro di Triglav, che era la
loro principale divinità e la affidarono a una vedova che viveva in un piccolo
villaggio, dove il tesoro poteva difficilmente essere scoperto. La vedova
avvolse l’idolo in un vestito, fece un buco nel tronco di un albero molto
grande e vi nascose il deposito sacro in modo tale che non si potesse né
vedere né toccare. Ella aveva praticato una piccola apertura attraverso la
quale i pagani potevano offrire o sacrifici o le offerte («solummodo foramen
modicum ubi sacrificium inferretur in trunco patebat») ma nessuno poteva
entrarvi se non per i sacrifici. Ottone apprese l’esistenza di questo idolo. Egli
temeva che dopo la sua partenza esso avrebbe contribuito a riportare al
paganesimo gli indigeni ancora poco saldi nella fede cristiana e cercò il
modo di prenderlo con l’inganno6. Se i sacerdoti pagani fossero stati
avvertiti del suo piano, avrebbero forse potuto immaginare di nascondere il
loro palladio in un luogo ancora più inaccessibile. Il vescovo affidò questo

1 Circa mezzo metro. (N.d.T.)


2 Herbord, II, 35. (N.d.A.)
3 Herbord, II, 3. (N.d.A.)
4 Prifl., II, 11. (N.d.A.) – Il riferimento è ai Monumenta Priflingensia (di Prüfening), inseriti
nel tredicesimo volume dei Monumenta Boica (München 1777). (N.d.T.)
5 Ebbo, II, 13. (N.d.A.)
6 Una volta Ivan Turgenev mi raccontò un curioso aneddoto della vita dei raskol’niki russi
che non è estraneo a questo episodio. Un funzionario russo, il defunto Melnikov, noto in
letteratura con il nome di Pečerskij, era responsabile della sorveglianza dei raskol’niki. Gli
avevano segnalato che in una foresta oltre il Volga c’era una cappella sospetta in cui i
raskol’niki si riunivano per onorare un’immagine non riconosciuta dalla Chiesa ortodossa.
Se fosse riuscito a rimuovere l’immagine e a far abbandonare il santuario, gli avevano
promesso la croce di comandante di Sant’Anna. Melnikov si mescolò tra i fedeli e, nel
momento in cui essi erano assorbiti dall’estasi, esclamò bruscamente: Anna na šeju!
Sant’Anna al collo! Spaventati da queste grida misteriose, i fedeli restarono immobili.
Melnikov si lanciò sull’immagine, l’afferrò e la portò fuori prima che avessero il tempo di
riprendersi dalla paura. (N.d.A.)

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delicato compito a uno dei suoi compagni, di nome Hermann. Era un uomo
scaltro che conosceva la lingua degli indigeni. Gli ordinò di indossare il
costume slavo e di andare dalla vedova, come per fare un sacrificio a
Triglav. Hermann obbedì. Egli raccontò alla vedova che poco prima era
sfuggito a un terribile temporale, grazie alla protezione di Triglav e voleva
offrirgli un sacrificio. La vedova gli indicò l’albero sacro e il buco in cui lui
poteva depositare la sua offerta, impegnandolo a non rivelare nulla a
nessuno se teneva alla propria vita. Egli entrò nel recinto misterioso, gettò
per l’apertura una moneta d’argento, così che la si sentisse risuonare e si
credesse che aveva sacrificato. La ritirò in seguito e per mostrare il suo
disprezzo verso Triglav, gli offrì in guisa di sacrificio un enorme sputo
(sputaculum ingens). Poi esaminò tutto per vedere se poteva impadronirsi
dell’idolo, ma esso era così ben chiuso nel tronco che gli era impossibile
tirarlo fuori. Guardandosi intorno, vide la sella di Triglav appesa al muro. Era
molto vecchia e completamente fuori uso. Lui la prese, la nascose e la portò
a testimonianza degli sforzi che aveva fatto per impadronirsi dell’idolo».
La fine del racconto è piuttosto singolare. Ci si può chiedere se Hermann
era realmente in buona fede e non si fosse inventato la storia della sella per
mascherare il suo insuccesso o se non si fosse semplicemente impossessato
di finimenti qualunque. La vecchia pagana avrebbe certamente messo la
sella sacra al riparo della cupidigia dei cristiani.
Dopo questo infruttuoso tentativo, l’apostolo dei Pomerani non insistette
più; temeva di essere accusato di cupidigia, se si ostinava a voler
impossessarsi del prezioso idolo. Ricorse alla persuasione. Convocò i principi
e gli anziani e li fece giurare di abbandonare il culto di Triglav, di rompere il
suo idolo e di impiegare l’oro con cui era stato fatto per il riscatto dei
prigionieri.
I biografi di Ottone di Bamberga ci segnalano ancora il culto di Triglav a
Stettino. Questa città1 racchiudeva all’interno della sua cinta tre montagne,
la più alta, quella centrale, era dedicata al grande dio dei pagani, Triglav. Il
suo idolo aveva tre teste: una fascia d’oro ne copriva gli occhi e le labbra. I
sacerdoti pagani spiegavano così queste peculiarità. Il loro grande dio,
dicevano, aveva tre teste perché egli governava tre regni, il cielo, la terra e
gli inferi; il suo volto era coperto con una fascia perché non voleva vedere
né conoscere i peccati del uomini. Queste affermazioni, forse immaginarie,
sono apparse sospette al dotto russo Kirpičnikov.
Gli Slavi, dice, non avrebbero dovuto avere un’idea cristiana. Infine, non
è certo possibile che un dio che prevede il futuro ignori le azioni degli
uomini2. Kirpičnikov si domanda anche se noi non ne abbiamo una visione
deformata dalla Trinità cristiana; è così che si è creduto vedere in Svantovit
un sostituto di san Vito. Con questo scetticismo si va molto lontano. Tuttavia
è certo, l’abbiamo dimostrato altrove, nello studio su Svantovit, che gli Slavi
baltici adoravano gli idoli policefali.

1 Ebbo, III, 1. (N.d.A.)


2 Rivista (russa) del Ministero dell’Istruzione pubblica, settembre 1885. (N.d.A.)

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Secondo il biografo di Ottone1, il culto di Triglav e di altri idoli, di cui


ignoriamo i nomi, non scomparvero facilmente. Ottone convertì o credette
di aver convertito Stettino, fece dare alle fiamme dei templi pagani e
costruire due chiese, di cui quella sulla collina di Triglav ricevette il nome di
sant’Adalberto. Ma i sacerdoti idolatri non avevano rinunciato al loro culto,
né soprattutto ai prodotti dei sacrifici. Non cercavano che una occasione per
riportare il popolo al paganesimo. Poi successe che una epidemia scoppiò in
città; la mortalità fu elevata, i sacerdoti convinsero il popolo che la sua
conversione era la causa di tutti i mali, che si doveva ritornare agli idoli.
Tutti gli abitanti, essi dissero, erano destinati a morire se la collera degli
antichi dèi non si fosse placata con i soliti sacrifici. Il popolo, eccitato dai
discorsi, reclamò i suoi idoli, offrì loro dei sacrifici e attaccò le chiese
cristiane2. Distrusse la metà dei palazzi riservata ai fedeli, ma fuggì davanti
al santuario. Compiuto il lavoro, i distruttori tornarono dal sacerdote degli
idoli: «Noi abbiamo fatto – dissero – quello che ci riguardava; è a te che
tocca distruggere e profanare il santuario del dio tedesco (teutonici dei). Il
sacerdote prese un’ascia, alzò il braccio e si fermò subito paralizzato,
emettendo grida spaventose: “Ahimè! qual è la potenza, qual è la forza di
questo dio tedesco e chi gli resisterà! Guardate come mi ha colpito, io che
ho attaccato il suo santuario». La gente si sorprese e domandò che cosa
dovesse fare. La risposta riportata o probabilmente immaginata da Ebbo è
assai singolare: «Costruite qui la casa del vostro dio accanto a quella del dio
teutonico e onoratelo nello stesso tempo dei vostri dèi, perché nella sua
collera non vi faccia tutti perire. Essi obbedirono e fino al ritorno del pio
apostolo Ottone essi rimasero nell’errore, servendo Dio e i demoni.
Triglav figura ancora nella descrizione dei miracoli di sant’Ottone 3. Si
trattava di un demone che aveva posseduto una donna.
Naturalmente Triglav offre alcune analogie con Svantovit, ma non vi è
ragione per non farne una divinità indipendente. Svantovit era un idolo con
quattro teste, Rugievit, uno a sette teste, ma noi non troviamo un nome
come Cityrglav, sidmglav o sedmaruglav4. Non vi è alcun serio motivo di
dubitare che Triglav non fosse una divinità indipendente.

JULA

Jula figura anche tra i biografi di Ottone da Bamberga; durante il suo


secondo soggiorno a Volyn, Ottone invitò gli abitanti a non ritornare al culto
di Jula e della sua lancia e all’adorazione degli idoli. Non sappiamo che cosa
significhi questo nome. Volyn, oggi Wollin, si chiamava anche Julin. Vi era
un dio della città, un dio eponimo? Ciò che è certo è che gli abitanti di Volyn
adoravano una lancia attaccata a una enorme colonna situata nel centro

1 Ebbo, III, 1. (N.d.A.)


2 Ebbo, III, 1; Herbord, III, 16. (N.d.A.)
3 Monumenta Germaniæ Historica, t. XII, p. 91. (N.d.A.)
4 A meno che quest’ultimo nome non si trovi nel Simarglŭ del cronicista russo. Si veda più
sopra. (N.d.A.)

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della città1; Ebbo racconta che Julin è stata costruita da Giulio Cesare e che
vi si adora ancora la sua lancia, ob memoriam ejus; all’inizio dell’estate si
celebra una gran festa in suo onore. Abbiamo già visto, parlando di Triglav e
Svantovit, quale ruolo giocava la lancia nella divinazione.

RADIGAST

Nel pantheon slavo questa divinità ha a lungo occupato una posizione


indiscussa. Negli ultimi anni si è messa in dubbio la sua esistenza. Brückner2
sostiene che Radigast è semplicemente un nome di città. Esaminiamo un po’
i testi. Tietmaro, che è generalmente ben informato, dice (VI, 23): «Est
urbs quædam in pago Riedirierum Riedigost nomine, tricornis ac tres in se
continens portas, etc.». Questa città (riassumo il seguito del testo) è
circondata su tutti i lati da una foresta rispettata dagli abitanti, oggetto
della loro venerazione. Due porte della città sono aperte a tutti, la terza
conduce al mare che è vicino e terribile a vedersi. In questa città o in
questa porta (in eadem) non vi è che un tempio, abilmente costruito in
legno che è retto da corna di animali diversi3. Le pareti del tempio sono
decorate all’esterno con immagini di dèi e dee splendidamente scolpite,
all’interno sono degli dèi fatti a mano e hanno i loro nomi incisi4, sono
protetti da elmi e corazze e hanno un aspetto terribile. Il primo tra essi si
chiama Zuarasici5, ed è più onorato di tutti gli altri da tutti i popoli. Gli
stendardi sono conservati qui e non lasciano mai il santuario, eccetto in casi
di spedizione. In questo caso sono presi dalla fanteria.
Per badare a questi tesori sono stati appositamente istituiti dei sacerdoti.
Quando si incontrano per sacrificare agli idoli o per placare il loro corruccio,
essi si siedono mentre il popolo rimane in piedi, si mormorano parole
incomprensibili (invicem clanculum mussantes), scavano la terra con timore
religioso, consultano anche la sorte per conoscere le cose dubbie. Fatto
questo, coprono di erba verde il cavallo ritenuto il più grande del paese, lo
fanno passare con venerazione tra due lance fissate al suolo6 e, combinando
i risultati di questa divinazione con il fato che essi hanno prima consultato,
arrivano finalmente agli auguri. Se le due divinazioni danno lo stesso
risultato si inizia quello che si voleva fare, altrimenti il popolo si affligge e
abbandona l’impresa. Professavano ancora dall’antichità un altro errore:
essi credevano che se qualche terribile e lunga ribellione li minacciava, un
grosso cinghiale, ornato di zanne bianche, uscisse dal seno del mare e

1 Ebbo, II, 1, III, 1; Herbord, III, 26. (N.d.A.)


2 In Archiv für slavische Philologie, t. XIV. (N.d.A.)
3 Tra gli Slavi cristiani vi sono delle cappelle sopra le porte delle città, per esempio a
Vladimir sulla Kljazma, a Vilna (la porta chiamata Ostra Brama) ecc. Questo tempio
portato sulle corna di animali non può essere che una specie di cappella. (N.d.A.)
4 Questo testo ha dato luogo a molti commenti. Noi non sappiamo nulla di preciso sull’uso
della scrittura tra gli Slavi pagani. (N.d.A.)
5 Su Zuarasici, si veda più sopra. (N.d.A.)
6 Su questa divinazione con le lance, cfr. i capitoli dedicati a Svantovit e a Triglav. (N.d.A.)

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sguazzasse nelle onde agitandosi con un rumore terribile.


Ci sono tanti distretti in questa regione, altrettanti sono i templi e le
immagini dei demoni adorati dagli infedeli. Ma la città di cui parlo occupa il
primo posto. È essa che vanno a salutare quando partono per la guerra.
Quando ritornano dopo una felice spedizione, è in questa che portano il
bottino; essi si informano con cura, per mezzo di sortilegi e del cavallo di cui
ho parlato, della vittima gradita agli dèi, che deve essere loro offerta dai
sacerdoti. Il sangue degli uomini e degli animali domestici calma il loro
indicibile furore.
Si è molto discusso su questo brano. Esso contiene più di un dettaglio
inverosimile, quel tempio che contiene i pesanti idoli e che è retto da delle
corna di animali, quelle divinità i cui nomi sono incisi, tutto ciò sembra
molto fantastico. Tuttavia, il passo meritava di essere citato per intero.
Tietmaro scambia il nome di Riedigost per un nome di città. Il suo
commentatore, Kruse, d’accordo con Lisch, crede che egli si sia sbagliato e
sostiene il parere di Adamo da Brema che fa di Radigost il nome di una
divinità onorata nella città di Rethra. Il nostro compatriota, Bernard, nella
sua tesi De Adamo Bremensi geographo1, è dello stesso avviso.
Esaminiamo il testo di Adamo da Brema (II, 18):
«Tra i popoli slavi che vivono tra l’Elba e l’Oder i più potenti sono i
Rethari, la loro città più frequentata è Rethra, che è allo stesso tempo la
sede dell’idolatria. (È abbastanza naturale che una città porti un nome
simile a quello del popolo che la abita.). Essa possiede un tempio dedicato
ai demoni di cui il principe è Redigast2. Il suo idolo è d’oro, il suo letto di
porpora. La città ha nove porte ed è circondata ovunque da un lago
profondo, lo si attraversa su un ponte di legno il cui passaggio è consentito
solamente a coloro che vanno a sacrificare o a consultare gli oracoli.
(Questo particolare suggerisce che Rethra non era una città, ma
semplicemente un luogo di culto.) Da questo tempio ad Amburgo, ci sono, si
dice, quattro giorni di viaggio». Più avanti3, Adamo racconta che il vescovo
Giovanni fatto prigioniero fu invitato ad abiurare la fede; al suo rifiuto gli si
tagliarono mani e piedi; la sua testa fu fissata su una picca e i pagani
l’immolarono (l’offrirono) al loro dio Redigast. Ciò ebbe luogo il 4 delle idi di
novembre (10 novembre)4, nella metropoli degli Slavi a Rethra. Con la
parola metropoli Adamo da Brema vuole designare, io credo, il centro
religioso degli Slavi di questa regione. Helmold (I, 2) ripete che Rethra è la

1 Parigi, 1895, p. 66. (N.d.A.) – Il titolo esatto è De Adamo Bremensi geographo thesim
Facultati litterarum parisiensi proponebat Augustinus Bernard. (N.d.T.)
2 Leibniz, in Scriptores rerum Brunswicensium, I, p. 191, cita il testo seguente riportato da
Lelewell, ma di cui non ho potuto verificare l’origine: «Post mortem Caroli imperatoris
quidam non veri christiani præcipue trans Albeam susceptam fidem Christi relinquentes
idola sua projecta, Hammon scilicet, Suentobuck (Sventi Bog, cfr. Svantovit), Witulubbe (?
), Radegast cum ceteris erexerunt et in loco pristino statuerunt». (N.d.A.) – Il titolo esatto
dell’opera di Leibniz è Scriptores rerum Brunsvicensium illustrationi inservientes, 1707-
11. (N.d.T.)
3 Libro III, 52. (N.d.A.)
4 Del 1066. (N.d.T.)

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capitale dei Redariani e copia qualche riga da Adamo da Brema sul dio
Redigast. Più avanti (I, 22) parla di una lotta tra i popoli slavi Slavi, i Ljutiči
e i Riaduri1 che «a causa della loro antica città e del famoso tempio dove si
mostra l’idolo di Radigast affermavano di essere i più nobili, perché erano
stati visitati da tutti i popoli slavi a causa degli oracoli e dei sacrifici
annuali». Infine2 (stesso libro, § 52) ci dice che «Prove era il dio del paese
di Aldenburg, Siva, la dea dei Polabi, Radigast, il dio delle terre degli
Obotriti».
Nel XV secolo la cronaca sassone di Botho (sub anno 1113)3 ci
rappresenta Ridegast che reca sul petto uno scudo con una testa nera di
bue, tiene in mano un’ascia; sulla testa è posato un uccello. Un editore della
cronaca ha composto un’illustrazione da queste indicazioni e questo
disegno, ristampato più volte, è servito per fabbricare delle presunte divinità
obotrite conservate nel Museo di Neustrelitz. Non sappiamo dove Botho
avesse preso il materiale. Probabilmente nella sua immaginazione. Infine,
nel XVII secolo il cronicista di Lubecca, che commenta Helmold, ci dice che
Radigast era un principe degli Obotriti che fu più tardi divinizzato. Questo
commento troppo tardivo è poco verosimile; è in contraddizione con tutto
quello che sappiamo della mitologia slava, in cui non si incontrano mai dei
personaggi divinizzati.
Per conciliare Tietmaro e Adamo da Brema, si può supporre che Redigast,
Redigost, fosse il nome slavo della città che i Tedeschi avevano chiamato
Rethra. In questo caso, Radigast sarebbe semplicemente un dio eponimo.
Si trovano ugualmente dei nomi di uomini o luoghi terminanti in gost. Il
nome sembra essere costituito da due parti: rad, allegro, gost. ospite. Esso
corrisponde al greco . Questo epiteto può altrettanto ben
caratterizzare un individuo oltre che una località. Miklošič, nella sua
memoria sui nomi slavi, segnala uno sloveno chiamato Radagost che visse
verso il 975 in Carinzia. Si trova tra gli Slavi meridionali un nome identico:
«Miligost4 carum hospitium habens, qui hospes carus est, Gostirad», in ceco
Hostirad. Si incontrano in Polonia delle località chiamate Bydgoszcz (tedesco
Bromberg, in Prussia); Radgoszcz (nome di un villaggio in Galizia). Nei
monti Beskidi in Moravia si eleva una montagna chiamata Radhost. L’autore
della Moravia sacra, Stredovský5, vissuto nel XVII-XVIII secolo, suppone che
questa montagna debba il suo nome a un idolo di Radgost. Si basa su una
semplice somiglianza di nomi o su una tradizione locale? Comunque sia,
dice quanto segue: «C’era sulla montagna un tempio di Radhost (g diventa

1 O Redari o Raderi. (N.d.T.)


2 Stesso libro, § 52. (N.d.A.)
3 Citato da Jagić, in Archiv für slavische Philologie, V, p. 204. (N.d.A.) – Il riferimento è a
Konrad Botho, Chronecken der Sassen, Magonza 1492. (N.d.T.)
4 Rad Jugoslovenske akademje, LXXXI. (N.d.A.) – Il titolo completo del periodico è Rad
Jugoslavenske Akademije Znanosti i Umjetnosti (Opera dell’Accademia jugoslava di
Scienze e delle Arti) edita a Zagabria. (N.d.T.)
5 Sacra Moraviæ historia, Sulzbach 1710. (N.d.A.) – Il titolo completo dell’opera di
Stredovský è Sacra Moraviæ historia sive Vita SS. Cyrilli et Methudii. (N.d.T.)

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h in ceco). Là dove una volta i pagani celebravano la festa di questo dio nei
primi giorni dopo il solstizio d’estate, oggi, ancora su questo monte, i fedeli
delle parrocchie di Hochwald, di Rožnov di Fridek, come i vicini Slovacchi di
Ungheria, accorrono in gran numero e, conformemente a una consuetudine
molto antica, senza che si mescoli altra superstizione, si abbandonano al
piacere del bere e del danzare».
Si tratta, come si vede, di una di quelle feste conosciute del solstizio
d’estate, non vi è alcun motivo speciale per collegarla alla memoria del culto
di Radigast.

PODAGA

Abbiamo già citato il capitolo di Helmold (I, 831), che fornisce sulle
divinità slave curiose indicazioni: «Gli Slavi, ha detto, hanno forme molto
diverse di superstizione: tra i loro dèi, alcuni hanno immagini nei templi,
come l’idolo di Plon che si chiama Podaga…». La parola Podaga non significa
nulla e può appartenere ad entrambi i sessi. Maretić2 l’interpreta per Budigoj
e fa rimarcare che ci sono dei nomi slavi che cominciano per budi (risveglio
), altri che terminano in goj (idea di vita, di forza) ed egli interpreta il
nome: «In expergefactione validus». Secondo tale interpretazione un po’
azzardata, questo sarebbe il dio del buon risveglio.
Mi permetto di proporre una interpretazione più semplice. In luogo di
Podaga non si può leggere Pogoda, il tempo, la temperatura? Pogoda
sarebbe il dio o la dea dei fenomeni atmosferici. Lo storico polacco Długosz
menziona una dea della temperatura che si sarebbe chiamata Pogoda3.

PRIPEGALA

Questo dio appare in un documento dell’anno 1108, una lettera pastorale


dell’arcivescovo Adelgott di Magdeburgo4. Si è già messa in dubbio
l’autenticità, ma essa sembra, dalla testimonianza di Wattenbach,
perfettamente fondata. Questa lettera costituisce un documento importante
per lo studio delle lotte del paganesimo slavo contro la propaganda
germanica. Il vescovo scrive: «Questi uomini crudeli, gli Slavi, si sono
sollevati contro di noi; essi hanno profanato con la loro idolatria le chiese di
Cristo… Essi invadono le nostre regioni. Tagliano la testa dei cristiani e la
offrono in sacrificio. Ma i loro fanatici, ossia i loro sacerdoti, dicono nei loro
festini: “È il nostro Pripegala che vuole questi sacrifici”. Pripegala, dicono, è

1 Come già detto, nella versione consultata è il cap. 84. (N.d.T.)


2 In Archiv für slavische Philologie, X. (N.d.A.)
3 In Archiv für slavische Philologie, t. XIV, p. 170 e segg. La parola pœgœda esiste ancora
nel linguaggio dei Casciubi o Slavi pomerani. Si veda il Dizionario di Ramult (sub voce),
Cracovia 1893. (N.d.A.) – Si tratta di S. Ramułt, Słownik języka pomorskiego czyli
kaszubskiego. (N.d.T.)
4 Citata da Brückner, Archiv für slavische Philologie, t. VI, 223. (N.d.A.) – Adelgott di
Magdeburgo è noto anche come Adalgod di Osterburg (1160?-1119). (N.d.T.)

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Priapo e Belfagor l’impudico1. Essi tengono davanti ai loro altari delle coppe
piene di sangue e gridano con voce terribile: “Rallegriamoci, dicono, il Cristo
è vinto. La vittoria è di Pripegala il vittorioso”». Il vescovo esorta i cristiani a
intraprendere una crociata contro i barbari, «in modo che si possa far
sentire dei canti di gioia, invece degli orribili rumori dei Gentili in onore di
Pripegala».
Che cosa significa questo nome? Brückner ha proposto un’interpretazione
molto plausibile. Pripegala rappresenta: Pribychval, «colui da quale proviene
la gloria, il glorioso». Questi nomi in priby sono comuni tra tutti gli Slavi:
Pribygoj (accessit valetudo), Pribyslav (accessit gloria), Pribymir (accessit
pax), Pribytich (accessit solamen)2. Non si può pensare anche al verbo
přepjékać, bruciare, che ancora esiste nella lingua degli Slavi della
Pomerania3? Prepiekal non potrebbe essere un epiteto del sole? Mi permetto
di sottolineare che tale ipotesi merita, credo, di essere discussa.

ZCERNOBOGH (ČERNY BOG)

Il nome di questa divinità è facile da spiegare. Černy Bog vuol dire il dio
nero. Il suo culto è attestato da Helmold (I, 52): «Gli Slavi – dice – hanno
una strana usanza. Durante le feste, fanno circolare una coppa sulla quale
essi pronunciano delle parole, io non direi di consacrazione, ma di
esecrazione in nome dei loro dèi, per conoscere il bene e il male; essi
professano che tutta la fortuna viene dal dio buono, tutto il male dal
maligno; così nella loro lingua lo chiamano il dio cattivo, vale a dire il
diavolo Zcernoboch4». Sull’esistenza di questo dio nero, i mitografi hanno
concluso che un dio bianco si sarebbe chiamato Bielbog. Il nome di Bielbog
non si trova in alcun testo autentico, ma si è creduto di giustificare la sua
esistenza con dei nomi geografici (Belbuck = Belbog in Pomerania;
Białobożé e Białobożnica, in Polonia; Bělbožice in Boemia). Si è elaborata
tutta una teoria sul dualismo slavo. In realtà, non sappiamo nulla di questo
dio bianco5.

1 Qui il vescovo inventa con evidenza. Da dove i sacerdoti pagani avrebbero conosciuto
Priapo e Belfagor? Credeva evidentemente di ritrovare in Pri e Peg gli elementi di questi
due nomi. (N.d.A.)
2 Maretić, in Rad Jugoslavenske Akademije, cit., t. LXXXI. (N.d.A.)
3 Dizionario di Ramult, sub voce. (N.d.A.)
4 Nella Knytlinga saga si tratta di una divinità chiamata Tiernoglav (il dio con la testa nera).
(N.d.A.)
5 Černy Bog ha dato luogo a una celebre svista di Šafárik. Nel 1835, Kollár, che si vantava
di essere mitologo e che era lo spirito meno critico del mondo, credette di aver scoperto a
Bamberga, in Baviera, un idolo slavo con una iscrizione runica Carni Bog. La cattedrale di
questa città possiede la tomba del vescovo Ottone, apostolo degli Slavi. Šafárik pubblicò
in una rivista di Praga una lunga memoria riprodotta nella sua Miscellanea (Sebrané spisy,
p. 96-110, e che è stata a lungo autorevole. Egli era stato vittima di una mistificazione, il
dio nero di Bamberga è andato a congiungersi con le divinità obotrite di Neustrelitz, che
sono da lungo tempo superate e di cui hanno abusato Kollár, Lelewell e molti altri. Cfr.
Archiv für slavische Philologie, t. V, p. 193 e seguenti. (N.d.A.)

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DIVINITÀ ANONIME

In una testimonianza di Tietmaro (VIII, 64), i Ljutiči avevano una dea la


cui immagine appariva sugli stendardi. Un soldato tedesco trafisse lo
stendardo con un colpo di pietra. I sacerdoti ljutiči si lamentarono con
l’imperatore e ricevettero su suo ordine un’indennità di dodici talenti.
Attraversando il fiume Milda1 le cui acque erano agitate, essi persero
un’altra dea, e cinquanta dei loro compagni.

RINVIT, TURUPID, PURUVIT, PISAMAR, TIERNOGLAV

Queste divinità sono menzionate nella Knytlinga saga2. Dopo aver


raccontato la distruzione dell’idolo di Svantovit, la saga riporta che il re
Valdemaro andò nella città di Korrenzia3 e fece distruggere i tre idoli di
Rinvit, Turupid e Puruvit. Rinvit è probabilmente identico a Rugevit (il Vito di
Rügen, in slavo Rana)4. Puruvit potrebbe avere qualche rapporto con
Proven5. Turupid è forse un dio guerriero (in casciubo: trepoet, trepoetose
są, agitarsi, fare rumore). Un quarto idolo è quello del dio Pisamar. Pisamar
permette di congetturare una forma Běsomar (běsŭ, demone); mar è un
suffisso che si trova in alcuni nomi slavi6. Per quanto riguarda Běsŭ che
nella lingua cristiana significa diavolo, ci si può domandare se dei pagani
avrebbero dato questo epiteto a una delle loro divinità.
Tiernoglavius, il dio dalla testa nera, che abbiamo segnalato in
precedenza, era, secondo la saga, il dio della vittoria, il compagno delle
spedizioni di guerra. Aveva baffi d’argento.

DEE

Il culto delle dee è attestato da diversi testi, tra cui Tietmaro nella sua
descrizione del tempio di Radigast e nel capitolo, dove gli Slavi si
lamentavano di un affronto fatto da un tedesco allo stendardo che
raffigurava una dea7. Sappiamo poche cose sui nomi di queste dee. Helmold
(I, 52) cita, accanto a Prove, dio di Altenburg, e a Radigast, dio degli
Obotriti, Siva, dea dei Polabi. Questa Siva ha fatto fortuna. Ella è stata
ripresa dal falsificatore della Mater verborum che l’interpreta come dea
frumenti. Oggi si sa che egli aveva fabbricato Siva con la parola aiunt. Siva

1 Identificato nella Mulde, fiume sassone. (N.d.T.)


2 Edizione di Copenaghen, t. XI. (N.d.A.)
3 O Korencia , città nella parte meridionale dell’isola di Rügen. (N.d.T.)
4 Cfr. il capitolo su Svantovit. (N.d.A.)
5 Cfr. il capitolo su Perunŭ. (N.d.A.)
6 Per gli esempi: Arnold, Chronica Slavorum: Geromarus (III, 82), Ieromarus (VI, 10).
(N.d.A.) – Arnold di Lubecca scrisse l’opera Arnoldi Cronica Slavorum che per sua
ammissione, era la continuazione della Chronica Slavorum di Helmold. (N.d.T.)
7 Libro VIII, 64. (N.d.A.)

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figura anche fra le false divinità obotrite. I Cechi hanno interpretato Siva
con Žiwa (la vita, la vivente); il dizionario ceco di Kott ci dà una voce Živa,
Živena, dea della vita dell’uomo e della natura e nome della dea Cerere.
Tutte queste fantasie sono venute dal testo di Helmold. Ma non è nemmeno
sicuro che si debba leggere Siva. Alcuni manoscritti danno Sinna.
L’interpretazione Siva = Živa, la vivente, pare la più verosimile. Maretić
suppone che sia l’abbreviazione di un nome composto: Dabyživa, utinam sis
viva. Un testo slavone del XV secolo proveniente da Novgorod 1 parla di una
dea diva. Długosz2 (XIV secolo) affermava di ritrovare tra gli antichi Polacchi
il culto di Diana sotto il nome di Dzevana3. D’altra parte, egli segnala un dio
della vita chiamato Žywie.
Długosz menziona anche una divinità chiamata Dzidzilelya che
sorvegliava i destini dei bambini e che ha identificato con Venere. La parola
si spiega facilmente (dziecilela, colei che coccola i bambini).
Si citano spesso i nomi di Lada, che sarebbe stata la dea della bellezza, di
Morana, quella dell’inverno o della morte, ma questi nomi non appaiono nei
testi antichi: appartengono alla letteratura tradizionale.

GLI DEI DOMESTICI

Helmold (I, 52) ci dice che i campi e le città degli Slavi baltici
rigurgitavano di penati. Ripete questa frase un po’ più avanti (82).
Tietmaro dice: «Domesticos colunt deos multumque sibi prodesse
eosdem sperantes eis immolant» (VIII, 69) e aggiunge: «Audivi de
quondam loculo in cujus summitate manus erat unum in se (ferreum)
tenens circulum, quod cum pastores illius villæ, in quo is fuerat per omnes
domos has singulariter ductus, in primo introitu a portitare suo sic
salutaretur: Vigila, Hennil, vigila! Sic enim rustica vocabatur lingua et de
ejusdem se tueri custodia stulti autumabant…» Non sappiamo chi sia questo
Hennil. Si è voluto vederne il dio delle greggi (goniti, honiti, cacciare davanti
a sé).
Il primo cronicista ceco, Cosma, che evita sempre la parola slavo e che
sviluppa tutti i suoi racconti con una terminologia più o meno classica, ci
racconta (I, 2) che il fondatore della nazione ceca si stabilì ai piedi del
monte Řip: là «primas posuit sedes, primas fundavit et ædes et quos in
humeris secum apportarat humi sisti penates gaudebat». Egli fa un discorso
accademico ai suoi compagni: «O socii non semel mecum graves labores
perpessi sistite gradum; vestris penatibus libate libamen gratum quorum
opem per mirificam hanc, venistis ad patriam». Il cronicista in rima,
conosciuto a torto sotto il nome di Dalimil, racconta che Čech se ne andò di
foresta in foresta «dietky své na plecú nesa», portando i suoi figli sulle

1 Citato da Krek, p. 384. (N.d.A.)


2 Cfr. l’opera di Brückner, Mythologischen Studien in Archiv für slavische Philologie, t. XIV.
(N.d.A.)
3 Nella letteratura orale della Piccola Russia [Ucraina], la regina delle Rusalka si chiama
Diva, Dívka (Máchal, op. cit., p. 119). (N.d.A.)

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spalle. Jireček ha proposto di correggere e di leggere dédky che vorrebbe


dire gli antenati. Questa correzione è soltanto un’ipotesi.
La credenza nell’esistenza di dèi domestici è attestata dal folclore
nazionale di tutti i popoli slavi. La letteratura orale russa conosceva un dio
domestico chiamato děduška domovoj (l’antenato della casa). Lo si
rappresenta sotto la figura di un vecchio. Si nasconde durante il giorno
dietro la stufa, la notte esce dal suo rifugio e mangia il cibo che gli si
prepara. Se non trova qualcosa si arrabbia, scuote le panche e i tavoli; gli
piacciono molto tutti i luoghi in cui si accende un fuoco. Frequenta volentieri
i bagni di vapore (banja), ricorda allora le bannikŭ; non ama i bagnanti che
lo disturbano bagnandosi di notte, soprattutto se non hanno fatto le
abluzioni prima delle loro preghiere. Prende anche nomi differenti a seconda
della parte di casa in cui risiede. Egli presiede l’economia domestica, la
famiglia. Così lo si chiama chozjainŭ, choziainuško (in ceco hospodařiček,
piccolo padrone). Lo si chiama anche dvorovyj perché risiede nel cortile,
chlěvnikŭ, koniušnikŭ perché si interessa al fienile o alla stalla. È l’anima di
un antenato. Ogni casa deve avere il suo domovoj; una casa nuova non ce
l’ha, ma l’avrà quando muore il primo proprietario. Il contadino che trasloca
invita il domovoj a venire a vivere con lui nella sua nuova casa. Gli indirizza
invocazioni, gli offre sacrifici. Egli è protetto dal domovoj di casa sua;
altrimenti teme il domovoj del suo vicino che va da lui a rubare il fieno o il
pollame1. In Galizia, presso gli Hucules e i Boiki2, il domovoj si chiama did,
dido, nonno. Tra i Polacchi si chiama domowyk o chowanec (colui che cura),
krasnoludek, l’uomo vestito di rosso. I dziady (antenati) sono soprattutto
dei fantasmi spaventosi, delle anime di antenati che richiedono sacrifici3. Ma
in realtà questi dziady appartengono al folclore della Russia Bianca.
Il demone familiare viene anche chiamato Skrzat. «Bodaj ciç skrzaci
wzięli» corrisponde alla nostra formula: «Che il diavolo ti porti via». Si dice
di un uomo che guarda male: «Wygląda jako skrzat», ha l’aria di uno
skrzat. Ritorneremo su questa parola.
Abbiamo già parlato del genio domestico chiamato hospodařiček in
Boemia. Lo si conosce come šotek o šetek. Questo nome sembra voler
significare piuttosto vecchi (Kott). Se ne ignora l’etimologia. Gli scrittori del
XVII e XVIII secolo vi hanno fatto frequenti allusioni e li hanno paragonati ai
Lari romani. Il šotek era conosciuto anche tra gli Sloveni della Stiria. Il fatto
più notevole è che presso gli Slavi meridionali non si trovano tracce del culto
di dèi domestici. In Boemia si conosce anche lo Skřitek identico allo Skrzat
dei Polacchi. Gli antichi dizionari traducevano questa parola con lar
domesticus. I predicatori facevano di Skřitek il sinonimo di Diabolus. Hus lo
dice dei fedeli che non ascoltano gli uffici: «Il sacerdote pronuncia certe

1 Cfr. Ralston, Songs of the Russian People, [1872], pp. 120-139 e i testi russi indicati da
Máchal, op. cit., p. 95. (N.d.A.)
2 Popoli slavi che abitavano lungo il fiume Dnestr. (N.d.T.)
3 Dziady è, come si sa, il titolo di un poema romantico di Mickiewicz. La sua idea originale è
tratta dal folclore della Russia Bianca. (N.d.A.) – Il poema, del 1823, racconta le antiche
feste di commemorazione dei defunti che dalla Lituania arrivarono nel Belarus’. (N.d.T.)

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parole, esse sono raccolte dallo Skřitek», cioè, ovviamente, dal demonio.
Una locuzione popolare analoga all’imprecazione polacca che ho citato sopra
dice: «Aby te skřitek vzal», Che il diavolo ti porti via!1
La parola szkrat in polacco, škratek in sloveno, škřitek in ceco, non è di
origine slava. Come Matzenauer ha dimostrato2, è di origine germanica:
antico tedesco scrato, scratun (larvæ, lares mali, lemures); medio tedesco
schrat, schratze, schretze (faunus, dæmon), schretel (spiritus familiaris)
eccetera A questo proposito, mi viene in mente un confronto che non è
ancora stato segnalato dagli etimologisti. Il germanico schrat non può
essere vicino allo slavo čert, czart, čortŭ, demonio? Questa parola è
penetrata tra i Cechi, i Polacchi, i Russi e gli Sloveni che sono stati in
relazione con la Germania. Non è conosciuto tra gli Slavi meridionali (salvo
tra gli Sloveni vicini dei Tedeschi). I Croati, i Serbi e i Bulgari sono stati fra i
popoli slavi i primi a convertirsi al cristianesimo. Alcune tradizioni che sono
sopravvissute più a lungo tra gli altri Slavi sembrano essere scomparse
completamente tra loro. Non sarei sorpreso se la parola čert fosse
semplicemente un prestito dal folclore germanico.
Tra gli Slovacchi per designare il dio penate si usa un diminutivo del
nome di dio: Buožik, buožiček domaci (piccolo dio domestico). Il polacco del
XVI secolo diceva: skryatkowie domowe vbožęta (piccoli dèi domestici).

Capitolo VI

LE DIVINITÀ DEL DESTINO

Si è spesso citato il testo di Procopio3: «Gli Slavi non conoscono il destino


e non credono che esso abbia qualche potere sull’uomo. Ma quando la
morte li minaccia, sia per causa di malattia, sia per la guerra, essi
promettono, se ne scampano, di fare un sacrificio a Dio (o al Dio ) e
una volta sfuggiti, essi lo fanno e sono convinti che devono la loro salvezza
a quel sacrificio. Adorano i fiumi e le ninfe e altre divinità e fanno a
tutti dei sacrifici e danno delle divinazioni in questi sacrifici».
I testi e il folclore ci permettono di commentare e completare queste
righe di Procopio. Se gli Slavi non conoscevano il destino che governa i
destini dei popoli o degli imperi, conoscono dei personaggi che presiedono
alla nascita o al destino dell’uomo. Attestati dai testi del Medio Evo, questi

1 Č. Zibrt, Staročeské obyčeje, pp. 195 e seguenti. Cfr. anche Fontes rerum bohemicarum
(Praga, 1884), p. 484: «Spiritus qui Krzetky dicuntur». Zibrt ha pubblicato
un’interessante monografia: Skřitek v lidovim podáni staročeskem (Lo Skřitek nelle
antiche tradizioni ceche), Simaček, Praga 1891. (N.d.A.) – Il primo titolo di Zíbrt è, nella
forma completa, Staročeské obyčeje a pověry pivovarské, 1896. (N.d.T.)
2 Nel suo Dizionario di parole straniere nelle lingue slave, p. 81. (N.d.A.) – Si tratta
dell’opera Cizí slova ve slovanských řečech (Parole straniere nei testi slavi), Brno 1870.
(N.d.T.)
3 De bello gothico, III, 14. (N.d.A.)

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personaggi vivono ancora nella tradizione popolare. Li si chiama Rodjenice,


Rožanice (da rod, nascita), o Sudjenice (da sud, giudizio, destino).
Afanas’ev ha citato1 un testo slavone-russo del XII secolo noto con il
nome di Questioni di Kyrikŭ: «Che cosa si offre alla Nascita e alla Rožanica
del pane, del formaggio e del miele? Guai, dice il vescovo, a quelli che
bevono per Rožanic2». Afanas’ev cita ancora un frammento slavone-russo di
una traduzione del profeta Isaia (65, 11-12): «Voi che abbandonate
l’Eterno, che dimenticate la montagna della mia santità, che ergete la tavola
all’armata dei cieli e che fornite l’aspersione a quanti astri si possano
contare, io vi conterò anche con la spada». (Si tratta di Ebrei che praticano
dei riti pagani.) Una traduzione slavone di Isaia, datata 1271, dice così:
«Voi che mi avete abbandonato e che preparate una tavola per i
Rožanicas»3.
Altri testi attribuiti a san Giovanni Crisostomo sviluppano quello che noi
abbiamo appena citato e raffigurano Rodŭ e Rožanicy, cioè la Nascita e gli
esseri mitici che la governano. Nella raccolta (Sbornikŭ) detta di Paisij4 si
vede figurare ancora Rodŭ e Rožanicy. Ci fa conoscere le feste che
accompagnavano la nascita e nelle quali si invocava Rodŭ e le Rožanicy per i
neonati, offrendo loro cibo, tra cui pane, formaggio e miele. Un altro testo
citato da A. Veselovskij5 dice: «I fedeli sono coloro che servono Dio e non le
Rožanicy». Un testo del XV secolo citato da Miklošič nel suo Dizionario
slavone dice: «Essi pregano Perunŭ e la nascita (Rodŭ) e le Rožanicy».
Questi testi sono completati dal folclore. Troviamo delle Sudnice, Sudjenice,
Sojenice, Sudički tra i Cechi, i Croati, gli Sloveni, una Dolja (destino) tra i
Russi, una Sreča (Ventura, Fortuna) tra i Serbi. I Bulgari conoscono le
Urisnici o, meglio, Orisnici. Il loro nome deriva da un verbo orisam (dal
greco , determinare). Essi determinano i destini del bambino. Ce ne
sono tre buone e tre cattive. Secondo un testo citato da Čolakov, la prima
Orisnica dà al bambino l’intelligenza e gli insegna a leggere, la seconda gli
dà la salute e la bellezza, la terza l’accompagna in tutte le circostanze della
sua vita, gli insegna a esercitare un mestiere e ad arricchirsi. Ogni uomo ha
tre buone Orisnicy e tre cattive. La parola orisnica ha finito per designare in
bulgaro il destino, la fortuna.
In sintesi, se gli Slavi non avevano conosciuto l’idea astratta del destino,
il fatum, essi conoscevano i personaggi mitici che presiedevano la nascita e

1 Vedute poetiche degli Slavi, t. III, p. 416. (N.d.A.) – Titolo russo: Poetičeskie vozzrenija
slavjan na prirodu. (N.d.T.)
2 Sull’originale è Rožanicas (plurale francese), ma in russo è Rožanic al singolare e Rožanicy
al plurale, mentre in polacco è Rodzanic e Rodzanice. (N.d.T.)
3 L’odierna versione del passo è: «Ma voi, che avete abbandonato il Signore, / dimentichi
del mio santo monte, / che preparate una tavola per Gad / e riempite per Menì la coppa di
vino, / io vi destino alla spada» (Is 65, 11-12). (N.d.T.)
4 Paisij Chilendarski. Scrisse in paleoslavo ammodernato Istorja slavianobălgarskaja (Storia
slavo-bulgara) nel 1762, ma pubblicata nel 1844. (N.d.T.)
5 Razyskanja, sesta tiratura, Memorie della sezione russa della Accademia di San
Pietroburgo, 1892, p. 168. (N.d.A.)

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la vita dell’uomo. Questi personaggi, come le Parche e le Fate sono sempre


di sesso femminile.

LE VILA1

«Essi onorano i fiumi e le ninfe» dice Procopio, nel passo che abbiamo
citato sopra. Noi troviamo in effetti nei testi antichi e nel folclore dei
personaggi mitici che rispondono alle Ninfe dell’antichità classica.
I testi slavone-russi (riuniti da Krek, p. 314), che abbiamo citato in
precedenza a proposito di Perunŭ, di Chorsŭ, di Mokošĭ, di Rodŭ e delle
Rožanicy parlano anche delle Vila (al plurale). Uno di essi dà anche un
dativo maschile singolare vilu, che implica un nominativo vilŭ. Questa è
probabilmente una distrazione o una ignoranza del copista. I testi sono di
solito del XIV-XV secolo, ma sono basati su redazioni precedenti. In una
traduzione slava di Giorgio Amartolo, il nome delle Sirene è tradotto con
Vily2. In Bulgaria un manoscritto religioso del XVIII secolo, riproduzione di
manoscritti precedenti, infama coloro che onorano le Samovila e che sono i
rinnegati del Cristo. Tra i Serbi la parola Vila non appare, che io sappia, nei
testi antichi. Non compare nel Dizionario paleoserbo di Daničić, ma si trova
la parola Samovila in un testo del XIV secolo3. Una carta dell’imperatore
Costantino Asen (XIII secolo) menziona nei dintorni di Skoplje4 un Vilskij
Kladezŭ (Pozzo delle Vila). Un testo del XV o XVI secolo5 è intitolato: «Come
cominciò, o fu concepita la Samovila».
A lungo si è considerato la Vila come propria agli Slavi del sud, ai Serbi in
particolare. Ricerche più recenti provano che era nota tra tutti gli Slavi,
tranne gli Slavi baltici. Kollár l’ha ritrovata tra gli Slovacchi6. Nella contea di
Trenčín le Vila sono considerate come le anime delle fidanzate morte dopo il
contratto7. Esse non possono trovare la pace e sono condannate a vagare la
notte. Se incontrano un uomo, lo trascinano nelle loro danze e lo fanno
ballare finché egli ha reso l’anima. Si sono trovate loro tracce in Polonia. Nei
dintorni di Sieradz le Wila sono le anime di belle ragazze condannate, a
causa dei loro peccati, a fluttuare tra il cielo e la terra. Esse rendono agli
uomini il bene o il male che hanno ricevuto durante la loro vita. Máchal ha
citato8 due testi che sembrano provare l’esistenza della Vila in Boemia.
Intorno a Žamberk i Tedeschi dicono, parlando di una persona che si è

1 Le vila sono anche dette veela, villi o willi. (N.d.T.)


2 Veselovskij, Razyskanija [Ricerche], in Memorie dell’Accademia di San Pietroburgo, 1890,
p. 295; Sreznevskij, Materialy…, op. cit., sub voce Vila. (N.d.A.)
3 Miklošič, Lexicon. (N.d.A.) – L’opera di Daničić ha pubblicato molto su linguistica,
grammatica, sintassi, morfemi, storia serba e croata. L’opera citata potrebbe essere il
Dizionario croato e serbo pubblicato a partire dal 1882. (N.d.T.)
4 Costantino Asen fu zar dei Bulgari e governatore serbo dal 1258 alla morte (1277).
Skoplje è uno degli antichi nomi in serbo di Skopje, oggi in Macedonia. (N.d.T.)
5 In Archiv für slavische Philologie, t. I, p. 609. (N.d.A.)
6 Spêvanky, I, 412. (N.d.A.)
7 Contratto di matrimonio. (N.d.T.)
8 P. 114. (N.d.A.)

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perduta nei boschi, «Die Wile hat ihn verführt»1. Nel paese di Hradec si dice
che i bludičky o i fuochi fatui sono le anime di coloro che la Vila ha fatto
perire.
Cos’è la parola Vila? Non è comune, in realtà, che nelle lingue balcaniche,
nel bulgaro, nel serbo-croato e loro congeneri, nello sloveno. L’Accademia di
San Pietroburgo nel suo recente Dizionario russo la segnala giustamente
come una parola straniera. Miklošič ne ignora l’etimologia. Ma egli propone
con ragione, secondo me, di collegarla alle seguenti parole bulgare: vilněią,
io sono soggetto all’influenza delle Vila, io divento folle; al ceco vila, folle.
Questa parola molto antica compare già nella Cronaca detta di Dalimil (XIV
secolo); vilati, condurre una vita dissoluta, fornicare; vilil jest lid se dcery
moabskymi, il popolo commette fornicazione con le figlie di Moab; vilný,
voluttuoso, dissoluto; vilost, follia, ecc. In polacco, abbiamo: wila, pazzo,
stupido; wilowač, fare delle follie; szaławiła, pazzo, fuori di cervello. La
prima parte di questa ultima parola appartiene alla radice šal, furore.
Tutte queste parole sembrano collegarsi anche all’idea pagana della vila
(idea del dio pagano, di possessione demoniaca, cfr. i derivati di běsŭ). Ma
non ci spiega l’etimologia di Vila2. A. Veselovskij suppone che la forma
antica di Vila sia Věla; egli la paragona al lituano wêlis che significa gli
antenati e al greco che vorrebbe dire Mani, defunto3, e da cui verrebbe
; il tutto si collega alla radice indo-europea vel = perire e che si
ritroverebbe in Valhöll (Walhalla). Ho riportato questa ipotesi senza
associarmi. Essa mi pare singolarmente audace.
A difetto di questa etimologia se ne propone un altra puramente storica.
Delle feste in onore dei morti erano celebrate in primavera nella stagione
delle rose e delle violette. Le si chiamavano dies rosæ, rosalia (vi torneremo
a proposito delle Rusalka), sono anche chiamate dies violæ. Questo violæ si
ritroverebbe nel nome delle Vila. In sintesi, rimaniamo nella sfera delle
ipotesi.
I testi che abbiamo citato sopra ci mostrano il culto delle Vila, presso i
pagani (sono le Ninfe di Procopio) e presso gli Slavi ancora mal convertiti al
cristianesimo. È persistito nelle campagne, in particolare tra gli Slavi
meridionali. La letteratura orale dei Serbi, dei Croati e dei Bulgari ripete
continuamente il nome Vila. È anche stato adottato dalla lingua letteraria;
gli antichi poeti dalmati traducevano con il loro nome quello delle ninfe.
Possiamo rintracciare dai canti popolari tutta la vita della Vila4. Una Vila
viene nominata da un giovane: «Nessuno è più bella della mia amata,
nemmeno la Vila della foresta». La Vila lo sente e si ingelosisce. Si presenta
al giovane Pietro: «Portami la tua amata». Pietro gliela conduce vestita di

1 «La Wila lo ha sedotto». (N.d.T.)


2 Se la parola Vila è scomparsa in russo, è probabilmente perché è stata rimpiazzata da
Rusalka. (Cfr. più avantii). (N.d.A.)
3 Più propriamente anima o spirito del defunto. Gli dèi mani erano le anime divinizzate dei
trapassati. (N.d.T.)
4 Raccolta di Karadžič , t. I, p. 65. (N.d.A.)

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abiti splendidi. La Vila è costretta ad ammettere la sconfitta e grida con


rabbia: «Se la tua amata è più bella di me, è perché una madre l’ha messa
al mondo, l’ha avvolta in fasce di seta e nutrita del suo latte materno. E io,
Vila della montagna, è la montagna mi ha messo al mondo, mi ha avvolto in
foglie verdi ed è la rugiada del mattino che mi ha nutrito; è il vento della
montagna che mi ha cullato».
Secondo altri testi serbi la Vila nacque dalla rugiada che si deposita sul
colchico d’autunno1. In Slavonia, si racconta che essa nacque quando piove
e splende il sole2 o quando appare l’arcobaleno.
Le Vila sono rappresentate come belle donne, eternamente giovani,
vestite di bianco e di blu; i loro capelli d’oro ondeggiano sulle loro spalle e
racchiudono il segreto della loro vita. La Vila che se ne lascia strappare uno
muore subito. A volte hanno le ali; i loro occhi brillano come il lampo; la
loro voce è di una dolcezza squisita, chi l’ha ascoltata una volta non la
dimentica più.
Vivono nelle nuvole, sulla terra, nell’acqua, e persino in mare. Hanno
costruito sulle nuvole dei castelli fantastici. Una canzone montenegrina
descrive uno di questi castelli:
«La bianca Vila costruì un castello / né in cielo né in terra, ma su un
banco di nuvole. / Al suo castello fece tre porte. La prima è tutta d’oro / la
seconda in perle / la terza in stoffa di porpora. / Là dove sono le porte d’oro
massiccio / la Vila sposa suo figlio / là dove sono le porte di perla / la Vila
sposa sua figlia / là dove sono le porte di porpora / la Vila si siede. Si siede
e guarda il lampo che gioca con il fulmine»3.
Ci sono le Vila delle foreste (gorni), delle montagne (planinkinje). Esse
svolgono un ruolo come sant’Elia in tutti i fenomeni atmosferici. Raccolgono
le nuvole, producono le tempeste, preservano dalla grandine; esse abitano
nelle stelle. Le Vila delle montagne penetrano nelle caverne, si trasformano
in serpenti. Le Vila dell’acqua vivono nel mare o nei fiumi. Alcune di loro –
come le Sirene – sono metà donne, metà pesce; si trasformano anche in
cigni o hanno un corpo di donna e piedi di cigno. La Samovila bulgara
cavalca un cervo selvatico, ha per briglie un serpente, per frusta una vipera.
Le Vila vagano per le foreste, uccidono la selvaggina con le frecce.
Danzano nelle nuvole o nelle foreste. I loro canti sono deliziosi, ma solo
coloro che possono comprenderli sono ammessi al loro commercio familiare.
Hanno il dono della profezia, guariscono dalle malattie e possono anche
risuscitare i morti; alcune sorgenti che hanno il loro nome sono
particolarmente efficaci. Questo dettaglio, notiamo di passaggio, conferma il
nome Vilinŭ Kladezu (Pozzo delle Vila), che abbiamo citato prima.
Le Vila sono di una forza straordinaria; lottano contro gli eroi, a volte
combattono tra loro e i loro movimenti scuotono la terra. Frequentano i

1 Fiore simile al croco. (N.d.T.)


2 Quando piove e splende il sole, i Bulgari raccontano che le Samovila fanno il bagno
(Karavelov, Memorie, p. 241).
3 Karadžić, t. 1, pp. 151-152. (N.d.A.)

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mortali, più di un eroe ha scelto una Vila per posestrima o sorella


d’adozione1. Esse diventano ugualmente le sorelle di adozione di alcuni
animali preferiti (caprioli, cervi, camosci).
A volte sposano perfino dei mortali e hanno dei figli, ma questi inni hanno
generalmente una fine tragica. A un certo punto la Vila scompare. Esse
tolgono i figli agli uomini e li nutrono di miele, oppure affidano i loro figli a
delle mortali. Questi figli di dee sono notevoli per memoria e intelligenza.
Talvolta le Vila sono cattive e si vendicano crudelmente delle offese che
gli uomini hanno fatto loro. Trafiggono i nemici con le loro frecce, li
mutilano, li fanno morire o li rendono folli. L’uomo posseduto da un demone
si chiama Vilovniak (cfr. , trasportato dal delirio, e le parole ceche
e polacche citate sopra). Esse annegano i giovani che nuotano nei loro
fiumi, fanno perire coloro che disturbano le loro sorgenti o si permettono di
servirsene senza permesso. Sollevano le tempeste in mare, distruggono le
navi, accecano coloro che osano ascoltare i loro canti, o di turbare l’acqua
della fonte dove esse bevono, o di assistere ai loro bagni.
Si offrono loro ancora oggi dei sacrifici. Sulla costa croata e lungo l’antica
frontiera militare le ragazze depositano all’ingresso delle grotte, sulle pietre,
frutta, terra, fiori, sciarpe di seta dicendo: «Prendi, o Vila, ciò che ti piace».
I Bulgari offrono alle Samovila delle strisce di stoffa appese agli alberi, o
meglio mettono dei dolci vicino alle loro sorgenti. In particolare, certi fiori
sono a loro consacrati. «Nella Srednagora – scrive Jireček2 – come nel paese
di Trnovo, di Kotel e di Kustendyl, mi è stato mostrato il Samodivsko Choro,
o Chorište, dove, si dice, le Samodiva, Samovila o Vila danzano durante la
notte. Nel mezzo di un campo si trova un cerchio o un semicerchio di erba o
altre piante, come le fragole, più forti delle altre. Queste piante provengono
da grani seminati da un turbine. Si segnala un grande cerchio di questa
specie sul confine tra la Serbia e la Bulgaria tra Kustendyl3 e Vrania. Si
chiama Vilino Kolo (Cerchio delle Vila). I contadini non osano arrischiarsi la
notte in questi cerchi, non li falciano e non arano il terreno».
Alcune piante sono, secondo Jireček, consacrate in modo particolare alle
Samodiva, soprattutto la riganina, dal greco , origano, il thymus
4
serpillum e il resenŭ (Dictamus albus ).
Le Vila hanno in bulgaro il nome di Samovila, Samodiva, Diva, Juda.
Sotto nomi diversi, tutti questi personaggi hanno gli stessi attributi. La loro
sorgente possiede un’acqua dalle virtù meravigliose. Colui che ne beve
diventa forte come una Samovila; egli lancia una pietra pesante un milione

1 Le Vila svolgono un ruolo importante nella vita di Marko Kraljević. Si veda oltre il testo di
pesmas i commentari di Chalanskij, Joužno-slavjanskie Skazanija o Kralevičě Markě,
Varsavia 1894. (N.d.A.) – Il titolo completo è Južno-slavjanskija skazanija o Kralevičě
Markě v svjazi s proizvedenijami russkago bylevogo eposa: Sramitel’nyja nabljudenija v
oblasti geroičeskago eposa južnych slavjan i russkago naroda, la cui prima edizione è del
1893. (N.d.T.)
2 Cesty po Bulharsku (Viaggio in Bulgaria), Praga 1888. (N.d.A.)
3 Kyustendil. (N.d.T.)
4 Dictamnus albus. (N.d.T.)

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di okas1, strappa alberi interi, genera dei bambini con le ali al posto delle
braccia, con la capigliatura bianca, con gli occhi di fiamma.
Il loro divertimento preferito è la danza; piace loro andare talvolta in
aiuto agli eroi, li sposano anche, ma in generale sono pericolose per gli
uomini; puniscono le ragazze che si permettono di lavorare nei giorni di
divieto. Chi sposa una Samovila o Samodiva non ha possibilità di trattenerla
a lungo; essa s’involerà per il tubo del camino. Alcune hanno nomi
particolari. Costruiscono edifici le cui fondamenta reclamano vittime
umane2.
I nomi bulgari delle Vila non sono affatto più facili da spiegare della
parola Vila. Che cosa significa il prefisso Samo? In un composto vuol dire
auto . C’è tra le Vila e le Samovila lo stesso rapporto che esiste tra le
parole greche ?
La parola diva può essere di origine orientale o slava. Può essere
correlato al persiano div, al turco dev = demone3, alla radice slava div =
selvatico4. È così che viene interpretato nel paese di Sistovo, dove si crede
all’esistenza di persone samodivi (selvatici) che vivono nelle foreste. A
Karaesen (distretto di Sistovo) i vecchi raccontano che il giorno di San
Giorgio (23 aprile) una volta si offrì un sacrificio perché un sant’uomo aveva
liberato il paese dalla dominazione degli uomini samodivi ai quali erano
sottomessi. Si constata, tra i Cechi e i Polacchi, una credenza molto diffusa
sull’esistenza di personaggi selvatici, divi lidé, divé ženy, dzivožony, ecc.5 In
seguito all’identità assoluta dei suoni, qui l’inizio è molto difficile da stabilire
tra elementi puramente slavi ed elementi avventizi.
Il nome juda è speciale nella lingua bulgara e non si incontra negli idiomi
congeneri; si presenta sia da solo che associato alla parola Samovila. Non
sarà imparentato al personaggio mitico che il folclore russo chiama Jaga
baba e che il polacco chiama jędza, jędzina, jędzi baba (radice ąžŭ,
serpente, mostro)? Io mi permetto di proporre qui questa ipotesi, credo mai
fatta prima. Essa mi pare più verosimile di quella che collega juda a unda
(slavo voda) per la ragione che le Vila frequentano di preferenza le acque.
Jagić, il cui parere non dovrebbe mai essere trascurato, ha proposto di
collegare Samovila e Juda molto semplicemente al latino Sibylla Judæa. Le
leggende polacche su una mitica principessa Wanda, che si sarebbe gettata

1 Peso turco equivalente a 1,25 kg. (N.d.A.)


2 Cfr. nel Dizionario bulgaro di Duvernois, le voci Vila, Samovila, Samodiva ecc. La parola
Samodiva è penetrata in greco sotto la forma (Sbornik, IX, p. 80), citato da
Matov’ nei suoi Studi greco-bulgari. (N.d.A.) – Il titolo originale è Grŭcko-bŭlgarski studii,
pubblicato nel 1893. (N.d.T.)
3 Miklošič, Türkische Elemente. Supplemento. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Die türkischen
Elemente in den südost- und osteuropäischen Sprachen (Griechisch, Albanisch,
Rumunisch, Bulgarisch, Serbisch, Kleinrussisch, Grossrussisch, Polnisch) [Gli elementi
turchi nelle lingue del sud-est e orientale. (Greco, albanese, rumeno, bulgaro, serbo,
piccolo russo, grande russo, polacco)], Vienna, 1884-1890. (N.d.T.)
4 Šišmanov, Contributi all’etimologia popolare bulgara, in Sbornik, t. IX, p. 553. (N.d.A.)
5 Máchal, op. cit., pp. 126-130, 132, 144, ecc. (N.d.A.)

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nella Vistola, ricordano forse un personaggio simile alla Juda dei Bulgari.
Veselovskij unisce1 il culto delle Vila con il culto dei Mani. Ma
bisognerebbe sapere se le Ninfe dell’antichità, le Driadi, le Oreadi ed esseri
simili si collegano al culto degli antenati. Questa è una questione al di fuori
della mia competenza.
Tra i popoli convertiti al cristianesimo questi personaggi mitici, la cui
memoria non ha potuto cancellarsi, sono talvolta considerati come
rappresentanti delle anime dei defunti. Ma questa identificazione dovrebbe
essersi verificata sotto l’influsso delle idee cristiane.

LE RUSALKA2

Le Rusalka svolgono nel folclore dei Russi un ruolo analogo a quello delle
Vila presso gli Slavi meridionali. Esse non sono, come si è a lungo creduto,
proprie della sola Russia. Le ritroviamo in Bulgaria. Il loro nome è
relativamente recente; non si trova nei testi antichi, e non è di origine
slava. Esso non si collega – come si è sostenuto per molto tempo, ma a
torto – al sostantivo ruslo, ruscello, né all’aggettivo rusŭ, biondo; queste
due parole hanno, tuttavia, contribuito a fissare il carattere delle Rusalka, in
virtù dell’etimologia popolare.
Il nome si incontra per la prima volta nello storico Tatiščev (XVIII secolo)
la cui critica è piuttosto scarsa.
Dopo la ricerca di Miklošič, di Tomaschek e di Veselovskij non è più
possibile trovare al nome delle Rusalka una etimologia slava e dobbiamo
rassegnarci a cercarne un’origine straniera3. Essa deriva dalla parola
bizantina , latino rosaria, rosalia, pasca rosata, pascha rosarum.
Designa una festa cristiana che, come molte altre, si è confusa con una
festa pagana: la Pentecoste, la Pasqua delle rose. La festa delle Rusalia
viene dunque in sintesi dal latino rosa (tedesco Rosentag). Il nome Rusalia
è poi passato nella maggior parte delle lingue slave, nell’antico russo (per
esempio nella Cronaca detta di Nostore), nello sloveno, nel serbo, nello
slovacco, presso i Russi e in particolare quelli della Russia Bianca, presso i
Bulgari.
La festa delle Rusalia aveva carattere pagano.

1 Razyskanija, op. cit., t. XLVI, p. 181-185). (N.d.A.)


2 O rusalki, o rusalke. (N.d.T.)
3 Se vogliamo render conto dei progressi compiuti dai nostri studi, è sufficiente confrontare
la memoria di Šafařík sulle Rusalka (scritta nel 1833, e ristampata nelle Sebrané spisy
(Praga, 1865) e le quattro o cinque pagine, che sono state dedicate da Šišmanov (di Sofia
) nel tomo IX dello Sbornik. Cfr. al riguardo: Miklošič, Die Rusalien. Ein Beitrag zur
slavischen Mythologie (Sitzungsberichte der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften in
Wien), Vienna, 1869; Tomaschek, Über Brumalia und Rusalia (ib., 1869); Veselovskij sulla
Rivista (russa) del Ministero dell’Istruzione pubblica, 1885, e le Memorie della Sezione
russa della Accademia di San Pietroburgo, t. XLVI, 1890. (N.d.A.) - Il saggio di Miklošič
(che significa Le Rusalie. Un contributo alla mitologia slava, Atti della Accademia Imperiale
delle Scienze di Vienna) è del 1864, non del 1869 (data del saggio di W. Tomaschek).
(N.d.T.)

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Secondo Miklošič, la Chiesa l’avrebbe maledetta e le Rusalka sarebbero


diventate la personificazione di questa festa. L’etimologia popolare (ruslo,
ruscello, corso d’acqua) le avrebbe particolarmente legate al culto delle
acque. Una serie di nomi di feste prende ormai, come si sa, dei nomi di
personaggi leggendari: Beffania per esempio, tra gli Italiani (da noi il piccolo
Natale e, nell’immaginazione popolare, identificato con il piccolo Gesù),
santa Sreda (san Mercoledì), santa Petka (san Venerdì), santa Nedela
(santa Domenica) presso gli Slavi ortodossi.
Milićević racconta, nella sua descrizione del Principato di Serbia (p. 25),
un aneddoto curioso: «Una chiesa nei dintorni di Niš è chiamata dai
contadini la Santa Madre di Dio Rusalia. Un viaggiatore fece notare a un
contadino che la Madre di Dio non si chiamava Rusalia. Allora, replicò il
contadino, questa sarà la Santissima Trinità Rusalia».
Si segnalano in diverse località della Bulgaria delle tombe di Rusalka
(Rusalskia Grobišta). È forse un ricordo dei sanguinosi combattimenti che
accompagnavano la festa pagana delle Rusalia.
D’altronde, indipendentemente dalla loro origine, le Rusalka giocano nel
folclore russo un ruolo considerevole1. Il loro nome si è evidentemente
sostituito a quello delle Vila. Come le Vila, esse vivono nelle acque, nei
campi e nei boschi; il popolo le teme soprattutto la settimana che segue la
Pentecoste. In alcune regioni il loro culto si è unito a quello dei morti: si
crede che siano delle anime di ragazze morte prima del matrimonio.
I Cechi, i Polacchi, i Serbi di Lusazia conoscono anche delle Naiadi o delle
Ninfe delle acque. La Cronaca boema di Cosma racconta (I, 4) come la
principessa leggendaria Teta istruì il popolo ad adorare le Oreadi, le Driadi,
le Amadriadi. Ancora oggi, dice Cosma: «Multi villani, vel pagani, hic latices,
seu ignes colit, iste lucos et arbores aut lapides adorat, ille montibus, sive
collibus litat, alius quæ ipsa fecit ydola surda et muta rogat et orat ut
domum suam et se ipsum regant». All’inizio del libro III, Cosma fa ancora
allusione ai contadini che, nel tempo della Pentecoste, «offerentes libamina
super fontes mactabant victimas». È precisamente la festa delle Rusalia.
Oggi il contadino ceco conosce le Vodni Panny o ženy (Vergini o donne
delle acque), lo slovacco le Vodopanenky (stesso senso). Esse dimorano
sotto le acque in palazzi di cristallo e piace loro uscire dalle dimore per
prendere parte ai divertimenti della gioventù. In Lusazia sono chiamate
Wodnejungfry (dal tedesco Jungfrau).
In Polonia, attraggono nelle profondità delle acqua gli imprudenti. Si
chiamano anche Bogunki (piccole dee); colui che le sposa si chiama
Boginiarz2.
In Boemia e in Moravia sono chiamate anche Nemodliki (ne, non; modliti,
pregare). Esse puniscono i bambini che non dicono la loro preghiera,

1 Le Rusalka hanno dato luogo a una letteratura abbondante. Oltre alle opere succitate, si
può consultare Máchal, op. cit., p. 115 e seguenti, e, in una lingua più accessibile del
ceco, Ralston, Songs of the Russian people, op. cit., pp. 139-146. (N.d.A.)
2 Cfr. i testi indicati da Máchal, op. cit., p. 149. (N.d.A.)

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portano i giovani nelle acque profonde e li costringono a sposarle.

Capitolo VII

Nei testi che abbiamo citato sulle differenti divinità abbiamo riscontrato
delle allusioni a diversi dettagli del culto pagano. Non è inutile darne la
sintesi e completarla, quando è il caso.
Ovviamente si indirizzavano agli dèi delle preghiere. I testi non ne fanno
allusione diretta. È sufficiente ricordare qui l’avvicinamento che si stabilisce
necessariamente tra la parola modla che in ceco significa «idolo» e i verbi
come modliti se (pregare) in lingua ceca, modlič się (stesso senso) in
polacco1.
I sacrifici sono attestati da numerosi testi. Secondo Procopio2 gli Slavi
offrivano al dio del tuono del bestiame e ogni tipo di offerta
.
Secondo Helmold (I, 52), «gli uomini e le donne si riuniscono con i
bambini e offrono ai loro dèi dei buoi e delle pecore e anche dei cristiani;
essi affermano che gli dèi amano soprattutto il sangue di queste vittime.
Dopo il sacrificio il sacerdote fa una libagione con il sangue per capire
meglio gli oracoli. Perché le parole di molti demoni slavi sono più facilmente
incoraggiati dal sangue. Compiuti i sacrifici secondo l’usanza, il popolo si
abbandona ai festini e ai divertimenti». Secondo il passo già citato di
Helmold «nei loro festini e nelle loro orge essi fanno circolare una coppa
sulla quale pronunciano delle parole che io non direi di consacrazione3, ma
di esecrazione al nome degli dèi, del bene e del male, dichiarando che ogni
buona fortuna è dovuta al dio buono, ogni cattiva al dio malvagio…»
Più avanti, a proposito di Svantovit, Helmold ci insegna che, per rendergli
un tributo speciale, gli si offre ogni anno un cristiano designato a sorte e
che da tutte le province slave si inviano ogni anno dei tributi destinati ai
sacrifici.
Questa affermazione si trova nel capitolo VI dello stesso libro: «I
mercanti, aggiunge Helmold, che vengono sull’isola di Rügen non hanno il
permesso di vendere né di acquistare se prima non hanno offerto al dio
qualche oggetto di valore».
Giovanni, vescovo di Meclemburgo (capitolo 23), fu fatto prigioniero dai
Sorabi. Dopo essere stato condotto in tutte le città slave e deriso, fu ucciso.
Gli tagliarono piedi e mani, e la sua testa fu fissata su una lancia e offerta al
dio Radigast. Gli Slavi (capitolo 69) sacrificavano ai demoni e non a Dio. Nel
capitolo 83 Helmold descrive il tempio di Proven, santuario di tutta la
regione, dove si svolgevano i riti di diversi sacrifici. Saxo Grammaticus ci

1 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., sub voce. (N.d.A.)


2 De bello gothico, III, 14. (N.d.A.)
3 Helmold pensa evidentemente alla consacrazione della messa. (N.d.A.)

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dice1 che tutti gli anni, dopo la mietitura, gli abitanti dell’isola di Rügen
sacrificano del bestiame a Svantovit e fanno in seguito un festino religioso
dove le carni consacrate al dio servono a soddisfare la gola dei fedeli. Gli
storici di Ottone da Bamberga raccontano i sacrifici offerti a Triglav2. Noi
abbiamo presso gli Slavi del Baltico un culto organizzato, dei sacerdoti, delle
offerte, dei pellegrinaggi.
Non è sicuro che non vi fossero templi in Russia. Non vi è alcuna prova
dell’esistenza di una casta sacerdotale, gli idoli sembrano essere stati
generalmente eretti su luoghi elevati. Si sono loro offerti in sacrificio delle
vittime umane. «Vladimirŭ – dice la Cronaca3 – andò a Kievŭ offrì dei
sacrifici agli idoli insieme al suo popolo, e gli anziani e i bojari dissero:
“Tiriamo a sorte un giovine e una fanciulla, e a chi toccherà sarà immolato
agli dèi”». La sorte cadde su il figlio di un varjago cristiano; il padre rifiutò
di dare il proprio ragazzo e si chiuse con lui in casa; essi furono uccisi tutti e
due.
«Vladimirŭ – dice altrove la Cronaca – eresse su una collina molti idoli,
Perunŭ, Chorsŭ, Dažbogŭ, Stribogŭ. Si offrirono loro sacrifici, il popolo offrì i
suoi figli, le figlie ai demoni; essi insozzarono la terra russa dei loro
sacrifici…».
A Novgorod Dobrynja elevò un idolo di Perunŭ e i Novgorodiani gli
offrirono dei sacrifici come a Dio.
Vladimirŭ una volta convertito fece costruire una chiesa di San Basilio
sulla collina dove era l’idolo di Perunŭ4, là dove il principe e il popolo
facevano sacrifici. Questi sacrifici si chiamano trěby, i luoghi di sacrificio
trěbišča.
Secondo la Cronaca delle chiese di Novgorod (p. 172), il vescovo Joachim
distrusse nel 988 i luoghi dei sacrifici. Nella vita di Costantino di Murom che
risale al XVI secolo, ma che si basa evidentemente su dei testi più antichi 5,
il biografo ricorda la conversione della città e domanda: «Dove sono coloro
che facevano dei sacrifici ai fiumi e ai laghi, coloro che sgozzavano i cavalli
sui morti?»
Nel brano da noi già citato, Długosz, l’unico fra gli annalisti polacchi, dice
qualche parola sui templi, i sacrifici, le feste annuali chiamate stado,
stazione, riunione. Egli ha probabilmente molto inventato.
Tra i cronicisti cechi Cosma è il solo a insistere sui riti pagani, ma sempre
in termini accademici. Non fa alcun riferimento ai sacrifici umani. «Gli uni –
scrive (I, 4) alludendo ai riti pagani che esistevano ancora nel suo tempo –
portano delle offerte alle montagne o colline (litat), quell’altro invoca gli idoli
che ha fatto lui stesso se stesso e li supplica di governare la sua casa». Più
avanti (III, 1) racconta come il principe Břetislav III soppresse nel 1092 un
certo numero di resti del culto pagano, come le feste che si celebravano nel

1 P. 565, ed. Holder. (N.d.A.)


2 Ebbo, II, 13, 15; III, 1, 18. (N.d.A.)
3 Detta di Nestore, anno 983. (N.d.A.)
4 Cfr. capitolo dedicato a Perunŭ. (N.d.A.)
5 Citato da Kotljarevskij, O pogrebal’nych obyčajach…, op. cit., p. 124. (N.d.A.)

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tempo della Pentecoste, quando si portavano le offerte alle sorgenti, quando


si immolavano delle vittime al demonio, e i giochi funebri sui quali noi
torneremo più avanti.
Ho già indicato all’inizio le parole che designano l’idea di sacrificio. Essa è
il più delle volte espressa dalla radice trěb, che significa esigere: sacrificare,
offrire agli dèi ciò che esigono.
Esiste nei paesi slavi un gran numero di località dove si ritrova questa
radice trěb, da Trebinia in Erzegovina fino a Třebova in Boemia e Terebovl’
in Galizia. Questi nomi si riferiscono ad antichi luoghi di sacrifici o vengono
semplicemente dalla radice treb, distruggere? Designano dei luoghi di
sacrificio o delle località dove si sono distrutte le foreste? Varrebbe la pena
studiare attentamente tale questione.
Si incontrano dei boschi e degli alberi sacri. Tietmaro menziona il bosco
sacro di Zutibure «ab accolis ut Deum in omnibus honoratum» (VI, 38).
Zutibure è, in slavo baltico sventibor, esattamente il bosco sacro. Il nome
esiste anche sotto la forma Schkeitbar (tra Lützen e Zwenkau). Questa
forma barbara è sufficiente a dare un’idea di come il tedesco abbia sfigurato
la toponomastica slava1.
Uno degli storici di Ottone da Bamberga ci parla di un nocciolo o di un
noce sacro2. In Boemia il nome Raj (Paradiso) designa un certo numero di
boschi.
Nella testimonianza di un dotto ceco, B. Jelinek3, si trovano in questi
boschi delle ceneri, delle ossa che permettono di supporre che questi boschi
sono stati luoghi di sacrificio. L’autore dell’opera in questione ha rilevato
nella toponomastica ceca un certo numero di nomi che sembrano essere
collegati a idee religiose Svatá, Svatépole, Svatá hora (svat = santo)
Vyšeboha, Nizebohy, Boharne, Božna, Zbożna, Zbožnice, Svetice, Svatobor,
Modlany, Modlenice. In tutti questi nomi, in effetti, si trova un’idea religiosa,
ma per ciascuno di essi bisognerebbe discutere se questa idea ha la propria
origine nella religione pagana o nella leggenda cristiana. Cosma4 fa allusione
a dei boschi sacri. Allude anche a delle fontane sacre («super fontes
mactabant»). Tietmaro5 menziona nel distretto di Glomaci (ora Lommatzsch
in Sassonia, vicino a Meissen) una sorgente miracolosa. Essa nasce da una
palude. Quando la pace e l’abbondanza devono prevalere, la sorgente è
piena di grano, di avena e di ghiande e gli indigeni guardano a questo
fenomeno come a un buon auspicio. All’avvicinarsi della guerra, la fonte si
riempie di sangue e di cenere. Al tempo di Tietmaro i cristiani avevano

1 Kollár nel suo Commentario su Slávy dcera (Libro II, sonetto 28) ha rilevato un testo
curioso nella Cronaca di Merseburgo di Brottulf: secondo questo testo nessuno potrebbe
tagliare nel bosco un albero o un ramo sotto pena di morte: i Venedi pagani vi si riunivano
per alcune feste. Il cronicista tedesco prende Zuttiberus per il nome di un demone.
(N.d.A.) – Non Brottulf ma Brotuff. (N.d.T.)
2 Ebbo, II, 18. (N.d.A.)
3 Rivista Český lid, III, p. 78. (N.d.A.)
4 I, 4, III, 1. (N.d.A.)
5 Libro I, 3. (N.d.A.)

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ancora più venerazione per questa sorgente meravigliosa che per le chiese
del vicinato.
Nel XII secolo, in Boemia, i predicatori mettevano in guardia i fedeli
anche contro il culto degli alberi e delle sorgenti1. «Alii solem, alii lunam et
sidera colebant, alii flumina et ignes, alii montes et arbores sicut et adhuc
pagani multi faciunt et plurimi etiam in hac terra nostra adorant dæmonia et
tantum modo christianum nomen habentes pejores sunt quam pagani».
Tietmaro menziona (VIII, 59) una montagna situata nel pagus silensis (in
Silesia2), montagna molto alta che, a causa delle sue dimensioni, era un
oggetto di culto per i pagani.
Ho già segnalato, nel capitolo su Perunŭ e sant’Elia, i testi relativi al culto
della quercia presso i Russi. Afanas’ev ha notato delle locuzioni russe
relative a questo culto degli alberi: «Essi nascevano nei boschi, pregavano i
tronchi; vivevano nel bosco, pregavano un tronco; vivere nel bosco, pregare
i tronchi come Dio, dice il contadino parlando dei suoi antenati pagani
pregano tronchi come Dio, dice il contadino parlando dei suoi antenati
pagani»3. Il folclore russo crede al lĕšij4 o demone dei boschi.
Abbiamo più volte parlato dei templi degli dèi baltici: questi templi erano
il teatro di rituali più o meno complicati. Secondo Helmold (1, 52): «gli
uomini e le donne si riuniscono con i bambini e offrono ai loro dèi dei buoi,
delle pecore e anche dei cristiani; essi affermano che il Dio ama soprattutto
il sangue di queste vittime. Dopo il sacrificio il sacerdote faceva una
libagione con il sangue per capire meglio gli oracoli. Perché, a detta di molti
Slavi, i demoni sono più facilmente incoraggiati dal sangue. Una volta
compiuti i sacrifici, il popolo prende parte ai festini e ai divertimenti. Nei loro
festini essi fanno circolare, etc.».
Un po’ più lontano a proposito di Svantovit egli tratta dei sacrifici umani.
Gli si offriva annualmente un cristiano tirato a sorte, «Da tutte le province
degli Slavi inviano in questo tempio le imposte stabilite per i sacrifici».
Altrove (§ 38) Helmold afferma che i Rugiani non avevano denaro, tutto ciò
che essi saccheggiavano d’oro e d’argento lo usavano per fare ornamenti
per le loro donne o lo versavano nel tesoro del loro dio, «I popoli che essi
hanno sottomessi con le armi, dice ancora Helmold (§ 36), essi li fanno
tributari del loro tempio».
Si possono citare ancora le testimonianze di Helmold:
1° Sul tempio di Rethra eretto in una città che è chiusa da nove porte e
circondata da tutte le parti da un lago (I, 13). «Vi si entra da un ponte di
legno sul quale non si lascia passare che coloro che vanno a sacrificare o
consultare gli oracoli».

1 Cfr. i testi citati da Zibrt, Seznam Povĕr, p. 37. Il folclore russo crede al lĕšij o diavolo dei
boschi. (N.d.A.) – Il titolo completo del libro di Čeněk Zíbrt è Seznam pověr a zvyklostí
pohanských z VIII. Věku: indiculus superstitionum et paganiarum, edito nel 1894. (N.d.T.
)
2 O Slesia, regione storica oggi divisa tra Polonia, Repubblica Ceca e Germania. (N.d.T.)
3 Afanas’ev, op. cit., t. II, p. 325. (N.d.A.)
4 La grafia moderna è lešij. (N.d.T.)

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2° Sul tempio di Svantovit di cui abbiamo già parlato (I, 6).


3° Sull’omicidio rituale del vescovo Giovanni di Meclemburgo la cui testa
fu fissata su una lancia e offerta al dio Radigast (I, 93).
Al capitolo 69 della Cronaca si tratta dei sacrifici in onore dei demoni.
Si dice anche dei boschi sacri distrutti dal vescovo Gérold.
Studiando il culto di Svantovit abbiamo citato il testo di Saxo
Grammaticus relativo ai templi chiamati continæ, ai sacrifici di bestiame, al
dolce sacro. Il biografo di Ottone da Bamberga1 ci racconta anche che si
offriva del bestiame in sacrificio in particolare al dio Triglav.
Secondo gli storici degli Slavi del Baltico, alcuni dei loro templi erano stati
spesso degli edifici riccamente decorati e degni di appartenere a popoli
molto avanzati in civiltà. Bisogna fare, io credo, delle serie riserve su prove
piuttosto sospette.
Il tempio principale di Stettino2 era costruito con una arte meravigliosa,
sulle pareti interne ed esterne si stagliavano dei bassorilievi rappresentanti
uomini, bambini, uccelli ed erano dipinti con colori così eccellenti che né la
pioggia né la neve potevano alterarli. A Gostkow si elevavano dei templi
sontuosi ornati con idoli colossali di un’arte stupenda, così pesanti che
diverse coppie di buoi potrebbero, a detta di Ebbo, appena trascinarli; gli
abitanti destinavano per la loro manutenzione significative somme di
denaro3.
Il tempio di Radigast a Rethra era di legno; era decorato con statue degli
dèi e delle dee della stessa natura. Serviva come luogo d’assemblea, vi si
facevano delle divinazioni. Tietmaro (VI, 17) descrive nella città di Riedgost
(forse Rethra) un tempio costruito in legno e sostenuto da corna di animali.
Le pareti esterne sono ricoperte di immagini di dèi e dee splendidamente
scolpite; all’interno si elevavano degli dèi fatti a mano, con il loro nome
inciso4, rivestiti di elmi e corazze; l’idolo principale è quello del dio Zuarasici.
Abbiamo già discusso su questo nome.
Saxo Grammaticus descrive il tempio di Arkona 5, ornato, secondo lui, da
sculture e dipinti piuttosto grossolani.
«Tante regioni ci sono da queste parti – dice ancora Tietmaro (VI, 18) –
vi sono altrettanti templi e le immagini dei demoni sono adorati dagli
infedeli; è al tempio che essi vanno nel momento di fare la guerra, è là che
portano i presenti dopo una spedizione felice e, come ho detto, è per la
sorte e soprattutto per la divinazione del cavallo che essi apprendono quale
vittima deve essere offerta a dèi. Il popolo chiamato dei Ljutiči non
riconosce particolari divinità».
Gli Slavi costruivano essi stessi questi templi? Chiamavano per edificarli
degli artisti stranieri? Ci mancano documenti su questo argomento. Il

1 Ebbo, II, 13, 15, III, 1, 18. (N.d.A.)


2 Cfr. i testi citati a proposito di Svantovit e Triglav. (N.d.A.)
3 Ebbo, III, 9; Herbord, III, 7. (N.d.A.)
4 Si è molto discusso su questa testimonianza. Finora nulla dimostra che ci siano state delle
rune slave. (N.d.A.)
5 Cfr. sopra. (N.d.A.)

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geografo arabo Masudi (X secolo) aveva sentito parlare dei templi degli
Slavi: egli non li aveva visitati; ne parla solo per sentito dire e con tutta la
fantasia di un’immaginazione orientale. Il lettore può andare a cercare
quello che dice nel capitolo LXVI (tomo IV) delle Prairies d’or. Io riproduco
qui questa descrizione fantastica, facendo, beninteso, tutte le riserve del
caso:
«Vi erano presso gli Slavi molti monumenti sacri: l’uno era costruito su
una delle montagne più alte della terra, detta dei filosofi. Di questo
monumento si vantano l’architettura, la disposizione abile e i colori variegati
delle pietre impiegate, i meccanismi ingegnosi posti in cima alla costruzione
in modo da essere messi in movimento dal sole che sorge, le pietre preziose
e le opere d’arte che vi si conservano, le quali annunciano l’avvenire e
mettono in guardia contro le calamità della fortuna prima del loro
compimento; si citano infine le voci che si facevano sentire dall’alto del
tempio e l’effetto che esse producevano sul pubblico.
«Un altro tempio era stato costruito da uno dei loro re sulla Montagna
nera. Era circondato da sorgenti meravigliose le cui acque differivano per
colore e sapore e racchiudevano tutti i tipi di proprietà benefiche1. La
divinità adorata in questo tempio era una statua colossale rappresentante
un vecchio con un bastone col quale evocava gli scheletri fuori dalle loro
tombe; sotto il suo piede destro si vedevano delle specie di formiche; sotto
il suo piede sinistro degli uccelli dal piumaggio nero come quello dei corvi e
di altri uccelli e degli uomini di una forma che apparteneva alla razza degli
Abissini.
«Un terzo tempio sorgeva su un promontorio circondato da un braccio di
mare2; era costruito in blocchi di corallo rosso e di smeraldo verde. Al centro
c’era un’alta cupola sotto la quale era piazzato un idolo le cui membra erano
formate da quattro pietre preziose, berillio, rubino rosso, agata gialla e
cristallo di rocca. La testa era d’oro puro3. Un’altra statua era posta di fronte
e rappresentava una giovane ragazza che gli offriva dei sacrifici e dei
profumi. Gli Slavi attribuiscono l’origine di questo tempio a uno dei loro
saggi vissuto in un’epoca remota».
Abbiamo constatato l’esistenza di una casta sacerdotale presso gli Slavi
del Baltico e dell’Elba che non sembra essere esistita presso gli Slavi di
Russia, né presso gli Slavi dei Balcani rapidamente convertiti al
cristianesimo.
Al contrario, tra gli Slavi occidentali e i Russi si vedono ugualmente

1 A rigore, questa descrizione potrebbe applicarsi alle montagne della Boemia o ai Carpazi.
Un orientalista russo, F. Westberg, in un’opera in tedesco pubblicata sul Bollettino della
Accademia delle Scienze di San Pietroburgo (1899, t. XI, n. 5, p. 212), si è occupato di
questo brano di Masudi. Egli crede che non si tratti affatto di Slavi e che nei templi in
questione dovevano essere situati nel Caucaso. (N.d.A.) – Il titolo completo dell’opera di
Vestberg è Ibrahim ibn Ya’ḳub’s Reisebericht über die Slavenlande aus dem Jahre 965.
(N.d.T.)
2 Arkona (?). Westberg [Verstberg] crede che si tratti della penisola di Taman. (N.d.A.)
3 Cfr. La barba d’oro di Perunŭ. (N.d.A.)

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raffigurati degli stregoni, dei maghi. Lo stregone si chiama in antico russo


vlŭchvŭ, la magia vlŭšba. Questa parola non esiste che in russo e pare
collegarsi alla radice vels, da cui vlŭsnąti, borbottare, mormorare alcune
parole magiche. Questa etimologia sembra essere la stessa di quella del
moderno russo vračŭ che oggi indica il medico, ma che una volta
probabilmente voleva dire colui che scaccia il male con le proprie parole1.
L’incantatore si chiama anche čaroděecŭ, colui che fa dei čary, ceco
čarodĕjnik, polacco czarodziej (in casciubo čarecel). Il significato originario
della parola čarŭ non è conosciuto. In ceco e in wende, la parola čara
significa raggio, linea. Il čarodéecŭ non sarebbe colui che disegna dei
caratteri magici? Il ceco e il polacco conoscono anche čaroděecŭ, colui che
si serve di libri neri, cioè demoniaci. In Francia abbiamo la magia nera.
Presso gli Slavi baltici, i maghi non appaiono chiaramente a fianco della
casta sacerdotale. Li si incontra invece in Boemia e in Russia. Cosma fa
della leggendaria principessa Libuše una pitonessa e una profetessa (III, 8).
Egli riferisce sotto l’anno 1092 come il principe Břetislav II fece cacciare dai
suoi Stati gli indovini e i maghi (II, 136). Essi ben presto naturalmente
ritornarono: l’omiliario del vescovo di Praga (XII secolo) vi fa numerose
allusioni2.
La Cronaca russa detta di Nestore racconta, sotto l’anno 1091, delle
gesta dei maghi. Rinvio i curiosi alla mia traduzione.
Alcuni santuari erano famosi per gli oracoli che si venivano a consultare,
«Svantovit, dio dei Rugiens, era, dice Helmold (I, 52), quello i cui oracoli
erano i più sicuri…». Il sacerdote prediceva l’abbondanza o la carestia dalla
quantità di liquido rimasta in un vaso, secondo l’altezza di un dolce3.
Prediceva anche il futuro secondo come un cavallo passava attraverso
delle lance disposte in un certo modo. Noi abbiamo già citato i testi.
Tietmaro (VI, 24) parla assai vagamente di oracoli nei quali un cavallo
sacro svolge un ruolo. Questo cavallo passa su due lance conficcate nel
terreno. A volte, dice, un cinghiale enorme esce dal mare e appare ai
credenti terrorizzati.
La Cronaca detta di Dalimil segnala la civetta (vyr) come un uccello
sacro.
Secondo Saxo Grammaticus4, i Rugiani prima di tentare qualche impresa
traggono dei presagi dagli animali che incontrano, dai pezzi di legno bianco
o nero, dalle linee pari o dispari tracciate nella cenere dalle indovine. I

1 Il serbo ha vračar nel senso di stregone. (N.d.A.)


2 Citato da Zibrt, Seznam pověr…, op. cit., p. 85. (N.d.A.)
3 Ai testi che ho citato nel capitolo su Svantovit relativamente a questa credenza nel
folclore moderno posso aggiungere questo: «Il padrone di casa si nasconde dietro le blini
(frittelle) e domanda: Moglie mia, mi vedi tu? – Lei risponde: Non ti vedo. – Dio voglia,
risponde il padrone di casa, che tu non mi veda nemmeno l’anno prossimo» (Šein,
Materialy dlja izučenija byta i jazyka russkogo naselenija severo-zapadnogo kraja, II, p.
601). (N.d.A.)
4 Ed. Holzer, l. XIV, p. 567. (N.d.A.)

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biografi di Ottone da Bamberga1 parlano ancora in termini assai vaghi di


divinazioni con le coppe e con incantesimi. Non si sa esattamente cos’era
questa divinazione con le coppe… Una festa annuale era celebrata a Pyris;
essa aveva un carattere allo stesso tempo rustico e guerriero; un’altro a
Volyn2.

Capitolo VIII

LA VITA NELL’OLTRETOMBA

Cosma di Praga, riferendosi alle superstizioni pagane che il principe


Břetislav II si sforzò di sopprimere con un editto del 1092, si esprime così:
«Item sepulturas quæ fiebant in sylvis et campis atque scenas3 quas ex
gentili ritu faciebant in biviis et in triviis quasi ob animarum pausationem,
item et jocos profanos quos super mortuos suos inanes cientes manes ac
induti faciem lavis bacchando exercebant exterminavit».
Questo testo relativo ai Cechi pagani ha notevolmente esercitato la
sagacia dei commentatori. Esso rivela senza dubbio l’esistenza di un culto
dei morti presso gli Slavi di Boemia. Sembra anche dimostrare che essi
credevano nell’immortalità dell’anima, dal momento che facevano dei
sacrifici ob animarum pausationem. Ma Cosma si è forse lasciato influenzare
dalle idee cristiane. Le espressioni che usa appartengono al linguaggio della
Chiesa.
Nel XII secolo l’omiliario detto Opatovický4 invita il clero boemo a vietare
i canti diabolici che il popolo canta la notte sui morti e le scene scandalose
(cachinnos) che li accompagnano.
Tietmaro che non è slavo e che, nella sua veste di prelato tedesco, non
ama il paganesimo slavo, racconta nel primo libro della sua Cronaca (§ 14)
un certo numero di storie di fantasmi e aggiunge: «Ne muti canis obprobrio
noter inlitteratis et maxime Sclavis, qui cum morte temporali omnia putant
finiri hæc loquor…».
La testimonianza di Tietmaro sembra confermata da quella della Cronaca
russa detta di Nestore. Dopo aver ricevuto la visita dei missionari di
differenti culti, Vladimir convocò i suoi boiardi e comunicò loro il risultato dei
suoi incontri: «I Greci, dice, sono venuti diffamando tutte le religioni, ma
lodando la loro, ed essi hanno lungamente discusso della creazione del
mondo, e dicono che c’è un altro mondo»5.

1 Herbord, II, 32, 33; Ebbo, II, 12; Priefling, II, 11. (N.d.A.)
2 Ebbo, II, 12, 13. (N.d.A.)
3 Il continuatore di Cosma, detto il monaco di Sávaza, utilizza la forma cœnas. Essa non
cambia il significato generale della frase. (N.d.A.)
4 Pubblicato da Hecht, Praga 1865. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Misál opatovický (Messale di
Opatovice), il cui manoscritto, risalente al XIV secolo) è conservato nel Museo di Olomouc.
(N.d.T.)
5 Anno 987: «E infine vennero i Greci, che biasimarono tutte le altre leggi, ma lodarono la

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Mettendo queste parole in bocca a Vladimir, il cronicista vuole


evidentemente far credere che gli Slavi pagani non conoscessero
«quell’altro mondo»
La testimonianza dei due ecclesiastici cattolici sono assolutamente
divergenti su questa delicata questione. Cosma afferma che i pagani
facevano dei sacrifici per il riposo delle anime, Tietmaro sostiene che essi
credevano che tutto finisse con la morte. Il cosiddetto Nestore, che
appartiene alla Chiesa greco-ortodossa, si ispira evidentemente ai pregiudizi
cristiani. Le testimonianze degli Slavi pagani ci mancano completamente.
Vediamo un po’ che cosa ci insegnano i documenti linguistici e i rari testi
che possediamo. L’idea della morte viene espressa nelle lingua slave da una
radice mer identica a quella del sanscrito e del latino, che traduce l’idea di
affaticamento, torpore, distruzione. L’idea di dove si va dopo la morte è
espressa da una radice nav imparentata evidentemente a una radice ny che
esprime l’idea di affaticamento (in ceco unaviti, fatica; in russo nytĭ, fare
male, unylyj, abbattuto).
Tuttavia, questa radice dà un sostantivo nav che sembra indicare il luogo
dove gli uomini vanno dopo la morte. «Potom Krok jde do navi» (in seguito
Krok andò nel nav) scrive la Cronaca ceca detta di Dalimil, III, verso 5 1. Si
potrebbe essere tentati di pensare al significato della parola nava col senso
di navis: Krok andò in barca dentro la bara. Ma la costruzione della frase,
l’uso della preposizione do non mi sembra autorizzare tale interpretazione.
Si può dunque in questo testo solo ammettere che nav o nava designa il
paese dell’oltretomba.
Si trova, d’altra parte, la parola navĭ, nel senso di defunto2.
Długosz3 ci fornisce un’indicazione delle più preziose, perché questa volta
essa concorda con i dati della linguistica: «Plutonem cognominabant Nya
quem inferorum deum et animarum, dura corpora linquunt, servatorem et
custodem opinabantur; postulabant se ab eo post mortem in meliores
inferni sedes deduci». Długosz, ovviamente, non ha inventato la parola Nya.
I defunti chiamati navi, un soggiorno dei morti chiamato nav o nava, un
dio dei morti chiamato Nya, tutto questo si regge molto bene. Ovviamente
Długosz che vuole riportare la mitologia slava alla mitologia classica deve
assumersi la responsabilità del riavvicinamento di Nya con Plutone. Esiste
realmente una divinità o semplicemente un soggiorno dei morti chiamato in
antico polacco nyja? Non lo sappiamo.
Presso i Russi dei Carpazi si chiama Mavky, Navky una specie di Rusalka

propria e parlarono a lungo raccontando la origini del mondo, e narravano con saggezza
ed era per tutti un piacere ascoltarli. Dissero: “Colui che segue la nostra fede dopo morto
resusciterà e non morirà nei secoli. Se, invece, si converte a un’altra fede, allora brucerà
nel fuoco nell’aldilà». (N.d.T.)
1 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., p. 211, ha ignorato questo testo così
importante della Cronaca ceca. (N.d.A.)
2 Miklošič, Lexicon palaeoslovenico-latinum, p. 400. (N.d.A.)
3 Ed. Cracovia, p. 47. (N.d.A.)

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che sembra rappresentare le anime dei morti1.


Secondo le testimonianze raccolte da Máchal (p. 121), che non ho modo
di controllare, lo stesso nome esisterebbe in Bulgaria. Presso gli Sloveni si
chiamano Mavje, Navje, le anime dei bambini morti senza battesimo.
Accanto alla parola nav c’è nelle lingue slave una parola panslava raj che
designa il paradiso cristiano. Questa parola è, ovviamente, anteriore al
cristianesimo. Si può, da ciò che abbiamo detto sopra, supporre che
designasse presso gli Slavi pagani una foresta soggiorno dei giusti, qualcosa
come i Campi Elisi, in rapporto a nav che avrebbe designato gli inferi, il
Tartaro.
Ma i testi sono muti e l’esame della radice raj non ci rivela nulla di
positivo. Fondamentalmente sappiamo molto poco circa le idee degli Slavi
pagani sulla vita dell’oltretomba. Un dotto russo, Kotliarevskij, ha dedicato
un intero volume allo studio dei riti funebri presso gli Slavi pagani2.
Egli mette purtroppo a profitto dei testi che oggi si sa che sono
completamente apocrifi. D’altra parte egli avvicina ai Russi slavi dei testi
arabi che sembrano piuttosto applicarsi ai Russi Scandinavi3. Quello che
risulta dall’insieme dei testi4 relativi ai Russi o agli Slavi occidentali è che gli
antichi Slavi praticavano entrambi i modi di sepoltura, la tumulazione e la
cremazione; è che celebravano in onore di alcuni morti dei banchetti o delle
feste; è che alcune donne, come le donne indù, si facevano bruciare sullo
stesso rogo che consumava le spoglie del loro marito. Ibn Foslan racconta di
aver assistito all’incenerimento di un russo, e mette le seguenti parole in
bocca a un russo (slavo o varjago?) che prendeva parte alla cerimonia: «Voi
Arabi, voi siete un popolo sciocco, voi seppellite l’uomo nella terra dove
viene divorato dagli animali e dai vermi; noi, noi lo bruciamo in un istante in
modo che vada immediatamente in paradiso».
Credo che ci saranno da fare molti approfondimenti su questo testo.
Gli Slavi pagani non avevano dei luoghi speciali dedicati alla sepoltura. È
il cristianesimo che ha introdotto presso di loro i cimiteri. Abbiamo citato più
sopra il testo di Cosma sulle sepolture «quæ fiebant in sylvis et in campis».
Ciò è confermato da una lettera del vescovo Ottone da Bamberga, relativa
gli Slavi del Baltico: «Ne sepeliant mortuos christianos inter paganos in
silvis aut in campis»5.
Kadłubek, il cronicista polacco del XIII secolo, attesta ancora l’esistenza
di feste funerarie: «Funebres superstitiones quas eciam hodie in funeribus
exercet gentilitas»6.
Nelle antiche Cronache russe si tratta di una festa funebre chiamata

1 Veselovskij, Razyskanija, op. cit., p. 269; Máchal, op. cit., p. 121. (N.d.A.)
2 Questo lavoro pubblicato per la prima volta nel 1868 è stato ristampato senza modifiche
dall’Accademia imperiale di San Pietroburgo (Sbornik, t. XLIX, 1891). (N.d.A.)
3 Su questa distinzione si veda la mia edizione della Cronaca detta di Nestore. (N.d.A.)
4 Questi testi sono stati studiati da Kotliarevskij, op. cit. (N.d.A.)
5 Pertz, Monumenta Germaniæ Historica, t. VIII, p. 263. (N.d.A.)
6 Bielowski, Monumenta Poloniæ historica, t. II. (N.d.A.)

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tryzna. Miklošič1 scrive trizna e traduce questa parola con «pugna», pur
segnalando una parola ucraina: tryzna = pasto dei morti. L’ortografia dei
testi slavi esita tra tryzna e trizna. In questo dubbio, io penso che la parola
possa essere collegata alla radice trŭ «divorare», e che la parola designasse
in origine un banchetto funebre2. Questa spiegazione ammette che la parola
sia evidentemente legata alla parola strava usata da Iordanis per designare
la festa funebre celebrata dagli Unni in onore di Attila: «Postquam talibus
lamentis est defletus stravam super tumulum ejus quem appellant ipsi
ingenti commessatione concélébrant…»3. C’è molto da discutere su questa
parola strava. Anche all’epoca di Attila gli Unni erano in contatto con gli
Slavi e si può ammettere che essi abbiano preso in prestito la parola strava.
C’erano anche, ovviamente, degli Slavi negli eserciti di Attila.
Non discuterò a lungo della parola tryzna e rinvio il lettore al testo
francese della mia Cronaca di Nestore: «Quando uno dei Radimiči moriva…
essi celebravano una tryzna intorno al cadavere poi facevano un gran rogo,
posavano il morto sul rogo e davano fuoco. In seguito essi raccoglievano le
ossa, le mettevano in un piccolo vaso su una colonna lungo la strada. Così
fanno ancora oggi i Vjatiči»4.
Nella stessa Cronaca, sotto l’anno 969 si dice: «Ol’ga morì. Fu interrata.
Ella aveva ordinato che non si facesse per lei alcuna tryzna, ella aveva un
prete e fu lui che la seppellì»5.
Il cristianesimo non ha abolito presso tutti i popoli slavi gli antichi riti
pagani in onore dei morti. È sufficiente per convincersene rileggere, anche
nella traduzione francese, il poema di Mickiewicz, Gli Avi. Mickiewicz scrive
in polacco; i contadini del suo poema sono dei Russi Bianchi, degli Uniati,
cioè in fondo degli ortodossi presso i quali l’azione del cristianesimo
rappresentato dal basso clero si era molto meno efficacemente esercitato
che sui loro congeneri slavi, i Polacchi cattolici. Fra tutti i popoli slavi, essi
rappresentano forse lo stato dell’anima più primitivo. I riti che celebrano
sono assolutamente gli stessi che il poeta latino polacco Kłonowicz
segnalava nel XVI secolo presso i loro antenati, nel suo poema Roxolania:

Quin etiam mos est morientum poscere Manes


Portari tepidos ad monumenta cibos
Creduntur volucres vesci nidoribus umbræ
Ridiculaque fide carne putantur ali.

1 Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., sub voce. (N.d.A.)


2 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 435 e seguenti. (N.d.A.)
3 Ed. Mommsen, c. XLIX, p. 258. (N.d.A.)
4 Cap. X: «I Radimiči, i Vjatiči e i Severjani… Quando uno o l’altro moriva, essi celebravano
la trizna intorno al cadavere, poi innalzavano una grande pira, ponevano il morto sulla
pira, vi accendevano il fuoco e in seguito raccoglievano le ossa, le mettevano in un piccolo
vaso e ponevano questo vaso su un palo lungo la strada, come ancora al giorno d’oggi
fanno i Vjatiči». (N.d.T.)
5 «Ol’ga aveva dato ordine che non si facesse la trizna, poiché aveva il suo sacerdote e fu
lui a seppellire la beata Ol’ga». (N.d.T.)

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Nel poema dei Dziady (Gli Avi) Mickiewicz ha messo in scena i riti popolari
ai quali dà luogo la festa degli antenati celebrata dai Russi Bianchi nel suo
paese natale, la Lituania. Questi riti che il poeta aveva osservato, questi
canti che aveva sentito e che interpretava in bei versi polacchi, sono stati
raccolti in vari momenti, in particolare nella bella pubblicazione di Šein:
Materiali per lo studio della vita e della lingua della popolazione russa delle
provincie del Nord-Ovest1.
Nel III tomo2, Šein ha dedicato una cinquantina di pagine allo studio dei
riti in onore degli antenati.
Ciò che il contadino della Russia Bianca chiama dziady, dzidy, disdy
(roditeli, i genitori nella Grande Russia) sono le anime dei parenti defunti.
Queste anime non sono necessariamente quelle degli antenati o degli avi. Si
fa figurare tra i dziady, non solo i nonni, gli zii, le zie, ma anche i bambini
morti in tenera età.
Ciò che caratterizza questi riti è che sono totalmente pagani. Li si celebra
a volte quaranta giorni dopo la morte del defunto che si va a onorare.
All’inizio di novembre, c’è una festa generale dei Dziady. La parte essenziale
di questa festa è un pasto i cui avanzi sono conservati per i defunti.
La vigilia della festa, si pulisce la casa, si preparano i cibi. La pulizia della
casa, la buona qualità dei cibi attirano gli antenati. La sera, i parenti e gli
ospiti si riuniscono nella stessa casa. Il capofamiglia accende una candela;
ognuno si siede intorno alla tavola carica di cibi, birra e acquavite e colui
che ha detto la preghiera pronuncia la seguente formula:

Santi antenati, noi vi chiamiamo,


Santi antenati, venite da noi.
Qui c’è tutto quello che Dio ci ha dato.
Io vi offro tutto quello che ho,
Tutto ciò di cui la nostra casa è ricca.
Santi antenati, noi vi preghiamo, venite, scendete fino a noi.

Poi si versa un bicchiere di acquavite, in modo che ne trabocchi un po’ sul


tavolo per gli antenati, e si beve. Tutti gli adulti fanno lo stesso. Nessuno
inizia a mangiare prima che si sia tolta una cucchiaiata o un pezzo di ogni
cibo che si mette in un vaso speciale. Si pone questo vaso vicino alla
finestra (sempre per gli antenati). Poi ci si mette a mangiare e a bere, ma
senza allegria. Gli anziani sono più tristi degli altri, essi prestano l’orecchio
al minimo rumore, al mormorio delle foglie, al soffio del vento, al cigolio
della porta, al volo di una falena. Tutti questi fenomeni sembrano indicare la
presenza dei defunti. Finito il pasto, ci si alza da tavola, dopo aver

1 San Pietroburgo, stampa della Accademia delle Scienze, 3 voll. In 8°, 1896. (N.d.A.) – Il
riferimento esatto è Šein, Materialy dlja izučenija byta i jazyka russkogo naselenija
severo-zapadnogo kraja. (N.d.T.)
2 P. 582 e seguenti. (N.d.A.)

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congedato gli antenati con questa formula:

Santi antenati, voi siete venuti qui,


Avete bevuto e mangiato,
Andatevene adesso da voi.
Dite, che cosa avete bisogno ancora?
O piuttosto andatevene in cielo.

Gli Slavi della Russia Bianca sono di razza pura, essi sono stati poco
toccati dalla civiltà, il cristianesimo non li ha che sfiorati. Il loro stato
d’animo è ancora oggi quello dei loro antenati pagani di dieci secoli fa. La
testimonianza che ci porta il loro folclore merita di essere presa in seria
considerazione.
Queste tradizioni ancora esistenti a dispetto del cristianesimo presso
alcuni popoli slavi sono fino a nuovo ordine la miglior prova fornita per
dimostrare che i loro antenati pagani avevano l’idea di una vita oltre la
morte. È il folclore che deve qui supplire al silenzio dei testi antichi. Ma il
campo del folclore è infinito, e le indicazioni che abbiamo dato sono per il
momento sufficienti. L’archeologia viene anche qui ad aiutare. Si sono
trovati in Boemia, nelle tombe pagane, dei vasi che avevano racchiuso
alimenti e che erano stati evidentemente depositati per servire ai defunti
nella vita dell’oltretomba1.

APPENDICE
Svatovit e san Vito2

Nel capitolo precedente su Svantovit, dio degli Slavi dell’isola di Rügen, e


gli dèi in vit, mi sono sforzato di dimostrare contro Miklošič e qualche
ipercritico, contro Helmold e Saxo Grammaticus, che il nome di questo dio
era formato da elementi puramente slavi e che non bisognava vedervi una
alterazione del latino Sanctus Vitus. Questa interpretazione si basa molto
semplicemente su una di quelle etimologie fantasiose che pullulano a
proposito dei nomi slavi nei cronicisti latini del Medioevo. Ho avuto la
fortuna di vedere accogliere la mia opinione dall’eminente successore di
Miklošič alla cattedra di filologia slava dell’Università di Vienna, V Jagić3.

1 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 418. (N.d.A.)


2 Memoria comunicata all’Accademia delle Iscrizioni nella seduta del 6 aprile 1900. (N.d.A.)
3 In Archiv für slavische Philologie, t. XIX, p. 318. Uno dei biografi di Ottone da Bamberga,
Ebbo, traduce il nome che Gerovit, «qui lingua latina Mars dicitur»; egli lo chiama anche
«deus militiæ». Nel suo recente lavoro Zur Enstehungsgeschichte der Kirschenslavischen
Sprache (Estratto delle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Vienna), Jagić rileva
ancora due nomi dove figura l’elemento vit: Witemir citato nella Conversio Carantanorum
(p. 6 e 86 ) e Unevit. (N.d.A.) – La Conversio Bagoariorum et Carantanorum (Conversione
dei Bavaresi e dei Carantani) è un testo latino scritto a Salisburgo verso l’860, forse
dall’arcivescovo Adalwin. (N.d.T.)

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Soltanto che, invece di ammettere come me che vit avrebbe voluto dire
oracolo, Jagić collega questo nome alla radice vi, combattere. Non ho
riluttanza ad attaccarmi a questa interpretazione, che spiega meglio della
mia i nomi come Vitodrag, Zemovit, Hostivit, Ljudevit, Vitoslav, Vitomir.
La radice svent vuol dire, in slavo, santo; forse in origine voleva dire
forte1; essa figura in un gran numero di nomi propri, per esempio
Sventopolk, Svatopluk, Sviatopolk in Moravia, in Boemia, in Russia, in
Pomerania. Si riscontra anche in Russia il nome di Sviatoslav ;
dei cronicisti bizantini), in Polonia Svatobor, nome d’uomo2, Svatobor, il
bosco sacro, etc.
I cronicisti latini che identificano Svent con Sanctus commettono un
errore analogo a quello dei Romeni pochi critici che volevano assolutamente
collegare a Sanctus l’aggettivo sfint che è passato dallo slavone nella loro
lingua slava.
I due elementi della parola Svantovit sono dunque entrambi slavi.
Identificando questa divinità pagana con Sanctus Vitus, Helmold e Saxo
Grammaticus si sono lasciati guidare da una somiglianza puramente
accidentale di forma e di suono. Questa è la procedura normale dei cronicisti
del Medioevo, tedeschi o indigeni, per spiegare la maggior parte dei nomi
slavi. Di solito essi cercano di trovar loro un significato non nella lingua cui
appartengono, non in ciò che sarebbe a rigore verosimile nella lingua
germanica, ma in lingua latina e nelle memorie dell’antichità classica. È un
loro sistema assoluto. Vorrei in questa arringa a favore di Svantovitus
contro Sanctus Vitus riunire alcuni esempi che non sono stati finora
sistematicamente raggruppati.
Cominciamo da Helmold, perché è proprio contro di lui che si vuole
argomentare. Già dal primo paragrafo delle Chronica Slavorum, noi lo
sorprendiamo in flagrante delitto di fantasia archeologica. Si tratta del Mar
Baltico: «Sinus hujus maris… appellatur ideo Balticus eo quod in modum
baltei longo tractu per Scythicas regiones tendatur usque in Græciam».
Diciamo a discarica di Helmold che ha letteralmente copiato questa frase da
Adamo da Brema3. Tra parentesi, Adamo da Brema, al quale piace anche
etimologizzare, collega il nome dei Vinuli, popolo slavo, a quello dei
Vandali4.
Un po’ più oltre Helmold, che ci tiene a dar prova di cultura classica, parla
di una città, quæ dicitur Woligast: «apud urbaniores (le lettere) vocatur
Julia Augusta propter urbis conditorem Julium Cæsarem». A Giulio Cesare,
fondatore di una città sulle rive del Baltico, ben corrisponde Sanctus Vitus
che dà il proprio nome a una divinità slava.

1 Cfr. il tedesco heilig. (N.d.A.)


2 In Gallus, II, 27. (N.d.A.)
3 Descriptio insularum Aquilonis § 10. (N.d.A.)
4 L’Autore parla di etimologia dei termini, ma va notato che ancora oggi Vinuli e Vandali – a
volte chiamati Longobardi di Scandinavia o Goti erranti – sono spesso considerati due
tribù simili che si fusero: alcuni dicono che furono i Vinuli a fondersi ai Vandali, altri
affermano il contrario. (N.d.T.)

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Herbord, lo storico di Ottone da Bamberga, descrive i templi pagani


situati nella città di Stettino e chiamati continæ1. Egli si fa porre questa
domanda da un interlocutore immaginario: «Quare illa templa vocabant
continas?». Ed egli risponde: «Sclavica lingua in plerisque vocibus
latinitatem attingit et ideo puto ab eo quod est continere continas esse
vocabant». La prima parte della risposta è del tutto corretta, la seconda è
pura fantasia.
Pertz ha capito perfettamente che bisognava cercare altro e ha proposto
in nota un’interpretazione tratta dal polacco: «Polonis est konczyna finis:
continæ igitur ædificia fastigata». Questa interpretazione non è migliore di
quella di Herbord.
Krek ha con più esattezza riallacciato la parola contina, che pareva
incontestabile, allo slavone kątŭ, kąšta, che ha il senso della casa,
abitazione, edificio, e che esiste ancora oggi nel serbo kuča, nel bulgaro
kŭšta, nel ceco koutina2. La parola contina ha dunque lo stesso significato di
chramŭ che qui vuol dire casa e tempio insieme. È cosa particolarmente
interessante per il vocabolario assai magro della lingua degli Slavi baltici3.
Tietmaro, vescovo di Merseburgo, aveva tutta una serie di buone ragioni
per conoscere le origini della sua città episcopale e l’etimologia del suo
nome. Questa etimologia è puramente slava: Mezi Bori (in ceco: mezi; in
casciubo: mieze; in polacco: międzi, tra; bori, parola panslava, bosco di
abeti). Ma il tedesco, per etimologia popolare, trasforma bor in burg.
Tietmaro, sia che non avesse mai sentito parlare di origini slave della sua
città episcopale, sia che semplicemente non desiderasse nobilitarla, collega
merse al nome del dio Marte: «Et quia tunc fuit hæc apta bellis et in
omnibus semper triumphalis antique Marti signata est nomine. Posteri
autem mese, id est mediam regionis nuncupabant eam vel a quadam
virgine sic dicta». Tietmaro per caso incontra la vera etimologia, ma gli
ripugna riconoscerla e preferisce evocare il nome di una vergine
leggendaria4.
La Santa Sede non è meglio ispirata del prelato. Tietmaro cita due volte
un mons Silensis, in cui si può riconoscere il nome della Silesia (Szlązek,
pronunciato Chlonzek in polacco). Questo mons Silensis in una bolla di
Eugenio II5 diventa mons Silentii!
Uno storico di Ottone da Bamberga, Ebbo, seriamente racconta 6 che la
città di Julin (detta anche Volyn) sulle rive del Baltico fu costruita da Giulio

1 Herbord, Dialogus de vita Ottonis, ed. Pertz, Hannover 1868, Libro II, 31. (N.d.A.)
2 Gesindstube, Kott, Supplemento, p. 698. (N.d.A.)
3 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 139-412. La parola contina è purtroppo sfuggita a Miklošič
che non era uno storico. Avrebbe potuto trovare posto nel suo dizionario sub voce Konšta
o Kontŭ. (N.d.A.)
4 Tietmaro interpreta correttamente alcuni nomi slavi belegori, beleknegine, laremirus. Si
sbaglia su altri. Così si incontra il nome di Medebur (il bosco ricco di miele) tradotto con
mel prohibe. (N.d.A.)
5 Apud Jaffé, 2, II, 2998. (N.d.A.)
6 Libro II, 1. (N.d.A.)

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Cesare e che vi si conservava la sua lancia attaccata a una colonna elevata


in onore dell’eroe romano. Il padre Bernhard, infiammato dall’amore del
martirio, comincia a rompere questa colonna. Così, se Ebbo non ha esitato
davanti all’improbabilità di queste fantasie suggerite unicamente dalla
omofonia delle parole Julius e Julin, bisogna sorprendersi che Helmold e
Saxo Grammaticus abbiano accettato il ravvicinamento cento volte più
probabile tra Svatovitus e Sanctus Vitus?
Passiamo agli Slavi meridionali. Lo storico della Chiesa slava di Salona in
Dalmazia2, Tommaso Arcidiacono (XIII secolo), paragona il nome slavo dei
Croati con quello degli antichi Cureti prima o Coryhautes: « Hæc regio
antiquitus vocabatur Curetia et populi qui nunc dicuntur Chroati dicebantur
Curetes vel Coribantes… »3. Questa etimologia fantasiosa non è sufficiente a
Tommaso Arcidiacono. Egli sente il bisogno di spiegare anche il nome
Cureti: «Dicebantur vero Curetes quasi currentes et instabiles; quia per
montes et silvas oberrantes agrestem vitam ducebant».
L’autore delle Chronica Slavorum, Arnold (XIII secolo), trova cammin
facendo il nome dei Serbi del Danubio, e non si può impedire di fare un
gioco di parole sulla forma latina di quel nome: «In medio nemoris cujus
habitatores Servi dicuntur filii Belial, sine jugo Dei, illecebris carnis et gulæ
dediti et secundum nomen suum immunditiis omnibus servientes»4.
Evidentemente Arnold non dubita un istante che i Serbi non debbano il loro
nome latino alla servitù in cui sono a contatto con delle cattive passioni. Il
nome dei Serbi, nella sua forma greca, , non aveva portato più
fortuna a Procopio di Cesarea5:
« :
Essi si chiamano Sporoi, perché vivono sparsi, in modo sporadico».
L’etimologia gioca anche un suo ruolo nella Cronaca ceca latina di Cosma
(XII secolo) e nella Cronaca in versi di Dalemil che ne consegue. Entrambi
fanno derivare il nome di Praga, Praha, dalla parola prah, soglia, perché la
città era stata costruita in un luogo dove un falegname e suo figlio stavano
facendo una soglia6. Stesso fenomeno nelle cronache polacche. Così la
Cronaca detta di Boguchval7 spiega il nome della Pannonia con la parola
polacca pan, signore, e quello della Dalmazia con dala mat (dedit mater).
Sarebbe facile moltiplicare all’infinito degli esempi analoghi. Quelli che ho
prodotto sono sufficienti a dimostrare quale ruolo abbiano nelle cronache
primitive l’analogia dei suoni, l’etimologia popolare, il volgare gioco di
parole. Essi permettono di affermare per certo che il nome di Zvantevitus,
Svantovitus, è un dio slavo autentico, a dispetto del collegamento che

2 Ora in Croazia. (N.d.T.)


3 Historia Salonitana, edizione dell’Accademia di Agram, Agram, 1894. (N.d.A.) – La
Historia Salonitana, di Tommaso Arcidiacono, è una cronaca storica del XIII secolo che
contiene informazioni sulla storia antica dei Croati. (N.d.T.)
4 Libro I, 3, ed. Lappenberg, Hannover 1868.
5 De bello gothico, Libro. III, 14. (N.d.A.)
6 Fontes rerum bohemicarum, Praga, 1874-1882, II, p. 16 e III, p. 17. (N.d.A.)
7 Citata da Krek, Einleitung…, op. cit., p. 562. (N.d.A.)

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Helmold e Saxo Grammaticus hanno voluto stabilire tra il suo nome e quello
di Sanctus Vitus.

Illustrazioni e loro spiegazione

Le immagini qui riportate corredano un articolo di Weigel sulla rivista


tedesca Archiv für Anthropologie1. Nulla prova in maniera assoluta che
queste figure siano necessariamente di origine slava. Tuttavia l’attribuzione
assegnata da Weigel sembra molto verosimile: alcune di loro mostrano
particolari che coincidono con le descrizioni riscontrate nelle cronache.

Tav. 1 – Il presunto Svantovit della chiesa di Altenkirchen.


Tav. 2 – Una lapide funebre nella chiesa di Bergen, sull’isola di Rügen. Questa
lapide è considerata come appartenente alla tomba di un monaco. La figura sembra
essere una replica della Tav. 1. Si può presumere che nel corso del periodo
cristiano, il corno da bere sia stato sostituito da una croce.

1 Brunswick, t XI, pp. 45 e segg. (N.d.A.)

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Tav. 3 – Le quattro facce del presunto Svantovit attualmente conservati a Cracovia.

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Tavv. 4 e 5 – Fronte e lato di una statua di granito rosso, che, da tempo


immemorabile, serviva da cippo tra i villaggi di Mosgau e di Grossherzogwalde
(cerchio di Rosenberg, Prussia orientale). È ora conservata nel Museo di Danzica.
Tav. 6 – Statua in granito grigio che serviva da cippo tra i villaggi di Rosenberg e di
Rosenau (Prussia occidentale). Il corno da bere era forse attaccato al collo con un
cordone ormai cancellato. Museo di Danzica.
Tav. 7 – Statua in granito grigio che serviva da cippo di confine tra i villaggi di
Rosenberg e di Grossninkau (Prussia occidentale). Museo di Danzica.

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Tav. 8 – Statua in granito grigio che serviva da cippo tra i villaggi di Goldau e di
Heinrichau (Prussia occidentale). Museo di Danzica.
Tav. 9 – Blocco di granito grigio che illustra cavallo e cavaliere grossolanamente
abbozzati. Trovata nel villaggio di Grosslesen, cerchio di Rosenberg (Prussia
occidentale).
Tavv. 10-11 – Sul lato sinistro di questa pietra è un uomo di grezza esecuzione, sul
lato opposto figura un uomo che tiene un corno. Museo di Danzica.

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Tavv. 12-13 – Fronte e retro di una pietra trovata nel 1859 nelle vicinanze di
Bamberga, in Baviera.
Tavv. 14-15 – Figura di pietra trovata nei dintorni di Bamberga.

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Tavv. 16-17 – Figura di pietra trovata nei dintorni di Bamberga. La Baviera del
Nord-Est è stata occupata dalle popolazioni slave. Gli originali sono conservati al
Liceo di Bamberga.
Tav. 18 – Figura in legno di Alt Friesack (cerchio di Ruppin, provincia di
Brandeburgo). Museo Etnografico di Berlino.
Tav. 19 – Figura di argilla trovata a Rhinow, dintorni di Havelland (Brandeburgo).
Molto mal cotta. Museo Etnografico di Berlino.
Tavv. 20-21 – Figure in ambra gialla trovate a Schwarzort (Prussia occidentale).
Museo di Danzica.
Tav. 22 – Figura femminile in bronzo trovata a Kleinzastrow, dintorni di Greifswald
(Pomerania).
Tav. 23 – Scultura in bronzo trovata a Thorn (Prussia orientale). Museo di Danzica.

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Note sugli idoli slavi

Nulla dimostra che tutte le figure riprodotte nelle tavole precedenti siano
delle rappresentazioni di divinità. Alcune di esse (per esempio la 1 e la 2)
sono forse dei semplici monumenti funerari.
I monumenti in questione sono stati studiati da Weigel (Archiv für
Anthropologie, 1894), da A. Hartmann e Köhler (ib., 1896).
Bisognerebbe procedere a un inventario delle scoperte che hanno potuto
essere fatte degli oggetti che sembrano essere collegati al culto degli Slavi
pagani. Sfortunatamente questo lavoro non è stato svolto. Ho consultato a
questo proposito l’uomo che conosce meglio l’archeologia preistorica di
Boemia, il dottor Niederle. Ecco alcune indicazioni che egli ha ben voluto
fornirmi dichiarandomi che la sua attenzione non è stato portata in modo
particolare sulla questione che mi interessa.
La Rivista ceca Památky Archéologické – che per fortuna possiedo nella
mia biblioteca – ha pubblicato nel 18801 un articolo di Smolik sui
ritrovamenti archeologici effettuati in Boemia dal XVI al XVIII secolo.
Bienenberg, nella sua opera Versuch über einige merkwürdige Alterthümer
im Kœnigreich Bœhmen2, segnala la scoperta nei dintorni di Jaroměř di
oggetti dell’età del bronzo fra i quali della Età del Bronzo, tra i quali si
trovano dodici dèi domestici (lari). Si ignora beninteso che cosa questi lari
siano diventati. Bienenberg segnala una scoperta analoga nei dintorni di
Hradec. Nella stessa rivista3 Zap ha descritto e riprodotto tre idoli di bronzo,
trovati l’uno a Buchlov in Moravia, l’altro a Chrudim in Boemia, l’altro
appartenente al Collegium Clementinum di Praga. Essi sono di origine slava?
Non oso pronunciarmi sulla questione.
Un archeologo della Moravia, Wankel, ha segnalato nel Časopis
Olomouckého Musea4 la scoperta nelle tombe a Naklo vicino a Olomouc di
due statue di pietra a tre grosse teste che erano state rotte.
Il libro intitolato Schlesiens Vorzeit (che non conosco e di cui ignoro
l’autore)5 dice che nelle tombe dei Stanovice, cerchio di Ohlau,
Slesia/Silésie, è stato trovato zwei Götzenbilder (due idoli).
Kalina, nella sua opera6 menziona a Kvilice, vicino a Rakovnik, in Boemia,
un piedistallo di pietra sul quale si drizza oggi una croce, ma che sulla
quale, secondo la tradizione, era stato eretto un idolo.

1 P. 338 e seguenti. (N.d.A.)


2 Kœniggratz, 1779-1785. (N.d.A.)
3 T. III, pp. 27-29. (N.d.A.)
4 Giornale del Museo d’Olomouc, Ollmutz, 1889, p. 58. (N.d.A.)
5 Il titolo esatto è Schlesiens Vorzeit in Bild und Schrift (La Slesia antica con immagini e
testo), edito a Breslau nel 1869 a cura della Verein für das Museum Schlesischer
Alterthümer (N.d.T.)
6 Bœhmens heidnische Opferplätze, Praga 1836, p. 167. (N.d.A.)

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Le Mittheilungen der Central-Commission di Vienna1 menzionano a Kokor


vicino a Olomouc, in Moravia, una statua una volta colorata del tipo delle
donne di pietra (kamenne baby).
Si sono segnalate in Boemia delle statue del tipo delle donne di pietra che
non sembrano appartenere al periodo slavo. Una tra esse è stata
lungamente descritta da Bolelucký2: «rude quoddam saxum, truncum et
acephalum ad instar cylindri truncum potius quam statuam repræsentans. A
summo, quo pectus ob humeris descendit… cujus cumque bubulci manus
supercilia, oculos, nasum, os et mentum clavo, vel quocunque ferro sculpsit,
mammas etiam muliebres adjecit… Utero prægrandi tumet illius saxum
quasi parturiens fœtum». La gente della campagna la chiamavano Elisabetta
e le donne in gravidanza andavano in pellegrinaggio da essa.

1 1890, p. 226. (N.d.A.) – Il titolo completo è Mittheilungen der K.K. Central Commission
zur Erforschung und Erhaltung Kunst- und Historischen Denkmale. (N.d.T.)
2 Rosa Bohemica, 1868, il cui testo è stato riprodotto nel Časopis Českého Museum, 1891,
p. 417. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Rosa Boemica sive Vita Sancti Woytiechi agnomine
Adalberti Pragensis episcopi Ungariae, Poloniae, Prussiae apostoli: nunc primum ed. et
XLV scultis imaginibus adornata, edito per la prima volta a Praga nel 1668. (N.d.T.)

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Indice degli studiosi citati

Adalwin (?-873), arcivescovo cattolico di Salisburgo, presunto autore della


Conversio Bagoariorum et Carantanorum.
Adamo da Brema, storico e teologo tedesco vissuto nella seconda metà
dell’XI secolo.
Afanas’ev Aleksandr Nikolaevič (1826-1871), scrittore e favolista russo.
Amartolo Giorgio (in greco: Georgios Hamartolos; detto anche Giorgio il
Peccatore o Giorgio il Monaco), cronicista bizantino del IX secolo.
Arnold di Lubecca (1150?-1212?), monaco e cronicista tedesco.

Baier Rudolf (1818-1907), letterato nativo di Rügen e primo direttore del


museo di Stralsunder (Germania).
Barsov Nikolaj Pavlovič (1839-1889), filologo e storico russo e professore
all’Università di Varsavia.
Baudouin de Courtenay Jan Niecisław Ignacy (1845-1929), slavista e
linguista polacco. Noto in Russia come Ivan Aleksandrovič Boduen de
Kurtene.
Bergaigne Abel-Henri-Joseph (1838-1888), linguista e indianista francese.
Bernard Augustin (1865-1947), storico e geografo francese.
Bertrandon de la Broquière (1400?-1459), pellegrino borgognone in
Medio Oriente.
Bielowski August (1806-1876), storico ed editore polacco.
Bienenberg Karl Joseph Biener von – (1721-1798), avvocato e studioso di
preistoria.
Bolelucký z Hradiště Matěj Benedikt (1630-1690), sacerdote cattolico e
scrittore ceco.
Botho Konrad (o Bothe; 1475?-1501?), cronicista sassone.
Brotuff Ernst (1497?-1565), monaco, scrittore, syndicus di Mersemburgo.
Brückner Aleksander (1856-1939), filologo e linguista polacco. Fu
scopritore, interprete ed editore del più antico manoscritto in lingua polacca,
la Santa Croce Sermoni.
Buslaev Fëdor (1818-1897), storico e filologo russo.

Černorizec Iakov (XI secolo), cronicista e monaco alla Pečerskaja Lavra di


Kiev.
Chalanskij Michail Georgievič (1857-1910), storico e filologo russo.
Čolakov Vasil (XIX secolo) storico bulgaro.
Cosma di Praga (1045-1125), monaco e cronacista ceco.
Costantino VII detto il Porfirogenito (905-959), imperatore bizantino dal
945 ma nominalmente dal 912. La traduzione del suo De Administrando
Imperio è in www.larici.it).
Čubinskij Pavel Platonovič (1839-1884), antropologo, storico, geografo
russo.

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Dahlmann Friedrich Christoph (1785-1860), storico tedesco.


Dalimil (pseudo Dalimil), presunto autore della prima cronaca boema in
lingua ceca (XIV aecolo).
Daničić Đuro (1825-1882), filologo, linguista e storico serbo.
Długosz Jan di Wieniawa (1415-1480), detto Longino (Longinus), storico e
diplomatico polacco. Nominato arcivescovo di L’vov (Leopoli), morì a
Cracovia prima di essere consacrato.
Dobrovský Josef (1753-1829), filologo e storico boemo. (N.d.T.)
Djuvernua Alexander L’vovič (1840-1886), linguista e slavista russo.

Ebbo (o Ebo) (XII secolo), biografo di Ottone di Bamberga.


Egilsson Sveinbjörn (1791-1852), teologo, traduttore e poeta islandese.
Eginardo (o Eginhard, o Einhart; 775-840), storico franco al servizio di
Carlo Magno.
Erben Karel Jaromír (1811-1870), poeta, filologo, favolista e folclorista
ceco.
Estrup Hector Frederik Janson (1794-1846), storico danese.

Famincyn Aleksandr Sergeevič (1841-1896), critico, musicologo e


compositore russo.
Fortinskij Fëdor Jakovlevič (1846-1902), storico e filologo russo.
Fortis Alberto (1741-1803), naturalista e geologo italiano. Il suo Viaggio in
Dalmazia è in www.larici.it.

Gallus Anonymus (XI-XII secolo), monaco benedettino e cronicista in


lingua latina dei duchi polacchi.
Gedeonov Stepan Aleksandrovič (1815-1878), storico russo.
Golovačkij Jakov Fëdorovič o Holovacʹkyj Jakiv Fedorovyč (1814-1888),
sacerdote uniate, teologo, scrittore e filologo di Leopoli (oggi in Ucraina).
Gornickij K.P., filologo russo.
Grimm Ervin Davidovič (1870-1940), storico e rettore dell’Università di San
Pietroburgo.
Guagnini Alessandro (1534-1614), storico italiano arruolatosi nell’esercito
polacco. La sua Descrizione della Sarmazia europea è in www.larici.it.

Hájek di Libočany Václav (morto nel 1553), cronicista ceco.


Hanuš Ignác Jan (1812-1869), slavista e filosofo ceco.
Hartmann August (1846-1917), studioso del folclore tedesco.
Haxthausen August Franz (1792-1866), agronomo, politico e folclorista
tedesco.
Helmold di Bosau (XII secolo), cronicista tedesco.
Herbord di Michelsberg (XII secolo), biografo di Ottone di Bamberga.
Huberin (o Huberinus, o Huber) Caspar (1567-1626), giurista tedesco e
teologo luterano.
Holder Alfred (1840-1916), curatore dell’opera di Saxo Grammaticus.

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Hus Jan (1371-1415), teologo e riformatore boemo.

Iakov Černorizec (XI secolo), monaco della Pečerskaja Lavra di Kiev.


Ibn Fozlan (X secolo), scrittore arabo.
Ilarion di Kiev (morto nel 1055), teologo e primo metropolita di Kiev
eletto da vescovi russi.
Iordanis (o Giordane; VI secolo), storico bizantino di lingua latina.

Jaffé Philipp (1819-1870), storico e filologo tedesco.


Jagić Vatroslav (1838-1923), slavista e filologo croato.
Jelinek Břetislav (1843-1926), studioso di storia antica boema.
Jelinek Edward (1855-1897), slavista e scrittore ceco.
Jireček Konstantin Josef (1854-1918), storico ceco.

Kadłubek > Vincentius (Magister)


Kajsarov Andrej Sergeevič (1782-1813), poeta e filologo russo.
Kalina von Jätenstein Matthias (1772-1848), giurista ceco.
Karadžić Vuk Stefanović (1787-1864), linguista, scrittore ed etnologo
serbo.
Karavelov Ljuben Stojčev (1834?-1879), poeta, etnografo ed eroe
nazionale bulgaro.
Kętrzyński Wojciech (in polacco) o Kentšinskij Vojtech (in russo),
pseudonimo di Adalbert von Winkler (1838-1918), storico polacco.
Kirpičnikov Aleksandr Ivanovič (1845-1903), storico e slavista russo.
Klempin Karl Robert (1816-1874), storico tedesco.
Kłonowicz Sebastjan (XVI-XVII secolo), poeta polacco.
Kluge Friedrich (1856-1926), linguista e lessicografo tedesco,
Köhler Reinhold (1830-1892), storico, filologo e folclorista tedesco.
Kollár Ján (1793-1852), scrittore, archeologo, politico e pastore luterano
slovacco.
Kondakov Nikodim Pavlovič (1844-1925), storico bizantinista russo.
Köpke Rudolf (1813-1870), storico e scrittore tedesco.
Kotljarevskij Aleksandr Aleksandrovič (1837-1881), slavista, archeologo e
antropologo di Poltava (oggi in Ucraina).
Kott František Štěpán (1825-1915), traduttore e lessicografo ceco.
Krauss Friedrich Salomon (1859-1938). slavista ed etnologo croato-
austriaco.
Krek Gregor (1840-1905), slavista e linguista sloveno.
Krumbacher Karl (1856-1909), filologo e storico bizantinista tedesco.
Kruse Friedrich Karl Hermann (1790-1866), storico tedesco.

Lappenberg Johann Martin (1794-1865), storico tedesco.


Lebedev Ivan Alekseevič (1846-1916), storico russo.
Leibniz Gottfried Wilhelm von (1646-1716), filosofo e scienziato tedesco.
Lelewell Joachim (1786-1861), storico lituano.
Leone Diacono (X secolo), storico bizantino.

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Lichtenberger Frédéric-Auguste (1832-1899), teologo protestante francese


e direttore della Encyclopédie des sciences religieuses (13 voll., 1876-82).
Linde Samuel Bogumił (1771-1847), lessicografo polacco.
Lisch Georg Christian Friedrich (1801-1883), storico tedesco.

Máchal Jan (1855-1939), slavista ceco.


Magister Vincentius > Vincentius.
Makarij (1482-1563), metropolita di Mosca dal 1526.
Maretić Tomislav (1854-1938), linguista croato.
Masudi (Alī al-Masʿūdī; 897-957) storico ed enciclopedista arabo.
Matov’ Dimitŭr (1864-1896), linguista, folclorista ed etnografo bulgaro.
Matzenauer Antonin (1823-1893), storico e linguista slavo.
Mickiewicz Adam (1798-1855), poeta e scrittore polacco.
Miecznik Antoni Józef (1870-1921), scrittore polacco.
Miklošič Fran (in tedesco: Franz von Miklosich; 1813-1891), filologo e
linguista sloveno.
Miladinovci fratelli: Dimitar Miladinov (1810-1862) e Konstantin Miladinov
(1830-1862), poeti bulgari e folcloristi macedoni.
Milićević Milan Đakov (1831-1908), scrittore ed etnografo serbo.
Milojević Miloš S. (1840–1897), avvocato e storico serbo.
Mohnike Gottlieb Christian Friedrich (1781-1841), teologo e filologo
tedesco.

Nestore (XXI-XII secolo), monaco della Pečerskaja Lavra di Kiev. La


traduzione della sua Cronaca degli anni passati è in www.larici.it.
Niederle Lubor (1865-1944), antropologo, etnologo, archeologo e slavista
ceco.
Nodilo Natko (1834-1912), politico e storico croato.
Novaković Stojan (1842-1915), letterato e politico serbo, per due volte
Primo ministro del Regno di Serbia.

Orderc Vitalis (in italiano: Orderico Vitale; 1075-1142), monaco e storico


inglese.
Ottone di Bamberga (o di Mistelbach; 1060?-1139?), vescovo cattolico
tedesco.

Paisij Chilendarski (1722-1798), monaco bulgaro del monastero di


Chilendar sul Monte Athos.
Palacký František (1798-1876), storico e politico ceco.
Pawłowicz Edward (1825-1909), pittore polacco-ucraino e direttore di
alcune raccolte archeologiche all’Istituto Ossolinskich di Leopoli.
Petrov Aleksěj Leonidovič (1859-1932), storico russo.
Pogodin Michail Petrovič (1800-1875), storico e archeologo russo.
Polevoj Pëtr Nikolaevič (1839-1902), scrittore e storico russo.
Politis Nikolaos (1852-1921), filologo, archeologo e mitologo greco.
Polívka Jiří (1858-1933), slavista e filologo ceco.

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Popov Aleksej Vasil’evič (1856-1909), filologo e teologo russo.


Potocki. Forse Jan Potocki (1761-1815), archeologo, orientalista e scrittore
polacco.
Potocki Mieczysław (1799-1878), magnate della Podolia.
Preux Jules, linguista, storico e diplomatico francese.
Procopio di Cesarea (circa 500–565) storico bizantino, consigliere e
segretario del generale Belisario durante il regno di Giustiniano I.
Procopio di Sávaza (975?-1053), monaco boemo, fondatore dell’abbazia
di Sázava e santo patrono della Repubblica Ceca.
Pseudo Dalimil > Dalimil

Rakovski Georgi Sava (pseudonimo di Sabi Stoykov Popovič; 1821-1867),


giornalista ed eroe nazionale bulgaro.
Ralston Shedden William (1828-1889), studioso inglese, traduttore e
membro fondatore della Folk-Lore Society.
Ramułt Stefan (1859-1913), scienziato e linguista polacco.
Reinach Salomon (1858-1932), archeologo e storico delle religioni
francese.
Rešel (o Rešl) Tomáš (1520-1562), sacerdote cattolico ceco.
Rieger František Ladislav (1818-1903), letterato e politico ceco.

Šafárik Pavel Josef (1795-1861), filologo e slavista slovacco.


Sávaza (monaco di) > Procopio di Sávaza.
Saxo Grammaticus (1150?-1220?), storico danese.
Schleicher August (1821-1868), linguista tedesco.
Schlumberger Gustave (1844-1929), storico e bizantinista francese.
Schmidt Bernhard (1837-1917), filologo tedesco.
Šišmanov Ivan Dimiter (1873-1928), letterato e filologo bulgaro.
Smolik Josef (1832-1915), matematico, storico, archeologo e numismatico
ceco.
Sommerfeld Wilhelm Wichard Waldemar von - (1868-1915), storico
tedesco.
Sreznevskij Izmail Ivanovič (1812-1880), filologo e slavista russo.
Strebitzki Johannes (o Johann; XIX secolo), studioso tedesco.
Stredovský Jan Jirí Ignác (1679-1713), prete cattolico e storico ceco.
Syrku Polichronij Agapievič (1855-1905), storico e linguista russo.
Szulc Kazimierz (1824-1887), storico polacco e attivista politico.

Tatiščev Vasilij Nikitič (1686-1750), storico russo.


Tichonravov Nikolaj Savvič (1832-1893), storico della letteratura russo.
Tietmaro di Merseburgo (o Thietmar; 975-1018), storico cronicista e
vescovo cattolico tedesco.
Thomsen Vilhelm (1842-1927), linguista danese.
Tomaschek Wilhelm o Tomášek Vilém (1841-1901), geografo e orientalista
ceco-austriaco.
Tommaso Arcidiacono (1200?-1268), sacerdote, storico e cronicista

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dalmata.
Tordson Olaf (Óláfr Þórðarson; 1210-1259), storico e poeta islandese.
Tkadleček, anonimo poeta tedesco del XIV-XV secolo.
Tzétzēs Iōánnēs (1110’-1180?), filologo bizantino.

Verantius Fausto o Vrančić Faust o Veranzio Franco (1551-1617), filosofo e


storico della Repubblica di Venezia.
Verković Stefan (1821-1894), archeologo serbo.
Vestberg Fridrich Fëdorovič (1864-?), orientalista russo.
Veselovskij Aleksandr Nikolaevič (1838-1906), storico della letteratura e
filologo russo.
Veske Mihkel (1843-1890), poeta e linguista estone, docente di lingue
ugro-finniche all’Università di Kazan’.
Vincentius (Magister Vincentius), nome latino assunto da Wincenty
Kadlubek (1160?-1223), vescovo rettore della cattedrale di Cracovia dal
1208 al 1217 e cronacista polacco. La Chiesa cattolica l’ha proclamato
beato, ma è conosciuto come San Vincenzo da Cracovia.
Vitalis Orderc (in italiano: Orderico Vitale; 1075-1142), monaco e storico
inglese.
Völkel Otto (XIX secolo), storico tedesco.
Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet; 1694-1778), filosofo e
scrittore francese.

Xenopol Alexandru Dimitrie (1847-1920), filosofo e storico rumeno.

Wankel Jindřich (1821-1897), paleontologo e archeologo ceco.


Wattenbach Wilhelm (1819-1897), storico e filologo tedesco.
Weigel Max (XIX secolo), ricercatore tedesco.
Wünsch Josef (1842-1907), filosofo ed esploratore ceco.

Zamrský Martin Filadelf (1550?-1592), scrittore e predicatore ceco.


Zap Karel Vladislav (1812-1871), ufficiale, scrittore e storico ceco.
Żebrawski Teofil Wincenty (1800-1887), matematico, architetto, biologo,
archeologo polacco.
Zíbrt Čeněk (1864-1932), etnografo, folclorista e storico ceco.

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