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La mitologia slava
19011
1 Titolo originale: L. Léger, La mythologie slave, Ernest Leroux, Paris 1901. Traduzione dal
francese: © associazione culturale Larici, 2010.
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Indice
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Introduzione
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traduzione poi ristampata sulla rivista Slovinac allora edita a Ragusa. Anche
un illustre slavista, Polivka, mi fece l’onore di tradurre il mio Esquisse in
lingua ceca su Sbornik Slovanský, diretto dal defunto Edward Jelinek,
aggiungendovi delle note interessanti1. Più recentemente ne è apparsa
un’edizione russa curata da Gornickij, professore al ginnasio di Penza, su
Filologičeskie zapiski2.
D’altronde, qualificatissimi slavisti – Ralston sull’Athenaeum3, Jagić
sull’Archiv für slavische Philologie4, Baudouin de Courtenay sulla Rivista del
Ministero dell’Istruzione pubblica5 – avevano accolto il mio modesto saggio
con una tale simpatia che mi sentivo impegnato a riprenderlo e ampliarlo.
Purtroppo le esigenze del mio insegnamento al Collège de France6 mi
assorbirono a lungo su altri temi: il primo dovere di un docente è quello di
insegnare ed egli non ha il diritto di inseguire le questioni di scienza pura
finché non vengono soddisfatte le necessità dei suoi studenti.
Finalmente, nel 1895, potei dedicare due semestri all’esposizione della
mitologia slava. Riviste con attenzione, le lezioni di quel corso diventarono
le memorie pubblicate nel 1896 sulla Revue de l’Histoire des Religions. Tre
delle più importanti furono ristampate separatamente (Pérunŭ et Saint Élie,
Svantovit et les dieux en vit, L’empereur Trajan dans la mythologie slave)7.
Due sono state inviate all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres8, che
sembrava avere interesse per la novità di quegli studi.
Riunendo in questo volume tali lavori di gran pazienza, non nasconderò
tutto ciò che manca loro per costituire un monumento definitivo. Tale
monumento nessuno l’ha ancora eretto e dubito che possa mai esistere.
Non c’è alcuna speranza di avere in lingua slava opere analoghe a quelle
che nel nostro secolo hanno trattato la mitologia degli Indù, dei Greci, dei
Romani, dei Celti e dei Germani. I materiali sono molto scarsi e non sarebbe
utile rimpiazzare i testi e i monumenti con ipotesi.
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Alcune opere sulla mitologia slava sono apparse dopo che un giovane
scienziato russo, Kajsarov, pubblicò a Gottinga – nel 1803 – il libro Versuch
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1 Nato nel 1782 e ucciso nel 1813 durante la battaglia di Hanau, Kajsarov è stato da più di
un punto di vista un precursore. Nel 1806 ha presentato all’Università di Gottinga una tesi
sull’emancipazione dei servi della gleba: De manumittendis per Russiam servis,
Dissertatio inauguralis philosophico-politica. Il suo saggio sulla mitologia slava è stato
tradotto in russo (Mosca, 1807, II ed., ib., 1819). Suchomlinov gli ha recentemente
dedicato una lunga citazione nel tomo LXV dello Sbornik della Sezione russa
dell’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo (San Pietroburgo 1899). (N.d.A.) – Il
titolo esatto della tesi è Dissertatio inauguralis philosophico-politica de manumittendis per
Russiam servis (Dissertazione inaugurale filosofico-politica sulla liberazione dei servi della
gleba in Russia). (N.d.T.)
2 Seconda edizione, p. 263 e seguenti. (N.d.A.)
3 L’Autore usa la grafia ceca (Černoboh), ma in russo è Černobog. Altre varianti del nome
sono Czorneboh, Czernebog, Czarnobóg, Crnobog. (N.d.T.)
4 Sebrané Spisy, Praga 1865. (N.d.A.)
5 Seconda edizione, Praga 1863. (N.d.A.)
6 Il titolo esatto è Bajeslovny Kalendár Slovansky. CILI Pozustatky Pohansko-Svatecnych
Obraduv Slovanskych, 1860. (N.d.T.)
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1 A proposito della prima edizione del libro di Krek, Miklošič scriveva su Jenaer
Literaturzeitung [Rivista letteraria dell’Università di Jena], 1875, p. 43: «Noi dichiariamo
che non apparteniamo a quei mitologi che credono di poter trarre dai racconti la fede
pagana dei popoli slavi». Polivka ha citato questo passaggio in una nota della sua
traduzione ceca del mio Esquisse (Sbornik Slovansky, 1883, p. 392) e aggiunge: «Ora
non si può negare che più di un’idea pagana possa essere conservata sotto una forma
cristiana. Ma occorre procedere con molta cautela e critica». È ciò che talvolta mi sforzo di
fare (cfr. per esempio il capitolo Perunŭ e Sant’Elia). (N.d.A.)
2 Spiriti protettori della famiglia e della casa nella religione romana. (N.d.T.)
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Maggio 1901
Capitolo I
Le fonti della mitologia slava
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1 Cfr. Tietmaro (VI, 23): «Quamvis autem de hiis aliquid dicere perhorrescam, tamen ut
scias, lector amate, vanam eorum superstitionem inanioremque populi istius
executionem, qui sunt vel unde huc venerint [dii Liuzicorum] strictim enodabo». (N.d.A.)
2 La Knýtlinga saga (Saga dei discendenti di Canuto) è una saga islandese scritta intorno al
1260 che parla dei re danesi dal IX secolo al 1187. (N.d.T.)
3 La Crónaca di Nóvgorod (o Prima Cronaca di Novgorod), scritta tra il XIII e il XIV secolo,
narra la storia della città di Novgorod la Grande e dei popoli slavi dalle origini. (N.d.T.)
4 Il manoscritto detto Ipaziano (Ipat’evskij) è una riscrittura della Cronaca di Nestore
redatta all’inizio del XV secolo, probabilmente nella città di Pskov, e rinvenuto nel 1807
nel monastero di Ipat’iev, presso Kostroma. Lo scritto termina con l’anno 1292. (N.d.T.)
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mette all’anno 1114 una lunga digressione sul dio Svarogŭ, digressione che
coinvolge il dio Sole, Dažbogŭ, gli Egizi ecc. In quel passaggio, come nei
nomi di alcune divinità citate nella cronaca fondamentale, non è difficile
sospettare influenze straniere.
I dati forniti dalle cronache russe sono completati con alcuni documenti
della letteratura del Medioevo, con gli Sbornik o raccolte di brani religiosi1,
con le traduzioni di testi bizantini che interpretano i nomi degli dèi ellenici
come quelli delle divinità slave o presunte tali. I sermoni non fanno che
vaghi cenni ai rituali pagani. Il poema epico intitolato Canto della schiera di
Igor’2 contiene alcune allusioni mitologiche, ma mi sembrano molto
sospette. È forse possibile che un cristiano del Medioevo, un uomo
illuminato, un chierico, si sia divertito a evocare i ricordi pagani, che abbia
chiamato i venti i nipoti di Stribogŭ, che abbia appellato due volte un
principe russo come il nipote di Daždbogŭ, che abbia identificato il sole nel
grande dio Chorsŭ dicendo che il principe Vseslavŭ3 precedeva la marcia di
Chorsŭ? Devo ammettere che queste bestemmie mi paiono assolutamente
inverosimili per la penna di un cristiano del Medioevo4.
Gli Slavi meridionali serbi e bulgari non ci hanno lasciato cronache che
raccontino il culto dei loro avi pagani. Le leggende latine o slave relative agli
apostoli Cirillo e Metodio ci dicono che gli abitanti della Grande Moravia e
della Pannonia furono definitivamente convertiti al cristianesimo dai due
missionari5, ma esse non ci danno alcuna indicazione sul culto che quegli
Slavi professavano prima. Alcuni Sbornik russi erano in origine di redazione
jugoslave, ma non ci forniscono nuove informazioni.
Il cronicista ceco Cosma di Praga (XII secolo)6, il padre della storia
boema, racconta, in un latino a volte barbaro e a volte fiorito, le avventure
dei principi leggendari – Krok, Libuše, Přemysl, Neklan, Hostivit ecc. – ma si
mostra molto riservato per tutto ciò che riguarda la mitologia slava. Quando
è costretto a fare qualche allusione agli dèi del periodo pagano, Cosma dà
loro dei nomi classici7: «Ergo litate diis vestris asinum ut sint et ipsi vobis in
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asylum. Hoc votum fîeri summus Jupiter et ipse Mars, sororque ejus Bellona
atque gener Cereris jubet…». Si può concludere da questo testo che i Cechi
adoravano Perunŭ (Jupiter), Svantovit (Marte), una dea della guerra e un
dio degli inferi, di cui non ci viene rivelata l’esistenza o il nome? Altrove
Cosma dice che la principessa Teta ordinò al popolo di adorare le Oreadi, le
Driadi, le Amadriadi1, e aggiunge la precisazione: «sicut et hactenus multi
villani vel pagani, hic latices seu ignes colit, iste lucos et arbores aut lapides
adorat, ille montibus sive collibus litat, alia quæ ipse fecit, idola surda et
muta rogat et orat»2. Questo testo ci spiega bene che i Cechi adoravano gli
idoli, ma purtroppo non ce ne dà i nomi. Un altro passo non meno
interessante ci è fornito all’inizio del capitolo III, dove si elencano i riti
pagani che il principe Břetislav II soppresse, e i maghi e gli stregoni che
fece espellere3. E questo è tutto.
La cronaca in versi detta di Dalimil4 che si ispira a Cosma non aggiunge
nulla di positivo alle informazioni già tanto vaghe del suo prototipo.
Tuttavia, siccome è scritta in lingua ceca, ci dà alcuni dettagli che non
compaiono nella fraseologia latina del prototipo. Così ci dice che gli antichi
Cechi chiamavano nav il mondo dei morti:
1 Le leggende ceche raccontano che dal matrimonio segreto tra il principe e condottiero
Krok e una ninfa nacquero tre figlie: Kazi, Teta e Libuše. Kazi conosceva i segreti delle
erbe, Teta controllava il sereno e la pioggia, Libuše profetava. Teta era una sacerdotessa
pagana che introdusse i riti pagani, tra cui quello delle ninfe della mitologia greca: le
Oreali (ninfe dei monti), delle Driadi (dei boschi) e delle Amadriadi (degli alberi e in
particolare delle querce). (N.d.T.)
2 In Fontes rerum bohemicarum, t. II, Praga 1874, p. 8. (N.d.A.)
3 Ecco il testo integrale: «…Novus dux Bracislaus junior… omnes magos, ariolos et sortilegos
extrusit regni sui e medio, similiter et lucos sive arbores, quas in multis locis colebat
vulgus ignobile extirpavit et igne cremavit. Item et superstitiosas institutiones, quas
villani adhuc semipagani in Pentecosten tertia sive quarta feria observabant, offerentes
libamina super fontes mactabant victimas et dæmonibus immolabant, item sepulturas,
quæ fiebant in silvis et in campis, atque scenas, quas ex gentili ritu faciebant, in biviis et
in triviis, quasi ob animarum pausationem, item et jocos profanes, quos super mortuos
suos, inanes cientes manes ac induti faciem larvis bachando exorcebant; has
abominationes et alias sacrilegas adinventiones dux bonus, ne ultra fierent in populo Dei,
exterminavit». (N.d.A.) – Břetislav II fu principe ceco dal 1092 al 1100. (N.d.T.)
4 Al canonico Dalimil fu attribuita la prima cronaca boema in lingua ceca a noi giunta, che
narra della storia ceca dalla torre di Babele all’incoronazione di Giovanni di Lussemburgo
(1310) e termina nel 1314. Compilata in versi, in seguito fu anche attribuita a un
cavaliere dell’ordine gerosomilitano della città di Mlada Boleslav. (N.d.T.)
5 Czech, o Praotec Čech (Progenitore Ceco): la leggenda narra che Čech e Lech erano due
fratelli capitribù che lasciarono la terra natia dilaniata dalle guerre, attraversarono l’Oder e
l’Elba e giunsero nella selvaggia e inabitata foresta boema. Čech baciò quella terra e la
benedisse col nome di Cechia, quindi posò al suolo le immagini dei dedki (antenati) che
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aveva portato con sé e accese un gran falò. Vennero fatti sacrifici agli dèi: a Perun che
abbatte la folgore, a Veles che governa i morti, a Vesna dea della primavera, Kupalo dio
dell’estate, Morana dea dell’inverno. (N.d.T.)
1 La Chronica Przibiconis dicti Pulkava (Cronaca del sacerdote Přibík detta di Pulkava) fu
scritta per ordine di Carlo IV intorno al 1330. (N.d.T.)
2 In Fontes rerum bohemicarum, t. V, p. 15. (N.d.A.)
3 Ib., p. 88. (N.d.A.)
4 Galli Anonymi Chronicon, in Bielowski, Monumenta Poloniæ historica, t. I, L’vov 1864. Su
Gallus cfr. la recente memoria di Max Gumplowicz: Bischof Balduin Gallus von Kruszwica
(Sitzungsberichte der kais. Akademie, Vienna, 1895). (N.d.A.)
5 Cfr. Adamo da Brema, Descriptio insularum Aquilonis a proposito dei riti dei pagani
scandinavi: «Cæterum neniæ quæ in ejusmodi ritu libationis fieri solent multiplices et
inhonestæ ideoque melius reticendæ» (28). (N.d.A.) – Descriptio insularum Aquilonis è
l’ultimo dei quattro libriche compongono l’opera Gesta Hammaburgensis Ecclesiæ
Pontificum (Gesta dei vescovi della Chiesa di Amburgo) che Adamo da Brema completò
nel 1075 e rielaborò successivamente. Vi sono descritti la geografia, le arti e i costumi dei
popoli scandinavi e la loro evangelizzazione. (N.d.T.)
6 Libro II, cap. XLIII. (N.d.A.)
7 Chronica seu originale regum et principum Poloniae, conosciuta anche col titolo Magistri
Vincenti dicti Kadlubek Chronica Polonorum (Cronaca dei Polacchi del Magister Vincentius
Kadlubek), scritta tra il 1190 e il 1208 in quattro volumi. (N.d.T.)
8 Il titolo esatto è Historia Polonica usque ad annum 1480, scritta nel 1455-1480 e
pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1711. (N.d.T.)
9 In Archiv für slavische Philologie, t. XIV, p. 170 e seguenti. (N.d.A.)
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dèi tra gli antichi Polacchi, arrivando a trovarne sei1. Individua Giove in
Yesza, Marte in Liada, Venere in Dzydzilelya, Plutone in Nýja, Diana in
Dzewana, Cerere in Marzana. Conosce un dio della temperatura (temperies)
chiamato Pogoda, un dio della vita, Žywie. Sostiene che c’è un tempio di
prim’ordine a Gniezno: «delubrum primarium ad quod ex omnibus locis
fiebat congressus». In lui è evidente l’influenza delle idee cristiane. Essendo
Gniezno la metropoli cattolica, la sede del primate, egli vuole che essa
svolgesse lo stesso ruolo nei tempi pagani. Parla di templi, idoli, sacerdoti,
boschi sacri, sacrifici (anche umani) e di feste annuali, alcune delle quali si
sono conservate malgrado il cristianesimo, e di cui una è chiamata Stado.
Egli subisce l’influenza di reminiscenze classiche o cristiane; prende per
nomi di divinità delle formule che si ritrovano in questo o quell’altro
ritornello popolare. Tuttavia, data la scarsità delle fonti slave tra i popoli
occidentali, la sua testimonianza non è assolutamente da respingere. Se
l’identificazione di Plutone con Nyja è discutibile, è però vero che nyia è
imparentato con il nav dei Cechi e ciò ci permette di interpretarlo meglio.
Brückner ha anche trovato2 qualche indicazione mitologica in una raccolta
di sermoni polacco-latino conservati presso la Biblioteca di San Pietroburgo
e li ha recentemente pubblicati. Riguardano in particolare le figure mitiche
inferiori e alcune di esse ci spiegano gli errori di Długosz.
II – I cronicisti stranieri
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e il Baltico1. Per principio non insiste sulle cose pagane: «Inutile est acta
non credentium scrutari»2. Tuttavia gli scappa più di un dettaglio
interessante per i nostri studi. Così delinea la città di Rethra con il tempio
eretto in onore dei demoni, «quorum princeps est Redigast»3, attesta4 la
riluttanza degli Slavi al cristianesimo e i cattivi trattamenti che riservano ai
sacerdoti, racconta5 che nella stessa città di Rethra il vescovo Giovanni fu
sacrificato al dio Redigast6. Dichiara che gli abitanti di Rügen sono più
attaccati al culto dei demoni degli altri Slavi7. Elenca diverse volte le torture
inflitte ai cristiani dagli Slavi pagani o eretici. Purtroppo non ebbe l’idea di
dare sugli idoli slavi e il loro culto dei dettagli più completi di quelli che dà8
sulle divinità scandinave Thor, Wodan e Fricco9. Crede in una certa parentela
tra le superstizioni dei Sassoni, degli Slavi e degli Svedesi10. Il suo odio
verso il paganesimo non gli impedisce di proclamare le buone qualità degli
Slavi pagani11. Cita spesso i rapporti di testimoni oculari. La sua buona fede
non è in dubbio, noi non abbiamo da deplorare che la scarsità di
informazioni forniteci.
L’opera di Helmold, Chronicon Slavorum, è, come suggerisce il titolo, una
delle principali fonti per la storia degli Slavi nel Medioevo. Nativo
dell’Holstein, Helmold era sacerdote della chiesa di Lubecca, parroco di
1 Gli Obotridi (o Obodriti) era un popolo slavo stanziato nelle regioni di nord-est della
Germania di oggi. Tra il IX e il XII secolo furono in guerra con i re danesi per la
supremazia nel Mar Baltico. Si convertirono al cristianesimo sotto l’influenza dei missionari
tedeschi. Al loro principe Gottschalk (o Godescalco; morto nel 1066) si ascrive la
fondazione delle diocesi di Oldenburg, di Ratzenburg e del Meclemburgo. (N.d.T.)
2 Il passo esatto sarebbe «Meo autem arbitratu, sicut inutile videtur, eorum acta scrutari,
qui non crediderunt…» (Libro I, cap. 63). (N.d.T.)
3 Libro II, cap. XVIII. (N.d.A.) – Il principe dei demoni Redigast (o Radigost) prese il nome
da una città, situata probabilmente nel Meclemburgo, che si chiamava Redigast, Radgosc,
Radigost, Riedigost, Rhetra e Rethra. In seguito e per tutto il testo, la si è indicata con
Rethra, che è il nome più comune, e non con Rhetra come fa l’Autore usando una rara
forma tedesca. (N.d.T.)
4 Libro II, 40, 41. (N.d.A.)
5 Libro III, 60. (N.d.A.)
6 Adamo di Brema è stato pubblicato da Lappenberg in Pertz (Monumenta Germaniæ
Historica, t. VII) e ristampato ad Hannover, in usum scholarum, 1 vol. in-8°, libreria
Hahn, 1876. La prefazione indica le migliori edizioni, traduzioni o commentari,
Recentemente la geografia di Adamo di Brema è stata studiata da Auguste Bernard, De
Adamo Bremensi geographo (tesi presentata alla Facoltà di Lettere di Parigi, Hachette,
1896), e da S. Günther, Sitzungsberichte der königl. böhmischen Gesellschaft der
Wissenschaften, Praga, 1894. L’opera di Adamo di Brema si ferma al 1072 ed è
completata da un curioso capitolo geografico: Descriptio insularum Aquilonis. Cfr. anche
Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelaller, IV ed., Berlino, 1877. (N.d.A.)
7 In Descriptio insularum, 18. (N.d.A.)
8 Capitoli XXVI, XXVII, XXVIII. (N.d.A.)
9 Wodan è il nome tedesco di Odino. Fricco è il nome latinizzato di Freyr. (N.d.T.)
10 Libro I, 8. Orderic Vital (XII secolo) identifica la religione degli Slavi Ljutiči con quella dei
Germani: «In Leuticia populosissima natio constitebat quæ Guodenen et Thurum
Freamque aliosque falsas deos colebat», in Monumenta Germaniæ Historica, t. XX, p. 55.
(N.d.A.)
11 Libro II, 19. (N.d.A.)
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Bosau (sul lago di Plön) nel paese degli Slavi Vagri1. Legato ai vescovi di
Oldenburg, Vicelin e Gerold, si associò a loro negli sforzi per evangelizzare
gli Slavi pagani. Fu inviato in missione presso i Vagri nel 1155 e fu ricevuto
dal principe Pribislav, di cui lodò l’ospitalità. Pribislav era un cristiano2.
Helmold ha degli Slavi una pessima opinione, forse a causa del loro
attaccamento al paganesimo: «Slavorum animi naturales sunt infidi et ad
malum proni ideoque cavendi». Li considera di una «natio prava et
perversa» e ritiene il loro paese «terra horroris et vastæ solitudinis»3.
Tuttavia riconosce che i Tedeschi si comportano male con loro. Egli tratta,
oltre ai Vagri, i Ljutiči4 e gli Obotridi situati tra l’Elba e l’Oder. La loro
conversione, o il ritorno alla fede cristiana dopo la loro defezione, è l’oggetto
principale della sua cronaca; scrive «ad laudem Lubeccensis ecclesiæ» nella
dedica del libro. Egli ha seguito Adamo da Brema, al quale fa numerosi
riferimenti («testis est magister Adamus»), ma aggiunge delle tradizioni
scritte e i racconti degli anziani slavi, «qui omnes barbarorum gestas res in
memoria tenent»5. Sembra aver conosciuto la lingua degli Slavi: ne cita
qualche parola e riproduce i nomi esattamente. Dà maggiori informazioni di
Adamo di Brema sulla religione degli Slavi pagani, sul culto del Dio nero6, su
quello di Proven, sull’idolo Podaga, sul tempio di Rethra e sul dio Radigost,
su Siva, la dea di Polabi7, sugli dèi che hanno degli idoli e su quelli che non
ne hanno; ci informa che gli Slavi amano fare idoli policefali (particolare
confermato in altri testi), che riconoscono l’esistenza di un dio superiore dal
quale discendono tutti gli altri, che hanno dei boschi sacri8. Egli conosce
l’esistenza di Svantovit, dio dell’isola di Rügen, e immagina la confusione di
questa divinità con il san Vito dei monaci di Corvey9. I capitoli 52 e 83 del
suo primo libro e il capitolo 12 del secondo10 costituiscono una delle fonti più
importanti per i nostri studi, ma non la sola come immagina Völkel, un
1 I Vagri, abitanti della Vagria, regione a sud-est dell’Holstein (Germania), erano slavi
imparentati con gli Obotridi. (N.d.T.)
2 Vicelin (o Vizelin; 1086-1154) fu vescovo di Oldenburg dal 1149 e Gerold (?-1163) gli
successe. Il principe dei Vagri, Pribislav (morto dopo il 1156), fu pagano e nemico del
cristianesimo fino al 1156, quando si convertì. (N.d.T.)
3 Libro I, 27. (N.d.A.) – La citazione esatta è «Nil autem mirum, si in nacione prava atque
perversa, in terra horroris et vastæ solitudinis…». La seconda parte riprende un passo
dell’Antico Testamento in latino: «Invenit eum in terra deserta, in loco horroris, et vastæ
solitudinis…» (Dt 32,10). (N.d.T.)
4 I Ljutiči componevano una tribù slava che abitava presso il corso inferiore dell’Oder e a
ovest di questo. Le fonti li nominano per la prima volta nel 983 quando si rivoltarono
contro le autorità tedesche a est dell’Elba. (N.d.T.)
5 Libro I, 16. (N.d.A.)
6 Libro I, 52. (N.d.A.)
7 I Polabi erano gli Slavi che abitavano i territori compresi tra il basso Oder e il basso Elba.
(N.d.T.)
8 Libro I, 83. (N.d.A.) – Nell’edizione consultata non è al cap. 83 ma all’84. (N.d.T.)
9 L’Autore approfondirà più avanti questa questione. (N.d.T.)
10 Nell’edizione consultata il cap. 83 del primo libro corrisponde all’84. Inoltre il cap. 12 del
secondo libro risulta essere il 108, essendo la Cronaca divisa in due libri ma con i capitoli
numerati in progressione. (N.d.T.)
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1 Pubblicata per la prima volta a Francoforte nel 1556, la Cronaca di Helmold è stata
ristampata varie volte, in particolare da Leibniz negli Scriptores rerum brunswicensium e
nei Monumenta Germaniæ Historica di Pertz (t. XXI). Un’edizione in usum scholarum è
stata pubblicata ad Hannover da Pertz nel 1868. Essa è stata studiata da Völkel, Die
Slavenchronik Helmolds (tesi di Gottinga), Dantzig, 1873; da Hirsekorn, Die
Slavenchronik des Presbyter Helmold, dissertazione inaugurale, Halle, 1874; da Broska,
Forschungen zur deutschen Geschichte, t. XXII (1882); da J. Paplonski nella prefazione
della sua traduzione polacca [Helmolda Kronika slawianska z XII wieku] (Varsavia, 1862);
da Lebedev, in russo, nel suo Saggio sulle fonti della storia degli Slavi baltici dal 1131 al
1170 [Obzor istočnikov istorii baltijskich slavjan s 1131 po 1170 god]. Lebedev, al quale si
deve un importante lavoro su L’ultima lotta degli Slavi contro la germanizzazione
[Poslednjaja bor’ba baltiyskich slavjan protiv onemečenija] (Mosca, 1876) ha fatto seguire
questo lavoro da uno studio critico molto approfondito sulle fonti. Egli dedica a Helmold
un centinaio di pagine (pp. 119-207). Avrò ancora occasione di citare Lebedev a proposito
di Saxo Grammaticus e della Knytlinga saga. (N.d.A.)
2 Boleslao il Coraggioso o Boleslaw I Chrobry (967-1025), duca di Polonia dal 992 (nel 1025
col titolo di re). (N.d.T.)
3 Detti anche Sorbi o Serbi bianchi. (N.d.T.)
4 Anche in questo caso nelle edizioni consultate combaciano i testi ma non i riferimenti.
(N.d.T.)
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1 Zutibure rappresenta Sveti o Svantibor, il bosco sacro. Questo nome diventò per i
tedeschi Sciudibure e oggi è Schkeitbar! La montagna del pagus Silensis è nominata in
una bolla di Eugenio II mons Silentii. Tali distorsioni ci aiutano a capire come il nome del
dio Svantovit sia stato tradotto con Sanctus Vitus. (N.d.A.) – In latino pagus significa
villaggio, mentre mons, monte. Così, secondo un’interpretazione, silensis è il genitivo
dell’aggettivo (qui sostantivato) silens, mentre silentii lo è del sostantivo silentium, che
rimandano entrambi al silenzio, tuttavia silens non indica la totale assenza di rumore, ma
il fruscio del vento nei campi o tra le foglie. (N.d.T.)
2 I Redariani costituivano una delle tribù situate sul bacino del fiume Peene. (N.d.T.)
3 Cfr. il capitolo su Zuarasici (Svarožičŭ). (N.d.A.)
4 L’imperatore Enrico II (973-1024), cattolico e in seguito venerato come santo, non esitò
ad allearsi con gli Slavi pagani per vincere la cattolica Polonia e di ciò fu criticato del
missionario san Bruno di Querfurt che scrisse: «»È giusto perseguitare una nazione
cristiana e concedere amicizia a una nazione pagana? In che modo può Cristo avere
relazione con Satana? In che modo possiamo paragonare la luce al buio? Non è meglio
combattere i pagani per il bene del cristianesimo, piuttosto che far torto ai cristiani per
onori terreni?». (N.d.T.)
5 Cfr. il capitolo su Svantovit. (N.d.A.)
6 Pubblicata per la prima volta a Francoforte nel 1586, la Cronaca di Tietmaro è stata
ristampata nel volume III de Scriptores rerum germanicum da Lappenberg. L’edizione di
Lappenberg è stata riedita da Fr. Kurze (in usum scholarum, Hahn, Hannover 1889).
Questa edizione, attentamente riveduta e annotata, accompagnata da un commento e da
due indici, è una delle migliori raccolte in usum scholarum e da questa sono prese le mie
citazioni. La parte che concerne i rapporti tra l’Impero e la Polonia è stata ristampata da
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Saxo Grammaticus era danese. Sappiamo poco della sua vita. Era
chierico, e morì all’inizio del XII secolo. Fu un seguace di Absalon, vescovo
di Lund in Scania, uno degli statisti e dei prelati più importanti del
Medioevo1. Absalon fu consigliere intimo di re Valdemaro e suggerì la
spedizione contro i Wendi2 o Slavi pagani che portò alla caduta di Arkona,
nel 1168, alla sottomissione dell’isola di Rügen e alla distruzione del
paganesimo slavo. Fu su esortazione di Absalon che Saxo scrisse le Gesta
Danorum: è un prosatore lucido ed elegante, che si ispira ai classici latini,
soprattutto a Valerio Massimo3. È un testimone oculare degli eventi che
descrive? Lo si può supporre, ma non c’è prova. In ogni caso, il vescovo
Absalon, che prese parte a quei grandi avvenimenti aveva provveduto a
prendere serie informazioni. Il suo patriottismo danese è forse più ardente
della sua fede cristiana, l’ha usato a profitto e nella sua prefazione ci fa
conoscere, avendoli tradotti in versi latini, le antiche canzoni popolari
(«majorum acta patrii sermonis carminibus vulgata»), i racconti degli
Islandesi (Tylensium) e quelli del vescovo Absalon («Absalonis asserta docili
animo stiloque complecti cure habui»).
La sua storia è l’unico documento significativo che abbiamo sulle lotte
degli Slavi di Rügen contro i Danesi, su Arkona, il grande santuario del
paganesimo slavo, sul culto e la distruzione dell’idolo di Svantovit. Per
quanto riguarda questa divinità, Saxo è molto più completo di Helmold ed è
con evidenza ben informato. Come Helmold confonde Svantovit con San
Vito, ma questa confusione tra il dio pagano e il santo cristiano è facilmente
spiegabile con le idee che circolavano in quell’epoca. Per quanto Saxo
Grammaticus sembri un po’ fanatico, non gli si può rimproverare di aver
avuto i pregiudizi della sua epoca e della sua rango. Noi gli dobbiamo anche
delle preziose informazioni sul culto di Rugievithus, di Porevitus e di
Bielowski nel Volume I dei Monumenta Poloniæ historica (op. cit., pp. 230-318). Essa è
accompagnata da una interessante introduzione. La Cronaca di Tietmaro è stata studiata
da Wattenbach, Geschichtsquellen; da Strebitzki, Thietmarus quibus fontibus usus sit
(Königsberg, 1870); da Fortinskij, Titmar Merzeburgskij i ego chronika (Tietmaro di
Merseburgo e la sua Cronaca), San Pietroburgo, 1872); da F. Kurze nella prefazione alla
sua edizione. (N.d.A.) – Nell’edizione consultata il rimando è I, 84. Inoltre, due titoli
vanno precisati: W. Wattenbach, Deutschlands Geschichtsquellen im Mittelalter bis zur
Mitte des XIII Jahrhunderts, Berlin 1858; J. Strebitzki, Thietmarus episcopus
Merseburgensis quibus fontibus usus sit in chronicis componendis quæstiones criticæ,
Königsberg 1870. (N.d.T.)
1 La vita di Absalon è stata scritta da Estrup e tradotta in tedesco da Mohnike: Absalon
Bischof von Roeskilde… aus dem dänischen, 1832. (N.d.A.) – Absalon (1128-1201) fu un
arcivescovo cattolico e un potente politico danese, consigliere di Valdemaro I re di
Danimarca dal 1157 alla sua morte (1182). Lo storico danese Estrup pubblicò Absalon
som Helt, Statsmand og Biskop (Absalon come eroe, statista e vescovo) nel 1826, ripreso
da G. Mohnike con il titolo Absalon, Bischof von Roeskilde und Erzbischof von Lund,
Eroberer der Insel Rügen und Bekehrer derselben zum Christenthum, als Held,
Staatsmann, und Bischof, Leipzig 1832. (N.d.T.)
2 O Venedi. (N.d.T.)
3 Scrittore latino, vissuto tra il I secolo a.C. e il I d.C., Valerio Massimo scrisse Factorum et
dictorum memorabilium libri IX (Nove libri su fatti e cose varie da ricordare), in cui
raccolse fatti e aneddoti ripresi da fonti latine e greche. (N.d.T.)
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1 Rugievithus, Porevitus e Porenutius sono i nomi che Saxo Grammaticus dà agli dèi slavi
Rinvit, Porevit e Porenut. Verranno analizzati più avanti. (N.d.T.)
2 Stampata per la prima volta a Parigi nel 1514, la Historia Danica è stata pubblicata per
l’ultima volta da Alfred Holder (Libreria Trübner, Strasburgo 1886). Preceduto da una
biografia copiosa e accompagnata da un buon indice, questa edizione purtroppo manca di
sommari, commenti, indicazioni cronologiche e non è fatta per agevolare il compito degli
storici che la vogliono consultare. Holder ha elencato nella sua bibliografia tutte le opere
di cui Saxo Grammaticus è stato oggetto fino al 1886. Ha tuttavia ignorato il lavoro di
Lebedev nell’opera che ho sopraccitato: Saggio sulle fonti della storia degli Slavi baltici (in
russo, Mosca, 1876). (N.d.A.) – L’edizione di Holder s’intitola Saxonis Grammatici Gesta
Danorum; Historia Danica è il titolo di traduzioni precedenti. Il titolo originale dell’opera di
Lebedev è Obzor istočnikov istorii baltijskich slavjan s 1131 po 1170 god. (N.d.T.)
3 L’edizione che ho consultato è quella pubblicata in Scripta historica Islandorum
(Copenhagen 1842, t. XI). La Knýtlinga saga è stata particolarmente studiata da
Dahlmann nella sua Storia della Danimarca (Geschichte von Dänemark, Amburgo [1843],
pp. 1840-43), da Wattenbach, da Lebedev. Essa comprende in tutto cinque pagine
relative al nostro soggetto. Il passaggio che ci interessa è stato riprodotto, testo e
traduzione, in Monumenta Germaniæ Historica di Pertz, t. XXIII, ultimo volume. Questo
volume offre anche una parte della cronaca di Saxo. (N.d.A.) – Scripta Historica
Islandorum de Rebus Gestis Veterum Borealium è un’opera di S. Egilsson in cui sono
tradotte in latino le saghe islandesi. (N.d.T.)
4 Fu per celebrare l’alleanza tra la Polonia e la Boemia che Władysław Herman (o, in
italiano, Ladislao; 1040-1102), duca di Polonia dal 1079, sposò nel 1082 Giuditta di
Boemia, sorella dell’imperatore Enrico IV del Sacro Romano Impero. (N.d.T.)
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durante le sue missioni tra gli Slavi del Baltico1. Al ritorno in Germania
diventò vescovo di Bamberga e fu consacrato a Roma, il 13 maggio 1106.
Lasciò un buon ricordo in Polonia. Nel 1123, il principe Boleslao III lo invitò
a evangelizzare gli Slavi della Pomerania. Entrò in quella provincia e fu
ricevuto dal principe Vratislao2 che era un cristiano (era stato battezzato a
Merseburgo). Ottone visitò le città di Pyritz, Kamien, Wollin, Stettin,
Kołobreg (ora Kolberg)3, eresse alcune chiese, istituì un vescovo di
Pomerania a Wollin. In questa prima missione avrebbe convertito più di
ventimila pagani e costruito undici chiese. Ma, dopo la sua partenza, le
apostasie furono numerose. All’inizio del 1128 l’apostolo ritornò in
Pomerania da Magdeburgo, visitò Havelberg, Uznoim, Volegost4, Stettino,
Wollin e ritornò alla sua diocesi nel mese di dicembre.
Ebbo, monaco di Bamberga, scrisse nel 1151, o 1152, la Vita Ottonis5.
Aveva conosciuto il vescovo, aveva goduto i racconti dei suoi compagni,
compresi quelli del prete Udalrico6 che aveva accompagnato Ottone nella
sua seconda missione e che sembra essere stato un osservatore intelligente
e in buona fede. Ebbo è dunque un testimone molto degno di fede
soprattutto per ciò che riguarda la seconda missione. È meno attendibile
sulla prima. Egli riporta una lettera autentica del vescovo al papa. È un
uomo coscienzioso che sembra incapace del minimo inganno. Ci si può
fidare di lui, non dimenticando, naturalmente, che è un uomo del Medioevo
e un uomo di Chiesa. Egli crede ovviamente ai miracoli e ne racconta
qualcuno che non è, in realtà, troppo inverosimile.
Ebbo constata subito il fanatismo pagano dei Pomerani: «Tamtum esse
gentis illius ferocitatem – dice il duca di Polonia, – ut magis necem ei inferre
quam jugum fidei subire parata sit». Egli racconta che gli abitanti di Julin
(che prendeva il nome da Giulio Cesare!)7 onoravano una colonna eretta in
onore di questo grand’uomo. Dopo varie vicissitudini il vescovo Bernardo
convinse gli abitanti di Julin a farsi battezzare e insegnò loro a seppellire i
morti nei cimiteri, piuttosto che nelle foreste o nei campi, a non mettere i
bastoni sulle tombe8, a non costruire case per gli idoli, a non consultare più
le pitonesse, a non ricorrere alla stregoneria. I sacerdoti di Julin cospirarono
la morte del vescovo. Presero un idolo di Triglav e lo affidarono alle cure di
una anziana donna che lo nascose in un albero cavo. Il vescovo costruì a
Julin due chiese cristiane e, per conciliarsi maggiormente il favore dei nuovi
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convertiti, le dedicò a due santi slavi: san Vojtěch (Adalberto) e san Vaclav,
entrambi originari della Boemia (Libro I)1.
Il Libro II torna sulla storia della città di Julin, costruita da Giulio Cesare e
che conserva la sua lancia. Questa città era famosa per il culto di un idolo,
purtroppo senza nome, che richiamava ogni anno un gran concorso di
persone. La conversione è stata puramente superficiale. Alcuni pagani
nascondono in casa dei piccoli idoli decorati d’oro e d’argento. Il popolo
accorre a frotte alla tradizionale festa: eleva idoli e ritorna al paganesimo.
Stettino e Julin avevano ciascuno tre montagne, sulla più alta delle quali
c’era l’idolo di Triglav. Un racconto sulla seconda missione di Ottone ci dice
che questi idoli dovevano avere dei vestiti o ornamenti mobili2. Quando il
vescovo arriva nella città di Hologast3 un sacerdote pagano si mette gli abiti
dell’idolo e si fa passare per il dio allo scopo di eccitare i suoi correligionari.
Ottone va in seguito nella città di Chozegow, oggi Gützkow. Vi trova templi
splendidi («magni decoris et miri artificii») per i quali gli abitanti avevano
speso la somma di trecento talenti. Non ci dice, però, quanto valevano
questi talenti. Gli abitanti gli offrono del denaro per lasciare intatti quei
santuari. Lui rifiuta, distrugge gli idoli. Di questi idoli, Ebbo ci fornisce
informazioni preziose. Erano, dice, «miræ magnitudinis et sculptaria arte
incredibili cœlata», privi di braccia e mani, gli occhi cavati, le narici tagliate;
molte coppie di buoi li trascinavano a stento al rogo. Questa testimonianza
concorda in modo singolare con quella di Tietmaro (V, 23): «Hujus parietes
variæ deorum, dearumque imagines mirifice insculptæ exterius ornant…
interius autem dii stant manu facti, singulis nominibus insculptis, galeis
atque loricis terribiliter vestiti…».
Di Stettino, Ebbo ci descrive (II, 15) dei monumenti del culto pagano
assai difficili da interpretare. C’erano, dice, in quella città «pyramides
magnæ et in altum more paganico muratæ». Il vescovo predica su una di
queste piramidi che aveva evidentemente avuto un carattere religioso.
Erano delle tombe, erano dei pulpiti? Ebbo non aggiunge, purtroppo, alcun
dettaglio specifico in questa troppo breve descrizione. Ottone (18) va poi a
pregare nei pressi di un noce4 o piuttosto un nocciolo sacro («idolo
consecratum») situato vicino a una sorgente e ordina di tagliarlo. Gli
abitanti di Stettino lo supplicano di risparmiare l’albero i cui frutti
alimentano il guardiano. Egli acconsente. Noi incontreremo più di un testo
sugli alberi sacri5.
1 Sant’Adalberto (in cèco: Vojtĕch; 956?-997), monaco benedettino, fu vescovo di Praga dal
982, missionario in Ungheria (994-95) e in Polonia dove fu ucciso. San Venceslao (in
cèco: Václav; 907?-935), duca di Boemia dal 921 al 929, fu il primo santo boemo e fu
nominato protettore della Boemia. (N.d.T.)
2 Cfr. Tietmaro, VI, 23: «In pago Riedirierum… dii stant manu facti…, galeis atque loreis
terribiliter vestiti». (N.d.A.)
3 Hologast è l’antico nome della fortezza della città di Wolgast. (N.d.T.)
4 Dubito che il noce prosperi alla latitudine di Stettino. (N.d.A.)
5 Sulla persistenza del culto degli idoli, il recente libro di W. von Sommerfeld, Geschichte
der Germanisierung des Herzogtums Pommern (Lipsia, 1896), fornisce un testo curioso
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è stata studiata da Petrov nei suoi articoli sulla Rivista del Ministero dell’Istruzione
pubblica (in russo), 1882 e 1883. (N.d.A.) – Il titolo russo del libro di Kotljarevskij è
Skazanija ob Ottone Bambergskom v otnošenii slavjanskoj istorii i drevnosti, Praga 1874).
(N.d.T.)
1 De bello Gothico, t. III, c. XIV. (N.d.A.)
2 Il libro di Costantino VII di Bisanzio, detto il Porfirogenito, è De Administrando Imperio, di
cui è la traduzione in www.larici.it). (N.d.T.)
3 Più avanti spiegheremo il significato della parola kapišča. Può voler dire anche idoli. Cito
dal testo di Polevoj (Storia della letteratura russa, V ed., p. 19), non avendo a portata di
mano quello di Ilarion. (N.d.A.) – I riferimenti esatti sono: P.N. Polevoj, Istorija russkoj
literatury v očerkach i biografijach: 862-1852, San Pietroburgo 1874 (I ed.); Ilarion,
Slovo o zakone i blagodati (Discorso sulla Legge e sulla Grazia). (N.d.T.)
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Altri testi solitamente anonimi citano i nomi più o meno esatti, più o
meno mutilati, delle divinità pagane che i Russi pagani adoravano1.
1 Cfr. gli autori citati in Krek, Einleitung…, op. cit., p. 394 e seguenti. (N.d.A.)
2 Mi si segnalano anche delle statue slave (?) nelle collezioni dell’Accademia delle Scienze di
Monaco. Non ne ho la fotografia sotto gli occhi. (N.d.A.)
3 «Fanum de ligno artificiose compositum… Hujus parietes variæ deorum dearumque
imagines mirifice insculptæ exterius ornant; interius autem dii stant manu facti, singulis
nominibus insculptis, galeisque atque loricis terribiliter vestiti…» (Chronicon VI, 23, o 17).
(N.d.A.)
4 Memorie dell’Accademia delle Scienze di Vienna, Vienna 1875. (N.d.A.)
5 Chronicon Slavorum, I, 52. (N.d.A.)
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I luoghi di culto – La parola božnica (da bogŭ, dio) designa nelle antiche
cronache russe i santuari cristiani. La lingua cristiana ha creato per
descrivere i templi cristiani delle parole come cerkovĭ e kostelĭ che
corrispondono all’antico alto-tedesco chirichha (derivato a sua volta dal
greco )4 e dal latino castellum.
Per il periodo pagano abbiamo una parola attestata da Herbord, lo storico
Ottone da Bamberga. È contina da lui applicata ai templi dell’isola di Rügen.
Questa parola è sufficientemente spiegata dallo slavo. Lo slavone kąšta (=
kontja) indica semplicemente la casa; kontina, come chramŭ, significa casa
degli dèi. Questa etimologia mi sembra molto più verosimile di quella che è
stata proposta dall’editore tedesco di Herbord: il polacco konczyna. Ma
konczyna significa semplicemente: estremità, fine5, e non ha nulla in
comune con l’idea di un edificio.
La parola slava chramŭ aveva originariamente il significato di edificio
religioso. La parola kapište6 attestata da numerosi testi slavi, significava
1 Il battriano è un’antica lingua iranica nord-orientale, parlata nella regione della Battria in
Asia centrale e scomparsa nel IX secolo. (N.d.T.)
2 Il germanico Gott e il lituano devas hanno solo il senso teologico. (N.d.A.)
3 Lingua dei Serbi di Lusazia (detti Wend dai Tedeschi medioevali), abitanti slavi della
Sassonia e di una parte della Prussia nel Medioevo. (N.d.T.)
4 Kluge, Etymologische Wörterbuch der deutschen Sprache. (N.d.A.) – Libro pubblicato nel
1864. (N.d.T.)
5 Il suo significato è ora limitato a “arto”. (N.d.A.)
6 Cfr. Sreznevskij, Materialy dlja Slovarja Drevnie-Russkago Jazyka, San Pietroburgo 1896,
sub voce. (N.d.A.) - Il titolo esatto è Materialy dlja slovarja drevne-russkago jazyka po
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originariamente il luogo dove si conservano gli idoli (kapĭ). Allo stesso modo
kumirište è il luogo in cui si trovano gli idoli.
Per designare gli idoli ci sono in slavone cinque parole diverse: kapĭ,
bolvanŭ, istukanŭ o stukanŭ, kumirŭ e modla.
Kapĭ significa idolo, questa parola si incontra ancora sotto la forma
kapište che, seguendo il significato del suffisso ište1, vuol dire molti idoli o
tempio degli idoli. Mi pare difficile non collegare kapĭ alla parola kip che
esiste ancora in sloveno e in serbo-croato e che vuole dire esattamente
statua. La parola kip si ritrova nel magiaro kép. È probabilmente di origine
turca: hep, keb in lingua uigura2. Avrebbe inizialmente designato gli idoli
delle popolazioni turche vicine agli Slavi.
Balvanŭ è una parola turca.
Istukanŭ è semplicemente il participio presente passivo del verbo
istukati, scolpire.
Kumirŭ, a priori, non ha una fisionomia slava. La parola ha dato
kumirište, luogo dove si adorano gli idoli. Non è rimasta che in russo e non
è passata in altre lingue slave. Si suppone, dice Miklošič3, che sia di origine
finlandese: kumarsaa, onorare (Veske4 scrive kumartaa e lo avvicina al
mordvino komans). Ma questa origine sembra poco probabile al
lessicografo; non ci sono, dice, prestiti così antichi dal finlandese.
Modla sembra essere di origine slava, ed è ovviamente correlata al verbo
modliti, pregare, che sotto varie forme è usato in tutte le lingue slave.
Modla, nel senso di idolo, si trova solo in lingua ceca, dove ha avuto anche il
significato di tempio, e in lingua polacca, dove ha assunto anche il
significato di preghiera. Manca in russo che, d’altronde, ha il verbo molitĭsja,
pregare.
L’idea di sacrificio è espressa da termini puramente slavi: obétŭ (la cosa
promessa), žréti (sacrificare), žrŭtva. La parola sembra voler dire
approssimativamente lodare5. Originariamente non è esistita in lingua slava
e russa.
Zakolŭ, , ciò che si sgozza (radice kol, sgozzare).
Tréb (radice terb, esigere) tréba, ciò che gli dèi esigono: «I pride
(Vladimirŭ) kŭ Kievu i tvorjase trebu kumiromŭ» (e Vladimir andò a Kiev e
fece un sacrificio agli dèi)6.
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ortodossa. (N.d.T.)
1 Miklošić, Die Bildung der Ortsnamen aus Personennamen im Slavischen, p. 65, ne elenca
un gran numero e li collega a nomi di persona. (N.d.A.) – Libro pubblicato nel 1864.
(N.d.T.)
2 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 397. (N.d.A.)
3 L’Autore scrive žrĭcŭ (attuale trascrizione žrĭc), ma si intende žrec (plurale žreci) che
infatti significa sacerdote pagano. (N.d.T.)
4 E presso gli Ucraini e i Lituani essendo sotto l’influenza polacca. (N.d.A.)
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1 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 419. Il termine è stato usato per descrivere l’inferno, vŭ
navechŭ, (Miklošič, Lexicon Palaeoslavenico-graeco-latinum, sub voce).
(N.d.A.)
2 L’Autore scrive Jornandes, ma è Iordanis, tra le cui opere è De origine actibusque
Getarum, pubblicata nel XIX secolo nei Monumenta Germaniæ Historica. (N.d.T.)
3 Cfr. la discussione in Krek, Einleitung…, p. 435. (N.d.A.)
4 Così Iordanis descrive la cerimonie funebre: «Postquam talibus lamentis est defletus,
stravam super tumulum eius quam appellant ipsi ingenti commessatione concelebrant »
(De origine actibusque Getarum, XLIX, 258). (N.d.A.)
5 Letopisĭ po ipatskomu spisku, p. 36, 37, 44; po lav. spisku, p. 77, 81, 87, 116. (N.d.A.)
6 Il passo si trova nella Cronaca di Nestore nel capitolo “Ol’ga, reggente di Svjatoslav, e gli
ambasciatori drevljani” della traduzione in www.larici.it. (N.d.T.)
7 T. V, pp. 193-215, e t. II, p. 388. (N.d.A.)
8 Egli ha pubblicato su questo tema nel 1837 sulla Rivista del Museo ceco una memoria che
purtroppo è stata raccolta nelle sue opere (Sebrané spisy, Praga, 1865, pp. 96-110).
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(N.d.A.)
1 Su questo ritratto, cfr. l’articolo di Jagić (Archiv für slavische Philologie, t. V, p. 204).
(N.d.A.)
2 Io li ho tradotti in francese e pubblicati presso la Libreria Internazionale nel 1866. In quel
momento la loro autenticità mi sembrava assodata. Essa è poi stata attaccata con tali
argomentazioni che oggi non lo credo più. Alcuni studiosi molto autorevoli vi credono
ancora, per esempio Krek, Einleitung…, op. cit., p. 418. (N.d.A.)
3 L’ultima è conosciuta anche coi nomi di Marzanna, Mara, Marzena e Morena. (N.d.T.)
4 Anno 1881, t. IV, p. 134 e 135. (N.d.A.)
5 Belboh (il dio bianco), beel, baal, ydolum.
Besy (i demoni), demonibus.
Das (il diavolo), genius.
Devana letnicina i perunova dci (Dievana figlia di Letna e di Perunŭ), Diana Latone e Jovis
filia. Questa glossa è una delle più audaci. Tende a introdurre nel mito slavo una divinità
simile a Diana figlia di una dea Letna ovviamente identica a Latona e del dio Perunŭ che
viene così identificato con Giove. Ma la religione slava non offre finora alcuna traccia di
antropomorfismo, non ci sono mai questioni sugli amori degli dèi, meno ancora sui loro
matrimoni. Si vede tutta la gravità dell’inganno.
Lada, Venus, dea libidinis, cytherea.
Liutice (La Furieuse), furia, dea infernalis.
Perun (Perunŭ), Jupiter.
Perunova, Jovis sororem. (Gli dèi slavi non hanno né sorelle né spose).
Prije (gradevole), Aphrodis greca, latina Venus.
Radihost, vnuk krtov. (Radihost nipote di Krt, cioè senza dubbio del demonio). Mercurius
a mercibus et dictus. Questa glossa aveva per fine: 1) di far credere al culto di Radhost in
Boemia; 2) di dare a questo dio immaginario una analogia, fino ad allora sconosciuta, con
una divinità latina.
Svatovit, Ares, bellum. Nel manoscritto originale era: Ares bellum nuncupatur. È con
nuncupatur che il falsario ha fabbricato Svatovit. In due altri luoghi egli ha tradotto Marte
e Mavors con Svatovit.
Sytivrat, Saturnus. La parola Sytivrat è fabbricata in modo da fornire materia a
interpretazioni diverse. Jacob Grimm l’ha lasciata nella sua mitologia tedesca.
Stracec sytivratov syn (Stracec figlio di Sytivrat). Picus, Saturni filius. Straka in ceco vuol
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pubblicati dal defunto Verković, le canzoni serbe edite nel 1870 a Belgrado
da Milojević sono state fin dalla loro apparizione convincenti imbrogli1.
È veramente un danno. Queste raccolte fantastiche ampliano
singolarmente l’orizzonte dei nostri studi.
Capitolo II
Il Dio supremo
Gli antichi Slavi conoscevano uno dio supremo che governava il loro
pantheon come Zeus dominava quello ellenico e Giove quello latino?
Procopio di Cesarea (VI secolo), in un famoso capitolo dedicato alle guerre
contro i Goti, descrive i costumi degli Slavi e dice qualche parola sulla loro
religione. Citiamo una volta per tutte: avremo diverse occasioni per
tornarvi: «Gli Slavi – dice – credono che ci sia un dio produttore del fulmine
e unico padrone dell’universo, essi gli sacrificano buoi e ogni specie di
vittime. Non conoscono il destino e non ammettono che giochi qualche ruolo
nelle vicende umane. Quando si vedono minacciati dalla morte per malattia
o in combattimento, promettono, se vi sfuggono, di fare immediatamente
un sacrificio, lo fanno quando sono sfuggiti e pensano di avere riacquistato
la loro vita con questa offerta. Inoltre adorano i fiumi e le ninfe e altre
divinità e durante questi sacrifici fanno delle divinazioni»2.
Questa testimonianza si applica agli Slavi vicini all’impero bizantino. Per
quanto riguarda gli Slavi del Nord abbiamo un testo quasi simile in Helmold
(I, 83): «Tra i vari dèi ai quali essi attribuiscono i campi, le foreste, i dolori e
piaceri, essi non negano che un Dio domini gli altri dal cielo. Questo dio
onnipotente non si occupa che degli affari celesti. Gli altri hanno ciascuno le
proprie funzioni e gli obbediscono, procedono dal suo sangue e sono più
importanti quelli che sono più vicini a questo dio degli dèi». Purtroppo né
Helmold, né qualunque altro testo, conferma quanto è detto qui sulla
dire gazza.
Trihlav (a tre teste), triceps, qui habet capita tria capræ. I mitografi non hanno mancato
di sfruttare queste tre teste di capra e hanno tratto un sacco di conclusioni.
Veles, Pan, imago hircina.
Ziva (la vita). Dea frumenti, Ceres, Siva imperatrix. Questa parola è stata fabbricata una
volta con la parola latina aiunt, un’altra volta con sive.
Non ho dato in questa lista che i nomi di divinità, escludendo quelli che si rapportano al
culto e che sono assai numerosi. Tutti i trattati di mitologia slava sono stati infettati con
citazioni dalla Mater Verborum. È indispensabile che il lettore venga avvertito una volta
per tutte. Occorre rinunciare assolutamente a cercare in Boemia delle divinità sulle quali
non si possiedono che testi apocrifi. (N.d.A.) – Il manoscritto Mater Verborum è un
dizionario in lingua ceca scoperto nel 1818 e ritenuto del X-XIII secolo. Solo alla fine del
XIX secolo si appurò che molte voci erano falsificate e moderne. (N.d.T.)
1 Cfr. sul Veda slavo i miei Nouvelles études slaves (Paris, 1880, p. 49 e seguenti). (N.d.A.)
– Le opere citate sono: Verković, Veda slovena, Belgrado 1874 e Milojević, Pesme i običaji
ukupnog naroda srpskog (Canzoni e costumi di tutto il popolo serbo), Belgrado 1869.
(N.d.T.)
2 [Procopio] De bello gothico, libro III, cap. XIV. (N.d.A.)
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1 Boleslao III (o Bolesław IIII; 1085-1138, duca di Polonia dal 1102) inviò il monaco
eremita spagnolo Bernardo (o Bernhard) a cristianizzare la Pomerania nel 1122. Questi si
recò a Julin (Wolin) accompagnato dal suo cappellano e un interprete, ma gli abitanti li
cacciarono dalla città. In seguito Bernardo fu nominato vescovo di Lebus (diocesi di
Gniezno). (N.d.T.)
2 P. 41 della mia traduzione. (N.d.A.) – Corrisponde al paragrafo “Sottomissione dei Greci e
nuovo trattato di pace (945)” della traduzione in www.larici.it. (N.d.T.)
3 I, 250. (N.d.A.)
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Capitolo III
I due grandi dèi degli Slavi russi e baltici Perunŭ (Perun) e
Svantovit
La mitologia slava si riallaccia dal punto di vista delle fonti a due sistemi
differenti: il sistema russo attestato nei documenti slavo-russi, il sistema
degli Slavi polabi (del bacino dell’Elba) o baltici, attestato in documenti latini
di origine germanica. Non c’è praticamente alcun nesso o collegamento tra i
due, al massimo si possono citare divinità come Prone, Porenutius il cui
nome ricorda vagamente quella di Perunŭ, e lo Svarogŭ della cronaca russa
che può essere – Dio sa per quali collegamenti – imparentato al Suarasici
degli scrittori germanici, il Volosŭ russo che si crede di ritrovare molto
lontano dal Mar Baltico, anche sulle rive dell’Elba nel Veles ceco.
Dopo aver studiato i due grandi dèi di ciascun sistema, il Perunŭ dei
Russi, lo Svantovit dell’isola di Rügen, esamineremo separatamente, per
quanto possibile, ognuno dei due sistemi mitologici, il russo e il baltico,
riferendo le somiglianze e i punti di contatto se esistono.
PERUNŬ
Perunŭ è fra gli dèi del pantheon slavo uno di quelli su cui abbiamo più
documenti. Il suo culto ci è attestato da fonti incontestabili. Il suo nome
compare a più riprese, non solo nella Cronaca russa detta di Nestore, ma
anche nel testo assai curioso dei trattati conclusi dai Russi con l’impero
1 Il serbo di Lusazia impiega una forma přibog: idolo, dio assistente, nebengott. (N.d.A.)
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bizantino nel 907 e 9451. I Russi giurano il primo trattato sulle loro spade
per Perunŭ loro dio e per Volosŭ, dio del bestiame. Il secondo trattato è più
esplicito, si esprime così: «Se un principe o qualcuno del popolo russo viola
ciò che è scritto su questo foglio, che egli muoia con le sue stesse armi, e
sia maledetto da Dio e da Perunŭ per aver violato il suo giuramento».
Il cronicista aggiunge: «La mattina dopo, Igorĭ chiamò gli ambasciatori
(greci) e andò verso la collina dove si trovava Perunŭ e Igorĭ fece
giuramento così come coloro dei suoi ufficiali che erano pagani e i Russi
cristiani fecero giuramento nella cappella di Sant’Elia». Ho volutamente
sottolineato questo passaggio; noi cercheremo di stabilire quali rapporti
potevano esistere tra il dio pagano e il profeta biblico.
Perunŭ è ancora invocato come supremo garante nel trattato concluso da
Svjatoslavŭ con i Greci nel 971: «Se non osserviamo ciò che abbiamo
enunciato sopra, saremo maledetti dal Dio in cui noi crediamo, da Perunŭ e
Volosŭ, dio del bestiame».
Seguendo la stessa cronaca, il principe Vladimirŭ, nel 980, stabilì su una
collina di Kievŭ molti idoli: in primo luogo quello di Perunŭ, che era di legno
con la testa d’argento e la barba d’oro; Perunŭ era circondato da altre
divinità che saranno studiati specificamente: Chorsŭ, Dažbogŭ, Stribogŭ,
Simarglŭ e Mokošĭ. A tutti si offrivano sacrifici umani. Un altro principe,
Dobrynja, eresse un idolo di Perunŭ sulle rive del fiume Volchovŭ a
Novgorod.
Nel 988, Vladimirŭ si convertì al cristianesimo e ordinò di distruggere gli
idoli: fece bruciare gli uni e gettare gli altri nel fuoco: «Egli ordinò di
attaccare Perunŭ alla coda di un cavallo e di trascinarlo dalla cima fino in
basso, lungo la via per Boričev2, fino al ruscello e ordinò a dodici uomini di
percuoterlo con le verghe. Mentre lo trascinavano lungo il torrente fino al
Dnepr, gli infedeli piangevano per lui. E, dopo averlo trascinato, lo buttarono
nel Dnepr. Vladimir disse ai suoi servi: “Se si ferma da qualche parte,
spingetelo dalla riva fino a quando non ha superato le rapide, solo allora lo
lascerete. Il vento lo gettò su un fondale che fu poi chiamato il Fondale di
Perunŭ, nome che porta ancora oggi».
Così verso l’inizio del XII secolo, la memoria di Perunŭ era ancora
conservata nei dintorni di Kievŭ da un nome topografico. Questo nome
scomparve presto in quelle regioni. Ma lo si trova in altre località. Barsov3
segnala un Perunovo nel bacino del Volga, e un Perynŭ vicino a Novgorod la
Grande, sulla riva sinistra del Volchovŭ, dove si elevava la statua di Perunŭ
che fu distrutta dal vescovo Akim (Ioachim) quando Novgorod fu convertita
al cristianesimo. La cronaca di Novgorod ci racconta così questo episodio:
1 Cronaca detta di Nestore, tradotta da L. Léger, Paris, Leroux, 1884. Consultare l’indice sub
voce Perun. (N.d.A.) – Il passo riferito a Svjatoslav compare nel paragrafo “Guerre di
Svjatoslav contro i Greci e trattato di pace (971)”. Quello di Vladimir è in “Battesimo del
popolo russo (988)” della traduzione in www.larici.it. (N.d.T.)
2 Oggi è un quartiere di Kiev. L’Autore ha scritto Boričevo. (N.d.T.)
3 Očerki russkoj istoričeskoj geografij, Varsavia, 1885. (N.d.A.) – Del 1885 è la seconda
edizione del libro, la prima è del 1873. (N.d.T.)
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O ancora:
Za onijeh časov
Za starych Bohov
Za Boha Paroma.
In quei giorni,
Al tempo degli dèi antichi,
Del dio Parom.
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8 «Visitavit Altenburg – egli dice parlando del vescovo – et receptus est a barbaris
habitatoribus terræ illius quorum deus erat Prove. Porro nomen flaminis qui preerat
superstitioni eorum erat Mike». Egli sa pure il nome del principe che si chiamava «Rochel,
de semine Krutonis». (N.d.A.)
3 Saxo Grammaticus, ed. Holder, Strasburgo 1886, p. 578. (N.d.A.)
4 «Hæc statua quatuor facies repræsentans quintam pectori insertam habebat, cujus
frontem leva, mentum dextera tangebat». Helmold fa osservare (I, 83) che gli Slavi del
Baltico prediligono gli idoli policefali: «Multos etiam duobus vel tribus vel eo amplius
capitibus exsculpunt». (N.d.A.)
5 «Vulgus nostrum lapillos quosdam, virgæ in lapidem versæ et confractæ similes putat
esse fulminis» (Linde, Dizionario polacco, alla parola piorun). (N.d.A.)
6 Sull’originale Lasovales. I Lasowiacy, o Lesioki, erano un gruppo etnico di lingua polacca
che abitava un’ampia zona verso la confluenza tra la Vistola e il San. (N.d.T.)
7 È stato pubblicato sull’Archiv für slavische Philologie, V, p. 631. (N.d.A.)
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non l’avessi ucciso, ti avrei ucciso io”. Il signore ebbe paura, guardò e vide
un uomo gigantesco, alto come un albero, armato di un fucile lungo come
un tronco. Era Pieron che caccia sempre quei brutti uccelli. Essi sono
chiamati i volubili perché volano molto in fretta. Pieron prese la mano del
signore e conversò molto tempo con lui; esaminarono i loro rispettivi fucili e
Pieron disse che non avrebbe più cacciato la domenica, poi volò via come il
vento».
Noi abbiamo qui riunito tutti i testi in cui il nome di Perunŭ appare nella
sua forma originale o più o meno travisata. È un dio del tuono e del
temporale. Abbiamo volutamente lasciato da parte tutti i confronti che sono
stati proposti sia con il lituano, sia con il sanscrito 1. Senza ricorrere ad
analogie sospette, il nome di Perunŭ si spiega sufficientemente da solo per i
suoi elementi slavi.
Ounŭ, unŭ, è un suffisso d’agente. Si trova in slavone: běgunŭ fuggitivo;
vědunŭ, mago. Si usa ancora oggi correntemente in russo: opekunŭ, tutore;
govorunŭ un chiacchierone; igrunŭ, un giocatore, ecc. Sappiamo d’altra
parte, che per il russo, il polacco e lo slovacco perunŭ, piorun, parom
significano fulmine. Le altre lingue slave impiegano esclusivamente per
designare il tuono la radice grem o grom. Cosa vuol dire la radice per? Essa
esprime un’idea di sforzo violento, di colpo. Perą, in slavo, vuol dire io
colpisco2. Questo è un epiteto che si adatta bene al dio del tuono.
È forse a Perunŭ che pensa Procopio nel passaggio seguente: «Essi
riconoscono un solo Dio produttore del fulmine e gli offrono dei buoi e ogni
specie di vittime»3.
Il ruolo che egli svolge nel pantheon degli Slavi pagani, il profeta Elia lo
svolge nel folclore degli Slavi cristiani, soprattutto di coloro che sono rimasti
più fedeli alle tradizioni primitive, dei Russi, dei Serbi e dei Bulgari. Abbiamo
visto sopra, in un trattato tra Russi e Greci, i Russi pagani giurare su Perunŭ
e i cristiani davanti a Sant’Elia. È forse una coincidenza che il profeta biblico
si opponga al dio del tuono?
Nella Bibbia Elia appare come padrone degli elementi. L’acqua e il fuoco
del cielo gli obbediscono.
Egli annuncia al re Achab che per sette anni «non ci sarà né rugiada né
pioggia, se non quando lo dirò io»; ha fatto scendere il fuoco dal cielo che
consuma l’olocausto; annuncia e dà la pioggia alla terra riarsa. Se ne sta
davanti all’Eterno: «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e
gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il
Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore
non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non
era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero»4.
Elia non muore di morte naturale, ma è asceso al cielo in modo
1 La mitologia lituana è ancora da studiare. Per questi confronti, cfr. Krek, Einleitung…, op.
cit., p. 385. (N.d.A.)
2 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., sub voce. (N.d.A.)
3 De bello gothico, III, 14. (N.d.A.)
4 1 Re 5,1 e 19,11-12. L’Autore dà una diversa numerazione (XXX, 19).
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mandi l’acqua dal cielo alla terra». La sua festa si svolge il 20 luglio (2
agosto), cioè durante la stagione dei grandi temporali e delle grandi siccità.
Novgorod aveva nel Medioevo due chiese, una per Elia il bagnato, l’altra
per Elia il secco. Si andava in processione dall’una all’altra secondo i bisogni
dei lavoratori.
Il 20 luglio (2 agosto) il contadino russo si aspettava di vedere un
temporale o la pioggia. Un tempo secco in quel giorno annunciava numerosi
incendi. Il santo, quando si trovava sul suo carro di fuoco, salvava i campi
dei lavoratori caritatevoli e devastava quelli degli avari. Nel governatorato di
Kurskŭ e Voronežŭ, alla fine del raccolto, si lasciava sul terreno una
manciata di spighe legate in onore del profeta Elia. È ciò che si dice: legare
la barba di Elia. Sarebbe un vago ricordo della barba d’oro di Perunŭ.
In alcune province si celebrano ancora dei veri sacrifici. Nel governatorato
di Kaluga si uccide una bestia, la si fa cuocere, si vende la sua carne e si dà
alla chiesa il denaro raccolto. Altrove uccidono un bue o un vitello e si
riuniscono in banchetto per mangiarlo, o meglio ancora si uccidono giovani
agnelli e si fa benedire la loro carne dal sacerdote1.
Secondo una leggenda della Bucovina, Dio, l’indomani della creazione,
vide il paradiso invaso da tutti i diavoli che Satana aveva creato. Ordinò a
Elia di mettere in movimento il tuono e i lampi. Elia fece echeggiare tanto il
tuono e cadere tanta acqua che i demoni furono precipitati sulla terra.
Secondo un’altra leggenda della stessa provincia, Dio, dopo aver creato il
mondo, fece anche il tuono e i lampi e li affidò al diavolo. Ma egli li usò così
male che Dio incaricò Elia di riprenderli e di riportarli in cielo.
Fra gli Slavi meridionali, il ruolo del profeta Elia non è meno notevole. È
qualificato con l’epiteto gromovnik2, cioè il tuono, e ha un importante posto
nelle epopee popolari. Esse ci raccontano come il mondo fu diviso tra san
Giovanni, san Pietro e sant’Elia. Elia ebbe per sé le nuvole e tuoni. Punisce i
cattivi chiudendo le sorgenti dal cielo, «in modo che i bambini piccoli si
riducano a leccare la sabbia arida»3.
Il giorno di S. Elia (Ilinŭ denŭ) è in Bulgaria un giorno di festa, una festa
ufficiale. Quel giorno, in alcuni cantoni, si celebrano dei riti analoghi a quelli
che abbiamo precedentemente menzionato in Russia e hanno un aspetto
singolarmente pagano4.
1 Afanas’ev, Concezioni poetiche degli Slavi sulla natura, op. cit., t . I, passim. (N.d.A.)
2 Nodilo, Rad Akademie Jugoslavenske, Memorie dell’Accademia di Agram, t. LXXXIX.
(N.d.A.)
3 Veselovskij, Ricerche sulle origini della poesia religiosa in Russia, San Pietroburgo, fasc. 5,
pp. 82-83, e fasc. VIII (Memorie dell’Accademia delle Scienze). Sbornikŭ (Raccolta di
folclore bulgaro,di scienze e letteratura), Sofia, 1889 e seguenti, t. III, p. 15; t. V, p. 29;
t. X, p. 24. Cfr. anche la raccolta di poemi pubblicati dai fratelli Miladinovci, p. 525.
(N.d.A.)
4 Sant’Elia gioca un ruolo importante anche nel folclore e nel culto in Romania. La sua festa
è celebrata in tutte le campagne. Egli colpisce con il fulmine coloro che nel suo giorno si
permettono di lavorare. Gli è consacrata una settimana intera, dal 20 al 27 luglio, che si
chiude con il piccolo sant’Elia, che è ancora più temibile del grande sant’Elia. Egli picchia
gli infedeli con la sua gruccia. Le sue chiese sono molto numerose (Informazioni fornite da
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SVANTOVIT
1 De administrando imperio, cap. IX. (N.d.A.) – Cfr. nel sito www.larici.it al cap. 9. (N.d.T.)
2 Su altre traduzione è san Gregorio, cfr. in www.larici.it. (N.d.T.)
3 Il Regolamento ecclesiastico di Pietro il Grande (1721), segnala tra le superstizioni anche
l’usanza di pregare sotto una quercia di cui il sacerdote distribuisce poi i rami ai fedeli.
Nella Piccola Russia [oggi Ucraina] si crede che, durante i temporali, Dio o sant’Elia
inseguano i demoni che si nascondono nelle case, nelle chiese, sotto alcuni alberi,
specialmente sotto una quercia (Máchal, p. 63). Ecco il testo del Regolamento di Pietro il
Grande (§ V): «Si possono anche incontrare alcune cerimonie sconvenienti e persino
dannose. Abbiamo sentito che nella Piccola Russia, in un certo giorno di festa, si conduce
in processione una donna alla quale si dà il nome di Piatnica (Paraskeva, Venerdì) e che
vicino alla chiesa il popolo le rende omaggio con dei doni nella speranza di ottenere
qualche vantaggio. Nello stesso modo in un altro luogo i pope insieme con il popolo
recitano le preghiere davanti a una quercia, dopo di che distribuiscono i rami alla gente
come segno di benedizione» (traduzione Tondini, Parigi 1874). (N.d.A.)
4 Das Homiliar des Bischofs von Prag, Beiträge zur Geschichte Böhmens, t. I, Praga 1863
(questo testo è del XII secolo). (N.d.A.)
5 Kronyka Czeská (Cronaca ceca), pubblicata per la prima volta nel 1541. (N.d.T.)
6 L’Autore usa il nome ceco del fiume: Vltava. (N.d.T.)
7 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., p. 80. (N.d.A.)
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Baltico. È quanto ci attesta Helmold nel capitolo 52 della sua Cronaca: «Tra i
molti dèi degli Slavi domina Zvantevith, dio della terra degli abitanti di
Rügen. È colui i cui oracoli sono i più sicuri. Accanto a lui gli altri dèi non
sono che semidei. Anche per lo speciale onore essi si sono abituati a
sacrificare ogni anno un cristiano estratto a sorte. Inoltre, essi inviano ogni
anno da tutte le province slave dei contributi per i sacrifici. Hanno un
rispetto straordinario per il tempio di questo dio; non ammettono facilmente
che si giuri per lui, né che i suoi dintorni siano contaminati anche in tempo
di guerra1. Da tutte le province degli Slavi si cercano oracoli e si invia
qualcosa per fare sacrifici. I mercanti che arrivano in questo paese non
hanno il diritto di vendere o acquistare se non hanno offerto un prezzo
pregiato delle loro merci. Solo dopo questa offerta, possono esercitare il
loro commercio».
Altrove2 Helmold racconta come, nel 1168, Valdemaro, re di Danimarca,
attaccò l’isola di Rügen con un grande esercito e una flotta considerevole.
S’impossessò dell’isola e gli abitanti, per riscattarsi, acconsentirono a tutto
ciò che veniva loro chiesto. Così egli fece portare un idolo molto antico di
Zvantevith che era adorato da tutta la nazione degli Slavi, ordinò di fargli
passare una corda attorno al collo, di tagliarlo a pezzi e gettarlo nel fuoco.
Egli distrusse il suo tempio, il suo culto, e saccheggiò il suo ricco tesoro… Un
po’ più avanti3, Helmold, che, come abbiamo visto in precedenza, identifica
Svantovit con san Vito o san Guido, insiste ancora sull’importanza del culti
di Svantovit: «Era il primo di tutti gli dèi slavi, colui che dava le più gloriose
vittorie, colui che forniva gli oracoli più sicuri, Ancora al nostro tempo si è
visto non solamente i Vagri, ma anche tutte le province slave, inviare dei
tributi annuali a Rügen e proclamare Zvantevith il dio degli dèi. Presso di
loro il re è poco considerato in confronto al sacerdote. Perché è il sacerdote
che interpreta gli oracoli e spiega i sortilegi. Egli dipende dalla magia e il re
e il popolo dipendono da lui4. A volte sacrificavano un cristiano e
sostenevano che gli dèi erano particolarmente soddisfatti dal sangue
cristiano…». «L’oro e l’argento presi dal nemico erano in parte versati nel
tesoro di Zvantevith» (I, 38).
Il culto di Svantovit è citato anche da Saxo Grammaticus: «C’era, presso
gli abitanti di Arkona sull’isola di Rügen, un idolo particolarmente onorato
dagli indigeni e dal popolo dei dintorni, ma falsamente indicato con il nome
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di San Vito»1. Più avanti2 descrive il tempio di Arkona: «Nel mezzo della
città c’era una piazza su cui sorgeva un tempio di legno molto bello,
rispettabile non solo per la magnificenza del suo culto, ma anche per l’idolo
che racchiudeva. L’esterno o il perimetro dell’edificio erano ornati da
sculture delicate (accurato celamine) grossolanamente dipinte e
rappresentanti diversi oggetti»3.
«Vi si entrava da una sola porta. Il tempio stesso era circondato da un
doppio recinto: il recinto esterno era ricoperto da un tetto rosso, il recinto
interno era composto da tendaggi sostenuti da quattro pali e non
comunicava con l’esterno che attraverso il tetto. Nell’edificio c’era un idolo
immenso, era molto più grande che in natura, aveva quattro colli e quattro
teste4; due sembravano guardare il petto e due la schiena, dal davanti e dal
dietro uno sembrava guardare a destra e uno a sinistra. La barba era
rasata, i capelli rasati alla maniera di Rügen. Teneva nella mano destra un
corno fabbricato con vari metalli; ogni anno il sacerdote lo riempiva di vino
(mero)5, e dallo stato della bevanda prediceva i raccolti dell’anno seguente.
La mano sinistra aveva un arco, il braccio pendeva lungo il corpo. Una
tunica avvolgeva il corpo dell’idolo e scendeva fino alle gambe; era fatto di
legni differenti e così abilmente uniti alle ginocchia che il punto di contatto
può essere visto soltanto dopo un minuzioso esame. I piedi erano
appoggiati a terra, ma non si vedeva come erano fissati.
«Vicino all’idolo si vedeva un freno, una sella e varie insegne della
divinità. Si ammirava soprattutto una spada colossale di cui il fodero e l’elsa
erano d’argento e finemente cesellati.
«Così come si celebrava la grande festa del suo culto. Una volta all’anno,
dopo il raccolto, una folla numerosa si radunava davanti al tempio,
sacrificava dei capi di bestiame e prendeva parte a un grande festino
religioso. Il sacerdote, che, contrariamente della moda del paese, portava la
barba e i capelli molto lunghi, aveva soltanto il diritto di entrare nel
santuario. Il giorno che precedeva la funzione sacra, egli puliva
accuratamente con una scopa il tempio, dove solo lui aveva il diritto di
entrare, avendo cura di trattenere il respiro. Ogni volta che aveva bisogno di
respirare, correva alla porta in modo che la divinità non fosse macchiata dal
contatto di un respiro umano6.
1 Historia Danica, ed. Holder, Strasburgo, 1886, libro XIV, p. 444. «Erat enim simulacrum
urbi præcipua civium religione cultum… sed falso sacri Viti vocabulo insignitum». (N.d.A.)
2 Ibid., p. 565. (N.d.A.)
3 Cfr. Tietmaro, Chronicon, Libro VI. Descrizione del tempio dei Redariani. (N.d.A.)
4 Gli idoli policefali sono comuni fra gli Slavi del Baltico, per esempio il dio Triglav, il dio
Porenutius a quattro teste più una quinta sul petto. «Multos [deos] duobus vel tribus, vel
eo amplius capitibus exsculpunt» (Helmold, I, 83). «Dum in urbe Brandenburgensi
ydolum tribus capitibus inhonestum ab incolis coleretur» (Cronaca di Pulkawa, ad annum
1156, Fontes rerum Bohemicarum, t. V, Praga, 1893, p. 89). (N.d.A.)
5 O, più verosimilmente di idromele. (N.d.A.)
6 Il Domostroĭ, Ménagier russo del XVI secolo, prescrive al fedele che bacia la Croce o le
immagini di trattenere soprattutto il suo respiro. (N.d.A.) – Il Domostroj (ordine di una
casa) è un documento del XVI secolo, elaborato sotto gli auspici del metropolita Makarij,
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«Il giorno dopo, mentre il popolo erano riunito davanti ai cancelli, egli
tolse la coppa dalle mani dell’idolo ed esaminò se la quantità di liquido era
diminuito rispetto a un segno fatto in precedenza; in questo caso egli
prediceva la carestia per l’anno successivo. In caso contrario, prevedeva
l’abbondanza. In seguito a queste previsioni, avvertiva di utilizzare più o
meno largamente i beni della terra. In seguito versava ai piedi dell’idolo,
come libagione, il beveraggio dell’anno precedente e riempiva il corno di un
nuovo liquore. E, dopo aver venerato la statua fingendo di offrirle da bere,
le chiedeva con una invocazione solenne ogni sorta di beni per sé e per la
patria, la ricchezza e la gloria per i cittadini. Poi ingoiava d’un fiato il
contenuto del vaso, lo riempiva di nuovo e lo rimetteva nella mano destra
della statua.
«In seguito, si metteva di fronte alla statua un dolce condito con il miele,
rotondo e alto quasi quanto un uomo. Il sacerdote si poneva dietro al dolce
e domandava al popolo se lo vedeva. Se il popolo rispondeva
affermativamente, egli esprimeva il voto di non essere visto l’anno
seguente. Questo desiderio aveva per oggetto non la sorte del sacerdote o
del popolo, ma l’abbondanza del raccolto futuro1. Poi salutava il popolo a
nome dell’idolo, esortandolo a perseverare nella loro devozione e nei loro
sacrifici, e gli prometteva come ricompensa alcune grandi vittorie per terra
e sul mare.
«Il resto della giornata era consacrata al festino; si mangiava la carne
delle vittime, li si costringeva a seguire l’intemperanza. In questa festa ciò
era fatto come atto di pietà per violare la sobrietà, era sconveniente
osservarla. Ogni anno, tutti gli uomini e tutte le donne versavano una
moneta per il culto del dio. Gli si assegnava un terzo del bottino, come se
avesse contribuito a farlo arrivare. Aveva al suo servizio trecento cavalli e
trecento cavalieri; tutto ciò che acquistavano con le armi o con il furto era
affidato alla guardia del sacerdote, egli fabbricava delle insegne o degli
ornamenti (con i metalli); si conservavano queste spoglie in scatole che
che descrive dettagliatamente il funzionamento di una casa cristiana russa: vita spirituale,
civile e familiare. La prima versione fu redatta a Novgorod o a Mosca agli inizi del XVI
secolo; la seconda versione fu compilata dall’arciprete Silvestro, consigliere dello zar Ivan
il Terribile, verso la fine dello stesso secolo. Alla fine del XVIII secolo fu pubblicato un
testo che riuniva le due versioni. (N.d.T.)
1 L’ultima sera dell’anno, nella Piccola Russia si preparano molti dolci per la cena. Li si
mettono davanti al capofamiglia e si fanno uscire bambini. Essi rientrano e domandano
dov’è il padre. “Non mi vedete, figli miei?” “No, papà!” “Dio voglia che sia sempre così!”,
cioè che noi abbiamo ancora il grano, tanto quanto stanotte». (Spedizione etnografica
nella Russia di sud-ovest. Materiali raccolti da Čubinskij, t. III, San Pietroburgo, 1872). Lo
stesso fatto è notato da Schein (Šejnŭ) nel governatorato di Mogilev (Materialy dlja
izučenija byta i jazyka russkago naselenija sěvero-zapadnago kraja), t. I, parte II, p. 607
). In Erzegovina (secondo Karadžič, Dizionario serbo, sub voce milati se), due persone
mettono tra loro il pane o il dolce di Natale česnica e uno dice all’altro: “Mi vedi?” L’altro
risponde: “Un po’”. La prima replica: “Che non ti possa vedere neanche un po’ l’anno
prossimo!” (cioè: possa il grano essere così abbondante e il pane così grande che non ti si
veda dietro di esso.). (N.d.A.) – Il titolo russo del libro di P. Čubinskij è Trudy
etnografičesko-statističeskoj ekspedicii v záp.-russkij kraj, Petrohrad. (N.d.T.)
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1 Si tratta di Svend (Sweyn) Tveskæg detto Barbaforcuta, re di Danimarca dalla fine del
986 alla morte (1014) e di Inghilterra per cinque settimane (1013-1014). Le notizie
fornite dai cronacisti sono controverse e messe in dubbio dagli storici, per esempio pare
che non abbia avuto una morte tragica. (N.d.T.)
2 Secondo Tietmaro, gli Slavi abitanti la città di Riedegast (Rethra?) si servivano anche del
cavallo per conoscere il futuro: «Cum huc idolis immolare seu iram eorum placare
conveniunt, sedent hi duntaxat cæteris astantibus et invicem clanculum mussantes
terram cum tremore infodiunt, quo sortibus emissis rerum certitudinem dubiarum
perquirant. Quibus finitis, cespite viridi operientes equum qui maximus inter alios habetur
et ut sacer ab his veneratur super fixas in terram duarum cuspides hostilium inter se
transmissarum supplici obsequio ducunt et præmissis sortibus [quibus id] exploravere
prius, per hunc quasi divinum denuo auguriantur» (Chronicon, VI, 24). Questa divinazione
per il cavallo si ritrova a Stettino (Herbord, Vita Otthonis, II, 33). «Habebant caballum
miræ magnitudinis… Iste toto anni tempore vacabat tantæque fuit sanctitatis ut nullum
dignaretur assessorem, habuitque unum de quatuor sacerdotibus templorum custodem
diligentissimum. Quando ergo itinere terrestri contra hostes aut prædatum ire cogitabant,
eventum rei hoc modo per illum solebant prædicere: Hastæ 9 disponebantur humo,
spacio unius cubiti ab invicem disjunctæ. Strato ergo caballo atque frenato, sacerdos
tantum freno per jacentes hastas in transversum ducebat ter atque reducebat. Quod si
pedibus inoffensis hastisque indisturbatis, equus transibat, signum habuere prosperitatis
et securi pergebant; sin autem, quiescebant». Sulla divinazione per il cavallo, cfr. anche:
Jahn, Die Deutschen Opfergebräuche, Breslau 1883, p. 24) Hopf, Thierorakel und
Orakelthiere, p. 68; Saupe, Der Indiculus superstitionum, Leipzig 1891, p. 18; Tobolka nel
Časopis (Rivista) del Museo di Olomouc (Ollmütz), 1894. (N.d.A.)
3 Occorre rapportare al culto di Svantovit il drappo religioso chiamato stanitsa di cui parla
Saxo Grammaticus (p. 569): «Questo drappo è di una grandezza e di un colore
straordinari. Era quasi venerato tra gli abitanti di Rügen quanto la maestà di tutti gli dèi.
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Dopo aver descritto l’idolo e spiegato i dettagli del suo culto, Saxo
Grammaticus racconta come fu distrutto dai Danesi1: «Esbern e Sueno
furono inviati dal re per rovesciarlo. Bisognava impiegare il ferro e fare
attenzione di essere schiacciati dalla caduta della statua; i pagani avrebbe
creduto che il loro dio si vendicava… L’idolo cadde rumorosamente… Il
tempio era decorato di stoffe di porpora, che l’umidità fece cadere a pezzi, e
di corna di animali selvatici; si vide a un tratto un demone andarsene dal
tempio sotto forma di un animale nero. Si ordinò agli abitanti di gettare le
corde intorno all’idolo per portarlo fuori dalla città; ma, in seguito a un
timore religioso, essi ordinarono a dei prigionieri e a dei mercenari stranieri
di rovesciare il dio, pensando che fosse meglio esporre alla sua collera dei
personaggi ignobili. Essi credevano che la maestà del dio, che avevano
adorato per così lungo tempo, avrebbe punito severamente coloro che
mettevano le mani su di lui. Si sentivano le grida più diverse: gli uni si
lamentavano dell’offesa recata al loro dio, gli altri li canzonavano.
Ovviamente i più saggi si vergognavano di aver abusato per tanti anni di un
culto così grossolano. L’idolo fu portato al campo e fu esaminato con
curiosità da un gran numero di spettatori. Venuta la sera, i cuochi lo
ruppero in pezzi per accendere il fuoco. Gli abitanti di Rügen dovettero in
seguito consegnare il tesoro che avevano consacrato a Svantovit».
La Knytlinga saga (Historia Knutidarum) ci fornisce quasi gli stessi
dettagli. Il re ordinò a Sonius, figlio di Ebbius, di entrare nella cittadella di
Arkona e, nel tempio, di rovesciare l’idolo di Svanteviz e di spogliare il
tempio. Questo ordine fu eseguito da Svein, vescovo, e da Sonius2.
Helmold e Saxo Grammaticus sono d’accordo nel designare sotto il nome
di Svantovit il grande dio dell’isola di Rügen (in slavo Rana)3. Inoltre,
entrambi concordano nello spiegare il nome Svantovit con quello di un santo
cristiano, san Vito («Sanctus Vitus») o di san Guido: «Ai tempi
dell’imperatore Luigi II4, cioè verso la metà del IX secolo, i monaci di Corvey
penetrarono nell’isola di Rügen, dove era il focolaio principale dell’errore e la
sede dell’idolatria. Essi predicarono la parola di Dio e istituirono un
santuario in onore di Nostro Signore Gesù Cristo e di San Vito, patrono di
Corvey. Ma ben presto gli abitanti di Rügen cacciarono i sacerdoti e
ritornarono alle loro antiche superstizioni. Perché questo san Vito, che noi
confessiamo martire e servitore di Cristo, essi lo adorarono come un dio,
preferendo la creatura al creatore. E non c’è sotto il cielo dei barbari che
abbiano tanto in orrore i cristiani e i sacerdoti. Essi non si vantano che del
Quando lo portavano davanti a loro, essi credevano tutto lecito… La loro superstizione era
tale che l’autorità di quel pezzo di stoffa superava quella del re». Svantovit è prima di
tutto un dio guerriero e il drappo è certamente un simbolo di guerra. (N.d.A.)
1 P. 574. (N.d.A.)
2 Scripta historica Islandorum. Hafniæ, 1842, t. XI, p. 348. (N.d.A.)
3 Secondo Hilferding (Storia degli Slavi baltici, p. 173), il nome di Szventevit è ancora
menzionato in un documento di Federico Barbarossa del 1170 (Codex Pomeranus n. 28).
Non ho visto questo testo. (N.d.A.)
4 Luigi (Ludovico) II detto il Balbo (846-879), re di Aquitania e poi dei Franchi. (N.d.T.)
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nome di san Vito, al quale essi hanno anche dedicato un tempio e un idolo,
oggetto di un culto premuroso e che essi considerano come il primo dei loro
dèi. Da tutte le province slave si arriva qui a chiedere gli oracoli e celebrare
i sacrifici annuali. Gli abitanti onorano il sacerdote non meno del re.
Tuttavia, poiché nel momento in cui essi hanno per la prima volta rinunciato
alla fede cristiana, questa superstizione ha persistito presso gli abitanti di
Rügen fino ai nostri giorni»1.
Secondo Helmold, il nome di Svetovit sarebbe dunque semplicemente
un’alterazione di san Vito; il dio pagano si sarebbe sostituito al santo
cristiano. Helmold trascura, però, di cercare quello che avrebbe potuto
essere il precedente nome di questo dio così popolare. Nel libro II, capitolo
XII, egli racconta brevemente la conquista di Rügen da parte dei Danesi, la
distruzione dell’idolo di Zvantevithus, del suo tempio e del saccheggio della
sua chiesa.
«In tutta la nazione degli Slavi, che è divisa in province e in principati,
quella degli abitanti di Rügen era la più ostinata nelle tenebre dell’infedeltà,
essa vi persiste ancora ai nostri giorni2. Una voce assai tenue («tenuis
fama») racconta che Ludovico, figlio di Carlo3, offrì una volta la terra di
Rügen al beato Vito di Corvey, perché egli fosse il fondatore del monastero.
Dei predicatori venuti da questa abbazia convertirono, dicono, il popolo di
Rügen e lì fondarono un oratorio in onore del martire Vito, al culto del quale
la provincia fu dedicata. Presto gli abitanti di Rügen abbandonarono la luce
della verità e caddero in un errore peggiore del primo4; perché quello stesso
san Vito che noi chiamiamo il servitore di Dio, hanno cominciato ad adorarlo
come un dio, facendogli una gran statua, e servono la creatura invece del
creatore. Ma questa superstizione si stabilì così bene che Zvantovit, dio
della terra di Rügen, diventò il primo dio degli Slavi, ecc.»5. Saxo
Grammaticus dichiara da parte sua (p. 444) che il tempio più frequentato di
Arkona portava a torto il nome di san Vito6.
Così, secondo Helmold e Saxo Grammaticus, se gli abitanti di Rügen
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1 Die Slavenchronik Helmolds, Gœttingue, 1873. Völkel rinvia alle seguenti opere: Wigger,
Mecklenburgische Annalen, Schwerin 1861, pp. 144, 148; Harenberg, Monumenta
historica adhuc inedita, Braunschweig 1750, Prolegomena critica; Wigand, Geschichte der
gefürst, Reichsabtei Corvey, p. 148; Ledeburg, Allgemein Archiv für die Geschichtskunde
des Preussischen Staats, V, p. 331 e seguenti; Giesebrecht, Wendische Geschichten, p.
280 e seguenti. (N.d.A.)
2 Sarei grato ai lettori di questo lavoro di volermi gentilmente segnalare con testi di valore
degli esempi di idoli o di personaggi pagani trasformati in santi cristiani corrispondenti. Si
citano spesso come esempio di questo fenomeno il tempio di santa Vittoria a Fourrières
(Campi putridi), una sant’Afrodisia che avrebbe sostituito Venere, un sant’Amadore che
avrebbe rimpiazzato Cupido. Ce ne devono essere altri. Vorrei delle indicazioni precise.
(N.d.A.)
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suo Dio1. Gli Slavi amavano prendersi gioco delle cose cristiane; Tietmaro2
racconta un curioso aneddoto. Il sacerdote tedesco Boso, per istruire più
facilmente gli Slavi che aveva convertito, o meglio che credeva di aver
convertito, aveva scritto delle preghiere slave e chiese agli Slavi di cantare
queste preghiere dopo averne spiegato l’oggetto. «Ma questi malvagi, per
derisione, parodiarono le parole dicendo ukri volsa, ossia in latino eleri stat
in frutectum, la luce è nel bosco, invece di ripetere con il sacerdote Kyrie
eleison. E loro dicevano: Così parla Boso; ma egli parlava in modo diverso».
Gli Slavi di Rügen avrebbero potuto parodiare il nome Sanctus Vitus,
rendendolo Svantovit, ma è improbabile che avessero tenuto
definitivamente questo nome per il grande dio nazionale, meno probabile
ancora è che essi avessero applicato il nome Vito ad altri dèi. Il loro
fanatismo religioso esclude assolutamente questa ipotesi. Inoltre troviamo
in Saxo Grammaticus un dio Porevithus3, un dio Rugievithus4; in Ebbo e in
Herbord, biografi di Ottone di Bamberga, un dio Herovith o Gerovith5.
Parleremo più avanti di queste divinità.
Se la terminazione vit (o vith) non è il nome di san Vito, che cosa
rappresenta? La prima parte della parola non dà dubbi: svent6 vuol dire
santo. Nonostante un avvicinamento puramente esteriore, la parola non ha
nulla in comune con il latino sanctus, di cui è anche l’esatta traduzione. Qui
ci troviamo di fronte a una semplice coincidenza. Vit ha notevolmente
esercitato l’ingegnosità degli etimologisti. Essi si sono battuti per spiegarlo
1 «Mactantque diis suis hostias de bobus et ovibus, plerique etiam de hominibus cristianis
quorum sanguine deos suos oblectari jactitant» (Helmold, I, 52. Cfr. ib., 83). «Nec tam
dulcia vel iocunda nobis fuerunt Slavorum pocula quod videremus compedes et diversa
tormentorum genera quæ inferebantur Christicolis de Dania advectis». – Cfr. la Cronaca
detta di Nestore, cap. XXXIX (p. 66 della mia edizione). [Stesso capitolo in www.larici.it.
(N.d.T.)]).
«Maligni homines insano furore correpti, magno tumultu, securibus et gladiis aliisque telis
armati, sine ulla reverentia in ipsam ducis curtim irrumpentes, mortem nobis sine ulla
retractatione, nisi quantocius de curia et de ipsa civitate fugeremus comminabantur»
(Herbordi Vita Ottonis, II, 24).
Adamo da Brema: «Deinde reliquam peragrantes Sclavoniam Sclavi rebellantes omnes
ecclesias incenderunt et ad solum diruerunt. Sacerdotes autem et reliquos ecclesiarum
ministros variis suppliciis enecantes nullum christianitatis vestigium trans Albiam
reliquerunt (II, 40)». Ciò accadde nel 1002. Più oltre (III, 50, ad ann. 1066), Adamo da
Brema racconta ciò che segue: «Johannes episcopus senex cum ceteris christianis in
Magnopoli civitate (Mecklenburg) captus servabatur ad triumphum. Ille igitur pro
confessione Christi fustibus cæsus, deinde per singulas civitates Slavorum ductus ad
ludibrium, cum a Christi nomine flecti non posset, truncatis manibus ac pedibus in platea
corpus ejus projectum est, caput vero ejus desectum, quod pagani conto præfigentes in
titulum victoriæ deo suo Redigast immolarunt… Itaque omnes Sclavi, facta conspiratione
generali, ad paganismum denuo relapsi sunt, eis occisis qui perstiterunt in fîde». Tuttavia,
secondo le testimonianze di Adamo di Brema e di Helmold, gli abitanti dell’isola di Rügen
erano ancora più fanatici degli altri Slavi. (N.d.A.)
2 Chronicon, II, 37 (ad annum 97). (N.d.A.)
3 Op. cit., p. 578. (N.d.A.)
4 Ibid., p. 577. (N.d.A.)
5 Monumenta Germaniæ Historica di Pertz, XII, p. 868. (N.d.A.) – O Žerovid (N.d.T.)
6 Cfr. zend: çpeñta, stesso senso. (N.d.A.)
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delle ipotesi, e vale la pena ricordare le altre interpretazioni che sono state
proposte.
Quello che ha a lungo prevalso, e che era stato proposto dal XVI secolo in
Germania, interpreta Svantovit per lumen1. Dal punto di vista fonetico
questa interpretazione non è difendibile. Non è chiaro come la lettera s sia
scomparsa. Dobrowsky ha fatto di vit l’abbreviazione di Vitenz, il cavaliere,
l’eroe. Più recentemente Krek2 riallaccia vit alla radice vi, vé, soffiare.
Svantovit è per lui il soffio potente. Ciò che gli sembra confermare questa
ipotesi è il passaggio, citato sopra, dove Saxo Grammaticus dice che il
sacerdote che puliva il santuario di Arkona non osava respirare per paura di
insozzarlo col suo respiro impuro. Così Svantovit è volta a volta, secondo gli
interpreti, un dio solare, un dio guerriero, un dio del vento, un dio che fa gli
oracoli, un dio forte e allegro, o semplicemente un santo cristiano
trasformato in idolo pagano.
Di tutte queste interpretazioni, la più verosimile dal punto di vista
linguistico mi sembra essere, ripeto, quella che interpreta vit come oracolo,
consiglio. D’altronde, come si può giudicare dai testi di Helmold e di Saxo, le
attribuzioni di Svantovit erano le più varie: egli non si accontentava di dare
gli oracoli, ma la ricchezza dei raccolti, i successi delle imprese di guerra o
commerciali dipendevano ugualmente da lui. Teneva nello stesso tempo un
arco, simbolo della guerra, e un corno per bere. Il tempio di Svantovit era
situato nella città che Saxo Grammaticus chiama Archon, Arcon3, Arkon, e
che dette il suo nome a una provincia. Tale nome non pare slavo e se ne
ignora l’origine4. In altri testi si trovano le forme Arekunda, Arekonda. Non
era propriamente una città, ma semplicemente un recinto fortificato che
circondava il tempio. Il tempio di Arkona fu distrutto dal re di Danimarca
Valdemaro il 15 giugno 1168. Quel giorno era precisamente quello in cui la
Chiesa celebra la festa di san Vito. Questa coincidenza probabilmente non è
puramente casuale. I Danesi hanno voluto colpire lo spirito dei pagani,
distruggendo in quel giorno il loro grande santuario nazionale.
Non si sa cosa diventò il sommo sacerdote dell’idolo; se si fosse
convertito al cristianesimo, Saxo l’avrebbe sicuramente raccontato. Egli
scomparve o fu ucciso nei combattimenti. Il principe Tetislav5 abbracciò il
cristianesimo.
Nel 1868, in occasione del sesto centenario della distruzione di Arkona,
una commissione archeologica è stata istituita6 per studiare le antichità
1
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dell’isola. Essa ha trovato poco. L’isola è stata erosa dalle onde del Mar
Baltico che hanno portato via circa un metro ogni tre anni. Secondo i calcoli
di uno studioso ceco che l’ha visitata per una dozzina di anni, oggi il recinto
che corrisponde alla cinta classica di Arkona non occuperebbe che un quarto
del recinto originale. Ancora oggi si pretende di mostrare nella chiesa di
Altenkirchen un’antica immagine di Svantovit. (Si veda la riproduzione a
fine volume). Essa non risponde affatto alla descrizione di Saxo
Grammaticus. Sotto il portico della chiesa è sigillato nel muro un blocco di
pietra sul quale è scolpita una figura di un uomo di circa tre piedi di
lunghezza. Rappresenta una persona che tiene sul petto un enorme coppa
per bere. Il blocco è steso per terra per attestare, dicono gli abitanti, che il
paganesimo vinto si umilia davanti al cristianesimo. Purtroppo è sigillato nel
muro e non si può sapere cosa c’è dall’altro lato. Altenkirchen – lo dice il
nome – è ovviamente uno dei primi santuari cristiani dell’isola. Del resto il
personaggio che il blocco pretende di rappresentare non ha che una sola
testa. Noi sappiamo che Svantovit ne aveva quattro1.
Si è creduto di trovare un’immagine di Svantovit in un idolo che è stato
scoperto circa mezzo secolo fa in Galizia. Esso, senza essere la replica
esatta di quello descritto da Saxo Grammaticus, offre alcuni punti di
somiglianza che possono, a seconda del punto di vista in cui ci si trova,
confermare o far sospettare la sua autenticità. È stato scoperto nel 1848,
dopo un lungo periodo di siccità, nelle acque dello Zbrucz sul campo di
Kociubinczyki, vicino a Husyatin (Galizia orientale). La Società delle Scienze
di Cracovia (Towarzystwo naukowe) fu informata di questa scoperta dal
conte Mieczysław Potocki che offrì questo pezzo curioso per le loro
collezioni. Essa incaricò uno dei suoi membri, l’ingegnere Teofil Żebrawski,
di andare a prendere possesso dell’idolo. Una nota del conte Potocki e una
relazione di Żebrawski sono state inserite nell’Annuario (Rocznik) della
Società delle Scienze di Cracovia al 1852. Żebrawski riferisce una parola
curiosa che ci spiega la scomparsa di molti monumenti pagani. Il conte
Potocki, proprietario del campo di Kociubinczyki su cui l’idolo era stato
scoperto, aveva pensato di metterlo su un tumulo. Un paesano gli disse:
«Se era un santo, non avremo nulla da obiettare, ma se voi ci metterete
questo turco, lo faremo a pezzi». L’idolo, beninteso, non recava alcuna
iscrizione. Alcuni dettagli gli sono valsi il nome di Svantovit, sotto il quale si
designa ancora oggi a torto o a ragione2.
Questa è una statua quadrata sormontata da quattro teste, tutte riunite
di Rudolf Baier, Die Insel Rügen nach ihrer archaeologischen Bedeutung (Stralsund 1886).
Mi accontento di rinviare all’Archiv für Anthropologie, t. XXI, p. 591, e all’Anthropologie,
1894 (art. di Salomon Reinach). (N.d.A.)
1 Questo monumento è stato riprodotto in Aarboger for nordisk Oldyndighed og Historie,
1873, p. 327 (comunicazione del professore V. Thomsen), sull’Archiv für Anthropologie, t.
XXI, e nell’Anthropologie di Salomon Reinach. Si veda anche l’Archiv für Anthropologie
1898. L’ho riprodotto alla fine del volume. (N.d.A.)
2 Una rivista archeologica pubblicata negli ultimi anni in lingua polacca porta il nome di
Swiatowit. (N.d.A.)
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sotto un unico cappello. Essa è stato scolpita nella pietra calcarea silicea. La
sua altezza è di circa otto piedi (2,70 m); sulle quattro facce le braccia sono
rappresentate in rilievo. La mano destra è sollevata sul capezzolo sinistro.
La mano sinistra riposa quasi all’altezza dell’ombelico. Su entrambi i lati le
mani non tengono nulla. Su uno di essi la mano destra tiene una sorta di
anello, su un’altro un corno per bere (il corno di cui si parla chiaramente in
Saxo Grammaticus e si trova in molti altri monumenti)1. Su tre lati si
scorgono i piedi sporgenti, posati su un bassorilievo raffigurante una donna
(o un bambino), una sorta di cariatide sostenuta essa stessa da un
personaggio inginocchiato. Da un lato figurano una spada e un cavallo.
Quindi una serie di dettagli concordano con quelli che ci sono stati forniti da
Saxo Grammaticus. Anche gli archeologi polacchi non hanno esitato a
identificare la scoperta di Zbrucz come l’idolo descritto da Saxo
Grammaticus2. Ma questi dettagli (in particolare il cavallo) rendono proprio
la scoperta un poco sospetta. Se abbiamo a che fare con un lavoro prodotto
nel XIX secolo, è naturale che il falsario era ansioso di dargli tutti gli
attributi del vero Svantovit. Accolto con entusiasmo dai Polacchi, soprattutto
Lelewell che ha descritto e riprodotto l’idolo nella sua memoria sull’idolatria
slava3, lo Svantovit di Galizia lo è stato più freddamente tra gli Slavi. I
mitografi più recenti, Krek e Máchal, lo ignorano completamente.
Ho aperto un’inchiesta in Galizia circa l’autenticità di questo monumento.
Il mio dotto collega, professor Baudouin de Courtenay, dell’Università di
1 Oltre al lavoro di Weigel (Archiv für Anthropologie, t. XXI, p. 591), cfr. le memorie di A.
Hartmann, Becherstatuen in Ost Preussen (stessa raccolta, stesso anno, fasc. III). (N.d.A.
) – Il testo di Wiegel si intitola Bildwerke aus altslavischer Zeit del 1882, pubblicato in
libro nel 1892. (N.d.T.)
2 L’idolo in questione è apparso sulla copertina della Rivista di archeologia pubblicata a
Leopoli ma che ritengo non esca più. (N.d.A.)
3 Lelewell crede anche agli idoli di Prillwitz e al leone di Bamberga. Egli dichiara che i Danesi
conservano nel Museo di Copenaghen un idolo di Svantovit, il quale, secondo Thomsen,
non è mai stato illustrato. Tutte le questioni di mitologia e di linguistica slava mancano
completamente di critica. Secondo le informazioni raccolte a Cracovia da Beaudouin de
Courtenay, l’idolo sarebbe stato scoperto da un ingegnere (di cui non ha potuto dire il
nome), un emigrato polacco arrivato da Parigi o dal Belgio durante il periodo
rivoluzionario del 1847-1848. Egli comunicò la sua scoperta a Potocki, ma fu
improvvisamente costretto a lasciare la Galizia in seguito agli eventi politici. Potocki si
attribuì il merito della scoperta e inviò il monumento alla Società delle Scienze di Cracovia
(cfr. più oltre). Svantovit era il dio degli Slavi baltici, ma il suo culto si diffuse anche tra gli
Slavi della Galizia attuale? Non c’è alcun cenno a Svantovit negli annali polacchi, del resto
molto poveri di indicazioni mitologiche. La Cronaca polacca del Magister Vincentius,
vescovo di Cracovia, racconta all’anno 1109 il seguente episodio: « Est beati Viti Crusvicæ
(a Kruszwica nella Grande Polonia) basilica in cujus pinnaculo quidam inæstimabilis et
habitus et formæ visus est adolescens, cujus indicibilis, ut aiunt, splendor non modo
urbem sed urbis quoque proostia illustrabat. Hic eo desiliens cum aureo pilo turmas
eminus antecedit, non paucis claram numinis virtutem cernentibus et rei tantæ mysterium
tacita veneratione stupentibus; donec ad urbem Nakel pilum quod gestabat, quasi
vibrans, disparuit…». Incoraggiato da questo prodigio, Boleslao marciò contro la città di
Nakel e se ne impadronì. Si è visto nel ruolo assunto dal santuario di San Vito un vago
ricordo di Svantovit (Vincentii Cracoviensis episcopi Chronicon, in Bielowski, Monumenta
Poloniæ historica, II, p. 340). (N.d.A.)
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Cracovia, che pure non ha la pretesa di essere mitologo, mi scrive che non
vede alcuna ragione per cui si sia costruito questo idolo. Ahimè! gli idoli di
Prillwitz, le pietre runiche di Mikorzyn1 sono ormai riconosciuti per delle
falsificazioni evidenti. E noi ne avremmo molti altri da rilevare nella storia
degli Slavi nel XIX secolo. Queste mistificazioni si spiegano di solito con un
patriottismo mal inteso, si crede di creare dei titoli di nobiltà a popoli infelici
o ingiustamente disprezzati.
D’altra parte Kętrzyński2, direttore dell’Istituto Ossolinskich di Leopoli
(Lemberg), mi comunica le osservazioni seguenti: «Si dice che questo idolo
ha dovuto stare un migliaio di anni nell’acqua: esso dovrebbe essere
sprofondato parecchio nel fango, essere stato levigato dal corso d’acqua,
portare uno strato grossolano di limo. Ma nessuna di queste circostanze si è
verificata. Per un dio l’idolo ha troppi ornamenti impossibili da spiegare.
Perché Swiatovit (?) è raffigurato uomo e donna insieme? (Uno dei lati ha le
mammelle rigonfie.) Si conosceva da noi, mille anni fa, l’esistenza di
cariatidi? La parte superiore ricorda la descrizione di Saxo Grammaticus ma
è proprio questo fatto che è sospetto. La spada ricorda la forma di un
karabela (spada polacca)»3.
A fianco di Svantovit si dovrebbero mettere altre divinità simili il cui nome
termina in vit e che sembrano imparentate con il gran dio di Arkona, che
non ne sono forse che una replica o una variante. Saxo Grammaticus4 ci ha
descritto l’idolo Rugievithus (il Vit di Rügen) che era adorato nella città di
Karentina5. Esso era in un santuario chiuso soltanto da tendaggi di porpora.
Aveva una testa a sette facce. Teneva una spada nella mano destra; sette
spade erano appese alla cintura. La sua taglia era più grossa di quella di un
uomo, la sua altezza era come quella del vescovo Absalon che, alzandosi in
punta di piedi, toccava a malapena il mento con una scure che portava
abitualmente. Saxo Grammatieus compara Rugievit a Marte e dichiara che
presiedeva alla guerra. Quando i Danesi entrarono nel santuario, trovarono
l’idolo in uno stato deplorevole. Le rondini avevano fatto i nidi nelle pieghe
del suo volto («sub oris ejus lineamentis»), o piuttosto il suo volto e il suo
1 Su questi monumenti apocrifi, cfr. l’articolo di Jagić, Zur Slavischen Runenfrage, in Archiv
für slavische Philologie, t. V, p. 193. Weigel, nel lavoro sugli idoli slavi cui ho fatto
riferimento, riproduce e interpreta l’idolo di Zbrucz senza emettere alcun dubbio sulla sua
autenticità. Hartmann e Salomon Reinach ne ammettono l’autenticità. Confesso che io
non ne sono ancora convinto. Srezněvskij, che ha studiato l’idolo di Cracovia, si mostra
molto prudente. Sarei felice di vedere questa delicata questione definitivamente risolta in
un modo o nell’altro. Incaricato nel 1874 di una missione al Congresso Archeologico di
Kiev, ho visitato le collezioni di Cracovia. L’idolo in questione appartiene attualmente
all’Accademia delle Scienze di questa città. Majer, presidente dell’Accademia, mi ha
gentilmente offerto una riduzione che ho offerto io stesso al Museo di Saint-Germain,
dove è indicato con il n. 21.886. Salomon Reinach, in relazione col Museo, ha riprodotto
questo idolo nell’Anthropologie, 1894, p 174, e mi ha dato il suo cliché. Il barone d’Avril
ha inoltre fornito all’Istituto un facsimile del monumento. (N.d.A.)
2 Sull’originale è Kentrzynski, ma è un refuso. (N.d.T.)
3 Si veda più avanti. (N.d.A.)
4 P. 577. (N.d.A.)
5 Chiamata anche Charenza, Karentia, Karenz, Gharense, Korenitza. (N.d.T.)
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1 La Knytlinga saga (op. cit.) menziona sia l’idolo di Renvit che quello di Puruvit. (N.d.A.)
2 Saxo cita alcune punizioni soprannaturali inflitte dagli dèi, o piuttosto dai demoni, agli
Slavi pagani. Porta un esempio difficile da tradurre: «Nec mirum si illorum potentiam
formidabant a quibus stupra sua sæpe numero punita meminerant. Si quidem mares in ea
urbe cum fœminis in concubitum adcitis canum exemplo cohærere solebant, nec ab ipsis
morando divelli poterant, interdum utrique perticis e diverso appensi inusitato nexu
ridiculum populu spectaculum præbuere. Ei miraculi fœditate solennis ignobilibus statuis
cultus accessit creditumque est earum viribus effectum quod dœmonum erat præstigiis
adumbratum». Questo dettaglio si trova ripetuto nella Knytlinga saga. Un po’ più avanti
(p. 579) Saxo Grammaticus racconta i miracoli seguiti alle preghiere dei nuovi sacerdoti
cristiani: «Nec prædicationis eorum ministerio miracula defuere». Evidentemente egli
intende opporre a quei miracoli pagani, che non nega, dei miracoli cristiani non meno
convincenti. (N.d.A.)
3 Ebbo (III), in Pertz, Monumenta Germaniæ Historica, VII, p. 861, 865; Herbord, III, 6.
(N.d.A.)
4 In francese Havoliens, in russo Chavolini. Era una delle tribù slave insediate tra l’Elba e
l’Oder. (N.d.T.)
5 Affluente del fiume Oder. (N.d.A.)
6 «Civitas vexillis undique circumstantibus cujusdam idoli Geroviti nomine celebritatem
agebat». (N.d.A.)
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Capitolo IV
VOLOSŬ-VELESŬ
Vicino a Perunŭ, nel trattato che abbiamo citato sopra, figura, come
garante degli impegni assunti dai Russi, Volosŭ dio del bestiame1. Non è
chiaro perché un dio del bestiame si trovi richiamato solo accanto al dio del
tuono. Ci si può chiedere se le parole «dio del bestiame» non siano, sotto la
penna del cronicista cristiano, un epiteto sprezzante, qualcosa che assomigli
a dio dei bruti, dio degli imbecilli. (La parola skot, bestiame, ha oggi in
Russia questo doppio significato.) Comunque sia, Volosŭ figura in altri testi
slavoni russi. Il monaco Iakov (XI secolo), nella sua biografia di san
Vladimir2, ha scritto che Vladimir fece gettare un idolo di Volosŭ nella
Počajna3. Secondo il biografo di Avraamij di Rostovŭ (XII secolo), l’apostolo
avrebbe distrutto in questa città4 un idolo di pietra di Velesŭ (sic), dio per il
quale i Finni vicini degli Slavi avevano una venerazione particolare 5. La
forma Velesŭ si ritrova anche in un celebre testo di origine greca: Il viaggio
della Madre di Dio fra i tormenti6. Egli è associato a Trojanŭ, Chorsŭ (Chŭrsŭ
) e Perunŭ. Lo si trova sotto la forma Velesŭ nel Canto della schiera di Igor’,
testo contro il quale faccio, come si sa, le più manifeste riserve7.
Il nome di Velesŭ-Volosŭ si è perpetuato nel folclore russo e sembra
essersi identificato con quello di Vlasij o san Biagio, patrono del bestiame8,
come Perunŭ si è confuso con sant’Elia. Qui l’identificazione è più curiosa:
essa porta allo stesso tempo il nome e gli attributi del personaggio mitico.
Naturalmente, come si è voluto prendere Svantovit per san Vito, la scuola
ipercritica nega l’esistenza di Volosŭ-Velesŭ come un dio pagano e ne fa
semplicemente un sostituto di san Biagio.
1 Krek ha pubblicato nel 1876 sull’Archiv für slavische Philologie, uno studio su Veles, Volos
und Blasius. Questo lavoro è ora vecchio e incompleto insieme. (N.d.A)
2 Citato da Krek, op. cit., p. 452. Non ho il testo slavone sotto gli occhi. (N.d.A) – Fu il
metropolita Makarij (XIX secolo) ad attribuire al monaco Iakov Černorizec (XI secolo) due
scritti sulla vita e la conversione del santo principe Vladimir di Kiev e uno sui santi Boris e
Gleb. (N.d.T.)
3 Affluente del Dnepr. (N.d.T.)
4 Rostovŭ [Rostov] si trova nell’attuale governatorato di Jaroslavl’. (N.d.A.)
5 In Krek, ib. (N.d.A.)
6 Jagić, Archiv für slavische Philologie, XI, p 305. (N.d.A.) – Il Viaggio della Madre di Dio fra
i tormenti (Choždenie Bogorodicy po mukam) fu liberamente tradotto, dal greco, in Russia
nel XII secolo e pubblicata per la prima volta in Occidente nel 1893 dal britannico
Montague Rhodes James. In essa si racconta che sul Monte degli Ulivi, quindi poco prima
della Dormizione, la Vergine Maria prega Cristo di mostrale l’inferno e l’aldilà. Appare
l’arcangelo Michele che porta la Vergine a ovest dove ella vede la terra aprirsi, rivelando la
fine di coloro che non adoravano la S. Trinità, e una grande oscurità dove giacciono gli
infedeli (tra cui gli idoli), anime tormentate dai demoni con la pece bollente, per le quali
nessuno (né Abramo, Giovanni il Battista, Mosè o san Paolo) può intercedere. (N.d.T.)
7 Sreznĕvskij non ha affatto espresso la forma Velesŭ nei suoi Materiali per un dizionario
dell’antico russo, egli non conosce che la forma Volos. (N.d.A.)
8 Ci si riferisce a san Biagio vescovo di Sebaste morto nel 316. (N.d.T.)
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Secondo Afanas’ev1, ecco ciò che accade al momento del raccolto. Uno
dei mietitori prende una manciata di spighe e la lega. Questa manciata è
sacra. Nessuno deve toccarla. Ciò è detto «torcere la barba di Volosŭ o
Perunŭ». La barba di Volosŭ protegge le messi contro ogni forma di
maleficio. È chiamata anche la barba di Elia, di san Nicola o di Perunŭ2.
A proposito della confusione di Volosŭ-Velesŭ con i santi cristiani, Buslaev
ha notato un particolare curioso. Vi era nell’antica Russia, a sedici miglia da
Vladimirŭ una località chiamata Volosovo, in cui si trovava un monastero di
San Nicola; questo monastero aveva forse sostituito un luogo consacrato al
culto di Volosŭ. A Novgorod, un tempio di san Biagio fu costruito sul sito
dove si elevava un idolo di Volosŭ3.
Coloro che parteggiano per l’identità di san Biagio e di Volosŭ-Velesŭ
fanno notare che alcuni santi russi sono entrati nel pantheon degli
allogeni pagani4, così come san Nicola è diventato un dio tra i Samoiedi; allo
stesso modo san Biagio (Vlasŭ-Volosŭ) avrebbe potuto diventare un dio tra
gli Slavi pagani del Dnepr o del Volga. Una questione delicata è quella di
sapere come Volosŭ abbia potuto diventare Velesŭ; io non conosco alcun
esempio di tale mutazione in russo nei nomi propri. Vlad dà Volod e mai
Veled.
Una questione altrettanto imbarazzante è quella di sapere come il latino
Blasius (diventato in ceco, conformemente a leggi molto normali, Blažej
(pron. Blajeï) avesse potuto dare in questa stessa lingua la forma Veles. Ma
è certo che la parola Veles compare nei testi cechi del XV e del XVI secolo.
Essa non designa una divinità in particolare, ma il demonio. I testi sono
assai vaghi. «Lasciamo questi peccati da Veles» (o il Veles) (sermone del
1471). «Quale demone, quale Veles l’ha eccitato contro di me?» scrive
l’autore noto sotto il nome di Tkadleček (il tessitore, XIV secolo)5. Tomáš
Rešel (XVI secolo), scrive nella sua traduzione del Libro di Gesù di Sirach (o
Ecclesiastico) di Caspar Huberin: «Un uomo voleva che la moglie diventasse
un’oca selvatica, fuggisse al di là del mare e non tornasse più». Il testo
tedesco dice: «dass ein solch boess Weib wer ein Ganss und fluege über
Meer und keme nimmermehr heim»; il traduttore ceco ha detto: «Che la
donna diventi un’oca selvatica e che ella fugga da qualche parte presso
Velesŭ (k Velesu) al di là del mare». Questa glossa di Rešel è stata
riprodotta da uno scrittore ceco del XVI secolo, Zamrský. In questi differenti
testi, Veles vuole ovviamente dire il diavolo. Noi non troviamo Veles né in
Polonia, né presso gli Slavi meridionali.
1 T. I, p. 697. (N.d.A.)
2 Afanas’ev, op. cit., p. 474, 475, 476, 697-98. (N.d.A.)
3 Pogodinŭ, Drev. Russkaja istorija, II, p. 637. (N.d.A.) – Il riferimento esatto è M.P.
Pogodin, Drevnjaj Russkaja istorija do Mongolskogo iga (Storia dell’antica Russia fino alla
dominazione mongola), in tre volumi, 1871. (N.d.T.)
4 Allogeno: che appartiene a un’etnia diversa. (N.d.T)
5 Tkadleček è il titolo di una delle poesie più importanti del tardo Medioevo tedesco che fu
scritta da un anonimo alla fine del XIV secolo o all’inizio del XV, al quale si dette come
nome Tkadleček. (N.d.T.)
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CHORSŬ
DAŽBOGŬ
(N.d.A.)
1 Il principe Vsevolodŭ corse prima del canto del gallo da Kievŭ a Tmutorakanŭ [Kiev,
Tmutorakan] e tagliò la strada al grande Chorsŭ [Chors], cioè – secondo i commentatori –
arrivò a Tmutorakanŭ prima dell’alba. (N.d.A.) – Vsevolod Jaroslavič (1030-1093) fu
gran-principe di Kiev dal 1078 alla morte. (N.d.T.)
2 Cfr. Krek, p. 391. (N.d.A.)
3 Archiv für slavische Philologie. t. V. pp. 8-9. Recentemente si è proposto un avvicinamento
tra Chorsŭ e il vogulo Kwores, soprannome del dio del cielo. (N.d.A.) – Il vogulo, o mansi,
è una lingua ugro-finnica parlata nella Russia settentrionale a est degli Urali. (N.d.T.)
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SIMARGLŬ
MOKOŠĬ
1 In Archiv für slavische Philologie, V, p. 114. Dažbogŭ compare anche nel Canto della
schiera di Igor’ quando il popolo russo è chiamato il nipote di Dažbogŭ. Una tale
denominazione sembra impossibile sotto la penna di un cristiano. Questo epiteto mi pare
un argomento terribile contro l’autenticità, se non l’intero canto, almeno di certi passaggi.
(N.d.A.)
2 «Tuttavia ciascuna nazione si fabbricò i suoi dei e li mise nei templi delle alture costruite
dai Samaritani, ognuna nella città ove dimorava. Gli uomini di Babilonia si fabbricarono
Succot-Benòt; gli uomini di Cuta [Cuth o Cuthah] si fabbricarono Nergal; gli uomini di
Amat si fabbricarono Asima» (2Re 17,29-30). (N.d.T.)
3 Archiv für slavische Philologie, t. V. p. 6. Un idolo a sette teste sarebbe stato nella lingua
degli Slavi baltici Sedmaruglav (cfr. Triglav). Questo nome si sarebbe qui sfigurato
arrivato fino in Russia, come quello di Suarasici? Questa ipotesi non è mai stata emessa
finora. Mi permetto di rischiarla. (N.d.A.) – Lo storico citato non è N. Gedeonov ma
Stepan Gedeonov, autore dell’opera Varjagi i Rus (1876), in cui cercò di dimostrare
l’origine slava occidentale del Varjaghi. (N.d.T.)
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slavo russi del Medio Evo1. In un testo religioso del XVI secolo, un
nomocanone citato da Veselovskij2, figura un personaggio di nome Mokuša
che svolge il ruolo di una strega. Il sacerdote che confessa una donna
chiede: «Non sei andata a vedere Mokuša?» Nel nord della Russia il folclore
conosce ancora oggi Mokuša. È una donna che appare durante la Grande
Quaresima, visita le case, sorveglia le filatrici3. Se il loro arcolaio si agita,
cigola durante il loro sonno, dicono che è Mokuša che ha filato. Ella si
occupa anche del bestiame; se un agnello non tosato perde la lana, si dice
che Mokuša l’ha tosato; la notte si lascia vicino alle forbici un fiocco di lana.
È una offerta a Mokuša4.
Se il nome Mokuša non è di origine finlandese, deve collegarsi alla dea
Mokošĭ della Cronaca. Nulla indica gli attributi di questa dea. Il suo nome
può essere collegato alla radice mok (umidità, morbidezza), ma il suffisso
ošĭ è imbarazzante. Jagić5 fa di Mokošĭ di traduzione dal greco . Egli
cita, oltre Tichonravov, dei testi di cui non ho davanti l’originale e secondo i
quali Mokošĭ sarebbe la traduzione dal greco , ossia la divinità
impura che suggerisce il peccato di Onan6.
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primi anni del secolo XI. L’imperatore, per fare la guerra ai Polacchi, si era
alleato con il popolo slavo dei Veleti, allora pagani. Bruno gli rimproverò
questa alleanza e lo interpellò così: «Bonumne est persequi christianum et
habere in amicitia populum paganum? Quæ conventio est Christi ad Belial?1
Quæ comparatio lucis ad tenebras ? Quomodo convenient Zuarasiz diabolus
et dux sanctorum vester et noster Mauritius? Qua fronte coeunt sacra
lancea et diabolica vexilla?»2 Ciò che risulta molto chiaramente da questo
testo è che lo Zuarasici degli Slavi dell’Elba è un dio guerriero. Uno Svarasiz
figura anche nella Knytlinga saga3.
Questo Dio è evidentemente imparentato con lo Svarožičŭ russo che
sembra lui stesso derivato da Svarogŭ. Ma Svarožičŭ è un dio indigeno
russo o molto semplicemente importato in Russia? Jagić4, suppone che
Zuarasici, altrimenti detto Svarožič, è semplicemente stato importato dagli
stranieri e che su questa forma patronimica si sia costruita una forma
Svarogŭ.
L’ipotesi è certamente molto ingegnosa. Jagić fa notare che Svarogŭ e
Svarožičŭ non figurano nelle antiche cronache russe, ma apparirono molto
tardi. Egli suppone che venissero da Novgorod che era in rapporti costanti
con gli Slavi del Baltico. D’altra parte, il traduttore andando a interpretare il
nome di , ha potuto pensare al verbo russo svaritĭ, svarivatĭ,
forgiare. Questa ipotesi non toglie nulla alla realtà dello Svarozici o Suarasici
di Tietmaro e di Bruno.
Krek (p. 332) tiene per l’autenticità di Svarogŭ e gli dà un’interpretazione
indo-europea (sanscrito svarga, il cielo mutevole, il cielo nuvoloso). Ma non
si spiega come svarogŭ avrebbe dato Svarožičŭ. Nebo (in slavo, cielo) dà un
aggettivo nebeskij, celeste, e non nebesič. Svarogŭ, nel senso di cielo,
avrebbe dato Svarožskij. Syrku5 segnala la parola rumena svarogŭ che
significa secco, magro, surriscaldato. Questa parola non è certamente di
origine latina. Syrku suppone che sia stata presa in prestito dalle lingue
slave, dove aveva un senso di sole. Miklošič6 ha rilevato come nome di
località presso i Casciubi, Svaroženo. Egli suppone una radice sŭr, che non
giustifica altrove. Sarebbe interessante individuare la località detta
Svaroženo; ma Miklošič non fornisce alcuna indicazione precisa.
Insomma è certo che non vi era tra gli Slavi dell’Elba un dio – molto
probabilmente un dio della guerra – che si chiamava Suarasici. La finale qui
sembra un patronimico. Ma noi non abbiamo, in quel poco che sappiamo di
mitologia slava, alcun esempio di famiglia o di filiazione di divinità. Non
sappiamo chi è il padre di Suarasici. Lo Svarogŭ russo sembra sospetto. È
un danno. Questa sarebbe la chiave di volta del sistema mitologico russo
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baltico1.
STRIBOGŬ
TROJANŬ – TRAIANO
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1 K. Jireček, Storia dei Bulgari, edizione russa, Odessa 1882, pp. 93-95. (N.d.A.) – Smuele
(Samuil) fu zar di Bulgaria dal 987 alla morte avvenuta nel 1014. (N.d.T.)
2 Questa è la leggenda greca del principe che non riusciva a sopportare il sole
(Schmidt, Griechische Märchen, op. cit., Leipzig, 1877, p. 30-31). Haxthausen (Studien
über die neuere Zustaende Russlands, II, p. 460) ha raccolto su Traiano una leggenda
analoga in Bessarabia. (N.d.A.) – L’opera del barone von Haxthausen si intitola Studien
über die innern Zustände, das Volksleben und insbesondere die ländlichen Einrichtungen
Rußlands, Hannover 1847-1852. (N.d.T.)
3 Kneževina Srbija, Belgrado 1870. (N.d.A.) – L’opera, di Milićević, è del 1876, non del
1870. (N.d.T.)
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si preoccupò di questo stile di vita e si recò da San Dmitrij, uno dei servi di
Trojan, e lo pregò di chiedere al suo padrone ciò di cui avrebbe potuto aver
paura, «Non ho paura che del sole» rispose Trojan.
San Dmitrij fece sostituire l’avena dei cavalli con la sabbia, tagliò la
lingua dei galli, ecc. Trojan si sciolse al sole.
Il resto della storia si complica di una serie di etimologie popolari. Trojan,
nella sua fuga, diventò sordo (ogluveo) vicino al villaggio di Glouchci, perse
le sue scarpe (tabani) vicino al villaggio di Tabanovci; diventò cieco (oslepeo
) vicino al villaggio di Slepević; perse il suo scudo (štit) a Štitar e la
catastrofe finale lo colpì (se desila mu) nel villaggio di Desić.
San Dmitrij fu ucciso dagli amici di Trojan e gettato nella Sava.
Sulle rive di questo fiume, nel distretto di Šabac sono le rovine del
castello di Kulina. Il popolo serbo ne attribuisce la fondazione allo zar
Trojan.
Karadžić ha pubblicato, nei suoi racconti in lingua serba1, una storia che
non ho sotto sottomano dove lo zar Trojan è raffigurato con gli occhi di
capra.
Nel XII secolo, Tzétzēs nei Chiliades (Tomaschek lo riferì per primo nella
Zeitschrift für Östeirreichische Gymnasien), conosceva la leggenda con le
orecchie di capra e ne diede un carattere simbolico.
(Si dice che Traiano2 abbia orecchie di
capra.) Egli cerca di interpretare questa storia, sia perché Traiano era
lubrico come una capra, sia perché come la capra egli sapeva rincorrere i
nemici di Roma nei luoghi più ripidi.
Köhler, che si occupò anche di questa leggenda, la spiegava con la
somiglianza delle parole .
Secondo Bertrandon de la Broquière, che scriveva nel XV secolo, la città
di Traianopolis era stata costruita «da un imperatore chiamato Traiano, il
quale, ci dicevano i Greci, ha un orecchio come un ariete».
Secondo un racconto bulgaro di Stara Zagora3, c’era una volta uno zar
Traiano, che aveva le orecchie d’asino. L’indiscrezione del suo barbiere
ricorda la storia di Mida. Una variante di Nevrokop, in Macedonia,
rappresenta Traiano con le orecchie di capra. Il barbiere affidò il suo segreto
a un pozzo abbandonato. Poco dopo dei viaggiatori trovarono vicino al pozzo
un albero del quale ogni foglia recava le parole rivelatrici. L’imperatore si
recò a vedere il pozzo e l’albero e concluse filosoficamente: «Quello che è
stato dato da Dio, non si può nascondere». E da quel momento non coprì
più le orecchie.
1 Srpske Pripovetke, II ed., Vienna, pp. 150-152. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Srpske
narodne pripovetke, edito nel 1821. (N.d.T.)
2 Nella frase in greco è Trojanos (Trojan), ma l’Autore usa Traiano (Trajan), perché da
questo punto in poi le figure dello zar bulgaro e dell’imperatore romano si identificano.
Nella frase seguente è citato Köhler che rileva la somiglianza tra Trojanos (Trojan) e
tragos (caprone). (N.d.T.)
3 Pubblicato sul Periodičesko Spisanie di Sofia, t. IV, p. 182. (N.d.A.)
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Nei canti bulgari raccolti dai fratelli Miladinovci ce ne sono due in cui si
tratta di una città di Trojan grad, Troem (canti 31 e 38) i cui abitanti sono
cattivi cristiani e devono subire diverse prove. Il canto 31 è stato raccolto a
Kukuš in Macedonia. Il secondo non reca indicazioni precise, ma secondo i
testi che vi si avvicinano deve appartenere alla Rumelia orientale (Bulgaria
meridionale). Il testo non è abbastanza chiaro perché si possa decidere se si
collega alla leggenda di Traiano o alla leggenda di Troia che gioca un ruolo
considerevole nella letteratura degli Slavi meridionali.
Come mai Traiano è diventato un dio, o almeno un demone – nel senso
cristiano – tra gli Slavi del Sud o dell’Est?1 Jagić ha proposto molto tempo fa
un’interpretazione molto ingegnosa e plausibile. Le rovine più importanti dei
paesi danubiani sono attribuite a Traiano o portano il suo nome. Ora,
l’immaginazione popolare popola le rovine di demoni e di fantasmi; è
naturale che uno di questi demoni sia Traiano stesso, che diventa un dio
come Perunŭ, Chorsŭ o Dažbogŭ. Gli Slavi balcanici rapidamente convertiti
al cristianesimo avrebbero trasmesso il culto di Traiano ai Russi che lo
mantennero a lungo. Si può anche supporre che il ricordo delle gesta di
Traiano si fosse imposto nei popoli balcanici di cui gli Slavi raccoglievano le
tradizioni, che essi trovarono l’idea di un dio collegato a questo illustre
personaggio (divus Augustus) che conservarono e amplificarono. Per ciò che
sappiamo della loro mitologia propriamente detta sia in Russia, sia presso
gli Slavi baltici, non si trova un altro esempio di uomo divinizzato, ma
abbiamo visto nel secolo scorso e anche nel nostro alcuni settari russi
divinizzare il loro imperatore Pietro III, altri dargli per luogotenente
Napoleone per ripristinare sulla terra il regno della giustizia, o anche
proclamarlo il loro Messia. Non si trova alcun fenomeno analogo nella storia
degli Slavi pagani.
Capitolo V
Divinità inferiori
TRIGLAV
Torniamo ora agli dèi del sistema baltico di cui abbiamo già studiato il
principale rappresentante, Svantovit.
Dopo di lui uno dei principali era Triglav. La sua esistenza ci è
testimoniata soprattutto dagli storici del vescovo Ottone da Bamberga.
Aveva a Stettino, dice uno di essi, Herbord2, quattro continæ, cioè quattro
templi. Della parola continæ, il tedesco Herbord non si imbarazza affatto:
1 Egli è diventato santo negli scritti di Procopio (306, 5), che cita una roccaforte
. È un «castellum divi Trajani». Divus in greco è stato tradotto con
. Non esiste un san Traiano. Jireček, Das Christliche Elément in der Balkänländer, Vienna
1805, p. 8. (N.d.A.)
2 Herbord, II, 32. (N.d.A.)
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Tra gli accessori del culto di Triglav figurava a Stettino, come ad Arkona
(si veda il capitolo su Svantovit) un cavallo sacro. Era un cavallo nero, ben
nutrito, di dimensioni notevoli; nessuno doveva montarlo e uno dei quattro
sacerdoti era particolarmente responsabile della cura. Esso dava degli
oracoli. Quando si pensava di intraprendere una spedizione via terra, si
depositavano sul terreno nove lance distanti un cubito1 le une dalle altre. Il
cavallo veniva sellato e imbrigliato, il sacerdote lo teneva per la briglia e gli
faceva passare tre volte nei due sensi lo spazio occupato dalle lance. Se lo
attraversava senza toccarle, era di buon auspicio e si intraprendeva la
spedizione. In caso contrario, si rinunciava2. Per eliminare questa forma di
divinazione, Ottone immaginò di far vendere il cavallo di Stettino in un
paese straniero3, dopo aver convinto gli abitanti che era più adatto a tirare
un carretto che a fornire oracoli. Secondo un altro biografo4, la sella di un
cavallo divino era d’oro e d’argento ed era tenuta in una delle continæ.
Troviamo l’idolo di Triglav nella città di Volyn. Dopo la conversione della
città i sacerdoti rimasti fedeli al culto degli idoli la lasciarono e si ritirarono
in campagna5. «E siccome Ottone distrusse i templi e le immagini degli dèi,
essi portarono fuori dalla provincia una statua d’oro di Triglav, che era la
loro principale divinità e la affidarono a una vedova che viveva in un piccolo
villaggio, dove il tesoro poteva difficilmente essere scoperto. La vedova
avvolse l’idolo in un vestito, fece un buco nel tronco di un albero molto
grande e vi nascose il deposito sacro in modo tale che non si potesse né
vedere né toccare. Ella aveva praticato una piccola apertura attraverso la
quale i pagani potevano offrire o sacrifici o le offerte («solummodo foramen
modicum ubi sacrificium inferretur in trunco patebat») ma nessuno poteva
entrarvi se non per i sacrifici. Ottone apprese l’esistenza di questo idolo. Egli
temeva che dopo la sua partenza esso avrebbe contribuito a riportare al
paganesimo gli indigeni ancora poco saldi nella fede cristiana e cercò il
modo di prenderlo con l’inganno6. Se i sacerdoti pagani fossero stati
avvertiti del suo piano, avrebbero forse potuto immaginare di nascondere il
loro palladio in un luogo ancora più inaccessibile. Il vescovo affidò questo
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delicato compito a uno dei suoi compagni, di nome Hermann. Era un uomo
scaltro che conosceva la lingua degli indigeni. Gli ordinò di indossare il
costume slavo e di andare dalla vedova, come per fare un sacrificio a
Triglav. Hermann obbedì. Egli raccontò alla vedova che poco prima era
sfuggito a un terribile temporale, grazie alla protezione di Triglav e voleva
offrirgli un sacrificio. La vedova gli indicò l’albero sacro e il buco in cui lui
poteva depositare la sua offerta, impegnandolo a non rivelare nulla a
nessuno se teneva alla propria vita. Egli entrò nel recinto misterioso, gettò
per l’apertura una moneta d’argento, così che la si sentisse risuonare e si
credesse che aveva sacrificato. La ritirò in seguito e per mostrare il suo
disprezzo verso Triglav, gli offrì in guisa di sacrificio un enorme sputo
(sputaculum ingens). Poi esaminò tutto per vedere se poteva impadronirsi
dell’idolo, ma esso era così ben chiuso nel tronco che gli era impossibile
tirarlo fuori. Guardandosi intorno, vide la sella di Triglav appesa al muro. Era
molto vecchia e completamente fuori uso. Lui la prese, la nascose e la portò
a testimonianza degli sforzi che aveva fatto per impadronirsi dell’idolo».
La fine del racconto è piuttosto singolare. Ci si può chiedere se Hermann
era realmente in buona fede e non si fosse inventato la storia della sella per
mascherare il suo insuccesso o se non si fosse semplicemente impossessato
di finimenti qualunque. La vecchia pagana avrebbe certamente messo la
sella sacra al riparo della cupidigia dei cristiani.
Dopo questo infruttuoso tentativo, l’apostolo dei Pomerani non insistette
più; temeva di essere accusato di cupidigia, se si ostinava a voler
impossessarsi del prezioso idolo. Ricorse alla persuasione. Convocò i principi
e gli anziani e li fece giurare di abbandonare il culto di Triglav, di rompere il
suo idolo e di impiegare l’oro con cui era stato fatto per il riscatto dei
prigionieri.
I biografi di Ottone di Bamberga ci segnalano ancora il culto di Triglav a
Stettino. Questa città1 racchiudeva all’interno della sua cinta tre montagne,
la più alta, quella centrale, era dedicata al grande dio dei pagani, Triglav. Il
suo idolo aveva tre teste: una fascia d’oro ne copriva gli occhi e le labbra. I
sacerdoti pagani spiegavano così queste peculiarità. Il loro grande dio,
dicevano, aveva tre teste perché egli governava tre regni, il cielo, la terra e
gli inferi; il suo volto era coperto con una fascia perché non voleva vedere
né conoscere i peccati del uomini. Queste affermazioni, forse immaginarie,
sono apparse sospette al dotto russo Kirpičnikov.
Gli Slavi, dice, non avrebbero dovuto avere un’idea cristiana. Infine, non
è certo possibile che un dio che prevede il futuro ignori le azioni degli
uomini2. Kirpičnikov si domanda anche se noi non ne abbiamo una visione
deformata dalla Trinità cristiana; è così che si è creduto vedere in Svantovit
un sostituto di san Vito. Con questo scetticismo si va molto lontano. Tuttavia
è certo, l’abbiamo dimostrato altrove, nello studio su Svantovit, che gli Slavi
baltici adoravano gli idoli policefali.
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JULA
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della città1; Ebbo racconta che Julin è stata costruita da Giulio Cesare e che
vi si adora ancora la sua lancia, ob memoriam ejus; all’inizio dell’estate si
celebra una gran festa in suo onore. Abbiamo già visto, parlando di Triglav e
Svantovit, quale ruolo giocava la lancia nella divinazione.
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1 Parigi, 1895, p. 66. (N.d.A.) – Il titolo esatto è De Adamo Bremensi geographo thesim
Facultati litterarum parisiensi proponebat Augustinus Bernard. (N.d.T.)
2 Leibniz, in Scriptores rerum Brunswicensium, I, p. 191, cita il testo seguente riportato da
Lelewell, ma di cui non ho potuto verificare l’origine: «Post mortem Caroli imperatoris
quidam non veri christiani præcipue trans Albeam susceptam fidem Christi relinquentes
idola sua projecta, Hammon scilicet, Suentobuck (Sventi Bog, cfr. Svantovit), Witulubbe (?
), Radegast cum ceteris erexerunt et in loco pristino statuerunt». (N.d.A.) – Il titolo esatto
dell’opera di Leibniz è Scriptores rerum Brunsvicensium illustrationi inservientes, 1707-
11. (N.d.T.)
3 Libro III, 52. (N.d.A.)
4 Del 1066. (N.d.T.)
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capitale dei Redariani e copia qualche riga da Adamo da Brema sul dio
Redigast. Più avanti (I, 22) parla di una lotta tra i popoli slavi Slavi, i Ljutiči
e i Riaduri1 che «a causa della loro antica città e del famoso tempio dove si
mostra l’idolo di Radigast affermavano di essere i più nobili, perché erano
stati visitati da tutti i popoli slavi a causa degli oracoli e dei sacrifici
annuali». Infine2 (stesso libro, § 52) ci dice che «Prove era il dio del paese
di Aldenburg, Siva, la dea dei Polabi, Radigast, il dio delle terre degli
Obotriti».
Nel XV secolo la cronaca sassone di Botho (sub anno 1113)3 ci
rappresenta Ridegast che reca sul petto uno scudo con una testa nera di
bue, tiene in mano un’ascia; sulla testa è posato un uccello. Un editore della
cronaca ha composto un’illustrazione da queste indicazioni e questo
disegno, ristampato più volte, è servito per fabbricare delle presunte divinità
obotrite conservate nel Museo di Neustrelitz. Non sappiamo dove Botho
avesse preso il materiale. Probabilmente nella sua immaginazione. Infine,
nel XVII secolo il cronicista di Lubecca, che commenta Helmold, ci dice che
Radigast era un principe degli Obotriti che fu più tardi divinizzato. Questo
commento troppo tardivo è poco verosimile; è in contraddizione con tutto
quello che sappiamo della mitologia slava, in cui non si incontrano mai dei
personaggi divinizzati.
Per conciliare Tietmaro e Adamo da Brema, si può supporre che Redigast,
Redigost, fosse il nome slavo della città che i Tedeschi avevano chiamato
Rethra. In questo caso, Radigast sarebbe semplicemente un dio eponimo.
Si trovano ugualmente dei nomi di uomini o luoghi terminanti in gost. Il
nome sembra essere costituito da due parti: rad, allegro, gost. ospite. Esso
corrisponde al greco . Questo epiteto può altrettanto ben
caratterizzare un individuo oltre che una località. Miklošič, nella sua
memoria sui nomi slavi, segnala uno sloveno chiamato Radagost che visse
verso il 975 in Carinzia. Si trova tra gli Slavi meridionali un nome identico:
«Miligost4 carum hospitium habens, qui hospes carus est, Gostirad», in ceco
Hostirad. Si incontrano in Polonia delle località chiamate Bydgoszcz (tedesco
Bromberg, in Prussia); Radgoszcz (nome di un villaggio in Galizia). Nei
monti Beskidi in Moravia si eleva una montagna chiamata Radhost. L’autore
della Moravia sacra, Stredovský5, vissuto nel XVII-XVIII secolo, suppone che
questa montagna debba il suo nome a un idolo di Radgost. Si basa su una
semplice somiglianza di nomi o su una tradizione locale? Comunque sia,
dice quanto segue: «C’era sulla montagna un tempio di Radhost (g diventa
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h in ceco). Là dove una volta i pagani celebravano la festa di questo dio nei
primi giorni dopo il solstizio d’estate, oggi, ancora su questo monte, i fedeli
delle parrocchie di Hochwald, di Rožnov di Fridek, come i vicini Slovacchi di
Ungheria, accorrono in gran numero e, conformemente a una consuetudine
molto antica, senza che si mescoli altra superstizione, si abbandonano al
piacere del bere e del danzare».
Si tratta, come si vede, di una di quelle feste conosciute del solstizio
d’estate, non vi è alcun motivo speciale per collegarla alla memoria del culto
di Radigast.
PODAGA
Abbiamo già citato il capitolo di Helmold (I, 831), che fornisce sulle
divinità slave curiose indicazioni: «Gli Slavi, ha detto, hanno forme molto
diverse di superstizione: tra i loro dèi, alcuni hanno immagini nei templi,
come l’idolo di Plon che si chiama Podaga…». La parola Podaga non significa
nulla e può appartenere ad entrambi i sessi. Maretić2 l’interpreta per Budigoj
e fa rimarcare che ci sono dei nomi slavi che cominciano per budi (risveglio
), altri che terminano in goj (idea di vita, di forza) ed egli interpreta il
nome: «In expergefactione validus». Secondo tale interpretazione un po’
azzardata, questo sarebbe il dio del buon risveglio.
Mi permetto di proporre una interpretazione più semplice. In luogo di
Podaga non si può leggere Pogoda, il tempo, la temperatura? Pogoda
sarebbe il dio o la dea dei fenomeni atmosferici. Lo storico polacco Długosz
menziona una dea della temperatura che si sarebbe chiamata Pogoda3.
PRIPEGALA
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Priapo e Belfagor l’impudico1. Essi tengono davanti ai loro altari delle coppe
piene di sangue e gridano con voce terribile: “Rallegriamoci, dicono, il Cristo
è vinto. La vittoria è di Pripegala il vittorioso”». Il vescovo esorta i cristiani a
intraprendere una crociata contro i barbari, «in modo che si possa far
sentire dei canti di gioia, invece degli orribili rumori dei Gentili in onore di
Pripegala».
Che cosa significa questo nome? Brückner ha proposto un’interpretazione
molto plausibile. Pripegala rappresenta: Pribychval, «colui da quale proviene
la gloria, il glorioso». Questi nomi in priby sono comuni tra tutti gli Slavi:
Pribygoj (accessit valetudo), Pribyslav (accessit gloria), Pribymir (accessit
pax), Pribytich (accessit solamen)2. Non si può pensare anche al verbo
přepjékać, bruciare, che ancora esiste nella lingua degli Slavi della
Pomerania3? Prepiekal non potrebbe essere un epiteto del sole? Mi permetto
di sottolineare che tale ipotesi merita, credo, di essere discussa.
Il nome di questa divinità è facile da spiegare. Černy Bog vuol dire il dio
nero. Il suo culto è attestato da Helmold (I, 52): «Gli Slavi – dice – hanno
una strana usanza. Durante le feste, fanno circolare una coppa sulla quale
essi pronunciano delle parole, io non direi di consacrazione, ma di
esecrazione in nome dei loro dèi, per conoscere il bene e il male; essi
professano che tutta la fortuna viene dal dio buono, tutto il male dal
maligno; così nella loro lingua lo chiamano il dio cattivo, vale a dire il
diavolo Zcernoboch4». Sull’esistenza di questo dio nero, i mitografi hanno
concluso che un dio bianco si sarebbe chiamato Bielbog. Il nome di Bielbog
non si trova in alcun testo autentico, ma si è creduto di giustificare la sua
esistenza con dei nomi geografici (Belbuck = Belbog in Pomerania;
Białobożé e Białobożnica, in Polonia; Bělbožice in Boemia). Si è elaborata
tutta una teoria sul dualismo slavo. In realtà, non sappiamo nulla di questo
dio bianco5.
1 Qui il vescovo inventa con evidenza. Da dove i sacerdoti pagani avrebbero conosciuto
Priapo e Belfagor? Credeva evidentemente di ritrovare in Pri e Peg gli elementi di questi
due nomi. (N.d.A.)
2 Maretić, in Rad Jugoslavenske Akademije, cit., t. LXXXI. (N.d.A.)
3 Dizionario di Ramult, sub voce. (N.d.A.)
4 Nella Knytlinga saga si tratta di una divinità chiamata Tiernoglav (il dio con la testa nera).
(N.d.A.)
5 Černy Bog ha dato luogo a una celebre svista di Šafárik. Nel 1835, Kollár, che si vantava
di essere mitologo e che era lo spirito meno critico del mondo, credette di aver scoperto a
Bamberga, in Baviera, un idolo slavo con una iscrizione runica Carni Bog. La cattedrale di
questa città possiede la tomba del vescovo Ottone, apostolo degli Slavi. Šafárik pubblicò
in una rivista di Praga una lunga memoria riprodotta nella sua Miscellanea (Sebrané spisy,
p. 96-110, e che è stata a lungo autorevole. Egli era stato vittima di una mistificazione, il
dio nero di Bamberga è andato a congiungersi con le divinità obotrite di Neustrelitz, che
sono da lungo tempo superate e di cui hanno abusato Kollár, Lelewell e molti altri. Cfr.
Archiv für slavische Philologie, t. V, p. 193 e seguenti. (N.d.A.)
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DIVINITÀ ANONIME
DEE
Il culto delle dee è attestato da diversi testi, tra cui Tietmaro nella sua
descrizione del tempio di Radigast e nel capitolo, dove gli Slavi si
lamentavano di un affronto fatto da un tedesco allo stendardo che
raffigurava una dea7. Sappiamo poche cose sui nomi di queste dee. Helmold
(I, 52) cita, accanto a Prove, dio di Altenburg, e a Radigast, dio degli
Obotriti, Siva, dea dei Polabi. Questa Siva ha fatto fortuna. Ella è stata
ripresa dal falsificatore della Mater verborum che l’interpreta come dea
frumenti. Oggi si sa che egli aveva fabbricato Siva con la parola aiunt. Siva
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figura anche fra le false divinità obotrite. I Cechi hanno interpretato Siva
con Žiwa (la vita, la vivente); il dizionario ceco di Kott ci dà una voce Živa,
Živena, dea della vita dell’uomo e della natura e nome della dea Cerere.
Tutte queste fantasie sono venute dal testo di Helmold. Ma non è nemmeno
sicuro che si debba leggere Siva. Alcuni manoscritti danno Sinna.
L’interpretazione Siva = Živa, la vivente, pare la più verosimile. Maretić
suppone che sia l’abbreviazione di un nome composto: Dabyživa, utinam sis
viva. Un testo slavone del XV secolo proveniente da Novgorod 1 parla di una
dea diva. Długosz2 (XIV secolo) affermava di ritrovare tra gli antichi Polacchi
il culto di Diana sotto il nome di Dzevana3. D’altra parte, egli segnala un dio
della vita chiamato Žywie.
Długosz menziona anche una divinità chiamata Dzidzilelya che
sorvegliava i destini dei bambini e che ha identificato con Venere. La parola
si spiega facilmente (dziecilela, colei che coccola i bambini).
Si citano spesso i nomi di Lada, che sarebbe stata la dea della bellezza, di
Morana, quella dell’inverno o della morte, ma questi nomi non appaiono nei
testi antichi: appartengono alla letteratura tradizionale.
Helmold (I, 52) ci dice che i campi e le città degli Slavi baltici
rigurgitavano di penati. Ripete questa frase un po’ più avanti (82).
Tietmaro dice: «Domesticos colunt deos multumque sibi prodesse
eosdem sperantes eis immolant» (VIII, 69) e aggiunge: «Audivi de
quondam loculo in cujus summitate manus erat unum in se (ferreum)
tenens circulum, quod cum pastores illius villæ, in quo is fuerat per omnes
domos has singulariter ductus, in primo introitu a portitare suo sic
salutaretur: Vigila, Hennil, vigila! Sic enim rustica vocabatur lingua et de
ejusdem se tueri custodia stulti autumabant…» Non sappiamo chi sia questo
Hennil. Si è voluto vederne il dio delle greggi (goniti, honiti, cacciare davanti
a sé).
Il primo cronicista ceco, Cosma, che evita sempre la parola slavo e che
sviluppa tutti i suoi racconti con una terminologia più o meno classica, ci
racconta (I, 2) che il fondatore della nazione ceca si stabilì ai piedi del
monte Řip: là «primas posuit sedes, primas fundavit et ædes et quos in
humeris secum apportarat humi sisti penates gaudebat». Egli fa un discorso
accademico ai suoi compagni: «O socii non semel mecum graves labores
perpessi sistite gradum; vestris penatibus libate libamen gratum quorum
opem per mirificam hanc, venistis ad patriam». Il cronicista in rima,
conosciuto a torto sotto il nome di Dalimil, racconta che Čech se ne andò di
foresta in foresta «dietky své na plecú nesa», portando i suoi figli sulle
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1 Cfr. Ralston, Songs of the Russian People, [1872], pp. 120-139 e i testi russi indicati da
Máchal, op. cit., p. 95. (N.d.A.)
2 Popoli slavi che abitavano lungo il fiume Dnestr. (N.d.T.)
3 Dziady è, come si sa, il titolo di un poema romantico di Mickiewicz. La sua idea originale è
tratta dal folclore della Russia Bianca. (N.d.A.) – Il poema, del 1823, racconta le antiche
feste di commemorazione dei defunti che dalla Lituania arrivarono nel Belarus’. (N.d.T.)
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parole, esse sono raccolte dallo Skřitek», cioè, ovviamente, dal demonio.
Una locuzione popolare analoga all’imprecazione polacca che ho citato sopra
dice: «Aby te skřitek vzal», Che il diavolo ti porti via!1
La parola szkrat in polacco, škratek in sloveno, škřitek in ceco, non è di
origine slava. Come Matzenauer ha dimostrato2, è di origine germanica:
antico tedesco scrato, scratun (larvæ, lares mali, lemures); medio tedesco
schrat, schratze, schretze (faunus, dæmon), schretel (spiritus familiaris)
eccetera A questo proposito, mi viene in mente un confronto che non è
ancora stato segnalato dagli etimologisti. Il germanico schrat non può
essere vicino allo slavo čert, czart, čortŭ, demonio? Questa parola è
penetrata tra i Cechi, i Polacchi, i Russi e gli Sloveni che sono stati in
relazione con la Germania. Non è conosciuto tra gli Slavi meridionali (salvo
tra gli Sloveni vicini dei Tedeschi). I Croati, i Serbi e i Bulgari sono stati fra i
popoli slavi i primi a convertirsi al cristianesimo. Alcune tradizioni che sono
sopravvissute più a lungo tra gli altri Slavi sembrano essere scomparse
completamente tra loro. Non sarei sorpreso se la parola čert fosse
semplicemente un prestito dal folclore germanico.
Tra gli Slovacchi per designare il dio penate si usa un diminutivo del
nome di dio: Buožik, buožiček domaci (piccolo dio domestico). Il polacco del
XVI secolo diceva: skryatkowie domowe vbožęta (piccoli dèi domestici).
Capitolo VI
1 Č. Zibrt, Staročeské obyčeje, pp. 195 e seguenti. Cfr. anche Fontes rerum bohemicarum
(Praga, 1884), p. 484: «Spiritus qui Krzetky dicuntur». Zibrt ha pubblicato
un’interessante monografia: Skřitek v lidovim podáni staročeskem (Lo Skřitek nelle
antiche tradizioni ceche), Simaček, Praga 1891. (N.d.A.) – Il primo titolo di Zíbrt è, nella
forma completa, Staročeské obyčeje a pověry pivovarské, 1896. (N.d.T.)
2 Nel suo Dizionario di parole straniere nelle lingue slave, p. 81. (N.d.A.) – Si tratta
dell’opera Cizí slova ve slovanských řečech (Parole straniere nei testi slavi), Brno 1870.
(N.d.T.)
3 De bello gothico, III, 14. (N.d.A.)
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1 Vedute poetiche degli Slavi, t. III, p. 416. (N.d.A.) – Titolo russo: Poetičeskie vozzrenija
slavjan na prirodu. (N.d.T.)
2 Sull’originale è Rožanicas (plurale francese), ma in russo è Rožanic al singolare e Rožanicy
al plurale, mentre in polacco è Rodzanic e Rodzanice. (N.d.T.)
3 L’odierna versione del passo è: «Ma voi, che avete abbandonato il Signore, / dimentichi
del mio santo monte, / che preparate una tavola per Gad / e riempite per Menì la coppa di
vino, / io vi destino alla spada» (Is 65, 11-12). (N.d.T.)
4 Paisij Chilendarski. Scrisse in paleoslavo ammodernato Istorja slavianobălgarskaja (Storia
slavo-bulgara) nel 1762, ma pubblicata nel 1844. (N.d.T.)
5 Razyskanja, sesta tiratura, Memorie della sezione russa della Accademia di San
Pietroburgo, 1892, p. 168. (N.d.A.)
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LE VILA1
«Essi onorano i fiumi e le ninfe» dice Procopio, nel passo che abbiamo
citato sopra. Noi troviamo in effetti nei testi antichi e nel folclore dei
personaggi mitici che rispondono alle Ninfe dell’antichità classica.
I testi slavone-russi (riuniti da Krek, p. 314), che abbiamo citato in
precedenza a proposito di Perunŭ, di Chorsŭ, di Mokošĭ, di Rodŭ e delle
Rožanicy parlano anche delle Vila (al plurale). Uno di essi dà anche un
dativo maschile singolare vilu, che implica un nominativo vilŭ. Questa è
probabilmente una distrazione o una ignoranza del copista. I testi sono di
solito del XIV-XV secolo, ma sono basati su redazioni precedenti. In una
traduzione slava di Giorgio Amartolo, il nome delle Sirene è tradotto con
Vily2. In Bulgaria un manoscritto religioso del XVIII secolo, riproduzione di
manoscritti precedenti, infama coloro che onorano le Samovila e che sono i
rinnegati del Cristo. Tra i Serbi la parola Vila non appare, che io sappia, nei
testi antichi. Non compare nel Dizionario paleoserbo di Daničić, ma si trova
la parola Samovila in un testo del XIV secolo3. Una carta dell’imperatore
Costantino Asen (XIII secolo) menziona nei dintorni di Skoplje4 un Vilskij
Kladezŭ (Pozzo delle Vila). Un testo del XV o XVI secolo5 è intitolato: «Come
cominciò, o fu concepita la Samovila».
A lungo si è considerato la Vila come propria agli Slavi del sud, ai Serbi in
particolare. Ricerche più recenti provano che era nota tra tutti gli Slavi,
tranne gli Slavi baltici. Kollár l’ha ritrovata tra gli Slovacchi6. Nella contea di
Trenčín le Vila sono considerate come le anime delle fidanzate morte dopo il
contratto7. Esse non possono trovare la pace e sono condannate a vagare la
notte. Se incontrano un uomo, lo trascinano nelle loro danze e lo fanno
ballare finché egli ha reso l’anima. Si sono trovate loro tracce in Polonia. Nei
dintorni di Sieradz le Wila sono le anime di belle ragazze condannate, a
causa dei loro peccati, a fluttuare tra il cielo e la terra. Esse rendono agli
uomini il bene o il male che hanno ricevuto durante la loro vita. Máchal ha
citato8 due testi che sembrano provare l’esistenza della Vila in Boemia.
Intorno a Žamberk i Tedeschi dicono, parlando di una persona che si è
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perduta nei boschi, «Die Wile hat ihn verführt»1. Nel paese di Hradec si dice
che i bludičky o i fuochi fatui sono le anime di coloro che la Vila ha fatto
perire.
Cos’è la parola Vila? Non è comune, in realtà, che nelle lingue balcaniche,
nel bulgaro, nel serbo-croato e loro congeneri, nello sloveno. L’Accademia di
San Pietroburgo nel suo recente Dizionario russo la segnala giustamente
come una parola straniera. Miklošič ne ignora l’etimologia. Ma egli propone
con ragione, secondo me, di collegarla alle seguenti parole bulgare: vilněią,
io sono soggetto all’influenza delle Vila, io divento folle; al ceco vila, folle.
Questa parola molto antica compare già nella Cronaca detta di Dalimil (XIV
secolo); vilati, condurre una vita dissoluta, fornicare; vilil jest lid se dcery
moabskymi, il popolo commette fornicazione con le figlie di Moab; vilný,
voluttuoso, dissoluto; vilost, follia, ecc. In polacco, abbiamo: wila, pazzo,
stupido; wilowač, fare delle follie; szaławiła, pazzo, fuori di cervello. La
prima parte di questa ultima parola appartiene alla radice šal, furore.
Tutte queste parole sembrano collegarsi anche all’idea pagana della vila
(idea del dio pagano, di possessione demoniaca, cfr. i derivati di běsŭ). Ma
non ci spiega l’etimologia di Vila2. A. Veselovskij suppone che la forma
antica di Vila sia Věla; egli la paragona al lituano wêlis che significa gli
antenati e al greco che vorrebbe dire Mani, defunto3, e da cui verrebbe
; il tutto si collega alla radice indo-europea vel = perire e che si
ritroverebbe in Valhöll (Walhalla). Ho riportato questa ipotesi senza
associarmi. Essa mi pare singolarmente audace.
A difetto di questa etimologia se ne propone un altra puramente storica.
Delle feste in onore dei morti erano celebrate in primavera nella stagione
delle rose e delle violette. Le si chiamavano dies rosæ, rosalia (vi torneremo
a proposito delle Rusalka), sono anche chiamate dies violæ. Questo violæ si
ritroverebbe nel nome delle Vila. In sintesi, rimaniamo nella sfera delle
ipotesi.
I testi che abbiamo citato sopra ci mostrano il culto delle Vila, presso i
pagani (sono le Ninfe di Procopio) e presso gli Slavi ancora mal convertiti al
cristianesimo. È persistito nelle campagne, in particolare tra gli Slavi
meridionali. La letteratura orale dei Serbi, dei Croati e dei Bulgari ripete
continuamente il nome Vila. È anche stato adottato dalla lingua letteraria;
gli antichi poeti dalmati traducevano con il loro nome quello delle ninfe.
Possiamo rintracciare dai canti popolari tutta la vita della Vila4. Una Vila
viene nominata da un giovane: «Nessuno è più bella della mia amata,
nemmeno la Vila della foresta». La Vila lo sente e si ingelosisce. Si presenta
al giovane Pietro: «Portami la tua amata». Pietro gliela conduce vestita di
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1 Le Vila svolgono un ruolo importante nella vita di Marko Kraljević. Si veda oltre il testo di
pesmas i commentari di Chalanskij, Joužno-slavjanskie Skazanija o Kralevičě Markě,
Varsavia 1894. (N.d.A.) – Il titolo completo è Južno-slavjanskija skazanija o Kralevičě
Markě v svjazi s proizvedenijami russkago bylevogo eposa: Sramitel’nyja nabljudenija v
oblasti geroičeskago eposa južnych slavjan i russkago naroda, la cui prima edizione è del
1893. (N.d.T.)
2 Cesty po Bulharsku (Viaggio in Bulgaria), Praga 1888. (N.d.A.)
3 Kyustendil. (N.d.T.)
4 Dictamnus albus. (N.d.T.)
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di okas1, strappa alberi interi, genera dei bambini con le ali al posto delle
braccia, con la capigliatura bianca, con gli occhi di fiamma.
Il loro divertimento preferito è la danza; piace loro andare talvolta in
aiuto agli eroi, li sposano anche, ma in generale sono pericolose per gli
uomini; puniscono le ragazze che si permettono di lavorare nei giorni di
divieto. Chi sposa una Samovila o Samodiva non ha possibilità di trattenerla
a lungo; essa s’involerà per il tubo del camino. Alcune hanno nomi
particolari. Costruiscono edifici le cui fondamenta reclamano vittime
umane2.
I nomi bulgari delle Vila non sono affatto più facili da spiegare della
parola Vila. Che cosa significa il prefisso Samo? In un composto vuol dire
auto . C’è tra le Vila e le Samovila lo stesso rapporto che esiste tra le
parole greche ?
La parola diva può essere di origine orientale o slava. Può essere
correlato al persiano div, al turco dev = demone3, alla radice slava div =
selvatico4. È così che viene interpretato nel paese di Sistovo, dove si crede
all’esistenza di persone samodivi (selvatici) che vivono nelle foreste. A
Karaesen (distretto di Sistovo) i vecchi raccontano che il giorno di San
Giorgio (23 aprile) una volta si offrì un sacrificio perché un sant’uomo aveva
liberato il paese dalla dominazione degli uomini samodivi ai quali erano
sottomessi. Si constata, tra i Cechi e i Polacchi, una credenza molto diffusa
sull’esistenza di personaggi selvatici, divi lidé, divé ženy, dzivožony, ecc.5 In
seguito all’identità assoluta dei suoni, qui l’inizio è molto difficile da stabilire
tra elementi puramente slavi ed elementi avventizi.
Il nome juda è speciale nella lingua bulgara e non si incontra negli idiomi
congeneri; si presenta sia da solo che associato alla parola Samovila. Non
sarà imparentato al personaggio mitico che il folclore russo chiama Jaga
baba e che il polacco chiama jędza, jędzina, jędzi baba (radice ąžŭ,
serpente, mostro)? Io mi permetto di proporre qui questa ipotesi, credo mai
fatta prima. Essa mi pare più verosimile di quella che collega juda a unda
(slavo voda) per la ragione che le Vila frequentano di preferenza le acque.
Jagić, il cui parere non dovrebbe mai essere trascurato, ha proposto di
collegare Samovila e Juda molto semplicemente al latino Sibylla Judæa. Le
leggende polacche su una mitica principessa Wanda, che si sarebbe gettata
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nella Vistola, ricordano forse un personaggio simile alla Juda dei Bulgari.
Veselovskij unisce1 il culto delle Vila con il culto dei Mani. Ma
bisognerebbe sapere se le Ninfe dell’antichità, le Driadi, le Oreadi ed esseri
simili si collegano al culto degli antenati. Questa è una questione al di fuori
della mia competenza.
Tra i popoli convertiti al cristianesimo questi personaggi mitici, la cui
memoria non ha potuto cancellarsi, sono talvolta considerati come
rappresentanti delle anime dei defunti. Ma questa identificazione dovrebbe
essersi verificata sotto l’influsso delle idee cristiane.
LE RUSALKA2
Le Rusalka svolgono nel folclore dei Russi un ruolo analogo a quello delle
Vila presso gli Slavi meridionali. Esse non sono, come si è a lungo creduto,
proprie della sola Russia. Le ritroviamo in Bulgaria. Il loro nome è
relativamente recente; non si trova nei testi antichi, e non è di origine
slava. Esso non si collega – come si è sostenuto per molto tempo, ma a
torto – al sostantivo ruslo, ruscello, né all’aggettivo rusŭ, biondo; queste
due parole hanno, tuttavia, contribuito a fissare il carattere delle Rusalka, in
virtù dell’etimologia popolare.
Il nome si incontra per la prima volta nello storico Tatiščev (XVIII secolo)
la cui critica è piuttosto scarsa.
Dopo la ricerca di Miklošič, di Tomaschek e di Veselovskij non è più
possibile trovare al nome delle Rusalka una etimologia slava e dobbiamo
rassegnarci a cercarne un’origine straniera3. Essa deriva dalla parola
bizantina , latino rosaria, rosalia, pasca rosata, pascha rosarum.
Designa una festa cristiana che, come molte altre, si è confusa con una
festa pagana: la Pentecoste, la Pasqua delle rose. La festa delle Rusalia
viene dunque in sintesi dal latino rosa (tedesco Rosentag). Il nome Rusalia
è poi passato nella maggior parte delle lingue slave, nell’antico russo (per
esempio nella Cronaca detta di Nostore), nello sloveno, nel serbo, nello
slovacco, presso i Russi e in particolare quelli della Russia Bianca, presso i
Bulgari.
La festa delle Rusalia aveva carattere pagano.
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1 Le Rusalka hanno dato luogo a una letteratura abbondante. Oltre alle opere succitate, si
può consultare Máchal, op. cit., p. 115 e seguenti, e, in una lingua più accessibile del
ceco, Ralston, Songs of the Russian people, op. cit., pp. 139-146. (N.d.A.)
2 Cfr. i testi indicati da Máchal, op. cit., p. 149. (N.d.A.)
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Capitolo VII
Nei testi che abbiamo citato sulle differenti divinità abbiamo riscontrato
delle allusioni a diversi dettagli del culto pagano. Non è inutile darne la
sintesi e completarla, quando è il caso.
Ovviamente si indirizzavano agli dèi delle preghiere. I testi non ne fanno
allusione diretta. È sufficiente ricordare qui l’avvicinamento che si stabilisce
necessariamente tra la parola modla che in ceco significa «idolo» e i verbi
come modliti se (pregare) in lingua ceca, modlič się (stesso senso) in
polacco1.
I sacrifici sono attestati da numerosi testi. Secondo Procopio2 gli Slavi
offrivano al dio del tuono del bestiame e ogni tipo di offerta
.
Secondo Helmold (I, 52), «gli uomini e le donne si riuniscono con i
bambini e offrono ai loro dèi dei buoi e delle pecore e anche dei cristiani;
essi affermano che gli dèi amano soprattutto il sangue di queste vittime.
Dopo il sacrificio il sacerdote fa una libagione con il sangue per capire
meglio gli oracoli. Perché le parole di molti demoni slavi sono più facilmente
incoraggiati dal sangue. Compiuti i sacrifici secondo l’usanza, il popolo si
abbandona ai festini e ai divertimenti». Secondo il passo già citato di
Helmold «nei loro festini e nelle loro orge essi fanno circolare una coppa
sulla quale pronunciano delle parole che io non direi di consacrazione3, ma
di esecrazione al nome degli dèi, del bene e del male, dichiarando che ogni
buona fortuna è dovuta al dio buono, ogni cattiva al dio malvagio…»
Più avanti, a proposito di Svantovit, Helmold ci insegna che, per rendergli
un tributo speciale, gli si offre ogni anno un cristiano designato a sorte e
che da tutte le province slave si inviano ogni anno dei tributi destinati ai
sacrifici.
Questa affermazione si trova nel capitolo VI dello stesso libro: «I
mercanti, aggiunge Helmold, che vengono sull’isola di Rügen non hanno il
permesso di vendere né di acquistare se prima non hanno offerto al dio
qualche oggetto di valore».
Giovanni, vescovo di Meclemburgo (capitolo 23), fu fatto prigioniero dai
Sorabi. Dopo essere stato condotto in tutte le città slave e deriso, fu ucciso.
Gli tagliarono piedi e mani, e la sua testa fu fissata su una lancia e offerta al
dio Radigast. Gli Slavi (capitolo 69) sacrificavano ai demoni e non a Dio. Nel
capitolo 83 Helmold descrive il tempio di Proven, santuario di tutta la
regione, dove si svolgevano i riti di diversi sacrifici. Saxo Grammaticus ci
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dice1 che tutti gli anni, dopo la mietitura, gli abitanti dell’isola di Rügen
sacrificano del bestiame a Svantovit e fanno in seguito un festino religioso
dove le carni consacrate al dio servono a soddisfare la gola dei fedeli. Gli
storici di Ottone da Bamberga raccontano i sacrifici offerti a Triglav2. Noi
abbiamo presso gli Slavi del Baltico un culto organizzato, dei sacerdoti, delle
offerte, dei pellegrinaggi.
Non è sicuro che non vi fossero templi in Russia. Non vi è alcuna prova
dell’esistenza di una casta sacerdotale, gli idoli sembrano essere stati
generalmente eretti su luoghi elevati. Si sono loro offerti in sacrificio delle
vittime umane. «Vladimirŭ – dice la Cronaca3 – andò a Kievŭ offrì dei
sacrifici agli idoli insieme al suo popolo, e gli anziani e i bojari dissero:
“Tiriamo a sorte un giovine e una fanciulla, e a chi toccherà sarà immolato
agli dèi”». La sorte cadde su il figlio di un varjago cristiano; il padre rifiutò
di dare il proprio ragazzo e si chiuse con lui in casa; essi furono uccisi tutti e
due.
«Vladimirŭ – dice altrove la Cronaca – eresse su una collina molti idoli,
Perunŭ, Chorsŭ, Dažbogŭ, Stribogŭ. Si offrirono loro sacrifici, il popolo offrì i
suoi figli, le figlie ai demoni; essi insozzarono la terra russa dei loro
sacrifici…».
A Novgorod Dobrynja elevò un idolo di Perunŭ e i Novgorodiani gli
offrirono dei sacrifici come a Dio.
Vladimirŭ una volta convertito fece costruire una chiesa di San Basilio
sulla collina dove era l’idolo di Perunŭ4, là dove il principe e il popolo
facevano sacrifici. Questi sacrifici si chiamano trěby, i luoghi di sacrificio
trěbišča.
Secondo la Cronaca delle chiese di Novgorod (p. 172), il vescovo Joachim
distrusse nel 988 i luoghi dei sacrifici. Nella vita di Costantino di Murom che
risale al XVI secolo, ma che si basa evidentemente su dei testi più antichi 5,
il biografo ricorda la conversione della città e domanda: «Dove sono coloro
che facevano dei sacrifici ai fiumi e ai laghi, coloro che sgozzavano i cavalli
sui morti?»
Nel brano da noi già citato, Długosz, l’unico fra gli annalisti polacchi, dice
qualche parola sui templi, i sacrifici, le feste annuali chiamate stado,
stazione, riunione. Egli ha probabilmente molto inventato.
Tra i cronicisti cechi Cosma è il solo a insistere sui riti pagani, ma sempre
in termini accademici. Non fa alcun riferimento ai sacrifici umani. «Gli uni –
scrive (I, 4) alludendo ai riti pagani che esistevano ancora nel suo tempo –
portano delle offerte alle montagne o colline (litat), quell’altro invoca gli idoli
che ha fatto lui stesso se stesso e li supplica di governare la sua casa». Più
avanti (III, 1) racconta come il principe Břetislav III soppresse nel 1092 un
certo numero di resti del culto pagano, come le feste che si celebravano nel
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1 Kollár nel suo Commentario su Slávy dcera (Libro II, sonetto 28) ha rilevato un testo
curioso nella Cronaca di Merseburgo di Brottulf: secondo questo testo nessuno potrebbe
tagliare nel bosco un albero o un ramo sotto pena di morte: i Venedi pagani vi si riunivano
per alcune feste. Il cronicista tedesco prende Zuttiberus per il nome di un demone.
(N.d.A.) – Non Brottulf ma Brotuff. (N.d.T.)
2 Ebbo, II, 18. (N.d.A.)
3 Rivista Český lid, III, p. 78. (N.d.A.)
4 I, 4, III, 1. (N.d.A.)
5 Libro I, 3. (N.d.A.)
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ancora più venerazione per questa sorgente meravigliosa che per le chiese
del vicinato.
Nel XII secolo, in Boemia, i predicatori mettevano in guardia i fedeli
anche contro il culto degli alberi e delle sorgenti1. «Alii solem, alii lunam et
sidera colebant, alii flumina et ignes, alii montes et arbores sicut et adhuc
pagani multi faciunt et plurimi etiam in hac terra nostra adorant dæmonia et
tantum modo christianum nomen habentes pejores sunt quam pagani».
Tietmaro menziona (VIII, 59) una montagna situata nel pagus silensis (in
Silesia2), montagna molto alta che, a causa delle sue dimensioni, era un
oggetto di culto per i pagani.
Ho già segnalato, nel capitolo su Perunŭ e sant’Elia, i testi relativi al culto
della quercia presso i Russi. Afanas’ev ha notato delle locuzioni russe
relative a questo culto degli alberi: «Essi nascevano nei boschi, pregavano i
tronchi; vivevano nel bosco, pregavano un tronco; vivere nel bosco, pregare
i tronchi come Dio, dice il contadino parlando dei suoi antenati pagani
pregano tronchi come Dio, dice il contadino parlando dei suoi antenati
pagani»3. Il folclore russo crede al lĕšij4 o demone dei boschi.
Abbiamo più volte parlato dei templi degli dèi baltici: questi templi erano
il teatro di rituali più o meno complicati. Secondo Helmold (1, 52): «gli
uomini e le donne si riuniscono con i bambini e offrono ai loro dèi dei buoi,
delle pecore e anche dei cristiani; essi affermano che il Dio ama soprattutto
il sangue di queste vittime. Dopo il sacrificio il sacerdote faceva una
libagione con il sangue per capire meglio gli oracoli. Perché, a detta di molti
Slavi, i demoni sono più facilmente incoraggiati dal sangue. Una volta
compiuti i sacrifici, il popolo prende parte ai festini e ai divertimenti. Nei loro
festini essi fanno circolare, etc.».
Un po’ più lontano a proposito di Svantovit egli tratta dei sacrifici umani.
Gli si offriva annualmente un cristiano tirato a sorte, «Da tutte le province
degli Slavi inviano in questo tempio le imposte stabilite per i sacrifici».
Altrove (§ 38) Helmold afferma che i Rugiani non avevano denaro, tutto ciò
che essi saccheggiavano d’oro e d’argento lo usavano per fare ornamenti
per le loro donne o lo versavano nel tesoro del loro dio, «I popoli che essi
hanno sottomessi con le armi, dice ancora Helmold (§ 36), essi li fanno
tributari del loro tempio».
Si possono citare ancora le testimonianze di Helmold:
1° Sul tempio di Rethra eretto in una città che è chiusa da nove porte e
circondata da tutte le parti da un lago (I, 13). «Vi si entra da un ponte di
legno sul quale non si lascia passare che coloro che vanno a sacrificare o
consultare gli oracoli».
1 Cfr. i testi citati da Zibrt, Seznam Povĕr, p. 37. Il folclore russo crede al lĕšij o diavolo dei
boschi. (N.d.A.) – Il titolo completo del libro di Čeněk Zíbrt è Seznam pověr a zvyklostí
pohanských z VIII. Věku: indiculus superstitionum et paganiarum, edito nel 1894. (N.d.T.
)
2 O Slesia, regione storica oggi divisa tra Polonia, Repubblica Ceca e Germania. (N.d.T.)
3 Afanas’ev, op. cit., t. II, p. 325. (N.d.A.)
4 La grafia moderna è lešij. (N.d.T.)
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geografo arabo Masudi (X secolo) aveva sentito parlare dei templi degli
Slavi: egli non li aveva visitati; ne parla solo per sentito dire e con tutta la
fantasia di un’immaginazione orientale. Il lettore può andare a cercare
quello che dice nel capitolo LXVI (tomo IV) delle Prairies d’or. Io riproduco
qui questa descrizione fantastica, facendo, beninteso, tutte le riserve del
caso:
«Vi erano presso gli Slavi molti monumenti sacri: l’uno era costruito su
una delle montagne più alte della terra, detta dei filosofi. Di questo
monumento si vantano l’architettura, la disposizione abile e i colori variegati
delle pietre impiegate, i meccanismi ingegnosi posti in cima alla costruzione
in modo da essere messi in movimento dal sole che sorge, le pietre preziose
e le opere d’arte che vi si conservano, le quali annunciano l’avvenire e
mettono in guardia contro le calamità della fortuna prima del loro
compimento; si citano infine le voci che si facevano sentire dall’alto del
tempio e l’effetto che esse producevano sul pubblico.
«Un altro tempio era stato costruito da uno dei loro re sulla Montagna
nera. Era circondato da sorgenti meravigliose le cui acque differivano per
colore e sapore e racchiudevano tutti i tipi di proprietà benefiche1. La
divinità adorata in questo tempio era una statua colossale rappresentante
un vecchio con un bastone col quale evocava gli scheletri fuori dalle loro
tombe; sotto il suo piede destro si vedevano delle specie di formiche; sotto
il suo piede sinistro degli uccelli dal piumaggio nero come quello dei corvi e
di altri uccelli e degli uomini di una forma che apparteneva alla razza degli
Abissini.
«Un terzo tempio sorgeva su un promontorio circondato da un braccio di
mare2; era costruito in blocchi di corallo rosso e di smeraldo verde. Al centro
c’era un’alta cupola sotto la quale era piazzato un idolo le cui membra erano
formate da quattro pietre preziose, berillio, rubino rosso, agata gialla e
cristallo di rocca. La testa era d’oro puro3. Un’altra statua era posta di fronte
e rappresentava una giovane ragazza che gli offriva dei sacrifici e dei
profumi. Gli Slavi attribuiscono l’origine di questo tempio a uno dei loro
saggi vissuto in un’epoca remota».
Abbiamo constatato l’esistenza di una casta sacerdotale presso gli Slavi
del Baltico e dell’Elba che non sembra essere esistita presso gli Slavi di
Russia, né presso gli Slavi dei Balcani rapidamente convertiti al
cristianesimo.
Al contrario, tra gli Slavi occidentali e i Russi si vedono ugualmente
1 A rigore, questa descrizione potrebbe applicarsi alle montagne della Boemia o ai Carpazi.
Un orientalista russo, F. Westberg, in un’opera in tedesco pubblicata sul Bollettino della
Accademia delle Scienze di San Pietroburgo (1899, t. XI, n. 5, p. 212), si è occupato di
questo brano di Masudi. Egli crede che non si tratti affatto di Slavi e che nei templi in
questione dovevano essere situati nel Caucaso. (N.d.A.) – Il titolo completo dell’opera di
Vestberg è Ibrahim ibn Ya’ḳub’s Reisebericht über die Slavenlande aus dem Jahre 965.
(N.d.T.)
2 Arkona (?). Westberg [Verstberg] crede che si tratti della penisola di Taman. (N.d.A.)
3 Cfr. La barba d’oro di Perunŭ. (N.d.A.)
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Capitolo VIII
LA VITA NELL’OLTRETOMBA
1 Herbord, II, 32, 33; Ebbo, II, 12; Priefling, II, 11. (N.d.A.)
2 Ebbo, II, 12, 13. (N.d.A.)
3 Il continuatore di Cosma, detto il monaco di Sávaza, utilizza la forma cœnas. Essa non
cambia il significato generale della frase. (N.d.A.)
4 Pubblicato da Hecht, Praga 1865. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Misál opatovický (Messale di
Opatovice), il cui manoscritto, risalente al XIV secolo) è conservato nel Museo di Olomouc.
(N.d.T.)
5 Anno 987: «E infine vennero i Greci, che biasimarono tutte le altre leggi, ma lodarono la
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propria e parlarono a lungo raccontando la origini del mondo, e narravano con saggezza
ed era per tutti un piacere ascoltarli. Dissero: “Colui che segue la nostra fede dopo morto
resusciterà e non morirà nei secoli. Se, invece, si converte a un’altra fede, allora brucerà
nel fuoco nell’aldilà». (N.d.T.)
1 Miklošič, Etymologisches Wörterbuch…, op. cit., p. 211, ha ignorato questo testo così
importante della Cronaca ceca. (N.d.A.)
2 Miklošič, Lexicon palaeoslovenico-latinum, p. 400. (N.d.A.)
3 Ed. Cracovia, p. 47. (N.d.A.)
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1 Veselovskij, Razyskanija, op. cit., p. 269; Máchal, op. cit., p. 121. (N.d.A.)
2 Questo lavoro pubblicato per la prima volta nel 1868 è stato ristampato senza modifiche
dall’Accademia imperiale di San Pietroburgo (Sbornik, t. XLIX, 1891). (N.d.A.)
3 Su questa distinzione si veda la mia edizione della Cronaca detta di Nestore. (N.d.A.)
4 Questi testi sono stati studiati da Kotliarevskij, op. cit. (N.d.A.)
5 Pertz, Monumenta Germaniæ Historica, t. VIII, p. 263. (N.d.A.)
6 Bielowski, Monumenta Poloniæ historica, t. II. (N.d.A.)
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tryzna. Miklošič1 scrive trizna e traduce questa parola con «pugna», pur
segnalando una parola ucraina: tryzna = pasto dei morti. L’ortografia dei
testi slavi esita tra tryzna e trizna. In questo dubbio, io penso che la parola
possa essere collegata alla radice trŭ «divorare», e che la parola designasse
in origine un banchetto funebre2. Questa spiegazione ammette che la parola
sia evidentemente legata alla parola strava usata da Iordanis per designare
la festa funebre celebrata dagli Unni in onore di Attila: «Postquam talibus
lamentis est defletus stravam super tumulum ejus quem appellant ipsi
ingenti commessatione concélébrant…»3. C’è molto da discutere su questa
parola strava. Anche all’epoca di Attila gli Unni erano in contatto con gli
Slavi e si può ammettere che essi abbiano preso in prestito la parola strava.
C’erano anche, ovviamente, degli Slavi negli eserciti di Attila.
Non discuterò a lungo della parola tryzna e rinvio il lettore al testo
francese della mia Cronaca di Nestore: «Quando uno dei Radimiči moriva…
essi celebravano una tryzna intorno al cadavere poi facevano un gran rogo,
posavano il morto sul rogo e davano fuoco. In seguito essi raccoglievano le
ossa, le mettevano in un piccolo vaso su una colonna lungo la strada. Così
fanno ancora oggi i Vjatiči»4.
Nella stessa Cronaca, sotto l’anno 969 si dice: «Ol’ga morì. Fu interrata.
Ella aveva ordinato che non si facesse per lei alcuna tryzna, ella aveva un
prete e fu lui che la seppellì»5.
Il cristianesimo non ha abolito presso tutti i popoli slavi gli antichi riti
pagani in onore dei morti. È sufficiente per convincersene rileggere, anche
nella traduzione francese, il poema di Mickiewicz, Gli Avi. Mickiewicz scrive
in polacco; i contadini del suo poema sono dei Russi Bianchi, degli Uniati,
cioè in fondo degli ortodossi presso i quali l’azione del cristianesimo
rappresentato dal basso clero si era molto meno efficacemente esercitato
che sui loro congeneri slavi, i Polacchi cattolici. Fra tutti i popoli slavi, essi
rappresentano forse lo stato dell’anima più primitivo. I riti che celebrano
sono assolutamente gli stessi che il poeta latino polacco Kłonowicz
segnalava nel XVI secolo presso i loro antenati, nel suo poema Roxolania:
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Nel poema dei Dziady (Gli Avi) Mickiewicz ha messo in scena i riti popolari
ai quali dà luogo la festa degli antenati celebrata dai Russi Bianchi nel suo
paese natale, la Lituania. Questi riti che il poeta aveva osservato, questi
canti che aveva sentito e che interpretava in bei versi polacchi, sono stati
raccolti in vari momenti, in particolare nella bella pubblicazione di Šein:
Materiali per lo studio della vita e della lingua della popolazione russa delle
provincie del Nord-Ovest1.
Nel III tomo2, Šein ha dedicato una cinquantina di pagine allo studio dei
riti in onore degli antenati.
Ciò che il contadino della Russia Bianca chiama dziady, dzidy, disdy
(roditeli, i genitori nella Grande Russia) sono le anime dei parenti defunti.
Queste anime non sono necessariamente quelle degli antenati o degli avi. Si
fa figurare tra i dziady, non solo i nonni, gli zii, le zie, ma anche i bambini
morti in tenera età.
Ciò che caratterizza questi riti è che sono totalmente pagani. Li si celebra
a volte quaranta giorni dopo la morte del defunto che si va a onorare.
All’inizio di novembre, c’è una festa generale dei Dziady. La parte essenziale
di questa festa è un pasto i cui avanzi sono conservati per i defunti.
La vigilia della festa, si pulisce la casa, si preparano i cibi. La pulizia della
casa, la buona qualità dei cibi attirano gli antenati. La sera, i parenti e gli
ospiti si riuniscono nella stessa casa. Il capofamiglia accende una candela;
ognuno si siede intorno alla tavola carica di cibi, birra e acquavite e colui
che ha detto la preghiera pronuncia la seguente formula:
1 San Pietroburgo, stampa della Accademia delle Scienze, 3 voll. In 8°, 1896. (N.d.A.) – Il
riferimento esatto è Šein, Materialy dlja izučenija byta i jazyka russkogo naselenija
severo-zapadnogo kraja. (N.d.T.)
2 P. 582 e seguenti. (N.d.A.)
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Gli Slavi della Russia Bianca sono di razza pura, essi sono stati poco
toccati dalla civiltà, il cristianesimo non li ha che sfiorati. Il loro stato
d’animo è ancora oggi quello dei loro antenati pagani di dieci secoli fa. La
testimonianza che ci porta il loro folclore merita di essere presa in seria
considerazione.
Queste tradizioni ancora esistenti a dispetto del cristianesimo presso
alcuni popoli slavi sono fino a nuovo ordine la miglior prova fornita per
dimostrare che i loro antenati pagani avevano l’idea di una vita oltre la
morte. È il folclore che deve qui supplire al silenzio dei testi antichi. Ma il
campo del folclore è infinito, e le indicazioni che abbiamo dato sono per il
momento sufficienti. L’archeologia viene anche qui ad aiutare. Si sono
trovati in Boemia, nelle tombe pagane, dei vasi che avevano racchiuso
alimenti e che erano stati evidentemente depositati per servire ai defunti
nella vita dell’oltretomba1.
APPENDICE
Svatovit e san Vito2
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Soltanto che, invece di ammettere come me che vit avrebbe voluto dire
oracolo, Jagić collega questo nome alla radice vi, combattere. Non ho
riluttanza ad attaccarmi a questa interpretazione, che spiega meglio della
mia i nomi come Vitodrag, Zemovit, Hostivit, Ljudevit, Vitoslav, Vitomir.
La radice svent vuol dire, in slavo, santo; forse in origine voleva dire
forte1; essa figura in un gran numero di nomi propri, per esempio
Sventopolk, Svatopluk, Sviatopolk in Moravia, in Boemia, in Russia, in
Pomerania. Si riscontra anche in Russia il nome di Sviatoslav ;
dei cronicisti bizantini), in Polonia Svatobor, nome d’uomo2, Svatobor, il
bosco sacro, etc.
I cronicisti latini che identificano Svent con Sanctus commettono un
errore analogo a quello dei Romeni pochi critici che volevano assolutamente
collegare a Sanctus l’aggettivo sfint che è passato dallo slavone nella loro
lingua slava.
I due elementi della parola Svantovit sono dunque entrambi slavi.
Identificando questa divinità pagana con Sanctus Vitus, Helmold e Saxo
Grammaticus si sono lasciati guidare da una somiglianza puramente
accidentale di forma e di suono. Questa è la procedura normale dei cronicisti
del Medioevo, tedeschi o indigeni, per spiegare la maggior parte dei nomi
slavi. Di solito essi cercano di trovar loro un significato non nella lingua cui
appartengono, non in ciò che sarebbe a rigore verosimile nella lingua
germanica, ma in lingua latina e nelle memorie dell’antichità classica. È un
loro sistema assoluto. Vorrei in questa arringa a favore di Svantovitus
contro Sanctus Vitus riunire alcuni esempi che non sono stati finora
sistematicamente raggruppati.
Cominciamo da Helmold, perché è proprio contro di lui che si vuole
argomentare. Già dal primo paragrafo delle Chronica Slavorum, noi lo
sorprendiamo in flagrante delitto di fantasia archeologica. Si tratta del Mar
Baltico: «Sinus hujus maris… appellatur ideo Balticus eo quod in modum
baltei longo tractu per Scythicas regiones tendatur usque in Græciam».
Diciamo a discarica di Helmold che ha letteralmente copiato questa frase da
Adamo da Brema3. Tra parentesi, Adamo da Brema, al quale piace anche
etimologizzare, collega il nome dei Vinuli, popolo slavo, a quello dei
Vandali4.
Un po’ più oltre Helmold, che ci tiene a dar prova di cultura classica, parla
di una città, quæ dicitur Woligast: «apud urbaniores (le lettere) vocatur
Julia Augusta propter urbis conditorem Julium Cæsarem». A Giulio Cesare,
fondatore di una città sulle rive del Baltico, ben corrisponde Sanctus Vitus
che dà il proprio nome a una divinità slava.
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1 Herbord, Dialogus de vita Ottonis, ed. Pertz, Hannover 1868, Libro II, 31. (N.d.A.)
2 Gesindstube, Kott, Supplemento, p. 698. (N.d.A.)
3 Krek, Einleitung…, op. cit., p. 139-412. La parola contina è purtroppo sfuggita a Miklošič
che non era uno storico. Avrebbe potuto trovare posto nel suo dizionario sub voce Konšta
o Kontŭ. (N.d.A.)
4 Tietmaro interpreta correttamente alcuni nomi slavi belegori, beleknegine, laremirus. Si
sbaglia su altri. Così si incontra il nome di Medebur (il bosco ricco di miele) tradotto con
mel prohibe. (N.d.A.)
5 Apud Jaffé, 2, II, 2998. (N.d.A.)
6 Libro II, 1. (N.d.A.)
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Helmold e Saxo Grammaticus hanno voluto stabilire tra il suo nome e quello
di Sanctus Vitus.
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Tav. 8 – Statua in granito grigio che serviva da cippo tra i villaggi di Goldau e di
Heinrichau (Prussia occidentale). Museo di Danzica.
Tav. 9 – Blocco di granito grigio che illustra cavallo e cavaliere grossolanamente
abbozzati. Trovata nel villaggio di Grosslesen, cerchio di Rosenberg (Prussia
occidentale).
Tavv. 10-11 – Sul lato sinistro di questa pietra è un uomo di grezza esecuzione, sul
lato opposto figura un uomo che tiene un corno. Museo di Danzica.
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Tavv. 12-13 – Fronte e retro di una pietra trovata nel 1859 nelle vicinanze di
Bamberga, in Baviera.
Tavv. 14-15 – Figura di pietra trovata nei dintorni di Bamberga.
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Tavv. 16-17 – Figura di pietra trovata nei dintorni di Bamberga. La Baviera del
Nord-Est è stata occupata dalle popolazioni slave. Gli originali sono conservati al
Liceo di Bamberga.
Tav. 18 – Figura in legno di Alt Friesack (cerchio di Ruppin, provincia di
Brandeburgo). Museo Etnografico di Berlino.
Tav. 19 – Figura di argilla trovata a Rhinow, dintorni di Havelland (Brandeburgo).
Molto mal cotta. Museo Etnografico di Berlino.
Tavv. 20-21 – Figure in ambra gialla trovate a Schwarzort (Prussia occidentale).
Museo di Danzica.
Tav. 22 – Figura femminile in bronzo trovata a Kleinzastrow, dintorni di Greifswald
(Pomerania).
Tav. 23 – Scultura in bronzo trovata a Thorn (Prussia orientale). Museo di Danzica.
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Nulla dimostra che tutte le figure riprodotte nelle tavole precedenti siano
delle rappresentazioni di divinità. Alcune di esse (per esempio la 1 e la 2)
sono forse dei semplici monumenti funerari.
I monumenti in questione sono stati studiati da Weigel (Archiv für
Anthropologie, 1894), da A. Hartmann e Köhler (ib., 1896).
Bisognerebbe procedere a un inventario delle scoperte che hanno potuto
essere fatte degli oggetti che sembrano essere collegati al culto degli Slavi
pagani. Sfortunatamente questo lavoro non è stato svolto. Ho consultato a
questo proposito l’uomo che conosce meglio l’archeologia preistorica di
Boemia, il dottor Niederle. Ecco alcune indicazioni che egli ha ben voluto
fornirmi dichiarandomi che la sua attenzione non è stato portata in modo
particolare sulla questione che mi interessa.
La Rivista ceca Památky Archéologické – che per fortuna possiedo nella
mia biblioteca – ha pubblicato nel 18801 un articolo di Smolik sui
ritrovamenti archeologici effettuati in Boemia dal XVI al XVIII secolo.
Bienenberg, nella sua opera Versuch über einige merkwürdige Alterthümer
im Kœnigreich Bœhmen2, segnala la scoperta nei dintorni di Jaroměř di
oggetti dell’età del bronzo fra i quali della Età del Bronzo, tra i quali si
trovano dodici dèi domestici (lari). Si ignora beninteso che cosa questi lari
siano diventati. Bienenberg segnala una scoperta analoga nei dintorni di
Hradec. Nella stessa rivista3 Zap ha descritto e riprodotto tre idoli di bronzo,
trovati l’uno a Buchlov in Moravia, l’altro a Chrudim in Boemia, l’altro
appartenente al Collegium Clementinum di Praga. Essi sono di origine slava?
Non oso pronunciarmi sulla questione.
Un archeologo della Moravia, Wankel, ha segnalato nel Časopis
Olomouckého Musea4 la scoperta nelle tombe a Naklo vicino a Olomouc di
due statue di pietra a tre grosse teste che erano state rotte.
Il libro intitolato Schlesiens Vorzeit (che non conosco e di cui ignoro
l’autore)5 dice che nelle tombe dei Stanovice, cerchio di Ohlau,
Slesia/Silésie, è stato trovato zwei Götzenbilder (due idoli).
Kalina, nella sua opera6 menziona a Kvilice, vicino a Rakovnik, in Boemia,
un piedistallo di pietra sul quale si drizza oggi una croce, ma che sulla
quale, secondo la tradizione, era stato eretto un idolo.
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1 1890, p. 226. (N.d.A.) – Il titolo completo è Mittheilungen der K.K. Central Commission
zur Erforschung und Erhaltung Kunst- und Historischen Denkmale. (N.d.T.)
2 Rosa Bohemica, 1868, il cui testo è stato riprodotto nel Časopis Českého Museum, 1891,
p. 417. (N.d.A.) – Il titolo esatto è Rosa Boemica sive Vita Sancti Woytiechi agnomine
Adalberti Pragensis episcopi Ungariae, Poloniae, Prussiae apostoli: nunc primum ed. et
XLV scultis imaginibus adornata, edito per la prima volta a Praga nel 1668. (N.d.T.)
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dalmata.
Tordson Olaf (Óláfr Þórðarson; 1210-1259), storico e poeta islandese.
Tkadleček, anonimo poeta tedesco del XIV-XV secolo.
Tzétzēs Iōánnēs (1110’-1180?), filologo bizantino.
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