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IL SEICENTO

• Il vocabolario degli accademici della Crusca


L’Accademia della Crusca ebbe un’importanza eccezionale, perchè realizzo quello che è a tutti gli
effetti il primo grande vocabolario italiano, e al tempo stesso il primo grande dizionario monolingue
europeo.
Non c’è dubbio che il contributo più rilevante della Crusca si ebbe quando questa accademia si
indirizzò alla lessicografia ì, ciò avvenne a partire dal 1591. In quell’anno gli accademici discussero
sul modo di fare il Vocabolario e si divisero gli spogli da compiere, mettendo a punto un
procedimento razionale di schedatura.
La scelta di far stampare l’opera a Venezia piuttosto che a Firenze, probabilmente è dovuta a
elementi di natura economica. Il vocabolario, dunque, uscì nel 1612; sul frontespizio portava
l’immagine del frullone, il moderno strumento che si usava per separare la farina dalla crusca, con
sopra, in un cartiglio, il motto “il più bel fior ne coglie”, allusivo alla selezione compiuta nel
lessico, per analogia alla selezione tra la farina (il fiore) e lo scarto (la crusca).
Gli accademici fornirono il tesoro della lingua del Trecento, esteso al di là dei confini segnati
dall’opera delle Tre Corone, arrivando a integrare con l’uso moderno. Infatti gli schedatori avevano
cercato di evidenziare la continuità tra la lingua toscana contemporanea e l’antica trecentesca.
Il vocabolario largheggiava nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane, come ad
assempo (esempio), caro (carestia), danaio (denaro).
Per quanto riguarda la grafia, il vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in
buona parte dalle convenzioni ispirate al latino, seguendo in ciò un aggiornamento gradito alla
cultura toscana.
La fortuna del vocabolario è confermata dalle due edizioni che ebbe nel corso del Seicento, dopo la
prima. La seconda edizione uscì nel 1623 e la terza edizione, stampata a Firenze, nel 1691, si
presenta vistosamente diversa fin dall’aspetto esterno: tre tomi al posto di uno, con un
corrispondente aumento del materiale, verificabile sia nella quantità dei lemmi, sia negli esempi e
nella definizione delle voci.

• L’opposizione alla Crusca


L’opposizione si manifestò fin dalla prima pubblicazione dell’opera. I primi avversari furono:
- Paolo Beni: professore di umanità nell’università di Padova, autore di un’Anticrusca (1612),
nella quale venivano contrapposti gli scrittori del 500, e in particolare Tasso, il grande escluso
dagli spogli del vocabolario. Beni fondava le proprie argomentazioni su di un giudizio
complessivamente negativo sulla prosa del 300, e apprezzava i moderni, ma anche altri minori
prosatori, che tutti anteponeva a quello che giudicava l’improponibile Boccaccio.
- Alessandro Tassoni: aveva apposto molte postille direttamente sulle pagine del vocabolario. La
sua critica si riversa contro la lingua antica di Boccaccio e dei minori trecenteschi, e contro la
dittatura fiorentina sulla lingua. Infatti mostrava la sua ammirazione per scrittori moderni, come
Guicciardini. Proponeva di adottare nel vocabolario espedienti grafici per contrassegnare con
evidenza le voci antiche e le parole da evitare, perchè a suo giudizio la confusione, provocata
dalla Crusca, tra voci arcaiche e legittimamente in uso risultava dannosa. Temi fondamentali
della sua riflessione sono dunque l’improponibilità dell’arcaismo linguistico e il pregio della
modernità.
- Daniello Bartoli: gesuita e scrittore molto noto per la sua elegante prosa, autore di una celebre
opera grammaticale. Bartoli non attua una polemica diretta né di affermazioni teoriche nei
confronti del vocabolario, ma riesaminando i testi del 300 dimostra che proprio lì si trovano
oscillazioni tali da far dubitare della perfetta coerenza di quel canone grammaticale.
• Il linguaggio della scienza
La prosa del 600 deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, prima di tutto per merito di
Galileo. Galileo aveva scritto in italiano fin da quando aveva 22 anni, allorché aveva composto il
breve saggio La bilanciata; ciò denota una precoce preferenza per la lingua moderna.
Un elemento di rilievo era la ricerca di un pubblico nuovo, come in un’operazione promozionale del
sapere.
Galileo scelse coscientemente il toscano, anche se all’inizio aveva adoperato il latino. Una volta
compiuta la scelta del volgare, dovette far si che la lingua italiana si adattasse perfettamente ai
compiti nuovi che le venivano assegnati. Pu scegliendo il volgare non si collocò mai al livello basso
o popolare. Seppe raggiungere un tono elegante e medio, perfettamente accoppiato alla chiarezza
terminologica sintattica.
Galileo si affidò alla tecnificazione di termini già in uso, ed evitò di utilizzare il greco e latino,
preferendo parole semplici e italiane, pur senza respingere gli eventuali tecnicismi greci e latini.
La scelta di assoluta semplicità di Galileo è ben illustrata dall’adozione di un’espressione come
macchie solari per indicare quelle chiazze che il cannocchiale gli aveva permesso di individuare sul
sole.

• Il melodramma
Si può passare da Galileo al melodramma se si rammenta suo padre Vincenzo, musicista, che ebbe
una parte nella fiorentina Camerata dei Bardi, dalla quale discende il melodramma. Nato a cavallo
tra 500 e 600 e destinato ad un grande successo nel corso di questo secolo. Il melodramma permette
di affrontare la questione del rapporto tra la parola e la musica, così come fu posto dai teorici del
tardo Rinascimento, nell’ambito della riflessione sull’antica tragedia greca: il melodramma del
primo 600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica, che si immaginava fosse stata eseguita dai
greci con l’accompagnamento del canto.
Nell’ambiente della Camerata del conte Bardi prevaleva la convinzione che l’antica tragedia greca
fosse stata a suo tempo interamente cantata.
Il melodramma si caratterizza come un tipo di spettacolo d’élite, in quanto forma di divertimento
che richiede scenografie e allestimenti complessi e dispendiosi. Questo delimita la sua influenza
linguistica nella dimensione della corte.

• Il linguaggio poetico
Con Marino e il marinismo le innovazioni si fanno ancora più accentuate. Il catalogo degli oggetti si
allarga notevolmente rispetto alla tradizione, perchè gli autori si muovono nel solco di convenzioni
in parte rispettate: ad esempio gli schemi metrici e le cadenze ritmiche sono quelle petrarchesche.
Nel settore lessico agiscono spinte innovative che allargano considerevolmente le possibilità di
scelta; proprio come Marino che pone accanto alla sua rosa, una serie di piante diverse come
l’amaranto, il vago acanto, la bella clizia. La poesia barocca utilizza un’ampia gamma di animali,
canonici e non. Nel Marino troviamo il pardo leggiadro, il fiero leone.
Un consistente filone della poesia barocca che fa capo a Marino utilizza dunque il lessico
scientifico, assieme alla tematica e agli oggetti emblematici della scienza.
Si crea insomma quella miscela tra vecchio e nuovo che sarà caratteristica anche della poesia
didascalica del 700.

• Le polemiche contro l’italiano


A partire dal 600 prese piede il giudizio sul “cattivo gusto” del barocco. La reazione antibarocca si
ebbe prima in Francia che in Italia, e che proprio qui maturò una posizione che non solo
condannava la letteratura nel nostro paese e in Spagna, ma finì per coinvolgere il giudizio stesso
espresso sulla nostra lingua, fissando così alcune idee che avrebbero avuto largo corso nel 700.
Dominique Bouhours, gesuita francese, che godeva di grande autorità come grammatico, svolse la
tesi secondo la quale solo ai francesi poteva essere riconosciuta l’effettiva capacità di “parlare”,
contro gli spagnoli che “declamavano” e gli italiani “sospiravano”. Questo giudizio, che ribalta in
negativo la poeticità dell’italiano, voleva smascherare i difetti connaturati alle due lingue, delle
quali l’una era accusata di magniloquenza retorica, e l’altra di eccessiva sdolcinatezza poetica. A
vantaggio del francese, che giocava la vicinanza della prosa e della poesia, indice di razionalità.
Bouhours voleva promuovere il francese a lingua universale.
La lingua italiana veniva bollata come incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano e
veniva quindi confinata nel suo orticello poetico, come strumento della lirica amorosa e del
melodramma.

• La letteratura dialettale e la toscanità rustica e popolare


Buone anche se non indiscutibili permettono di fissare ai secoli 16-17 la nascita di una letteratura
dialettale cosciente di essere tale, volontariamente contrapposta alla letteratura in toscano.

CRUSCA E ANTICRUSCA
• Dalla dedicatoria A’ lettori del vocabolario degli accademici della crusca ed.1612
Anteposta alla dedica A’ lettori, il vocabolario del 1612 presenta una dedica non firmata dall’intero
corpo accademico. Tale dedica non è rivolta a un regnante o a un personaggio influente negli Stati
d’Italia o in toscana, bensì a Concino Concini: aveva un forte potere alla corte di Francia. Nato a
Firenze, si era recato al seguito di Maria de’ Medici e aveva sposato la confidente più intima di
Maria. Quando la regina si ritrovò a governare da sola, dopo la morte del marito, Concini ebbe
incarichi prestigiosi che lo portarono in una posizione di grande potere e di enorme ricchezza. Fu
ucciso a tradimento per ordine di Luigi XIII, che lo odiava. La storia di Concini si chiuse con un
finale tragico, non molti anni dopo l’uscita del vocabolario che è a lui dedicato. Al momento della
stampa tuttavia la sua fortuna era al colmo, dunque si intende bene come mai gli Accademici si
appoggiassero fiduciosamente a lui.
Nel brano sono illustrate alcune fondamentali linee di intervento seguite per la realizzazione
dell’opera. Si noti prima di tutto Bembo, poi Salviati (colui che aveva ideato il dizionario) e i
deputati alla correzione del Boccaccio. Nel 1571, infatti, si era avviata una rassettatura del
Decameron. Fu una rassettatura filologica e censoria al tempo stesso.
Salvati aveva davvero fissato il canone a cui gli accademici si attennero: le fonti degli spogli sono
stati scrittori del 300 di nascita fiorentina o comunque convertiti al fiorentino.
Gli accademici propongono dunque una distinzione tra gli autori di prima classe, ciòè Dante,
Boccaccio, Petrarca e Giovanni Villani e i minori, da cui le parole sono state prese quando
mancavano negli autori maggiori.
• Qualche voce della crusca
La struttura delle voci della Crusca mostra una notevole modernità, prima di tutto grafica. Il lemma
è in maiuscoletto, ben individuabile al primo colpo d’occhio.
Se si osserva la pagina originale del vocabolario ed.1612, si nota come la chiara impostazione
tipografica si avvalga anche di utili espedienti pratici sopra ogni colonna è posta l’indicazione delle
prime due lettere delle parole sottoposte. Segue la definizione, che può comprendere anche
sinonimi.
C’è l’indicazione di una parola latina, la quale però non è etimologica, come potrebbe sembrare a
prima vista.
A questo punto della voce seguono gli esempi che occupano la maggior parte dello spazio.
• Tassoni avversario della Crusca
Alessandro Tassoni fu uomo di corte a Roma, a Torino, a Modena. Ebbe una notevole esperienza
della società aristocratica italiana. La sua fama di letterato è affidata al poema eroicomico La
secchia rapita, che uscì nel 1630. Tassoni è fautore della modernità, dunque la sua risposta è
contraria a ogni forma di conservatorismo.
Tra le opere minori restano anche le postille al vocabolario, ottimo esempio di critica concretamente
applicata, non affidata ad affermazioni di principio. Le postille sono più di mille, brevi e spesso di
mordaci. Non sono autografe di Tassoni; infatti l’esemplare del vocabolario a lui appartenuto si è
perso già nel 700.
Infine sono interessanti le annotazioni relative alle tre parole che Tassoni non trova nella Crusca, ma
ritiene degne di entrare in un moderno vocabolario: regalare, scena e stradiotti. Regalare compare
in italiano solo a partire dal XVI secolo: la parola è giudicata un ispanismo. Quanto a scena, la
Crusca aveva accolto l’aggettivo scenico, ma non nel senso teatrale moderno; invece Tassoni si
riferisce proprio all’uso moderno del teatro. Gli stradiotti erano soldati, introdotti in Italia
dall’esercito che se ne serviva. Per Tassoni la parola è necessaria per intendere storie moderne dei
toscani, perchè il termine ricorre in Machiavelli e Guicciardini; naturalmente la Crusca si guardava
bene dal registrare una parola del genere, non antica, di origine settentrionale (veneta) e di impiego
rigorosamente tecnico.

IL SETTECENTO
• L’italiano e il francese nel quadro europeo
All’inizio del 700, le lingue europee di cultura che detenevano un solido prestigio internazionale
erano poche, e in testa a tutte stava ormai il francese. Il latino manteneva una solidissima posizione
a livello internazionale.
La lingua di comunicazione elegante da usare con i viaggiatori stranieri nei territori di lingua
tedesca era il francese, ma anche l’italiano aveva una posizione di prestigio, soprattutto a Vienna.

• Filosofia del linguaggio


Dopo la pubblicazione della qquarta edizione del vocabolario della Crusca, corretta e ampliata, ma
pur sempre incentrata sul canone selettivo toscano si manifestarono reazioni decisamente
polemiche, di stampo illuministico.
E’ celebre la Rinunzia avanti notaio al vocabolario della Crusca scritta da Alessandro Verri, che in
questo intervento mostra una grande insofferenza nei confronti dell’autoritarismo fiorentino.
Caratterizzato dal tono sarcastico, in cui si denuncia lo spazio eccessivo che le questione retoriche e
formali hanno avuto nella cultura italiana, a tutto svantaggio del concreto progresso.
La posizione che meglio esprime gli ideali illuministici viene espressa alla fine del secolo da
Melchiorre Cesarotti, dove nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue affronta una serie di
enunciazioni teoriche e il problema della lingua orale e lingua scritta; in cui quest’ultima ha una
superiore dignità, in quanto momento di riflessione e strumento con il quale operano i dotti.
Principi fondamentali del suo pensiero relativamente alla lingua scritta sono i seguenti: essa non
dipende dal popolo, ma nemmeno dagli scrittori approvati; non può essere fissata nei modelli di un
certo secolo, e non dipende dal “tribunale dei grammatici”.
Cesarotti indica la via verso una normativa illuminata, d contrapporre a quella troppo rigida della
Crusca. Non invoca la libertà da ogni regola; riconosce il valore dell’uso, quando esso accomuna
scrittori e popolo. La quarta parte del saggio, la conclusione del trattato, è dedicata ad esaminare la
situazione italiana e a proporre soluzioni positive alle polemiche della questione della lingua.
• Riforme scolastiche e divulgazione
Si incominciò a pensare che anche la conoscenza della lingua italiana dovesse entrare nel bagaglio
di cui ogni uomo doveva essere provvisto per assumere un ruolo nella società produttiva. E’ questo
il secolo in cui l’italiano entra per davvero nella scuola, in forma ufficiale, in alcuni stati italiani,
seppur in modo timido e marginale.
Una simile svolta è determinata da una sensibilità nuova per i temi della divulgazione e della
diffusione della cultura nei ceti medi, se non proprio tra il popolo.
La situazione delle riforme scolastiche italiane è dunque in realtà disuguale, diversa da stato a stato.
Varie voci si levarono nel 700 contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli. La polemica
del latino, accusato di essere il freno di questo progresso, non era stata altrettanto vivace prima del
700; fu degli intellettuali più moderni e anticonformisti del secolo precedente, come Tassoni e
Sarpi.
Alla fine del 700 furono avviate riforme nella scuola del Lombardo-Veneto, grazie alla politica
scolastica di Maria Cristina d’Austria. Fu ideato a Berlino, e giunse fino in Italia attraverso
l’Austria un nuovo metodo didattico, detto normale, in cui per la prima volta prendeva forma l’unità
della classe, concepita in maniera moderna, come un gruppo a cui venivano impartiti insegnamenti
in vista di obiettivi didattici unitari. Dalla riforma austriaca nacque anche l’idea di una scuola
comunale con il compito di insegnare a leggere e scrivere. Questa scuola fu istituita a partire
dall’800, negli stati dell’Italia settentrionale.

• La lingua della conversazione


Il toscano era sempre riservato alle situazioni ufficiali, ai libri, ma restava estraneo alle situazioni
familiari, alla conversazione, ai rapporti confidenziali. Lo spazio della comunicazione familiare era
occupato dai dialetti.
Foscolo parla di linguaggio mercantile e itinerario usato da coloro i quali, come i mercanti, erano
abituati a muoversi nelle varie regioni italiane; osserva Foscolo che l’uso di una lingua non
dialettale nella propria patria avrebbe rischiato di creare problemi di comprensione, o sarebbe stata
considerata una affettazione di letteratura. Manzoni, da parte sua, descrive i caratteri del cosiddetto
“parla finito”, la lingua ritenuta elegante, che consisteva appunto nell’usare le parole che si
supponevano italiane, e nell’aggiungere finali italiane alle parole dialettali terminanti per
consonante.
Nelle città e nelle campagne del settentrione e del mezzogiorno si parlava di solito in dialetto, e ciò
valeva non soltanto per i popolani, ma anche per i borghesi e per i nobili; solo eccezionalmente la
lingua della conversazione era l’italiano, venato di dialetto; nelle occasioni più solenni predominava
l’italiano di tipo letterario e di registro alto. Questa situazione era tale da far nascere il vero e
proprio topos secondo il quale la lingua italiana non poteva essere classificata appieno tra le lingue
vive o addirittura era da classificare tra le morte.

• Il linguaggio teatrale e il melodramma


Il successo dell’opera italiana nel 700 fu molto grande, anche all’estero, e contribuì a fissare lo
stereotipo dell’italiano come lingua della dolcezza, del canto, della poesia, dell’istinto e della
piacevolezza.
Lo stile musicale italiano trovò paladini del calibro di Voltaire, Rousseau e Diderot. Il linguaggio
dell’opera influenzò anche l’italiano imparato da alcuni stranieri.
Ad esempio Mozart conosceva l’italiano e lo adoperava in forme curiose e vivaci, che spesso
scendono verso il familiare, il popolare, il triviale e il giocoso, mescolando a volte italiano, tedesco
e persino francese e latino.
Non esistendo in Italia una vera e propria lingua comune di conversazione, un autore teatrale che
volesse simulare il parlato senza imparare il toscano vivo era costretto a ricorrere al dialetto, oppure
a impiegare una lingua mista, in cui entravano elementi diversi, dialettismi, francesismi, modi
colloquiali di vario tipo. Goldoni optò via via per l’una o l’altra soluzione: scrisse opere in dialetto
veneziano, in italiano, e infine scrisse anche in francese, essendosi trasferito a Parigi. L’italiano
teatrale di Goldoni è estraneo a preoccupazioni di purezza: lingua non elegante, dunque, ma viva,
per quanto ciò era possibile nell’Italia settecentesca, lingua innovativa, specialmente sul piano della
sintassi, che va incontro a tendenze tradizionali della prosa accademica italiana. In Goldoni
affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti sempre ai margini della norma
grammaticale, come le ridondanze pronominali.

• Linguaggio poetico
Permane nel linguaggio della poesia del 700 una sostanziale adesione al passato, visibile anche
l’impiego fino alla sazietà della toponomastica e onomastica classica, della mitologia, con relativo
largo uso di latinismi e arcaismi.
Altri procedimenti vistosi nella poesia del 700 sono i troncamenti, specialmente quelli del verbo
all’infinito (arrossir, parlar..). I troncamenti, come gli abbondanti arcaismi e latinismi, hanno lo
scopo di distinguere la poesia dalla prosa, di salvare cioè i versi dal rischio di scivolamento nella
banalità prosaica. Per porre riparo a tale rischio, tra due termini si tende a scegliere quello più raro e
letterario (duolo piuttosto che dolore, talamo anziché letto..).

• La prosa letteraria
Viene inclusa nella prosa letteraria la saggistica. La prosa saggistica si avvia verso una sostanziale
semplificazione sintattica.
Verri nel suo scritto Difetti della letteratura dichiara la propria ammirazione per l’ordine della
scrittura francese e la brevità della scrittura inglese. Lamenta, viceversa, la penosa trasposizione
dello stile italiano, la vanità dei vocaboli selezionati in base a criteri retorico-formali.
Nelle Notti romane, esempio di prosa coerente con il tema, si propone quale nobile modello
neoclassico, con latinismi e una generale sostenutezza oratoria che può forse stupire in uno scrittore
che aveva invocato una vera e propria rivoluzione linguistica.
Da una parte i riformatori auspicavano uno stile tutto cose, piano, divulgativo, moderno libero,
dall’altra non solo facevano fatica a realizzare tale stile, ma molte volte addirittura vi rinunciavano.
Vittorio Alfieri non perse occasione di parlare male della lingua francese e per descrivere il proprio
faticoso apprendimento del toscano classico.

TRATTATISTICA ILLUMINISTA E USO DEL FRANCESE


• Gli illuministi della rivista “il caffè”
Nel 700, al più decisiva voce di protesta contro l’autoritarismo linguistico arcaizzante venne dal
gruppo degli intellettuali milanesi del Caffè, periodico di grande rilievo culturale, espressione degli
ideali illuministici, pubblicato tra il giugno 1764 e il maggio 1766. I redattori erano avversari della
Crusca, simbolo di questa posizione conservatrice. Di fondamentale importanza nelle discussioni
sulla “questione della lingua” è l’articolo di Alessandro Verri; un pamphlet dal tono sarcastico nel
quale non solo veniva respinta l’autorità della lingua toscana, ma veniva messo da parte ogni ideale
di ricerca stilistica. Verri denunciava infatti lo spazio eccessivo occupato in Italia dalle questioni
retorico-formali, le parole, a danno delle cose, ovvero del concreto progresso della cultura. La
parola doveva essere strumento al servizio delle idee.
Il testo si presenta diviso in brevi paragrafi numerati; tale strutturazione del testo faceva parte di un
rigoroso programma di chiarezza e concisione che prevedeva la limpida organizzazione delle idee e
l’adozione di una sintassi semplice e agile, ispirata al modello francese. L’autore fa appello alla
libertà espressiva, all’importanza dei contenuti, alla facoltà di introdurre forestierismi nel lessico, al
naturale processo di arricchimento proprio di tutte le lingue. Nel saggio vengono condannati i
modelli formali tradizionali, dominati dalla smania retorica per la sovrabbondanza.

• Cesarotti, dal Saggio sulla filosofia delle lingue


Nel saggio è dato trovare la sintesi esemplare di tutte le migliori idee sulla lingua elaborate
dall’Illuminismo. Gli argomenti sostenuti mostrano la maturità del pensiero illuminista in campo
linguistico. La modernità della strutturazione del testo, caratterizzato dalla fitta numerazione dei
paragrafi, in modo da individuare con chiarezza il contenuto di ciascuno di essi. L’argomentazione è
priva di ornamenti retorici oziosi ed evita le divagazioni.
Cesarotti non ha scelto la forma dialogica, poiché nel 700 era avvertita come ormai arcaica.
Lo stile argomentativi risulta chiaro, fittamente articolato, già indirizzato verso il modello moderno
di scrittura saggistica.
Un altro tema tipicamente illuminista è la fiducia nel miglioramento delle lingue. In base a questo
principio si pensava che le lingue moderne potessero diventare migliori di quelle antiche. Questo
poteva essere frutto di un atteggiamento modernista e anticlassico. All’inizio dell’800, tale principio
fu ribaltato: il purismo primo ottocentesco collocò la perfezione linguistica nell’aureo 300.
Un elemento innegabilmente innovativo e democratico della teoria di Cesarotti è quello che vede
nella lingua la necessità di un consenso della maggioranza, attraverso il quale viene limitato
l’arbitrio dei grammatici e si valorizza l’uso. Esemplari sono le sue argomentazioni contro il
rigorismo purista e filotoscano.

• Il francese e gli appunti di lingua di Alfieri


Nel 700 il francese divenne la lingua più importante d’Europa. Tramontata la funzione del latino
come lingua di scambio internazionale, il francese riuscì a raggiungere una posizione paragonabile a
quella oggi propria dell’inglese.
In Italia, nel 700, non vi era persona colta che non fosse in grado di leggere il francese e di
adoperarlo nella conversazione.
Alfieri avviò per la prima volta un suo diario personale, iniziò a scriverlo in francese e non in
italiano. Quando si preoccupò di migliorare il proprio italiano, raccolse appunti in cui le forme
toscane erano affiancate a quelle francesi e a quelle piemontesi. Il piemontese era il dialetto naturale
della sua regione di origine, il francese era la lingua conosciuta da tutti i piemontesi di elevata
condizione. Ci fu, nel 1777, un improvviso passaggio all’italiano, dopo un lungo silenzio, che
mostra l’ambizione letteraria da cui egli era animato, tanto da volersi porre in competizione con
Ariosto.

• Goldoni veneziano, italiano e francese


Goldoni seguì il cammino inverso di Alfieri: dopo aver conquistato una solida fama in Italia con le
commedie in dialetto veneto e in italiano, si trasferì a Parigi, dove scrisse anche un paio di
commedie in lingua francese. In francese sono le sue memorie, di natura colloquiale e disinvolta.
Goldoni scrisse molte splendide commedie in veneziano, talora anche allargando il campo a varietà
non strettamente cittadine, ad esempio usando la parlata di Chioggia. Però non usa sempre il
dialetto, poiché si trovava a dover preparare spettacoli per un pubblico differente da quello veneto,
adottò sovente la lingua italiana. Infatti, mentre il dialetto veneto poteva essere modellato sul reale
uso dei vari ceti sociali, del popolo, dei borghesi, dei nobili, dando l’immagine di una realtà
linguistica verisimile, l’italiano della conversazione restava incerto, rischiava di suonare innaturale
e artificioso. Goldoni cercò dunque di utilizzare in scena una sorta di lingua media, la quale tuttavia
suscitò le critiche di alcuni censori, che la ritenevano sciatta.

L’OTTOCENTO
• Purismo e classicismo
Il purismo è caratterizzato dall’intolleranza verso ogni innovazione e da una marcata esterofobia.
Un atteggiamento del genere ebbe per inevitabile conseguenza un forte antimodernismo e il culto
dell’epoca d’oro della lingua italiana, identificata nel 300. Il capofila fu Antonio Cesari, autore di
libri religiosi, di novelle, di studi danteschi, ma soprattutto celebre per la sua attività lessicografica.
Secondo Cesari il canone della perfezione linguistica veniva esteso ben al di là delle opere degli
autori, massimi o minori che fossero. Si apprezzavano qui non solo gli autori letterari, ma anche le
umilissime scritture quotidiane, le note contabili, i libri dei mercanti fiorentini. Cesari compilò un
dizionario più cruscante di quello della Crusca, la cosiddetta Crusca veronese, così chiamata per
realizzata a Verona.
Altri puristi furono Basilio Puoi, Carlo Botta, Luigi Angeloni.
Vincenzo Monti, all’apice della sua celebrità letteraria ebbe la forza e l’autorevolezza per opporsi
alle esagerazioni del purismo: rinfacciò a Cesari di aver dato una versione del Vocabolario della
Crusca apparentemente più ampia. In seguito la polemica assunse una dimensione ancor più ampia,
perchè la critica anrtipurista di Monti arrivò a colpire direttamente il Vocabolario della Crusca nella
versione fiorentina.
Lo scontro con i puristi mosse le acque della riflessione linguistica nel nostro paese, e si svolse in
gran parte ad opera della cultura di Milano, con qualche appoggio torinese.
Anche Stendhal condannò il purismo in un suo scritto, mettendo a fuoco molto bene la particolare
situazione linguistica del nostro paese, caratterizzato dalla vitalità dei dialetti e dall’artificiosità
della lingua letteraria.

• La soluzione manzoniana alla “questione della lingua”


La teoria linguistica manzoniana segna una svolta nelle discussioni sulla questione della lingua.
Manzoni affrontò la questione della lingua a partire dalla sua esperienza di romanziere. Iniziò ad
occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, durante la relazione del romanzo che
diventò poi I Promessi Sposi, e che ebbe per titolo Fermo e Lucia. La prima fase delle sue prove
linguistiche, quella del Fermo e Lucia, viene definita di solito come “eclettica”, perchè egli cercava
di raggiungere uno stile duttile e moderno mediante il ricorso a vari elementi, utilizzando il
linguaggio letterario, ma senza vincoli alla maniera dei puristi, anzi accettando francesismi e
milanesismi, o applicando il principio regolatore dell’analogia.
Nella seconda fase del Fermo e Lucia prende ormai le distanze dallo stile composito della fase
eclettica e lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo, ammettendo il fallimento.
La seconda fase che chiamò toscano-milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per la
prima edizione, del 1825-27 (la ventisettana); a questo punto lo scrittore si orienta già verso una
lingua genericamente toscana, ma ottenuta per via libresca, attraverso vocabolari e spogli lessicali,
secondo un metodo documentato anche dalle postille della copia in un suo possesso del Vocabolario
della Crusca nell’edizione veronese del Cesari.
Questo studio libresco non poteva bastare, se ne rese conto ed elaborò un concetto di uso molto più
vitale e innovativo.
Nel 1827, dopo la prima pubblicazione del romanzo, andò a Firenze. A partire dal 1830 la
riflessione linguistica di Manzoni si sviluppò con maggiore impegno: l’esito pubblico di questo
travaglio linguistico fu la nuova edizione illustrata dei Promessi Sposi detta quarantana (1840-42),
corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso resa scorrevole, purificata dai latinismi,
dialettismi ed espressioni letterarie di sapore arcaico. Si trattava del linguaggio fiorentino dell’uso
colto, senza alcun eccesso di affettazione pubblica.
Manzoni espresse la propria posizione definitiva auspicando che la lingua di Firenze completasse
quell’opera di unificazione che già in parte si era realizzata sulla base di quanto vi era di vivo nella
lingua letteraria toscana. Per la prima volta la questione della lingua si collegava così strettamente a
una questione sociale, finalizzata all’organizzazione della scuola e della cultura nel nuovo regno
d’Italia. Quest’ultima fase della riflessione linguistica manzoniana coincise però con una vivace
polemica. Intellettuali come Tommaseo presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione
degli scrittori nella regolamentazione della lingua e sollevando dubbi di varia natura sul primato
assoluto dell’uso vivo a Firenze.
La teoria manzoniana ebbe effetti rilevanti; ciò si spiega con la forza di penetrazione dei Promessi
Sposi modello esemplare di prosa elegante e colloquiale al tempo stesso, di cui non si era mai visto
l’uguale nel nostro paese.

• La stagione d’oro della lessicografia


L’ottocento è stato il secolo dei dizionari:
- La Crusca Veronese di Cesari, nella quale aveva riproposto un’edizione arricchita del
Vocabolario della Crusca, con una serie di giunte, allo scopo di esplorare ancor di più il fondo
repertorio della lingua trecentesca.
- Il Vocabolario della lingua italiana di Manuzzi, anch’esso nato da una rivisitazione della Crusca.
- Il Vocabolario universale italiano della società tipografica napoletana Tremar, la cui base era
ancora la Crusca; l’opera però aveva un taglio tendenzialmente enciclopedico e dedicava
particolare attenzione alle voci tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri.
- Il Dizionario di Tommaseo, caratterizzato per l’originalità, in cui si preoccupò di illustrare
attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e letterarie. Uno dei suoi punti di forza era la
strutturazione delle voci. Il criterio seguito consisteva nel dichiarare l’ordine delle idee a partire
dal significato più comune e universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati
diversi di una parola, individuati da numeri progressivi, e privilegiando sostanzialmente l’uso
moderno, pur documentando allo stesso tempo, attraverso esempi attinti agli scrittori delle varie
epoche, l’uso del passato. Fu il primo vero vocabolario storico della nostra lingua, proprio per la
sua capacità di coniugare il criterio della sincronia con quello della diacronia.
- Il Giorgini-Broglio, con impostazione manzoniana e ispirato al fiorentinismo dell’uso vivo. Al
posto delle citazioni tratte dagli scrittori, presentava una serie di frasi anonime, testimonianza
dell’uso fiorentino contemporaneo. Allo stesso tempo venivano eliminate le voci arcaiche.
L’ottocento fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale, infatti risalgono a questo periodo
tutti i più importanti vocabolari del genere. L’interesse romantico per il popolo e per la cultura
popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il dialetto, considerato non più italiano
corrotto ma una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la sua storia parallela a quella della
lingua nazionale.

• Effetti linguistici dell’unità politica


Al momento dell’unità politica italiana, nel 1861, non si può di certo dire che il nostro paese avesse
già raggiunto una corrispondente unità culturale e linguistica. In comune, tra i vari stati italiani,
c’era soltanto un modello italiano letterario elaborato dalle classi dirigenti e dal ceto intellettuale.
Mancava quasi completamente una lingua comune della conversazione, la quale si può sviluppare
solo attraverso scambi fitti, in un’omogenea vita civile e sociale.
Il numero degli italofoni, cioè di coloro che erano in grado di parlare italiano, era allora
incredibilmente basso. Al momento della fondazione del Regno d’Italia quasi l’80% degli abitanti
era ufficialmente analfabeta, come risulta dai dati del primo censimento che si tenne allora. Non
tutto il restante 20% però sapeva usare l’italiano. L’essere alfabeta dunque non significava avere un
reale possesso della lingua scritta.
I toscani hanno un possesso naturale della lingua, per la vicinanza tra il toscano parlato e l’italiano
letterario. I romani, i cittadini della città papale, parlano un dialetto che è molto toscanizzato e che
molto si avvicina al toscano, anche se non si identifica con esso. I toscani e i romani che hanno
conseguito un’istruzione elementare hanno un possesso accettabile della lingua.
Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque
gratuita e obbligatoria, secondo l’ordinamento previsto per lo stato sabaudo della legge Casati del
1859, che fu estesa al territorio che via via entrava a far parte dello stato nazionale. La legge
Coppino del 1877 rese effettivo l’obbligo della frequenza, almeno per il primo biennio, punendo gli
inadempimenti. La scuola considerate le condizioni di allora, incise profondamente sulla realtà
italiana, anche se esistevano condizioni di grave disagio e in certi casi i maestri usavano il dialetto
per tenere lezione, essendo incapaci di far meglio, o essendo essi stessi gravemente impacciati
nell’uso della lingua.
Le cause che hanno portato all’unificazione linguistico italiana dopo la formazione dello stato
unitario possono essere così riassunte:
- Azione unificante della burocrazia e dell’esercito
- Azione della stampa periodica e quotidiana
- Effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione
- Aggregazione attorno a poli urbani

• Le teorie di Ascoli
Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contestate da Ascoli, il fondatore della linguistica
e della dialettologia italiana. L’intervento di Ascoli era rivolto in realtà soprattutto contro i seguaci e
gli imitatori del maestro. In sostanza Ascoli escludeva che si potesse disinvoltamente identificare
l’italiano nel fiorentino vivente e affermava che era inutile quanto dannoso aspirare a un’assoluta
unità della lingua, così come non si dovevano combattere certe forme linguistiche suggerite dalle
parlate di altre regioni.
L’unità della lingua, per contro, sarebbe stata una conquista reale e duratura solo quando lo scambio
culturale nella società italiana si fosse fatto fitto, quando il paese fosse diventato moderno ed
efficiente.
Macoli è severo con la Toscana, la giudica una terra fertile di analfabeti con una cultura stagnante;
una regione quindi incapace di guidare il progresso del nuovo stato italiano.

• Il linguaggio giornalistico
Nell’800 il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore a quella che aveva avuto in
precedenza. Nella prima metà del secolo un fatto oggettivo quale l’aumento delle tirature finì per
avere conseguenze pratiche e la prosa dei giornali cominciò a trovare la sua strada,
modernizzandosi. Nella seconda metà del secolo il giornalismo diventò fenomeno di massa. Le
edicole furono il punto di vendita della stampa periodica, prima diffusa soprattutto attraverso gli
abbonamenti.
Il giornale, quello ottocentesco come quello di oggi, è linguisticamente tanto più interessante per il
fatto che è composto da parti diverse: la lingua della cronaca non è identico a quella degli articoli
politici o letterari, né a quella delle pagine che si occupano di economia. Compare sui fogli
periodici la pubblicità, in forma di annunzi che spesso contengono termini nuovi o parole regionali,
puntualmente censurate dai puristi.
• La prosa letteraria
Questa è l’epoca in cui si fonda la moderna letteratura narrativa, attraverso due fondamentali svolte,
legate a nomi di grande prestigio, Manzoni e Verga. Manzoni ebbe il merito di rinnovare il
linguaggio non solo del genere del romanzo, ma anche nella saggistica, avvicinando decisamente lo
scritto al parlato.
La prosa letteraria della prima metà dell’800 era ancora sostanzialmente condizionata da due diversi
modelli legati al passato, quello puristico e quello classicistico.
I puristi imitavano la letteratura antica e scrivevano alla maniera del Boccaccio. I classicisti in
genere si ispiravano alla grande tradizione del rinascimento, non amando affatto gli arcaismi
medievali di sapore cruscante.
Una svolta nella prosa letteraria è comunque quella segnata da Manzoni nei Promessi Sposi. L’uso
manzoniano ha in certi casi influenzato il destino della lingua italiana:
- Diffusione di lui e lei soggetto
- Adozione dell’imperfetto in -o per la prima persona (io amavo invece che io amava)
- Eliminazione delle forme pel e col, sostituite con per il e con il
- Generale eliminazione della d eufonica dai monosillabi ad/ed tranne che davanti a vocale
identica
Un diverso uso del toscanismo si ha negli scrittori che il critico Contini ha ascritto nella cosiddetta
linea del mistilinguismo, espressionismo linguistico ottocentesco. Tra i membri troviamo Carlo
Dossi, Giovanni Faldella, Vittorio Imbriani; lo stile di questi autori si caratterizza per l’uso di forme
linguistiche attinte a fonti diverse: toscano arcaico, toscano moderno, linguaggio comune e dialetto
si trovano a coesistere in una miscela composita.
Ben altra importanza ebbe la svolta inaugurata da Verga, soprattutto nei Malavoglia. Verga non
abusa del dialetto e non lo usa come macchina locale, come inserto confinato nel discorso diretto
dei personaggi dialoganti. Si tratta di adattare la lingua italiana plausibile strumento di
comunicazione per i personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare, senza per altro regredire a un
dialetto usato in maniera integrale. Lo scrittore adotta dunque alcune parole siciliane note in
tutt’Italia e poi ricorrere a innesti fraseologici.
Tratti popolari sono anche i soprannomi dei personaggi, l’uso del che polivalente, la ridondanza
pronominale, il ci attualizzante, gli per loro. Questi tratti popolari servono a simulare un’oralità
viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni.
Molto nuova risulta la sintassi usata da Verga, in particolare per il discorso indiretto libero, in cui
non vengono aperte le virgolette, quindi apparentemente è ancora lo scrittore a riferire le parole o i
pensieri del suo personaggio, ma alla voce della scrittore affiorano modi e forme che sono propri
del discorso diretto: il lettore si accorge che non sta più ascoltando la voce dell’autore-narratore, ma
quella del personaggio, con le sue caratteristiche e il suo livello di espressione.

• Il linguaggio poetico
Si caratterizza, almeno all’inizio del secolo, per la fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in
coincidenza con l’affermarsi del neoclassicismo in Vincenzo Monti, ma anche in Foscolo. Il lessico
viene selezionato in modo da ascriversi alla serie di parole nobili, diverse da quelle proprie della
quotidianità. Tale doppia serie lessicale fatta di cultismi che distingue le parole dalla poesia da
quelle della prosa, fu una caratteristica del linguaggio letterario italiano almeno fino alla svolta
novecentesca. Nel caso di parole che non erano diverse in prosa e in poesia, per nobilitarle nella
forma si rincorreva con facilità alla sincope (spirto per spirito) o al troncamento (mar non mare) e
sono tronchi anche gli infiniti dei verbi in tutte e tre le coniugazioni.
L’800 fu un secolo in cui ebbe anche eccezionale sviluppo la poesia in dialetto: Porta e Belli
rappresentano i più alti esponenti. Belli chiosò i propri sonetti con note esplicative, le quali
illustrano anche alcune parole poi passate alla lingua nazionale, come “fregarsene” (fregammene),
cazzata “sciocchezza”, fesso “sciocco”. Quanto alla poesia di Porta, essa si lega fra l’altro a
un’interessante polemica sul ruolo del dialetto e della letteratura dialettale.

MANOZONI, MANZONIANI E ANTIMANZONIANI


• Manzoni postillatore della Crusca Veronese
Manzoni si avvicinò al toscano per via libresca. Documentano la sua assidua ricerca della lingua
toscana le postille apposte al Vocabolario della Crusca, dell’edizione di Cesari. Molte di queste
postille mostrano l’insoddisfazione dello scrittore che non era tuttavia in grado di sapere con
certezza se le forme linguistiche prese in esame fossero ancora vive. Cercava la lingua della
conversazione comune, realmente usata dai parlanti toscani, per impiegarla nel romanzo al quale
stava lavorando.
Ad esempio alla voce Impastare, aggiunge il significato di “far la pasta, mescolar cioè la farina
coll’acqua”, il primo significato che viene in mente anche a un lettore moderno, ma che mancava
nella Crusca.
Talvolta le postille consistono semplicemente nell’aggiunta di esempi, o indicazioni relative a dubbi
sull’impiego di un termine, o suggeriscono equivalenze con il francese o il milanese o ancora
correzioni agli inappropriati esempi di Crusca.

• Correzioni manzoniane ai Promessi Sposi: l’edizione interlineare


La lingua a cui aspirava il fiorentino dell’uso colto, senza alcun eccesso di affettazione locale, una
lingua purificata da latinismi, dialettisimi ed espressioni letterarie di sapore arcaico. La revisione si
basò sulla’avvicinamento a un linguaggio più naturale e comune, meno letterario.

• Una correzione manzoniana con figura


La pagina contiene anche un disegno dell’illustratore Gonin, che lavorò in stretta collaborazione
con Manzoni: nella figura si vede Menico che gioca a rimbalzello, quel gioco che consiste nel far
rimbalzare sassi piatti sulla superficie dell’acqua. Questo gioco è stato introdotto da Manzoni con il
nome proprio di rimbalzello solo nella quarantana. Il disegno di Gonin era molto utile per
comprendere quel toscanismo ancora privo di attestazioni letterarie; quindi l’illustrazione fu dunque
inserita come una sorta di didascalia.

• I quesiti manzoniani a Emilia Luti


Quando Manzoni aveva già compiuto una revisione della ventisettana utilizzando le indicazioni di
amici toscani, incominciò ad avvalersi anche dell’aiuto dell’istitutrice fiorentina Emilia Luti. La
donna passò un anno in casa Manzoni facendo da consulente linguistica. Quando uscì la quarantana,
Manzoni ne mandò un esemplare alla Luti con la dedica contenente la celebre frase dei cenci
“risciacquati in Arno”.

• La relazione del 1868


Nel 1868 il ministro della pubblica istruzione Emilio Broglio nominò una commissione col compito
di studiare e proporre metodi per diffondere la buona lingua in tutta la nazione e procedere così
all’unificazione linguistica del regno. La commissione era divisa in due sezioni, sotto la presidenza
di Manzoni.
Per diffondere il fiorentino, Manzoni proponeva una capillare politica linguistica messa in atto nella
scuola, la realizzazione di un vocabolario compilato sull’uso vivente di Firenze, la redazione di
vocabolari bilingui che fornissero ai parlanti dei vari dialetti il corrispondente toscano dei loro
vocaboli. Manzoni propose un modello di unificazione linguistica richiamandosi agli esempi del
francese e del latino, che erano semplicemente degli idiomi di due grandi città.
Il punto debole della questione manzoniana era quello di non tener conto del policentrismo della
penisola; l’Italia aveva infatti molti poli urbani anche più notevoli di Firenze, come Roma.

• Due dizionari dell’ottocento: il Giorgini-Broglio e il Tommaseo-Bellini


Il Novo dizionario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze fu curato da Giorgini, genero di
Manzoni, e dal ministro della pubblica istruzione Broglio. Fin dalla prima parola del titolo, novo
monottongato nuovo, veniva vistosamente esibita la fiorentini del repertorio.
Il Giorgini-Broglio si caratterizza per una profonda carica innovativa, determinata in primo luogo
dall’orientamento sincronico volto a raccogliere una lingua viva, con esempi tratti dall’uso, non da
attestazioni di scrittori e da testi reputati canonici.
Secondo Manzoni la funzione del vocabolario doveva essere quella di diffondere la lingua viva di
Firenze; principalmente doveva guidare i parlanti e gli scriventi al corretto uso della lingua viva,
registrando prima di tutto il significato corrente di ogni lemma. I sintagmi e le forme idiomatiche
presenti nel dizionario sono molte, come molte erano del resto nella Crusca, con la differenza che il
Giorgini-Broglio registra solo quelle che risultano effettivamente in uso.
La più grande impresa lessicografica del XX secolo fu affidata dall’editore Pomba a Tommaseo,
scrittore di successo. Il nuovo grande dizionario fu pubblicato tra il 1861 e il 1879. Fu il più grande,
ricco e importante dizionario della lingua italiana mai realizzato ed ebbe notevole successo
editoriale. Tommaseo morì quando si era giunti alla lettera S, così per svolgere l’imponente lavoro
fu affiancato da una squadra di collaboratori, fra cui Bellini.
Il vocabolario abbandonò l’antico impianto della Crusca, rinnovando la struttura delle voci,
articolate con una precisa gerarchia, dalle accezioni più comuni e diffuse del termine a quelle più
arcaiche. Più consistente rispetto agli altri repertori è anche il numero di esempi, che però non
seguono un canone rigido e presentano talvolta riferimenti nuovi a manuali e trattati di scienze.
L’apertura verso la tecnica è un’altra caratteristica importante, al quale collaborarono pure ingegneri
e militari.

• Il proemio all’archivio glottologia italiano di Ascoli


Ascoli interviene sulla questione della lingua, fino ad allora materia esclusiva del dibattito tra
letterati, sostenendo posizioni avverse ai manzoniani. Egli riteneva che l’italiano non potesse essere
identificato nel fiorentino moderno, una lingua ormai diversa da quella che si era imposta in tutta la
penisola nell’uso letterario. Reputava inoltre sbagliato e infruttuoso imporre rigidi modelli ed era
favorevole ad accogliere forme linguistiche tratte dalle parlate di regioni diverse dalla Toscana.
La situazione dell’Italia, a suo giudizio, non era dunque paragonabile a quella della Francia, ma a
quella della Germania, dove il tedesco etra divento lingua nazionale nonostante le divisioni
politiche, dialettali e religiose.
Ascoli obiettava che la discesa verso il parlato non doveva toccare la comunicazione di carattere
elevato, necessaria in alcuni ambiti, come quello della scienza o della politica.
Ascoli critica la familiarità dello stile ispirato all’eccessiva colloquialità, messa in atto dai seguaci
di Manzoni. Lo stile di Ascoli è elevato, in alcuni punti ostico, talora quasi scostante.

IL NOVECENTO E L’INIZIO DEL NUOVO MILLENNIO


• Nuove tendenze novecentesche: l’italiano delle masse popolari
Il novecento è stato un secolo decisivo per la storia della lingua italiana, perchè in esso si sono
realizzati mutamenti considerevoli nell’uso linguistico, specialmente se si considera l’esito dal
punto di vista sociale.
Nel novecento si ebbe inoltre un’industrializzazione senza precedenti, con la formazione di grandi
agglomerati urbani. Questo fenomeno riguarda sia la prima sia la seconda metà del secolo. Simili
concertazioni si crearono con lo spostamento di abitanti dalle zone rurali, successivamente dal
Mezzogiorno verso il nord, e gli spostamenti di popolazione non sono mai conseguenze
linguistiche. Infine va considerato che il novecento è il secolo in cui progredirono con sviluppo
eccezionale le tecnologie, anche nel campo della comunicazione, della parola trasmessa. Dapprima
fu la radio, poi la televisione, infine negli ultimi decenni del secolo si ebbero la crescita
dell’informatica e della telematica, con la nascita di internet e della telefonia mobile.
L’italiano per secoli era stato utilizzato soprattutto nella letteratura, mentre lo spazio della
comunicazione quotidiana era affidato ai dialetti. Nel novecento i dialetti rimasero vivi e vitali, pur
avvicinandosi in molti casi all’italiano e subendone l’influenza; pian piano la lingua nazionale si
affiancò ad essi e anche nell’uso familiare e informale, e nella seconda metà del secolo arrivò
sempre più spesso a sostituirli. L’italiano non fu più identico a quello di prima: subì un processo di
trasformazione ben più rapido di quando era avvenuto nei secoli precedenti.
Era per forza destinato a semplificarsi, a perdere parole e giri raffinati di sintassi. Una parte del
lessico tradizionale si avviò sulla strada del declino, rendendosi opaco alle capacità di comprensione
degli utenti meno raffinati. Prevalse una semplificazione delle strutture, si affermò una diminuzione
del numero delle parole davvero usate dalla maggior parte degli utenti.

• L’oratoria e la prosa d’azione dalla guerra al fascismo


Si pensi ai discorsi di Mussolini, di cui resta la documentazione radiofonica e anche
cinematografica.
D’Annunzio, poeta-soldato e uomo d’azione; accanto ai suoi discorsi, vanno ricordati i proclami e
messaggi, specialmente quelli in relazione alla questione della Dalmazia e di Fiume. Il modello
dannunziano influì sulla retorica del fascismo, anche se non fu l’unico, visto che sono stati chiamati
in causa altri ispiratori, tra i quali Carducci. Nella lingua del fascismo e di Mussolini sono stati
individuati i seguenti caratteri, che del resto non ne sono esclusivi: abbondanza di metafore
religiose, metafore militari, metafore equestri, oltre a tecnicismi di sapore romano. L’oratoria
mussoliniana si distingue in particolare per il dialogo con la folla, la quale risponde con l’ovazione
collettiva.

• La politica linguistica del fascismo


La politica linguistica del fascismo si manifestò in modo apertamente autoritario. Gli aspetti più
noti di questa politica sono la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale, la
repressione delle minoranze etniche, la polemica antidialettale.
Nel 1930 si ordinò la soppressione nei film di scene parlate in lingua straniera. Nel 1940
l’accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare
alternative, anche perchè una legge dello stesso anno vietava l’uso di tali parole nell’intestazione
delle ditte, nelle attività professionali e nelle varie forme pubblicitarie.
Durante il fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra” in cui gli interventi scientifici si
affiancarono discussioni normative. Bruno Migliorini, in particolare, elaborò una concezione
moderatamente avversa ai forestierismi, definita neopurismo. Questo neopurismo non va
identificato rozzamente con la politica xenofoba del fascismo. A Migliorini si deve fra l’altro la
brillante sostituzione della parola “regista” al francese “regisseur”. Il successo di queste funzionali
sostituzioni dimostra che non sempre l’intervento normativo è inutile o deleterio, come si pensa di
solito.
Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, va ricordato che furono pubblicati
dall’accademia d’Italia vari elenchi di parole proscritte, con indicazione dei relativi sostituti. Furono
però accettati già allora diversi termini stranieri uscenti in consonante, scelti tra quelli che ormai
avevano messo radici, come sport, film, tennis, tram, camion…
Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico
vocabolario dell’accademia della Crusca; ma anche il nuovo e moderno vocabolario del fascismo,
prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito felice. Il vocabolario dell’Accademia d’Italia
procedette all’eliminazione di molte voci antiche.
Un aspetto tra i più interessanti del nuovo vocabolario è costituito dal criterio di citazione degli
esempi, che rappresenta una sorta di compromesso tra la forma tradizionale della Crusca e di
Tommaseo e quella del Giorgini-Broglio. Nel vocabolario dell’Accademia d’Italia sono citati gli
scrittori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento preciso all’opera da
cui è tratto l’esempio ed è dato largo spazio ai novecenteschi, come D’Annunzio.

• Il linguaggio letterario nella prima metà del secolo


D’Annunzio è un consumatore onnivoro di parole, che dissemina arcaismi, tecnicismi, preziosismi;
è un compulsatore di vocabolari e di lessici specialisti. A lui si devono, fra l’altro, alcuni
neologismi, non molti, tra i quali si è bene affermato velivolo per aeroplano. Non solo D’Annunzio
fu disposto a venir a patti con le esigenze del proprio tempo, ad esempio adattandosi alla pubblicità
commerciale, ma collaborò anche con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie e
i nomi di persona latini e punici per il film del 1914 Cabiria, che narrava la guerra tra Roma e
Cartagine.
Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale, nella direzione dell’abbassamento dei toni,
si ebbe con Pascoli, con i crepuscolari e con le avanguardie. Pascoli fu innovatore, fino a includere
dialettismi, regionalismi e persino un po’ di italoamericano nel poemetto Italy, un componimento
dedicato all’emigrazione degli italiani. Nel testo ricorrono frasi pronunciate dall’emigrante ritornato
in patria, che mescola anglismi all’italiano; si riconoscono italianizzazioni di termini inglesi come
business ‘affari’, cakes ‘dolci’, accanto al toscanismo essere fiero per ‘star bene’.
Il futurismo fece appello a un provocatorio e strillato rinnovamento della forma: innovazioni tra le
più vistose ed effimere furono ad esempio l’uso di parole miste a immagini, l’uso di caratteri
tipografici di dimensioni diverse per rendere intensità e volume fonico delle parole, con effetti
paragonabili a quelli del collage, abolizione della punteggiatura, uso largo dell’onomatopea.
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori, specialmente dopo che Verga aveva mostrato la via per
la scrittura che si avvicinasse al mondo popolare e lo descrivesse dall’interno, è il dialetto. Bisogna
distinguere tra l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando variamente
dialetto e lingua. Nel novecento, anche il toscano può essere ormai considerato alla stregua di un
dialetto.

• Dal “neoitaliano” di Pasolini alla lingua standard


Dobbiamo a Pasolini un clamoroso intervento nella questione della lingua. La sua era una vera e
propria analisi sociolinguistica della situazione dell’italiano.
Egli sosteneva che era nata una nuova lingua nazionale, i cui centri irradiato stavano al Nord del
paese, dove avevano sede le grandi fabbriche, dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura
industriale. Per la prima volta la borghesia egemone era in grado di imporre in maniera omogenea i
suoi modelli alle classi subalterne, superando una tradizionale estraneità tra ceti alti e bassi.
Caratteristiche del nuovo italiano:
1) La semplificazione sintattica
2) La drastica diminuzione dei latinismi
3) La prevalenza dell’influenza della tecnica rispetto a quella della letteratura
La discussione continuò sui giornali e periodici, coinvolse un gran numero di intellettuali e
professori universitari. Intervenne ancora su temi linguistici, in un contesto molto diverso, per
rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti e per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio
dei giovani.

• Verso l’unificazione: mass media e dialetti


Si era sviluppata un’Italia ben diversa da quella povera, contadina e patriarcale della prima metà del
secolo. C’era stato un cambiamento al livello della scolarizzazione, prima di tutto. I sondaggi ci
dicono anche che è progressivamente diminuito lo spazio del dialetto. Si aggiunga che i dialetti
hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune: anch’essi, come ogni idioma di
qualunque comunità umana, mutano nel tempo. I dialetti di oggi sono dunque più italianizzati; il
fenomeno è assai interessante, anche se per antico pregiudizio si è preferito in passato prendere in
considerazione il dialetto nelle sue forme arcaiche, osservandolo soprattutto nelle località isolate,
dove si conservano fasi diacroniche anteriori.
La radio italiana nacque nel 1924. La televisione ha iniziato a trasmettere in maniera regolare nel
gennaio 1954. Il linguaggio dei giornali ha continuato anche nel 900 a svolgere un’importante
funzione, affiancato dai nuovi media trasmessi via etere, e magari proponendo un modello
qualitativamente più alto.
Gran parte della fortuna recente di parole come ABS, air-bag è affidata all’uso della pubblicità. Lo
slogan pubblicitario deve rimanere impresso e deve favorire un determinato comportamento del
potenziale acquirente. Deve suggestionare e convincere; ecco perchè la lingua delle pubblicità tende
sovente a forzare, ad esempio mediante un marcato uso dei superlativi, sia con desinenza -issimo,
sia mediante i prefissi -extra, iper, maxi, super.

• L’italiano nell’uso “medio” e la lingua “selvaggia”


Tappa importante sul cammino di un’omologazione di tutti gli italiani fu, nel 1962, l’introduzione
della scuola media unica, uguale per tutti, con obbligo scolastico fino a 14 anni. La scuola è
diventata a partire dagli anni ’60, l’obiettivo privilegiato degli interventi di coloro che vedevano
nelle forme tradizionali di insegnamento della lingua uno strumento di repressione sociale.

• L’italiano del nuovo millennio


La fonetica diffusa è quella regionale, della quale abbiamo già parlato. Inoltre nell’uso parlato sono
presenti molti elementi che non entravano nella tradizione della lingua classica ed elevata.
D’Achille osserva che nel parlato i dimostrativi sono spesso usati quasi in funzione di articoli,
rafforzati con avverbi per assumere forte valore deiettico: questo libro qui, quella porta là. Molti
verbi sono sottoposti a regolarizzazioni o semplificazioni di paradigmi irregolari: intervenì per
intervenne, soddisfava per soddisfaceva. L’imperfetto mostra una grande vitalità, perchè invade il
terreno del passato remoto, del congiuntivo e del condizionale nel periodo ipotetico.
Si presuppone di solito che l’italiano contemporaneo, nello staccarsi da alcune norme grammaticali
tradizionali, si avvii verso una forma di semplificazione. I verbi nuovi, a quanto risulterebbe, si
creano oggi in due sole coniugazioni, la prima e la terza, le quali dunque sembrerebbero le più
vitali.
L’italiano in realtà quanto alle strutture fondamentali, mostra una considerevole “tenuta” anche
dopo che si è trasformato in una lingua popolare largamente parlata.
L’italiano aziendale è un linguaggio settoriale che tuttavia non è confinato in aree limitate, perchè
viene utilizzato da un numero veramente grande di persone attive nel campo dell’economia, del
commercio, della finanza.
IL NEO-ITALIANO IN FABBRICA E IN AZIENDA
• Pier Paolo Pasolini, dalle Nuove Questioni linguistiche (1964)
La questione della lingua, da tempo silente, sembrò rinascere nel 1964-65, in seguito ad alcuni
interventi di Pasolini. Pasolini seppe captare con sensibili antenne molte novità culturali. Se ne servì
con una sorta di aggressivo eclettismo, tanto da tirarsi addosso non poche critiche, ma al tempo
stesso mostrò un intuito prodigioso. Pasolini parlò di una nuova questione della lingua in una
conferenza tenuta in varie città italiane alla fine del 1964; in cui annunciava la nascita del nuovo
italiano nazionale, un italiano “tecnologico”, non più elaborato nei tradizionali centri e nelle sedi
della cultura, non più originato dalla Toscana, da Roma, dalle università, dai libri degli scrittori ma
legato al trionfo di quello che allora veniva chiamato il “triangolo industriale”. Ai vertici di quel
triangolo erano collocate tre città, Torino, Milano e Genova: era l’area che si era più rapidamente
industrializzata.
Il passo che fece maggiormente discutere fu l’annuncio un pò ad effetto della nascita del nuovo
italiano tecnologico. L’annuncio era preceduto da due citazioni, usate come documentazione e come
prova, una tratta inaugurale dell’Autostrada del Sole, tenuto nel 1964 da Aldo Moro, l’altra ricavata
da un testo narrativo di Ottieri. Nell’italiano di Moro e di Ottieri, Pasolini identificava le novità per
le quali era portato a pensare all’avvento di un italiano diverso da quello umanistico e toscano della
tradizione letteraria.

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