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CAPITOLO II

LE VENERI NELL’ARTE LETTERARIA

2.1 La contrapposizione amorosa negli Asolani di Pietro


Bembo
La dualità della Venere come visione del mondo, durante
tutto il corso del ‘500, viene riportata anche in ambito
letterario.

Tra i vari personaggi di spicco che trattano questa tematica


nel campo suddetto, emerge la nota figura di Pietro Bembo
(1470-1547), testimone privilegiato del Rinascimento
italiano, con la sua celebre opera Gli Asolani.

Nato a Venezia il 20 maggio 1470 dal noto umanista


Bernardo Bembo ed Elena Marcello, l’autore degli Asolani
oltre a ricoprire in età adulta il ruolo di cardinale fu anche
un importantissimo scrittore, grammatico, letterario e
umanista italiano del primo Rinascimento.1

La famiglia Bembo era molto attiva nelle pratiche di vita


politica; infatti, lo stesso Pietro sin dalla tenera età seguiva
il padre durante le sue trasferte di servizio pubblico a
Firenze, ed ebbe l’onore di conoscere una figura centrale di
tutto il Rinascimento Italiano: Lorenzo il Magnifico.

1
G. PATOTA, La quarta corona: Pietro Bembo e la codificazione dell'italiano
scritto, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 124-128.

pag. 1
Per tutta l’infanzia fu allievo di Angelo Poliziano, «il
maestro giovane ancora e con tutta l’asprezza polemica
della giovinezza, ma riverito ormai da molti e ascoltato da
tutti, di un umanesimo nuovo».2

Un umanesimo consolidato da quella che è la filologia


classica, dominata quindi dalla tradizione greca e latina a
cui, però, il Poliziano aggiunse un nuovo elemento: la
lingua toscana.

Secondo il giovane maestro, ai greci e ai latini facevano


seguito, senza disparità, i poeti toscani.3

Pietro Bembo all’età di ventun anni si allontanò da Venezia


per andare a studiare il greco in Sicilia, più precisamente a
Messina, alla scuola del celebre maestro Costantino
Lascaris.

Qui studiò per sette anni e durante questo soggiorno,


lontano da Venezia, il Bembo visse una quotidianità dedita
allo studio che fece emergere in lui la sua già innata
vocazione letteraria.

In questo ambiente siciliano si distacca quindi da quelle


condizioni di vita veneziane in cui, essendo figlio
primogenito di uno dei più autorevoli senatori della città, gli
avevano già spianato la strada dei pubblici uffici e degli
onori politici.

2
P. BEMBO, Introduzione, in Prose e Rime, a cura di Carlo Dionisotti, cit., Torino,
Utet, 1966, p.8.
3
Ibidem.

pag. 2
Certamente, quella pubblica era una carriera che andava in
contrasto con la vocazione del Bembo, più propenso verso
una carriera letteraria.

Egli mirava a ben altro che seguire le orme paterne, anche


se lo stesso Bernardo Bembo si era appassionato alla nuova
cultura umanista, difatti oltre a collezionare libri egli vedeva
nella dottrina, nella poesia, nella letteratura degli antichi e
dei moderni, elementi utili per formare negli uomini un
maggior senso di responsabilità e di ambizioni verso una
carriera politica.4

Bembo esordì in campo letterario per la prima volta con un


dialogo latino pubblicato nel 1496, intitolato De Aetna.

Si trattava di un dialogo tra lui e il padre che aveva come


argomento principale lo studio del vulcano e la sua attività,
si trattava di uno studio fondato sulla diretta esperienza del
giovane Bembo e dal confronto con le testimonianze
classiche; era un opuscolo di poche carte, una sorta di
esperimento di bella prosa latina.5

Non è lasciata al caso la scelta del dialogo, che risulta essere


la forma ideale per poter affrontare tematiche scientifiche
sottoforma di un discorso privo di ostentazioni, nel quale
tutti i partecipanti condividono il loro sapere con linearità.

4
P. BEMBO, Introduzione, in Prose e Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, Utet,
1966, p.9.
5
Ivi, p.10.

pag. 3
L’idea non è più quella di un’aula accademica o della
prepotenza estrosa del maestro Poliziano e del Barbaro, ma
in questo caso la forma dialogica implica il bisogno e
l’intenzione del Bembo di richiamare a sé e verso il proprio
lavoro gli altri, in particolar modo gli amici e di coinvolgerli
nelle diatribe messe in atto nei suoi testi.6

Pertanto è notevole e non è un caso che il Bembo abbia


scelto la forma dialogica in tutte le prose, latine e volgari, di
sua invenzione, ne sono un esempio lampante gli Asolani e
le Prose della volgar lingua.

Figura centrale per gli scritti bembiani è il celebre editore


Aldo Manuzio, il quale aveva avviato la sua attività
editoriale a Venezia nel 1494. Fu lo stesso Manuzio a
mettere in stampa nel 1496 il De Atena del Bembo.

Senza alcun’ombra di dubbio, Aldo fu il più grande


umanista italiano dopo Angelo Poliziano e la sua
collaborazione con il Bembo fu molto forte e intensa tanto
da avere un rapporto editore e autore interamente diverso da
quello che vi era di norma.

L’umanesimo di Aldo non era di facile retorica né


tantomeno di facile dottrina, egli mirava ai testi antichi, ad
una lettura diretta e disinteressata in cui ogni uomo può
ritrovarsi.7

6
Ibidem.
7
M. LOWRY, Nicolas Jenson e le origini dell'editoria veneziana nell'Europa del
Rinascimento, Roma, Il veltro editrice, 2002, p. 8.

pag. 4
Da queste ultime affermazioni si può dunque capire come
l’umanesimo di Aldo Manuzio non si distaccasse molto da
quella dottrina neoplatonica fiorentina del Ficino e del
Pico.8

Diversa è invece la posizione di Aldo due anni più tardi, nel


1501, quando per la prima volta produsse un libro tascabile
di preghiere in carattere corsivo, che poteva accompagnare
il lettore ovunque. Il corsivo utilizzato dal Manuzio
assomigliava alle lettere dei manoscritti greci e divenne così
celebre da essere imitato da tutti. Nello stesso anno
comparve l'edizione aldina delle Bucoliche di Virgilio, a cui
seguì poi l’edizione oraziana e, dopo ancora, quella
petrarchesca curata dal Bembo.9

Tornando alle celebri opere bembiane, una delle più


importanti presa qui in esame è sicuramente gli Asolani,
un’opera sull’amore che fu composta probabilmente intorno
al 1497 e il 1502, messa in stampa per opera di Aldo
Manuzio10 nel marzo del 1505.

Degli Asolani vi sono varie edizioni, la primissima è la


redazione manoscritta tramandataci dal codice autografo
Querini Stampalia CI. VI.4 (1033) (Q),11 che comprende
soltanto il primo libro dell’opera in una doppia
8
Ivi, p.10.
9
P. BEMBO, Introduzione, in Prose e Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, Utet,
1966, p.12.
10
Aldo Pio Manuzio è stato un editore, grammatico e umanista italiano, vissuto tra
XV e XVI secolo.
11
C. BERRA, La scrittura degli «Asolani» di Pietro Bembo, Firenze, La Nuova
Italia, 1996, p.23.

pag. 5
stratificazione, tale opera manoscritta è conosciuta come
“queriniana”, della quale però non vi è l’autografo
dell’autore.12

È caratteristica peculiare di questa redazione la


considerevole presenza della componente poetica, che
venne progressivamente ridotta nelle successive edizioni a
stampa.13

L’opera degli Asolani attraversa vari espedienti della vita


del Bembo: il loro inizio fa riferimento alla fine infelice di
un amore; tra il 1500 e il 1502, la riscrittura dell’opera si va
invece ad intrecciare con l’amore per Maria Savorgnan, al
punto che nel testo stesso i personaggi, temi e poesie
entrano nel vivo dello scambio epistolare tra i due amanti.

Tutta l’opera del Bembo presa in esame in questo contesto è


portavoce di una complessa sintesi di tradizioni e modelli
diversi: ne è un esempio la tradizione dialogica, classica e
umanistica riscritta in volgare.14

Nel 1503 inizia la storia d’amore per Lucrezia Borgia,


conosciuta dal Bembo alla corte di Ferrara come sposa di
Alfonso d’Este, tant’è vero che l’edizione del 1505 presenta
nel princeps la dedica a Lucrezia Borgia, che è stata invece
eliminata nell’edizione del 1530:

12
Ibidem.
13
Ivi., p.38.
14
L. BOLZONI, Gli Asolani e il fascino del ritratto, [2013] in Pietro Bembo e le
arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns e D. Gasparotto, Vicenza, Marsilio, 2017, p.
286.

pag. 6
A madonna lucretia estense borgia duchessa illustrissima di ferrara.15

Bembo si adoperò per la prima stesura degli Asolani a


Ferrara la quale, sotto il ducato di Ercole I d’Este,
rappresentava uno dei centri maggiori e più favoriti per la
vita di corte italiana durante il Quattrocento.16

Questa tipologia di dialoghi, che trattano d’amore in lingua


volgare ma che allo stesso tempo propongono un esempio
istituzionale di lingua letteraria e di buone norme sociali,
andranno ad imporsi come testo canonico: l’opera degli
Asolani, il Cortigiano del Castiglione e l’Orlando Furioso,
rappresenteranno uno spartiacque nella vastissima
produzione letteraria cinquecentesca dedicata alle donne e
all’amore; partendo dal titolo di quest’opera, si può notare
come sembri richiamare le Tuscolane di Cicerone. L’opera
costa di un’ampia tradizione che fa riferimento a quella
classica, medievale e umanistica; le radici nelle quali si
radica l’opera bembiana sono radici ficiniane, dunque
neoplatoniche.17

Il riferimento presente negli Asolani è legato principalmente


alla cultura dell’ambiente laurenziano, in special modo
15
P. BEMBO, Gli Asolani, Venezia, Aldo Manuzio, 1505.
16
P. BEMBO, Introduzione, in Prose e Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino,
Utet, 1966, p.18.

17
R. CASAPULLO, Appunti su un’edizione ‘degli Asolani, Lettere Italiane, vol. 46,
no. 3, 1994, pp. 449.

pag. 7
appunto alla filosofia del Ficino. La concezione dell’amore
ficiniana, rinnovata tramite l’impulso platonico, fa sì che
l’amore sia realmente compiuto in se stesso secondo un
climax ascensionale: dall’esaltazione della bellezza
della donna, come creatura, fino alla contemplazione divina.
Tenendo presente che secondo il
Ficino l’amore, platonicamente parlando, è desiderio di
bellezza, proprio da questo desiderio di bellezza e dalla sua
contemplazione, attraverso una scala ascensionale, si giunge
al suo vertice ovvero alla contemplazione divina.

Nella tradizione bembiana, però, è presente anche una


corrente contraria che prevede una linea opposta relativa
all’elemento amoroso, la quale mette in evidenza gli aspetti
negativi dell’amore stesso, visto talvolta come un male. 18

Gli Asolani sono un dialogo ambientato nella Asolo del XV


secolo, presso la corte di Caterina Cornaro, in cui la natura
dell’amore fa da protagonista generale dell’opera. Caterina
Cornaro era stata regina di Cipro, e con la dipartita del
marito aveva lasciato a Venezia i suoi possedimenti, la
stessa Venezia che in cambio di questi suoi possedimenti,
nel 1489 le aveva consentito di avere, all’interno della
repubblica, una propria corte ad Asolo.

L’opera è suddivisa in tre libri tenuti assieme da una cornice


narrativa che prevede, a sua volta, la divisione del dialogo in
tre giornate svolte nel giardino della regina di Cipro ad
18
Ivi, p. 450.

pag. 8
Asolo, Caterina Cornaro, fra tre giovani e tre donne, in
occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di una
damigella della regina.19

Asolo adunque, vago e piacevole castello posto ne gli stremi gioghi


delle nostre alpi sopra il Trivigiano, è, sì come ogniuno dee sapere, di
madonna la Reina di Cipri, con la cui famiglia, la quale è detta
Cornelia, molto nella nostra città onorata e illustre, è la mia non
solamente d’amistà e di dimestichezza congiunta, ma ancora di
parentado. Dove essendo ella questo settembre passato a’ suoi diporti
andata, avenne che ella quivi maritò una delle sue damigielle, la quale,
perciò che bella e costumata e gentile era molto e perciò che da
bambina cresciuta se l’avea, assai teneramente era da lei amata e avuta
cara. Per che vi fece l’apparecchio delle nozze ordinare bello e grande,
e, invitatovi delle vicine contrade qualunque più onorato uomo v’era
con le lor donne, e da Vinegia similmente, in suoni e canti e balli e
solennissimi conviti l’un giorno appresso all’altro ne menava
festeggiando con sommo piacer di ciascuno.20

Dal testo si evince pienamente l’immagine di una festa di


corte e infatti, dalla celebrazione delle nozze, viene fuori
quanto vi è di più onorevole, piacevole e raffinato nella vita
cortigiana. Tutto attorno pare bello, gentile e grande ed è
proprio questo il motivo per cui non esiste occasione più
adatta per ragionare d’amore.

Il testo degli Asolani è strutturato in forma di prosimetro,


cioè presenta una commistione tra prosa e versi ed è un
dialogo che ha una cornice narrativa per la quale,
certamente, funge da modello il Decameron di Boccaccio,
mentre per la struttura dell’opera stessa sono stati
19
Ivi, p.17.
20
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, I, II, p.
316.

pag. 9
indiscutibilmente d’ispirazione, per il Bembo, i dialoghi
classici latini.

A tal proposito, se la cornice narrativa rinvia all’illustre


Decameron di Boccaccio, la scelta delle poesie fa sempre
più riferimento alla tradizione letteraria petrarchesca del
Canzoniere.21

Pertanto la prospettiva stilistica bembiana si dirama tra due


modelli letterari: da un lato vi è il Petrarca per quanto
concerne la poesia e dall’altro lato vi è il modello di
Boccaccio per quanto riguarda la prosa.

Dunque, in questo dialogo si alternano, sistematicamente,


momenti dedicati alla recitazione e momenti in cui vengono
esposte poesie composte dai tre giovani.

Tutti i protagonisti del dialogo sono giovani appartenenti


all’alta società veneziana, senza alcun mascheramento della
realtà neanche per quanto riguarda il fattore tempo, in
quanto si sta parlando di un periodo che, per l’autore, è
appena decorso; essi sono come il Bembo: poeti,
compositori di rime volgari.22

Molto particolare è la scena in cui viene svolto il dialogo,


come già detto ad Asolo in una festa di corte; quindi, non si
sta parlando di Venezia ma dell’unica corte riconosciuta sul
territorio della Repubblica Veneta.
21
L. BOLZONI, Gli Asolani e il fascino del ritratto, [2013] in Pietro Bembo e le
arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns e D. Gasparotto, Vicenza, Marsilio, 2017, p.
286.
22
Ibidem.

pag. 10
Questa peculiarità scenografica sta a giustificare anche la
particolarità di un dialogo protrattosi per tre giorni e
incentrato sui ragionamenti amorosi, che rappresenta per
l’autore stesso il suo ideale di vita, diverso da quello che
viene offerto a un patrizio veneziano nella sua città.

I tre libri degli Asolani sono concatenati tra loro e guidano il


lettore attraverso un percorso che non è altro che lo sviluppo
di un qualcosa già accennato all’inizio; infatti, tutte e tre le
damigelle cantano una canzonetta a testa: le prime due
illustrano rispettivamente le pene e le gioie donate
dall’amore, mentre la terza damigella fa riferimento ad una
diversa concezione amorosa, che potrebbe restaurare l’età
dell’oro.23

Tutte e tre le fanciulle cantano con l’accompagnamento di


uno strumento musicale, le prime due con un liuto, mentre
la terza con la viola; sia il liuto che la viola sono strumenti
aulici che accompagnavano i canti del Decameron.

Questo accompagnamento musicale crea una ben salda


corrispondenza metrica e strutturale nelle prime due
canzonette; diversamente, la terza canzonetta presenta un
altro tipo di metro e si diversifica dalle prime due non solo
per la forma metrica e dalla diversa tipologia di strumento
musicale, ma per il suo contenuto chiaramente superiore per
quanto riguarda l’estetica e la morale.

23
Ibidem.

pag. 11
[…] la Reina, fatta chiamare una sua damigella, la quale, bellissima
sopra modo e per giudicio d’ogniun che la vide più d’assai che altra
che in quelle nozze v'avesse, sempre quando ella separatamente
mangiava di darle bere la serviva, le impose che alle canzoni delle
fanciulle alcuna n'aggiugnesse delle sue. Per che ella, presa una sua
vivola di maraviglioso suono, tuttavia non senza rossore veggendosi in
così palese luogo dover cantare, il che fare non era usata, questa
canzonetta cantò con tanta piacevolezza e con maniere così nuove di
melodia, che alla dolce fiamma, che le sue note ne' cuori degli
ascoltanti lasciarono, quelle delle due fanciulle furono spenti e freddi
carboni. […]24

Questa fanciulla, quindi, ha un rapporto privilegiato con la


regina, tant’è vero che è la stessa Cornaro a chiederle di
cantare. I canti delle tre damigelle sono, allo stesso tempo,
proemio e sintesi dell’intera opera, riflettono infatti i
ragionamenti fatti esclusivamente dai giovani maschi,
mentre il dolore dell’amore nella prima canzonetta è
espresso come quell’elemento doloroso che si insinua in una
vita lieta:

Io vissi pargoletta in festa e ’n gioco,


De’ miei pensier, di mia sorte contenta:
Or sì m’afflige Amor e mi tormenta,
Ch’omai da tormentar gli avanza poco.

Credetti, lassa, aver gioiosa vita


Da prima entrando, Amor, a la tua corte;
E già n’aspetto dolorosa morte:
O mia credenza, come m’hai fallita.

Mentre ad Amor non si commise ancora,


24
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, I, III, p.
217.

pag. 12
Vide Colco Medea lieta e secura;
Poi ch’arse per Iason, acerba e dura
Fu la sua vita infin a l’ultim’ora.25

Questa prima canzone si contrappone alla seconda, dove


viene esplicato come l’elemento amoroso, in una vita piena
di dolore e travaglio, può introdurre la felicità:

Io vissi pargoletta in doglia e ’n pianto,


De le mie scorte e di me stessa in ira:
Or sì dolci pensieri Amor mi spira,
Ch’altro meco non è che riso e canto.

Arei giurato, Amor, ch’a te gir dietro


Fosse proprio un andar con nave a scoglio;
Così là ’nd’io temea danno e cordoglio,
Utile scampo a le mie pene impetro.

Infin quel dì, che pria la punse Amore,


Andromeda ebbe sempre affanno e noia;
Poi ch’a Perseo si diè, diletto e gioia
Seguilla viva, e morta eterno onore.26

Queste due canzoni, in realtà, metricamente parlando, non


hanno più nulla di una canzone né possono essere
considerate madrigali; esse sono, attraverso la loro struttura
regolata in quartine, quel che poi fu metricamente detto Ode
in ambito lirico-musicale tra il tardo Quattrocento e primo
Cinquecento.27
Entrambe le canzonette sono articolate parallelamente e si
corrispondono. Queste anticipano rispettivamente il tema
25
Ivi, p.318.
26
Ivi, p.319.
27
Ivi, p.318.

pag. 13
dell’amore infelice di cui discorrerà Perottino nel primo
libro e il tema dell’amore felice di cui discorrerà, invece,
Gismondo nel secondo libro.

Entrambe vengono concluse da un’esemplificazione


mitologica: da un lato vi è un mito negativo, ovvero quello
di Medea e Giasone, in cui si narra che Medea visse felice
nella sua patria finché non fu rapita da Giasone che doveva
poi tradirla e spingerla, in questo modo, ad una disperata
vendetta; dall’altro lato è presente un mito positivo, quello
di Andromeda e Perseo, dove Andromeda data in pasto ad
un mostro marino viene salvata e fatta sposa da Perseo.28

Questa contrapposizione degli elementi amorosi in


negativo-positivo vede un ulteriore incremento attraverso
una terza canzonetta (questa volta una vera e propria strofa
di canzone) ed è per volontà della regina che viene chiamata
la fanciulla a cantare, che non è più accompagnata dal liuto
ma da un altro strumento dalla dolce melodia: la viola.29

Amor, la tua virtute


Non è dal mondo e da la gente intesa,
Che, da viltate offesa,
Segue suo danno e fugge sua salute.
Ma se fosser tra noi ben conosciute
L’opre tue, come là dove risplende
Più del tuo raggio puro,
Camin dritto e securo
Prenderia nostra vita, che no ’l prende,
E tornerian con la prima beltade
28
L. BOLZONI, Gli Asolani e il fascino del ritratto, [2013] in Pietro Bembo e le
arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns e D. Gasparotto, Vicenza, Marsilio, 2017, p.
288.
29
Ivi, p. 286.

pag. 14
Gli anni de l’oro e la felice etade.30

Questa canzone descrive pienamente il perfetto amore che


sarà poi illustrato nel terzo libro dal Lavinello.

Essa svolge il motivo dell’amore che è giudicato


negativamente perché non è conosciuto. Qui è presente il
richiamo finale all’età dell’oro, il quale non cela il carattere
utopistico di quel perfetto amore.31

Nel primo libro è Perottino il protagonista, egli espone nel


testo la sua tesi contro l’amore e in particolare si sofferma
sui dolori correlati a questo sentimento e delle pazzie che
esso fa compiere.

Ma io, o Amore, a te mi rivolgo, dovunque tu ora per quest’aria forse


a’ nostri danni ti voli, se con più lungo ramarico t’accuso che ella non
fece, non se ne dee alcun maravigliare, se non come io di tanto mi sia
dalla grave pressura de’ tuoi piedi col collo riscosso, che io fuori ne
possa mandar queste voci; le quali tuttavia, sì come di stanco e fievole
prigioniere, a quello che alle tue molte colpe, a’ tuoi infiniti micidî si
converrebbe, sono certissimamente e roche e poche. Tu d’amaritudine
ci pasci; tu di dolor ci guiderdoni; tu de gli uomini mortalissimo idio
in danno sempre della nostra vita ci mostri della tua deità fierissime e
acerbissime pruove; tu de’ nostri mali c’indisii; tu di cosa trista ci
rallegri; tu ogni ora ci spaventi con mille nuove e disusate forme di
paura; tu in angosciosa vita ci fai vivere e a crudelissime e
dolorosissime morti c’insegni la via. 32 E ora ecco di me, o Amore, che
giuochi ti fai? il quale, libero venuto nel mondo e da lui assai
benignamente ricevuto, nel seno de’ miei dolcissimi genitori sicura e
tranquilla vita vivendo, senza sospiri e senza lagrime i miei giovani

30
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, I, III,
p.320.
31
Ibidem.
32
Il corsivo è mio.

pag. 15
anni ne menava felice, e pur troppo felice, se io te solo non avessi
giamai conosciuto.33

Dalle affermazioni fatte dal Perottino si evince chiaramente


il senso di angoscia e di paura provocato dall’amore; quella
esposta è una limpida descrizione di un amore che crea
danni all’animo umano. Nel capitolo trentasei del primo
libro è infatti presente un’ulteriore affermazione che rende
ancor più vivido il sentimento cupo e angoscioso provocato
all’uomo dall’elemento amoroso:

Ahi infelice dono della mia donna crudele, misero drappo e di misero
ufficio istrumento, assai chiaro mi dimostrò ella donandomiti quale
dovea essere il mio stato. Tu solo m’avanzi per guiderdone
dell’infinite mie pene. Non t’incresca, poi che se’ mio, che io, quanto
arò a vivere, che sarà poco, con le mie lagrime ti lavi.34

Perottino non è chiamato col suo vero nome ma viene usato


uno pseudonimo e qui subito vi è un chiaro richiamo alla
cornice decameroniana; Bembo giustifica l’utilizzo degli
pseudonimi allo stesso modo in cui lo aveva fatto il
Boccaccio: sia nella introduzione al racconto nel ritrovo dei
giovani nella chiesa di Santa Maria Novella che, d’altra
parte, in riferimento all’intenzione di Boccaccio di evitare il
cattivo giudizio dei malevoli:

33
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, I, XXXV,
p.376.
34
Ivi, p.377

pag. 16
[…]non pochi sogliono esser coloro che le cose sane le più volte
rimirano con occhio non sano.35

Dunque, per difendere la onestà di questi giovani e l’onestà


dei ragionamenti non vengono fatti i nomi, al loro posto si
ritrovano invece gli pseudonimi.

Il secondo personaggio maschile che viene introdotto è


Gismondo, presentato come un giovane di umore festevole,
è colui che nel secondo libro tratta della parte relativa
all’amore sensuale e delle gioie date dal sentimento
amoroso.

Di quest’ultimo Bembo, nel secondo libro, dà anche


un’indicazione riguardante l’età: 26 anni, che sarebbe in
coincidenza con quella che avrebbe avuto il Bembo nel
tempo della composizione dell’opera.

Gismondo è parzialmente ispirato sulla figura di Dionèo,


uno dei narratori del Decameron; egli è colui che propone di
andare in giardino suggerendo di passare il tempo, prima
che cominci la festa, facendo dei ragionamenti sull’amore.

Il ragionamento fatto nel secondo libro da Gismondo


confuta la tesi del primo dialogante, egli mette in luce quelle
che sono le lodi d’amore. Si fa portavoce dell’amore
carnale, che dà piacere al corpo:

35
Ivi, p.317.

pag. 17
O Amore, benedette sieno le tue mani sempre da me, con le quali tante
cose m’hai dipinte nell’anima, tante scritte, tante segnate della mia
dolce donna, che io una lunga tela porto meco ad ogni ora d’infiniti
suoi ritratti in vece d’un solo viso, e uno alto libro leggo sempre e
rileggo pieno delle sue parole, pieno de’ suoi accenti, pieno delle sue
voci, e in brieve mille forme vaghissime riconosco di lei e del suo
valore, qualora io vi rimiro, cotanto dolci sutemi e cotanto care, non
picciola parte di quella viva dolcezza sentendo nel pensiero, che io
già, operandolo ella, ne’ loro avenimenti mi sentia. Le quali figure,
posto che pure da sé non chiamassero a loro la mia mente così spesso,
sì la chiamerebbeno mille luoghi che io veggo tutto dì, usati dalla mia
donna ora in un diporto e ora in altro.36

L’amore visto dalla prospettiva di Perottino e Gismondo si


avvicina molto al tema dell’amore terrestre e dunque
carnale, assimilato all’immagine della Venere Terrestre.

Nel terzo libro prende parola Lavinello, ultimo e importante


interlocutore al quale è affidato il compito di porre fine alla
querelle che presiede nelle tre giornate di dialogo.
Lavinello, dopo aver invitato tutti i presenti a distinguere tra
le diverse tipologie d’amore e a rispettare i limiti della
morale, indica un’altra accezione di amore: quello
spirituale.37

[…] Amore niente altro è che disio, il quale come che sia d’intorno a
quello che c’è piaciuto si gira, perciò che amare senza disio non si
può, o di goder quello che noi amiamo o d’altramente goderne, che
noi non godiamo, o di goderne sempre, o di bene, che noi con la
volontà all’amate cose cerchiamo; e disio altro non è che amore,
perciò che disiderare cosa che non s’ami non è di nostra possa, né può

36
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, II, XXVII,
p.436.
37
G. RIZZARELLI, “La favola della regina delle isole fortunate negli ‘Asolani’ di
Pietro Bembo.” Lettere Italiane, vol. 54, no. 3, 2002, p. 390.

pag. 18
essere in alcun modo: ogni amore e ogni disio sono quel medesimo e
l’uno e l’altro.38

Lavinello dunque imposta da principio una linea filosofica


per il suo discorso e dà una definizione di Amore, cosa che
Perottino e Gismondo non avevano dato.
Segue quindi quella che era la corrente del neoplatonismo
ficiniano: l’ottica di un amore spirituale come un desiderio
di bellezza, che può essere raggiunto per mezzo della vista
(ad esempio nel vedere un corpo bello), dell’udito (come
l’ascoltarne i discorsi) e attraverso il pensiero (ovvero,
portare sempre la persona bella dentro di sé, attraverso il
pensiero).

Secondo il ragionamento di Lavinello gli amori mondani,


sensuali, sono da fuggire mentre è da perseguire soltanto
l’amore spirituale, che è l’unico eterno e che eleva a Dio. Si
nota quindi fortemente la componente neoplatonica.39

[…]nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio. La qual


bellezza che cosa è se tu con tanta diligenza per lo adietro avessi
d’intendere procacciato, con quanta ci hai le parti della tua bella donna
voluto hieri dipignere sottilmente, né come fai ameresti tu già, né
quello, che ti cerchi amando, aresti a gli altri lodato come hai. Perciò
che ella non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza
nasce e d’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi
suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e più vaghi, e è accidente ne
gli uomini non meno dell’animo che del corpo. Perciò che sì come è
bello quel corpo, le cui membra tengono proporzione tra loro, così è
38
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, III, V,
p.464.
39
Ibidem.

pag. 19
bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto più sono
di bellezza partecipi e l’uno e l’altro, quanto in loro è quella grazia,
che io dico, delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e
più piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale
tu vedi, e d’animo parimente e di corpo, e a lei, sì come a suo vero
obbietto, batte e stende le sue ali per andare.40

È ben chiaro l’elemento platonico che spinge ad un tipo di


amore vertente sullo spirituale, sulla bellezza dell’animo e
sull’armonia della mente. Il discorso fatto da Lavinello,
rispetto ai primi due dialoganti, mette in luce un amore
celeste ed egli enuncia i princìpi dell’amore platonico: il
vero desiderio d’amore riguarda non solo il corpo ma
l’anima e quindi volge ad un’armonia superiore.

A conferma di ciò Lavinello descrive il suo incontro con un


vecchio eremita, che lo ha indotto all’amore spirituale: in
questo modo egli concepisce che la vera bellezza è solo
quella divina e immortale. Lavinello pone fine alla querelle
dei precedenti ragionamenti amorosi portando dentro il
giardino della corte un punto di vista “esterno”, superiore
ma non lontano:

Perciò che andando io questa mattina per tempo, da costor toltomi e


del castello uscito, solo in su questi pensieri, posto il piè in una vietta
per la quale questo colle si sale, che c'è qui dietro,41 senza sapere dove
io m'andassi, pervenni a quel boschetto, che, la più alta parte della
vaga montagnetta occupando, cresce ritondo come se egli vi fosse
stato posto a misura.42

40
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, III, VI,
pp.467-468.
41
Il corsivo è mio.

pag. 20
Il romito si trova in cima ad un colle alle spalle del giardino
in cui dialogano i giovani: è quindi allo stesso tempo vicino
e superiore, sia qualitativamente che fisicamente. Questa
collocazione lo ha reso partecipe di ciò che era avvenuto.

L’eremita racconta a Lavinello della Regina delle Isole


Fortunate, una donna bellissima e sempre giovane che aveva
scelto di mantenersi casta ma che ugualmente amava essere
amata; per scegliere chi fosse degno di lei si serviva di un
singolare artificio: i pretendenti venivano chiamati al suo
cospetto e tramite una magia erano indotti a dormire e a
sognare. Infine, da ciò che avevano sognato, la regina
riconosceva i più virtuosi e traeva poi qule sue conclusioni,
chi aveva sognato solamente di andare a caccia, a pescare o
a cavallo, per esempio, veniva mandato tra le fiere. In base a
questo l’eremita spiega che, se questi pretendenti non hanno
mai sognato la regina, significa che non l’hanno mai amata.

I tre tipi di sogno corrispondono ai tre temi delineati nel


dialogo degli Asolani: questa cosa viene chiarita subito
dall’eremita al Lavinello e quindi anche al lettore, qualora
fosse distratto.

Dirai adunque a Perottino e Gismondo, figliuolo, che se essi non


vogliono essere tra le fiere mandati a vegghiare, quando essi si
risveglieranno, essi miglior sogno si procaccino di fare, che quello non
42
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, III, XI, p.
329.

pag. 21
è, che essi ora fanno. E tu, Lavinello, credi che non sarai perciò caro
alla Reina, che io dico, poscia che tu poco di lei sognandoti, tra questi
tuoi vaneggiamenti consumi più tosto senza pro, che tu in alcuna vera
utilità di te usi e spenda, il dormire che t’è dato. E infine sappi che
buono amore non è il tuo.43

Gismondo e Perottino rischiano di esser mandati dalle fiere


e quindi cacciati dalla corte ma anche Lavinello ha sognato
troppo poco della regina.

L’immagine della Regina narrata dal romito costituisce una


sorta di doppio di Caterina e al contempo riporta intorno ad
essa una vorticosa mise en abyme (storia nella storia) di tutta
l’opera.44

Questa storiella è collocata nell'ultimo libro, quasi in


prossimità dello scioglimento delle questioni d’amore, ed è
stata oggetto di varie interpretazioni da parte di critici
letterari.45

Infatti il terzo libro si presenta come il momento in cui tutti i


nodi vengono al pettine e la verità è disvelata. Lo stesso
Lavinello si fa messaggero di un messaggio che gli è stato
consegnato da un «romito», ovvero da un eremita che vive
in cima ad un colle. Anche lo spazio in quest’opera
rappresenta un elemento fondamentale per i ragionamenti
amorosi e infatti i giovani, per parlare d’amore, si erano
43
P. BEMBO, Gli Asolani, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966, III, XIX, p.
495.
44
L. BOLZONI, Gli Asolani e il fascino del ritratto, [2013] in Pietro Bembo e le
arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns e D. Gasparotto, Vicenza, Marsilio, 2017, p.
294.
45
G. RIZZARELLI, “La favola della regina delle isole fortunate negli ‘Asolani’ di
Pietro Bembo.” Lettere Italiane, vol. 54, no. 3, 2002, p. 390.

pag. 22
collocati nel giardino della regina: in una unità superiore, un
luogo considerato interno ma esterno alla corte; la presenza
della regina ripristina infine il controllo di uno spazio che
inizialmente era stato costruito come separato dalla corte. 46

A conclusione degli Asolani si nota come nei dialoghi


precedenti i giovani siano intenti a parlare d’amore
attraverso la recitazione di poesie, mentre a fine opera non
c’è più posto per la lirica: il romito, mostrando qual è la
strada per rinunciare all’amore terreno, non usa un dialogo
ma distrugge le apparenze attraverso la retorica.

Si nota come il modello platonico venga seguito da vicino in


tutta la visione di Lavinello, portavoce del modello amoroso
puro, legato a Dio; ciò si evince anche dall’uso del mito con
finalità paradigmatica, in questo caso quello della regina
delle Isole Fortunate, presentata come una sorta di maga
Circe buona che mostra ciò che è celato nel cuore degli
uomini.47

46
L. BOLZONI, Gli Asolani e il fascino del ritratto, [2013] in Pietro Bembo e le
arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns e D. Gasparotto, Vicenza, Marsilio, 2017, p.
287.
47
Ivi, p. 295.

pag. 23
2.2 L’ideale di perfetto amore nel Cortigiano di
Castiglione

Figura chiave del primo Rinascimento Italiano, autore che


mette in luce l’elemento amoroso attraverso le sue varie
sfumature nella letteratura, è Baldassarre Castiglione (1478-
1529).

Baldassare Castiglione è stato un umanista, letterato,


diplomatico e militare italiano ed ha prestato servizio presso
lo Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del
Ducato di Urbino.

La sua opera più importante è Il Cortegiano, pubblicata a


Venezia nel 1528 e ambientata alla corte d'Urbino, presso la
quale l'autore aveva potuto sperimentare pienamente la
propria natura cortigiana.

pag. 24
Il tema centrale del libro è la trattazione, sotto forma di
dialogo, riguardo quali siano gli atteggiamenti conformi ad
un uomo di corte e ad una dama di palazzo, dei quali sono
riportati signorili conversazioni che l'autore immagina si
tengano durante le varie serate di festa presso la corte dei
Montefeltro, attorno alla duchessa Elisabetta Gonzaga.

Tra i personaggi dell’opera di Castiglione figura anche


Pietro Bembo, il quale ha un ruolo importane nel dialogo.

Lo scrittore veneziano in quegli anni divenne una sorta di


specialista del neoplatonismo, tant’è vero che Baldassare
Castiglione, nel pubblicare il libro del Cortegiano, lo
inserisce come personaggio chiave per l’esposizione delle
sue idee riguardo l’amore attraverso la visione neoplatonica,
affermate anche da Lavinello negli Asolani.48

Castiglione affidò al Libro del Cortegiano un’indomita ed


entusiasmante riflessione intorno alla propria esperienza,
indirizzato dalla necessità di mettere in focus una
prospettiva che desse criterio e valore agli accadimenti che
più erano marcati nella sua immaginazione.49

Questo libro non solo esprimeva al meglio l’aspirazione


massima di un uomo, tutta la ricchezza del suo contenuto
spirituale, il nocciolo fondante di una realtà umanistica e
moderna, la finezza e, allo stesso tempo, la complessità di
48
L. RUSSO, Pietro Bembo e la sua fortuna storica, in Belfagor, vol. 3, n. 13,
Firenze, Leo S. Olschki, 31 maggio 1958, pp. 257-272.
49
U. MOTTA, Castiglione e il mito di Urbino Studi sulla elaborazione del
Cortegiano, Milano, Vita e Pensiero, 2003, p.13.

pag. 25
una concezione di vita aristocratica e umana, ma soprattutto
rimarcava uno degli ideali più sentiti durante il
Rinascimento italiano: il Castiglione era riuscito a
riproporre in un unico monumento letterario gli ideali di
un’epoca, d’un costume, di una società.

Il dialogo del Cortegiano è articolato in quattro serate con


l’obiettivo di delineare in modo dialettico un profilo
professionale, quello del buon uomo di corte, attraverso tesi
e antitesi proprio come accade nelle scuole di filosofia:50

[…]vorrei che 'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse uno
della compagnia ed a questo si desse carico di formar con parole un
perfetto cortegiano.51

Sembra che la fortuna di questa monumentale opera del


Castiglione sia da collegarsi al fatto che la figura del
cortigiano era una viva realtà delle corti, ed era quindi
normale che qualcuno ne volesse celebrare la figura.
D’altro canto, una celebre opera come questa non poteva
essere immune da critiche, infatti secondo alcuni, il
Cortegiano, avrebbe avuto qualcosa di troppo predicativo,
pedagogico senonché moralistico, per potersi definire il
frutto perfetto di un’umana idealità ed eticità.52

50
P. SABBATINO, Le due Veneri e il «desiderio di fruir la bellezza» in Ficino e
Castiglione, Società editrice fiorentina, Firenze, 2021, p.10.
51
B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet,
1981, p.73.
52
Ivi, p.11.

pag. 26
La perfezione è il nuovo grande mito del secolo
rinascimentale: una perfezione che inizia la sua ascesa dal
principe machiavelliano, maestro di pratiche politiche, che
lotta con la propria virtù contro le avversità della cattiva
sorte; la stessa perfezione che si ritrova, poi, personificata in
campo artistico da Benvenuto Cellini nella sua Vita, il quale
mette in luce tutto il rinascimentale conflitto tra la virtù e la
fortuna; un’eccezionale e perfetta umanità, che si idealizza
nella virtù degli artisti dell’epoca e che sembra incarnarsi in
Michelangelo, artista tanto ammirato dal Vasari.53

È entro questi margini che va letta e compresa l’intera opera


del Castiglione, nella quale va ad evidenziarsi, per
l’appunto, il concetto della perfezione, concretizzata nelle
figure chiavi del cortigiano ideale e della donna di palazzo.

L’autore del Cortegiano non sembra che abbia mai pensato


all’elaborazione di un testo teorico, ad una prosa secca o
aforistica, bensì, al contrario, è riuscito a formulare
un’opera di elegante conversazione, dove tutto il suo
assunto si traduce attraverso la rappresentante dialettica. Ed
è proprio da qui che prende piede l’impressione di un
idealismo facile, manifestata dalla sua opera.54

Nel proemio del Cortegiano, il Castiglione scrive:

53
Ivi, p.12.
54
Ivi, p.13.

pag. 27
Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti
distinti, che ’l piú delle volte nell’insegnare qualsivoglia cosa usar si
suole; ma, alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria1,
recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra uomini
singolarissimi a tale proposito; e benché io non v’intervenissi
presenzialmente, per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra,
avendogli poco appresso il mio ritorno intesi da persona che
fedelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria
mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano
giudicato e creduto di questa materia uomini degni di somma laude, ed
al cui giudicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede.55

E continua successivamente con:

[…]vendicar dalla mortal oblivione questa chiara memoria, e


scrivendo farla vivere negli animi dei posteri.56

L’opera nasce dall’esperienza del soggiorno ad Urbino,


contemplata attraverso la «grata memoria»: il nostalgico
distacco del ricordo e riproposta attraverso la
rappresentazione di vicende e figure.

L’intento del libro del Cortigiano non è prettamente


didascalico come si vuole far credere, ma cela anche uno
stato d’animo artistico e rievocativo; infatti, vuol essere una
rievocazione delle discussioni urbinati del circolo della
duchessa Elisabetta Gonzaga; non a caso il Castiglione ha
scelto per la sua opera la forma dialogica, consueta per la
trattatistica rinascimentale, fondata sugli esempi classici di
Platone e Cicerone.57
55
Ivi, p.73.
56
Ivi, lib. III, cap. 1.
57
U. MOTTA, Castiglione e il mito di Urbino Studi sulla elaborazione del
Cortegiano, Milano, Vita e Pensiero, 2003, p.32.

pag. 28
Si legge nell’opera che per il conte Ludovico di Canossa,
uno degli interlocutori del dialogo, tra le varie qualità
richieste al perfetto cortigiano, la maggiore è quella
dell’armi:

Ma per venire a qualche particolarità, estimo che la principale e vera


profession del Cortegiano debba esser quella dell’arme; la qual sopra
tutto voglio che egli faccia vivamente, e sia conosciuto tra gli altri per
ardito e sforzato e fedele a chi serve.58
In tal modo il buon cortigiano viene apprezzato e
riconosciuto pubblicamente come un uomo valoroso, audace
e fedele al suo signore. Alla qualità delle armi ne seguono
altre, altrettanto importanti per un uomo di corte, e sono: la
competenza letteraria, musicale e artistica, nello specifico, il
conte Ludovico da Canossa sottolinea l’importanza del
disegno:

[…]penso che dal nostro Cortegiano per alcun modo non debba esser
lasciata adietro; e questo è il saper disegnare, ed aver cognizion
dell’arte propria del dipingere.59

È a questo punto del testo che il Castiglione sviluppa la sua


riflessione estetica che fa trasparire attraverso le parole dello
scultore Giovan Cristoforo Romano, il quale afferma che sia
la pittura che la scultura sono un’artificiosa imitazione della
natura,60 e poi ribadisce con l’affermazione di Ludovico da
Canossa:

E voi ben dite vero, che l’una e l’altra è imitazion della natura; ma non
è già così, che la pittura appaja, e la statuaria sia.61
58
B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet,
1981, Proemio, Libro 1, cap. 1, pag.112.
59
Ivi, p.176.
60
Ivi, p.178.
61
Ivi, p. 180.

pag. 29
Viene aperto così un dibattito sulla gara per il primato tra le
due arti: pittura e scultura. Ma il Castiglione attribuisce il
primato alla pittura poiché la considera più nobile:

Per questo parmi la pittura più nobile e più capace d’artificio che la
marmoraria, e penso che presso agli antichi fosse di suprema
eccellenza come l’altre cose: il che si conosce ancor per alcune
piccole reliquie che restano, massimamente nelle grotte di Roma; ma
molto più chiaramente si può comprendere per i scritti antichi, nei
quali sono tante onorate e frequenti menzioni e delle opre e dei
maestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e
le republiche sempre onorati.62

Avere conoscenze in capo pittorico permette al buon


cortigiano di apprendere il sapere necessario per esprimere
giudizi in ambito artistico, inoltre, tali conoscenze, gli
concedono la possibilità di conoscere, alla pari dei pittori, la
bellezza naturale e la bellezza dei corpi, sia animali che
umani.63
Il pittore grazie alla sua formazione professionale è in grado
di comprendere a pieno la bellezza, ed è a questo punto che
il Castiglione inserisce l’esempio di due pittori greci di IV
secolo a.C.: fa riferimento prima ad Apelle e di come questi
nel contemplare la figura e la bellezza di Campapse, donna
tanto amata da Alessandro Magno, riuscì a raggiungere il
perfetto giudizio di bellezza; fa poi cenno al pittore Zeusi, il
62
Ivi, p. 181.
63
P. SABBATINO, Le due Veneri e il «desiderio di fruir la bellezza» in Ficino e
Castiglione, Società editrice fiorentina, Firenze, 2021, p.11.

pag. 30
quale, nel selezionare le cinque più belle vergini della città
di Crotone, diede alla luce la figura di Elena:

[…]ma quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che


superficialmente vedemo nei corpi, senza dubio daranno molto
maggior piacere a chi più la conoscerà, che a chi meno. Però, tornando
al nostro proposito, penso che molto più godesse Apelle contemplando
la bellezza di Campaspe, che non faceva Alessandro: perchè
facilmente si può creder che l’amor dell’uno e dell’altro derivasse
solamente da quella bellezza; e che deliberasse forse ancor Alessandro
per questo rispetto donarla a chi gli parve che più perfettamente
conoscer la potesse. Non avete voi letto, che quelle cinque Fanciulle
da Crotone, le
quali tra l’altre di quel popolo elesse Zeusi pittore, per far di tutte
cinque una sola figura eccellentissima di bellezza, furono celebrate da
molti poeti, come quelle che per belle erano state approvate da colui,
che perfettissimo giudicio di bellezza aver dovea?64

Utilizzando l’aneddoto di Apelle, Castiglione supera la


congettura pliniana, secondo cui Alessandro Magno stima
l’artista, e ne fa una sua rielaborazione ponendo al centro
dell’interesse l’operare vero e proprio dell’artista, il lavoro e
gli strumenti professionali di cui il pittore necessita per
poter apprendere la perfetta bellezza. Mentre, per quanto
concerne l’utilizzo del dipinto di Elena fatto da Zeusi,
l’autore del Cortegiano, esibisce come il perfetto giudizio
della bellezza del pittore Zeusi gli permette di vedere e
selezionare le più belle donne e di cogliere dai loro corpi le
parti perfette.65 In tal modo si fa riferimento alla
lettera di Raffaello Sanzio, in cui l’artista afferma
64
B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet,
1981, Proemio, Libro 1, cap. LIII, pag.185.
65
P. SABBATINO, Le due Veneri e il «desiderio di fruir la bellezza» in Ficino e
Castiglione, Società editrice fiorentina, Firenze, 2021, p.12.

pag. 31
l’improponibilità dell’imitazione della natura, denunciando
con ironia la «carestia e de’ buoni giudicii e di belle
donne».66

Si evidenza, quindi, non solo la ricostruzione del dibattito


cinquecentesco sull’imitazione ma anche l’opposizione
presente tra le due concezioni estetiche: l’idea della bellezza
contrapposta alla bellezza naturale e l’imitazione dell’idea
in opposizione all’idea dell’imitazione della natura.

Il cortigiano attraverso la conoscenza dell’arte pittorica può


conoscere la bellezza dei corpi vivi e raggiungere la facoltà
di giudizio. Allo stesso tempo, il Castiglione, si rivolge
anche alle donne, le quali tendono in primo luogo alla
bellezza del proprio corpo.

In linea generale, la vita di corte si fonda, principalmente,


sulla competizione tra la dama e l’uomo di corte: se da una
parte la donna di corte è spinta dal desiderio di tendere alla
perfetta bellezza, dall’altra parte il cortigiano, che si intende
di pittura, è mosso dapprima dalla conoscenza di quella
bellezza e poi dal conseguente amore, cioè dal desiderio di
goderne.67

Questo passaggio risolutivo, che dalla conoscenza della


bellezza porta alla fruizione di essa, viene tracciato alla fine
del IV libro. Portavoce di questo tema è Pietro Bembo, il
quale si trasferì ad Urbino presso la corte del Duca nel 1506
66
Ibidem.
67
Ibidem.

pag. 32
e che grazie alla sua celebre opera Gli Asolani, ottenne il
primato come esperto dell’amore neoplatonico.

A tal proposito il Castiglione affida al Bembo l’incarico di


illustrare ed insegnare al cortigiano l’amore vero, quello
felice e puro, definibile come amore Celeste:

[…]ora con più securtà v’imporremo il carico di parlare, ed insegnar


al Cortegiano questo così felice amore, che non ha seco nė biasimo nè
dispiacere alcuno; che forse sarà una delle più importanti ed utili
condizioni che per ancora gli siano altribuite: però dite, per vostra fè,
tutto quello che ne sapete.68

Bembo nell’esporre il suo ragionamento sull’amore si rifà


alla sua opera, Gli Asolani, in particolare all’episodio
dell’eremita e di Lavinello. Fa poi un excursus partendo
dalle auctoritates, antiche e recenti, da Platone fino ai
neoplatonici, citando in particolare Ficino:69

Dico adunque che, secondo che dagli antichi savii è diffinito, Amor
non è altro che un certo desiderio di fruir la bellezza; e perchè il
desiderio non appetisce se non le cose conosciute, bisogna sempre che
la cognizion preceda il desiderio: il quale per sua natura vuole il bene,
ma da sè è cieco e non lo conosce.70

Pietro Bembo per snocciolare il concetto vero e proprio del


desiderio di beneficio della bellezza, espone chiaramente la
68
B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet,
1981, Proemio, Libro IV, cap. L, pag.520.
69
P. SABBATINO, Le due Veneri e il «desiderio di fruir la bellezza» in Ficino e
Castiglione, Società editrice fiorentina, Firenze, 2021, p.13.
70
B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet,
1981, Proemio, Libro IV, cap. LI, pag.521.

pag. 33
definizione di bellezza come elemento divino di bontà che
infonde luce ai corpi rendendoli ammirevoli e bellissimi. A
loro volta, questi corpi illuminati dalla luce divina, attirano
gli occhi del cortigiano, i quali si accendono di desiderio e
sete di possedere cotanta bellezza:

Ma, parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente
che appar nei corpi e massimamente nei volti umani, e muove questo
ardente desiderio che noi chiamiamo amore: diremo, che è un flusso
della bontà divina, il quale benchè si spanda sopra tutte le cose create,
come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e
composto con una certa gioconda concordia di colori distinti, ed
ajutati dai lumi e dall’ombre e da una ordinata distanza e termini di
linee, vi s’infonde e si dimostra bellissimo, e quel subjetto ove riluce
adorna ed illumina d’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio
di sole che percota in un bel vaso d’oro terso e variato di preziose
gemme; onde piacevolmente tira a sè gli occhi umani, e per quelli
penetrando s’imprime nell’anima, e con una nuova soavità tutta la
commove e diletta, ed accendendola, da lei desiderar si fa.71

L’anima, presa dal desiderio di godere, o come meglio dice


il Castiglione di «fruire» di tale bellezza, accompagnata
dalla ragione, luogo in cui è insita la capacità di giudizio, ha
la facoltà di scegliere tra bene e male.

Essendo adunque l’anima presa dal desiderio di fruir questa bellezza


come cosa buona, se guidar si lascia dal giudicio del senso incorre in
gravissimi errori, e giudica che ’l corpo, nel qual si vede la bellezza,
sia la causa principal di quella, onde per fruirla estima essere
necessario l’unirsi intimamente più che può con quel corpo; il che è
falso: e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza,
s’inganna, e vien mosso non da vera cognizione per elezion di

71
Ivi, p.523.

pag. 34
ragione, ma da falsa opinion per l’appetito del senso: onde il piacer
che ne segue esso ancora necessariamente è falso e mendoso.72

Secondo il ragionamento bembiano, l’uomo di corte, che


permette alla sua anima di ragionare con i sensi e quindi di
desiderare e conoscere solo ed esclusivamente le cose
sensibili, incorre a gravissimi errori, poiché non è tramite il
corpo che si può fruire della vera bellezza, altrimenti il
piacere che ne seguirebbe sarebbe per forza di cose
menzognero e falso.

A questo punto il Bembo prende in considerazione i due


mali in cui possono cadere tutti gli innamorati che cedono al
corpo e credono che il corpo stesso sia la causa della
bellezza tangibile, tanto da raggiungere il massimo culmine
solo attraverso un rapporto carnale.

E però in un de’ dui mali incorrono tutti quegli amanti, che adempiono
le lor non oneste voglie con quelle donne che amano: chè ovvero
subito che son giunte al fin desiderato non solamente senton sazietà e
fastidio, ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l’appetito si
ripenta dell’error suo, e riconosca l’inganno fattogli dal falso giudicio
del senso, per lo quale ha creduto che ’l mal sia bene; ovvero restano
nel medesimo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti
veramente al fine che cercavano; e benchè per la cieca opinione, nella
quale inebriati si sono, paja loro che in quel punto sentano piacere,
come talor gl’infermi che sognano di ber a qualche chiaro fonte,
nientedimeno non si contentano nè s’acquetano. E perchè dal
possedere il ben desiderato nasce sempre quiete e satisfazione
nell’animo del possessore, se quello fosse il vero e buon fine del loro
desiderio, possedendolo restariano quieti e satisfatti; il che non fanno:
anzi, ingannati da quella similitudine, subito ritornano al sfrenato

72
Ibidem.

pag. 35
desiderio, e con la medesima molestia che prima sentivano si
ritrovano nella furiosa ed ardentissima sete di quello, che in vano
sperano di posseder perfettamente.73

Il primo male, spiegato dall’autore degli Asolani, sta proprio


nel sentire quel senso di sazietà e fastidio nei confronti della
donna amata, che porta addirittura l’uomo a odiarla.
Quest’ultimo prova un certo senso di pentimento per
l’errore commesso, per aver quindi ceduto alla bellezza
carnale della donna amata, andando così a riconoscere
l’inganno dei sensi che hanno mascherato il male come un
bene ai suoi occhi e, di conseguenza, alla sua ragione.74

Il secondo male è il senso di insoddisfazione del desiderio,


nonostante il piacere erotico provato. Questa
insoddisfazione è legata alla mancata riuscita dello scopo
finale, ovvero il raggiungimento della pace interiore; è per
questo motivo che gli uomini che amano solo con i sensi si
ritrovano sempre con l’animo vuoto, e desiderano di
colmare questo vuoto attraverso la vana ricerca di una
bellezza che possa dissetarli per sempre.

Se l’uomo, invece, lasciasse che la propria anima sia guidata


dall’intelletto, il quale è tendente per natura al cielo,
riuscirebbe a scampare agli inganni della ragione tangibile e
giudicherebbe la bellezza con la ragione come influsso
divino. In questo modo potrebbe elevarsi a Dio e usufruire
73
Ivi, p. 524.
74
P. SABBATINO, Le due Veneri e il «desiderio di fruir la bellezza» in Ficino e
Castiglione, Società editrice fiorentina, Firenze, 2021, p.14.

pag. 36
dell’infinita bellezza, conquistando finalmente la felicità
dell’animo.

Ovviamente, quello del Bembo, è solo il punto di vista di


uno dei dialoganti nell’opera del Castiglione, che va
collocato in linea retta agli interventi e ai ragionamenti degli
altri personaggi. Infatti, se da una parte si ha l’intervento del
Canossa, il quale punta in tutto il suo ragionamento
sull’apprendimento da parte del buon cortigiano ad una
maggior conoscenza della bellezza tangibile grazie all’arte
pittorica, dall’altra parte c’è il personaggio bembiano, che
espone nel suo discorso quel desiderio che prova l’uomo di
corte nel fruire della bellezza conosciuta e al suo
conseguente climax ascendente dalla bellezza sensoriale alla
bellezza divina, dalla Venere Terrena alla Venere Celeste. 75

Si può osservare da questo ragionamento bembiano, che


l’elevazione dalla terra al cielo, o meglio dalla bellezza della
donna amata alla bellezza universale, quindi divina, dal
concetto stesso di bellezza alla bellezza angelica, suprema, è
perfettamente resa e suggerita dal Castiglione attraverso
l’elevazione stilistica di questo libro. Ne è un esempio
l’espressione «musica è la donna amata», 76 in cui viene
tradotto in una spirituale immagine il più elevato concetto
d’amore.77

75
Ivi, p.15.
76
B. CASTIGLIONE, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet,
1981, Proemio, Libro IV, cap. XXVII, pag.411.
77
Ivi, introduzione, p.26.

pag. 37
L’esaltazione dell’amore vista come via verso il bene divino
permea in tutta la conclusione dell’opera. Pietro Bembo
espone la concezione platonica dell’amore e per questo
vengono utilizzati gli scritti di Marsilio Ficino di cui si era
servito già lo stesso Bembo per la composizione degli
Asolani: di qui deriva la meditazione che chiude l’opera di
Castiglione, con una lettura in chiave sublimante della
relazione tra uomo e donna.

La conclusione del Castiglione ingloba e presenta tutti i


punti di vista dei vari dialoganti in un’unica congettura che
è quella bembiana, la quale si caratterizza per i toni
appassionati che l’autore veneziano mostra nel suo
ragionamento e nella sua postura, quasi come se si trovasse
in un’ascesa mistica.

Infatti in vari punti della parte finale dell’opera, tutti i


personaggi commentano ed evidenziano il discorso del
Bembo. In un primo momento vi è la signora Emilia Pio che
esorta il Bembo a stare attento per evitare che con questi
ragionamenti la sua anima si possa distaccare dal corpo:

Guardate, messer Pietro, che con questi pensieri a voi ancora non si
separi l’anima dal corpo.78

78
Ivi, p.549.

pag. 38
Successivamente è la Duchessa che rimarca la via indicata
dal Bembo suggerendola, però, per il cortigiano anziano, il
quale potrà accontentarsi di tanta felicità:

Veramente, disse la signora Duchessa, se ’l Cortegiano non giovane


sarà tale che seguitar possa il cammino che voi gli avete mostrato,
ragionevolmente dovrà contentarsi di tanta felicità, e non aver invidia
al giovane.79

Nel dialogo, infatti, sono la duchessa Elisabetta e la signora


Emilia Pio a guidare una conversazione mondana mentre il
duca Guidobaldo, malato, si chiude nelle sue stanze.
Attraverso l’esaltazione del mito della duchessa Elisabetta
Gonzaga, Castiglione rilancia un modello positivo di donna
virtuosa, nobile e coraggiosa; egli vuole riscattare, in questo
modo, l’immagine della donna rispetto ai toni deteriori
ricorrenti in molti testi della tradizione, dal Corbaccio di
Boccaccio al De Amore di Leon Battista Alberti: riscatta la
donna, e di conseguenza, l’amore.

C’è poi l’intervento di Cesare Gonzaga che si mostra


perplesso per quanto riguarda l’ascesa alla felicità, quindi a
Dio, ritenendola troppo ripida, per cui sarà difficile
raggiungere la meta; è a questo punto che interviene
Gaspare Pallavicino, il quale riprende il discorso del
Gonzaga e rafforza questo pensiero marcando il concetto

79
Ivi, p.550.

pag. 39
che se per gli uomini è difficile raggiungere la meta per le
donne è ancor più impossibile perché:

Ingiuria non vi si fa, dicendo che l’anime delle donne non sono tanto
purgate dalle passioni come quelle degli uomini, nè versate nelle
contemplazioni, come ha detto messer Pietro che è necessario che sian
quelle che hanno da gustar l’amor divino.80

Infine, nel quarto libro del dialogo il Castiglione fa


delineare a Giuliano De’ Medici i caratteri della perfetta
donna di palazzo, egli si mostra difensore delle donne,
affermando che esse non saranno mai superate dagli uomini
nelle contemplazioni del divino amore, portando alla luce
del suo discorso esempi di donne virtuose ed eroiche:

Non saranno in questo le donne punto superate dagli uomini: perchè


Socrate istesso confessa, tutti i misterii amorosi che egli sapeva
essergli stati rivelati da una donna, che fu quella Diotima; e l’angelo
che col foco d’amor impiagò san Francesco, del medesimo carattere
ha fatto ancor degne alcune donne alla età nostra. Dovete ancor
ricordarvi, che a santa Maria Magdalena furono rimessi molti peccati
perchè ella amò molto, e forse non con minor grazia che san Paolo fu
ella molte volte rapita dall’amor angelico al terzo cielo; e di tante
altre, le quali, come jeri più diffusamente narrai, per amor del nome di
Cristo non hanno curato la vita, nè temuto i strazii nè alcuna maniera
di morte, per orribile e crudele che ella fosse; e non erano, come vuole
messer Pietro che sia il suo Cortegiano, vecchie, ma fanciulle tenere e
delicate, ed in quella età nella quale esso dice che si deve comportar
agli uomini l’amor sensuale.81

80
Ibidem.
81
Ivi, p.551.

pag. 40
La donna a cui guarda è una protagonista della vita di
palazzo e accanto alle consuete virtù domestiche, egli
l’adorna di qualità importanti quali la bellezza, l’affabilità,
la gentilezza, la vivacità d’ingegno e la cultura. Doti che si
devono amalgamare in un unicum armonico, che costituisce
il prototipo della perfetta donna di palazzo.

Dunque, in conclusione la linearità ascensionale del punto


di vista bembiano cede il passo alle molteplici prospettive
messe in evidenza dai vari personaggi, ma che vanno a
confluire in quell’unico modello perfetto pensato ed
elaborato da Castiglione.

pag. 41
2.3 “Le stanze per la giostra” di Poliziano

La figura di Venere, come detto fin qui, costituisce uno


degli elementi fondamentali della filosofia neoplatonica di
Marsilio Ficino, il quale, appunto, distinse una Venere
Celeste da una Venere Terrena.

Angelo Poliziano, nella sua opera “Stanze per la giostra” la


dipinge alla stregua di Botticelli nella sua Primavera.

Nel dipinto di Botticelli al centro sta la dea Venere, simbolo


dell’amore, che controlla e dirige le azioni dei vari
personaggi; sopra il suo capo vola il figlio Cupido; le
Grazie, che sempre accompagnano Cupido, intrecciano una
danza mentre Mercurio scaccia le nubi per mantenere il
cielo sempre sereno. È una rappresentazione idealizzata
della natura, espressa attraverso il mito, la stessa che
troviamo nell’episodio centrale delle Stanze di Poliziano,
dove viene descritto il regno di Venere, a cui Cupido fa

pag. 42
ritorno dopo aver fatto innamorare il giovane cacciatore Iulo
(Giuliano de’ Medici) della ninfa Simonetta (Simonetta
Cattaneo, la donna amata da Giuliano):

Né mai le chiome del giardino eterno


tenera brina o fresca neve imbianca;
ivi non osa entrar ghiacciato verno,
non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca;
ivi non volgon gli anni il lor quaderno,
ma lieta Primavera mai non manca,
ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega,
e mille fiori in ghirlandetta lega.
Con tal milizia e tuoi figli accompagna
Venere bella, madre delli Amori.
Zefiro il prato di rugiada bagna,
spargendolo di mille vaghi odori:
ovunque vola, veste la campagna
di rose, gigli, violette e fiori;
l’erba di sue belleze ha maraviglia:
bianca, cilestra, pallida e vermiglia.82

L'opera, un poemetto in ottave, fu composta per celebrare la


vittoria riportata da Giuliano De’ Medici in un torneo
tenutosi il 29 gennaio 1475 a Firenze nella piazza di Santa
Croce. Il torneo era stato organizzato dal signore di
Firenze, Lorenzo il Magnifico, fratello di Giuliano, per
celebrare l'accordo di pace tra le potenze italiane stretto nel
1474 grazie all'azione del Magnifico.

Il poemetto, la cui realizzazione iniziò nello stesso anno


1475, consta di due libri: il primo di centoventicinque
ottave, il secondo di sole quarantasei; la composizione fu
82
A. POLIZIANO, Stanze, in Poesie Italiane, a cura di Saverio Orlando, Rizzoli,
Milano, 1988, p.25.

pag. 43
infatti interrotta, con tutta probabilità, a causa della morte di
Giuliano e del ferimento di Lorenzo nella sollevazione
seguita alla congiura dei Pazzi, il 26 aprile 1478.

Accanto al tema encomiastico dell'elogio di Giuliano,


l'opera racconta anche l’amore platonico di Giuliano per una
donna fiorentina, Simonetta Cattaneo, sposa di Marco di
Piero Vespucci. Il disegno dell'opera dovette però essere
modificato nel 1476 a causa della morte improvvisa di
Simonetta, avvenuta il 26 aprile.

Le Stanze furono pubblicate per la prima volta nel 1484


nella raccolta Cose vulgare del Poliziano; resta di
fondamentale importanza l'edizione di Aldo Manuzio del
1498. Nel corso del XVI secolo le Stanze furono spesso
manomesse, secondo il gusto del tempo, da coloro che
volevano eliminarne la venatura popolare caratteristica dello
stile comunque raffinatissimo di Poliziano. Solo nel 1863,
grazie all'impegno di Giosuè Carducci, vide la luce una
nuova edizione filologicamente accurata, dove le Stanze
furono ripresentate nella loro versione originale, epurata
dalle interpolazioni e dalle modifiche cinquecentesche.

I pregi dell'opera, piuttosto che nella trama, particolarmente


esile, sono nel significato stesso dell'operazione letteraria
compiuta da Poliziano nelle Stanze. 83

83
A. A. ROSA, Storia europea della letteratura italiana. Vol. I - Le origini e il
Rinascimento, Torino, Einaudi, 2009, p. 413.

pag. 44
«Siamo di fronte, né più né meno, al travestimento
classicheggiante della contemporaneità. [...] Il culto
dell'antico è in questa età talmente forte da indurre letterati e
poeti a proiettare le vicende contemporanee su questi
fondali scenici anche un po' ingenuamente artificiosi e, in un
certo senso, ad allegorizzare il presente, non più però alla
maniera di Dante, bensì utilizzando il bagaglio mitologico
della civiltà classica: Giuliano è Iulo, Simonetta una ninfa,
Amore e Venere gli dei ex machina della vicenda. Tutto ciò,
beninteso, con la leggerezza elegante, e scarsamente
impegnativa, propria di una mentalità ben consapevole di sé
e della natura fondamentalmente letteraria di tale
operazione. Qualcosa di simile veniva compiendo nelle arti
figurative un pittore come Sandro Botticelli, quasi coetaneo
di Poliziano.»

Nel primo libro, composto da centoventicinque stanze, Iulio


o Iulo, trasfigurazione classicheggiante di Giuliano, è
rappresentato come un giovane bello e coraggioso, in
perfetta aderenza al paradigma mitico di Ippolito. Egli vive
armoniosamente, disprezzando l'Amore e dedicandosi agli
esercizi del corpo, alla caccia e all'attività poetica. Tuttavia
Cupido, con l'intento di vendicarsi, mentre Iulo è impegnato
in una battuta di caccia, gli fa apparire davanti una
splendida cerva, che il giovane tenta, senza successo, di
raggiungere. Quando i due giungono in una radura, la cerva
si trasforma in una bellissima ninfa, Simonetta. Colpito

pag. 45
dalla freccia di Cupido, Iulo si innamora della giovane. Il
dio, soddisfatto della buona riuscita del suo piano, può
dunque tornare felice a Cipro, presso la madre Venere.
Poliziano si dilunga nella descrizione delle bellezze del
giardino e del palazzo della dea.

Il secondo libro, composto da quarantasei stanze e


incompiuto, si apre con la decisione da parte di Venere,
informata dal figlio dell'accaduto, di assicurare che l'amore
di Iulo sia ricambiato da Simonetta. Perché questo accada, è
tuttavia necessario che Iulo dimostri la sua virtù
combattendo e ottenendo la vittoria in un torneo indetto per
la giovane; Iulo è informato della decisione divina in sogno
dallo stesso Cupido, che gli preannuncia anche la prossima
morte dell'amata. L'opera si interrompe mentre Iulo, ardente
d'amore, si appresta a partecipare alla giostra.

Le figure della mitologia classica occupano nelle Stanze un


ruolo di primissimo piano. La tendenza a inserire
personaggi mitologici nelle opere letterarie d'altronde non fu
del tutto estranea alla letteratura del Medioevo; dopo
Poliziano sarebbe divenuta, come abbiamo sottolineato,
particolarmente comune, tanto da perpetuarsi per più di tre
secoli sino all'inizio del XIX secolo e all'avvento del
Romanticismo.

L’opera si presenta come una favola mitologica che si snoda


in una dimensione astorica e priva di luoghi definiti. Le

pag. 46
influenze della letteratura classica sono evidenti sia da un
punto formale che contenutistico. Anche se il poemetto è
scritto in volgare il linguaggio è costantemente nobilitato da
stilemi classici e da una tessitura espressiva propria della
tradizione greca e latina. Come nei grandi poemi omerici, le
trame intessute dagli dèi latini stanno alla base dell’intera
vicenda. Inoltre, l’incontro tra il protagonista Iulio (nome
latinizzato di Giuliano de’Medici) e la ninfa Simonetta
(ovvero Simonetta Cattaneo, bellissima moglie di Marco
Vespucci che ha prestato il volto alla Nascita di Venere di
Botticelli) rimanda alla storia di Apollo e Dafne narrata in
Le metamorfosi di Ovidio.

La figura di Venere riveste un ruolo di fondamentale


importanza nelle Stanze: essa era infatti, come abbiamo già
visto, uno degli elementi fondamentali della filosofia
neoplatonica di Marsilio Ficino, che distinse una Venere
celeste, causa della diffusione dell'amore divino nel mondo,
da una Venere terrena, all'origine della crescita spirituale di
chi sa dominare le proprie passioni: questa Venere opera,
nelle Stanze, su Iulo. Secondo le teorie cosmologiche di
Ficino, inoltre, l'amore è il fondamento del cosmo: grazie ad
esso avviene la creazione, ed esso guida le creature verso
Dio.

Se dunque al principio della narrazione la figura di Iulo


appare piuttosto insensibile e rifiuta l'amore, ciò si ricollega
ai caratteri di devozione e castità propri dell’orfismo: è però

pag. 47
proprio la scoperta dell'amore a liberare il giovane da quelle
componenti orfiche legate all'esperienza funebre.

L'innamoramento appare quindi come processo di crescita


spirituale interiore, di progressiva acquisizione del dominio
di sé, ma anche come fonte di conoscenza: il regno di
Venere, dove Cupido giunge nelle ultime ottave del primo
libro, è raffigurato a immagine del regno delle idee
platonico, dove la pluralità del reale può essere ricondotta a
un'origine razionale e ordinata che è sottesa a tutte le
manifestazioni della realtà stessa. Il viaggio verso tale regno
esprime dunque l'allontanamento dell'uomo dalla
dimensione materiale e il suo viaggio verso la conoscenza.

In un'opera tanto caratterizzata dal figurativismo, dunque,


l'Amore, assieme alla bellezza femminile nella sua forma
sensuale, cui appare intrinsecamente legato, viene a essere
l'unico stabile punto di riferimento nel fragile impianto
ideale dell'opera stessa. Di conseguenza, sebbene la
tendenza al figurativismo sia costantemente presente, la
descrizione della ninfa Simonetta è caratterizzata da
«qualche bagliore di sensualità autentica» che «da quelle
immagini arriva fino a noi».

L'attenzione dedicata da Poliziano al tema mitologico e, in


particolare, a quello amoroso, non nega il fatto che le Stanze
restino nella loro sostanza un'opera caratterizzata da un fine
encomiastico.

pag. 48
Anche l'elemento encomiastico si inquadra completamente
nel gusto e nella poetica di un autore, come Poliziano, che
opera sotto l'egida di un mecenatismo colto e illuminato.
L'attività poetica era infatti intesa essenzialmente come
esercizio d'arte, e quindi poteva porsi senza problemi al
servizio di un signore.

pag. 49

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