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Linguistica italiana

24-2-2021 (Lezione I)

Alessandro Fo nacque nel 1955 a Legnano, figlio di Fulvio Fo, fratello di Dario Do, teatrante che ebbe l’ultimo
premio Nobel per la letteratura. Alessandro studiò a Torino, poi si trasferì a Roma per studiare all’università
de La Sapienza. Da giovano Fo era un musicista, uno sportivo; non amò il latino, ma se ne appassionò
studiando per la maturità un autore tardo antico, Rutilio Namaziano, autore del De reditu. Si laureò così alla
Sapienza, poi insegnò a Cremona e poi a Siena “Lingua e letteratura latina”. Si occupò anche di poeti italiani,
a partire da Ripellino, che insegnò a Roma letterature slave, di cui rimase colpito e affascinato. Ha quindi
alternato l’attività di latinista (traducendo anche l’Eneide e Catullo) e di poeta.

Poesia “Al figlio”

Questa poesia compare già nel 2004 in Corpuscolo, in cui c’era una sezione intitolata “Libro d’oro”, una
raccolta di poesie che vorrebbe elaborare un frammento lirico attorno alle tre preghiere cristiane, Padre
nostro, Ave Maria e Gloria al padre. Talvolta, ma non sempre, i titoli ripetono la pericope a cui si riferiscono.
Mancanze perché è un volumetto fatto davvero di mancanze, di noi come uomini nella nostra natura umana
ma anche nella poesia. “Al figlio” è la seconda pericope del Gloria al Padre, AL FIGLIO e allo Spirito Santo, ma
indica anche “il figlio” che uno desidera avere: non solo della preghiera cristiana, ma anche il figlio che siamo
stati e che desideriamo avere.

Il cenno a Sant’Agostino allude all’episodio dell’estasi di Ostia del libro IX delle Confessioni; Fo era a Roma,
non lontano da Ostia, assieme alla madre, in un appartamento al settimo piano.

La poesia è la prima poesia del libro, e ci mostra la prima mancanza, quella di un figlio, un figlio che non si è
avuto. Quel desiderio che nasce quando si sta insieme da tanto tempo e si è innamorati. Il poeta si ricorda di
quando abitava in via Orsa Maggiore in un appartamento all’ultimo piano, quando scuoteva dal balcone la
tovaglia lasciando le briciole agli uccellini. Dalla terrazza sentiva il rumore del bambini che uscivano dalla
scuola davanti e immagina, ora che non abita più là, che la situazione non sia cambiata (“L’aria sarà grida di
bambini”: quella situazione continua anche se lui non c’è più).

La storia di un amore, tra lui e sua moglie, che si è interrotta proprio quando la coppia sembrava poter
coronare il desiderio di avere un figlio.

Nella terza strofa il tema cambia: da quel terrazzo, dove gli uccellini beccavano le briciole, si aveva
l’impressione di poter raggiungere il cielo; se non attraverso l’estasi attraverso un salto in alto (da giovane Fo
fu un atleta) verso la luna, l’Orsa Maggiore, il cielo delle costellazioni.

“Però” che viene evidenziato, posto fuori dallo schema metrico che chiarisce che la realtà non è mai come
sembra, ma almeno sette volte più complessa: l’impressione di poter raggiungere il cielo non è altro che
un’illusione. Proprio quando in quell’appartamento tutto sembrava procedere verso un futuro di progetti,
ecco che tutto cade giù.

Il salto alla Fosbury prende il nome da Fosbury, un saltatore statunitense che nel 1968 saltando di schiena e
non più di pancia vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi del Messico.

Il riferimento a Sant’Agostino è interessante per due aspetti:


- la conversione  Sant’Agostino narra nella sua biografia, dopo una gioventù scapestrata, quando arriva a
Milano si converte e la conversione avviene proprio sentendo, in un giardino, la voce di un bambino che
canticchiava;
- IX libro delle Confessioni  manifesta il desiderio di tornare in Africa con la madre per diffondere il
cristianesimo, così da Milano si recano ad Ostia per imbarcarsi. Durante questa sosta, sua madre Monica
muore, ma nei giorni precedenti vivono insieme un’estasi in cui si avvicinano all’infinito, al pensiero divino.
Metrica

Poesia divisa in 4 strofe di lunghezza diversa, un totale di 18 veri con metri diversi. C’è una certa insistenza
sull’endecasillabo e il settenario: sia il primo verso che l’ultimo sono endecasillabi. Al v.2 c’è un ottonario,
ovvero un settenario più una sillaba; ai vv.4-6 si ha un decasillabo; i vv.7-14 sono dodecasillabi
(quinario+settenario); al v.15 si hanno 15 sillabe, il verso più lungo della poesia.

Il componimento è tenuto insieme da molti enjambements.

A segnare questi contrasti è l’uso dei tempi verbali: si passa dall’imperfetto narrativo del v.1 -“vivevo”-, al
futuro dubitativo del v. 4 -“l’aria sarà grida di bambini”- (si percepisce questo stacco doloroso, questa
mancanza), poi al presente del v.17 -“nulla è”-.

Ci sono dei parallelismi: v.14 -“verso la luna, verso l’Orsa Maggiore”.


Ci sono allitterazioni (ripetizione di una consonante o sillaba): v.6 –in aLto era L’amore-
Ripetizione sequenze foniche: as-es-os /am-om-em (insistenza di suoni che si richiamano da un verso
all’altro
Una sinestesia al v.4 -“l’aria sarà grida di bambini”- fatta attraverso il paragone, vengono messi insieme “aria”
e “grida” (che appartengono a due ambiti diversi) . I simbolisti francesi furono maestri dell’arte sinestetica.
Paronomasia (si accostano parole affini di suono ma con significato diverso): vv.6-7 -aMore, oMbra, teMpra.
Assonanze e consonanze: vv.6-17 –oMbra, seMbra.
Ci sono rime interne: v.9 terrazzo, v.15 ragazzo ; vv.4-8 bambini ; v. 1 “adesso”, v. 12 “stesso”, v.18
“complesso”

25-2-2021 (Lezione II)

Poesia “Laura alle Poste di Via A.M.R.”

È una poesia che si riferisce ad un luogo preciso come quella “Al figlio”, in cui si riferisce a Ostia, il luogo in
cui è nato il poeta. Laura è un impiegata dell’ufficio postale, in cui Fo si recava per spedire i suoi libri di
poesia agli amici. Il nome di Laura richiama Petrarca, ma non è come l’amore petrarchesco, ma una
lavoratrice.

In questa poesia c’è una sorta di piccola poetica/filosofia della vita, di un uomo che non partecipa alla sena
della vita letteraria, un poeta che scrive per s’è, che descrivono le esperienze della sua esistenza. C’è un
dialogo tra lui è questa donna, bellissima, a cui si è affezionato; lei lo prende un po’ in giro, dicendogli che i
suoi libri di poesia non sono libri veri, che andranno perduti. Dal verso 15 in poi i versi sono di Ripellino, un
poeta a cui Fo si ispira, che lo ha spinto a uscire allo scoperto coi suoi versi. Ripellino nacque a Palermo,
studiò a Roma negli anni della seconda Guerra mondiale circa, allievo di Ettore Logatto, il maggior slavista
europeo del secolo scorso; Logatto invitò Ripellino a dedicarsi alla letteratura ceca, infatti su Praga R.
pubblicò il libro Praga magica, una descrizione dell’anima profonda di questa città, la sua vita culturale e
letteraria.

R. non fu mai conosciuto direttamente da Fo, nonostante frequentasse l’uni di Roma quando R. insegnava.
Negli anni ’70 però ebbe tra le mani un suo libro di poesie e tanto se ne innamorò che volle leggere tutti i
suoi scritti, diventandone editore e trovando la spinta di pubblicare le sue poesie (Fo da giovane voleva fare il
cantautore). Questa poesia mostra l’importanza di R. per Fo, emerge dalle battute di Laura, che sembra quasi
rimproverarlo bonariamente di non scrivere libri veri, ma libri di poesia. I suoi non sono libri veri, non sono
romanzi. La poesia suscita perplessità in una persona semplice come Laura, ma nonostante il suo scetticismo
Fo le mette in bocca i versi di Ripellino.
Attraverso questo dialogo Fo riprende le considerazioni di R. sulla debolezza, fragilità della poesia. Fo parla
anche di Rutilio Namaziano, autore del De reditu (l’abbandono della città di Roma e il ritorno alla piccola
città di origine, nella propria anima).

Metrica

Sono 35 versi; 5 strofe caratterizzate da versi di misura diversa: al v. 4 un verso di 4 sillabe, al v. 19 se ne


hanno 14  Irregolarità
Ripetizioni: un vero libro/un libro vero (significato diverso in base alla
vv.24-29-30 marito/appartato/marito/sentito
Nessi fonici come TR e GU che si ripetono
Sequenze foniche di parole con VE
Accostamenti paranomastici (parole simili da un punto di vista fonico ma diverse sem) v.28 non sarò certo al
centro
Assonanze: v.19 DELLE LETTERE
Rime al mezzo e in fondo: Laura è in rima al v.1 e in posizione iniziale al v.2, POSTALE al mezzo al v.1 e
SENSUALE al mezzo al v.3
Rime interne: vv.1-2 ERA/ERA, v.12 ADORAVO/STAVO, v.32-35 AVRANNO/ANDRANNO
Rime in evidenza: vv.5-7 DIETRO/VETRO, vv.12-16-18 ZITTO/SCRITTO/GUITTO

Una poesia che presenza una serie di elementi che la rendono particolarmente curata da un punto di vista
sonoro, che mettono insieme questi versi nel dialogo con l’impiegata postale.

Il sistema fonetico

I suoni che caratterizzano la lingua compongono il sistema fonetico, in italiano ci sono 30 fonemi: 7 vocalici,
2 semiconsonantici e 21 consonantici (se si considerassero anche le consonanti che possono rafforzare – per
es. T/TT – si avrebbero 45 fonemi). Il sistema dei fonemi è per lo più fisso: più fonemi ci sono, più diventa
difficile distinguerli nella loro articolazione concreta. I fonemi sono diversi perché li articoliamo diversamente
dai nostri apparati articolatori/fonatori, se questi suoni fossero troppi sarebbe difficile distinguerli. Il carattere
che hanno i fonemi è proprio il loro valore distintivo, se i suoi fossero troppo vicini si rischierebbe di
confonderli e confondere le parole l’una dall’altra. La necessità di articolare bene fa sì quindi che i fonemi
siano un numero limitato, si parla per questo di ECONOMIA DELLA LINGUA : un sistema con 30 suoni è
facilmente dominabile e questi atomi, diversi l’uno dall’altro, combinati possono formare tutte le sillabe della
lingua e con esse tutte le parole  Da un numero limitato di elementi, grazie alle molteplici combinazioni di
essi si dà vita a un numero illimitato di parole! Questo primo livello della lingua difficilmente va in contro a
cambiamenti, è generalmente una parte solida, fissa, ferma. È proprio sulla sua stabilità che si fonda la lingua.
È vero he anche il sistema fonetico cambia, ma cambia in un periodo molto lungo, perché se cambiasse in
breve tempo non riusciremmo a costruirci una lingua. Per esempio, il sistema fonetico del latino è cambiato
passando al latino volgare da cui poi sono venute fuori le lingue romanze; dal sistema fonetico del latino
sono sviluppati i diversi sistemi fonetici delle lingue romanze, ma per accorgerci di questi cambiamenti
devono trascorrere molti anni, secoli.

Anche nel caso della morfologia i cambiamenti si notano in tempi lunghi, a differenza del sistema lessicale
che invece è continuamente sottoposto a cambiamenti. La “buccia esterna” della lingua, che riguarda la
realtà, cambia continuamente e inevitabilmente con essa. Per poter vivere all’interno di una realtà che cambia
c’è bisogno di aggiustare la lingua sulla base di questi cambiamenti da un punto di vista lessicale: le strutture
restano, ma il sistema lessicale ingloba continuamente le esperienze della storia alle quali partecipiamo.

I modi per permettere al sistema lessicale di una lingua di adeguarsi alle innovazioni, rendersi duttile e
capace di esprimere la realtà, sono 4:
- utilizzare i moduli formativi interni alla lingua stessa: la lingua è caratterizzata dalla morfologia
grammaticale e lessicale; il lessico di una lingua non è composto solo da termini immotivati, ma anche
elementi analizzabili nella loro costruzione strutturale, create da prefissi, suffissi o due parole insieme. Questa
parte, che riguarda la morfologia lessicale, ci consente continuamente di costruire nuove parole. Usando
questi elementi possiamo creare nuove entità, per es. da socialismo possiamo avere socialista o socialistico;
- tutte le parole hanno un significato, ma molte parole si possono usare con significati particolari traslando di
significato per esempio attraverso l’uso della metafora o la metonimia . questo ci permette di attribuire più
significati alle parole, per es. gamba si riferisce sia all’arto inferiore dell’uomo e alla gamba del tavolo 
Queste evoluzioni, forzature semantiche ci permettono di arricchire il lessico!
- guardare come fanno gli altri, cioè imitare ciò che viene fatto da altre lingue. Prendere a prestito parole,
modelli semantici di altre lingue, prestiti che accadono quando si hanno contatti tra lingue  Acculturazione
della lingua! (Quando si parla di prestiti si parla di INTERFERENZA linguistica: tutte le lingue vivono processi
di interferenza linguistica: sia perché sono sempre in contatto con altre lingue - prestiti esterni -, sia perché
sono in contatto con i dialetti, le lingue classiche, con termini “scaduti” della lingua che tornano in auge nella
contemporaneità - prestiti interni - . Il fenomeno del prestito è ricco e vario!)

26-2-2021

Il lessico dell’italiano

Il sistema lessicale di una lingua costituisce la parte più sensibile, più mobile, più reattiva della lingua; quella
che cambia a seconda delle innovazioni che vengono dalla società e dalla storia. Le strutture profonde invece
hanno bisogno di tempi lunghi per potersi modificare, come il sistema fonetico, morfologico e sintattico;
sono cambiamenti talmente lenti che non ce ne accorgiamo, mentre ci accorgiamo continuamente di parole
nuove e di quelle che cadono nel dimenticatoio.

Nelle varie realtà linguistiche c’è più o meno forte sostituire prestiti stranieri con parole della propria lingua.
In Italia questo atteggiamento conservatorio, purista, fu particolarmente diffuso nell’’800, andando pari passo
con l’ideologia nazionalistica, e dopo le Guerre mondiali. Mussolini incaricò l’Accademia d’Italia di
promulgare delle parole straniere da sostituire con parole italiane, accompagnandole da provvedimenti
legislativi: prima che salisse al potere infatti, emanò una legge che tassasse i cartelli stradali in francese (per
es. bar, restaurant, hotel). Quindi, questa esperienza italiana ottocentesca e novecentesca legata all’ideologia
nazionalista andò scemando dopo la Seconda Guerra mondiale, quando venne lasciato tutto così. In questi
ultimi anni però, ci sono stati interventi in difesa della lingua: il più rappresentativo è certamente quello
dell’Accademia della Crusca, che ha stabilito un gruppo di lavoro, dal nome Incipit, che lavora su una serie di
bollettini che suggeriscono una serie di parole che sostituiscano anglicismi, soprattutto in riferimento alle
istituzioni pubbliche, per far sì che il linguaggio venga compreso da tutti.

Continuamente la lingua cambia, sia per influenze straniere ma anche per tante altre ragioni, che partono
sempre dalla comunità che parla quella lingua e ha vari mezzi per adattare il suo lessico alla realtà mutata. I
cambiamenti spesso nascono dai cambiamenti interiori, le persone che parlano la propria lingua sentono
spesso di modificarla per influsso di ciò che viene da fuori. Se in Italia ricorrono tanti anglicismi è perché
probabilmente c’è la tendenza sociale a guardare altrove: l’italiano fino all’800 è sempre stata una lingua
letteraria, sempre uguale a sé stessa, sempre con gli stessi modelli antichi Dante, Petrarca e Boccaccio,
perché questo nel corso dei secoli fino all’Unità d’Italia non ci sono mai stati grandi rivoluzioni linguistiche.
Accanto ai modelli poi fiorivano i dialetti e il latino, l’altra grande lingua che tutti conoscevano e praticavano;
la lingua della cultura, della chiesa, dei tribunali, dei giuristi; fino ai primi decenni dell’ ‘800 nelle università si
usava il latino. Alessandro Volta, che fu uno dei massimi scienziati europei sullo studio sull’elettricità,
insegnava il latino  Il latino aveva il vantaggio di avere la stessa funzione che oggi ha l’inglese! Fino a metà
‘800 la lingua d’uso era il latino, la lingua viva della cultura, delle scienze, dell’università. Questo consentiva
agli studenti e ai professori di girare da un’università all’altra riuscendo sempre a comprendersi attraverso il
latino, che ovviamente nei secoli non è stato sempre lo stesso.
Il latino era importante non solo perché dava un modello alla lingua italiana, ma anche perché fu il collante
comune delle culture europee.

I mezzi con cui le lingue arricchiscono il loro lessico, una tendenza all’allargamento che non parte da
esigenze esterne ma soprattutto interne:
- influenze esterne  il lessico di una lingua può affinarsi in base a ciò che ha davanti, non solo le lingue
moderne ma anche quelle antiche. Tutte le lingue, se c’è bisogno di accrescere il lessico, possono diventare
modelli da cui trarre esempio, o prendendo la parola stessa, o adattando la propria lingua a quella straniera
(CALCHI). Ad un certo punto, queste parole che vengono da fuori, le modelliamo al nostro sistema lessicale;
- formazione delle parole  più della metà delle parole della nostra lingua è fatta di combinazioni (con
prefissi, suffissi ecc.)!
- i cambi semantici  le parole possono cambiare di significato, allargarlo o restringerlo, assumere significati
secondari (per es. asino: animale e offesa) ecc.
- cambiare categoria alle parole  talvolta parole che appartengono ad una determinata categoria
grammaticale vengono trasferite ad un’altra, dando vita a nuove parole (per es. espresso: participio passato
di “esprimere”, ma anche aggettivo -caffè espresso- e sostantivo –al bar: “mi dia un espresso”; lavatrice:
femminile di “lavatore”, ma anche sostantivo -macchina che lava i panni- ; locanda: sostantivo -luogo in cui
si può dormire-, ma anche gerundio di “locare”).
Può succedere anche che nomi propri, che non sono una categoria linguistica, possono diventare nomi
comuni: per esempio, molti prodotti alimentari prendono il loro nome dal luogo in cui sono generati
(gorgonzola: formaggio derivato da Gorgonzola, una località lombarda; marsala: vino liquoroso prodotto in
Sicilia)

Il lessico di base è quel nucleo del lessico che tutti quanti conoscono e posseggono, un numero limitato,
accanto al quale c’è il lessico comune e il lessico specialistico. L’80-90% del lessico che usiamo
quotidianamente è lessico di base, è deriva soprattutto dal latino. Tuttavia, quando si considerano le parole
che hanno l’etimo latino bisogna fare una distinzione: solo una piccolissima parte di esse è costituita da
parole che hanno una trasmissione ininterrotta (es. padre, madre, terra), cioè costituiscono quel lessico
patrimoniale che ci portiamo dietro da generazioni . Dall’altra parte, le restanti parole che hanno un etimo
latino sono solo prestiti fatti sul latino, di tradizione interrotta (LATINISMI/PAROLE DOTTE)

3-3-2021

Latinismi
Parole che sono riprese dalla lingua latina (es. album – bis – excursus) sono coniazione di termini in forma
latina apparsi recentemente in qualche lingua moderna.

Doppioni o triploni
Parole che non hanno una forma latina così immediatamente evidente; alcune sono latinismi colti, altre sono
parole ereditarie, o lessico patrimoniale, ovvero ciò che deriva dalla nostra eredità. Quest’ultime sono parole
che sempre si sono usate e attraverso l’uso continuo della lingua parlata sono state trasmesse di generazione
in generazione; sono chiamate anche parole popolari (es. capitolo – capecchio, disco – desco), anche se la
parola “popolare” non è adeguatissima, per questo è più opportuno parlare di latinismi, dalla tradizione
interrotta, e parole ereditarie, trasmesse direttamente.

Riccardo Tesi, Lemma: De Mauro ha fatto dei calcoli per dimostrare quanto pesino nel lessico dell’italiano i
latinismi, la maggior parte, e le parole ereditarie, che sono solo qualche migliaia  Non si può essere del
tutto sicuro, non è facile distinguere un latinismo da una parola ereditaria! Nell’esame delle parole che
vengono dal latino spesso sorge un dubbio: per esempio esercito, exercitus: nei primi documenti dell’italiano
invece di esercito si usava l’hoste; esercito inizia ad essere usato con la grafia latineggiante con la X e col
significato di oggi solo dal ‘300, prima indicava una moltitudine di persone. Questa parola è quindi stata
ripresa dal volgare per sostituire il latinismo precedente hoste.

Ci sono dei secoli in cui i latinismi sono veramente tanti, come nel ‘400, l’Umanesimo, in cui si riscopre la
cultura classica. È chiaro che in questo secolo arrivino tanti latinismi nei volgari italiani, non solo perché c’è
passione per il mondo latino, ma anche perché dalla metà del secolo si cerca di rivalutare il volgare
nobilitandolo: non più quello parlato dei trecentisti, ma, per essere alla pari della nobiltà del latino, deve
arricchirsi proprio da esso  travasare dal latino al volgare più termini possibili per renderlo più elegante, più
fine, più nobile!

 La quantità di latinismi è strabordante!

I latinismi sono riconoscibili dalla forma:


- di solito le parole di tradizione ininterrotta, quelle ereditarie, dato che si sono trasmesse per via orale,
hanno subito tutte quelle trasformazioni della linguistica che ha portato dal latino volgare ai volgari italiani
 presentano delle mutazioni fonetiche;
- differenze semantiche.

Un primo adattamento che viene fatto ai latinismi è quello di adattarli alla fonetica dell’italiano, togliendo le
consonanti finali o cadendo o trasformandosi in altro, ma anche alla morfologia, assimilando il neutro al
maschile  Adattamenti fonomorfologici! La stessa cosa viene fatta per le parole straniere: i prestiti si
dividono in INTEGRATI, o bruti (prendendo la parola straniera così com’è) o ADATTATI, alla fonetica e alla
morfologia dell’italiano. Per i latinismi il processo è analogo!

Anche il significato di solito rimaneva il medesimo

Esempi

ANGUSTIA - ANGOSCIA
angustia, ae  Latinismo. Parola usata solitamente al plurale per indicare le ristrettezze economiche.
L’aggettivo e il sostantivo derivano dal verbo ANGERE.
angoscia  Parola ereditaria. Parola che indica il tormento, c’è un significato morale e psicologico, non più
materiale come la parola latina (sviluppo semantico). Ci sono anche una trasformazioni fonetiche: la U breve
latina diventa una O chiusa (trasformazione vocale tonica) + il nesso ST si trasforma in toscano in SC.

AREA – AIA
Area, ae  Latinismo. Parola che indica una superfice.
Aia  Parola ereditaria. Parola che indica lo spazio lastricato di solito davanti la casa colonica del contadino
per compiere lavori agricoli. Linguaggio “specialistico” dei contadini (sviluppo semantico). C’è una
trasformazione fonetica: in toscano, il nesso RJ si riduce a J

SILICE – SELCE
Silice  Latinismo. Parola che indica quarzo, ossido di silicio (attestazione dal ‘700), che viene dal latino silex,
silicis. Si ha la riduzione della sillaba atona:
Selce  Parola ereditaria. Parola che indica la pietra dura (attestata dal ‘300, sviluppo semantico). Si ha
l’eliminazione della sillaba atona.

Se una parola si trova attesta sin dai primi secoli, probabilmente è ereditaria; se invece è attestata più tardi,
può essere che si tratti di un latinismo. Tuttavia bisogna stare attenti: ci possono essere latinismi attestati sin
dalle origini (per es. Dante, nel Paradiso e nel Convivio, ricorre a tantissimi latinismi), e ci possono essere
parole popolari che per qualche ragione
PLEBE – PIEVE
Plebe  Latinismo. Riproduce esattamente la parola latina, plebs, plebis, e anche in italiano ha lo stesso
significato.
Pieve  Parola ereditaria. Parola che indica la parrocchia di campagna (sviluppo semantico). Ci sono anche
trasformazioni fonetiche: il nesso PL diventa PJ + la B intervocalica, consonante occlusiva, spirantizza in V + la
E tonica di plebe avrebbe dovuto dare una E chiusa, ma ha una E aperta perché le parole riprese dal latino
non venivano riprese dalla pronuncia latina, ma da quella scolastica. In Italia, “vocale incerta, vocale aperta”.

04-03-2021

Galileo da un certo punto della sua vita abbandona il latino, il Dialogo dei massimi sistemi infatti è scritto in
volgare. Tuttavia, l’insegnamento universitario continuò ad essere a lungo impartito in latino. L’attività
scientifica, filosofica, giuridica delle classi colte non fa altro che introdurre una gran quantità di termini che in
latino erano utilizzati anticamente o si coniano nuove parole sulla base delle strutture compositive latine (es.
verbi come “convergere” e “divergere”, termini che diventano di moda in astronomia, utilizzati da Keplero; i
naturalisti utilizzano termini greci e latini per designare le nuove piante e i nuovi animali scoperti durante
l’esplorazione del nuovo mondo, come “cactus”; in botanica viene ripreso “polline”, da pollo, pollinis; la
parola “progresso”, nel senso moderno, una nozione che si sviluppa dagli illuministi nel ‘700, viene da
progredior latino, che vuol dire “progredire avanti”, assieme al sostantivo progressus - mutazione significato
- ; “liquore”, usato anche da Dante, voleva dire liquido, ma nel corso del ‘600 in Francia questa parola si
specializza per designare un liquido con un’alta gradazione alcolica - mutazione significato -).

Questa tendenza ad attingere dal vocabolario latino per designare nuovi oggetti fa sì che nelle varie lingue
neolatine si crei un vocabolario, per così dire, comune. Per esempio, “inoculare” in latino significava
“innestare ad occhio”=quando si innesta una pianta; questo verbo iene ripreso in inglese per indicare
l’inoculazione dei vaccini.

Non solo gli scienziati, ma anche i letterati attingono dal vocabolario latino, soprattutto i classicisti. Uno di
questi classicisti dell’ ‘800 è Leopardi. Leopardi afferma che gli scrittori e i poeti sono sempre stati e devono
continuare a essere liberi di prendere da quel maestoso vocabolario latino tutto ciò di cui hanno bisogno,
senza che ci sia il Vocabolario della Crusca a stabilire cosa si possa o non si possa prendere. Siamo nel 1824,
questa affermazione molto ardita che ci fa capire quanto i letterati italiani abbiano sempre fatto ricorso al
vocabolario greco-romano.

 Latino: grande serbatoio delle lingue europee!

Questo ripescare dal vocabolario latino di personaggi italiani è diverso dall’azione di personaggi stranieri: la
capacità dell’italiano è quella di assimilare la lingua classica, mentre nelle altre lingue rimangono lì come
“bruti” latinismi. In italiano invece vengono adattati alle strutture foniche, si trasformano in base a quelle che
sono le tendenze generali della fonetica e della grafia dell’italiano  si italianizzano. In italiano, quindi, sono
rari i latinismi bruti, per esempio medium e radium, che sono termini moderni non italiani; a questi latinismi
corrispondono degli allotropi popolari di tradizione ininterrotta che sono “mezzo”, “radio” e “raggio”.
Medium e radium in italiano diventano “medio” e “radio”.

 In italiano, la forza di assimilazione dei latinismi è più forte delle altre lingue europee! (es. album,
latinismo che arriva dalla Francia nel ‘700, che in italiano diventa “albo”)

Una parte considerevole dei latinismi presenti in italiano non sono solo adattati alle strutture
fonomorfologiche dell’italiano, ma sono anche della parole semidotte, cioè hanno sia tratti che ci fanno
capire che si tratta di latinismi, ma anche tratti popolari.
Per esempio “dovizia”: viene da divitia, divitiae.
Come si distingue un latinismo da una parola popolare?

Ci sono più spie, spie fonetiche che sono abbastanza sicure:


- una caratteristica che riguarda la pronuncia della E e della O tonica: in latino medievale e umanistico erano
aperte, indipendentemente dalla quantità (non si riconosceva più), nella pronuncia scolastica invece erano
chiuse. Per esempio la parola “arena”: la E di “arena” in latino era lunga; se la parola fosse stata popolare si
sarebbe pronunciata con la E chiusa, invece è aperta. In italiano infatti abbiamo la parola popolare “rena”, che
viene da “arena”, ed ha la E chiusa.
- il nesso NS nelle parole popolari si riduce ad S. Per esempio pensare diventa “pesare”: qui, oltre alla
riduzione NS>S, si ha anche un cambio di significato, da uno astratto ad uno concreto.

 Per capire se si tratta di un latinismo o no, bisogna guardare il vocalismo tonico!

05-03-2021 (Lezione VI)

I semilatinismi, come consilium, stanno a mezza strada: LJ del latino diventa L palatale  c’è stata la
palatizzazione ma è rimasta l’influenza del latino nella I tonica, che è breve, che si fonda insieme alla E lunga
dando in italiano una E chiusa. Quella che dovrebbe essere E chiusa si richiude in I, chiusura determina dalla
consonante palatale seguente.

Spie di latinismi:
- tutte le parole che presentano NS;
- quelle con la B intervocalica;
- nessi con consonante + J  Le parole che dovrebbero dare una consonante palatale ma mantengono
questo nesso sono latinismi;
- vocali E e O aperte, che in realtà dovrebbero essere chiuse;
- il mantenimento del dittongo AU del latino. In latino si trovava in tante parole e nel passaggio ai volgari
italiani si riduce a partire dall’VIII secolo d.C (es. taurum > toro; laurum > alloro);
- il prefisso RE-/RI-, derivano entrambi dal RE- atono latino  se solitamente nei dialetti la E si chiude in I, in
toscano rimane E (es. nEpote)  In questo caso non si tratta di vocalismo tonico, ma di una vocale atona! I
verbi che hanno il prefisso RI sono generalmente verbi di tradizione ininterrotta, mentre quelli col prefisso
RE- sono latineggianti (es. RIlegare vs RElegare). La stessa cosa vale anche per il prefisso DE- (es. DOmandare
vs DImandare).

I semilatinismi, o parole semidotte, sono quelle parole che sarebbero latinismi ma vengono adattate ai
fenomeni di tradizione popolare. Per esempio la parola ROSA ha una O aperta: se questa parola fosse
veramente popolare, si sarebbe dovuta dittongare in UO. È rimasta così probabilmente per influenza
letteraria, i poeti hanno continuato a utilizzarla così. Anche se non ha dittongato però, ha adattato l’S
intervocalica, che era sorda, sonorizzandola  Per certi aspetti è un latinismo, per altri no!
Latinismi semantici

Il latinismo non è un solo un latinismo di forma, ma ci sono anche parole che, pur avendo avuto un seguito
popolare assumendo un significato diverso, riottengono il significato latino. Per esempio monumentum: in
latino, da memento, designava sia un documento che perpetua nel ricordo, ma anche un sepolcro. Questa
parola entra in italiano già nei primi secoli, ‘200-‘300, come “mausoleo”; nel ‘500 si indicò invece una qualsiasi
opera architettonica, non solo un monumento funebre. Accanto a questo significato concreto, tra ‘500-‘600
riprende il significato di “importanza” anche, per esempio, di opere letterarie.
È anche il caso della parola elogium: in latino questa parola designava la descrizione sepolcrale, l’ “elogio”
della persona defunta. Nel ‘600 questo latinismo viene ripreso col significato di “lode”, ma nel ‘900 viene
utilizzato da Gadda di nuovo col significato di epitaffio (riprende il significato che aveva in latino!).
Anche il verbo CREDERE si trova nella lingua sin dai primi secoli, nel senso di “aver fede, confidare”; nel ‘400,
ma anche nel ‘900, viene utilizzato dai poeti non con questo significato, ma con quello che aveva in latino di
“dare qualcosa, affidare”.

 Questo recuperare i significati latini, di quelle parole ormai stabilizzare nella lingua comune con altri
sensi, dà vita ai cosiddetti latinismi semantici!

Si tratta di interferenza linguistica: la lingua madre continua a far da modello della lingua figlia.

Fenomeni analoghi non avvengono solo all’interno della lingua stessa, ma anche dall’esterno. Ci sono lingue
di superstrato, che hanno un’influenza culturale sulla nostra lingua anche senza averne contatto, e quelle di
substrato, con cui si hanno rapporti diretti di qualsiasi natura.

10-03-2021 (Lezione VII)

Questione della lingua

Quando si parla di “questione della lingua” si parla delle discussioni su tutto ciò che riguarda la lingua.

Dante non è solo il primo a riflettere sul volgare, ma è anche colui che lo porta all’eccellenza. Dante va tenuto
presente per la sua capacità di usare il lessico in modo potente e per il continuo ricorso a latinismi: pieno di
latinismi è il Convivio, un trattato dottrinale in 15 libri scritto in volgare!  Il volgare era utilizzato solo per
questioni di carattere pratico; la scelta di scrivere un trattato di carattere filosofico implica il ricorso a
latinismi. Il De vita nova e le Rime non hanno così tanti latinismi; ci sono, ma servono solo per dare un tratto
nobilitante.

La Divina Commedia appartiene al genere della commedia, per cui presenta sia parole comuni e tradizionali
sia parole tratte da altri dialetti (Dante infatti li utilizza per connotare i suoi personaggi)  la Commedia è
piena non solo di parole popolari, spesso di registro basso, ma anche dialettalismi. Il Paradiso, in cui affronta
argomenti elevati, rigurgita invece di latinismi.

Questo suo dualismo non giovò a Dante, infatti fu scartato da Bembo nel 1525 quando ne Le prose della
volgar lingua indica come modelli linguistici per la poesia e la prosa Petrarca e Boccaccio. La stessa cosa
avviene a fine ‘500, quando Salviati fissa un nuovo canone letterario (Quintiliano nella classicità aveva
identificato Virgilio e Cicerone) negli Avvertimenti sopra il Decameron di Boccaccio in due volumi: Salvati
allarga il modello bembesco individuando il momento di maggior fioritura della lingua e della letteratura
volgare nella fine del ‘300, quando Boccaccio scrive la sua opera. Assieme a Boccaccio, Salviati stabilisce quali
sono gli autori “buoni” e “non buoni”, i modelli e i non; Salviati cerca così nell’italiano antico del ‘300 la vena
del fiorentino vivo, del fiorentino parlato, escludendo così i dirompenti latinismi, considerati come una
corruzione. Per Salviati Dante quindi può andar bene nella Vita nova, nelle Rime ma non nella Commedia e
nel Convivio.
 Il tema dei latinismi riguarda anche la Questione della lingua: Dante è un autore che ne divulga
diversi (P. Manni, La lingua di Dante)

La questione della lingua non è la storia della lingua: la lingua italiana, come qualsiasi altra lingua, si muove
da sola. Anche se non si discutesse, andrebbe avanti. Ci sono culture dove questioni come queste non
vengono quasi mai prese in considerazione. In Italia invece, la questione è centrale, soprattutto per regioni
legate alla storia d’Italia. L’Italia, che sin dalle origini ha avuto la necessità di costruire un senso comune, ha
una storia particolare, diversa dalle altre storie europee. Abbiamo una realtà pluridialettale: in più regioni
d’Italia fino a secoli fa il dialetto era la lingua ufficiale, per esempio nella Repubblica di Venezia, che resta in
piedi dal Medioevo fino a Napoleone. La lingua ufficiale di Venezia era il veneziano, usata nei tribunali, in
opere letterarie, che ancora oggi si continua ad utilizzare nella letteratura dialettale riflessa (la lett. accanto a
quella italiana).

Dante, Petrarca e Boccaccio costituiscono una prima linea letteraria che va via via raffinandosi nel tempo;
accanto a loro il toscano, che utilizzavano anche questi autori; infine il latino, la lingua di substrato che ha
costituito essa stessa un modello comune non solo da cui riprendere latinismi, ma anche come modello
semantico e sintattico.

La Questione della lingua nasce proprio dall’esigenza di avere un modello, la realizzazione di una lingua
media comune. Dante ce lo mostra già nel De vulgari eloquentia, in cui parla di un volgare illustre (adatto alla
poesia lirica) e cardinale (ruolo di fulcro, di cardine per i dialetti), aulico (adatta all’aula dell’imperatore, degna
di essere utilizzata davanti alla più alta carica politica) e curiale (adatta alla corte)  Una lingua che abbia
non solo un ruolo sociale e civile, ma anche politico! Un’ideale linguistico per un Italia che non c’è ancora!

Nasce come questione vera e propria solo nel Cinquecento, nel 1524-1525: l’Italia è in balia di potenze
straniere, smembrata e indebolita. Nel momento in cui si assiste al declino politico-economico italiano, si
affronta la questione linguistica. Bembo, Trissino e altri fiorentini discutono tutti insieme per cercare un
elemento unitario in questo momento di frammentazione e debolezza.  Si chiedono quale sia la lingua da
usare.

Quando Dante scrive il De vulgari eloquentia e il Convivio, incompiute e di scarsa diffusione (Trissino solo nel
‘500 ritira fuori il De vulgari eloquentia dantesco), lo fa da solo.

 Nel 1524-1525 nasce la Questione della lingua!

L’altro grande momento in cui la Questione si accende di nuovo è il periodo napoleonico. Napoleone scende
in Italia a fine XVIII, col progetto di rendere l’Italia intera una provincia francese così come fa per il Piemonte
e la Toscana. Nei primi anni di dominazione francese emerge per la prima volta l’idea di una Italia unitaria,
non più frammentata: promuove una serie di operazioni volte a dare un volto comune all’identità culturale.
C’è però il rovescio della medaglia: Foscolo per esempio, quando capisce il voltafaccia di Napoleone che,
dopo aver preso Venezia, espropriata dei suoi valori artistici la cede all’Austria, sfoga la sua delusione nelle
Ultime lettere di Jacopo Ortis. Napoleone in alcuni casi spinge l’Italia e gli italiani verso una francesizzazione:
in particolare in Piemonte promuove l’insegnamento del francese nelle scuole, la sua lingua materna 
l’italiano diventa così una lingua di secondo ordine, non più la lingua alla quale gli italiani appartenevano. La
situazione sfocia in una nuova discussione sulla lingua, soprattutto dalla sconfitta di Napoleone nel 1815
quando tornano al loro posto tutti i legittimi governanti (Restaurazione).

 Si discute di lingua mentre si discute dell’indipendenza e dell’unificazione nazionale!

11-03-2021 (Lezione VIII)


Tutto comincia con Dante, già lui era consapevole di essere il primo ad affrontare l’argomento dell’eloquenza
volgare e del suo rapporto col latino. Attraverso il De vulgari eloquentia vuole aiutare la gente comune a
capire che cos’è l’eloquenza volgare, “poiché non ho trovato nessuno che prima di me si sia mai occupato di
teoria di eloquenza volgare” (Dante). Dante riflette di ciò in un momento particolare della sua vita, durante
l’esilio: il 10 marzo del 1302 Dante venne condannato a morte per ragioni politiche (apparteneva ai Guelfi
bianchi) e per questo è costretto ad andarsene. Oltre ad essere stato un uomo di cultura infatti, fu anche
impegnato in questioni politiche: nel 1289 partecipò alla battaglia di Campaldino in cui si era distinto, poi
ebbe vari incarichi politici di alto livello impegnandosi attivamente per la sua città. Nel 1302 è costretto
all’esilio, passando da una corte all’altra, da un signore all’altro finché nel 1321 morì a Ravenna. Dante è stato
buttato fuori dalla città per cui aveva combattuto, per cui si era politicamente impegnato, e questo profondo
amore venne analizzato dal poeta durante il suo peregrinare, soprattutto da un punto di vista linguistico.
Comincia a riflettere su di essa cercando prima di tutto di riscattarsi, dimostrare non la sua nobiltà di origine,
ma la sua nobiltà d’animo.

Convivio

Il Convivio è un trattato dottrinale analogo alla Vita nova: come la VN è un prosimetro, fatto di poesia e
prosa (poesie per Beatrice poi commentate), anche il C è un prosimetro, fatto di prosa + metri: dovevano
essere 14 canzoni su questioni sia generali che morali, accompagnate da commenti in prosa in cui si
spiegavano le allegorie di queste canzoni. Dell’opera ci restano solo il primo trattato e 3 canzoni con i relativi
commenti. L’opera è stata scritta 3 anni prima dell’esilio, prima della Divina Commedia (iniziata nel 1307);
quando inizia la Commedia interrompe la composizione del Convivio e del De vulgari eloquentia.

La datazione è stata fatta grazie a rif. interni alle altre opere:


- in un trattato del Convivio si allude al De vulgari, ad un “libello” sull’eloquenza volgare  questo vuol dire
che mentre sta scrivendo il primo trattato del Convivio, in cui vi è una parte dedicata specificatamente al
volgare, sta già pensando a scrivere il DVE;
- all’inizio del De vulgari si ricorda un personaggio ancora vivo, morto nel 1305, Giovanni da Monferrato 
quindi la composizione del DVE è precedente al 1305, tra il 1303-1304 circa;
- nel quarto trattato del Convivio ci sono elementi che rimandano al 1306-1308 perché si allude all’Impero
ancora vacante, dato che l’imperatore Arrigo VII è stato eletto nel 1308.

Gli studiosi hanno quindi suddiviso la composizione del Convivio in due momenti:
1. dal I al III libro, la prima parte, composti prima del DVE, quindi tra il 1303-1304; poi viene avviata la
composizione del DVE, forse tra il 1304-1306;
2. viene ripresa la composizione del Convivio per il quarto libro, tra il 1306-1308.

 Il Convivio e il De vulgari vengono comunque composti prima dell’esilio e prima della Commedia!

Il Convivio è un prosimetro in cui Dante vuole far vedere le sue ampie conoscenze filosofiche. Gli
argomenti sono vari: in particolare, nel quarto trattato si affronta il tema della nobiltà, che non è un
pregio di nascita ma deriva dalla perfezione della propria natura.

Cosa vuol dire “convivio”? Un banchetto. Dante in quest’opera non vuole altro che apparecchiare un
generale banchetto di sapienza. Secondo ciò che ci dice dovevano essere 14 canzoni morali
accompagnate da commenti in prosa in cui si spiegavano le allegorie presenti nei testi. Un’opera
filosofico-dottrinale. È un’opera scritta nei primi anni dell’esilio, quasi contemporaneamente al DVE e
prima della Commedia.

Convivio V 1-3: Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane ad escusare lui da una
sustanziale, cioè da l’essere vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di
frumento.  E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che mossero me ad eleggere innanzi questo che
l’altro: l’una si muove da cautela di disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza da
lo naturale amore a propria loquela. 

Le persone colte non possono avvicinarsi a questo banchetto in cui si affrontano le questioni più alte.
Dante siede ai piedi di questa mensa dell’alta cultura, ne mangia le briciole, ma non si dimentica delle
persone che non possono avvicinarsi per la mancata conoscenza della lingua classica. Con loro vuole
condividere il sapere, per questo occorre usare una lingua che sia accessibile a tutti: il volgare. Se i primi
4 libri sono libri in cui cerca di riscattare sé stesso facendo qualcosa di grande e autorevole per mostrare
il suo valore, dal 5 libro in poi inizia a mettere in chiaro la scelta linguistica. Perché sceglie il volgare? Fino
ad allora opere di questo genere erano in latino. I motivi sono 3:
1. la cautela di disconvenevole ordinazione: le canzoni che vengono proposte all’inizio di questi trattati
sono in volgare (per es. “Amor che nella mente mi ragiona”), quindi per varie ragioni devono essere
commentate in volgare. Intanto, queste poesie non sono per il letterati, che sono in grado di
comprenderle da soli, ma per coloro che hanno bisogno di una guida per capirle.
2. la voglia di essere liberale, generoso verso le persone comuni: Dante non vuole rivolgersi solo ai
letterati e agli illetterati, ma vuole coinvolgere anche il pubblico femminile;
3. l’amore per la propria lingua.

Dante nel Convivio fa largo uso di latinismi. Già in questi poche righe ci sono latinismi:
- MACULA  sincope vocale atona, MACLA, e il nesso CL diventa CJ (con C rafforzata)> MACCHIA.
- BRIEVEMENTE  la J del dittongo viene assorbita dalla R.

Convivio VII 11-13: queste canzoni, a le quali questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono
essere disposte a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano elle siano intese;
e nessuno dubita, che s’elle comandassero a voce, che questo non fosse lo loro comandamento.  12.  E lo
latino non l’averebbe esposte se non a’ litterati, ché li altri non l’averebbero inteso. Onde con ciò sia cosa che
molti più siano quelli che desiderano intendere quelle non litterati che litterati.

Convivio V 14-15: Dunque quello sermone è più bello, ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole;
e più debitamente si rispondono] in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino arte:
onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile.  Per che si conchiude lo principale intendimento,
cioè che non sarebbe stato subietto a le canzoni, ma sovrano.

 Nella concezione di Dante quindi, il latino ha una natura diversa rispetto al volgare: il volgare è una
lingua naturale, mentre il latino è una lingua artificiale che resta sempre sé stessa, creata dagli
uomini colti per superare gli ostacoli delle numerose parlate italiane. Il latino ha una sua nobiltà, una
sua raffinatezza retta da regole ben precise; i volgari invece non hanno grammatica perché cambiano
sempre, non è possibile stabilirne delle regole.

Se avesse fatto un commento in latino avrebbe fatto un commento per letterati, mentre le canzoni sono
destinate ad un pubblico di non letterati; in più gli illetterati incapaci di comprenderle sono molti di più
rispetto agli uomini colti.

Nel capitolo X spiega la terza ragione che lo spinge fortemente ad usare la sua lingua materna.

Convivio X 5-6: […] io mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino […] per lo naturale amore de la propria
loquela; che è la terza e l’ultima ragione che a ciò mi mosse.  Dico che lo naturale amore principalmente
muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare l’amato; l’altra è ad esser geloso di quello; l’altra è a
difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero prendere lui,
cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato.

 L’amore di Dante per il volgare è come l’amore di un amante per la persona amata.
Nel capitolo XIII continua spiegando che tutto si deve alla lingua naturale, a partire dalla propria vita: è grazie
ad esso che i miei genitori si sono incontrati, hanno comunicato e hanno formato una famiglia. Inoltre, al
volgare si deve anche la conoscenza, perché è proprio grazie a lui che si apprende il latino.

12-03-2021 (Lezione IX)

De vulgari eloquentia

Il sistema di declinazione dei sostantivi latini era piuttosto complesso (5 classi, ciascuna 5 declinazioni), per
cui nel parlato si iniziò a semplificare tanto da giungere ad un’unica declinazione distinguibile solo per il
singolare e il plurale. L’ultimo caso in cui ci fu una sorta di convergenza di tutti gli altri casi fu l’accusativo.

Convivio V 9-10: Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua
molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo
maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi,
crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.  Di questo si
parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.

CIVITAS, parola di 3 sillabe; acc. CIVITATEM > T intervocalica diventa D per sonorizzazione > CITTADE. Come
si arriva a “città”? Con la caduta della D finale; diventa ossitona=tronca perché perde l’ultima sillaba.

VOCABULI: la B intervocalica + il sistema italiano non prevede che nella parte della parola che segue
l’accento ci sia la U = possiamo essere sicuri di trovarci davanti a un latinismo.

Nel Convivio annuncia che ha in mente di scrivere questo libello di volgare eloquenza. È un’opera che inizia a
comporre tra il 1304-1305, la datazione si desume perché nel Convivio si parla di un personaggio storico
vivente, marchese Giovanni da Monferrato, che morì nel 1305.

Nel riflettere sulla lingua Dante si rifà alle teorie filosofiche antiche e della sua epoca, ha una serie di info e di
dati che mette insieme per riflettere sul volgare, ma è consapevole che fino a quel momento del volgare
nessuno aveva mai scritto (lo afferma proprio all’inizio del De vulgari eloquentia). Il De vulgari inizia con la
consapevolezza di scrivere su qualcosa di cui nessuno si era mai occupato, ma necessario per tutti.

Struttura

Come il Convivio, anche quest’opera è incompleta, interrotta da Dante una volta impegnatosi nella stesura
della Commedia. Ci resta completo solo il primo libro e buona parte del secondo. Doveva essere costituita da
4 libri:
- il primo è un trattato generale sulla lingua;
- nel secondo si occupa della lingua e della poesia lirica.
Dante accenna spesso al quarto libro perché quest’opera avrebbe dovuto trattare tutti gli aspetti della lingua
volgare, quello della prosa e quello della lingua comune. Ci sono vari accenni al libro 4:

De vulgari eloquentia I 19 2-3: E poiché il nostro scopo, stante la promessa fatta all'inizio di quest'opera, è di
insegnare la teoria dell'eloquenza volgare, cominceremo appunto da esso, come dal più eccellente di tutti,
per trattare nei libri successivi di questi argomenti: chi riteniamo degno di usarlo, e per quali materie, e
come, nonché dove, e quando, e a chi vada rivolto. Chiariti questi fatti, avremo cura di illustrare i volgari
inferiori, scendendo gradatamente fino a quel volgare che è proprio di una sola famiglia.

Sembra che questa sua trattazione voglia occuparsi di tutti i registri, da quelli più alti ai più bassi, e di tutti gli
stili (comico, tragico e elegiaco).
Dante osserva la lingua con distacco, un distacco che proviene dall’esperienza dell’esilio. Si rende conto che
anche la lingua della città che ama è solo un piccolo elemento di un panorama plurilinguistico. Non ha una
visione ristretta, municipale, ma guarda in grande al problema della lingua.

De vulgari eloquentia I 6 2-3: Per questo, come per molti altri aspetti, una Pietramala è una città immensa, è
la patria della maggior parte dei figli d'Adamo. Perché chiunque ragiona in modo così spregevole da credere
che il posto dove è nato sia il più gradevole che esiste sotto il sole, costui stima anche il proprio volgare, cioè
la lingua materna, al di sopra di tutti gli altri, e di conseguenza crede che sia proprio lo stesso che
appartenne ad Adamo.

Adamo è il primo uomo, conosce la lingua senza averla imparata da nessuno. La lingua d’Adamo è in
sostanza la lingua di Dio, perfetta; la lingua che si parlava prima del plurilinguismo babelico (per alcuni
l’ebraico): quando gli uomini decidono di peccare di superbia costruendo una torre altissima per arrivare fino
al cielo, Dio fa sì che gli uomini non s’intendano tra loro impedendo che vadano avanti nella costruzione. È
dalla punizione divina che ha origine il plurilinguismo, dopo la quale non si parla più la lingua d’Abramo, ma
lingue corrotte e imperfette.

[continua] Ma noi, la cui patria è il mondo come per i pesci il mare, benché abbiamo bevuto nel Sarno prima
di mettere i denti e amiamo Firenze a tal punto da patire ingiustamente, proprio perché l'abbiamo amata,
l'esilio, noi appoggeremo la bilancia del nostro giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento. Certo ai fini
di una vita piacevole e insomma dell'appagamento dei nostri sensi non c'è sulla terra luogo più amabile di
Firenze; tuttavia a leggere e rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo
nell'assieme e nelle sue parti, e a riflettere dentro di noi alle varie posizioni delle località del mondo e al loro
rapporto con l'uno e l'altro polo e col circolo equatoriale, abbiamo tratto questa convinzione, e la
sosteniamo con fermezza: che esistono molte regioni e città più nobili e più gradevoli della Toscana e di
Firenze, di cui sono nativo e cittadino, e che ci sono svariati popoli e genti che hanno una lingua più
piacevole e più utile di quella degli italiani.

Questo ridimensionamento di prospettiva, cercando di valutare con gli occhi di un cittadino del mondo, è
molto importante; ci fa capire come quest’opera nasca dalla sofferenza dell’esilio, dalla riflessione più
profonda e distaccata delle cose. L’esilio viene trasformato da Dante in un’esperienza ricca e profonda.

Dante in quest’opera ci mostra il modo di ragionare dell’uomo del Medioevo, caratterizzato da una chiarezza
logica e coerente e dalla ricerca di conferme e obiezioni attraverso testi come la Bibbia o di filosofi; alla fine
colloca la sintesi di questi ragionamenti argomentativi.

All’inizio del DVE definisce che cos’è il volgare e cosa lo differenzia dal latino:

De vulgari eloquentia I 2-4: […] chiamiamo lingua volgare quella lingua che i bambini imparano ad usare da
chi li circonda quando incominciano ad articolare i suoni; o, come si può dire più in breve, definiamo lingua
volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola. 3. Abbiamo poi un'altra
lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono "grammatica". Questa lingua seconda la possiedono pure
i Greci e altri popoli, non tutti però: in realtà anzi sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso,
poiché non si riesce a farne nostre le regole e la sapienza se non in tempi lunghi e con uno studio assiduo. Di
queste due lingue la più nobile è la volgare: intanto perché è stata adoperata per prima dal genere umano;
poi perché il mondo intero ne fruisce, benché sia differenziata in vocaboli e pronunce diverse; infine per il
fatto che ci è naturale, mentre l'altra è, piuttosto, artificiale. Ed è di questa, la più nobile, che è nostro scopo
trattare.

 È tutto chiarissimo: il volgare è la lingua naturale che impari sin dalla nascita, quando inizi a
balbettare i primi suoni! Il latino invece, la seconda lingua, si impara in un secondo momento; è
quella lingua che nel Medioevo era chiamata “grammatica”, imparata attraverso regole precise
insegnate a scuola. È una lingua che permette la trasmissione della cultura da un secolo all’altro, da
una generazione all’altra, separando le barriere dello spazio e del tempo, creata apposta per
superare i limiti naturali!

Si può però subito notare una forte differenza di atteggiamento in questo brano rispetto al Convivio: nel
Convivio, pur scegliendo il volgare, aveva comunque tessuto un elogio del latino (lingua virtuosa, nobile e più
bella)  nel Convivio il latino è superiore al volgare (corruttibile); nel De vulgari eloquentia invece la
contraddizione è stridente. Questo dualismo si può così riassumere: certamente il latino è superiore al
volgare da un punto di vista stilistico, ma per la sua spontaneità è naturalmente superiore al latino.

De vulgari eloquentia I 3 2-3: È stato perciò necessario che il genere umano disponesse, per la mutua
comunicazione dei pensieri, di un qualche segno insieme razionale e sensibile: perché, dato il suo compito di
ricevere i propri contenuti dalla ragione e a questa recarli, doveva essere razionale; e doveva essere sensibile
data l'impossibilità che si trasmetta alcunchè da ragione a ragione se non attraverso una mediazione dei
sensi. Per cui se fosse soltanto razionale non avrebbe libero passaggio; se fosse soltanto sensibile non
potrebbe ricevere nulla dalla ragione né introdurre nulla in essa. 3. Ecco, è questo segno quel nobile
fondamento di cui parliamo: fenomeno sensibile in quanto è suono; fenomeno razionale in quanto ciò che
significa, lo significa evidentemente a nostro arbitrio.

17-03-2021

La lingua è uno strumento comunicativo. Bisogna pensare a chi sia stato il primo uomo ad aver parlato, che
lingua abbia utilizzato, cosa abbia detto, come e dove  l’origine del linguaggio è stato per molti studiosi un
tema centrale: è qualcosa che l’uomo ha sempre posseduto o qualcosa che si è sviluppato progressivamente?
Questi problemi sono affrontati tra il IV e il VI capitolo del I libro del DVE, capitoli che si rifanno alla Bibbia. Il
linguaggio è un dono divino che Dante interpreta in modo originale: si tratta in sostanza delle vicende
narrate nella Genesi, ma le interpreta razionalmente: se noi considerassimo valide le parole della Bibbia, le
prime parole pronunciate sarebbero quelle del serpente.

La lingua data da Dio ad Abramo è la lingua ebraica, che si mantiene legata alla sua origine divina fino alla
nascita di Cristo. Per spiegare la grande varietà delle lingue, nel VII capitolo Dante reinterpreta in modo
originale l’episodio biblico dell’origine delle lingue.

De vulgari eloquentia I 7 1-7: Che vergogna, ahimè, rinnovare ora l'ignominia del genere umano! Ma poiché
non possiamo procedere oltre senza passare per questa strada, percorriamola, benché il rossore monti al
viso e l'animo ne rifugga. O natura di noi uomini sempre pronta a peccare! O natura scellerata, fin dal
principio e senza mai fine! Non era bastato per correggerti che, privata della luce a causa della prima
prevaricazione, fossi stata bandita dal paradiso delle delizie? Non era bastato che, per l'universale lussuria e
barbarie della tua gente, tutto ciò che era in tuo dominio - tranne una sola famiglia che si salvò - fosse perito
nel cataclisma, e che gli animali del cielo e della terra avessero già pagato il fio delle colpe da te commesse?
Davvero doveva bastare. Ma, come si dice nel diffuso proverbio, "Non monterai a cavallo prima della terza
volta", preferisti, sciagurata, affrontare un infausto cavalto. Ed ecco, lettore, che l'uomo, dimentico o
sprezzante dei castighi precedenti, e distogliendo gli occhi dai lividi che gli erano rimasti, si levò per la terza
volta a provocare le percosse, nella sua superba e sciocca presunzione. Così l'uomo, inguaribile, presunse in
cuor suo, sotto l'istigazione del gigante Nembròt, di superare con la sua tecnica non solo la natura ma lo
stesso naturante, che è Dio, e cominciò a costruire una torre nella zona di Sennaar, che poi fu chiamata
Babele (cioè "confusione"), con la quale sperava di dar la scalata al cielo, nell'incosciente intenzione non di
eguagliare, ma di superare il suo Fattore. O sconfinata clemenza del regno celeste! Quale padre avrebbe
sopportato dal figlio tanti insulti? E invece quel Padre, levandosi con una sferza non ostile ma paterna, e già
abituata altre volte a colpire, castigò il figlio ribelle con una punizione pietosa e insieme memorabile. Certo è
che quasi tutto il genere umano si era dato convegno per l'iniqua impresa: chi comandava i lavori, chi
progettava le costruzioni, chi erigeva muri, chi li squadrava con le livelle, chi li intonacava con le spatole, chi
era intento a spaccare le rocce, chi a trasportar massi per mare e chi per terra, e altri a diversi gruppi
attendevano a diversi altri lavori; quando furono colpiti dall'alto del cielo da una tale confusione che, mentre
tutti si dedicavano all'impresa servendosi di una sola e medesima lingua, resi diversi da una moltitudine di
lingue dovettero rinunciarvi, e non seppero più accordarsi in un'attività comune. Infatti solo a coloro che
erano concordi in una stessa operazione rimase una stessa lingua: per esempio un'unica lingua per tutti gli
architetti, una per tutti quelli che rotolavano massi, una per tutti quelli che li apprestavano; e così accadde
per i singoli gruppi di lavoratori. E quante erano le varietà di lavoro in funzione dell'impresa, altrettanti sono i
linguaggi in cui in questo momento si separa il genere umano; e quanto più eccellente era il lavoro svolto,
tanto più rozza e barbara è la lingua che ora parlano. Ma coloro a cui rimase la lingua sacra non erano
presenti ai lavori né li lodavano, anzi li esecravano severamente, deridendo la stoltezza degli addetti. Questa
piccolissima parte - piccolissima quanto a numero - fu, secondo la mia congettura, della stirpe di Sem, il
terzo figlio di Noè: da essa ebbe appunto origine il popolo d'Israele, che si servì di quell'antichissima lingua
fino alla sua dispersione.

Tre ignominie del genere umano:


- l’episodio della mela e la conseguente cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden;
- il Diluvio Universale  Dio, per punire il genere umano che si è ribellato ai suoi insegnamenti, crea il
cataclisma naturale dell’alluvione, permettendo ad un unico uomo, Noè, di salvarsi e salvare le specie animali.

- la torre di Babele: la lingua di Adamo, la lingua del primo uomo, l’ebraico, si è mantenuta uguale fino alla
diaspora, alla nascita di Cristo. Ci sono due punti da osservare: 1) la punizione divina è in fondo una
punizione costruttiva, costringe l’uomo a fare i conti con la sua umanità. Non è tanto una condanna, quanto
un dono che Dio fa all’uomo: è vero che non parlano più la stessa lingua, ma parlano comunque lingue
diverse; è una punizione pietosa, non catastrofica; 2) le lingue che si originano dall’episodio della torre di
Babele si creano in base ai “settori” delle persone che vi lavorano (tipo architetti, falegnami, muratori), ha
origine non la confusione quanto la specializzazione linguistica.

 Questa prima parte della torre di Babele porta alla spiegazione del pluralismo linguistico.

Un’altra idea dantesca è che il centro di espansione delle varie lingue europee sia l’Oriente. Dante fa una
prima divisione, suddividendo le lingue in tre grandi gruppi (idioma trifario):
- le regioni meridionali;
- le regioni settentrionali;
- il greco.
Da questi tre gruppi linguistici originari nascono nuove lingue:
- dalle foci del Danubio fino all’Inghilterra (territorio europeo nord-occidentale) ebbe un unico idioma che si
è distinto nei volgari: dei sassoni, degli slavi, dei germanici, degli ungheresi. Tutte queste lingue conservano
un unico segno comune, che fa capire che alla base c’è una lingua comune, l’avverbio affermativo è ya/yo;
- dall’Ungheria verso Oriente ebbe come lingua il greco;
- la parte d’Europa che resta fuori da queste due categorie fu occupata da un terzo idioma, ormai tripartito,
alcuni dicono per affermare -oc (provenzale/spagnolo) -oil (francese) – si (italiano). Hanno una lingua madre
comune perché indicano nella stessa maniera molte parole: -Dio -cielo -amore -mare -terra.

Dante nota come ci sia una somiglianza lessicale. Capisce che queste lingue derivano da una matrice
comune. Dante deve riflettere da solo sulla questione delle lingue, nessuno prima di lui aveva fatto questo
lavoro. Egli si cimenta in questo studio per trovare tra i molti un volgare illustre.

De vulgari eloquentia 1 10: Come si è detto più sopra, il nostro idioma si presenta ora come triforme, e
all'atto di svolgerne un confronto interno secondo la triplice forma sonora in cui si è risolto, l'esitazione con
cui maneggiamo la bilancia è così grande che non osiamo nel confronto anteporre questa parte o quella o
l'altra ancora, se non forse in base a questo fatto, che i fondatori della grammatica hanno evidentemente
preso come avverbio di affermazione sic: il che sembra attribuire di diritto una certa preminenza agli Italiani,
che dicono sì. E in effetti ciascuna delle tre parti difende la propria causa con larghezza di testimonianze.
Dunque: la lingua d'oïl adduce a proprio favore che, per la natura più agevole e piacevole del suo volgare,
tutto quello che è stato desunto o inventato in volgare prosaico, le appartiene: vale a dire la compilazione
che mette assieme Bibbia e imprese dei Troiani e dei Romani, e le bellissime avventure di re Artù, e svariate
altre opere storiche e dottrinali. L'altra a sua volta, cioè la lingua d'oc, usa come argomento a suo vantaggio
che i rappresentanti dell'eloquenza volgare hanno poetato dapprima in essa, come nella lingua più dolce e
più perfetta: così Pietro d'Alvernia e altri antichi maestri. Infine la terza lingua, quella degli Italiani, afferma la
propria superiorità sulla base di due prerogative: in primo luogo perché coloro che hanno poetato in volgare
più dolcemente e profondamente, come Cino Pistoiese e l'amico suo, sono suoi servitori e ministri;
secondariamente perché costoro mostrano di appoggiarsi maggiormente alla grammatica che è comune a
tutti, e questo a chi osserva razionalmente appare un argomento di grandissimo peso. Noi però tralasceremo
di giudicare su questo punto, e ricondurremo la nostra trattazione al volgare italiano, tentando di descrivere
le varietà che ha assunto in sé e anche di compararle fra loro. Per prima cosa diciamo dunque che l'Italia è
divisa in due parti, una destra e una sinistra. E se qualcuno vuol sapere qual'è la linea divisoria, rispondiamo
in breve che è il giogo dell'Appennino: il quale, come la cima di una grondaia sgronda da una parte e
dall'altra le acque che sgocciolano in opposte direzioni, sgocciola per lunghi condotti, da una parte e
dall'altra, verso i contrapposti litorali, giusta la descrizione di Lucano nel secondo libro: e la parte destra ha
per sgrondatoio il Mar Tirreno, mentre la sinistra scende nell'Adriatico. Le regioni di destra sono l'Apulia, non
tutta però, Roma, il Ducato, la Toscana e la Marca Genovese; quelle di sinistra invece parte dell'Apulia, la
Marca Anconitana, la Romagna, la Lombardia, la Marca Trevigiana con Venezia. Quanto al Friuli e all'Istria,
non possono appartenere che all'Italia di sinistra, mentre le isole del Mar Tirreno, cioè la Sicilia e la Sardegna,
appartengono senza dubbio all'Italia di destra, o piuttosto vanno associate ad essa. Ora in entrambe queste
due metà, e relative appendici, le lingue degli abitanti variano: così i Siciliani si diversificano dagli Apuli, gli
Apuli dai Romani, i Romani dagli Spoletini, questi dai Toscani, i Toscani dai Genovesi e i Genovesi dai Sardi; e
allo stesso modo i Calabri dagli Anconitani, costoro dai Romagnoli, i Romagnoli dai Lombardi, i Lombardi dai
Trevigiani e Veneziani, costoro dagli Aquileiesi e questi ultimi dagli Istriani. Sul che pensiamo che nessun
italiano dissenta da noi. Ecco perciò che la sola Italia presenta una varietà di almeno quattordici volgari. I
quali poi si differenziano al loro interno, come ad esempio in Toscana il Senese e l'Aretino, in Lombardia il
Ferrarese e il Piacentino; senza dire che qualche variazione possiamo coglierla anche nella stessa città, come
abbiamo asserito più sopra nel capitolo precedente. Pertanto, a voler calcolare le varietà principali del
volgare d'Italia e le secondarie e quelle ancora minori, accadrebbe di arrivare, perfino in questo piccolissimo
angolo di mondo, non solo alle mille varietà, ma a un numero anche superiore.

Dante si chiede come mai anche all’interno della stessa lingua, come in italiano, siano presenti varie realtà
linguistiche, la parte destra della penisola parla in modo differente da quella sinistra, addirittura nella stessa
regione e nella stessa città ci sono uomini che parlano lingue differenti (es. Pisano-Fiorentino, a Bologna
Borgo S. Felice - Borgo Maggiore). Poiché ogni nostra lingua è stata ricostruita a seconda del nostro arbitrio
dopo la confusione babelica, la lingua come l’uomo è mutevole. La diversità delle lingue dipende dal fatto
che sono state ricostruite dagli uomini, sono legate alla natura umana, ed essendo questa instabile e
mutevole anch’essa lo è. Non ci accorgiamo del mutamento della lingua nel tempo, è un processo lento ma
notevole, un mutamento nello spazio invece è più facilmente percepibile, è l’uomo che fabbrica la lingua e
essa si forma a seconda dell’uomo in questione e delle influenze geografiche presenti.

Il latino è la risposta alla varietà e instabilità del volgare, i sapienti hanno bisogno di uno strumento
linguistico stabile, creata ad arte per superare i problemi del volgare. La grammatica è inalterabile, essendo
stata regolata dal consenso di molte genti, non può essere cambiata dai singoli.

Dal capitolo X Dante descrive i vari volgari italiani, confrontando i tre idiomi, nota che la lingua del sì è più
vicina al latino. Questa somiglianza dà una marcia in più all’Italia.
De vulgari eloquentia I 16: Dopo che abbiamo cacciato per monti boscosi e pascoli d'Italia e non abbiamo
trovato la pantera che bracchiamo, per poterla scovare proseguiamo la ricerca con mezzi più razionali, sicché,
applicandoci con impegno, possiamo irretire totalmente coi nostri lacci la creatura che fa sentire il suo
profumo ovunque e non si manifesta in nessun luogo. Riprendendo dunque le nostre armi da caccia,
affermiamo che in ogni genere di cose ce ne deve essere una in base alla quale paragoniamo e soppesiamo
tutte le altre che appartengono a quel genere, e ne ricaviamo l'unità di misura:, così nell'àmbito dei numeri
tutti si misurano in base all'unità, e vengono definiti maggiori o minori secondo che sono lontani o vicini
all'unità; e così, nella sfera dei colori, li misuriamo tutti sul bianco, e infatti li definiamo più o meno luminosi
secondo che tendono al bianco o se ne discostano. E lo stesso principio che affermiamo per i fenomeni che
mostrano di possedere gli attributi della quantità e qualità, riteniamo si possa applicarlo a qualsiasi
predicamento, anche alla sostanza: ogni cosa insomma è misurabile, in quanto fa parte di un genere, in base
a ciò che vi è di più semplice in quel dato genere. Perciò nelle nostre azioni, nella misura in cui si dividono in
specie, occorre trovare l'elemento specifico sul quale anch'esse vengano misurate. Così, in quanto operiamo
in assoluto come uomini, c'è la virtù (intendendola in senso generale), secondo la quale infatti giudichiamo
un uomo buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini di una città, c'è la legge, secondo la quale un
cittadino è definito buono o cattivo; in quanto operiamo come uomini dell'Italia, ci sono alcuni semplicissimi
tratti, di abitudini e di modi di vestire e di lingua, che permettono di soppesare e misurare le azioni degli
Italiani. Ma le operazioni più nobili fra quante ne compiono gli Italiani non sono specifiche di nessuna città
d'Italia, bensì comuni a tutte; e fra queste si può a questo punto individuare quel volgare di cui più sopra
andavamo in caccia, che fa sentire il suo profumo in ogni città, ma non ha la sua dimora in alcuna. E tuttavia
può spargere il suo profumo più in una città che in un'altra, come la sostanza semplicissima, Dio, dà sentore
di sé più nell'uomo che nella bestia, più nell'animale che nella pianta, più in questa che nel minerale, in
quest'ultimo più che nell'elemento semplice, nel fuoco più che nella terra; e la quantità più semplice, l'unità,
si fa sentire più nei numeri dispari che nei pari; e il colore più semplice, il bianco, si rivela più nel giallo che
nel verde. Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre,
cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al
quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati a soppesati a comparati.

De vulgari eloquentia I 17: A questo punto occorre esporre con ordine le ragioni per cui chiamiamo con gli
attributi di illustre, cardinale, regale e curiale questo volgare che abbiamo trovato: procedimento attraverso il
quale ne faremo risaltare in modo più limpido l'intrinseca essenza. E in primo luogo dunque mettiamo in
chiaro cosa vogliamo significare con l'attributo di illustre e perché definiamo quel volgare come illustre.
Invero, quando usiamo il termine "illustre" intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito dalla luce,
risplende chiaro su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal
potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché, depositari di un alto magistero, sanno
altamente ammaestrare: come Seneca e Numa Pompilio. Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da
un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con l'onore a la gloria. Che
possieda un magistero che lo inalza è manifesto, dato che lo vediamo, cavato fuori com'è da tanti vocaboli
rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti
campagnoli, emergere così nobile, così limpido, così perfetto e così urbano come mostrano Cino Pistoiese e
l'amico suo nelle loro canzoni. Che abbia poi un potere che lo esalta, è chiaro. E quale maggior segno di
potere della sua capacità di smuovere in tutti i sensi i cuori degli uomini, così da far volere chi non vuole a
disvolere chi vuole, come ha fatto a continua a fare? Che anche sollevi in alto con l'onore che dà, salta agli
occhi. Forse che chi è al suo servizio non supera in fama qualunque re, marchese, conte e potente? Non c'è
nessun bisogno di dimostrarlo. E quanto renda ricchi di gloria i suoi servitori, noi stessi lo sappiamo bene,
noi che per la dolcezza di questa gloria ci buttiamo dietro le spalle l'esilio. Per tutto ciò è a buon diritto che
dobbiamo proclamarlo illustre.

L’idea che gli Appennini costituiscano un confine linguistico importante è un’idea geniale di Dante, questi
dividono le 14 varietà linguistiche, 7 a destra e 7 a sinistra degli Appennini. Anche oggi si dividono i dialetti a
seconda delle zone geografiche, come la linea che va da La spezia fino a Rimini (divide i dialetti settentrionali
da quelli centro-meridionali ma anche la stessa Emilia Romagna).

18-03-2021

Dopo i capitoli biblici, nell’VIII e IX capitolo Dante offre una descrizione geolinguistica dell’Europa; con
idioma trifario si intendono le lingue settentrionali (dalle slave all’inglese), le lingue orientali e le lingue
romanze. Le lingue romanze si dividono a loro volta in tre: la lingua d’oc, la lingua d’oil e la lingua del sì.
Dopo aver tracciato questo panorama delle lingue d’Europa passa a parlare dei volgari in Italia,
individuandone 14, 7 sul versante dx e 7 sul versante sx d’Italia, che a loro volta differiscono di città in città.
La lingua è frammentaria, dal momento che le lingue che parlano gli uomini sono frutto dell’episodio
babelico, prima del quale l’uomo aveva a disposizione una lingua unitaria. Essendo delle creazioni
esclusivamente umane, a differenza della lingua di Adamo che era un dono divino, sono instabili e mutevoli
come lo è la natura umana. Per questo è stato creato il latino, funzionale nella sua stabilità e struttura; gli
uomini lo hanno creato consapevolmente per ovviare alle differenze linguistiche.

Dal capitolo X fino alla fine dell’opera si parla dei pregi delle lingue romanze, della somiglianza della lingua
del sì (simile al sic latino) con il latino; Dante poi cerca di individuare la lingua migliore tra tutti i volgari
italiani. Per individuare la lingua più nobile e adatta alla poesia inizia a passare in rassegna tutti i volgari della
penisola, citando degli esempi dei vari dialetti a livello popolare e a livello letterario  Ci consegna così la
prima fotografia dell’Italia dialettale antica. Non solo, oltre a darci la descrizione dei vari volgari, ci dà anche
per la prima volta la storia della prima stagione della poesia lirica italiana (fiorita tra il 1225 fino agli
stilnovisti).

Dante parla male di tutti i volgari d’Italia, non c’è mai nessuno che sia di suo gradimento, in tutti nota dei
difetti; sono tutti giudicati indegni di quest’idea di volgare illustre. Solo i volgari che sono stati usati da
letterati distaccandosi dalla lingua comune sono presi in considerazione; più che i volgari parlati, Dante
valuta quelli letterari.

Il primo volgare che scarta è quello di Roma (il romano del tempo era molto vicino alle parlate meridionali),
con giudizi davvero negativi che nascondono non solo una critica linguistica, ma anche politica: Dante è stato
esiliato, vuole dimostrare come l’allontanamento da Firenze lo abbia portato a nutrire ancora più passione
per l’Italia. Dante che era guelfo è stato cacciato, pertanto le sue idee politiche si sono avvicinate molto alle
idee ghibelline, anche per questo la critica a Roma.

Parla male anche dei volgari dei confini italiani e del sardo (“i sardi sono gli unici che non paiono avere un
volgare proprio, ma imitano la grammatica=il latino”). Essendo la Sardegna un’isola lontana sia dalla penisola
italiana sia da altri territori, per questo resta lontana dalle invasioni barbariche; proprio questo isolamento
crea una sorta di conservazione, per questo è rimasta una lingua forse la più aderente al sistema latino.

De vulgari eloquentia XII 1-9: Liberati in qualche modo dalla pula i volgari italiani, istituiamo un paragone fra
quelli che sono rimasti nel setaccio e scegliamo rapidamente il più onorevole e onorifico. E per prima cosa
facciamo un esame mentale a proposito del siciliano, poiché vediamo che il volgare siciliano si attribuisce
fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si
chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell'isola hanno cantato con solennità, per esempio
nelle famose canzoni "Amor che l'aigua per lo foco lassi" e "Amor, che lungiamente m'hai menato" (canzoni
di Guido delle Colonne, attivo presso la corte di Federico II a Palermo, la prima scuola poetica italiana. La
scuola di Federico II, composta prettamente da meridionali, non solo produce un gran numero di canzoni,
ma dà vita anche ad una nuova forma metrica, il sonetto). Ma questa fama della terra di Trinacria (=Sicilia), a
guardar bene a che bersaglio tende, sembra persistere solo come motivo d'infamia per i principi italiani, i
quali seguono le vie della superbia vivendo non da magnanimi ma da gente di bassa lega. E in verità quegli
uomini grandi e illuminati, Federico Cesare e il suo degno figlio Manfredi, seppero esprimere tutta la nobiltà
e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere
da bestie. Ed è per questo che quanti avevano in sé nobiltà di cuore a ricchezza di doni divini si sforzarono di
rimanere a contatto con la maestà di quei grandi principi, cosicché tutto ciò che a quel tempo producevano
gli Italiani più nobili d'animo vedeva dapprima la luce nella reggia di quei sovrani così insigni; e poiché sede
del trono regale era la Sicilia, ne è venuto che tutto quanto i nostri predecessori hanno prodotto in volgare si
chiama siciliano: ciò che anche noi teniamo per fermo, e che i nostri posteri non potranno mutare (La gloria
della poesia siciliana è legata alla gloria dell’Impero di Federico e Manfredi: la nobiltà e l’eroismo di questi
imperatori è un marchio di infamia rispetto ai principi di quei tempi, mossi da basse passioni). Racà, racà!
(=imprecazione che si trova nel Vangelo di S. Matteo con significato di “vergogna”) Che cosa fa risuonare ora
la tromba dell'ultimo Federico (d’Aragona), che cosa la campana di guerra del secondo Carlo, cosa i corni dei
potenti marchesi Giovanni e Azzo, cosa le trombette degli altri grandi della politica, se non: "A me carnefici, a
me gente piena di doppiezza, a me seguaci di avidità"? Ma è meglio ritornare al punto che parlare a vuoto.
Diciamo allora che il volgare siciliano, a volerlo prendere come suona in bocca ai nativi dell'isola di estrazione
media (ed è evidentemente da loro che bisogna ricavare il giudizio), non merita assolutamente l'onore di
essere preferito agli altri, perché non si può pronunciarlo senza una certa lentezza; come ad esempio qui:
"Tragemi d'este focora se t'este a bolontate". Se invece lo vogliamo assumere nella forma in cui sgorga dalle
labbra dei siciliani più insigni, come si può osservare nelle canzoni citate in precedenza, non differisce in
nulla dal volgare più degno di lode, e lo mostreremo più sotto. Gli Apuli d'altra parte, o per loro crudezza o
per la vicinanza delle genti con cui confinano, cioè Romani a Marchigiani, cadono in sconci barbarismi: e
infatti dicono "Bòlzera che chiangesse lo quatraro". Ma benché i nativi dell'Apulia parlino generalmente in
modo turpe, alcuni che fanno spicco tra di essi si sono espressi in modo raffinato, trascegliendo nelle loro
canzoni i vocaboli più degni della curia, cosa che risulta evidente ad osservare le loro poesie, come ad
esempio "Madonna, dir vi voglio," e "Per fino amore vo sì letamente". Perciò, se si considera quanto detto
sopra, deve risultare pacifico che né il siciliano né l'apulo rappresentano il volgare più bello che c'è in Italia,
dato che, come abbiamo mostrato, gli stilisti delle rispettive regioni si sono staccati dalla loro parlata.

In Toscana la poesia siciliana si diffonde abbastanza presto, infatti vengono redatti codici di antologie di
poeti siciliani, cioè libri in cui queste poesie sono state ricopiate qui in Toscana. È proprio Federico II che fa
redigere queste antologie, per far sì che il modello della sua scuola poetica potesse diffondersi. Ovviamente
questi testi vengono toscanizzati, rimanendo fedeli al testo ma adattando gli usi grafici e poetici all’area di
appartenenza del copista  questo siciliano, sebbene nobile e poetico, viene adattato al toscano: se nel testo
siciliano c’era scritto AMURI, nel testo copiato diventa AMORE. Dante ha ben presente questi manoscritti, che
sono ancora oggi i testi attraverso i quali leggiamo i poeti siciliani (Protonotaro, Giacomo da Lentini, Guido
della Colonna ecc.): i manoscritti originali in siciliano sono andati perduti con la fine della casa Sveva,
abbiamo solo i manoscritti toscani che mettono insieme le poesie che li componevano.

Prima ancora che in Italia si diffondesse il toscano, esisteva già un italiano comune: il siciliano, una lingua
letteraria.

19-03-2021

Dante dentro di sé ha un’ideale di lingua, una lingua unitaria, nobile, di alto livello come il latino che superi le
differenziazioni proprie dei volgari italiani.

Dante parla male anche del toscano: i toscani fanno i superbi, ma quando aprono bocca non fanno altro che
pronunciare parole prive di senso; il toscano è un “turpiloquio”. Gli unici poeti che col toscano riescono a
raggiungere l’eccellenza sono Lapo Gianni, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Dante stesso: gli stilnovisti
sono riusciti, tenendo conto del latino, ad innalzarsi al di sopra del volgare turpe e municipale.

Lo stesso vale per il bolognese: all’inizio lo loda come uno dei migliori volgari d’Italia, contempera il
bolognese con i volgari settentrionali. Tuttavia, anch’esso non è nobile: il fatto che a Bolo ci sia una lingua
letteraria che si innalza sopra il bolognese fa capire che non si tratta nemmeno in questo caso del volgare
illustre.

Nel capitolo XVII spiega ciò che vuol dire illustre: ciò che illumina, da “luce”. Come s ichiamano illustri gli
uomini illuminati dal potere, così il volgare illustre è quello che o illumina di sé le opere con cui sono scritte o
gli autori che lo utilizzano. È un volgare che è strettamente legato al potere: chi abbraccia questo volgare
viene innalzato, viene reso glorioso. Il volgare è illustre anche se si serve di costrutti irregolari e forme
imperfette; nonostante questo è stato nobilitato, è diventato così puro, così netto, così urbano nelle poesie di
Cino da Pistoia (allude agli stilnovisti e quindi a sé stesso).

Come le persone colte hanno inventato il latino, questo volgare illustre può tenere insieme la
differenziazione linguistica della penisola italiana.

 Si tratta di un trattato rimasto incompiuto.

Anche per questo motivo, il DVE fu sostanzialmente un libro fantasma. Ci sono tanti autori che ne parlano:
- Giovanni Villani ne parla in suo libretto;
- Boccaccio ne La vita di Dante.
Questo trattato dantesco per gli italiani d’allora è un continuo pugno nello stomaco, parlando male di
qualsiasi volgare esistente in Italia. Parla male di tutti tranne che dei toscani stilnovisti, assumendo un
atteggiamento di condanna verso coloro che non rientravano nel suo ideale di lingua. Quindi è un libro
problematico per i toscani, che sono sì responsabili di aver condannato Dante a morte, ma sono anche da lui
spietatamente attaccati.

È un libro che scompare dalla circolazione per circa due secoli, quando nel Cinquecento viene ritirato fuori da
Trissino, il primo autore di tragedie che imitano le tragedie greche; è il primo a scrivere un poema epico sul
modello dell’Iliade e dell’Odissea intitolato L’Italia liberata dai Goti. Trissino sostiene una tesi eterodossa: la
lingua letteraria non deve essere esclusivamente modellata sul fiorentino, ma deve essere una lingua comune
che prende gli elementi migliori dei volgari d’Italia tenendo ovviamente conto del latino; per lui
bisognerebbe parlare di una lingua “italiana”, non toscana. Nel 1529 tira fuori il DVE di Dante, lo traduce e lo
pubblica. Del DVE ci rimangono solo 3 manoscritti (minore è la tradizione minore è il successo) di
provenienza settentrionale, quindi vuol dire che in Toscana l’opera c’era ma quasi nessuno l’aveva letta;
Trissino si serve infatti di un manoscritto padovano.

Anche dopo la trad. del Trissino e dopo la pubblicazione del testo latino a Parigi ci furono ancora per secoli
studiosi che misero in dubbio l’autenticità e/o la paternità di Dante di questo testo. Il DVE non è l’inizio della
questione della lingua, è una semplice riflessione, ma ci fa certamente capire quale sarà la strada delle
discussioni future. La riflessione dantesca è una riflessione sulla lingua letteraria, la stessa riflessione che si
svilupperà nel XVI secolo!

L’opera chiave del Cinquecento è Le prose della volgar lingua del 1525 di Bembo; quando nel ’29 Trissino
pubblica il DVE non fa altro che inserirsi con la sua posizione cortigiana in un dibattito già ampiamente
sviluppato.

Nella seconda metà del Trecento si sviluppa un'altra tendenza, cioè abbandonare il volgare come lingua
letteraria e utilizzare il latino. Succede che la letteratura, proprio per poter eccellere e per poter avere uno
strumento linguistico più raffinato, inizia a tornare al latino. I letterati si accorgono che il latino classico è una
lingua più elegante del latino medievale; il modello della lett. classica che viene rivalutato in questa epoca
preumanistica fa sì che durante l’Umanesimo coloro che volevano superare le differenze linguistiche e
cristallizzare le proprie opere nel tempo ricorressero al latino  Il latino umanistico è modellato sul latino dei
classici!

Si abbandona così l’uso del volgare per la letteratura. Questa tendenza si nota già nel Boccaccio anziano e
ancora di più in Petrarca, che scrive la maggior parte delle sue opere in latino ( Africa è un poema di
imitazione virgiliana in esametri latini). Nella prima metà del Quattrocento le opere letterarie sono in latino,
per essere letterati BISOGNA scrivere in latino  Tuttavia, questo non vuol dire che il volgare non si usasse,
anzi! Questa scelta letteraria fa sì che il volgare si diffondesse ampiamente non solo nel parlato, ma anche
nello scritto. Ciò a cui si assiste è invece la fine del latino medievale, che viene abbandonato completamente.

I primi statuti duecenteschi e trecenteschi sono in latino; quello fiorentino quattrocentesco è invece in
volgare. Per uno statuto ovviamente non si poteva usare il latino degli scrittori classici, lo stesso valeva per
tutti i testi di carattere pratico; per questo nel Quattrocento viene sostituito dal volgare, perché il latino
raffinato ed elegante tornato in auge nel ‘400 non era più adatto a questa tipologia di testi.

 Latino classico: lingua letteraria; volgare: lingua pratica!

Intorno alla metà del ‘400, con precisione dal 1435, a Firenze accade un episodio significativo. Firenze, con i
Medici, diventa una città che per la sua politica di apertura rispetto alle prepotenze locali provoca un
cambiamento. Nel 1435 siamo nel corso del Concilio di Firenze. Si inizia anche a studiare davvero il greco,
una lingua fino a quel momento misteriosa.

24-03-2021

1435 > si tiene la discussione tra Leonardo Bruni e Biondo Flavio durante il Concilio di Firenze. Questi due
studiosi si chiedono se i volgari rappresentino una corruzione del latino o se esistevano già nell’antica Roma:
già in età classica infatti esisteva una forma di diglossia, a livello popolare la gente comune parlava una
lingua diversa (Bruni se ne rese conto leggendo le commedie di Plauto, in cui i personaggi sono fatti parlare
con un latino sgrammaticato). Bruni, riflettendo su ciò, affermò che i letterati conoscevano sì il latino
letterario, ma la gente comune no: i volgari che si sentivano allora quindi non erano altro che un continuo di
una diglossia antica. L’idea che si fossero due lingue, una dei letterati e una della gente comune, c’era già tra
gli uomini medievali come Dante.

Biondo Flavio invece, che da storico aveva studiato le invasioni barbariche dopo il crollo dell’Impero romano,
sosteneva che i volgari fossero nati proprio in questi secoli in cui l’Italia era stata messa a ferro e fuoco dagli
invasori: il latino, da unica lingua, si era mescolato alle lingue germaniche dando vita ai volgari parlati
attualmente nella penisola.

Tutte e due le posizioni sono sbagliate, ma offrono una possibilità di riscattare il volgare dalla sua posizione
subalterna: il volgare, specialmente nell’idea di Biondo Flavio, costituisce una lingua parimente degna del
latino, perché rappresenta una “evoluzione” del latino corrotto dalle lingue barbare.

Leon Battista Alberti, uno dei grandi geni del ‘400, un grande arista e architetto (un suo lavoro e la facciata
della chiesa di Santa Maria Novella), scrisse il primo trattato di economia dell’Europa moderna (precedente
solo l’Economia di Aristotele, poi nessuno se n’era più occupato) intitolato Famiglia proprio perché si occupa
dell’economia familiare  scritto in volgare!

Quando stava per iniziare il terzo libro, smette di scrivere il trattato e scrive un proemio al terzo libro in cui
affronta la questione discussa tra L. Bruni e B. Flavio.

Proemio III libro della Famiglia (1437)


Nel proemio si percepisce come questi umanisti siano influenzati non solo dai lessici, ma anche dalla sintassi
latina (es. infinitive, iperbati, la scarsità di articoli e proposizioni).

All’inizio parla del crollo dell’Impero romano e del disfacimento della lingua latina, come il latino iniziò a
disfarsi con le invasioni barbariche  condivide le idee di B. Flavio. Come è caduto l’Impero romano, così è
“caduta” anche la lingua, ma questo è inspiegabile! Come mai la lingua, che fino a quel momento era sempre
stata utilizzata, ad un certo punto si corrompe? Per rispondere riprende la testi di B. Flavio: quando arrivano
le popolazioni barbariche, i romani iniziano a imparare le loro lingue riempiendo il latino di barbarismi,
“inselvatichendosi”.

Né a me qui pare da udire coloro, e’ quali di tanta perdita maravigliandosi, affermano in que’ tempi e prima
sempre in Italia essere stata questa una qual oggi adoperiamo lingua commune, e dicono non poter credere
che in que’ tempi le femmine sapessero quante cose oggi sono in quella lingua latina molto a’ bene
dottissimi difficile e oscure, e per questo concludono la lingua in quale scrissero e’ dotti essere una quasi arte
e invenzione scolastica più tosto intesa che saputa da’ molti. Da’ quali, se qui fusse luogo da disputare,
dimanderei chi apresso gli antichi non dico in arti scolastice e scienze, ma di cose ben vulgari e domestice
ma’ scrivesse alla moglie, a’ figliuoli, a’ servi in altro idioma che solo in latino. E domanderei chi in publico o
privato alcuno ragionamento mai usasse se non quella una, quale perché a tutti era commune, però in quella
tutti scrivevano quanto e al popolo e tra gli amici proferiano. E ancora domanderei se credono meno alle
strane genti essere difficile, netto e sincero profferire questa oggi nostra quale usiamo lingua, che a noi
quella quale usavano gli antichi. Non vediamo noi quanto sia difficile a’ servi nostri profferire le dizioni in
modo che sieno intesi, solo perché non sanno, né per uso possono variare casi e tempi, e concordare quanto
ancora nostra lingua oggi richiede? E quante si trovorono femmine a que’ tempi in ben profferire la lingua
latina molto lodate, anzi quasi di tutte più si lodava la lingua che degli uomini, come dalla conversazione
dell’altre genti meno contaminata! E quanti furono oratori in ogni erudizione imperiti al tutto e sanza niuna
lettera! E con che ragione arebbono gli antichi scrittori cerco con sì lunga fatica essere utili a tutti e’ suoi
cittadini scrivendo in lingua da pochi conosciuta? Ma non par luogo qui stenderci in questa materia; forse
altrove più a pieno di questo disputaréno. Benché stimo niuno dotto negarà quanto a me pare qui da
credere, che tutti gli antichi scrittori scrivessero in modo che da tutti e’ suoi molto voleano essere intesi.

Nella seconda parte poi cerca di controbattere la tesi di Bruni: se le donne non sapevano il latino, perché
Cicerone scriveva lettere ai servi, alle donne, ai familiari in questa lingua? La lingua unica era il latino, parlato
o scritto che fosse. In più, le donne parlavano forse meglio degli uomini!

Se adunque così era, e tu, Francesco, uomo eruditissimo, così reputi, qual giudicio di chi si sia ignorante
sarà apresso di noi da temere? E chi sarà quel temerario che pur mi perseguiti biasimando s’io non
scrivo in modo che lui non m’intenda? Più tosto forse e’ prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo
che ciascuno m’intenda, prima cerco giovare a molti che piacere a pochi, ché sai quanto siano
pochissimi a questi dì e’ litterati. E molto qui a me piacerebbe se chi sa biasimare, ancora altanto
sapesse dicendo farsi lodare (gli piacerebbe che chi lo biasima, si facesse lodare utilizzando anch’egli il
volgare). Ben confesso quella antiqua latina lingua essere copiosa molto e ornatissima, ma non però
veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto d’averla in odio, che in essa qualunque benché ottima
cosa scritta ci dispiaccia (ammette la raffinatezza della lingua classica, ma non capisce come mai si ha
così in odio il volgare). A me par assai di presso dire quel ch’io voglio, e in modo ch’io sono pur inteso,
ove questi biasimatori in quella antica sanno se non tacere, e in questa moderna sanno se non
vituperare chi non tace (disprezzano il volgare ma non scrivono neppure in latino!) . E sento io questo:
chi fusse più di me dotto, o tale quale molti vogliono essere riputati, costui in questa oggi commune
troverrebbe non meno ornamenti che in quella, quale essi tanto prepongono e tanto in altri desiderano.
Né posso io patire che a molti dispiaccia quello che pur usano, e pur lodino quello che né intendono,
né in sé curano d’intendere. Troppo biasimo chi richiede in altri quello che in sé stessi recusa. E sia
quanto dicono quella antica apresso di tutte le genti piena d’autorità, solo perché in essa molti dotti
scrissero, simile certo sarà la nostra s’e’ dotti la vorranno molto con suo studio e vigilie essere elimata e
polita. E se io non fuggo essere come inteso così giudicato da tutti e’ nostri cittadini, piaccia quando
che sia a chi mi biasima o deponer l’invidia o pigliar più utile materia in qual sé demonstrino eloquenti.
Usino quando che sia la perizia sua in altro che in vituperare chi non marcisce in ozio. Io non aspetto
d’essere commendato se non della volontà qual me muove a quanto in me sia ingegno, opera e
industria porgermi utile a’ nostri Alberti; e parmi più utile così scrivendo essercitarmi, che tacendo
fuggire el giudicio de’ detrattori (=gli umanisti).

 Tutto ciò è una sorta di manifesto per spronare l’utilizzo e il rinnovo del volgare. Questo è
l’inizio del suo programma di rinascita del volgare!

L’Alberti, che pur era un umanista anche lui, si sforza di scrivere in volgare, trasferire nel volgare lo stesso
impegno che gli umanisti impiegavano nell’uso del latino. Per questo scrive la prima grammatica della lingua
volgare, dimostrando come le strutture grammaticali proprie del latino si possano ritrovare anche nel
volgare! Con questa piccola grammatichetta, l’Alberti mette davanti agli umanisti che anche il volgare è una
lingua regolata come il latino  svolta concettuale nel modo di concepire il volgare, un cambio di paradigma
linguistico.

Oltre a questa grammatica, l’Alberti svolge anche altre attività volte alla promozione del volgare, come il
Certame coronario, una gara di poesia in cui gareggiavano poeti che scrissero in volgare, per dimostrare
come anche con questa lingua fosse possibile poetare.

Una lingua che viene rivalutata anche da un punto di vista politico, non solo da Lorenzo de’ Medici, ma anche
da Cristoforo Landino, un grande latinista e umanista, cultore di Dante e Petrarca + il Poliziano, studioso di
greco e latino. Questi personaggi intorno a Lorenzo fanno una vera e propria promozione del volgare a cui
Lorenzo contribuisce.

Il Landino, nel 1467, tiene per la prima volta un corso universitario allo Studio fiorentino su Petrarca e
qualche anno dopo lo terrà su Dante. Questo è importante: è la prima volta che si tengono corsi di
letteratura all’università (fino a quel momento le uni erano il mondo del latino, con testi di ogni genere scritti
esclusivamente in latino). Landino è il primo a far lezione di lett. volgare in volgare!

25-03-2021

Lorenzo de’ Medici raccoglie i suoi sonetti e li unisce in una prosa, Sopra i nostri sonetti, in cui li commenta
sul modello della Vita nova dantesco, parlando dei vari pregi che deve avere una lingua: Dante rappresenta
tre stili, il tragico, il comico e l’elegiaco; è un autore citato in tante opere, per questo merita rispetto.

La lingua per Lorenzo è ancora in una fase adolescente, per lui i successi della lingua si devono alla crescita,
allo sviluppo, all’espansione fiorentina i perfezionamenti linguistici devono andare pari passo con la
potenza politica! Il suo tentativo è quello di promuovere il fiorentino per favorire l’espansione culturale e
l’influenza politica di Firenze. Ciò avviene attraverso una serie di volgarizzamenti dal latino, per esempio la
Naturalis historia di Plinio tradotta da Landino, con cui Landino trasforma i latinismi in volgare, crea quasi dal
nulla un lessico volgare specialistico! Questa trad. viene inviata a Federico d’Aragona a Napoli: uno degli
scopi politici di Lorenzo è quello di instaurare rapporti con gli aragonesi, facendo preparare una raccolta di
poesie toscane, da poesie stilnoviste a poesie contemporanee quattrocentesche, chiamata Raccolta
aragonese del 1476 che mostra l’eccellenza della poesia lirica toscana, inviata con un’epistola firmata da
Lorenzo de’ Medici ma scritta dal Poliziano in cui non si fa altro che lodare il fiorentino, spiegando perché
merita il primato culturale.
 Opere di traduzione volte alla promozione del fiorentino per scopi politici! Legame tra lingua e egemonia
politica. Anche Dante nel DVE aveva chiamato la lingua illustre e regale, quindi il legame tra una lingua
illustre e la sua funzione civile e politica era ben presente anche a Dante. Lo stesso si applica nella Firenze
della seconda metà del ‘400 con una rivalutazione del volgare promossa prima dall’Alberti, tra il 1437 e 1440,
e poi raffinata alla corte del Magnifico nella seconda metà del secolo.

La tendenza dell’Umanesimo volgare era quella di raffinare il volgare attraverso il latino: bisogna introdurre
latinismi nel volgare, rendere il volgare più ricco e raffinato attraverso il ricorso al vocabolario latino, che ha
una varietà di lessico esemplare. Questo processo di latinizzazione del volgare fa sì che il volgare usato da
questi umanisti si distacchi sempre di più da quello parlato, che continuava invece il volgare trecentesco in
cui sì erano presenti latinismi, ma non così tanti. Ad un certo punto anche per coloro che non sanno il
volgare diventa sempre più difficile avvicinarsi a questo ambiente culturale, un esempio è Leonardo da Vinci,
un homo sansa lettere che non sa il latino (o lo sa approssimativamente): Leonardo, per scrivere i suoi trattati
e per essere accettato negli ambienti raffinati delle corti, si prepara delle liste di latinismi, elenchi di parole
latineggianti con accanto il significato in modo da poterli utilizzare. La stessa cosa fa Pulci nel suo
Vocabulista: anche lui pur essendo un autore brillante non sapeva il latino, per cui raccoglie 800/1000
latinismi che inserisce nel Morgante “alla bisogna”.

 Questo arricchimento del lessico volgare in latino, fa sì che per scrivere volgare sia necessario
conoscere il latino. Nasce così il volgare umanistico!

Fuori dalla Toscana ci sono autori che scrivono il latino ignorando l’esistenza culturale del volgare (come il
Valla), ma ci sono anche autori che invece subiscono le influenze locali scrivendo in volgare. Si formano così
le koiné, cioè delle lingue medie che nascono dal conguaglio delle lingue locali, che risentono sia del latino
che del toscano (le Tre Corone sono già letti nel ‘300 e ‘400); sono in sostanza le lingue delle cancellerie, in
cui viene utilizzato un volgare che non è il parlato locale, ma una sorta di compromesso.

Questa situazione porta i letterati a teorizzare una lingua italiana comune. Tra fine ‘400/inizio ‘500 si iniziano
a notare riflessioni che hanno come oggetto la lingua, su quale lingua si debba usare per scrivere in poesia o
in prosa (non tanto in poesia, perché la lingua della poesia in qualche modo si genera da sé stessa: scrivere
poesie voleva dire riprendere la tradizione poetica e continuare con gli stessi metri, lo stesso vocabolario ecc.
 bastava dominare quelle poche centinaia di parole della poesia lirica per avere gli elementi per scrivere). Il
vocabolario della prosa invece è molto più vario, ci si poteva chiede chi dovessero essere i modelli.

Lo spunto per questa nuova attenzione alla lingua è determinato da due fattori:
- un fattore tecnico, pratico, cioè l’introduzione della stampa che creò un cambiamento epocale proprio da
un punto di vista linguistico. Prima della stampa, c’erano varie trad. locali non solo da regione a regione, ma
c’erano anche vari modelli di scrittura: gli esiti grafici dei manoscritti erano tutti diversi e di solito di ogni
manoscritto se ne facevano poche copie (negli scriptoria i manoscritti venivano riprodotti in più copie: uno
dettava il testo, altri 2/3/4… amanuensi trascrivevano; ad ogni modo, le copie erano limitate!)  la stampa
rivoluziona tutto questo: del medesimo testo si potevano stampare centinaia, migliaia di copie! In più, per
poter vendere il prodotto nel mondo, il venditore ha bisogno che i testi siano stampati in una lingua, in una
grafia evidente e condivisa da tutti che possa soddisfare il più largo pubblico possibile. Quindi gli stampatori
si servono di letterati per farsi sistemare i testi da stampare: i testi stampati non vengono stampati a casaccio,
ma si prendeva il manoscritto aggiustandolo per stampare una versione soddisfacente. Questo lavoro dei
letterati che affiancano i tipografi nelle stamperie è già sinonimo di riflessione linguistica! Bembo stesso, le
sue idee sulla lingua le affida a Aldo Manuzio, preparando le due celebri edizioni delle poesie di Petrarca e
della Commedia: di questi grandi poeti come di altri esistevano centinaia e migliaia di manoscritti che
ovviamente avevano assunto una fisionomia che non era originaria (per esempio molti manoscritti della
Commedia fatti nell’area settentrionale settentrionalizzano l’opera), quindi chi sceglie di stampare un testo
deve anche farsi filologo per capire quale sia il testo vero, quello originario. Da questa attività, per arrivare a
stampare testi corretti, personaggi come Bembo capiscono quale sia il percorso da seguire per arrivare a una
lingua che fosse la migliore possibile: per pubblicare il Canzoniere di Petrarca Bembo ha tra le mani il suo
autografo (non interamente petrarchesco, l’altra mano è quella del suo segretario), così capì che era
necessario ricercare il più possibile e trovare la lingua dell’autore  da questa operazione Bembo elabora
una grammatica del fiorentino trecentesco. Individua in Petrarca e Boccaccio i due modelli: quando compone
le Prose, la sua teoria nasce dalla sua esperienza di persona che riflette sul presenta e tenta di uscire dalla
strada dell’Umanesimo volgare, che avrebbe staccato la lingua dalla realtà; bisogna invece tener conto degli
autori del passato per aderire alla lingua vera.
- un fattore culturale, ovvero la crisi italiana. Il sogno di trovare un’armonia tra gli stati che componevano il
mosaico italiano crolla dopo la morte del Magnifico: per risolvere i problemi interni si inizia a chiedere aiuto a
potenze esterne, alla Francia e alla Spagna, così che l’Italia perde la sua autonomia attraversando tutta una
serie di situazioni di debolezza  la realtà politica della penisola va disgregandosi: le potenze marinare
italiane, Genova e Venezia, iniziano a declinare; la Riforma protestante avvia le Guerre di religione; fioriscono
gli stati nazionali… Nelle grandi nazioni europee si riesce ad avere delle lingue nazionali perché si
appoggiano sul potere; in Italia, a causa della sua disgregazione e della sua sottomissione a potenze
straniere, questo non è possibile! L’unica possibilità è di creare una lingua letteraria che si regga da sola per
creare almeno una linea rappresentativa alla quale i letterati possano accedere. Per questo in Italia nasce la
questione della lingua, mentre negli altri stati non avviene!

26-03-2021

Raffaella Scarpa, La questione della lingua, Carocci editore.

Le lezioni ricominciano mercoledì 21 aprile.

Le novità che intervengono tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento riguardano il fatto che il
volgare si distacca lentamente dalla lingua comune arricchendosi di latinismi e termini aulici, tanto che alcuni
umanisti devono ricorrere a glossari di latinismi per utilizzarli al momento opportuno  c’è l’idea che il
volgare vada raffinato.

La koiné, ci si riferisce a lingue utilizzate nelle cancellerie delle varie corti italiane come Milano, Mantova,
Ferrara ecc.

Nello stesso tempo, una grande rivoluzione è data dalla stampa: pone i letterati davanti alla questione di
trovare un’ortografia che sia semplice, chiaro, razionale e condiviso da tutti. Mentre prima, mentre si
facevano i manoscritti, si potevano avere modi di scrivere diversi, adesso invece lo stampatore, avendo il
desiderio di vendere migliaia di copie di un libro dappertutto, esige un sistema grafico il più possibile
unitario. Uno dei testi che fa scoppiare le polemiche, la famosa epistola del Trissino, non fa altro che
proporre una riforma ortografica: distinguere la E aperta dalla E chiusa, la O aperta dalla O chiusa, la I
vocalica dalla I consonantica ecc.  le discussioni riguardano anche come si deve scrivere. Inoltre, qual è la
lingua migliore che i letterati devono adottare? Nascono diverse questioni non solo perché la stampa chiama
i letterati a trovare un sistema grafico e una lingua letteraria comune per rendere l’opera più fruibile al lettore
(ciò vale non solo per i nuovi, ma anche per i testi antichi che vanno in stampa), ma anche per la crisi
economica e sociale che investe l’Italia dopo la scoperta dell’America. L’Italia inizia a perdere importanza nel
commercio e nei traffici con l’Europa orientale; tutto ciò che si concentrava nel Mediterraneo adesso si sposta
nell’Atlantico. Se nelle grandi nazioni europee si vanno formando delle monarchie nazionali, unificando
anche da un punto di vista linguistico, qui in Italia questo non succede; anzi, la frammentazione propria della
realtà tre e quattrocentesca si consolida ancora di più  il desiderio di unificazione dantesco e laurenziano
vanno scemando, diventa sempre più stabile una realtà politico-amministrativa frammentata.
 Il discorso sulla lingua tenta di ovviare a questo problema, cercando delle soluzioni per trovare una
lingua basata non sulla politica, ma sulla letteratura. L’accento quindi viene posto su come fare a
creare uno strumento linguistico che renda conto di un’identità comune.

Le polemiche scoppiano in modo clamoroso intorno al 1524-1525 fino alle Prose della volgar lingua di
Bembo, anche se, anche nei decenni precedenti, si era riflettuto a fondo su come risolvere il problema della
lingua. Migliorini ha individuato tre posizioni:
- coloro che sostengono la lingua cortigiana, anche detto italiano comune, ovvero quella lingua illustre
parlata nelle corti attorno al principe o al signore, circondati da artisti, letterati e musicisti a cui affidavano le
attività culturali (come Lorenzo de’ Medici). Chiaramente, in questo ambiente di corte si parlava una lingua
più raffinata: anche se i cortigiani venivano da regioni diverse, cercavano di parlare una lingua comune;
- i toscani e i fiorentini che, davanti alla proposta della lingua cortigiana, si sentono mancare la terra sotto i
piedi, perché vuol dire che non hanno quella preminenza che vantavano di avere. Ritengono che la lingua
giusta sia quella che si parla e si scrive in Toscana, quindi i letterati italiani che vogliono scrivere bene devono
venire in questa regione;
- la linea bembesca. Bembo scende in campo davanti a queste due posizioni stampando nel 1501 il
Canzoniere di Petrarca e nel 1502 la Commedia di Dante, cercando di ricostruire nel modo più giusto
possibile le lingue delle due Corone (nel caso di Petrarca ha davanti a sé un manoscritto per lo più
autografo). Bembo capisce che, per avere un prodotto letterario eccellente, i letterati devono modellare la
loro lingua su modelli classici: tra i migliori Bembo sceglie coloro che hanno raggiunto l’apice
dell’espressionismo linguistico, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Questa discussione sul
modello linguistico Bembo la fa ovviamente tenendo conto delle riflessioni degli antichi, in particolar modo
di Quintiliano, che a suo tempo aveva fatto lo stesso ragionamento individuando Cicerone per la prosa e
Virgilio per la poesia.

La sua posizione ha una maggiore forza di persuasione rispetto alle altre: Bembo offre ai letterati italiani un
quadro concreto di riferimento, qui non si tratta di avere una lingua come il fiorentino vivo contemporaneo
(che per impararlo è necessario andare a Fi) o una lingua cortigiana (anch’essa difficile da fissare in norme
precise), si tratta invece di tener presente modelli offerti da testi scritti  è molto più semplice! Infatti nelle
Prose fa proprio questo, presenta una grammatica modellata sui documenti scritti di Petrarca e Boccaccio.

 Questa soluzione, detta soluzione arcaizzante, è una soluzione classicista che si rifà ai migliori del
Trecento ed è la più semplice da essere applicata!

Bembo, nel terzo libro delle Prose, presenta una grammatica sotto forma di dialogo modellata sugli scritti di
Boccaccio e Petrarca: mette quindi sott’occhio testi che tutti i letterati d’Italia hanno letto. Questa posizione
vincerà sulle altre perché in fin dei conti è la più facile da essere applicata: tutte le grammatiche e i vocabolari
successivi saranno modellati sulla grammatica bembiana. Le tre fontane di Niccolò Liburnio, per esempio, è
un vocabolario che tiene conto dei tre grandi modelli letterari trecenteschi (Bembo però non avrebbe messo
Dante).

 Bembo dà una direzione allo sviluppo della lingua letteraria italiana.

Il Cortigiano di Trissino era una sorta di manuale che insegnava agli uomini come bisognava vivere a corte (a
corte arrivavano persone di varie provenienze): tra questi insegnamenti c’è anche una parte in cui si insegna
come si deve parlare.

Il Trissino dimostra come la discussione linguistica esistesse già prima: dimostra come il desiderio di una
lingua illustre sia diffuso in tutta Italia. Anzi, le prime osservazioni linguistiche sono state avanzate dai
settentrionale e dai veneti, quelle regioni che sembrano adesso marginali; questi letterati, come Sannazzaro a
Napoli, hanno scritto in una lingua che eguaglia lo stile di Petrarca.
La corte papale era una corte dove confluiva circa la metà della popolazione romana (Bembo fu Segretario di
Stato per una decina d’anni).

21-04-2021 (Lezione XVI)

La lingua italiana deriva dal latino, quindi non solo le strutture grammaticali, ma anche il lessico, solo che la
maggior parte delle parole di origine latina che ci sono in italiano sono latinismi, cioè parole che sono state
introdotte in italiano in varie epoche, ripescate dal vocabolario latino. Di questi latinismi ne abbiamo visti
anche nel Convivio dantesco.

Le prose della volgar lingua, 1525  opera che riassume le discussioni che c’erano state fino ad allora.
Bembo individua in Petrarca e in Boccaccio i due rappresentanti migliori del volgare precedente; nel terzo
libro dell’opera Bembo ricava proprio una grammatica basata su questi grandi autori. La lingua che Dante
utilizza nella Commedia per Bembo è troppo promiscua, mescolata; visto che la commedia apparteneva ad
uno stile medio, di conseguenza all’interno si possono trovare vari stili, dal più basso dell’Inferno al più alto
(per Bembo troppo) del Paradiso.

Il ‘500 è un secolo importantissimo: è il secolo nel quale, oltre alla questione della lingua, viene codificata la
lingua letteraria italiana. Indica veramente qual è la strada che un letterato deve seguire per raggiungere una
norma linguistica che venga accettata, condivisa e compresa da tutti  mette la lingua letteraria su binari
precisi! Le idee di Bembo vengono rese concrete attraverso una serie di opere e strumenti che servono alla
standardizzazione della lingua: nel 1512 uscì la grammatica del Fortunio, ma dopo Le prose comparvero
anche moltissimi vocabolari a stampa. Il primo vocabolario italiano è quello che apparve l’anno successivo
alle Prose, nel 1526, Le tre fontane di Niccolò Liburnio, le fonti dalle quali gli autori devono dissetarsi per
arricchire il vocabolario italiano. Le eccezioni alle impostazioni che ha dato Bembo, da un punto di vista di
vocabolari e grammatiche (non da un punto di vista teorico, in tanti continuano a opporsi alle teorie
bembesche.

Non sempre la distinzione tra parole vuote e piene è così netta, solo che le parole piene, i lessemi, sono
potenzialmente infinite. Inoltre, ci sono continui processi che spostano gli elementi dalla grammatica al
lessico e viceversa, cioè si assiste a processi di lessicalizzazione di elementi grammaticali che diventano
lessemi e grammaticalizzazione di elementi lessicali.
es. di lessicalizzazione  “perché” è una congiunzione, ma se aggiungo un articolo acquista un valore
lessicale, “il perché”;
es. di grammaticalizzazione  tutte quelle che sono locuzioni preposizionali.

Quando si pensa al sistema lessicale si pensa immediatamente ai vocabolari, ma non sono una massa
disorganica, ma file per schierate e organizzate che costituiscono dei sottosistemi stabili dai quali possiamo
trarre ciò di cui abbiamo bisogno. Le parole consentono all’uomo di comprendere e abbracciare tutta la
realtà materiale e immateriale. Questa operazione di “fotografia” della realtà porta sempre ad una sua
semplificazione, talvolta una banalizzazione: noi non possiamo, attraverso le nostre parole, descrivere ogni
elemento. Quando l’uomo nomina le cose non nomina tutto, ma solo quello che vede e ritiene importante; la
realtà è più complessa e ricca, questo lo capiamo dal fatto che il lessico si arricchisce continuamente in base
all’evoluzione storica. Questa associazione delle parole alla realtà ovviamente influenza la struttura del
lessico.
In più, quando si studia il lessico, non bisogna tener di conto solo del significato, il referente al quale la
parola si riferisce, ma bisogna anche guardare a quelle connotazioni che una data parola porta con sé; in
alcuni casi sono di carattere generale, a certe parole si associa una connotazione positiva, in altri invece è
associata una connotazione negativa, spiacevole, spregevole (es. parole offensive)  queste connotazioni
costituiscono un’aggiunta al criterio qualitativo delle parole. Anche questo giudizio è importante, perché
aiuta a rendere le parole adatte a certe situazioni e contesti (se devo arrabbiarmi utilizzerò parole dalla
connotazione negativa).
Anche se usiamo un lessico comune, le parole non hanno per noi tutte lo stesso peso! I significati delle
parole e le loro connotazioni dipendono dall’uso che intorno a me i parlanti ne fanno. Il significato di una
parola lo ricavo dal significato dato dalle nostre esperienze!  Il peso delle parole dipende dall’uso che gli
uomini ne hanno fatto, noi siamo fatti dalle parole che sentiamo e leggiamo. Questa densità e elasticità
semantica sono elementi che vanno tenuti presente. Non c’è mai una corrispondenza biunivoca tra
significante e significato, molte parole hanno più significati. Solo le parole della tecnica e della scienza hanno
solitamente un unico significato, proprio per la logica stessa delle discipline scientifiche: nelle scienze ci sono
dei vocabolari specifici di ciascuna scienza in cui, ad ogni termine, corrisponde un solo significato.

Ci sono parole omonime: uguali nella forma (omografe) o nel suono (omofone)  gli omofoni sono parole
uguali che sono distinte, hanno una storia diversa: bar (anglicismo) è un locale dove si prende il caffè, ma bar
è anche una unità di misura per la pressione (matrice greca).

Concetto che può essere espresso con molte parole es. concetto di movimento: andare, avvicinarsi, correre,
camminare  si possono usare anche espressione fraseologica andare a spasso, andare fuori.

Ogni lingua descrive in maniera diversa la propria realtà, non ci sono corrispondenze perfette tra le lingue,
ogni società ha un suo modo di fotografare la realtà attraverso il lessico. Ogni lingua ha dei vari processi per
descrivere le cose e di costruirsi un lessico ma di base ci sono due modi:

- processi sintetici: singolo elemento;

- processi analitici: più elementi.

Nel creare nuove parole si possono avere delle formazioni trasparenti, cioè parole che si possono leggere
attraverso la loro struttura e parole

Le parole trasparenti sono spesso nate dalla formazione delle parole (derivati/composti) taglialegna,
pescecane, millepiedi o fornaio dicono già il loro significato. Le parole invece come cane, gatto, cuoco o
medico non hanno un significato intuibile fin da subito.

I sostantivi e gli aggettivi: il gruppo nominale

I nomi possono essere classificati in varie maniere:


- comuni, che indicano una classe generale di elementi;
- propri, che hanno un significato, ovvero la persona, l’oggetto, l’animale che il nome proprio indica  il
significato del nostro nome e cognome siamo noi stessi! Sono strettamente legati all’individuo che
designano.

22-04-2021 (Lezione XVII)

Nomi collettivi e nomi massa: (countable e uncountable?)

I nomi colletti indicano gruppi di individui che sono in qualche modo individuabili  gregge o sciame non
costituiscono una massa ma un gruppo. I nomi massa invece indicano un insieme che non può essere
individuato in modo preciso  latte, vino, sabbia, sangue. Questi nomi indicano un’entità che contiene una
massa di cose non riconoscibili nel parlato.  una massa di frumento dovrò dire un chicco di frumento, una
massa d’erba dovrò dire un filo d’erba devo utilizzare un altro sostantivo per scendere nel particolare.

I nomi collettivi possono riguardare insiemi di individui con elementi viventi (animali e persone sciame e
clientela) ma possono indicare anche elementi più generici e astratti (mazzo, marea, maggioranza).
Il problema che riguarda i nomi massa e collettivi è l’accordo tra plurale e singolare  mandria è un nome
singolare che indica una pluralità di elementi, si può usare anche però il plurale più raramente folle. Dato
che i nomi collettivi e di massa indicano una pluralità talvolta gli elementi che gli sono collegati sono al
plurale, specialmente nel parlato erano gente per bene non era gente per bene . Soprattutto quando questi
nomi indicano entità animate.

Nelle grammatiche si usano altre categorie per descriverli ad esempio astratto/concreto ma talvolta sono
difficili da distinguere. Ci sono anche dei sostantivi che possono rientrare in entrambe le categorie ad
esempio

- personalità, può significare il carattere o una persona fisica.

- servitù come personale o come condizione.

- nomi d’agente.

-nomi che indicano strumenti.

-nomi che agiscono (cantante).

I sostantivi italiani possono essere categorizzati in vario modo con una desinenza finale che ne indica
l’aspetto, possono distinguersi per numero e per genere. In inglese non c’è una differenza di genere mentre
in tedesco si ha anche il neutro.

NUMERO

Il numero si evince dal grafema singolare o plurale, ci sono tre classi di sostantivi che distinguono singolare e
plurale in modo diverso:

- Sostantivi in A che hanno plurale in E donna>donne


- Sostantivi in O che hanno plurale in I libro>libri
- Sostantivi in E che hanno plurale in I volpe>volpi/ cane>cani (possono essere maschili o femminili)
- Sostantivi in A maschili che hanno il plurale in I/E poeta>poeti
- Sostantivi in O maschili che hanno il plurale in A femminile braccio> braccia/lenzuolo>lenzuola
perché in gran parte sono sostantivi che in latino erano neutri brachium>brachia, digitum>digita,
auriculum>auricla. Questi neutri plurali in A sono rimasti nell’italiano, quasi tutti questi sostantivi
“irregolari” si sono nel tempo creati dei plurali analogici in I bracci, diti, orecchi.

Ci sono alcuni nomi che non rientrano in queste categorie, ci sono sostantivi indeclinabili, che sono
solamente singolari, il numero si evince solo da altre parti grammaticali (es. articolo), ci sono poi i sostantivi
difettivi, quelli che non hanno il singolare o plurale, inoltre ci sono anche i sostantivi sovrabbondanti, ovvero
che hanno più forme plurali (lenzuolo> lenzuola o lenzuoli).

I sostantivi indeclinabili hanno una forma unica per il singolare e plurale sono ossitoni, accentanti
sull’ultima sillaba (parole tronche: città, virtù, falò). Quasi tutte queste parole sono tronche che derivano
dall’accusativo civitatem> civitadem>cittade>città , la cittade o la virtude avevano il plurale (le cittadi o
virtudi), ad un certo punto queste finali in -de sono cadute per non ripetere la cittade de Milano. La stessa
cosa succede anche oggi per i sostantivi tronchi  frigo non ha plurale, invece frigorifero sì. Sono sostantivi
indeclinabili perché anche essi derivano da un troncamento, diverso da quelli precedentemente analizzati,
ma sempre tale.

Un altro gruppo di sostantivi indeclinabili sono i forestierismi, gli si attribuiva un genere e una desinenza di
numero.  besteck> bistecca/bistecche è stata completamente adattata all’italiano, quando però da fine
Ottocento i prestiti si sono fatti attraverso l’occhio e non l’orecchio, queste capacità assimilatorie sono venute
meno. Si cerca di pronunciare i forestierismi secondo la pronuncia originaria e quindi per fare il plurale
diventa un problema se vogliamo mantenere la parola tale e quale  film non esiste filimi, se non in gergo
popolare/toscano perché aggiungono al singolare una E epitetica finale (filme). Sulla stessa scia dell’inglese
moltissimi spanicismi in -o non hanno un plurale italiano tango, mango, gazebo.

I sostantivi difettivi mancano di singolare o plurale  pantaloni/occhiali/forbici in genere si usano


prevalentemente al plurale, perché il referente a cui si riferiscono è doppio.  il buio ha un plurale ma non si
usa mai, come ad esempio la copia (abbondanza), sole, luna (ce ne è solo uno/a anche se propriamente sono
nomi comuni, in realtà sono propri perché ci si riferisce a quei due corpi celesti).

I sostantivi sovrabbondanti 

frutto> frutti/frutte/frutta

legno> legni (pezzi diversi che compongono qualcosa oppure in senso metaforico le barche o strumenti
musicali)/ legne(i singoli pezzi)/legna (in senso collettivo) questi plurali hanno accezioni diverse non sono
sinonimi  braccio> braccia/bracci, braccia indicano la parte del corpo umano, bracci invece si usa per
indicare quelli di una sedia o di una croce.

23-04-2021

Giovedì 29 non c’è lezione.

Genere

Da un punto di vista grammaticale esiste un genere effettivo indicato dai referenti animati (es. leone vs
leonessa), altrimenti per i sostantivi bisogna parlare di genere grammaticale (es. la penna= femminile, non
sappiamo perché). Soltanto davanti ai neologismi, alle parole nuove, talvolta si può essere incerti sul genere:
oggi per esempio, quando introduciamo nella lingua gli anglicismi (in inglese non c’è genere) bisogna dare
loro un genere (di solito finiscono per diventare maschili)  bar, sport, film (film per esempio, in origine era
femminile perché portava dietro il significato di “pellicola”, poi venne inteso come “oggetto da vedere”)…
Qualche mese fa, per esempio, si è discusso sulla parola “covid”: qualcuno disse che doveva essere femminile
in riferimento alla malattia e non al virus.

In origine “automobile” era maschile. All’inizio era un aggettivo, “auto movente” riferito a un sostantivo,
“veicolo”, per questo era maschile. Fu D’Annunzio per la sua femminilità, pensando a una “vettura
automobile” piacevole come una donna.

La scelta del genere quindi riguarda le parole nuove, tutti i parlanti fanno in modo che si orientino verso
l’uno o l’altro genere. Per le parole già esistenti nella lingua invece è più difficile.

Fra i sostantivi maschili e femminili ci sono delle eccezioni.


- nomi maschili in O che si riferiscono a referenti femminili, come il soprano e il contratto  sono maschili
perché fino al ‘700 questi ruoli erano interpretati da uomini;
- nomi femminili in A che si riferisco/si riferivano a referenti maschili, come la guardia, la guida, la spia  in
realtà anche questi ruoli sono sempre stati maschili. In questo caso, questi sostantivi nascono da
abbreviazioni come “il soldato che fa la vedetta/la sentinella”: la vedetta e la sentinella sono sostantivi
femminili. “Guardia” significa “fare la guardia”.
- nomi maschili in A che derivano da parole greche;

La distinzione di genere negli esseri animati:


- desinenza;
- le terminazioni suffissali;
- il cambio di lessema  ci sono una serie di nomi in cui il maschile è diverso dal femminile: padre vs madre,
uomo vs donna… siamo davanti a denominazioni che vogliono marcare la differenza di genere;
- lo stesso lessema  ci sono categorie di animali, a differenza di toro vs mucca, che non distinguono il
genere, c’è un solo termine per ambedue (tigre, gazzella ecc.).

Con gli esseri inanimati le differenze non ci sono, ce li troviamo davanti maschili/femminili senza nessun
fondamento semantico. Tuttavia, ci sono tutta una serie di sostantivi che possono essere sia maschili che
femminili. Se si paragonano tra di loro, una certa idea di cosa sta dietro ai due generi si può avere: IL pozzo
vs LA pozza, IL buco vs LA buca, IL cassetto vs LA cassetta, IL gambo vs LA gamba…

(- i nomi di alberi da frutti in italiano sono generalmente maschili, mentre la frutta è femminile (la pesca, la
mela, l’albicocca, la susina… a parte qualche eccezione, l’albero è maschile e il frutto femminile). In latino la
situazione era contraria, l’albero da frutta era femminile e la frutta maschile. Perché? Probabilmente perché
ha pesato nella lingua parlata il nome latino generale dell’albero, arbor: il fatto che il nome generico fosse
maschile ha influenzato il genere degli alberi da frutta in italiano. D’altra parte, il nome generico latino di
frutta, pira, ha ricavato il genere femminile.
- tanti nomi di città un tempo erano maschili, IL Milano, IL Torino, IL Firenze,
- …)

Il genere non riguarda solo i sostantivi, ma anche i pronomi:


- nei pronomi personali si distingue alla terza persona. Perché solo alla terza? Perché IO e TU si vedono, sono
presenti alla conversazioni, le terze persone no, quindi devo specificare il genere per poterla indicare.

Espressioni polirematiche

Le parole non sono solo singoli lessemi, può essere anche un’unità lessicale superiore: un composto di più
elementi formativi o un’espressione polirematica= le locuzioni, i modi di dire, i fraseologismi… ovvero quelle
espressioni idiomatiche composte da più elementi che funzionano come se fossero composte da una sola
parola  ferro da stiro, macchina da scrivere: sono espressioni in cui ci sono più elementi che assieme
funzionano come se fossero delle singole parole. Questi sintagmi hanno varie caratteristiche che li rendono
espressioni idiomatiche:
- hanno una struttura fissa o quasi fissa, si possono avere solo POCHE varianti, tendono a cristallizzarsi in una
forma stabile: non può cambiare l’ordine delle parole ( tagliar la testa al toro= risolvere con un colpo netto
un problema; posso cambiare il verbo, che viene adattato al soggetto, ma il sintagma resta così com’è);

28-04-2021

Fare il letterato non dava possibilità di avere un reddito. Chi scriveva un’opera poteva avere un premio, ma
non un ritorno economico; per stampare un libro c’è bisogno di un contributo esterno, infatti le opere
solitamente sono precedute da dediche che l’autore rivolge a colui (o alla famiglia) che ha contribuito
economicamente alla pubblicazione. Nell’800 invece, con i nuovi sistemi di stampa (la carta adesso viene
fatta con la cellulosa, quindi costa di meno + vengono inventati e perfezionati nuovi tipi di torchio per
stampare, molto più rapidi), stampare un libro è molto più economico e veloce. La diffusione delle
pubblicazioni a stampa, più larga del secolo precedente, richiede anche un maggiore impegno da parte di
scrittori, stampatori, giornalisti… Tommaseo è il primo che vive del suo lavoro di giornalista e letterato; va a
Milano, centro della vita editoriale, e nel 1827 viene a Firenze, dove inizia a lavorare con Giampietro
Vieusseux, fondatore del Gabinetto di lettura e della rivista “Antologia”, su cui personaggi di rilievo hanno
pubblicato saggi importanti. Nel 1833 Tommaseo va a Parigi in esilio volontario, periodo durante il quale
conosce tanti letterati e intellettuali. Nel 1840, stesso anno di pubblicazione dell’edizione definitiva dei
Promessi Sposi, Tommaseo pubblicò a Venezia il romanzo Fede e bellezza: era un periodo in cui fiorivano le
pubblicazioni di romanzi storici, mentre Tommaseo scrive un romanzo psicologico sull’amore che unisce un
uomo e una donna. Ad ogni modo, i suoi veri capolavori furono due dizionari:
- un Dizionario dei sinonimi, in cui cerca di mostrare come in fondo i sinonimi non esistano, chiarendo tutte
le differenze di significato tra parole;
- il Grande dizionario della lingua italiana, un grosso dizionario storico che ancora oggi si consulta con
profitto. Di solito i dizionari ci danno un’accezione sincronica, ci dicono più o meno ciò che le parole
significano oggi; il dizionario storico non ci dà solo i significati e le accezioni, ma riporta anche degli esempi
che ci fanno capire i diversi valori che le parole hanno avuto nel corso del tempo. Conoscere qual è il
retroterra linguistico delle parole utilizzate è fondamentale.

Salvatore Battaglia, UTET, 1960-2001


Vocabolario dell’Accademia della Crusca

Tommaseo , scrivendo questo dizionario, aggiungeva alcune sue considerazioni sulle parole che ci rivelano
molto non solo del periodo ottocentesco, ma anche dello spessore profondo che le parole hanno.

Espressioni polirematiche

Le parole non sono solo semplici, alcune hanno una struttura complessa derivata da composizioni o
dall’aggiunta di prefissi/suffissi. Si tratta di moduli formativi sempre a disposizione dei parlanti per creare
nuove parole.

Un altro tipo di complessità è dato dai fraseologismi, ovvero espressioni in cui si combinano insieme più
parole che tuttavia costituiscono una sola unità l senso, il significato, la funzione che hanno è quella di
un’unica parola!

Esse non sono altro che le risultanze dei vari processi, le varie tendenze che riguardano il continuo
riplasmarsi del lessico di una lingua. Il lessico di una lingua è la parte di essa più suscettibile e adattabile alla
realtà esterna e interna dei parlanti! Qualsiasi cambiamento che avviene nella realtà deve essere appropriato
dal linguaggio, per questo c’è bisogno di parole nuove perché ogni giorni la realtà si modifica e di
conseguenza abbiamo bisogno di adattare il linguaggio a ciò che ci accade  questo continuo movimento
porta a modifiche nella buccia esterna nel lessico, mentre fonetica, morfologia e sintassi sono più stabili:
cambiano anch’esse ma più lentamente, talvolta cambiano per i contraccolpi della sfera lessicale, ma non
sono ad essa dipendenti.

Quando guardiamo gli sviluppi di una lingua vediamo certamente la formazione di nuove parole a partire da
quelle che abbiamo a disposizione; talvolta i suffissi, per esempio, permettono addirittura di passare da una
categoria all’altra. I suffissi non hanno un significato proprio, ma operano sulla parola per darle una nuova
accezione; al contrario, i prefissi possono avere un significato, in particolare quando coincidono con avverbi o
proposizioni  es. SENZA tetto

Un altro modo per creare nuove parole è attraverso abbreviazioni. Nella lingua contemporanea sono
frequentissime  es. TELEvisione, PROFessore, CINEma, MATEmatica

Un altro modo che tende alla brevità è quello delle sigle e degli acronimi.
- Le sigle (parole formate con le iniziali delle espressioni a cui si riferiscono), utilizzate sin dall’Antichità, oggi
sono ampiamente diffuse (es. ONU, UNESCO…); quando una nuova sigla entra in circolazione non sappiamo
che cosa sia, restiamo sbigottiti, come nel caso delle tasse degli italiani come IVA, IMU ecc. Tuttavia, la sigla
può avere una funzione linguistica importante perché riassumono una denominazione più ampia, quindi più
difficile da ricordare; è una denominazione arbitraria con un significato proprio. Le sigle vengono sfruttate
soprattutto dalle imprese commerciali, che tendono a creare denominazioni che, con le loro sigle, colpiscano:
es. FIAT  Fabbrica Italiana Automobili Torino, denominata alla fine ‘800, fu chiamata così proprio per
ricavarci la sigla FIAT, che non è altro che una parola latina che si trova all’inizio della Genesi quando viene
narrata la creazione del mondo.
La sigla, che in teoria è un nome proprio, diventa spesso un nome comune.
- Gli acronimi (i nomi fatti per abbreviazione) si differenziano dalle sigle perché sono costruiti con dei pezzi di
parola: es. TOTIP  TOTalizzatore IPpico

Un altro modo per creare nuove parole è utilizzare l’onomatopea, cioè riprodurre, attraverso il significante
della parola, lo stesso significato: es. miagolare, belare  cerchiamo di riprodurre attraverso il verbo il verso
del gatto.

Un’altra categoria sono le parole nate per errore, nate da fraintendimenti, che nonostante ciò continuano ad
andare avanti: es. tulipano  Migliorini le chiama “parole fantasma”. Fiore turco importato in Europa; ?
chiese ai turchi come si chiamava, fraintendendo il suono della parola turbante chiamò il fiore tulipano.

30-04-2021

LIQUORE  una parola che esisteva già in italiano almeno dal ‘400, un latinismo da liquorem (liquor, liquoris)
che voleva semplicemente dire “sostanza liquida”; partire dal ‘600 in Francia con liqueur si indicò la bevanda
alcolica. In italiano la parola LIQUORE, che voleva dire solo liquido, inizia ad assumere il significato alcolico
sul modello francese.

La semantica è un altro settore importante per la creazione di nuove parole: le parole restano le stesse, ma i
nuovi significati che assumono arricchiscono il lessico di una lingua.

Evoluzioni semantiche

Periodo che va dal crollo dell’Impero romano fino al IX-X secolo, quando affiorano le lingue romanze. I
cambiamenti di significato che avvengono in questo periodo sono notevoli, dovuti anche al cambiamento
della società da un punto di vista politico, sociale e religioso.

Le evoluzioni semantiche si costruiscono molto spesso sulle figure retoriche:

Metafora  es. PALMA = albero con un lungo fusto con in alto un insieme di folte fronde; una pianta di
origine africana. Ma anche = la PALMA della mano/il PALMO della mano, perché la mano aperta assomiglia
alle fronde della pianta  processo di trasformazione semantica attraverso un processo metaforico: stesso
significante, diverso significato.

Metonimia  traslazione semantica che si basa non sulla somiglianza (come la metafora), ma sulla vicinanza
di due concetti (per es. uno è il contenuto/contenitore dell’altro, uno è l’autore/l’opera dell’altro ecc.). Per
esempio:
- quando si dice “mi guadagno da vivere col SUDORE della fronte” = il SUDORE diventa metonimia per
indicare il lavoro > lavoro, dunque sudo.
- quando si dice “quel tipo ha del FEGATO da vendere” = il FEGATO è metonimia per indicare il coraggio (in
Antichità si credeva che fosse la sede del coraggio).

Sineddoche  il tutto per la parte o la parte per il tutto. Per esempio:


- quando si dice “il mare è solcato da VELE” = la VELA indica la barca a vela, è una sua caratteristica, un suo
particolare.
- quando si dice “lo SPAGNOLO è flemmatico” = SPAGNOLO non indica un solo spagnolo, ma gli spagnoli,
utilizzo il singolare per indicare il plurale.

Si possono avere processi di miglioramento o peggioramento del significato di partenza. Per esempio
CATTIVO viene dal participio passato di capere, captivus = preso > prigioniero. Il significato negativo si
sviluppa in ambito cristiano perché nasce dall’espressione captivus diabolis, ovvero “prigioniero del
demonio”.

Si può avere un restringimento di significato: prole che in latino avevano un significato generico, nelle lingue
romanze assumo un significato particolare. Per esempio cognatus in latino aveva semplicemente il significato
di “parente”; in latino parentes indicava invece i genitori.
Il verbo levare in latino voleva dire “alleviare, rendere più leggero” (significato generico), mentre in italiano è
diventato “toglier via” (più specifico), un significato che si sviluppa probabilmente da un uso gergale di
questo verbo: “il ladro mi ha ALLEGGERITO il portafoglio”.
La parola PAGANO (=quelli che credevano all’antica religione greco-romana) viene da pagus latino, “paese”,
e da paganus, “abitante del paese, paesano” (significato generico); il significato attuale della parola ha
probabilmente due motivi: 1) il Cristianesimo si diffuse nelle città romane, nei paesi invece, nei pagi,
sopravvissero le antiche credenze  paganus quindi da paesano > pagano; 2) nel gergo militare latino si
contrapponevano i pagani a milites: il miles stava dentro l’accampamento dei soldati, mentre i pagani
stavano nei pagi circostanti.
Simile è anche il discorso di VILLANO, ovvero “campagnolo”: nella villa in latino vivevano i contadini e
villanus era proprio il contadino (significato neutrale), poi piano piano ha assunto un significato peggiorativo.

Si può avere un allargamento di significato, una generalizzazione. Per esempio il verbo laxare in latino voleva
dire “allentare, allargare, rilassare” (significato specifico), in italiano si ha LASCIARE, che non è solo “lasciare”,
ma proprio “abbandonare” (significato generico).
La parola COSA viene dal latino causam, con significati particolari, per esempio in filosofia “la causa he
scatena un effetto” o in ambito giuridico “la causa che si discute in tribunale”. In italiano si sono mantenuti
entrambi i significati, ma la parola COSA deriva dal dittongo AU che monottonga e assume un significato
generico di “qualsiasi cosa”.

Si possono avere traslazione di significato basate su metonimie o metafore. Per esempio sulla metonimia si
basa l’evoluzione semantica di focus, da cui in italiano si ha FUOCO. FUOCO in latino però si diceva ignis,
focus voleva dire “focolare”, cioè il contenitore del fuoco  il contenitore quindi è diventato il contenuto.
Anche la parola TESTO viene dal latino testam, “vaso di coccio”, mentre il testum era il coperchio di un vaso
di coccio. Una pentola, in sostanza, assomiglia un po’ a una testa, quindi per questa metafora la parola
testum passa a indicare il “capo”.
La parola SPALLA viene da spatula, che è un diminutivo di spata, da cui viene SPADA, che non era altro che
una “piccola spatula”; dalla sincope …?

Si possono avere parole che da significati astratti passano a significati concreti. Per esempio il verbo
PENSARE ha lo stesso significato latino di “ragionare”, ma visto che il nesso -NS- si riduce sempre a -S- viene
fuori il verbo PESARE  cambia il significato: da astratto a concreto!
La parola MACCHINA viene da machina, per indicare qualsiasi cosa di macchinoso; dalla parola latina viene
anche la parola MACINA  da machinari, “inventare, escogitare” > a macinare, l’azione che viene fatta per
macinare il grano.
La parola PARABOLA è un grecismo (come molte che vengono dal Cristianesimo, perché questa religione si
diffonde prima in lingua greca) .

05-05-2021

Un altro peggioramento di significato è il cambiamento di senso di PERFIDO: viene da perfidus= colui che ha
una fede sbagliata, non credente nella giusta religione (cristiana). Questo aggettivo si trovava in una
preghiera della liturgia del Venerdì Santo, nella quale i cristiani pregavano per gli ebrei. Il fatto che questo
aggettivo fosse unito alla parola “ebreo” provoca una connotazione negativa sull’aggettivo stesso (come
CATTIVO=prigioniero, il fatto che si trovasse nel sintagma captivus diabolis lo connota negativamente).

Qualcosa di simile riguarda anche il verbo TRADIRE, dal latino tradere, composto da trans+dare con
significato “consegnare”. Questo verbo si trovava nei testi sacri nella descrizione dell’episodio in cui Giuda dà
un bacio a Gesù, consegnandolo alle guardie del Sinedrio: Iudas tradidit Iesum. Vista la malvagità di questa
azione, il verbo inizia a indicare qualcosa di negativo: non più “consegnare”, ma “tradire, ingannare”.

Ci sono quindi una serie di impressioni che cambiano significato entrando prepotentemente nell’uso
comune. Ci sono studi che dimostrano la diffusione popolare delle espressioni del Vangelo che diventano
alla portata di tutti, ricavate dal latino liturgico. Per esempio, i testi e le preghiere della settimana Santa si
stampavano nella testa della gente e, in qualche modo, rimanevano vivi nell’uso comune. Il passio è la lettura
dei brani del Vangelo che riguardano la Passione e la morte di Gesù; ci sono tanti nomi propri di personaggi
che sono diventati comuni:
- “essere un CIRENEO”=quando qualcuno si sobbarca del lavoro di qualcun altro; il “cireneo” è un uomo di
Cirene che, quando Gesù cade per terra, lo alza e lo aiuta portandogli la croce;
- nei Vangeli, nella salita del Monte Calvario -monte vicino a Gerusalemme > il CALVARIO è diventato “luogo
di sofferenze;
- la parola VERONICA è una tela dove è dipinto il volto di Gesù; in Spagna si chiama Veronica il momento in
cui il torero tiene il suo mantello disteso in avanti per far sì che il toro gli vada in contro;
- un BARABBA è un “delinquente”; dall’aramaico “figlio del maestro”; quando Gesù viene portato da Ponzio
Pilato, il governatore romano;
- l’aggettivo PILATESCO=rinunciatario, lavarsene le mani; il gesto di “lavarsene le mani”, ovvero di compiere
un atto rinunciatario, da parte di Pilato;
- LAVATIVO=uno scansafatiche, uno che evita di fare il suo dovere  il prof ipotizza l’influenza del “lavarsene
le mani” di Pilato, perché nel ‘700-‘800 aveva un significato diverso …?
- l’ecce homo= quando una persona è in cattive condizioni, come se avesse subito il martirio di Gesù;
- l’espressione coram populo= dire qualcosa davanti a tutti; quando Ponzio Pilato si rivolge a tutto il popolo

Talvolta, le espressioni costruite con un elemento verbale vengono sostituite da un altro elemento verbale;
per esempio FICCARE IL NASO> “ficchino” , ROMPERE LE SCATOLE> “rompitore”.

 È importante trovare l’etimo delle parole, la basse dalle quali derivano!

La scienza etimologica non è sempre semplice. L’etimologia si trova descritta nei dizionari etimologici, il
Dizionario etimologico di .?. e quello di .?. Oltre a questi, c’è il Lessico etimologico italiano di .?.

Lo studio della lingua è cercare di penetrare nel profondo delle parole; questa è forse la parte più importante
della linguistica! Tuttavia, non ci si deve limitare solo a scovare il momento originario, ma bisogna impegnarsi
a ricostruire la storia delle parole: come vengono usate, quando vengono usate, come hanno mutato il loro
significato.

TALENTO è un’altra parola che cambia il significato dal Vangelo. Oggi TALENTO ha il significato di “dono,
qualità”; in origine invece era una parola greca che indicava la “bilancia”, l’ “unità di peso” e “somma di
denaro”. Il significato odierno viene dalla Parabola dei talenti raccontata da Matteo nel XXV capitolo del suo
Vangelo, in cui si parla di un padrone che deve compiere un viaggio, lasciando ai suoi servi dei talenti
(=somme di denaro) e, una volta tornato, vuole sapere da loro che fine gli avevano fatto fare; il padrone, in
conclusione, giudica i suoi servi in base all’uso che ne avevano fatto  si parla metaforicamente dei doni che
Dio dà a ognuno di noi, che bisogna saper utilizzare e sfruttare per valorizzarli> da qui il significato di oggi.

Il latino non aveva articolo, ma grazie alle traduzioni latine dei Vangeli e della Bibbia, l’articolo viene tradotto
come ille, illa, illud  quando si traducono i testi sacri si cerca di essere molto precisi e meticolosi> grossa
trasformazione del latino che porta poi alla formazione di nuove categorie, come pronomi e aggettivi
dimostrativi.

Onomastica

In latino, le donne avevano un nome solo; i loro nomi erano solitamente quelli della gens a cui
appartenevano. Gli uomini, al contrario, avevano in genere tre nomi (es. Marco Tullio Cicerone> il primo
nome era quello individuale, il secondo quello della gens, il terzo il prenomen -oggi “soprannome”, come
Publio Ovidio Nasone-). La riduzione a un nome solo fu certamente per influenza del Cristianesimo, a sua
volta influenzato dai greci, che si identificavano con un solo nome.

6-05-2021

AI VIRI GALILEI MI SPOGLIO NEI PANNI MIEI  VIRI GALILEI=uomini di Galilea, è un espressione che si
leggeva negli Atti degli Apostoli durante la Confessione> quando arriva l’Ascensione, ci si cambia l’abito
perché si comincia a sentire il caldo dell’estate.

MEMENTO  =mi ricordo/ricordati. Questa parola è entrata nella lingua con significato di “ricordo”

Il latino della Chiesa ha influenzato il parlato, anche i dialetti; anche quelle parole come CIMBALO e VISIBILIO
di cui non si capiva bene il significato. Quindi, sia a livello alto che a livello popolare, l’influenza del latino
liturgico si è fatta sentire fino all’epoca contemporanea, quando nel 197? si abolì il latino nella liturgia,
iniziando a recitare la messa in italiano. Sebbene siano rimaste alcune espressioni, si è persa la valenza sacra
che nutriva la lingua di tutti.

Dibattiti sulla lingua come avvengono in Italia non sono così approfonditi! Se si discute della lingua in altre
parti di Europa lo si fa durante i nazionalismi, quando si cerca di darsi un’identità.

6-05-2021

La soluzione che propone Bembo è di tipo classicista, sulla base di due grandi autori trecenteschi, Petrarca e
Boccaccio, sui quali gli scrittori devono modellarsi. In qualche modo Bembo si stacca dai condizionamenti
della realtà linguistica.

La posizione di Bembo, essendo la più facile da essere accolta, fu quella che riscosse più successo. Tuttavia, la
realtà era molto più complicata rispetto al modello, così chiaro e classico, bembesco. Soprattutto nei secoli
successivi ci sono grandi scrittori che non faranno come Ariosto, che corresse l’ Orlando secondo il dettato
delle Prose; Tasso no, per esempio. Tasso non seguì i rigidi schemi proposti da Bembo, si accostò piuttosto
alla teoria della lingua cortigiana.

Con l’avvento del Principato di Cosimo de’ Medici (al potere dal 1537) le cose cambiano in Toscana. Fino al
1574, anno della sua morte, è Cosimo a governare in Toscano, ottenendo dal Papa il titolo di Granduca di
Toscana: non solo rafforza il dominio mediceo nella regione, ma nel 1555 Firenze conquista anche, e
definitivamente, Siena, che viene immessa nel Principato mediceo  la Toscana è a tutti gli effetti una
grande regione!
Cosimo fonda anche l’Accademia fiorentina, in cui vengono chiamati a far parte i migliori intellettuali della
regione, alla quale affida compiti specifici per realizzare opere che diano gloria e lustro al Granducato (per es.
il porto di Livorno)  nell’arte l’eccellenza è toscana!
Anche da un punto di vista letterario il suo impegno è notevole: sotto di lui vengono realizzate nobili opere
storiche sulla Toscana; nasce il mito etrusco, per cui si ristudia la storia e la lingua degli etruschi.
Viene realizzata la Galleria degli Uffizi, la prima galleria moderna europea, messa in piedi da Vasari per
mostrare l’eccellenza del Granducato.

 l’intento politico del Granducato è quello di assumere una funzione di guida d’eccellenza, di conseguenza
deve esserci anche una promozione della lingua (come aveva fatto Lorenzo)!

Tuttavia, l’iniziativa di Cosimo non ha gli effetti che sperava. Un suo progetto era quello di scrivere una
grammatica di lingua toscana che possa essere un modello, o come o opposta (e migliore) a quella di
Bembo. Non ci sono grammatiche fatte da toscani in questo periodo, perché i toscani imparano la lingua
naturalmente.

L’unica grammatica fatta è quella del Giambullari, tuttavia in questa prima fase non si arriva a un punto di
svolta.

La svolta si ebbe nel 1570, con la pubblicazione di un’opera postuma di Benedetto Varchi, uno storico che
aveva scritto una storia di Firenze e al corrente delle polemiche linguistiche dei tempi. Quando il Varchi torna
a Fi dopo l’esilio, pubblica un’edizione delle Prose con una sua prefazione, dedicandola a Cosimo. Il Bembo
non lodava il toscano, individuò solo due modelli toscani; pubblicando quest’opera però, il Varchi cercò di
coinvolgere la teoria letteraria del Bembo nel processo di rivalutazione del toscano, pubblicando l’opera
proprio a Firenze.
A parte a questa edizione delle Prose, l’altra opera a cui il Varchi lavora è il dialogo intitolato Ercolano, in cui
affronta la questione della lingua con basi più approfondite. Da un punto di vista teorico infatti, l’opera è
certamente più moderna delle Prose bembesche. Nell’Ercolano il Varchi cerca sì di riprendere la teoria di
Bembo mostrandone i pregi, come la lingua dei letterati abbia un peso notevole, ma tutta la prima parte del
trattato è dedicata alla valorizzazione del fiorentino, come il suo vocabolario sia raffinato e ricco.

 Prima ci deve essere una lingua, poi ci devono essere gli scrittori che la nobilitino! Nell’opera di Varchi c’è
questa idea: la lingua vive all’interno di una comunità e al suo interno è organizzata in strati diversi, dei dotti,
della classe media e del popolo> la lingua è fatta da tutti, tutti forniscono elementi alla costruzione
linguistica!
In più, per Varchi la lingua non è fatta solo da chi la scrive, ma anche da chi ascolta: c’è uno scambio tra
locutore e ascoltatore.

Varchi dà una classificazione delle lingue, mostra come si possano classificare non storicamente, ma
tipologicamente  un altro aspetto di modernità dell’autore! Nel quarto quesito si chiede: sono gli scrittori a
fare le lingue, o sono le lingue a fare gli scrittori? Nell’ottavo quesito invece polemizza contro l’affermazione
bembesca che sosteneva che i fiorentini fossero avvantaggiati sì per la spontaneità della lingua, ma
arrivavano anche a “storpiarla” nella scrittura. Per il Varchi invece, il fatto di essere immersi in una realtà
linguistica stratificata dà loro una maggiore elasticità, maggiore degli scrittori che devono apprenderla. I
fiorentini hanno il vantaggio di poter usufruire più naturalmente della risorsa linguistica, molto più di chi
deve impararla.
In sostanza il Varchi respinge sia la teoria cortigiana, sia quella bembesca. Nel fondare la lingua nell’uso
popolare, naturale, di conseguenza i principi di Bembo vengono messi in crisi.

Questa opera teorica, l’Ercolano, che dà una nuova prospettiva al fiorentino, inaugura a Firenze anni di nuove
riflessioni. La nuova realtà è questa: si sviluppa a Fi un forte interesse per lo studio filologico, concreto, della
lingua, un’attenzione ai testi antichi manoscritti nella speranza di ritrovare la vera natura del fiorentino
trecentesco per confrontarla con quello contemporaneo. Questa nuova tendenza si sviluppa attorno alla
“rassettatura” del Decameron di Boccaccio: nel 1527 Lutero aveva affisso le sue tesi sulla porta di … avviando
così la Riforma Protestante, così che la Chiesa di Roma corse ai ripari indicendo il Consiglio di Trento (1545-
1563) in cui si stabilì l’index librorum prohibitorum, ovvero un sistema di controllo sui libri che non possono
trovarsi tra le mani dei fedeli. Tra questi libri proibiti ci finiscono praticamente tutti i libri di Machiavelli, che
parla male della Chiesa, e anche il Decameron di Boccaccio, perché spesso gli ecclesiastici vengono messi alla
berlina per le loro malefatte e perché si affrontano argomenti scandalosi (per es. sesso).
Proibendo la lettura del Decameron era un pasticcio: non solo perché era un’opera amata e letta da tutti, ma
anche perché Bembo (un prete) lo aveva individuato come modello, e quindi un libro che tutti dovevano
leggere per imparare a scrivere. Quindi era necessario concedere la pubblicazioni del Decameron, ma solo in
edizioni corrette e “rassettate”; un’edizione che salvasse il testo nella sua esemplarità linguistica, ma che
occultasse le parti indecenti. Il luogo migliore per svolgere questo lavoro di rassettatura era Firenze, un
lavoro che richiedeva delicatezza e raffinatezza per non rovinare il capolavoro letterario. Il primo a portare a
termine questa impresa fu Vincenzo Borghini, con l’aiuto di altri letterati fiorentini: non solo divide il testo del
Decameron, ma si mise anche a studiare a fondo la lingua del Trecento attraverso manoscritti antichi in
modo da non compiere errori. Subito dopo pubblicò un libro, Osservazioni sulla lingua del Decameron di
Boccaccio in cui affronta il problema della lingua del Boccaccio. L’opera fu pubblicata, ma questa prima
revisione non sembrò perfetta, così intorno al 1583 fu proposta una simile operazione a Leonardo Salviati, a
cui il Granduca diede questo compito.

12-05-2021

Alla morte del Salviati l’Accademia della Crusca si trova col suo progetto tra le mani, pubblicando nel 1595 la
prima edizione della Divina Commedia fatta collazionando diversi manoscritti, comparando le varianti e
segnando i cambiamenti che fanno. Successivamente si mettono a lavorare sul vocabolario: il lavoro vero e
proprio inizia negli anni ’90, concludendolo nel 1610 e pubblicandolo a Venezia da Giovanni Alberti nel 1612.
Questo vocabolario è importante, ampio e ben fatto perché:
- è un vocabolario storico  si dà il lemma, poi la definizione, gli esempi delle Tre Corone e poi degli autori
minori; la maggior parte del lavoro è nella scelta degli esempi: sono all’incirca una ventina di persone che
collaborano alla sua composizione, lavorando a delle schede su cui riportano dei versi/prose di Dante,
Petrarca e Boccaccio, che poi segnano …

13-05-2021

TESTO SCRITTO DA INVIARE UNA SETT. PRIMA DELL’ESAME, CHE COMPRENDA: UNA RIFLESSIONE SUL
NOSTRO RAPPORTO CON LA LINGUA E LE LINGUE (ES. PARENTI DI REGIONI DIVERSE, ETA’ DIVERSE) E SU
COME CI ARRICCHIAMO LINGUISTICAMENTE (ES. LE COMPAGNIE CHE ABBIAMO, LE LINGUE CHE
APPRENDIAMO O CON CUI VENIAMO/SIAMO VENUTI IN CONTATTO)  PICCOLO TESTO DI IDENTITA’
LINGUISTICA! + SCRIVERE UNA DECINA DI PROVERBI CON ANNOTAZIONI PER SPIEGARE COSA SI INTENDE
(perché si dice che le nuove generazioni non usino più proverbi)

Vocabolario della Crusca  1612 prima edizione. Attorno alla questione della lingua, c’è sempre qualcosa
che va oltre, come la politica, la domanda su cosa sia la comunità e quale lingua debba condividere. Anche
nel caso del Vocabolario della Crusca, in particolare col Granducato mediceo, c’è stato il desiderio di
nobilitare il toscano cercandone le radici nell’etrusco e attraverso la realizzazione di grammatiche e
operazioni filologiche.

Anche i cruscanti, anch’essi animati da un’idea politica, evitano di mettere questo vocabolario sotto area
toscana, evitando di stamparlo a Firenze, ma a Venezia, e dedicandolo non a un componente della casa
regnante.

Questa situazione si riflette subito nelle polemiche che investono il nuovo vocabolario: proprio nel 1612,
anno della sua pubblicazione, esce a Padova l’Anti-Crusca di Paolo Beni, con cui polemizza la posizione dei
cruscanti di mettere al centro il fiorentino trecentesco, valorizzando invece la lingua di Roma (nella corte
papale arrivano intellettuali da tutto il mondo) e la lingua moderna (non “morta” come quella del ‘300) del
Tasso. Dopo questo libro, Beni aveva già pronto un altro volume (il primo trattava in generale la Crusca) che
prendesse di petto proprio il Vocabolario, volendolo dedicare a Cosimo II (percependo la tensione tra i
Medici e la Crusca); tuttavia, il Granduca rifiutò la dedica di Beni e anzi, fece in modo che non venisse
stampato (solo 30 anni fa è stato trovato un manoscritto in una biblio americana). Il Granduca si rese conto
che queste critiche al Vocabolario della Crusca non facevano bene non solo all’Accademia, ma nemmeno alla
Toscana, perciò ne impedisce la pubblicazione avviando una sorta di politica distensiva nei confronti
dell’Accademia che ci concretizzò solo negli anni ’60, quando il cardinale Leopoldo de’ Medici entra a far
parte dell’Accademia della Crusca  inizia ad essere protetta dall’egida medicea! Il cardinale Leopoldo fu un
uomo coltissimo, che si occupò in modo particolare delle raccolte e collezioni medicee (i Medici erano grandi
collezionisti di opere d’arte antiche) facendo redigere degli elenchi, interessandosi in particolare alle
terminologie delle singole arti o mestieri da cui erano fatti quei cimeli. L’ingresso nell’Accademia di Leopoldo
spalanca le porte alla terminologia tecnico-scientifica, anche se già prima di lui era entrato a farne parte
anche Galileo Galilei  il Seicento è anche il secolo, oltre che del Barocco, della scienza!

1691 terza edizione del vocabolario che accoglie non solo la lingua degli scienziati, ma anche esempi da
Tasso, autore criticato da Salviati e quindi bandito dalle prime edizioni.

 il Seicento è il secolo di tre edizioni del Vocabolario della Crusca, ma anche quello delle polemiche nei
suoi confronti: Tassoni per esempio, uno scrittore di Modena, autore di La secchia rapita, un poema
eroicomico, venne chiamato a far parte dell’Accademia. Tassoni creò delle postille al primo vocabolario della
Crusca in cui, nonostante fosse accademico, prende in giro molti lemmi.

14-05-2021

Porta, Belli e Giusti sono i nostri poeti romantici  il Porta scrive in dialetto milanese, il Belli in dialetto
romani e il Giusti in dialetto toscano. Per il romantico conta avvicinarsi all’anima del popolo e il dialetto è la
lingua del popolo; anche i proverbi sono manifestazione della cultura popolare! Nell’Ottocento nascono
tante raccolte di canti popolari, per esempio quella di Niccolò Tommaseo, che nel1840 pubblica a Venezia 4
volumi di Canti popolari dedicati alla Corsica, alla Toscana, all’Illiria (oggi la Serbia. Tommaseo era nato a
Sedenìco, una cittadina sull’Adriatico della Dalmazia; era praticamente serbo, ma nella sua famiglia si parlava
l’italiano, precisamente il veneziano) e alla Grecia (intorno al 1830 la Grecia lotta per l’indipendenza
dall’impero ottomano, una lotta a cui partecipano molti intellettuali a fianco di questo popolo oppresso,
come Lord Byron).

 Quella di Tommaseo è la prima raccolta di poesia popolare!

Nel mondo greco-latino si ha una grande quantità di proverbi; si parla di proverbi anche in un libro della
Bibbia.

Alla fine del 700 quando l’Acc. della Crusca viene sostituita da quella Fiorentina, una sostituzione che fu
vissuta male dai letterati italiani. Per esempio Alfieri, poco dopo la soppressione dell’Acc. della Crusca, ne
scrisse addirittura un sonetto “l’idioma gentile (la lingua italiana) ora giace afflitto e malsicuro senza più una
guida, privo di chi il più bel fior ne coglieva”. “Il più bel fior ne coglie” è il motto dell’Acc. della Crusca,
chiamata così perché originariamente la brigata dei giovani fiorentini che l’aveva fondata era una brigata di
crusconi=persone che si divertono a fare delle cose da niente (la “crusca” è il cibo per gli animali). Quando
nel 1583 entra nella Crusca Salviati mantenne il nome “Accademia”, ma non l’Accademia dei Crusconi, ma
un’Accademia di coloro che separavano la crusca dalla buona farina: come nella lavorazione del grano, da cui
si ricava la farina per fare il pane, così in quest’Acc. si purifica la lingua delle parti che “non sono buone” in
modo da avere la “farina migliore” che è stata setacciata per eliminare la “crusca”  quindi “crusca” era
l’azione di purificazione della lingua dalle scorie negative. Nel simbolo dell’Acc. infatti compaiono due cose:
da una parte il buratto, uno strumento per abburattare la farina, e dall’altra il setaccio + un cartiglio in alto
con un verso di Petrarca, “Il più bel fior ne coglie”. “Boreal scettro (=scettro nordico, i Lorena) spenge la
madre de l’idioma gentile (=Acc. della Crusca) e crea una matrigna che lo fa diventare un idioma illegittimo e
oscuro, mentre l’altra lo aveva già fatto ricco e chiaro. L’antica madre, è vero, era ingombra di inerzia
(=lavorava lentamente) e per molto tempo dimenticò la sua arte (=di occuparsi del vocabolario) ma per lei
(=Acc. della Crusca) stava l’ombra del suo antico nome. Oh Italia, a quali condizioni infami dimena chi
conduce il non essere completamente libera dai Goti/dai barbari”

Alfieri era nemico accanito dell’ “infranciosamento” della lingua, del fatto che la lingua fosse piena di
francesismi. In questo secolo la cultura francese era la cultura egemonica dell’Europa, il francese era la lingua
di conversazione, la più elegante, raffinata. È per questo che nascono sentimenti di contrasto verso questa
influenza straniera; Alfieri è sicuramente uno di essi, che scrisse questo sonetto nel’86, 3 anni dopo la
soppressione dell’Acc, quando Alfieri venne in Toscana proprio per liberarsi dal “francesume” che lo aveva
contaminato.

La situazione precipiterà poco dopo quando nel 1786 arriverà Napoleone, generale che riesce a risollevare le
sorti della nazione francese conquistando l’Italia, la Spagna, l’Egitto ecc. In Italia ci arriva già nell’ ’86, una
delle sue prime imprese; quando arrivano i francesi, molti termini erano già stati assorbiti (per esempio
burocrazia, dal francese bureaucratie)  Conquistando l’Italia, Napoleone annette l’Italia alla Francia!
Attraverso i Regni napoleonici, affidati per esempio a suo fratello Giuseppe il Regno delle Due Sicilie, in
Toscana sua sorella ecc., il comandante amministrava la penisola. Annette anche il Piemonte allo Stato
francese, considerato un’appendice della Francia. In effetti, in Piemonte il dialetto risentiva molto del
francese, anzi, addirittura in certe zone si parlava proprio dialetto francese; in più, tra le classi colte, la lingua
di conversazione non era l’italiano, ma il francese  il Piemonte viene annesso all’Imp. francese e viene
francesizzato, tanto che nelle scuole si inizia a insegnare il francese!

Un’altra regione annessa all’Imp. francese è la Toscana, perché Napoleone era originario della Toscana! Era
nato ad Ajaccio, in Corsica, ma la sua famiglia proveniva da San Miniato al Tedesco (PISA), emigrata poi in
Corsica. Quando era ancora bambino fu accompagnato dal padre qui in Toscana quando voleva iscriverlo al
Collegio militare per diventare ufficiale, per cui bisognava avere anche un piccolo titolo di nobiltà. Il padre lo
portò quindi a San Miniato per farsi fare un attestato che confermasse la nobiltà della sua famiglia, così che
potesse iscriversi al Collegio. Dopo la conquista, anche in Toscana la politica fu la stessa del Piemonte, ovvero
una progressiva francesizzazione: i doc. ufficiali in francese, gli impiegati dovevano parlare francese, i giornali
in francese, la scuola ecc.

Anche negli altri Regni napoleonici che non erano stati annessi all’Imp. ma governati da persone sotto il suo
controllo, l’influenza francese non mancò.

Molti accolsero Napoleone come un liberatore, colui che avrebbe permesso all’Italia di crescere. Oltre tutto
Nap. ricreò una specie di stato unitario: sotto Nap. L’Italia ritrovò una sorta di unità che non aveva più avuto
dal crollo dell’Imp. romano. Nel 1806 infatti Nap. promulgò il Codice delle leggi civili, valido per tutta la
penisola! Fino ad allora in Italia vigevano regimi giuridici diversi, addirittura in certe zone c’erano ancora i
regimi feudali. Anche della vita culturale, concentrò tutto nella città di Milano (per Nap. era la città più
importante, non certo Roma) + unificazione delle monete + unificazione del sistema stradale, della vita
amministrativa ecc.  Fu un periodo di grande fervore! Il pericolo però che gli intellettuali più avveduti
capirono è che questo dominio avrebbe portato a una posizione subordinata della lingua e lett. italiana,
nonostante il suo prestigio! Temevano il declino della lingua italiana!

Questo pericolo di minaccia della lingua italiana fu avvertito nel primi anni dell’Ottocento, a cui risalgono
molte testimonianze riguardo questo pericolo incombente. Si corse ai ripari nel modo sì più forte e radicale,
ma anche il più assurdo: si cerca di rivendicare il primato dell’italiano attraverso l’esaltazione della lingua
trecentesca così da dire che l’italiano è una lingua assai più nobile di quella francese perché già alle origini
aveva avuto un grande valore letterario e storico, a differenza di quella francese. Quindi la lingua attuale
doveva rifarsi a quella antica in modo da liberarsi da tutte le scorie della lingua francese  nasce il Purismo!
Una lingua, per avere una sua identità, deve liberarsi da ogni influenza esterna e rifarsi ai momenti più
gloriosi della sua tradizione che, nel caso dell’italiano, è sicuramente il secolo d’oro del Trecento! Bisogna
quindi ritirare fuori il Voc. della Crusca e arricchirlo con termini e espressioni di altri testi trecenteschi. Il
purista più sfegatato è Antonio Cesari di Verona, che scrive delle opere in difesa dell’italiano, che ripubblica il
Vocabolario della Crusca tra il 1806 e il 1811 (conosciuta come la Crusca veronese). Perché? Siamo in un
periodo in cui la Crusca è “morta”, cioè, trasformata in Accademia Fiorentina; non essendoci nessuno a Fi ad
occuparsi del Voc., fu lui a riprendere la quarta ed. del Voc., l’ultima edizione, e lo pubblicò con aggiunte da
altri testi trecenteschi.

Un altro purista sarà a Napoli, il marchese Marsilio Puoti, che si occupò di creare nella sua casa una scuola di
nobili napoletani per insegnare loro la buona lingua. Tuttavia il Puoti è meno radicale del Cesari, insegnando
non solo quella trecentesca, ma anche quella cinquecentesca; ha vedute più larghe del Cesari, ma è
comunque un purista! Tra i suoi allievi ha diversi personaggi famosi, come Francesco de Sanctis e Luigi
Settembrini, coinvolti poi nella Riv. napoletana.

Nel 1870 De Sanctis scrisse la Storia della letteratura italiana, negli anni dell’unificazione d’Italia.

Chiaramente questa risposta dei puristi è legittima ma anche assurda! È difficile proporre ad una nazione
nuova un ritorno a 8 secolo indietro! Addirittura gli stessi cruscanti avevano svalutato il vecchio vocabolario!

Napoleone, sentendo le “lamentele”, fa una cosa intelligente: nel 1808 rifonda l’Accademia della Crusca, non
l’Acc. Fiorentina, in modo da ridare dignità alla lingua italiana, addirittura ripotenziandola con nuovi
intellettuali, non con i vecchi cruscanti! In più, aggiunge agli accademici toscani una cerchia di accademici
non residenti dove nomina i letterati maggiori di tutte le regioni d’Italia. Vincenzo Monti, per esempio, viene
nominato accademico della Crusca. Questi accademici, spesso residenti, vengono pagati, diventano quindi
una specie di funzionari statali!

All’inizio il compito che viene affidato alla Crusca non era fare il Voc., che viene affidato ad un’Acc.
piemontese (?), ma difendere la purezza della lingua toscana attraverso un premio lett. annuale a opere
culturali scritte in una lingua di alto livello conformi alla nobiltà prevista dalla lingua toscana. quindi il primo
compito della Crusca è attribuire premi letterari, a seguire dovrà occuparsi del vocabolario.

19-05-2021

In qualche modo esistevano una lingua e letteratura comune anche prima, ma con l’arrivo del francesi
nell’800 si rischia di perderla  il pericolo di perdere la lingua, o comunque relegarla ad una funzione
subordinata, secondaria rispetto al francese, che sarebbe stata la vita della cultura, viene notato da diversi
intellettuali che cercano di contrapporre, all’invadenza del francese, una difesa dell’italiano:
- Puristi  un primo Purismo nasce proprio a Fi con Salviati: Salviati non è che difendesse il toscano
trecentesco dalle influenze straniere, anzi, prendono tranquillamente tante parole trecentesche provenienti
dal provenzale senza curarsene. Invece, il Purismo moderno va alla caccia di parole straniere. Il ‘700 è il
secolo della fortuna del francese, che in italiano viene combattuta da diversi letterati. Nell’800 questa
battaglia diventa ideologica, diventa una questione nazionale, non più solo di stile; si tratta di difendere
l’identità nazionale attraverso la lingua. Nasce la volontà di ribadire l’eccellenza dell’italiano tornando al
Trecento, in cui non c’erano influenze straniere  La lingua del Trecento era pura! Per difendere la lingua
italiano non c’è miglior modo che rifarsi alle origini.

Bisogna difendere l’italiano dall’influenza francese!

- Classicisti  tuttavia, contro il Purismo si scagliano le menti più raffinate di allora, i classicisti, persone che
conoscevano bene le lingue classiche, la tradizione letteraria italiana e delle altre lingue europee. La battaglia
dei puristi, per loro, aveva poco senso: se occorreva rivalutare l’italiano, bisognava farlo non basandosi sulle
anticaglie del Trecento che nessuno avrebbe più riutilizzarlo (i puristi ripescano dal vocabolario trecentesco
anche spropositi popolari, errori, o alle volte loro stessi leggono erroneamente i manoscritti antichi non
avendo conoscenze filologiche). I principali classicisti furono Pietro Giordani, Leopardi, Vincenzo Monti
(traduttore dell’Iliade), Foscolo e Pindemonte, persone che vogliono anch’essi salvaguardare l’italiano,
rilanciandone uno al passo coi tempi.
Per i classicisti conta non guardare al passato, ma presentare una lingua italiana moderna per l’Italiana a loro
contemporanea e per farlo non bisogna guardare al Trecento, ma attingere da ogni epoca, da ogni regione,
non solo da letterati, ma anche da scienziati, escludendo tutti i termini vecchi e ammuffiti che vanno buttati
fuori dal vocabolario. L’operazione è quella di selezionare un corpus di autori eccellenti e variare a loro lingua
in modo da eliminare tutti gli elementi vecchi e inutili che non servono a niente. Questa attenzione ce
l’hanno tutti i classicisti, come Leopardi, che scrive l’ Antologia della prosa e della poesia, elencando autori di
ogni secolo modelli di prosa e poesia. Nello Zibaldone è un continuo mettere in discussione il Vocabolario
della Crusca, mostrandone i limiti per le troppe espressioni arcaiche. Leopardi è il primo a parlare di
“europeismi”, per cui l’italiano deve aprirsi alle lingue europee, liberandosi dalla lingua del Trecento.

 Nell’Italia di inizio ‘800 si assiste a una lotta letteraria tra Puristi e Classicisti, già dal primo decennio
del secolo: nel 1806 esce una nuova ed. della Crusca che dura fino al 1811, ma già nel 1807
incominciano a uscire sulla rivista milanese “Il poligrafo” degli articoli anonimi che demoliscono
l’abate Cesari e la sua nuova ed. del vocabolario.

Questa battaglia non è solo una battaglia linguistica, ma anche politica. Intanto, il regime culturale del
regime napoleonico: Napoleone sapeva governare il suo impero e lo faceva anche attraverso gli intellettuali,
sostenendoli e controllandoli. Per Napoleone, il centro culturale dell’Italia è la Lombardia, Milano, la città più
progredita di Milano, centro della vita intellettuale italiana. Perché? Non solo per l’attività dei milanesi, ma
anche perché la città, prima dell’arrivo di Napoleone, era la capitale della parte italiana dell’Impero Austro-
ungarico.

? (Brera è una galleria che vuole rappresentare l’arte italiana in tutte le sue epoche scegliendo i quadri
migliori, i più rappresentativi che possono servire da modello. A Brera non solo viene fatta la Galleria di Brera,
ma viene anche istituita la scuola per gli artisti)

Napoleone, da un punto di vista linguistico, crea l’Istituto lombardo di Lettere, Scienze ed Arti, un istituto
superiore che raccoglie tutte le menti superiori di scienziati e artisti lombardi e non. A questo istituto
lombardo, tra i vari compiti affidatigli, ha il compito di redigere un Vocabolario moderno. Se la Crusca aveva
alle spalle un’ampia tradizione lessicografica, a Milano non c’era. I ministri, per rimediare, dotano l’Istituto
lombardo di alcuni manoscritti da Venezia di Bernantini, un lessicografo che aveva fatto due vocabolari di
aggiunta a quello della Crusca il secolo precedente e che stava lavorando ad un altro, quello che poi è stato
inviato all’Istituto lombardo. Un vocabolario moderno quindi, non più quello della Crusca, a cui partecipano
anche scienziati.

Nello stesso tempo Vicenzo Monti, che faceva parte anche lui dell’Istituto lombardo. È il Monti colui al quale
L’Istituto lombardo dà l’incarico di pensare a questo vocabolario. Solo che, da un momento all’altro, nel 1815
cade Napoleone, i ministri napoleonici che governavano Milano vengono scacciati e in città tornano gli
austriaci; tuttavia, l’idea di fare il vocabolario continua la sua strada, l’idea di realizzare un vocabolario
moderno contrario a quello della Crusca del Cesari.

A questo punto però, le cose cambiano qualche aspetto. In Lombardia tornano gli austriaci, in Toscana i
Lorena, parenti della casa regnante a Vienna. Nel frattempo in Toscana, come a Milano si era creata questa
grossa attività culturale con al centro l’Istituto lombardo, i letterati toscani cominciano a lamentarsi perché si
sentono in qualche modo esclusi dalla centralità culturale milanese. Specialmente certi intellettuali dell’Uni di
Pisa, come Rosini, si attivano presso il governo napoleonico della Toscana per cercare di ottenere qualcosa
che potesse rivendicare le vecchie glorie di culla letteraria (la Toscana non vuole essere marginalizzata in
questo nuovo disegno culturale). Napoleone capisce di dover accontentare anche loro, così che nel 1808 e
poi nel 1811 rifonda l’Accademia della Crusca, permettendole anche di riprende il lavoro filologico e letterari.
Anche Vincenzo Monti, già facente parte dell’Istituto lombardo, diventa corrispondente della Crusca
(perché?).

Dopo la caduta di Napoleone le cose dovevano aggiustarsi: a Milano c’è il ponte la realizzazione del nuovo e
moderno vocabolario, a Fi l’Accademia ha il compito di riprendere l’attività del vocabolario. L’Accademia
dell’Istituto lombardo viene così invitata ad accordarsi con l’Accademia della Crusca nel 1816! La Crusca,
ovviamente, risponde di no!

20-05-2021

Tra il 1817 e il 1827 escono dei tomi di Vincenzo Monti che si pongono come anti-vocabolario della Crusca,
di critica al metodo e alla teoria della Crusca, basati su una lingua moderna. Nella proposta in questi 8/9 tomi
non compare solo la parte di critica parola per parola al vocabolario cruscano, ma sono inseriti anche
interventi diversi, come commenti dei collaboratori del Monti (per es. studiosi di lingue che indicano le loro
personali correzioni da apportare). Tra questi compaiono due trattati di Giulio Perticari, genero di Monti, due
opere teoriche che vogliono dimostrare come in fondo Dante, nel DVE abbia indicato chiaramente come
stavano le cose nell’italiano antico, come non ci si possa basare sul toscano/fiorentino antico perché, come
diceva Dante, era una parlata municipale, mentre è dalla lingua siciliana comune a tutta la penisola che si
diffonde il toscano. Chi vuole davvero seguire la linea letteraria italiana non deve seguire il toscano, ma
questa lingua comune, cardinale-aulica-curiale (cit. Dante). Su questa teoria di Perticari si fondano i
Classicisti: propongono di tagliare i ponti con questa tradizione toscana arcaica e, oltre tutto, ridicola,
proponendo una nuova linea moderna che percorre tutto l’Ottocento.

Questa linea moderna la troveremo in una serie di autori lombardi, che cavalcheranno l’onda nata da
Vincenzo Monti. I principali promotori sono:
- Giovanni Gherardini, che seguendo queste idee di Monti pubblica intorno alla metà dell’ ‘800 una serie di
opere lessicografiche di integrazione ai vocabolari. La sua proposta è una proposta di razionalizzazione e
modernizzazione per fronteggiare la polimorfia (=parole che possono essere pronunciate in tante varianti, es.
dOmani/dEmani): propone di rifarsi ad una grafia etimologica, cioè tra le tante forme che ci sono quella più
giusta è quella che si avvicina all’etimologia latina. Per esempio, in caso di varianti di scempie o doppie
suggerisce di rifarsi alla lingua classica (imago> IMMAGINE/IMAGINE> iMagine corretto!)  Carducci e
D’Annunzio, per esempio, seguono questa strada!
- Carlo Cattaneo, fondatore de “Il Politecnico” di Milano, che si occupava di vari argomenti, propone una
riforma ortografica, ovvero segnare dove cade l’accento + propone l’abolizione dei dialetti per giungere
definitivamente ad una lingua nazionale.
- Carlo Tenca, un giornalista e fondatore del “Crepuscolo”. In questa rivista sono moltissimi gli articoli sui
vocabolari e Tenca è fautore della teoria di Perticari.
- Isaia Ascoli, l’inventore della parola “glottologia” e altre parole tecniche della linguistica. Ascoli in realtà non
era lombardo, era di origine ebraica (i cognomi con nomi di città erano tipici delle famiglie ebraiche) di
Gorizia, una città di confine. Ascoli usa il termine glottologia prendendolo da un termine tedesco con cui si
indicava lo studio delle lingue, riproponendolo in italiano dal greco. Ascoli si occupa anche di discussioni
sulla lingua italiana polemizzando le teorie dei toscanisti, in particolare l’ultima teorizzazione di Manzoni, che
nel 1868 scrisse una relazione la Ministro dell’Istruzione dove affermava che la lingua che doveva essere
insegnata, la lingua nazionale, doveva essere il fiorentino parlato.

 Questa linea sarà la vincente, perché la lingua viene fuori dal continuo linguistico della nazione, non
di una singola regione. È assurdo voler indicare il modello linguistico di una regione o città, perché
come si fa ad impossessarsi della lingua di un luogo rendendola nazionale?
Perché si continua a polemizzare anche dopo la Restaurazione, dopo che Napoleone non c’è più? Perché tra
gli intellettuali italiani si riflette per una Restaurazione nazionale, perché dopo la caduta di Napoleone
tornano nella penisola i vecchi dominanti, tornando alla frammentazione precedente  passo indietro! Molti
iniziano a pensare di impegnarsi per creare una nazione unitaria. Siamo nell’epoca del nazionalismo e per
creare una nazione unificata bisogna individuare una lingua identificativa comune. Discutere della lingua
quindi diventa come discutere dell’unificazione nazionale!

Tutti iniziano a discutere di lingua: i puristi, i classicisti e i romantici. In particolar modo i romantici ne
discutono nella loro rivista “Il Conciliatore”, sostenendo che la lingua nazionale debba essere la lingua del
popolo e il popolo parla i dialetti. L’attenzione dei romantici quindi li porta ad avere a cuore i dialetti,
ricercando le espressioni della cultura popolare, quindi canti popolari, proverbi, filastrocche ecc. In questo
periodo in Italia escono infatti i migliori vocabolari dialettali; il più famoso di tutti è quello del Cherubini, un
voc. Milanese del 1814 (ed. I), usato da Manzoni per i Promessi Sposi! Manzoni era milanese, quindi
conosceva il suo dialetto, conosceva l’italiano letterario e conosceva il francese, ma la lingua a cui vuole
avvicinarsi per il suo romanzo è la lingua fiorentina viva. Come ci arriva al fiorentino? Attraverso i vocabolari,
leggendo autori toscani che si avvicinavano alla lingua viva come gli autori di commedie e di novelle; tra
questi voc. utilizza la Crusca Veronese del Cesari, che però gli serve poco, cioè come libro di appunti su cui
appunta sui margini gli esempi che ha trovato in vari testi (si vergognava di mostrare questo voc. Perché era
impresentabile per la quantità di annotazioni), e il voc. del Cherubini, che traduce le parole in toscano. È così
che arriva alla prima ed. dei PS, della quale però non è soddisfatto, così viene a Fi per la cosiddetta
“risciacquatura in Arno” per poi pubblicare la seconda ed. La cosa interessante è che quando viene a Fi lascia
una copia del voc. milanese del Cherubini affinché gli amici sostituiscano le voci letterarie usate dal Cherubini
con termini dell’uso vivo. Questa copia poi torna a Milano e di queste correzioni Manzoni se ne serve per la
Quarantana.

 All’inizio dell’Ottocento quindi questa corrente romantica rivaluta i dialetti!

I poeti romantici italiani sono il Porta, il Belli, il Giusti.

I romantici non ebbero grande fortuna, furono presto soppressi, assieme alla loro rivista “Il Conciliatore”,
dalla censura austriaca.

Secondo Manzoni bisogna prendere uno di questi dialetti e diffonderlo affinchè diventi la lingua della
nazione e lo fa progressivamente attraverso le edizioni del suo romanzo fino al 1868 quando il Ministro
dell’Istruzione Broglio decise di applicare le idee di Manzoni, creando una Commissione ministeriale per
l’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla  Manzoni ne è il presidente, Manzoni che non si era mai
espresso pubblicamente a proposito delle questioni linguistiche! Manzoni si lamenta delle condizioni
linguistiche degli italiani solo in alcune epistole con Fauriel + nelle prefazioni, che restano inedite, al Fermo e
Lucia (nella pref. dei PS invece non dice niente!)

Le idee linguistiche di Manzoni vengono pubblicate solo nel 1850 nel fascicolo delle Opere varie e appaiono
in una lettera al Carena. Giacinto Carena nel ’46 aveva pubblicato un dizionario domestico, cioè un voc. fatto
non in ordine alfabetico, ma per concetti, in cui aveva raccolto tutte le parole dell’ambiente domestico
(vestiti, utensili da cucina ecc.) affinché fossero descritte. Perché? Perché in Italia non c’era difficoltà a
comprendere il lessico colto, c’era più difficoltà a comprendere il lessico minore dei vari ambiti (per es. il
lessico agricolo differiva da regione a regione – anche oggi è così)  ciò che stava a cuore a intellettuali
come lui era unificare il lessico quotidiano! Una strada era quella di usare strumenti che non fossero dizionari
alfabetici, fatti per chi già conosce le parole in italiano, ma dizionari in ordine concettuale per coloro che non
sapevano le parole in italiano! Il Carena aveva girato la Toscana per raccogliere direttamente le terminologie
sul campo così che tutti potessero sapere come si dicevano le parole in toscano.
Visto che anche Manzoni si era avvicinato al toscano con i PS, il Carena gli invia il voc. per una recensione, ma
Manzoni osserva che, avendo raccolto i vocaboli da più parti della Toscana, le parole cambiavano anche
all’interno della stessa regione senza avere un’espressione univoca (per es. torsello o guancialino per gli
spilli). Per Manzoni, in assenza di questa unicità, il parlante non sa più che termine usare; per lui una lingua è
precisa se è univoca! Secondo Manzoni andava presa la lingua di Fi perché a Fi c’è questa unicità! Il Carena
ribatte dicendo che se si fosse dedicato solo ai termini della città ne avrebbe esclusi alcuni, per esempio
quelli della marineria o di certi lavori agricoli per cui era fondamentale allontanarsi da Firenze.

21-05-2021

Manzoni ha un’idea personale della lingua, e la manifesta attraverso la pubblicazione nel 1827 e nel 1842 dei
Promessi Sposi. Il libro Manzoni lo inizia a scrivere nel 1821, con un primo abbozzo dal titolo Fermo e Lucia,
per poi decidere di fermarsi e riscriverlo in una nuova forma. Il romanzo storico è ambientato nella
Lombardia del 1630, quando la peste invade Milano provocando migliaia di morti, dove Manzoni introduce
l’invenzione della storia di due giovani innamorati che non riescono a sposarsi. Si pone il problema sul
rapporto tra veridicità storica e invenzione ma, soprattutto, sulla lingua. fino al 1821 Manzoni di problemi
linguistici non ne aveva mai trattato.

Manzoni nasce nel 1785, pochi anni prima della Riv. francese, ed ha una decina d’anni quando nel 1796
Milano viene presa da Napoleone e diventa parte del regno cisalpino. Quando Manzoni ha vent’anni, nel
1905, deve andare improvvisamente a Parigi perché la madre, Giulia Beccaria (figlia di Cesare Beccaria,
autore di Dei delitti e delle pene. Innamorata e rimasta incinta di uno dei fratelli Verri, relazione da cui nasce
Alessandro), che non aveva più visto dalla prima infanzia, resta vedova di Carlo Imbonati. A Parigi Manzoni
entra nell’ambiente colto degli intellettuali che frequentavano l’Imbonati e sua madre; in questo contesto
matura anche la sua vocazione letteraria. Manzoni è autore di opere importanti e sta sempre molto attento a
ciò che pubblica. I problemi linguistici iniziano quando inizia a scrivere i PS. Nel 1805 scrisse un carme
importante, In morte di Carlo Imbonati, un’opera importante che ha anche l’onore di essere ricordata in una
nota di Foscolo dei Sepolcri (1807). A Parigi la madre gli trova moglie, Enrichetta Blondel; nel 1808 si sposa e
nasce la sua prima figlia.; tra il 1808 e il 1809 regolarizza la sua fede… diventa un buon cattolico!  Manzoni
smette quindi di scrivere le poesie giovanili con echi pariniani e alfieriani, anzi, scrive un’opera apologetica
della religione cristiana, Osservazioni sulla morale cattolica, che comunque lascia incompiuta perché nel 1821
iniziano i primi moti rivoluzionari. Carlo Alberto, approfittando di questi modi, si accinge a conquistare la
Lombardia, ma alla fine non riesce ad assecondare quest’ondata rivoluzionaria. Nonostante ciò, molti
intellettuali prendono coscienza della possibilità di ottenere l’indipendenza, superare i confini per creare
un’unica Nazione italiana. Ovviamente era necessario puntare anche alla creazione di una cultura nazionale,
una cultura retta da una lingua comune e condivisa che superasse le differenze locali.

Nel 1821 in Italia nascono i primi moti rivoluzionari, si capisce che c’è una forza pronta ad arrivare
all’indipendenza nazionale superando le barriere e i confini. Per creare questa nazione italiana non bastano
solo le armi e le iniziative politiche, ma anche creare un’identità nazionale attraverso una lingua (non che
prima non ci s’intendesse, esisteva già un gergo comune per quanto vario e differenziato). Manzoni decide di
scrivere un romanzo (non è un caso: il romanzo nei primi decenni dell’ ‘800 era il genere letterario “di moda”,
quello che aveva un gran pubblico) per arrivare a tutti, adotta uno strumento di ampia comunicabilità per
trasmettere non solo la lingua, ma anche i contenuti. Con questo romanzo vuole ripercorrere la storia di
un’epoca, trovando uno strumento adatto sia alla storia e, allo stesso tempo, capace di dare un tono di
veridicità alla storia raccontata e morale civile (per es. attraverso il tema della giustizia; i PS dovevano essere
accompagnati dall’appendice Storia della colonna infame)  insegnare ad essere italiani attraverso una
lingua capace di arrivare a tutti, un’unità linguistica specchio dell’unità politica!

Il problema della lingua fino ad allora non se l’era posto perché per scrivere poesia non c’era bisogno di
interrogarsi, esisteva già un sistema codificato con un vocabolario e espressioni fisse (es. aire invece di aria;
torre invece di togliere; nui invece che noi). Chi scriveva poesia bastava che dominasse questo linguaggio,
questo almeno fino a Pascoli. Invece per scrivere un romanzo che sia comprensibile a tutti ha iniziato a porsi
il problema della lingua. nel 1821, proprio mentre sta scrivendo il Fermo e Lucia, scrisse una lettera a Fauriel
esprimendogli la sua intenzione di realizzare in questo romando un linguaggio più duttile e moderno, più
familiare e colloquiale proprio basandosi su “ciò che di vivo sopravviveva nella lingua letteraria”. Per
raggiungere questa consapevolezza linguistica doveva partire proprio dal suo dialetto!

In questo romanzo vuole ricomporre la realtà storica di un’epoca. Deve trovare uno strumento adatto sia alla
narrazione storica (infatti lui scrive un romanzo storico) sia capace di darle un tono di veridicità. Ciò che lui fa
per conciliare queste due esigenze è raccontare la Storia (l’Italia sotto il dominio spagnolo, la peste)
attraverso la storia di personaggi comuni. Finito il Fermo e Lucia si rende subito conto di aver adoprato
qualcosa che non va: vuole un italiano basato sull’uso vivo, non sulla lingua letteraria, utilizzando i vocabolari
come quello della Crusca e del Cherubini. Il Cherubini è il vocabolario milanese italiano che gli serve quando
un termine gli viene nel suo dialetto, per trovare il corrispettivo italiano; il voc. della Crusca per vedere se va
bene. Allora Manzoni lavora cercando di ricavare da testi di commedie e novelle toscane esempi e modi di
dire della spontaneità della lingua comune, registrano anche le irregolarità grammaticali della lingua parlata.
Tuttavia si rende conto che questo lavoro sia impossibile farlo “artificialmente”.

Nella seconda introduzione, quella che aveva preparato per la nuova versione dei PS, scrive che la lingua
materna, il dialetto, influisce nello scrittore. Tuttavia, non può troncare questo rapporto, non è nemmeno
detto che facendolo si ottengano libri buoni. Qualsiasi scrittore si riconosce perché fa sentire il carattere del
dialetto originario nei suoi scritti; quelli che lo mascherano meglio sono o quelli che hanno studiato bene il
toscano o quelli che occupandosi di materie generali, come l’arte o la storia, hanno imparato una lingua
“europea”.

Manzoni dice che la lingua naturale che possiede è il milanese, ma ci potrebbe essere un’altra lingua che
potrebbe avere la funzione di lingua comune della nazione: il toscano. Tuttavia, pone una questione che
allora era spesso discussa dai classicisti, cioè il fatto che si imputava al toscano contemporaneo di essere una
lingua di un territorio arretrato. Fino al ‘500 la Toscana era stata una regione all’avanguardia, ma dagli inizi
dell’800 la cultura toscana stava vivendo una decadenza; i veri progressi invece si stavano vedendo in
Lombardia, sia sociali che culturali. Milano era davvero una città d’avanguardia e aperta all’Europa,
diversamente dalla Toscana  toscano lingua di una realtà arretrata!

Si accorge che la lingua che ha utilizzato è ancora un “composto indigesto”. C’è bisogno di una lingua vera,
reale. In Italia ci sono queste lingue e sono i dialetti, ma non rappresentano la lingua italiana, comune,
condivisa da tutti. Fino ad allora era stato il toscano, ma sarà ancora adatto? Su questa problematica si
chiude l’introduzione del Fermo e Lucia. Nel passaggio dal FL ai PS del ’27 la soluzione adottata lo soddisfa
parzialmente; i passi avanti che compie per adeguarsi al toscano dell’uso portano ad un romanzo con una
lingua più orientata verso il toscano dell’uso. Solo dopo la pubblicazione della Ventisettana, quando viene in
Toscana a Firenze a contatto con gli amici fiorentini, portando con sé il voc. della Crusca e il Cherubini, avvia
quel lavoro di revisione del testo, di raffinamento, di correzione della prima ed. fino alla Quarantana, limata in
tutti gli aspetti linguistici (mentre dal FL alla Ventisettana cambia anche la struttura, dalla Ventisettana alla
Quarantana la struttura non cambia)  adeguamento al fiorentino dell’uso vivo!

I dialetti sono le uniche lingue vere che ci sono in Italia, che si parlano e scrivono naturalmente; l’unico
problema è che sono tanti. Come si fa quindi ad avere una lingua unica? Non si può prendere la lingua
letteraria perché la lingua lett. è una lingua morta, ci vuole una lingua che sia come il dialetto, che si usi
naturalmente. Per avere questa lingua naturale vera e viva Manzoni vede come unica soluzione quella di
prendere uno dei tanti dialetti italiani e renderlo comune a tutti. Per Manzoni per compiere questa
operazione potremmo scegliere qualsiasi dialetto, ma dovendo fare questa scelta conviene optare per quel
dialetto sul quale ormai c’è una convergenza abbastanza generale, ovvero il fiorentino. Manzoni, nella pref.
del FL parla proprio del toscano, escludendo il fiorentino, ma nello sviluppo delle sue idee arriva a restringere
il suo interesse solo sul fiorentino. Perché? Capisce che anche in Toscana ci sono più dialetti, un dialetto per
città che differisce dall’altro per qualche particolarità. Quindi non si può prendere il toscano come modello,
poiché anch’esso è un miscuglio di dialetti. Anche in Toscana dovremmo sceglierne uno!

I modelli che Manzoni ha davanti sono quello dell’antica Roma e quello della Francia, due modelli che
dimostrano come la lingua di un luogo diventi la lingua comune.

Queste idee Manzoni le espone per la prima volta nella lettera al Carena nel 1850. Nel 1868 le cose
cambiano: il Ministro nomina Manzoni presidente, che si mette subito a scrivere una relazione per il Ministro
in cui espone la sua teoria per diffondere il fiorentino dappertutto. Per divulgare il fiorentino è opportuno
fare un vocabolario del fiorentino contemporaneo, lasciando fuori tutti gli esempi letterari; promuovendo gli
scambi di maestri e studenti in toscana ecc.

Come mai Manzoni si decide solo ora a dire le sue idee? Manzoni era già anziano, aveva 83 anni! Ma quando
il Ministro lo chiama interviene subito perché capisce che è il momento adatto: siamo negli anni in cui Fi era
capitale d’Italia dal ’65 (prima Torino dal ’60, ma era “periferica”)

26-05-2021

L’esame è in forma orale e in via telematica nell’appello estivo, forse dal vivo in autunno. Si baserà su:
- storia della lingua (Convivio e DVE di Dante + la Fi quattrocentesca con L. B. Alberti, il Magnifico, Bruni-
Biondo Flavio ecc. + il Cinquecento con la nascita della stampa e le questioni sulla lingua + seconda metà del
‘500 a Fi, in cui si cerca di sostenere il fiorentino rifacendosi al fiorentino trecentesco e, in parte, al fiorentino
contemporaneo + ‘700, quando la posizione egemonica della Crusca e del fiorentino del ‘300 viene messa in
discussione + Puristi e Classicisti + Vincenzo Monti + ‘800: varie posizioni che si contrappongono, in
particolare le idee linguistiche di Manzoni);
- grammatica storica (ambiti diversi di trasmissione del lessico italiano, dal latino colto o popolare ecc.) .

 Dopo l’Unità d’Italia la storia dell’italiano prende un’altra direzione perché nella penisola, finalmente unita,
si costruisce la tanto attesa lingua comune!

DOMANDE

Per Dante il latino è una lingua artificiale creata dalle persone colte che è sempre stata a stessa dall’antichità
fino ai tempi moderni: per lui da Cicerone a Dante (in epoca sua si conoscevano solo certi scrittori latini, non
tutti) …

Nel DVE c’è un capovolgimento di prospettiva della valutazione de l latino e svalutazione del volgare che c’è
ne Convivio. I giudizi sul latino e il volgare di Dante si adattano un po’ alle considerazioni a cui lo portano i
suoi ragionamenti.

Differenza semivocali-semiconsonanti  non tutti tracciano la differenza. I veri fonemi sono le


semiconsonanti: sono dei suoni intermedi ma molto vicini alle consonanti, pronunciate con il canale orale
molto stretto (le vocali sono pronunciate col canale orale più aperto): es. IEri, UOvo > è quasi un suono
consonantico, tanto che spesso questi suono evolvono spesso in consonanti come IOco > GIOcare. Le
semiconsonanti si trovano sempre nei dittonghi ascendenti.
Le semivocali invece sono dei suoni più vicini alle vocali e NON sono fonemi, sono varianti di vocali e si
trovano dei dittonghi discendenti. Per es. AUto, zAIno > la U e la I sono più chiuse, non sono piene, ma sono
semplicemente varianti vocaliche, non fonemi!

Differenza modi di dire-proverbi  non è facile definire il confine, spesso sono mescolati. Si somigliano
molto perché sono entrambe strutture composte da più elementi lessicali con una certa stabilità, non si
possono modificare più di tanto + hanno entrambi un significato idiomatico, metaforico. Le differenze:
- il modo di dire, anche se fatto di più parole, corrisponde ad un’unica parola: es. “grilli per la testa”= idee
stravaganti;
- il proverbio è come una frase a sé stante, che si può inserire in un discorso ma è come se fosse tra
parentesi: es. “ambasciator non porta pena”, “morto un papa se ne fa un altro”

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