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Appunti di Antonia Stoppa

Letteratura italiana moderna e contemporanea


Carla Chiummo
Anno Accademico 2020 – 2021
Lezione 1 – 10 marzo ’21
Iniziamo ad introdurre il discorso sul 900.
Questione numero uno: la periodizzazione.
Noi sappiamo che stabilire la periodizzazione non è una cosa così scontata. Vedremo come anche solo parlando della poesia la questione della
periodizzazione è una questione delicata. Quando effettivamente possiamo far cominciare il 900, poetico e non poetico (narrativo, teatrale
ecc..)? Se sulla fine del 900 il dibattito è ancora apertissimo - per molti il 900 ancora non si è concluso, per altri invece si è concluso nel momento
in cui si è concluso il 900 delle grandi ideologie con la caduta del muro di Berlino alla fine degli anni 80; sulla questione di quando fare iniziare
questo 900, diciamo che dopo un secolo possiamo fare ipotesi più fondate e più concrete e da qui partiremo.

Questione numero due: il canone letterario del 900


Quali sono gli autori, a secolo concluso, che possiamo considerare canonici? Nel campo della poesia, su alcuni i dubbi non esistono (Montale,
Ungaretti e Saba) su altri autori (come Quasimodo) la questione è aperta: nessuno fino a qualche anno fa, poteva pensare di escludere dal
canone poetico Quasimodo, adesso la cosa è più incerta. Rimarrà ancora un elemento fondante del 900 un autore come Quasimodo? Nel campo
della narrativa possiamo fare due esempi altrettanto banali e clamorosi: Camilleri, rimarrà nel canone letterario del 900 o uscirà? Moravia?
Imprescindibile assolutamente nel canone del 900, negli ultimi decenni è stato marginalizzato. Così diversi altri autori. Questo perché l’idea di
canone letterario è un parametro critico molto importante perché ogni studioso e critico deve poter stabilire quali sono gli autori imprescindibili
di quella data poetica o di quel dato periodo letterario ma sappiamo che il canone letterario cambia, non esiste un canone assolutamente
assoluto. Ormai siamo fuori da qualsiasi parametro classicistico e a 900 concluso non ci sono modelli metaletterari eterni e quindi il canone del
900 ancora oggi appare mobile.

Periodizzazione del 900 e canone del 900: sono gli elementi su cui oggi proviamo a riflettere iniziando ad introdurre il discorso, in parallelo al
momento, sia nell’ambito narrativo che poetico.

Problema numero uno: PERIODIZZAZIONE  quando facciamo iniziare il 900? Come il canone, anche la periodizzazione viene letta in modo
diverso ed è mutevole a seconda del punto vista di chi studia e giudica ovviamente in base a dei criteri dichiarati. Per esempio, sulla questione
della poesia, a lungo, cioè già a partire dagli anni 60/70, ci si chiedeva se i poeti di fine secolo – quelli che Sanguineti chiama i poeti fien de secle
nella sua famosa antologia del 900 pubblicata da Einaudi – come D’Annunzio e Pascoli fosse giusto inserirli nel discorso novecentesco, come
coloro che aprono il 900 o no? il discorso è ancora molto mobile. Dal punto di vista critico Pascoli e d’Annunzio possiamo inserirli o nell’800 (e la
prof considera questo punto di vista assurdo), o porli a cavallo tra 800 e 900 (quindi a chiusura dell’800 e ad apertura del 900 - fien de siecle: con
questa espressione indichiamo proprio questo arco temporale) oppure li prendiamo come coloro che hanno aperto il 900. Questo discorso è un
discorso critico tutt’altro che fine a sè stesso perché implica una riflessione su che cos’è il 900 e su cosa sono questi scrittori.
Meno dubbi abbiamo sulla narrativa: ci sono autori che possono essere ancora collocati a cavallo tra fine 800 e primo 900 ma in realtà Svevo e
Pirandello vengono posti in apertura del 900. La questione è meno spinosa rispetto alla poesia.

Mengaldo non mette d’Annunzio e Pascoli nella sua antologia e quindi la sua posizione è chiara: per lui hanno chiuso l’800: nonostante questo
però i due autori hanno creato una koinè linguistico- stilistica che sarà fondamentale per i poeti del 900.
Koinè: linguaggio comune, degli stilemi ma anche proprio delle voci linguistiche e tematiche che sono centrali nelle poesie
di Pascoli e d’Annunzio e che però possiamo considerare importantissimi metri di paragone per coloro che sono il ”nuovo”.

Per trovare un punto comune, per parlare di una koinè che possiamo condividere, possiamo dire che il 1903 è un anno di svolta nella poesia:

 tra il 1903 e il 1904 escono:


 i canti di Castelvecchio di Pascoli 1903
 l’ Alcyone di d’Annunzio 1903
 le prime poesie e raccolte di due autori: Gogoni e Corazzini
 le poesie di Palazzeschi nel 1905.
Effettivamente possiamo prendere come data simbolica il 1903 per la poesia, dovendo citare anche Pascoli e D’Annunzio, così come possiamo
prendere il 1904 come data di svolta per il romanzo con il Fu mattia pascal, rivoluzione narrativa. Effettivamente possiamo partire dai primi
anni del 900. Tutto tranquillo? Tutto sereno? Non proprio.

1903 anno di svolta nella poesia


1904 anno di svolta nel romanzo
Un’etichetta molto importante è l’etichetta di Modernismo, usata per decenni dalla critica anglosassone, etichetta che applichiamo facilmente
anche alla narrativa italiana di primo 900 ma con alcune differenze: quest’etichetta l’applichiamo con più difficoltà ed eccezioni al discorso
poetico. Perché? Con il modernismo, facendo riferimento alle riflessioni critiche di un grandissimo poeta e critico anglo americano Eliot, autore
della terra desolata, abbiamo un’idea di cosa possa essere la poetica del modernismo del primo 900, valida ma con molte differenze in Italia
anche per la poesia. Il modernismo è una poetica di un nuovo parametro di costruzione di una letteratura moderna, che parla di qualcosa di
assolutamente nuovo, soprattutto a livello tematico, ma dovendo pur richiamare una sorta di nostalgia per un mondo e una letteratura che non
può più essere applicata ad un momento di crisi epocale come quello del 900. Dopo la grande tragedia della I guerra mondiale nulla è più come
prima. I parametri realistici, classicistici non possono più essere richiamati e utilizzati dagli scrittori del primo 900.
Modernismo vuol dire crisi dell’idea di letteratura e cultura. A questa crisi ognuno risponde in modo diverso, alcuni in maniera apocalittica, altri
ricostruendo una tradizione che guarda anche al passato. È una crisi epocale, che riguarda non solo la letteratura e lo scrittore ma la cultura,
l’idea di uomo è andata in pezzi con tutte le certezze che sono andate in frantumi a fine 800: l’idea di progresso, di scienza, l’idea di unità
dell’uomo, l’antropocentrismo. Lo stesso uomo scopre di non essere più un io compatto: esplode l’indagine psicanalitica che già a fine 800 è
apparsa, prima di Freud.
L’idea di scissione, frammentazione, rottura, crisi epocale sono i parametri di quella che viene definita cultura/letteratura del modernismo che si
spalanca come una voragine nel primo 900 e sarà acuita dalla crisi epocale portata dalla I guerra mondiale.
Molto spesso ci riferiamo al 900 come “il secolo breve” (definizione dello storico Hobsbawm): il 900 inizia da ciò che viene fuori dalle macerie
della I guerra mondiale e si conclude con la caduta del muro. Per questo viene chiamato secolo breve, un secolo che abbraccia più o meno una
settantina d’anni. Altri hanno un’idea diversa di storiografia e quindi di discorso novecentesco.

Abbiamo visto che la svolta nella poesia si avrà nel 1903, nel romanzo nel 1904 ma abbiamo il piccolo particolare della I guerra mondiale: quello
che verrà fuori a livello letterario e culturale, dagli anni 20 in poi avrà delle direttive particolari, per cui anche a livello letterario ci sarà uno
spartiacque con la I guerra mondiale.

LA POESIA
Il 1903 è importante a proposito di periodizzazione e modernismo perchè nello stesso torno di anni abbiamo insieme tutti questi autori e opere
importanti: canti di Castelvecchio, Alcyone, Maya, le prime raccolte di poesie di Gogoni, Corazzini e Palazzeschi. Però nel discorso poetico
italiano c’è una differenziazione da fare rispetto al discorso modernista in senso ampio di Eliot. Perché quelle che abbiamo chiamato le
avanguardie storiche del primo 900 (parliamo di poesia) quelle che vengono identificate con crepuscolarismo, futurismo o vocianesimo,
espressionismo, creano una frattura evidente rispetto a Pascoli e d’Annunzio e quindi già le prime opere in ambito crepuscolare (il primo
Gogoni, il primo Palazzeschi e Corazzini che muore giovanissimo) creano una frattura e una risposta nuova alla poetica simbolistica di Pascoli e
d’Annunzio.
Per Pascoli e d’Annunzio non usiamo l’etichetta di Decadentismo ma usiamo quella o di poeti di fien de siecle o quella di simbolismo. Nei canti
di Castelvecchio abbiamo ad esempio il Gelsomino notturno che è la quint’essenza del simbolismo Pascoliano; In Alcyone anche troviamo il
simbolismo ma soprattutto il panismo sessuale che può essere l’altra faccia della sera fiesolana, della lauda francescana. Tutta questa roba nutre
tutti i poeti che aprono il discorso del 900 - crepuscolari, futuristi ed espressionisti - ma la loro risposta non è in semplice continuità ma una
forma di controffensiva rispetto a questa tradizione ancora vivissima. Sono in vita ancora d’Annunzio e Pascoli e continuano a scrivere. In
contemporanea all’attività esplosiva di questi poeti, i nuovi poeti del 900 rompono gli argini del simbolismo e della poetica di D’Annunzio e
Pascoli.

Ricordiamo la poetica del fanciullino di Pascoli dove c’è un’idea della poesia e del poeta ancora in continuità con la tradizione secolare. Si crede
nel valore sacro e salvifico del poeta e della poesia. Così con il Vate d’Annunzio, colui che dice la parola sacra alla patria: fino al 900 d’Annunzio
amplifica questo elemento patriottico e nazionalistico e militaresco anche attraverso l’impresa di Fiume durante la I guerra mondiale. È una
visione ancora fortemente solida del valore e della figura della poesia e del poeta.

La frattura enorme delle avanguardie, il punto centrale di rottura non è tanto nella lingua e nello stile (perché gli autori del 900 partono dalla
koinè di Pascoli e d’ Annunzio) ma è una rottura che avviene ai livelli di poetica e di riflessione sulla letteratura (e sulla poesia). Corazzini
richiama si il fanciullino di Pascoli ma in questo caso il poeta piange e versa lacrime di dolore inconsolabili e la parola silenzio è tanto importante
quanto la parola sonora, il silenzio dice più della parola del poeta che era sacra per Pascoli e d’Annunzio. Espressionisti e futuristi butteranno
all’aria quest’idea sacra del poeta e della poesia che è ancora viva in Pascoli e in d’Annunzio. La rottura sarà anche su altri fronti formali: genere,
con mescolanza di prosa, poesia, verso libero, metrica libera o liberata. La frattura è evidente nella poesia italiana: se possiamo parlare di questa
koinè, di un linguaggio pascoliano e d’annunziano di cui si nutrono gli autori del 900, sicuramente il vero taglio netto è sull’idea di poeta e
poesia.

Abbiamo così le avanguardie e la data del 1903 diventa di comodo perché anche se escono i Canti di Castelvecchio e Alcyone, cominciano a
muovere i passi i poeti che si porranno sul fronte più lontano, a livello più profondo sulla riflessione del ruolo del poeta e della poesia.

Mengaldo rifiuta l’etichetta di avanguardie: (al contrario di Sanguineti) nella sua antologia non procede in base alle poetiche, non accetterà
l’etichetta di avanguardie – non si parlerà ad esempio di futurismo, frammentismo, crepuscolarismo. Noi invece useremo questi parametri
perché hanno avuto un valore critico molto forte e ci fanno comprendere il quadro sintetico in maniera più chiara.

Da una parte, agli inizi del ‘900 abbiamo una certa continuità: la koinè (definita da Mengaldo) o anche, altro aspetto importante, l’uso del verso
libero (sposato da d’Annunzio negli ultimi anni del 900 con la Laudes Vitae ma non da Pascoli che sceglie l’endecasillabo sciolto perché non vuole
andare fuori dalle regole metriche). A livello formale già I poeti di questa prima stagione del 900 porteranno avanti il discorso del verso libero e
della mescolanza di prosa e poesia, tabù rispetto alla nostra tradizione. Carducci stesso affermava la superiorità della poesia rispetto alla prosa.
Pascoli assolutamente ma anche d’Annunzio, influenzato da queste avanguardie, andrà verso la mescolanza di prosa e poesia. Ma questo
discorso (quello che riguarda la mescolanza di prosa e poesia) che è uno degli elementi più rivoluzionari, sarà abbracciato totalmente dalle tre
avanguardie.

Elementi di novità:
 mescolanza prosa e poesia
 uso del verso libero
Elementi di continuità  metrica libera e liberata
Koinè messa a punto da (alcune di queste caratteristiche sono
Pascoli e d’Annunzio. comunque presenti già in d’Annunzio)
IL ROMANZO
Nel romanzo le opere principali che rivoluzionano la narrativa negli anni ‘20 , anche se c’erano state già “Senilità” e “Una vita” di Svevo, saranno
la Coscienza di Zeno pubblicato nel 1923, e il Fu mattia Pascal di Pirandello che segna una rottura definitiva con la tradizione narrativa nel 1904.
Possiamo parlare di modernismo e ci risulta più facile rispetto alla poesia. C’è un’opera di riflessione profonda e di rivoluzione del romanzo e
della narrativa. Perché? Se cominciamo dal fu Mattia Pascal, già nel titolo abbiamo elementi propri della poetica modernista: frantumazione
dell’io - tema chiave della produzione pirandelliana, messo a fuoco già nel 1904. Il teatro arriverà circa vent’anni dopo. Si frantuma l’io narrante
cioè l’io che parla, si frantuma l’io di cui si parla, Mattia Pascal non esiste più perché il suo io si annulla, rinasce, non è riconosciuto dalla società,
rimane tra io e non io. Abbiamo la frantumazione totale delle certezze non solo letterarie ma gnoseologiche, degli strumenti di conoscenza di
riflessione sul mondo con la lanterninosofia: il richiamo a Copernico. Ormai qualsiasi tipo di certezza sull’idea dell’uomo, dell’idea di uomo come
misura del cosmo è ridicolizzata e ridicola nel Fu Mattia Pascal. È la fine definitiva dell’antropocentrismo, anche nel romanzo e nella narrativa, è
la fine di tutto un sistema di sapere, di un’idea progresso, storia, costruzione lineare che va a pezzi, già con Pirandello e poi con Svevo. Siamo in
una poetica assolutamente modernista. Frantumazione del rapporto io – mondo; frantumazione dello stesso io narrante: la frantumazione
dell’io narrante e dell’io è magistralmente messa su carta da Svevo con la coscienza di Zeno. Il titolo è molto importante.

La cosiddetta "lanterninosofia" è una teoria filosofica esposta da Mattia Pascal al proprietario della pensione in cui
egli alloggia, Anselmo Paleari, il quale ama filosofeggiare.
Secondo questa teoria gli uomini hanno la possibilità di conoscere soltanto poco della realtà, poiché sono dotati di
un lanternino che genera poca luce e che quindi non permette loro di avere una conoscenza completa della realtà: il
mondo così come appare è soltanto un’illusione, generata dalla luce del lanternino che tende a tramutare la natura
di ciò che ci circonda.
Ogni epoca, infatti, proietta la luce dominante e quindi determinate virtù: ad esempio il lanternino di luce rossa è
quello che ha generato la virtù pagana , ossia una pienezza di vita, in accordo con la mentalità pagana secondo cui
l’uomo vive una vita sola, quella del mondo sensibile, mentre il lanternino di luce viola è quello che ha generato la
virtù cristiana, ossia una mortificazione della vita, in accordo con la mentalità cristiana secondo cui la vera vita non è
quella del mondo sensibile ma quella che l’uomo vive nell’aldilà.
Nell’epoca della modernità, però, secondo Mattia, il lume ha finito il suo olio sacro, sono cioè cadute tutte le
certezze metafisiche tradizionali che aiutavano l’uomo a sopportare il peso dell’esistenza, come indica l'espressione
“strappo nel cielo di carta”. Il cielo rappresenta la metafisica, ed è un cielo di carta, ovvero di un materiale fragile,
non nobile. Il fatto che il cielo di carta sia bucato indica appunto il crollo delle certezze metafisiche: nulla esiste di
metafisico, la realtà lascia al buio l’uomo che si trova da solo con il suo debole lanternino, privo di olio sacro.
L’uomo quindi non riesce a trovare dei punti di riferimento, prova un grande senso di disorientamento, non riesce a
identificare delle certezze né nella realtà che lo circonda né dentro di lui, poiché tutto è in continuo divenire.
Il senso drammatico della coscienza moderna consiste nel fatto che l’uomo, per via del suo debole lanternino, non
riesce a capire che l’essenza della vita è il divenire, sforzandosi di ottenere l’impossibile: trovare delle certezze
metafisiche e inquadrare la propria identità entro certi parametri.

Il diario che Zeno Cosini è obbligato a scrivere dal suo psicanalista è il diario che svela di non credere nel valore curativo del raccontarsi che è
elemento importantissimo nella psicoanalisi. Zeno si prende beffe del dottor S mentre dimostra al pubblico come tutto ciò che viene raccontato
può essere e non essere (può essere quindi una bugia, un’ombra di verità, che viene contraddetta a poche pagine di distanza). Questa ombra che
è l’io, ombra già con Fu mattia Pascal e poi ombra anche nella Coscienza di Zeno, in un’epoca in cui la psicoanalisi è arrivata (si sa ormai che la
coscienza è tutto tranne che un io compatto), ci mostra non solo come a livello narrativo e narratologico l’io dei personaggi, del protagonista e
del narratore si sono sbriciolati ma ci dimostra come si è sbriciolato l’io dell’ individuo del 900 e il rapporto tra io e mondo, non solo io e società,
quindi anche la conoscenza del mondo è andata a pezzi: quell’idea di progresso lineare, per tappe, in cui credevano ad esempio Leopardi e i
liberali dell’800 o l’idea di progresso della scienza dei positivisti, per Pirandello e per Svevo non ci sono più

Qui il discorso del modernismo è facilmente rapportabile a quello del modernismo europeo. Nel discorso modernista europeo ci mettiamo
l’Ulisse di Joice – riscrittura dell’Ulisse classico attraverso l’evocazione per frammenti della giornata di un anonimo dublinese; la Wolf per
esempio nell’idea di memoria di tempo di Gita al faro o la signora Dalloway – una giornata qualsiasi di un’anonima signora borghese e
benestante della Londra post bellica. La ricostruzione di questo mondo andato a pezzi è un’operazione che viene fatta dai grandi come Proust,
nella memoria creatrice. Insomma tutti questi discorsi modernisti li possiamo applicare in maniera chiara ed evidente in quella che è la nuova
narrativa e il romanzo del 900 in Italia, quindi sia Nel Fu Mattia Pascal, sia nella Coscienza di Zeno e sia in Uno nessuno e centomila: siamo negli
anni 20 con Pirandello la frantumazione dell’io è totale e soprattutto la frattura tra io e mondo.

Cosa non funziona perfettamente? Cosa non combacia perfettamente tra modernismo europeo e modernismo italiano? Lo vediamo in un altro
caso, che è quello della narrativa di Federico Tozzi, senese, grande romanziere, grande narratore di novelle, autore di un genere molto originale
e modernista come quello della raccolta di bozzetti naturalistici “bestie”. È stato un grande scrittore che ha buttato all’aria tutti i principi del
romanzo realista e verista dell’800 eppure dichiara di riprendere il suo discorso da Verga, arrivando ad autodefinirsi figlio di Verga. I romanzi di
Tozzi sono tutti ambientati nella provincia campagnola di Siena e del Senese. Da qui capiamo cosa indica quando afferma di essere figlio di
Verga. Questo elemento però ci fa andare all’aria l’ idea di un Tozzi modernista. All’interno del romanzo di Tozzi non c’è più al centro la crisi
dell’io della modernità industriale e metropolitana, che è propria del grande modernismo europeo (Dublino Joice, Wolf - Londra, la Parigi di
Proust, il luogo non luogo di Kafka) proprio perché troviamo la Siena provinciale e contadina. E questo è un elemento di grande distanza con la
narrativa modernista. Quello che ci fa capire perché Tozzi, nonostante questa enorme, abissale differenza, è collocabile in un discorso
modernista è questo: l’importanza del discorso psicanalitico – attraverso i romani con gli occhi chiusi, il potere, le croci Tozzi richiama i rapporti
conflittuali interni alla famiglia e soprattutto ci mostra la figura edipica del padre che incombe sull’io narrato che poi è l’io di Tozzi, che ha
rifiutato la vita piccolo borghese sicura del padre per fare questo lavoro.
Quindi contesto e ambientazione sociale e narrativa sono elementi che avvicinano il romanzo di Tozzi al verismo verghiano (più provincia che
metropoli). E però Tozzi è un grande sperimentatore modernista perché il suo romanzo sbriciola la compattezza narrativa anche temporale dei
romanzi classici del realismo ottocentesco e del verismo e inventa nuove forme narrative che non sappiamo collocare e l’opera più riuscita è
quella di Bestie, in cui lui dovrebbe richiamare una serie di bestioline ma questi piccoli frammenti, brevissimi raccontini non ci fanno
comprendere il collegamento tra l’animale (con significato simbolico) e il quadretto breve richiamato da Tozzi. Scrittura nuova difficilmente
collegabile ai generi classici dell’ 800. Molto innovativa anche perché richiama il genere medievale dei bestiari (genere fondamentale di scrittura
letteraria e scientifica). Il richiamo alle bestie e al loro significato simbolico (che non è detto ci sia sempre) stravolgono questo genere narrativo
fino a renderlo irriconoscibile. In questo c’è un elemento di rottura. Il dialogo tra modernità e nuova narrativa del 900 è un dialogo molto
interessante.

Abbiamo già capito i tratti fondamentali di questa narrativa: il romanzo è spacchettato in qualcosa di nuovo, non è coeso né compatto sia nella
struttura che nella sua temporalità, balzi di tempo sono evidenti sia nel Mattia pascal che nella coscienza di Zeno; nell’entrata in scena
dirompente della psicanalisi. Non è un caso che venga portata al centro della narrazione del romanzo da Svevo che è Triestino, e attuò la fusione
tra la tradizione culturale e letteraria italiana e una tradizione che viene dall’Austria (impero asburgico del quale fa parte Triste) Vienna, capitale
della nascita della psicanalisi, fa arrivare a Triste questa rivoluzione culturale, gnoseologica e letteraria che è la psicanalisi: negli stessi anni Svevo
nella narrativa e Saba nella poesia faranno entrare nella tradizione italiana non solo la psicoanalisi – con punti di vista diversi tra Svevo e Saba -
ma quanto di più moderno e di mittelleuropeo esista, li dove nel resto d’Italia è assolutamente sconosciuto o orecchiato.

NUOVE CAPITALI LETTERARIE


Altro elemento interessante del 900  entrata da protagoniste di nuove capitali letterarie con novità:

 Triste punto di riferimento letterario pian piano. Spesso il successo degli autori ci viene dall’estero (il caso Di svevo dalla Francia) ;
 Liguria con Genova (importante già nel primissimo 900 con tradizione tra narrazione e poesia, che si mescolano bene nella Genova del
primo 20 soprattutto per gli espressionisti. Viene anche fuori Montale negli anni 20);
 Toscana (non solo Firenze ma anche Siena, provinciale e più campagnola che moderna grazie a Tozzi) nuove capitali del 900 che
inizialmente sembrano provinciali, periferiche e secondarie poi portano qualcosa di nuovo e innovativo all’interno del nostro discorso
poetico e narrativo.
Bisogna stare attenti alle etichette e usarle quando ci tornano utili.
Le avanguardie storiche – crepuscolarismo, futurismo e espressionismo (vocianesimo) - si differenziano dalle neovanguardie del periodo post
bellico dagli anni 50 in poi, col gruppo 63. Le Neoavanguardie assumono questo appellativo perché si richiamano come poeti e come poesia alla
grande rivoluzione delle prime avanguardie storiche del primo 900. Sono etichette poetiche di comodo che non dobbiamo usare come gabbie.
Molte delle cose dette non le possiamo applicare ad esempio a Saba: anche se è triestino, entra in contatto con la psicanalisi, come Svevo, lui
stesso si sottopone alla psicanalisi di Waiss e la sua poesia è calata in un discorso psicanalitico eppure non lo possiamo etichettare facilmente
come poeta avanguardista. Saba, infatti, richiama fortemente la migliore tradizione dell’ 800 italiana in cui si è formato e in cui crede: la voce di
Leopardi e Carducci ma anche Foscolo, sono i padri a cui rimane agganciato nella sua poesia nel primo ventennio. Saba, Ungaretti e Montale
affronteranno la sfida del 900, in tre maniere differenti che però si sposano tra di loro.

Lezione 2 – 15 marzo
Nella scorsa lezione abbiamo iniziato con le innovazioni nel romanzo del 900 e soprattutto con quelle innovazioni e quei romanzi che sono
rapportabili a quella poetica moderna europea del 900 che va sotto il nome di modernismo.
La grande rivoluzione nel genere romanzesco di Joice, della Wolf o di Kafka e che è squisitamente modernista, cioè la destrutturazione del
genere romanzesco e soprattutto l’introduzione sulla riflessione su ciò che è moderno (crisi dell’io; l’entrata della psicanalisi; riflessione sul
rapporto modernità – tecnologia e umanità alienata, parola molto usata) entrano, in modo originale, anche nel nostro contesto e in particolare
nel romanzo del primo 900 . Sicuramente la triade d’oro del nostro modernismo nella narrativa e in particolare nel genere del romanzo ma
anche dei racconti è costituita da Svevo, Pirandello e Tozzi. Questi tre autori hanno dei punti interessanti in comune ma anche delle soluzioni
differenti. La loro collocazione geografica e culturale - Pirandello Sicilia e Roma, Svevo - Triste, Tozzi - Siena - richiama anche contesti culturali
diversi che hanno inciso sul loro modernismo. Ci sono dei tratti comuni evidenti, a livello formale e tematico ma anche delle peculiarità, e molte
di queste sono date dalla collocazione geografica e culturale dei diversi autori.

ITALO SVEVO - Aron Hector Schmitz


Triestino. Con Svevo, che nasce nel secondo 800 e muore nel 1928, siamo in una provincia letteraria assolutamente nuova nel contesto italiano
perché Triste ancora non è italiana, è austriaca. Triste ,infatti, fa parte dell’impero austro - ungarico degli Asburgo ma è di per se interessante
perché diviene una città protagonista: molti scrittori, soprattutto i più innovativi, vengono da qui. Esplode una nuova capitale letteraria italiana,
quando ancora Trieste politicamente parlando non è italiana. Svevo, così come Saba e come altri autori, è di quest’ area che non è ancora
italiana ma che sceglie di esserlo: Svevo sceglie la lingua italiana; Saba sceglie il suo filone italiano. È una scelta forte, consapevole, non scontata:
non è solo la scelta di una lingua ma anche quella di un versante culturale italiano.
Vivere a Triste implica una serie di altre cose: la conoscenza di ciò che è la psicanalisi grazie ai contatti con Vienna, dalla quale discendono le basi
della psicanalisi. Svevo e Saba entrano in contatto con questa nuova scienza e possono addirittura “giocarsi” la carta della psicanalisi in
letteratura prima di molti scrittori italiani.
C’è un tratto importante che accomuna Svevo con Pirandello (e poi vedremo anche con Tozzi). Quale? Il punto in comune è che al centro della
loro scrittura e della loro poetica modernista troviamo l'entrata in crisi irreversibile del rapporto tra io e mondo e all’interno dei personaggi il
disgregarsi e l’entrata in crisi dello statuto di persone. Entra in crisi l’idea dell’io chiaro e strutturato che era al centro della narrazione ancora
con i veristi. Con Svevo soprattutto tramite la chiave della psicanalisi ma anche con Pirandello, non entra solo in crisi il rapporto tra io, società e
convenzioni borghesi ma entra in crisi tutto un sistema gnoseologico di conoscenza: l'idea dell'io, che cos'è l’io, che cos'è il tempo, che cos'è lo
spazio, che cos'è la narrazione. Tanto in Svevo quanto in Pirandello parliamo di destruttura del romanzo: viene rotta quella linearità del
racconto che era stata valida nella narrazione ottocentesca italiana. Non avremo più una narrazione lineare in cui un io ben compatto domina
il reale e riesce a raccontare la sua storia seguendo una linearità logico temporale.

Altro elemento in comune è il prorompere sulla scena della figura dell’inetto. Sia in Svevo che in Pirandello questi personaggi che dovrebbero
essere i protagonisti quindi le voci forti, sono in verità degli inadatti alla vita, non solo alla vita sociale ma anche stessa costituzione del proprio
io.

Nei primi due romanzi di Svevo, Una Vita e Senilità (anni 90 dell'Ottocento), che si rivelarono insuccessi totali tanto che Svevo pensò di dedicarsi
al commercio e di lasciar perdere la scrittura, già viene fuori la crisi dell’io, la crisi del rapporto con la società fondamentalmente borghese ma
anche la crisi del riconoscimento di chi e di che cosa si è. Tutti questi elementi già sono andati in frantumi nelle storie dei due protagonisti
maschili di una vita e di senilità. I due protagonisti incarnano il fallimento: infatti il primo arriva al suicidio, quindi al massimo riconoscimento
della sua incapacità di vivere e di essere e l’altro arriva a non capire niente della realtà, di se stesso, del rapporto con gli altri e soprattutto con il
sesso femminile. Quindi già con quelli che sono ancora gli eredi di un romanzo in un certo senso realista anche se con molte fonti più europee
che italiane, con due romanzi che possiamo definire per molti versi pre modernisti, abbiamo il racconto in terza persona, non c’è un io che parla
e questi personaggi fino alla fine non hanno saputo vedere la realtà, riconoscere la realtà ,il fallimento dei propri errori, cosa che invece esplode
totalmente vent’anni dopo con il romanzo che decreterà l’entrata, anche se molto lenta di Svevo nel canone della narrativa: La coscienza di Zeno
 cosa esplode totalmente? Innanzitutto sappiamo che l’idea di romanzo e narrazione, l’autorialità dell’io che parla, va in frantumi nella
coscienza di Zeno, perché a parlare in prima persona è Zeno Cosini in un tentativo, a cui poi rinuncia, di autoanalisi.
Qual è la finzione di questo romanzo completamente destrutturato? In realtà come ci dice in apertura del romanzo il dottor S , lo psicanalista
per vendicarsi pubblica quello che doveva essere un diario di riflessioni buttate giù al fine di analisi e di cura psicanalitica dal suo paziente Zeno
Cosini che invece lo ha abbandonato e sul più bello afferma la sua sfiducia nella psicanalisi come mezzo di guarigione. Così ci rimane in mano? Ci
rimane questo insieme di riflessioni, che non sappiamo quanto siano vere, perché Zeno Cosini è un grande mentitore e probabilmente tutto
quello che leggiamo è una menzogna o una parziale manipolazione di Zeno Cosini.
Salta quindi uno dei principi cardine della narrativa cioè la credibilità del racconto. Nel romanzo troviamo l’intersezione di piani autoriali diversi:
la voce dello psicanalista e la voce poi di Zeno e soprattutto, trattandosi di riflessioni, o presunte tali, che dovevano servire come cura non esiste
un piano cronologico, sono episodi, sono costruzioni per tematiche che non seguono un filo cronologico. Questo è ciò che s’intende per impianto
modernista, proprio nel senso di Joice o della Wolf o di Kafka: vengono spezzate le catene della scrittura narrativa e del romanzo di stampo
naturalistico e tardo ottocentesco a cui ancora erano legati i primi due romanzi di Svevo.

Il tema della nevrosi, che dominerà il 900, è al centro della stessa finzione del romanzo: e il nevrotico Zeno Cosini che si affida alla psicanalisi e
ha buttato giù questi ricordi in libertà. Troviamo nel romanzo l'esplosione della nevrosi rispetto al modello di vita borghese al quale non riesce ad
aderire e al quale non vuole aderire, l’idea di una malattia universale: questa è in realtà la grande provocazione di Zeno Cosini, che considera
tutti malati, per Zeno infatti il più sano è colui che ammette la malattia e per questo il buon borghese sicuro di sé è il più malato di tutti. Questo
sicuramente ricollega il romanzo della coscienza di Zeno al romanzo tanto di Pirandello, quanto di Tozzi. La nevrosi: rapporto conflittuale dell’io e
il rapporto conflittuale soprattutto con la figura dell’autorità che in Svevo e in Tozzi è in primis la figura paterna: il rapporto irrisolto con la figura
paterna. Sia in uno, nessuno, centomila di Pirandello e sia nella coscienza di Zeno viene buttata all'aria l'eredità paterna.

Punti di contatto Svevo – Pirandello:


 Entrata in crisi dell’io e del rapporto io – società.
 Destrutturazione del romanzo: linearità interrotta.
 Figura dell’inetto che irrompe sulla scena
 Nevrosi: rapporto conflittuale con il padre
 Centralità della psicanalisi
 Elementi comici e grotteschi.

La coscienza di Zeno è composto da 8 capitoli tematici, che si rifanno ai grandi modelli europei che riflettono su tutta una serie di filoni: non
solo su quello della psicanalisi ma anche sull’eredità del darwinismo, sulla guerra per la lotta alla sopravvivenza, sulla riflessione filosofica con la
frantumazione dell'io e dalla realtà che dopo Schopenhauer e Nietzsche, porterà alla filosofia e scienza del primo 900. Tutto questo rientra nel
romanzo assolutamente modernista e sperimentale di Svevo

Vediamo alcuni passi interessanti della coscienza di Zeno:


Il primo elemento interessante è la struttura del romanzo, quindi ci soffermiamo sulla prefazione/preambolo: l’io che parla è quello del dottor S.
1)  Prefazione
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere.1 Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il
paziente mi dedica.2
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli
studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che
l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati
maggiori se il malato sul piú bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta 3e spero gli dispiaccia.4 Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a
patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie
ch’egli ha qui accumulate!… DOTTOR S.

Finisce in questo modo la presentazione del romanzo costituito dalle note di Zeno Cosini su sè stesso, con la figura dello psicanalista che è
ridicola. Chiaramente Svevo non ci crede alla psicanalisi come cura seria a contrario di Saba che invece ci crederà tant’ è che lui stesso si farà
seguire a lungo dall’ esponente triestino più importante della scuola freudiana, il dottor Weiss che sarà il suo psicanalista. Quindi sia in Svevo
che in Saba troviamo la presenza centrale della psicanalisi, grazie all' appartenenza triestina di entrambi, ma considerazione e utilizzazione del
discorso psicanalitico in termini diversissimi se non proprio contrapposti.

Interessante è che subito dopo iniziano le famose note pubblicate per vendetta dal Dottor s.
Da dove possono iniziare delle note psicanalitiche? Ovviamente dall’infanzia. Secondo la psicanalisi, infatti, nell’ infanzia c'è tutto ciò che
determinerà l’io che si andrà a costruire nel futuro. Anche in questo caso l'ironia è onnipresente nella scrittura di Zeno Cosini.
2)  Preambolo
Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti 5forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse
tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.6
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della
notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo , appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo
lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
7Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente
eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa8… ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e
che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente
imperioso risorge ed offusca il passato.

Va avanti quindi questa prima parte in cui Zeno tenta di mettere insieme qualche ricordo importante della sua infanzia mentre a noi è già chiara
la luce ironica della sua scrittura, tant'è che i primi tentativi falliscono e infatti il primo tentativo si chiude con un aborto, con una non riuscita.
Tutta la vita di Zeno Cosini, a cominciare dal motivo fondamentale per cui è andato in psicanalisi, smettere di fumare, sarà un tentativo fallito, un

1 il dottore è un personaggio permaloso. Pubblica gli appunti delle sedute per vendetta, perché sa di essere stato preso in giro dallo
stesso paziente.

2 la figura dello psicanalista simboleggia quell’ autorità da cui si vuole staccare, che ricorda un po’ il padre. L' antipatia, l’ odio alla
fine verso il dottore, sappiamo che derivano dal rapporto conflittuale con il padre

3 il dottore afferma di aver pubblicato queste note, in cui il suo paziente aveva raccolto gli snodi psicanalitici fondamentali della sua
vita: il rapporto col padre , il rapporto con la società borghese e il rapporto con la figura femminile, per vendetta.

4 notiamo la forte ironia che attraversa sempre la scrittura dello Svevo di questo romanzo. La considerazione della psicanalisi come
terapia, la considerazione di questo personaggio inetto senza spina dorsale che non è capace di smettere di fumare e sposa la
donna che non ama ovvero la più facile da conquistare.

5 occhi che vedono meglio da lontano.

6 E’ un racconto Sterniano: facciamo riferimento al romanzo “la vita di opinioni di Tristan Shandy” un classico dell'anti romanzo del
700 inglese. Le opinioni di Zeno cosini proprio come delle moderne opinioni sono relative e non degne di fiducia perché Zeno, già
all’inizio, ci dice che partirà dalla sua infanzia per affrontare una cura di tipo psicanalitico però nel fare questo vede e non vede, ci
sono un sacco di ostacoli che si frappongono tra lui e il ricordo dell'infanzia. Questo ci fa comprendere come prenderà poco
seriamente in considerazione la psicanalisi.

7 Allora Zeno afferma d’Iniziare a scrivere: però questa scrittura non può essere presa sul serio, dato che lo stesso Zeno non la
prende sul serio. Infatti Zeno comincerà a scrivere le note dopo mangiato, sdraiato su una club, una poltrona di inizio secolo, con la
matita e un pezzo di carta in mano

8 questo potrebbe averlo scritto Wolf, Joice, Kafka. Addirittura lui che si vede pensare, come se il suo stesso pensiero fosse
qualcosa di distaccato da lui e con dei movimenti propri che lo rendono più chiaro o meno chiaro alla stessa vista di Zeno. Che cosa
abbiamo qua? Abbiamo già la frantumazione dell'io . E l'io che vede già il suo pensiero come qualcosa di oggettivo e di talmente
distante e non posseduto che sembra alzarsi e abbassarsi. già abbiamo gli elementi essenziali di questo io frantumato, che è quello
proprio del romanzo modernista Di Svevo.
rinvio continuo che alla fine coincide con un totale fallimento. Questo ovviamente a che fare con l’io frantumato dei personaggi sia di Svevo che
di Pirandello.

Un altro passo molto interessante, che ritroviamo subito dopo la promessa di Zeno di smettere di fumare (lo farà sempre, affermando di voler
fumare solo l’ultima sigaretta. Ma non sarà mai l’ultima. A vincere sarà infatti la nevrosi, non c’è possibilità di salute) è il passo in cui si parla
dell’infanzia di Zeno e in particolare del suo rapporto con il padre. Nel caso di Zeno, questo rapporto è stato conflittuale sempre, fino alla morte
del padre (celebre è l’episodio dello schiaffo). Ecco come viene richiamata la figura paterna, la figura dell’autorità all’interno del romanzo.
3) Il fumo
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano.9 Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta
(chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) 10gli dissi che m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle
mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto.11 A mio onore posso dire che bastò quel riso
rivolto alla mia innocenza quand’essa non esisteva piú, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè… rubai ancora, ma senza saperlo.12 Mio padre lasciava per
la casa dei sigari13 virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra
vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale
malessere m’avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse. Non si dirà che nella
mia infanzia io mancassi di energia.

Queste prime pagine sul padre dicono tanto sullo Svevo ironico e anti naturalista alla Stern che utilizza una fortissima chiave umoristica e
grottesca che ritroveremo anche in Pirandello (elemento comune). Il padre crede fino alla fine che Zeno possa smettere di fumare tant'è che alla
fine esclamerà: bravo ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito, è un padre che crede nella forza di volontà e nella guarigione di
suo figlio che non arriverà mai. Le prime pagine della coscienza di Zeno, in cui il protagonista fa una pseudo confessione, sono caratterizzate dal
rapporto di Zeno con la figura paterna. L’ elemento novecentesco più maturo di questa mancata guarigione è il fatto che ci sia la piena
consapevolezza che la malattia è una malattia universale e che colui che è malato e quello che crede di non esserlo

4) la morte del padre


Zeno viene richiamato a casa perché il padre sta male , si avvicina al padre per mantenerlo sollevato.
“ subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi ” il padre vuole essere autonomo, non accetta di
essere aiutato dal figlio.
“ con mano vigorosa appoggiata sulla sua spalla, gli impedii mentre a voce alta imperiosa gli comandavo di non muoversi. per un breve istante, terrorizzato, egli
obbedì “  per un momento sembra che Zeno abbia il sopravvento sul padre. Ma qui c'è già l'ironia del personaggio: crede di imporsi in un
momento di debolezza del padre, vecchio e malato e er un momento ci crede anche il padre.
“poi esclamò: - muoio! E Si rizzò. a mia volta, subito spaventato dal suo grido , rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto
proprio di faccia a me”  è l’ultima prova di forza del padre.
“io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di
cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto”  c’è lo scontro padre figlio, che resta fino alla fine.
“con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo che non poteva comunicargle altra forza che quella del suo peso
e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di la sul pavimento. Morto!”  quindi l'ultimo gesto è il gesto di un sonoro ceffone del padre al
figlio. Il rapporto irrisolto che è alla base di tutte le nevrosi di questi personaggi protagonisti del 900 rimane lo stesso fino alla fine. Anche in Tozzi
troveremo lo stesso rapporto padre figlio.
Troviamo quindi la figura del padre, dell'infanzia, del rapporto edipico irrisolto col padre al centro dei primi capitoli con una fortissima nota
ironica dall'inizio alla fine.

5) storia del mio matrimonio


Subito dopo troviamo un lunghissimo capitolo dedicato al rapporto con la figura femminile, altro rapporto irrisolto e fondamentale all’ interno
della psicanalisi, sempre caratterizzato da un'ironia ai limiti del grottesco. Nel nuovo capitolo che si intitola la storia del mio matrimonio viene
fuori questo rapporto irrisolto: l'unica donna di questa famiglia benestante di cui si innamora veramente Zeno sposerà un altro e per questo alla
fine Zeno prenderà in moglie un'altra delle sorelle di questa famiglia (quella bruttina) che accetta il matrimonio. Tutte queste donne hanno un
nome che inizia con la A e questo costituisce un ulteriore elemento grottesco alla Pirandello. Numerose saranno le pagine scritte su questo
argomento, fino alle ultime in cui il protagonista immagina questa malattia come universale e immagina un momento apocalittico in cui tutto il
mondo andrà in frantumi. Fuor di metafora, questa nevrosi avrà la meglio su tutta la nostra civiltà.
Ovviamente proprio come in quella che viene chiamata la tradizione dell'antiromanzo che ha a capo il romanzo del 700 inglese e Sterne, la
conseguenza dei fatti, il rapporto di causalità è saltato, il reale viene presentato in frantumi. Salta anche una narratività diacronica, tipica del
romanzo realista dell'Ottocento, e tutto questo ci immette in pieno 900. i Capitoli del romanzo affrontano senza una consecutio logica o

9 questo potrebbe sembrarci un elemento irrilevante. Una caratteristica del romanzo modernista è che un dettaglio, all'apparenza
irrilevante, illumina di verità il contesto. Sono i barlumi di verità di cui parlerà la Wolf .Il panciotto del padre indica quindi il
perbenismo, il suo statuto borghese.

10 elemento ironico

11 voleva rubare dei soldi

12 già un barlume nell’inconscio assolutamente caotico e irrisolto.

13 anche in questo caso Zeno comincia a raccontare delle bugie per discolparsi
temporale degli snodi centrali che sono facilmente rapportabili alle grandi nevrosi, che Zeno cosini vorrebbe farsi curare: il fumo, la nevrosi dal
rapporto irrisolto con il padre e con le donne.

Questo è un romanzo che sarà ignorato dagli italiani fino a quando non lo scopriranno i francesi e soprattutto quando ormai alla fine degli anni
20 è noto in Europa e diventa un caso europeo grazie a Joice. Quello con Joice è un incontro fondamentale per Svevo perché gli permette un
confronto con un'idea che si stava evolvendo nella testa e nelle pagine di Joyce di romanzo moderno e modernista ma anche questo incontro
permette a Svevo di diventare un caso interessante innanzitutto per l'ambiente parigino e francese, che era quanto di più moderno ci fosse tra
gli anni 20 e 30. Joice era il professore d’inglese di Svevo, lingua fondamentale per potersi dedicare al commercio.
Joice ha un rapporto strettissimo con il mondo culturale francese perché proprio a Parigi viene pubblicato l’Ulisse, il suo romanzo.Il canale non è
quello degli italiani né del pubblico dei critici italiani ma un canale francese che di rimbalzo arriva a Montale e Montale fa conoscere all'Italia
questo grandissimo scrittore e grazie a lui Svevo entra nella porta principale della letteratura italiana del 900.

Il problema e che Svevo è tedesco, anche di formazione linguistica e deve conquistare una lingua italiana credibile. Il formalismo è sempre stato
il punto debole della nostra lirica: la lingua di Svevo è stata considerata legnosa, una lingua di risulta che arriva di rimbalzo e questo ha fatto
nascere un pregiudizio nei confronti di un autore che non faceva parte della tradizione plurisecolare italiana. Svevo era triestino quando Triste
non era ancora una provincia italiana ma una provincia dell'impero austriaco.
Grazie a due grandissime personalità, quella di Joice e quella di Montale, finalmente Svevo verrà conosciuto anche In Italia e diventerà pian
piano, nei decenni, un grande classico della tradizione del 900.

molti dei punti di contatto col romanzo modernista pirandelliano l'abbiamo già tirati fuori.

La coscienza di Zeno:
 Io in frantumi
 Salta la credibilità del racconto Brani analizzati
 Presenza di diversi piani autoriali 1. Prefazione
 Assenza piano cronologico 2. Preambolo
 Nevrosi 3. Il fumo
 Malattia universale 4. La morte di mio padre
 Riflessioni sul darwinismo 5. La storia del mio
 Ironia ai limiti del grottesco matrimonio

PIRANDELLO
Con Svevo abbiamo parlato di Trieste, di mitteleuropa. La scelta dello pseudonimo “Italo Svevo”, non è casuale ma c'è la volontà di voler
sottolineare da una parte l'origine germanica e dall’altra la scelta sostanzialmente italiana. Svevo è di famiglia ebraica: questo vuol dire tanto sia
per Svevo che per Saba.
Con Pirandello ci troviamo catapultati in un altro contesto: siamo in Sicilia. Quella di Pirandello è una famiglia benestante legata alla gestione
delle solfatare, che sono al centro di tanta narrativa, di tanti raccolti e di tanti romanzi, come i vecchi e giovani, una grande storia familiare.
Anche se fondamentale sarà la sua formazione siciliana, avrò modo di formarsi anche a Roma, la città che diventerà il centro di tutta la sua vita
letteraria nei decenni a seguire e a Bon, formazione tedesca che lo porterà ad occuparsi di studi linguistici sul suo dialetto di Girgenti (Agrigento).
È un autore che proviene dalla periferia siciliana che però si forma con un’apertura assolutamente europea.
Altro elemento importante, che lo contraddistingue da Svevo, è una ricca produzione poetica, la prima produzione letteraria di Pirandello. Già da
giovanissimo, ventenne, scrive una serie di raccolte a partire da quella che chiama “Malgiocondo” che sono i suoi primi passi nel mondo
letterario: nasce quindi come poeta. Prima di diventare lo stupor mundi come scrittore di teatro, cosa che lo porterà a vincere il Nobel, perché
diventerà uno scrittore di teatro innovativo anche per il contesto europeo che lo apprezzerà moltissimo, prima di arrivare a questo c’è tutta una
produzione novellistica e di romanzi che in realtà sono i momenti in cui si forma come scrittore e sviluppa quelle tematiche che avranno poi
successo nella sua sperimentazione teatrale.
Anche lui esordisce con romanzi ancora figli diretti di una tradizione naturalista e verista, siamo negli anni 90 come Svevo: ricordiamo a tal
proposito il romanzo l’Esclusa, all’interno del quale emerge l’interesse per le figure femminili, di perdenti ma il discorso interessante per noi
esplode nel 1904 con quella meraviglia assoluta che è il romanzo Il fu Mattia Pascal e dopo vent’anni con quell’altro romanzo assolutamente
sperimentale e innovativo che è uno, nessuno e centomila.
Anche qua tiriamo fuori degli elementi importanti del modernismo presente nel romanzo pirandelliano, in parte riconducibili a quello che
abbiamo già detto con Svevo.
La grande novità del Fu Mattia Pascal è nel titolo, un po’ come la coscienza di Zeno: non è la storia di Zeno, parla la sua coscienza con tutte le
finzioni e le bugie. Già nel fu Mattia Pascal, abbiamo quell’elemento che fa saltare per aria la credibilità del personaggio del suo racconto. Parla
un personaggio, Mattia Pascal, che è una specie di fantasma di se stesso, perché fu il mattia Pascal.

La trama: lui, grande giocatore nei casinò, scopre di aver vinto e quando torna di soppiatto, dopo esser scappato dal suo paese, scopre che lo
credono morto perché hanno trovato un cadavere che sembra il suo. Contento accetta questa versione pensando di liberarsi dal suo passato e
da quel fagotto pesante che è l’io, dell’io sociale, e si inventa una nuova vita come Adriano Meis ma anche questa alla fine gli peserà troppo,
l’essere senza identità diventa un fardello pesante tanto quanto l’identità effettiva della sua prima vita e quindi tenta di tornare vivo nel suo
paese e da sua moglie scoprendo però che tutto il mondo, inclusa sua moglie e la sua famiglia si è facilmente dimenticato di lui: la moglie si è
rispostata e ha avuto altri figli e quindi è costretto a rinunciare alla sua identità e l’unica identità che gli rimane è quella del Fu mattia pascal,
quindi non gli resta altra possibilità che essere un’ombra di se stesso. Anche qui l’io protagonista è andato completamente a pezzi, è solo
un’ombra e la stessa narrazione parte in maniera originale e provocatoria dal racconto che fa il fu mattia pascal in quanto tale dall’interno di una
polverosa biblioteca dove aiuta a mettere a posto dei libri impolverati grazie alla gentilezza di un prete. Anche qui l’ironia, l’umorismo è alla
base.

La poetica Pirandelliana:
il saggio l’umorismo del 1908 è quello che caratterizza tutta la sua scrittura romanzesca, novellistica e teatrale.
1)  la poetica dell’umorismo.
Pirandello, dovendo compensare due punti essenziali di questa poetica che poi ritroviamo nei suoi romanzi sperimentali, riflette sull’elemento di
conoscenza vero, del reale, pensando quale possa essere in questa crisi epocale di primo 800. Riflette non solo sulla conoscenza del reale ma
sulla stessa conoscenza e consistenza dell’io. L’elemento di conoscenza è quello famoso dell’avvertimento e del sentimento del contrario,
famosissimo passo del suo saggio l’umorismo che butta alle ortiche la poetica più importante del momento e che diventerà quella vincente per
tutto il 900, quella crociana: l’estetica crociana si fondava sull’idea dell’arte come pura intuizione. L’arte non è riflessione, non è struttura, è pura
intuizione.
Pirandello va nel senso opposto e tutto l’umorismo e la sua riflessione sulla conoscenza del reale e la conoscenza tramite la scrittura è contrario
all’estetica crociana. La riflessione è un momento fondamentale non solo di conoscenza del reale ma dell’arte stessa, senza il momento riflessivo
non c’è un’arte che valga la pena di conoscere e praticare. E fa l’esempio, parlando di conoscenza ma anche di valore analitico della scrittura
letteraria, del momento in cui ancora non c’è la riflessione nella nostra concezione del reale ma poi, per poter guardare più in profondità è
necessario che questa riflessione ci sia. Una riflessione su cosa? Sull’assurdità della vita, discorso novecentesco e modernista, l’assurdità
rappresentata da questa figura che lui usa benissimo dell’anziana signora ormai vecchia che si deve imbellettare e vestire da giovinetta per
essere amata dal giovane amante, vecchietta che è una figura patetica che in un primo momento ci fa ridere e abbiamo quindi l’avvertimento del
contrario: ci rendiamo conto che la realtà non è quella che lei vorrebbe rappresentare. A questo però succede, in un secondo momento, che è il
momento riflessivo della creazione artistica di Pirandello, il momento della riflessione che porta con sé un elemento che non è più di riso, non è
più comico ma tragico e riflessivo. È un sentimento del contrario: quando noi cominciamo a riflettere sulla tragicità, tristezza, pateticità di
questa situazione, lì scatta una conoscenza più profonda dell’assurdità, del reale, della rappresentazione delle falsità sociali, anche le falsità che
lo stesso io racconta a sé stesso, porta ad un momento riflessivo importante, questa conoscenza attraverso il riso, questa conoscenza attraverso
l’umorismo. Questo è uno dei punti più importanti ed è un elemento portante della poetica che lui ha già portato a termine quattro anni prima
con il Fu Mattia Pascal.

Avvertimento e sentimento del contrario.


poetica che Pirandello esplica del saggio L’Umorismo del 1908, attraverso la metafora della vecchia imbellettata.
in un primo momento questo ci provoca riso: questo è l’avvertimento del contrario perché ci rendiamo conto che
la realtà non è quella che la vecchia vorrebbe farci vedere.
A questo momento, ne subentra un secondo che ha a che fare con la riflessione, che porta con sé non più il riso
ma un sentimento tragico: è il sentimento del contrario.
La poetica di Pirandello si gioca tutta sulla riflessività, andando contro la poetica crociana che vedeva l’arte come
pura intuizione.

Dove la troviamo questa poetica? In tantissimi momenti del Fu Mattia Pascal.

1) In una delle premesse. Anche in questo caso il modello è Sterne, l’antiromanzo. Questa premessa umoristicamente viene chiamata
Premessa II filosofica a mo di scusa in cui viene ricordato come il fu mattia pascal che è stato accolto da questo prete nella sua
canonica e nella sua biblioteca per riordinare questa polverosa raccolta (anche qui discorso metaletterario: la cultura del passato
ormai è solo polvere ed è anche molto ridicola, molte opere suscitano il sorriso). In maniera paradossale e umoristica il fu mattia
Pascal attaccherà Copernico, colui che ha rovesciato l’idea di una centralità dell’uomo e di una capacità di dominare il cosmo e di
essere il centro razionale di tutto, lanciando contro di lui una maledizione che sembra più da uomo di Chiesa (le teorie copernicane
erano state condannate dal 500 in poi) e invece il canonico, l’uomo di chiesa vero e proprio si trova a difendere qualcosa che ormai
gli sembra evidente cioè che la Terra non è al centro del cosmo. Quindi anche in questa II premessa c’è già molto delle riflessioni che
saranno all’interno del Mattia Pascal.
La maledizione: .
Maledetto sia Copernico!
— Oh oh oh, che c’entra Copernico! — esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
— C’entra, don Eligio. Perchè, quando la Terra non girava...
— E dàlli! Ma se ha sempre girato!
— Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio
contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi, scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il
sole.14

Alla fine va avanti questa paradossale e umoristica diatriba tra l'uomo moderno Mattia Pascal e l'uomo di chiesa che dovrebbe essere meno
copernicano e questa idea della frantumazione di tutte le certezze dell'uomo attribuita a Copernico è un asse portante di tutto il romanzo.

2) Lo strappo nel cielo di carta.


Un altro punto cardine del romanzo, un’altro famosa riflessione su un altro personaggio che Paleari colui che ospita il fu Mattia Pascal
nel suo periodo romano, gran speculatore e filosofo che richiamerà questa immagine fortissima che ha a che fare molto con l’idea
copernicana della fine delle certezze dell'uomo perché gli dice che cos'è l'uomo oggi. Praticamente è Oreste, colui che nella tragedia
classica di Sofocle è pronto ad uccidere la madre che si è resa responsabile dell'uccisione del marito. Si compie dunque la tragedia
secondo le certezze di una tradizione che noi abbiamo e a cui siamo rimasti fedeli invece in quel momento Oreste scopre che in quel
teatrino in cui sta rappresentando l’ Elettra, cioè la tragedia di Sofocle in cui si parla di questo momento del matricidio, Oreste scopre
uno strappo nel cielo di carta cioè nella scenografia. A questo strappo conseguono una marea di conseguenza non solo letterarie ma
anche gnoseologiche perché Oreste che sta per compiere l'atto della tragedia diventa un Amleto che non è più capace di portare
avanti questa vendetta e questa azione e scopre che non è tutto in ordine come si pensava. C'è un'altra verità, ci sono una serie di
domande da farsi su tutto ciò che riguarda la nostra vita e diventa Amleto l'eroe moderno dell’indecisione. La tragedia di Shakespeare
è fondamentale per tutto il teatro di Pirandello: Oreste non riesce alla fine a compiere veramente e pienamente la sua vendetta sulla
madre che ha ucciso il padre in combutta con il suo amante. Quindi Palerai dirà che Oreste vede questo strappo nel cielo di carta e
diventa l'Amleto moderno cioè l'uomo moderno che è paralizzato in tutte le sue scelte e le sue azioni da queste verità, da questo
oltre che Pirandello chiamerà altrove che in realtà permea tutta la realtà del suo stesso io. Le certezze crollano tutte quante in un
solo momento, esattamente come sono crollate a tutte le certezze dell'uomo.

3) La lanterninosofia.
L'altra riflessione importante è quella sulla lanterninosofia: quella verità, quell’ oltre che c'è al di là di quel poco che possiamo vedere
in noi. Oltre a noi, c'è tutto un buio, qualcosa che non possiamo conoscere e che in verità è la sostanza di tutta la realtà, inconoscibile
e indefinibile e insensata per il Pirandello del Fu Mattia Pascal. È un discorso complesso, che ha tanti punti in comune con le domande
dell’uomo moderno che esplodono in maniera altrettanto umoristica nel romanzo di Svevo e che verranno portate avanti nei modi
più vari anche negli altri romanzi e nella novellistica: Pirandello scrive più di 200 novelle che poi raccoglie nelle Novelle per un anno.
Romanzo Uno, Nessuno, Centomila.
Arriviamo poi al romanzo finale “Uno, nessuno, centomila” in cui capiamo già dal titolo come questa frantumazione dell’io viene data per
scontata, quella frantumazione che aveva portato Mattia Pascal a diventare l’ombra di se stesso: l’io è completamente esploso anche nel
romanzo di Pirandello. Anche qui la struttura del romanzo salta in area perché l’inizio del racconto è altrettanto umoristico e paradossale: il
protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre un bel giorno che la moglie ha sempre pensato che avesse questo naso che pende da una parte e inizia
poi ad elencare una serie di difetti che lui non ha mai visto o pensato d’avere. Da questa banale osservazione della moglie scaturisce la crisi
totale, esistenziale e gnoseologica di questo personaggio che non solo capisce che il mondo e la società lo guardano facendone un personaggio
che non coincide con la sua persona ma poi piano piano scopre che non esiste una persona e neanche il personaggio e che lui non solo non è uno
solo, non è neanche nessuno. Questo è il momento negativo (corrisponde all’ombra del Mattia Pascal). Ma ecco l’approdo finale, non solo del
romanzo ma di tutta la visione del mondo assolutamente novecentesca di Pirandello: Vitangelo scopre di essere centomila possibili persone. E
questo non è solo un riscontro negativo è anche un risvolto liberatorio, vitalistico. Alla fine di questo romanzo, questo rinascere ogni secondo,
questo essere centomila e più persone in ogni secondo, perché ci si lascia andare al flusso della vita, della vitalità e della natura, in realtà è una
grandissima scappatoia, è un momento vitalistico non solo mortuario del fu Mattia Pascal.
l’elemento vitalistico è un elemento che possiamo definire Bergsoniano, filosofo dello slancio vitale che ha enorme successo in Italia.
Il non essere il personaggio che la società pensa, non essere neanche una persona come lui pensava, ma essere centomila persone è anche una
possibilità di rinascere ogni secondo, sempre nuovo, sempre con una nuova identità. E questo elemento vitalistico è associato all’interno di
questo romanzo ad un’altra tematica pirandelliana, non solo dei romanzi e novelle ma anche nel teatro che è il tema della follia: Vitangelo
Moscarda deciderà ad un certo punto di essere folle, per liberarsi completamente dalla rete borghese che lo aggroviglia e condiziona nella sua
vita all’interno di questa società. Lo crederanno pazzo e così gli toglieranno anche gli affari di famiglia. Questo tema, la libertà del folle, è molto
caro a Pirandello, soprattutto nel teatro tant’è che lo troviamo al centro di uno dei suoi drammi più riusciti che è l’Enrico IV.
Il teatro di Pirandello
Parlando di teatro, sappiamo che il momento di svolta è negli stessi anni in cui esce Uno, nessuno, centomila e capiamo perché ci sono tanti
rapporti tra il romanziere, il novelliere e l’uomo di teatro: ci sarà tutto il rapporto tra persona e personaggio – vita (che non può essere
ingabbiata) e forma Che la società ci impone). Questi sono i temi chiave del teatro fino ad arrivare ad un teatro con una fortissima connotazione
meta teatrale, che riflette sulla stessa identità di fare teatro e dei personaggi teatrali che addirittura si mettono in scena e parlano come fossero
persone, quindi si capovolge il rapporto tra persona e personaggio e il personaggio si fa volutamente persona : è ciò che troviamo nell’opera
teatrale “sei personaggi in cerca d’autore”. La meta teatralità diventa un altro elemento fondamentale e modernista, così come la meta
narratività, cioè il parlare nella narrativa, di cos’è la narrativa, saranno elementi modernisti e protagonisti della produzione teatrale di Pirandello
che arriverà fino agli esiti quasi di tipo surrealistico dell’ultimissimo incompiuto “I giganti delle montagne” che ha come pendant anche l’ultima

14 le imputazioni della chiesa contro l'eliocentrismo avevano basi religiose importanti come il vecchio testamento. la Bibbia quindi
la religione ebraica e cristiana avevano tramandato l'idea che il sole si muovesse e quindi che la terra stesse ferma.
produzione novellistica di Pirandello che approda ad un territorio che è quasi del surreale: quell’oltre, di cui parlava già nel Mattia Pascal, diventa
il protagonista del suo stesso teatro che riflette anche su stesso. La meta teatralità è la quint’essenza del teatro di Pirandello con toni surreali.
L’oltre, l’ignoto che circonda quel poco di luce che vediamo (la famosa lanterninosofia) alla fine è al centro del suo migliore teatro, intreccio
fortissimo tra narrativa ed esplosione del teatro, in particolare negli anni 20 di Pirandello.
Ci dedichiamo alla parte finale del romanzo “Uno, nessuno, centomila”. Il folle o presunto tale Vitangelo Moscarda dirà la sua grande verità.
la vita non conclude.
La città15 è lontana.16 Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per
sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso,
pesanti e così alte sui campanili aerei. 17Pensare alla morte, pregare.18 C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane.19 Io non l’ho più
questo bisogno; perché muojo ogni attimo20, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.21

Pirandello.
 L’umorismo: saggio del 1908
 Il Fu Mattia Pascal:
1) premessa filosofica seconda a mo di scusa
2) strappo nel cielo di carta
3) la lanterninosofia
 Uno, nessuno, centomila.
Il teatro:
 Sei personaggi in certa d’autore: la meta teatralità
 I giganti delle montagne: toni quasi surreali

Lezione 3 – 22 marzo
Avevamo introdotto il discorso sul romanzo del 900 con il modernismo di Svevo e Pirandello dicendo però subito che la sacra triade del
modernismo fino agli anni 20 è formata anche da un altro autore che è diventato un classico pian piano: Tozzi.

Federico Tozzi
Autore molto particolare, che viene dalla provincia letteraria italiana di Siena del primissimo 900, particolarmente toccata da forme di
municipalismo ristretto e offuscata totalmente dall’importanza, dal peso e dalle aperture culturali e letterarie di Firenze e di altri centri culturali
come Pisa. Siena fa parte proprio della provincia campagnola, in cui la ricchezza è fondata sul latifondo, con proprietari terrieri o piccolissima
borghesia municipale: proprio da qui viene fuori uno degli autori di punta del modernismo italiano e se vogliamo usare una poetica più facile da
usare possiamo far riferimento all’espressionismo italiano.
Con Svevo e Pirandello avevamo detto che il modernismo del romanzo europeo era presente nelle loro opere. Questo modernismo europeo,
caratterizzato da tutto ciò che ha a che fare con autori come Joice, Wolf e Kafka, autori che smembrano l idea tradizionale di romanzo anche
grazie a spinte fortissime non solo della letteratura ma anche del pensiero e della filosofia della scienza moderna, si associa con più difficoltà a
Tozzi che esprime nella sua narrativa l’ambiente provinciale, ristretto, ottuso, piccolo borghese di Siena. E questo sconvolge un po’ i parametri
del modernismo: non c’è la modernità che irrompe nel romanzo, come in Svevo e Pirandello soprattutto nell’ambientazione che rimane
provinciale, italiana e agricola e però Tozzi effettivamente crea una narrativa che sconvolge i canoni del discorso verista a cui pure si ispira –
verismo tardo ottocentesco e Verga, uno dei suoi punti di riferimento perché come Verga parlava dei pescatori o del piccolo arrampicatore
sociale Mastro don Gesualdo così l’ambiente descritto da Tozzi è quello della piccola borghesia senese molto ristretta culturalmente e del
latifondo, un sistema economico e sociale basato su un modello abbastanza sorpassato nel resto d’Europa. Nel racconto di questi piccoli

15 La città è il luogo dell’alienazione per eccellenza, in tutta la narrativa di tutto il 900.

16 Lui si è rifugiato in un ospizio, da lui stesso fondato con i tanti soldi della propria famiglia.

1717 Quello che era un suono tipicamente cittadino, adesso ha acquisito una valenza di libertà che richiama quanto di più naturale
e vitale ci sia. Una musica che freme di gioia: elemento vitalistico che prende il posto di quello alienato di Vitangelo Moscarda.

18 Diventa pura riflessione.

19 Da essere un personaggio insulso diventa un personaggio filosofo, per questo ritenuto folle dagli altri.

20 Ha superato la frase riflessiva dell’uno, nessuno.

21 Ogni elemento della natura, vitalistico, in cui si può immergere libero da qualsiasi identità forte gli da la possibilità di morire e
rinascere ogni secondo, incessantemente. Questo è lo scatto vitalistico che non avevamo né nel Fu Mattia Pascal, né in altri romanzi
interessanti sui quali lui lavora a lungo, come i “Quaderni di Serafino Gubbio” molto sperimentale a livello della struttura. Sono
annotazioni di questo operatore cinematografico che sostanzialmente si è completamente perso nella macchina. L’uomo,
attraverso l’alienazione tecnologica, anche nel cinema, si è fatto macchina. Il momento liberatorio è quello che arriva con l’ultimo
romanzo che corrisponde con l’immergersi nella natura in ogni attimo. Morire e rinascere di nuovo, nuovo e senza ricordi.
personaggi della realtà sociale di Siena, nella quale trovano ambientazione tutti i suoi romanzi, irrompe un elemento fortemente disgregante che
può essere definito espressionista.

Espressionismo: grande avanguardia europea dell’arte e della letteratura, al cui centro c’è sia il
rapporto stravolto tra io e mondo che non dialogano e non vivono più in armonia e sia anche il
rapporto tra io e subconscio – parte nascosta dell’io. L’elemento psicanalitico irrompe.

Tutto questo porta non soltanto a formulare tematiche del tipo: scontro tra io e mondo; mondo disgregato; io disgregato ma a creare uno stile e
una lingua che possiamo definire espressionistici.
Che vuol dire?

Con espressionismo in campo letterario indichiamo, per esempio, la centralità dell’atto – il verbo diventa la parte forte, espressiva della
scrittura scalzando l’aggettivazione, tutto ciò che è riferito ai sostantivi, un verbo che indica sempre uno scontro o una lacerazione. Uno stile
può definirsi espressionista quando il minimo dettaglio occupa tutto il racconto, può essere un dettaglio minimo, apparentemente irrilevante
che a che fare con un particolare del personaggio (ricordiamo il naso di Moscarda). Un elemento del tutto secondario dei personaggi di cui si
parla che diventa il centro del racconto o anche l’elemento apparentemente irrilevante del mondo circostante, dell’ambiente sociale, della
provincia arretrata come Siena. Quindi abbiamo il particolare che sfonda la pagina e diventa il centro della pagina rispetto al tutto perché
l’armonia del tutto non esiste più, in un’estetica espressionista.

Tutto questo irrompe in maniera brusca: stile e lingua risultano molto ruvidi. Tozzi proviene da una famiglia piccolo borghese – il padre ha una
trattoria e un po' di terra - e questo mondo arretrato e violento diventa il centro del suo racconto. Nella sua narrazione Tozzi mette al centro
(com’è accaduto con Svevo e Pirandello) lo scontro e l’incomprensione tra questo mondo quadrato, molto sicuro di sé, che è il mondo
provinciale – ottuso rappresentato dalla figura paterna e un io filiale che viene schiacciato dalla figura paterna e che non riesce a trovare una
sua dimensione e una sua pienezza. Anche in Tozzi troviamo la figura dell’inetto, di colui che è totalmente schiacciato, in questo caso particolare
in maniera maniacale e ossessiva (elemento autobiografico forte) da questa figura ingombrante e brutale: il padre, che nel romanzo sempre si
scontra con il figlio, soprattutto quando troviamo la figura dello scrittore, che viene disprezzato e considerato fannullone dal padre che si è
sudato le sue ricchezze ed è orgoglioso della sua posizione sociale, raggiunta con i denti e con la forza e che viene rappresentata sempre non
solo nei romanzi ma anche nei racconti di Tozzi con un forte sostrato psicanalitico.

Tozzi ha una formazione da autodidatta, legge moltissimo, si apre a quanto c’è di più moderno in campo filosofico e psicanalitico: legge Freud,
William James - importante filosofo che fonda una delle avanguardie più importanti del primo 900: la filosofia del pragmatismo – con l’idea della
discontinuità dell’io, la discontinuità del rapporto con il reale, la discontinuità del rapporto con il tempo che non è più lineare. Tutto questo entra
nel bagaglio culturale di Tozzi e viene riversato nei suoi romanzi e nei suoi racconti. Tozzi rimarrà un emarginato finche è in vita. La sua vera
gloria è stata tutta post mortem: è stato recuperato da alcuni critici contemporanei come Luperini che ne ha messo al centro, partendo da una
posizione geografico culturale periferica come quella senese, la radicale forza innovativa in campo narrativo. Muore negli anni ’20 ma soltanto a
partire dagli anni 70 comincia ad essere considerato anche a livello accademico. Adesso difficilmente si potrebbe contestare la sua importanza e
la novità che ha portato con sé nel campo della narrativa e del romanzo.

I ROMANZI
Con gli occhi chiusi  ciò che non si riesce a vedere di sé e del mondo. Romanzo dalla forte valenza autobiografica che già dal titolo ci fa capire
l’impianto sensibile alle istanze psicanalitiche.
Il podere e Le tre croci  romanzi che indicano il legame fortissimo con la terra, il podere. Ciò che veniva espresso nei Malavoglia con la barca e
il fallimentare commercio dei lupini qui viene espresso attraverso il riferimento alla terra e alla ricchezza che ne deriva. In particolare, nelle Tre
croci troviamo tre figure di inetti, fratelli fallimentari che non riescono a riprodurre la semplice forza brutale della generazione precedente.
Ma non abbiamo solo il rapporto conflittuale, l’incapacità di vedere e di capire sé stessi e gli altri del primo romanzo “gli occhi chiusi” né questo
rapporto veristico con il possesso della terra e l’incapacità di adeguarsi ad una vita di valori piccolo borghesi in cui non ci si riconosce ma che
viene vissuto dai personaggi con un senso di colpa, come se si fosse inadeguati, incapaci, non all’altezza delle richieste paterne. Nè troviamo
soltanto figure di inetti, come quelle dei tre fratelli al centro del romanzo delle tre croci. Non c’è solo questo.
In quale opera esplode l’espressionismo di Tozzi? In Bestie, particolare operetta che vede una sorta di galleria di situazioni da cui all’improvviso,
alla fine, sbuca una figura di animale, come nei bestiari medievali. Non sappiamo come definire questa raccolta e già questo è un elemento di
novità e di destrutturazione: non sono semplici racconti, né un romanzo, né quadretti nel senso realistico o bucolico. Sbucano dalla pagina
situazioni in cui il particolare, un dettaglio, soprattutto del mondo circostante, occupa in maniera straniante (elemento moderno nella narrativa
di Tozzi) tutta la pagina, a cui, in una maniera ancora più straniante viene associata quasi sempre bruscamente, alla fine, l’immagine di
un’animale che in maniera ancora più straniante, dovrebbe richiamare un’antichissima e nobile tradizione come quella dei bestiari che in Tozzi
però non ha nessuna verità morale condivisa da affermare.

I bestiari medievali associavano sempre all’animale delle qualità morali che facevano parte di un bagaglio culturale condiviso: il lupo, la volpe
ecc.. In Tozzi non c’è più un allegorismo moderno, che veicola, attraverso le figure degli animali, dei significati morali trasmettibili al pubblico.
Alla fine, il particolare è il tutto, non c’è più un tutto organico o condiviso da una cultura in senso universale.

Ricordiamo che Svevo, dopo l’insuccesso dei suoi primi due romanzi, deciderà di dedicarsi per un periodo al commercio. Pirandello entrerà in
conflitto con il mondo tradizionale della provincia agrigentina. Stessa cosa farà Tozzi: entrerà in un conflitto brutale con il mondo rurale e piccolo
borghese da cui proviene e in questo supera i suoi maestri (non in senso qualitativo ma in senso storico culturale). Il verismo da cui parte porta
ad uno sconvolgimento espressionistico.
Tozzi da prime idee socialiste diventerà un cattolico reazionario fortissimo, con posizioni fortemente conservatrici che non lo aiutano certamente
a essere amato, apprezzato e conosciuto da tutto il fronte più aperto della letteratura anche nel ventennio fascista quella che riesce a filtrare,
nonostante la censura antifrancese, antinglese e antiamericana. Tozzi ha vita dura perché sposerà in pieno posizioni ideologiche fortemente
reazionarie, conservatrici e di un cattolicesimo chiuso e questo complicherà la sua fortuna. Ma alla fine a questo serve la periodizzazione
letteraria e l’idea di canone è un’idea molto mobile: Tozzi è entrato nel canone della narrativa moderna del 900 soprattutto a partire dal
dopoguerra, nonostante alcune letture lungimiranti. E fa sorridere che proprio Luperini, con una militanza fortemente orientata a sinistra, sia
stato uno degli scopritori di questo scrittore ideologicamente molto particolare.

BRANI ANALIZZATI
Con gli occhi chiusi
Due passi dal romanzo Con gli occhi chiusi in cui il protagonista, con forte caratterizzazioni autobiografiche, è l’inetto, il perdente che entra in
collisione con il padre e non solo con il padre ma anche con una figura femminile, con l’alter ego, con questa figura molto conturbante, molto
seducente che lo fa soggiacere. Il protagonista è totalmente nelle mani di questa Ghisola, contadina che riesce a giocare con la sua passione e
riesce a schiacciare con la sua forza brutale e sensuale il protagonista totalmente inadatto alla vita. Questo è un elemento fortemente
psicanalitico: non solo il rapporto difficile e irrisolto con la figura edipica del padre ma anche con la figura femminile.
1) Analizziamo un passo al cui centro c’è la figura di Ghisola, contadina, ispirata ad un amore reale e tormentatissimo di Tozzi per questa
contadina, Isola, che l’ha tenuto in gioco. Ci interessa evidenziare una serie di elementi espressionistici.
Nel racconto espressionistico:
 non c’è una correlazione razionale di causa – effetto, di ciò che viene detto, di ciò che succede, di ciò che viene raccontato.
 Salta il legame logico di conoscenza e descrizione del mondo, tipico del romanzo realista ottocentesco.
 Un particolare, molto spesso strano e estraniante, viene messo in luce più di altri elementi – ad esempio attinenti ai personaggi. Il
particolare espressionista occupa in maniera esorbitante la pagina.
 l’elemento di violenza tra i personaggi e la realtà e tra i vari personaggi.
Questo brano è un quadretto: l’idea di Tozzi è quella di partire da bozzetti realistici ti tipo naturalistico veristico della sua provincia. Si
ispira quindi, in questo caso, al migliore realismo/naturalismo francese e verismo siciliano. Ma vediamo come viene stravolto questo
principio naturalistico e veristico.
Troviamo due figure rozze del mondo contadino senese, due donne che sono al centro di quest’immagine, Orsola e Masa, ma
Masa, essendosi capovolto il suo lume ad olio, perché il chiodo era venuto via,
attendeva che le accadesse una disgrazia.22
Questa specie di focalizzazione tutta su un elemento minimo, il chiodo, viene accompagnata dall’idea, pseudo razionale di causa effetto
cioè che con il versare dell’olio stesse per arrivare una sciagura. Qual è l’elemento interessante? Che credere ad una credenza è un
modo molto tozziano, provinciale, di rappresentare qualcosa che è molto moderno, è molto novecentesco, è molto all’avanguardia. Il
rapporto causa – effetto salta: e Tozzi non lo fa saltare come fanno Joice, la Wolf o Kafka ma lo fa mettendo al centro qualcosa che è
vicino al mondo contadino e tradizionale, quindi apparentemente lontano da una politica moderna e espressionista. Causa ed effetto
saltano non per principi filosofici ma perché è una credenza popolare, quella che afferma che versare l’olio porta disgrazie, facendo
quindi saltare qualsiasi razionalità nel principio di causa – effetto.
Tutto ciò che è moderno è stato valorizzato dalla critica e dai lettori in Tozzi perché creduto moderno. In realtà tutto questo affonda le
sue radici in un mondo assolutamente retrogrado, provinciale come quello del contado senese. Anche quando fa saltare il rapporto
causa effetto, elemento molto moderno, in realtà affonda le sue radici nel mondo più tradizionale e arretrato.
2) Si sedé sul focolare spento, la cui pietra era ancora calda23; torcendosi le mani dentro le sottane affondate tra le cosce, stropicciandosi
le ciglia, toccandosi lo stomaco dove sentiva un grande ingombro.
Questo è un brevissimo squarcio narrativo espressionistico:
 Abbiamo l’elemento non necessario, che viene sottolineato: la pietra è ancora calda. Non ha nessuna influenza sulla narrazione.
 Abbiamo una serie di elementi verbali che concentrano tutta l’azione narrativa, in un verbo che ha a che fare con qualcosa di
violento o dissonante o comunque non armonico e piacevole.
Torcere le mani: torcere è un verbo espressionistico, da l’idea di violenza.
Le sottane affondate tra le cosce: non sono ripiegate ma affondano, altro verbo molto forte, che esprime qualcosa attraverso la
violenza.
stropicciandosi le ciglia: altro verbo violento
grande ingombro nello stomaco: è un io che anche fisicamente ha qualcosa che non va, qualcosa che non esprime armonia ma
dissonanza rispetto al reale.
Sono tre righe in cui abbiamo l’espressionismo tipico di questo Tozzi, pur restando all’interno della narrazione tardo verista. I
personaggi sono molto semplici, primitivi.
3) Specie di battibecco tra i personaggi di Masa e Orsola e alla fine Masa dice
Gli avrebbe tirato uno schiaffo: ancora una volta i due personaggi femminili sono richiamati attraverso un’azione violenta. Troviamo

22 Qui il rapporto di causalità, il rapporto causa – effetto è saltato. Sappiamo solo che si è capovolto (movimento brusco,
espressionistico) un lume ad olio. Al centro di quest’immagine c’è non tanto Masa, non tanto il lume ad olio ma il chiodo. Ancora
una volta è un particolare, come nella pittura espressionista, a diventare l’elemento centrale di tutto il racconto.

23 Elemento che sarebbe inutile nel racconto.


Masa associata a verbi, che sono il centro del romanzo espressionista, che creano quest’idea, spesso sonora, di qualcosa di violento.
Masa si sdrusciò con il palmo di una mano una guancia sdrusciare, termine senese che indica un movimento. Qualcosa di disarmonico
e violento. Da Dante dell’Inferno in poi, alcuni verbi vengono detti espressionistici in senso metatemporale: sono i verbi che hanno la S
come prefissoide e che indicano violenza, disarmonia.
Orsola si grattò il petto  anche qui grattare il petto, altra immagine disarmonica
smuovendo con il pugno tutto il giacchetto dinanzi.--> smuovendo ha la S come prefissoide.
Ancora una volta due righe che attraverso i verbi, indicano immagini e stile espressionistico.
4) Subito dopo entra in scena Ghisola, la giovane contadina che fa invaghire l’inetto. Ghisola è chiaramente legata ad atteggiamenti di
sadismo: ancora una volta una componente psicanalitica messa a fuoco da Tozzi. Come fa Tozzi a farci capire il sadismo di Ghisola, prima
ancora di illustrarci il rapporto complicato tra lei e il protagonista? Attraverso queste righe.
E non volle entrare, in camera al buio a cambiarsi il grembiule.
Ma avendo preso, su un pioppo dove s'era arrampicata da sé, un nido con cinque passerotti, 24se lo mise su le ginocchia;25 e cominciò a
riempire di briciole le loro bocche spalancate26. Li voleva far crescere27; ma invece le venne voglia di ucciderli, eccitata dal suo terrore.
Qualcuno chiudeva gli occhi; un altro all'improvviso alzava le ali, e invece ricadeva; sotto, uno pigolava sempre di seguito.
Ci sono quindi i piccoli degli uccellini e lei li nutre: è un’immagine dolce, lei ci sembra una simpatica contadinella. Subito dopo, grazie
anche alla velocità dello stile di Tozzi, emerge tutta la brutalità. La pulsione di vita diventa una pulsione di morte, pura pulsione sadica.
Notiamo la bravura narrativa di Tozzi che introduce la figura che sembra quasi spaventata dal buio e per questo sale sull’albero, dove
trova i passerotti che comincerà a nutrire. E proprio in quel momento viene fuori la sua pulsione sadica, di violenza e di morte. Stessa
pulsione sadica, contrapposta quindi all’eros vitale, è quella che avrà nei confronti sia del protagonista inetto che da una parte viene
schiacciato e giudicato dalla contadina, e questo fa sviluppare nell’inetto il senso di colpa e sia nei confronti del mondo circostante.
5) Altro passo importante è quello che mette al centro il rapporto tra il protagonista Pietro e il padre, dalla connotazione fortemente
autobiografica. (è il capitolo XXIV)
Pietro,28 gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico29 un senso d'avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile
agli interessi; come un idiota qualunque! --> già in queste pochissime righe esplode la violenza di questo rapporto edipico terribile tra
padre e figlio.
Troviamo l’elemento verghiano dell’interesse per la roba, pulsione che porterà i personaggi di Verga alla distruzione.
altro elemento che va oltre il verismo e il naturalismo tardo ottocentesco è questo: Ora lo considerava.. come un idiota qualunque! È
una forma spinta al massimo, in avanti, di indiretto libero, che usa moltissimo Tozzi, fino ad arrivare ad un vero e proprio monologo
interiore. il pensiero espressionistico del padre, soprattutto quello violento, non viene tradotto dal narratore ma viene buttato con la
sua violenza e con la sua brutalità attraverso l’indiretto libero che in alcuni passi può diventare monologo interiore. Come un’idiota
qualunque  nella sua violenza terribile viene buttato lì, con un punto esclamativo finale che rafforza la violenza di questo pensiero.
Toccava il suo collo esile, con un dito sopra le venature troppo visibili e lisce;
e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una colpa.--> Abbiamo un trattato di Freud riassunto in
un rigo. Ancora una volta vediamo la forza e la ruvidezza della parola di Tozzi. Pietro avverte già da piccolo l’avversione del padre e per
questo abbassa gli occhi, in segno di sottomissione, come a chiedere perdono, come se fosse una colpa: è il senso di colpa del figlio che
si sente inadeguato rispetto alla figura paterna, che è quella della legge.
Ma questa docilità, che fuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico.  Domenico avrebbe voluto che il figlio gli si contrapponesse
con violenza. Con il suo atteggiamento remissivo, faceva arrabbiare ancora di più suo padre.
E gli veniva voglia di canzonarlo.--> è terribile. Un padre che sente avversione verso il figlio, a causa della sua docilità, è quasi spinto a
volersi prendere gioco di lui.
Quei libri!  introduzione dell’indiretto libero
Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva30 in
faccia.. Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato da mangiare a credito.31E intanto Pietro gli
aveva fatto spendere le tasse tre anni di seguito per la scuola tecnica! Dopo averlo guardato, a lungo, su un orecchio o su

24 Immagine apparentemente bucolica, idilliaca.

25 Tozzi ci fa arrivare al sadismo piano piano. Sembra un gesto delicato, femmineo.

26 Elemento espressionistico. Non dice bocca aperta ma spalancata.

27 Participio passato: verbo espressionistico.

28 Protagonista

29 È il padre che da sempre ha questo figlioletto piccolo, gracile e prova avversione verso di lui.

30 Violenza verbale. Sono pensieri che vengono dal padre. Non filtrati dalla pulitura dello scrittore.

31 Il padre ha un’osteria, sia nel romanzo che nella realtà. Per lui lo scrittore è un truffatore al quale non avrebbe dato neanche da
mangiare a debito.
la nuca debole e vuota, faceva gesti belluini32, mordendosi il labbro di
sotto, piantando all'improvviso un coltello sulla tavola e smettendo di mangiare.--> la sua rabbia repressa, a causa del figlio, viene fuori
nel gesto bestiale di piantare il coltello violentemente sulla tavola.
Pietro stava zitto e dimesso33; ma non gli obbediva.34 Si tratteneva meno che gli fosse possibile in casa35; e, quando per
la scuola aveva bisogno di soldi, aspettava che ci fosse qualche avventore di quelli più ragguardevoli; dinanzi al
quale Domenico non diceva di no.36Aveva trovato modo di resistere, subendo tutto senza mai fiatare.37 E la scuola allora gli parve più
che altro un pretesto, per star lontano dalla trattoria. Trovando negli occhi del padre un'ostilità ironica38, non si provava né meno
a chiedergli un poco d'affetto.
Ma come avrebbe potuto sottrarsi a lui? 39Bastava uno sguardo meno impaurito, perché gli mettesse un pugno su la faccia,
un pugno capace d'alzare un barile.40 E siccome alcune volte Pietro sorrideva tremando e diceva: «Ma io sarò forte quanto
te!»41 Domenico gli gridava con una voce che nessun altro aveva: «Tu?». Pietro, piegando la testa, allontanava pian piano quel pugno,
con ribrezzo ed ammirazione.42
E questi personaggi sono tutti con gli occhi chiusi: il padre perché non riesce a vedere nessun mondo diverso dal suo ma anche il figlio. Tutti
hanno gli occhi chiusi: elemento molto moderno, espressionistico. Siamo entro gli anni 20 e nella provincia senese la psicanalisi è riuscita ad
arrivare anche nelle pagine di questo scrittore. Il senso di inettitudine ma anche il tentativo di rivalsa, che puntualmente finisce in una perdita,
sono al centro del racconto moderno, della narrativa espressionistica di Tozzi.
BESTIE
Analizziamo un passo di questa raccolta che anticipa i romanzi. Questa raccolta è assolutamente moderna: prima si parlava non tanto di
espressionismo e modernismo ma di frammentismo. E capiremo perché il frammento, la parte, diventerà il tutto del racconto.
1) In questo caso, il bestiario è fondato sull’ immagine del maggiolino. Troveremo e riconosceremo dei meccanismi che abbiamo già
ritrovato nel personaggio di Ghisola: inizialmente avremo in questi squarci una descrizione bucolica, con ambiente campestre della
provincia senese ma alla fine, quella che sembra una scrittura narrativa originale e che sembra rientrare nel canone di una scrittura
campestre in verità rompe gli argini del 900.
Maggiolino
La primavera è proprio da per tutto, anche dove non ce n'è bisogno.43 Anche tra i sassi del muro franato l'erba è voluta crescere. 44 Per i
sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l'ascia45, con un'ambizione di farsi vedere che pare perfino
ingenua46. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a

32 Gesti bestiali: il padre è sempre associato più alle bestie che agli esseri umani.

33 Io del protagonista: inetto e inadeguato.

34 Continua a fare ciò che vorrebbe

35 Cerca di sfuggire al padre

36 Quando aveva bisogno di soldi per la scuola, aspettava ci fosse qualche cliente importante del padre. In questo modo il padre
non gli avrebbe detto di no.

37 Tutta l’inettitudine racchiusa in un solo rigo. Il suo modo di resistere è quello di subire senza opporsi. E questo fa arrabbiare
ancora di più suo padre.

38 Il padre è ostile ma nello stesso tempo si prende gioco di lui

39 discorso indiretto libero.

40 Padre capace di sfogare tutta la sua violenza nei confronti del figlio.

41 Il protagonista cerca di rovesciare la sua debolezza che non può essere all’altezza della fisicità violenta del padre, delle volte
dicendoglielo anche in maniera provocatoria.

42 Altro trattato Freudiano: allontana il pugno violento del padre, con disprezzo proprio perché c’è repulsione verso la figura
paterna e con ammirazione. Abbiamo la sconfitta del figlio.

43 Arrivo della primavera: quanto di più rasserenante e vitalistico ci possa essere.

44 Volontà di rinascita

45 Troviamo già qualcosa di violento ed espressionistico. Serpeggia una natura toccata già toccata da forme di violenza.

46 Elemento espressionistico: come se, elementi inanimati della natura, presentassero caratteristiche umane. È un
antropomorfizzazione della realtà.
posta47. C'è uno sciupio di gemme48 e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La
primavera in tutti gli stili, perfino roccocò49; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad
essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell'occhio 50; e gli stessi prati si sono lisciati con la
rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i
costi, e ci si avvicina a loro per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì un poco rintontito 51, quasi non sapesse che fare,
e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è modo, del resto, per tutti di far qualche cosa.
Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto?
Sembra che tutti gli elementi della natura vogliano mettersi in mostra a tutti i costi. Quindi abbiamo uno squarcio bucolico, primaverile,
apparentemente parte di una scrittura idillica che ha secoli di tradizione alle spalle, con elementi particolari proprio perché gli elementi
della natura si antropomorfizzano e alla fine, all’improvviso, in maniera brutale, cosa viene fuori? Un maggiolino morto, elemento di
violenza e morte, fortemente espressionistico. Ma soprattutto è la domanda di un narratore, anonimo, che rimane senza risposta. Che
senso ha questo quadretto? Ovviamente non abbiamo risposta, proprio perché quadretto espressionistico.
Bestie è un’opera strana e non soltanto perché butta all’aria la tradizione dei bestiari. È strana perchè non sappiamo neanche come
definirla. Sono squarci di un mondo naturale e bestiale che portano più inquietudine che immagini idilliache e naturali, secondo la
tradizione bucolica.

ALBERTO MORAVIA
Lasciamo la triade espressionistica del primissimo 900 per entrare in un decennio nuovo. Ci siamo fermati con Svevo, Pirandello e Tozzi intorno al
’25. Con Moravia e soprattutto con il suo romanzo epocale Gli Indifferenti, che esce tra il 29 e il 30, cambia tutto. In cosa? Nella scrittura, nelle
scelte stilistiche, nella scelta di campo militante dello scrittore. Con Moravia ci spostiamo su Roma, che diventerà una capitale letteraria e
culturale, soprattutto dagli anni 30 in poi e con la Dolce Vita dagli anni 50. Firenze cederà, almeno in parte, il passo, soprattutto nel campo della
narrativa.
A Roma quindi avremo Moravia ma anche tanti altri scrittori non romani, come ad esempio il Milanese Gadda, che si stabiliranno in questa città
che soprattutto nel dopo guerra diventa capitale culturale, artistica, intellettuale d’Italia, un vero e proprio polo di attrazione. E questo avrà
valenza anche nella poesia.

Lezione 4 -23 marzo


Con Tozzi, Svevo e Pirandello ci si ferma ai primi anni 20 del 900, e si delineano con loro i caratteri fondamentali del possibile modernismo
italiano.

Alberto Moravia
Nella periodizzazione, che non è mai assoluta ed è un po’ convenzionale, la fine del periodo sperimentale e intenso, anche per la narrativa, fino
alla metà degli anni 20, viene chiuso (almeno per coloro che leggono la prima metà del 900 sotto la luce di questo modernismo) dall’apparire nel
29 e nel 30 del primo romanzo di ALBERTO MORAVIA ‘’Gli Indifferenti’’. Secondo una periodizzazione (che poi cambierà con il passerà del
tempo, ma è ancora valida criticamente) con ‘’Gli indifferenti’’ del 1929 si può dire che si chiude il periodo di radicare sperimentalismo anche nel
romanzo e nella narrativa, ciò vale per le novelle anche di Pirandello e di Svevo, ma anche per le ‘’Bestie’’ di Tozzi.

ROMANZO: ‘’Gli indifferenti’’, 1929

È un romanzo di Moravia giovane (nato nel 1907, quindi è un ventenne quando scrive questo romanzo).
Questo romanzo segna, vedendo gli anni successivi del periodo bellico e post-bellico, l’inizio di ciò che viene identificato tutt’ora come un
RECUPERO di una forte matrice realista nel romanzo italiano sia nella forma che nel linguaggio, che viene solitamente indicato come
NEOREALISMO (per distinguerlo dalla matrice del realismo ottocentesco, a cui si ispira molto).

Cosa si intende per neorealismo e perchè questo romanzo di Moravia è uno spartiacque?
Nel romanzo ‘’Gli Indifferenti’’ si ha un quadretto, anche a livello di scrittura e di stile apparentemente lineare e realistico.
Si ha un ritratto in realtà impietoso della borghesia italiana, in particolare della borghesia romana. Il tema dell’attacco frontale, anche se apparentemente
molto composto, quasi asettico, quasi grigio nel registro e nello stile, sarà uno dei motivi chiave di tutta la produzione narrativa di Moravia.

Moravia muore nel 1990 e ha avuto una produzione molto ricca a livello sia di romanzi, sia di racconti romani (hanno molto successo) e sia di
saggista. È considerato uno degli intellettuali, degli scrittori più importanti e più impegnati del nostro dopoguerra, perchè tra il 50 e la sua morte
(40 anni dopo) Moravia diventa LA figura centrale non solo nel romanzo italiano ma anche degli intellettuali italiani.

47 Non sappiamo chi parla. Poi s’ intuisce che è un amante che ha adornato la stanza con i fiori.

48 Sciupio: numero esagerato.

49 Per esprimere una primavera e una natura in fiore, richiamano immagini dell’arte che è qualcosa di inanimato.

50 Natura con elementi antropomorfizzati. Vuol mettersi in mostra.

51 Rintontito: participio con funzione aggettivale che normalmente viene riferito ad esseri umani.
Un occhio lucido, spietato ma apparentemente sempre distaccato e con toni più grigi e monotoni che accesi; ma anche nei suoi scritti
giornalistici, da intellettuale, nei suoi tanti interventi da intellettuale e critico militante ci sarà una disamina impietosa del mondo borghese
italiano, a livello sociale, politico, economico e, altro elemento chiave che contraddistingue la sua narrativa, sessuale, della morale sessuale.
Moravia ha profonde conoscenze della psicoanalisi freudiana e il perbenismo borghese che lui attacca frontalmente ed ininterrottamente sia da
critico militante che nella sua produzione romanzesca passerà, anche e soprattutto, dal disvelamento delle ipocrisie di un’etica borghese
apparentemente perbenista, sotto la quale ci sono pulsioni erotiche e sessuale represse che poi vengono analizzate lucidamente da Moravia.

Perbenismo borghese, psicoanalisi e analisi lucida delle falsità del perbenismo borghese anche e soprattutto in chiave narrativa attraverso la
presentazione apparentemente distaccata ma impietosa della ipocrita borghesia e repressione borghese della sessualità.

VITA: La sessualità è un tema ossessivo di tutto Moravia e aggiungiamo (come succede in tutto il secondo 900) una carica di militanza critica
soggettiva (punto di vista della Chiummo): la posizione assolutamente centrale di Moravia si ha dagli anni 50 fino alla sua morte nel 1990, quindi
per un quarantennio, per quasi mezzo secolo è una figura ininterrottamente di scrittore intellettuale fondamentale. Questa posizione si è
appannata molto velocemente dopo la sua morte. Per centralità assoluta dell’intellettuale militante rimarrà l’impronta che ha avuto nel secondo
900 italiano, quella di scrittore invece è da vedere se reggerà ancora molto. Dagli anni 90 ad oggi si è cercato di rivitalizzare la fortuna critica di
Moravia ma sicuramente la sua centralità dopo gli anni 90 in poi si è andata attenuando. Quindi restiamo a vedere che ne sarà della centralità di
Moravia nel canone della tradizione del 900.

Tenuto conto anche che Moravia è stato innanzitutto il fondatore di una rivista importante, ancora tutt’ora esistente, la rivista letteraria in cui
passano i nuovi scrittori e poeti più importanti che si chiama ‘’Nuovi Argomenti’’, rivista che spiega cosa succede sul fronte contemporaneo in
letteratura e per avere una lettura critica, sempre molto militante.

Moravia ha avuto come compagnia di vita, dagli anni della seconda guerra mondiale in poi, una grandissima scrittrice che è ELSA MORANTE
(sempre parlando di punti di vista critici da dichiarare, per la prof. Chiummo, la Morante si ‘’sta mangiando’’ la centralità del consorte, di
Moravia, poiché è riconosciuta ancora di più all’estero, in Francia, ma dopo questo successo anche in Italia. Scrittrice conosciuta dagli anni 50 in
poi, ma sicuramente viveva un po' adombrata dalla figura onnipresente del marito. È una grande scrittrice, narratrice con un suo tono personale,
difficilmente incasellabile, anche con tutte le cautele, in una semplice etichetta neorealistica. ‘’l’isola di Arturo’ ’e ‘’menzogna e sortilegio’’ sono
tra le sue opere narrative più importante, a cui seguono romanzi e raccolte di racconti e mostrano come nella sua scrittura realismo ed elemento
onirico, dell’infanzia e della memoria reinventata siano difficilmente scindibili e per questo è difficile etichettarla con l’etichetta di neorealismo).

Elsa Morante viene lasciata da Moravia per la nuova compagna che è DACIA MARAINI, altra grande scrittrice, amata e celebra all’estero e poi
anche in Italia, anche lei per qualche decennio è letta e studiata più dello stesso Moravia (secondo la prof).

 Come parola chiave per capire Moravia dal 30 in poi (muore nel 90 e ha una lunga vita e carriera letteraria, continua a scrivere
ininterrottamente) è usato la possibile chiave neorealismo, cioè recupero anche delle strutture della narrazione del realismo ottocentesco, ma in
realtà è attraversato da tematiche fortemente e chiaramente novecentesche: critica radicale al perbenismo borghese e lettura psicoanalitica
della realtà e soprattutto dei personaggio al centro dei suoi romanzi. In questa lettura psicoanalitica ha una centralità assoluta la tematica
sessuale attraverso la quale non solo mette in luce i suoi personaggi ma anche la critica borghese radicale, che lui porterà ininterrottamente
avanti.

‘’Gli indifferenti’’  Morava giovanissimo esplode subito con il primo romanzo che resta il più famoso e il più letto tra i suoi romanzi, che è ‘’gli
Indifferenti’’. Si intuisce già dal titolo chi sono gli indifferenti: sono, nella fattispecie di questo romanzo, i due giovanissimi rampolli della buona
borghesia romana, che sono al centro del racconto, cioè due fratelli Michele e Carla. Però questi giovani rampolli della buona e ipocrita
borghesia romana vivono ormai con totale realtà di stacco tutta la realtà circostante e la loro stessa realtà interiore. Sono indifferenti a tutto: alla
società, all’etica borghese e anche quasi a se stessi. Vivono con noia (altra parola chiave nella narrativa di Moravia) anche il proprio obbligo di
scelte morali e sociali.

Questa ‘’poetica’’ dell’indifferenza (non è solo una tematica perché ritorna in tutta la narrativa successiva di Moravia) in realtà si sviluppa agli
albori del 900, appena si aprono gli anni 30. Siamo in piena epoca fascista e ciò è importante poiché Roma è il cuore pulsante e politico del
fascismo. Moravia è romano, si forma a Roma e racconta una borghesia romana di un’Italia pienamente fascista negli anni 30.
Questa chiave dell’indifferenza è una chiava assolutamente moderna che Moravia porta a tutto il romanzo del 900 italiano e ha ancora oggi una
forza importante e si puo' dire che ci sono stati anche recentemente dei romanzi che si sono posti in continuità con questo romanzo chiave di
Moravia:

1)In particolare un romanzo di Sandro Veronesi, scrittore tra i più importanti oggi, vincitore del premio ‘’Strega’’, che è ‘’Gli sfiorati’’ del 1990. Il
titolo chiaramente fa riferimento agli indifferenti di 60 anni prima. Gli sfiorati sono ancora una volta una generazione di giovani buoni borghesi
che non vive più con indifferenza, ma con un totale distacco che diventa, anche nel 1990, in realtà un distacco ribelle, una passività ‘’radicale’’.
Tutta la realtà è ormai totalmente borghese, non esiste più neanche il proletariato, in Italia tutto è borghesia. ‘’Gli sfiorati ’’ si riallaccia a questo
racconto moraviano, il romanzo ‘’gli indifferenti’’.

2) questa poetica dell’indifferenza arriva fino ad anni più recenti, nel 2013 esce ‘’ gli sdraiati’’ di Michele Serra in cui c’è un ritratto, ancora una
volta, dell’ultima generazione dei più giovani del 2013, che ormai vivono in totale passività e rifiuto di tutto e (novità della lettura sociologica di
Serra) rifiutano la borghesia di sinistra. Mentre Carla e Michele ‘’degli Indifferenti’’ nel 1929 sono indifferenti a tutto ciò che è la borghesia
conservatrice, piccolo borghese di epoca fascista, con Michele Serra siamo invece nella giovane generazione dei figli degli ‘’sessantottini’’. Quindi
il rifiuto ‘’degli sdraiati’’ diventa assoluto e radicale non solo a livello di tematiche ma anche a livello di sociologia.
Il romanzo ‘’gli Indifferenti’’ di Moravia crea una linea che arriva ai nostri giorni.

‘’Agostino’’  Moravia scrive poi molti romanzi, il suo successo è indiscusso anche nei decenni successivi. Anche il romanzo successivo che si
intitola ‘’Agostino’’ si concentra sulla figura e sulla tematica sessuale, quindi la difficile crescita sessuale che da Agostino, e poi Moravia, diventa
la crescita a tutti i livelli, quindi esistenziale, poi politica, sociale: tutto passa per l’eros in Moravia e secondo la lettura di Moravia della realtà e
non solo della narrativa. Con ‘’Agostino’’ la tematica della difficile crescita sessuale contro il perbenismo borghese diventa centrale: ed è IL tema
di tutta la narrativa di Moravia.

 I racconti di Moravia, in particolare i racconti romani, che verranno fuori dall’esperienza del ventennio fascista e della seconda guerra
mondiale, sono dei capolavori assoluti.

Uno è quello del ‘’la Ciociara’’: esperienza autobiografica di Moravia che, essendo di origini ebraiche (il suo cognome è Pincherle), abbandona la
Roma occupata dai nazifascisti dopo l’armistizio dell’8 settembre insieme alla compagna, poi moglie, Elsa Morante e trova rifugio, come tanti
anti-fascisti romani, nella Ciociaria, territorio che circonda Roma. Da questa esperienza deriva questo racconto in cui viene trasposta
ferocemente, nel distacco feroce della scrittura di Moravia, quella è che è stata una realtà storica sconvolgente: la violenza contro le donne,
perpetrata a livello di massa, soprattutto nella Ciociaria, e soprattutto (altro fatto scioccante) le violenze perpetrate non soltanto dai
nazifascisti ma anche dagli alleati. La Ciociaria fu un luogo di scontro feroce tra la linea che iniziava ad arretrare dei nazisti e fascisti man mano
che gli alleati avanzavano dal sud Italia. Ci fu questo periodo tra il 44 e 45 in cui la Ciociaria venne devastata da attacchi e bombardamenti, ci fu
la distruzione dell’abazia di Montecassino da parte degli alleati che tentavano di far retrocedere i nazifascisti. La Ciociaria fu centro di scontro
ferocissimo negli anni tra 43 e 45, morirono migliaia di giovani polacchi, ebrei, australiani, indiani che venivano mandati dagli alleati; finché i più
coraggiosi furono i soldati marocchini, che facevano parte dell’esercito di liberazione francese ed erano i più spavaldi. Questi riuscirono a buttare
fuori dal territorio di Cassino e Montecassino i nazisti. Però cosa terribile su cui solo negli ultimi anni si iniziato a parlare e gli storici hanno potuto
farlo anche per il silenzio della vergogna della popolazione della Ciociaria, in particolare delle donne che non hanno voluto parlare: i francesi e gli
alleati diedero carta libera alle truppe di assalto, in particolare marocchine, purché riuscissero a respingere i nazisti e fascisti al di là della linea di
confine, potevano fare cosi ciò che volevano: razzie e violenze sessuali. Ciò ha creato un trauma storico mostruoso: uno dei primi che ha
raccontato questo è stato Alberto Moravia, che lo ha visto e l’ha conosciuto perché ha vissuto in questo territorio nel periodo post armistizio.
Perciò nel ‘’la Ciociara’’ viene raccontata la violenza di questi soldati alleati contro le donne Ciociare. [dal ‘’la ciociara’’ di Moravia deriva il fil di
Sofia Loren].

 ‘’gli indifferenti’’ e ‘’la ciociara’’ sono ai vertici massimi della narrativa di Moravia. Esperienza da una parte del buon borghese romano,
Moravia stesso veniva fuori dalla buona borghesia romana; dall’altra parte l’esperienza di profugo nella campagna della Ciociaria, esperienza
reale e autobiografica di Moravia con Elsa Morante, con il racconto legato all’esperienza terribile ed è il più bel racconto, ancor prima
dell’indagine storica che sono diventate numerose recentemente perché le donne dopo la guerra non hanno voluto parlare di una vergogna
sociale quanto per le donne quante per gli uomini (ne faceva comodo a livello politico né nazionale né internazionale perché erano forze alleate,
soldati degli alleati liberatori coloro che si sono macchiati di questi orrori). Il primo a parlarne è stato Moravia, oggi invece sono presenti
numerosi saggi che trattano questo argomento (anche alcune interviste a donne anziane).

 Passi da ‘’gli indifferenti’’:

1) Passo in cui c’è il personaggio centrale, Lisa, figura di donnetta che spinge l’indifferente giovane Michele a vendicarsi del
corteggiamento e poi della tresca amorosa della sorella di Michele, Carla (altra indifferente di questo romanzo) che alla fine ha ceduto
per passività, non per vera passione, alle avance esplicite di quello che era stato l’amante di Lisa. Quindi Lisa spinge Michele (fratello di
Carla) a vendicare l’onore sacro, sporcato, della sorella.
Chiaramente dal romanzo vengono fuori l’indifferenza di Michele, che si sente spinto a dover fare questo perché l’etica piccolo
borghese lo vorrebbe, ma dall’altra parte in realtà vive con assoluto distacco questa richiesta di vendicare l’onore perduto della sorella;
tanto più Carla è un personaggio assolutamente indifferente a questo perbenismo borghese che accetta qualsiasi cosa arrivi senza
ribellarsi (non c’è ribellione né in Carla, né in Michele) in alcun modo alle spinte anche ipocrite, borghesi per esempio di questo amante
che la convince ad aver un rapporto anche carnale con lui, anche se a Carla importa ben poco di lui.
Quindi da una parte la piccolo borghese Lisa che vuole spingere Michele a pulire l’onore della sorella, ma solo perché vuole vendicarsi di
essere stata abbandonata per Carla da questo personaggio, e dall’altra e via via l’indifferenza, che diventa sempre più esplicita, di
Michele rispetto a questa vendetta sociale, che a fine anni 20 era assolutamente necessaria secondo l’ethos borghese e fascista.
-cap 14. ‘’ il corridoio oscuro era pieno di un certo odore di cucina che li parve di aver già sentito altre volte in altre case uguali’’: casa in
cui riceva Lisa. Egli è Michele, l’odore un po' di stantio, puzza di cucina lui l’ha già sentita. È un po' da casa quasi di appuntamenti.
‘’lisa stessa, evidentemente appena alzatesi da tavola, con una sigaretta tra le labbra e un aspetto tra stravolto ed eccitato’’ Lisa è colei
che si vuole vendicare dell’abbandono dell’amante. Aspetto stravolto perché è una donnetta rosa dalla rabbia per l’abbandono ed è
eccitata per la presenza di Michele, perché cercherà e riuscirà ad avere una tresca anche con il giovane Michele, sempre per vendicarsi
dell’amante che l’ha abbandonata.
‘’che le derivava forse dal molto vino bevuto’’: figura squallida.
‘’venne ad aprirgli: "Di qui... di qui" ripeté, senza rispondere al e sue parole di saluto, e lo guidò verso il boudoir’’: il boudoir è un termine
con cui si indicano i luoghi privati in queste casa di appuntamento.
‘’chiudendo sul suo passaggio delle porte aperte che rivelavano ora una camera da letto dai lenzuoli in disordine e dalla atmosfera
opaca’’: tutto questo appartamentino di questa Lisa è caratterizzato da un assoluto squallore e gli aggettivi in particolare indicano
questo squallore.
‘’ ora una nera cucinetta colma di utensili, ora il salotto già conosciuto, polveroso e oscuro. ": anche il salotto è oscuro.
…lo fa entrare e dopo poche righe c’è una descrizione in termini realistici (potrebbe essere ‘’ Flaubert’’ di Madame Bovary) e viene
brevemente descritta Lisa:
‘’ Molto infarinata’’: usa molta cipria per sembrare più giovane
‘’ Lisa indossava una vecchia, ingiallita camicetta bianca, e una gonna grigia dalla stoffa cedevole tutta sformata a forza di portarla’’:
ingiallita e grigia simbolo di squallore, tristezza. Stoffa sformata indicano i vecchi vestiti.
….va avanti con la descrizione puntuale anche dell’abbigliamento, proprio come facevano gli scrittori realisti, in particolare quelli del
migliore realismo francese come Flaubert, ai Goncourt, da cui il giovanissimo Moravia, da ragazzino malatissimo di tubercolosi che
riesce a differenza di molti a superare ma non lo supera restando chiuso nella sua camera da letto ma leggendo in maniera onnivora, in
particolare i romanzi del realismo ottocentesco. E per questo descrivere anche l’aspetto trasandato, grigio e opaco dei vestiti di Lisa.
Alla fine parla il giovane Michele:
"Va male" egli rispose alfine. "Male?". Un turbamento provocato non sapeva se dal vino bevuto o da altre cause affrettava i battiti del
cuore di Lisa, le interrompeva il respiro, e ogni tanto spingeva un fiotto di sangue sul a sua faccia grave ed eccitata:’’: eccitata da una
parte per il desiderio di vendetta verso il suo vecchio amante e dall’altra dalla pulsione erotica che provava verso il giovane Michele.
‘’E perché?". Guardava Michele e sperava che egli si ricordasse di quel baciamano del giorno prima nel 'oscurità del salotto ’’: è eccitata
anche dalle speranze sessuali ed erotiche che lei sente verso il giovane rampollo della borghesia romana.
"Non so": l’indifferente per eccellenza Michele che non sa da cosa le venga questo malessere.
‘’ Egli posò la sigaretta, fissò per un istante Lisa: "Ho pensato diverse cose... ho da dirtele?". Vide la donna fare un vivo gesto di
assentimento:’’ : la donna spera in realtà che lui voglia parlarle di un suo malessere dovuto a qualche particolare brivido erotico verso di
lei.
‘’Di' pure" e atteggiare il volto e la persona’’: sempre della donna
‘’ come chi vuol ascoltare con interesse e, si sarebbe detto, con amore:’’ cerca di irretirlo.
-… ed ecco il punto di vista chiaramente interiore, è un monologo interiore, e qui capiamo che siamo in un romanzo del 900 e non
dell’800, dove ci vengono descritti i pensieri, nascosti, di Michele:
-"Chissà cosa crede che stia per dirle" pensò con ironia,’’: ha capito benissimo. Questi giovani, tanto ‘’gli sfiorati’’ di Veronesi e ‘’gli
sdraiati’’ di Serra, tutto sono tranne che stupidi. Quindi guardano con distacco ed ironia alla generazione e alla società borghese da cui
sono venuti fuori. Michele capisce benissimo il giochino e le illusioni di Lisa. Ciò che ci interessa stilisticamente è che in questa
descrizione degli interni dei personaggi secondo canoni assolutamente realisti, del migliore realismo ottocentesco, vengono fuori le
punte chiaramente novecentesche, non solo nel tema psicoanalitico e nelle pulsioni sessuali, ma anche nella scrittura, nel riportare sulla
pagina i pensieri e l’interiorità non espressa dei personaggi.
… dopo poche righe lui cerca di farle capire in realtà che il suo malessere da cosa viene fuori:
"Debbo dirti" incominciò "che io mi trovo in una curiosa posizione di fronte a voi tutti"."Chi voi?". "Voi del a famiglia...: tu, Leo, mia
madre, mia sorella": il ruolo che gli è stato appiccicato di difensore della buona etica borghese per tutta la famiglia, gli sta stretto.
-‘’Ella lo scrutò con degli sguardi penetranti: "Anche di fronte a me?": cioè Lisa chiede se si sente a disagio anche di fronte a lei.
-‘’domandò prendendogli, come per caso, con tutta naturalezza una mano.’’: Lisa ancora cerca di sedurlo.
-‘’ Si guardarono: "Anche di fronte a te" egli rispose; strinse macchinalmente le dita del a donna’’: sia la seduzione riuscita di Carla sia
questa seduzione che sostanzialmente non riesce di Michele, o riesce per modo di dire, sono vissute con totale passività, con totale
indifferenza dai due giovani, Carla e Michele. Lui macchinalmente non ha nessuna pulsione.
-"Per ciascuno di voi" continuò incoraggiato "dovrei provare un certo sentimento, dico dovrei perché volta per volta mi sono accorto che
le circostanze ne esigono sempre uno...’’: sono gli altri che si aspettano da lui certe risposte.
‘’ E' come andare ad un funerale o a del e nozze: in ambedue i casi un certo atteggiamento di gioia o di dolore è obbligatorio come il
vestito di cerimonia...: non si può ridere seguendo una bara o piangere nel momento nel quale due sposi si scambiano l'anello... sarebbe
scandaloso, peggio, inumano...’’: chiaramente riporta il punto di vista della società borghese a cui lui è totalmente indifferente.
‘’ Chi per indifferenza non prova nulla, deve fingere...’’: ecco che viene fuori la parola chiave del romanzo. Lui non prova nulla, per
indifferenza.
’ così io con voi... fingo di odiar Leo... di amare mia madre’’: Leo è l’amante di Lisa che l’ha lasciata per Carla. Queste sono tutte le
finzioni interne alla buona idea di famiglia borghese: attacco frontale di Moravia in tutti i suoi romanzi a questa etica famigliare e
familistica italiana. Attacco sia all’interno del contesto famigliare e ancora di più al contesto sociale borghese che si aspetta da lui alcune
reazioni, come quella di pulire l’onore macchiato della sorella Carla.

CARLO EMILIO GADDA


È autore, mostro sacro, rimasto tale, della narrativa italiana e del romanzo italiano. Qualche anno più vecchio di Moravia, ma scrivono e si
affermano negli stessi anni, infatti Gadda muore nel 1973, nettamente prima di Moravia. È uno scrittore molto particolare e soprattutto con lui
quella linea di sperimentalismo primonovecentesca non solo continua ad esistere ma esplode totalmente. È tra gli scrittori più innovativi, più
sperimentali.

In realtà il cuore della sua migliore narrativa è già stato scritto e si compie tra gli anni 30 e 40, ma poi molto era rimasto inedito o pubblicato su
riviste. Diventa IL grande scrittore per eccellenza, mai uscito dal canone del migliore 900 italiano a partire dagli anni 50 in poi. In realtà ha già
scritto tanto molto prima.

In cosa consiste questo sperimentalismo e perché, come mai riesce a portare avanti questa linea sperimentale in un’epoca di ritorno all’ordine?
Ricordiamo che nel primo 900, in epoca vociana (nel primo decennio del 900), a livello di narrativa c’era stato anche una disgregazione del
racconto attraverso quello che viene definito il frammentismo vociano: narrazione che si frantuma, soprattutto in una scrittura autobiografica
che non segue più un filo narrativo e cronologico, secondo una linea narrativa tradizionale. L’opera più importante in questo è ‘’il mio carso’’ di
Slataper.

È dunque l’ambiente vociano che sviluppa questo frammentismo narrativo che viene rinforzato negli anni 20 (parallelamente all’esplosione dello
sperimentalismo Pirandelliano, Sveviano e Tozziano). Questo frammentismo viene fatto esplodere dal 1919 in poi dalla linea Rondesca, che
viene fuori dalla rivista ‘’la Ronda’’, fondata nel 19, che rafforza questa linea del frammento in prosa, in quella che verrà chiama propriamente
PROSA D’ARTE, che trionfa tra gli anni 20 e 30, grazie dunque a questa linea che dal frammentismo vociano passa per il ritorno all’ordine della
Ronda.

Biografia autore: In tutto ciò viene fuori invece il romanzo ancora più esplosivo di Gadda, che però ha una biografia letteraria ma anche è
importante la biografia dell’autore. Importante è già dall’esperienza della prima guerra mondiale a cui Gadda partecipa come volontario. Tra i
volontari della prima guerra mondiale molti furono gli scrittori e gli intellettuali che credevano in questa guerra giusta, che doveva portare a
completare l’unita di Italia, togliendo anche i territori del nord-est rimasti nelle mani degli austriaci. Quindi moltissimi scrittori vanno sul fronte,
moltissimi non ne tornano, tra cui il grande Renato Serra. Gadda riesce a tornare dal fronte, nonostante viva in prima fila la sconfitta di
Caporetto (Gadda è un volontario degli Alpini), per scoprire che il fratello, ugualmente impegnato sul fronte nel nord-est contro gli austriaci, in
realtà è morto al fronte. È un grande shock che lascerà un segno per sempre nella vita del fratello Carlo Emilio Gadda. Già il giornale di guerra,
che è proprio il suo diario di questa terribile esperienza, verrà pubblicato diversi decenni dopo, nella metà degli anni 50. Questa pubblicazione a
distanza di decenni di ciò che aveva scritto decenni prima diventa una costante poi di Gadda.

Proprio per questo i suoi romanzi, che gli hanno dato la fama assoluta che nessuno gli contesta, cioè ‘’il pasticciaccio brutto di via Merulana’’,
pubblicato nel 57, e ‘’la cognizione del dolore’’ , pubblicato nel 63, vengono entrambi pubblicati nel dopo guerra, ma in realtà erano venuti fuori
nei decenni precedenti: anzi ‘’la cognizione del dolore’’ aveva preceduto nella stesura ‘’il pasticciaccio’’.

Perché c’era questa costante nella vita e nella vita letteraria di Gadda? Per molte ragioni. Una delle più importanti è che Carlo Emilio Gadda,
milanese, viene fuori dalla agiata borghesia milanese che però cade in disgrazia, il padre cade in disgrazia e poi muore presto, lasciando nella
disperazione economica la famiglia. Gadda vive la povertà. Questa condizione famigliare difficilissima della sua gioventù lo spinge a seguire il
pungolo ossessivo della madre perché non si dedichi alla scrittura ma invece prenda una laurea più utile in ingegneria, che Gadda prenderà. Avrà
quindi una lunga vita da ingegnere che lo porta anche in Sud America, che in realtà lo distrarrà solo in parte dalla scrittura. Continuerà a scrivere
ma che lo porta lontano dalla vita letteraria e soprattutto editoria dell’Italia. Però grazie ad una rivista importantissima che in epoca fascista
riesce a far entra quanto ancora di più sperimentale c’è nella narrativa e nella poesia italiana e nella narrativa straniera, che era stata bandita dal
fascismo che ovviamene chiedeva la totale autarchia, non solo economica, ma anche culturale. Questa rivista ‘’Solaria’’, fiorentina, di cui uno
degli animatori più importanti è Montale, era riuscita ad iniziare a far conoscere Gadda, già in piena epoca fascista, pubblicando alcune cose
gaddiane. Ma sostanzialmente Gadda esplode, viene riconosciuto come grande scrittore, solo quando finalmente può abbandonare la carriera di
ingegnere. Torna in Italia, soggiorna per 10 anni a Firenze dove entra in contatto con questa rivista e con l’ambiente ricchissimo fiorentino degli
anni 30. Però riesce poi ad avere un contratto con la Rai a Roma, grazie ad un amico che è scrittore e intellettuale, e, lascia Firenze negli anni 40,
si stabilisce definitivamente a Roma dove morirà.

Abbandona dunque finalmente, liberatosi anche grazie alla morte della madre, che è una figura ossessiva, onnipresente, causa di tutte le nevrosi
dello scrittore nevrotico, che scrive anche lui fondamentalmente della nevrosi e della alienazione (anche se diversamente da Moravia), liberatosi
della carriera dell’ingegnere insieme alla figura della madre, si dedica pienamente all’attività letteraria soprattutto dagli anni 50 in poi, riuscendo
a sopravvivere ancor prima che con la scrittura ancor più con il contratto con la Rai.

Interessanti sono anche i suoi ‘’drammi radiofonici’’, la Rai, la radio, è stata onnipresente nelle famiglie molto più e molto prima della televisione.
C’erano questi radio drammi scritti da i grandi scrittori del 900 che hanno fatto sopravvivere economicamente i più grandi scrittore del secondo
900, e venivano poi letti e recitati alla radio.

Di questo sopravvive prima di incontrare LIVIO GARZANTI, che è stato non solo un grandissimo editore, ma colui che ha stimolato una
generazione di nuovi scrittori, tra cui lo stesso Gadda. L’attesa dei suoi romanzi sarà lunga ed estenuante, del ‘’pasticciaccio’’ in particolare, ma
Garzanti riuscirà a far superare tutte le nevrosi e le insicurezze e a strappargli alla fine il suo romanzo. Poi invece l’edizione definitiva, che uscirà
solo nel 63, del ’’La cognizione del dolore’’ verrà presa da Einaudi.

Saranno i grandi editori, Garzati ed Einaudi, fondamentali per la nostra narrativa, soprattutto del secondo novecento, a spingere anche con
violenza la riluttanza di Gadda e fargli finalmente pubblicare questi romanzi che sono tra i capolavori della narrativa del secondo 900.
‘’Quer pasticciaccio brutto di via Merulana’’
È un titolo in romanaccio ed è un romanzo più velocemente conosciuto come ‘’pasticciaccio’’ di Gadda. Capiamo già un fatto fondamentale
banalmente anche solo dal titolo, cioè che l’uso del romanesco si mescolerà a dialetti diversi in questo romanzo. La caratteristica di questo
romanzo, che è anche del ‘’ La cognizione del dolore’’, è un plurilinguismo e pluristilismo.

È un giallo: ci sono due crimini su cui sta indagando CICCIO INGRAVALLO.

Il tocco grottesco ed umoristico è proprio della scrittura di Gadda anche quando parla di fatti tutt’altro che divertenti. Ciccio Ingravallo è un
personaggio ridicolo: è un commissario che indaga su un doppio crimine, un furto di gioielli e l’assassinio di una donna su uno steso stabile di Via
Merulana. È un giallo a tutti gli effetti ma Gadda affonda il giallo con soluzione aperte, un giallo che non conclude (che poi è stato scopiazzato
ovunque, da tutti i giallisti italiani del 900). Attraverso il giallo viene indagata la realtà, ancora una volta romana, della Roma fascista. È un delitto
dunque che avviene propriamente in piena Roma fascista tra anni 20 e 30. Immagina alla fine degli anni 20 questo doppio crimine.

Quindi è un giallo che diventa un’ indagine sociologica e psicologica e soprattutto non lo conclude fino alla fine. Non siamo sicuri che
effettivamente quella che verrà poi, dopo vari cambiamenti nelle indagini, indicata come la responsabile sia del delitto che del furto, cioè una
cameriera, non sappiamo con certezza se effettivamente è stata lei. Rimarrà l’ombra del dubbio.

Gadda dice che lui in realtà ha concluso il romanzo così volutamente, altri diranno invece che in realtà, come tante sue opere (incluso ancora di
più il romanzo del ‘’La cognizione del dolore’’), non ha mai realmente chiuso per un fatto nevrotico e letterario di Gadda, definitivamente il
romanzo. Ciò che ci interessa è che questa forma del giallo, che diventa una indagine sociologica e psicologica soprattutto e soprattutto del giallo
che è la forma chiusa per eccellenza perché ci deve essere la soluzione, invece qui non conclude, sono tra le innovazioni fondamentali in questa
forma assolutamente e tradizionalmente chiusa della narrativa.

Altro elemento chiave è il plurilinguismo, al romano si alterna il molisano del commissario Ciccio Ingravallo, più varie lingue e dialetti di ogni tipo.
Ma soprattutto lo si capisce già dal titolo: c’è un'altra parola chiava, non semplicemente la forma romanaccia del ‘’quer pasticciaccio’’, ma la
parola ‘’pasticciaccio’’ che metafora di quel pasticcio insolubile, di quel ‘’gnommero’’, come dirà nel dialetto suo tra molisano e napoletano
Ciccio Ingravallo, cioè quel gomitolo inestricabile che, in realtà, è la realtà. Il giallo non si conclude veramente perché nulla si spiega e si conclude
veramente nella realtà: questa è la grande metafora del pasticciaccio di Gadda.

Passi di ’Quer pasticciaccio brutto di via Merulana’’:


presentazione assolutamente grottesca di questo che è l’eroe del giallo, cioè il commissario Ciccio Ingravallo molisano, che in realtà è un
personaggio assolutamente ridicolo: tocco ironico, umoristico e grottesco è tipo della scrittura di Gadda.

-‘’ Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno ’’: si parla di Ciccio ingravallo, e
sembra un personaggio stordito, un po' rimbambito.

-‘’ sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora
codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne.’’: Ciccio Ingravallo
sembra un provinciale ridicolo a vedersi, un po' addormentato. In realtà è un personaggio molto filosofico. Attraverso questo personaggio
apparentemente grottesco passa la vena fortemente filosofica di Gadda. Gadda riesce, dopo aver dato il contentino alla madre della laurea in
ingegneria, a frequentare filosofia quasi fino alla laurea ma non si laurea mai. Frequenta i corsi di filosofia a Milano, quindi una matrice
speculativa molto forte in Gadda che viene veicolata attraverso questo personaggio apparentemente ridicolo e grottesco, che è il commissario
Ciccio Ingravallo. Ma in realtà in questa sua apparenza un po' rimbambita, un po' da provincialotto sradicato a Roma, fa lungo tutto il romanzo
delle analisi precisissime della realtà anche politica e sociale della Roma fascista di fine anni 20.

-‘’ Con quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore’’: vengono fuori dei folgorii, dei
balenii di verità. Siamo in pieno Joyce e in piena Virginia Woolf. L’epifania del reale che avvengono in un momento qualsiasi, per un secondo il
groviglio del mondo, il pasticciaccio della realtà si illumina di una verità, di qualcosa di comprensibile

-‘’ rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione:’’ c’era gente che ricordava cosa aveva detto Ciccio
Ingravallo.

-‘’«Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la
conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare’’: qui va avanti in un passo assolutamente filosofico quella
idea che abbiamo già trovato nei tre grandi del primo 900: cioè l’idea tutta 900centesca di un racconto in cui non esiste più un principio di causa-
effetto logico, razionale nella realtà. Il filosofico Ingravallo l’ha capito benissimo. La cosa interessante in questo provincilotto apparentemente
rimbambito passano i pensieri più profondi e filosofici.

-‘’ L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e
sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente’’: ha capito benissimo che il pasticciaccio, gli ‘’gnommero’’, della realtà
fa saltare qualsiasi ordine della realtà e qualsiasi principio di causa-effetto.

-‘’ Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già, Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche
gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.’’: usa il dialetto molisano, qualche gomitolo da districare.

In pochissime righe ci dà l’idea di questa indagine filosofica della realtà. L’idea di realtà come uno ‘’gnommero’’, come pasticciaccio intricatissimo
e insolubile e ci dà anche l’idea di un plurilinguismo e pluristilismo di Gadda, uso abbondante dei dialetti.

‘’La cognizione del dolore’’


Romanzo più sperimentale che uscirà nel 63 ma in realtà era stato iniziato prima e pubblicato qui e là molti decenni prima.

Indagine intellettuale, scientifica, filosofica del dolore umano. Si potrebbe chiamare ‘’la cognizione del dolore della condizione umana’’. È
assolutamente novecentesco nelle forme, esplode completamente nella forma narrativa.

La finzione in questo romanzo inconcluso, incompiuto passerà attraverso la vita del personaggio, romanzo che è assolutamente e fortemente
autobiografico, che è GONZALO. Gadda diventa Gonzalo.

La Milano è la Brianza, da cui deriva la sua famiglia, diventano un luogo inventato del Sud America: quando cita ‘’Babilon’’ parla di Roma e
quando parla di ‘’Pastrufrazio’’ parla di Milano.

La condizione di nevrotico di Gonzalo, oppresso da questa figura della madre (così com’era nella realtà cin Gadda), i suoi impulsi violenti contro
la madre che viene minacciata più volte di morte, finché non la trovano morta, in realtà non è stato il figlio: raccontano in maniere drammatica la
nevrosi (che è la nevrosi vissuta per tutta la vita da Gadda) con questo rapporto irrisolto con la madre e con questo rapporto assolutamente
contrario al finto ordine borghese (Freud).

Lezione 5 – 24 marzo
Riprendiamo il discorso da Gadda.
Gadda: milanese che, dopo un decennio fiorentino, approda a Roma. Vive tra i centri culturali più importanti.
Scrittore assolutamente espressionistico, plurilinguistico, pluristilistico tant’è che si parla di un barocco Gaddiano: questa è stata una definizione
che ha avuto molto successo. Uno dei grandi scopritori Di Gadda è stato Gianfranco Contini, grande filologo romanzo ma anche studioso della
letteratura del 900 italiano. Contini è colui che ci ha aiutati a capire Montale, è stato uno dei primi anche nel caso di Gadda ed è proprio lui a
parlarci di barocco gaddiano, di questa esuberanza di stili e di lingua, di questo accumulo di figure che devono interpretare i gomitoli, metafora
che usa Ciccio Ingravallo nel Pasticciaccio per indicare la complessità non solo dei casi di cui lui si occupa come commissario ma come grande
metafora della vita.
Il plurilinguismo esasperato aveva trovato posto già nel Pasticciaccio di via Merulana: dal romano al molisano campano, Ciccio Ingravallo usa
termini presi anche dal linguaggio aulico altissimo della letteratura. Quindi un impasto barocco, assolutamente pluristilistico e plurilinguistico.
Gadda è uno dei grandissimi sperimentatori della nostra narrativa.

Romanzo: La cognizione del dolore.


In realtà La cognizione del dolore, è un romanzo che avrà una pubblicazione difficilissima a causa delle nevrosi gaddiane che lo spingeranno a
rimandare la pubblicazione continuamente perché insicuro. Uscirà nel 63 ma la sua stesura era iniziata da trent’anni, addirittura prima di quella
del Pasticciaccio che poi esce nel 57.

Gadda è un autore molto difficile non soltanto perché sono difficili i suoi romanzi con la struttura, lo stile e la lingua ma perché da scrittore
nevrotico che mette la nevrosi al centro dei suoi personaggi, scriveva, cancellava, ripubblicava, metteva insieme racconti e romanzi da cose già
pubblicate prima e i filologi del 900 che si sono occupati delle opere di Gadda hanno avuto vita dura.
Ma soprattutto hanno avuto vita dura a causa dell’ incompiuto tra gli incompiuti di Gadda che è il romanzo la cognizione del dolore, stesura
iniziata alla fine degli anni 30 e che semplicemente non è solo il giallo aperto, con soluzione aperta come il Pasticciaccio ma rimane un romanzo
incompiuto anche se poi a posteriori Gadda cercherà di dimostrare la compiutezza di questo romanzo che però, in realtà, non lo è. La cognizione
del dolore è un romanzo con una forte carica autobiografica.
L’ambiente milanese brianzolo, che è quello della sua famiglia, viene trasposto, reinventato attraverso nomi inventati, umoristici e viene
trasportato in una nazione sudamericana non definita. Ma in verità Gadda sta parlando del contesto autobiografico e familiare: nel romanzo
troviamo la storia di un rapporto nevrotico, edipico, non risolto tra il protagonista – travestimento di Gadda – e la figura della madre, una figura
incombente che più volte il protagonista minaccerà di uccidere, fino a quando realmente verrà uccisa e i sospetti cadranno su di lui, salvo poi
scoprire, alla fine, che non è lui il colpevole. Ma il senso di colpa del figlio, per la tragica morte della madre, renderà ancora più forte la sua
nevrosi.
Siamo in pieno 900, le tematiche psicanalitiche dominano nella scrittura di Gadda che però cerca di nascondere l’origine autobiografica di questo
romanzo, negherà a lungo che nella trama del romanzo ci sia la storia della sua famiglia ma Contini, suo carissimo amico, da grande filologo sarà
il primo a dimostrare il rapporto evidente tra questo immaginario paese in America latina, questa difficilissima famiglia e l’autobiografia di
Gadda. Questo causò la rottura dei rapporti con Contini.
Cognizione del dolore, anche se incompiuto è un dei romanzi più importanti nella tradizione del canone del 900. Il titolo indica la conoscenza del
dolore e la conoscenza attraverso il dolore, il dolore esistenziale viene visto come strumento di vera conoscenza di se e del mondo.
Gadda sarà costretto dai rovesci familiari a portare a termine gli studi di ingegneria: praticherà a lungo la professione dell’ingegnere ma riuscirà
comunque quasi a prendere una seconda laurea in filosofia, la sua grande passione. Questo ci fa capire perché la sua scrittura è intrisa di concetti
e visioni filosofiche della vita. Anche nelle pochissime righe lette del Pasticciaccio, il commissario – filosofo Ingravallo, citava la migliore
tradizione filosofica fino a Kant.
La cognizione del dolore è tutta attraversata da una visione filosofica: la conoscenza della realtà e di sè attraverso l’esperienza del dolore.

Analizziamo alcuni passi tratti da La cognizione del dolore

1) Il questo passo c’è il ritratto (che poi sostanzialmente è un autoritratto gaddiano) del protagonista rinominato alla spagnolesca Gonzalo
– ricordiamo che siamo in un paese dell’America Latina. Gonzalo è un antieroe, come tutti i protagonisti della migliore narrativa italiana
del novecento, è un personaggio grottesco, grasso, brutto, interessato al cibo, ha una voracità insaziabile. È una specie di Pantagruele,
personaggio del romanzo Gargantua e Pantagruele della letteratura francese del 500 (Gargantua e Pantagruele sono due giganti). In
particolare, l’onnivoro Pantagruele non pensa ad altro che a mangiare.
Abbiamo quindi un’autorappresentazione parodistica, grottesca del protagonista ma attraverso il protagonista, dello stesso scrittore.
Questo è interessante perchè l’autorappresentazione passa per una lingua e uno stile espressionistici. Cosa vuol dire espressionistici?
Vuol dire che il rapporto io - mondo è esploso così come quello con l’io stesso e nella lingua e nello stile è presente una sovrabbondanza
di verbi ma anche di immagini che indicano questa centralità assoluta del particolare rispetto ad una visione d’insieme che non può più
esistere. Questo perchè il reale è sbriciolato in piccoli pezzi che non si rimettono più insieme, è saltato il rapporto di causa – effetto di
cui già filosoficamente parlava ieri Ingravallo nel passo letto e quindi è ovvio che il dettaglio, il particolare, riempie tutta la pagina
(ricordiamo Tozzi). Notiamo la nota umoristica e parodistica fortissima in Gadda, anche quando si parla di qualcosa di poco divertente,
come ad esempio la conoscenza del mondo e di sé attraverso il dolore.
Nel 1928 si era detto dalla gente, e i signori di Pastrufazio52, per primi, che egli fosse stato per morire, a Babylon53, in seguito alla ingestione
d’un riccio, altri sostenevano un granchio, una specie di scorpione marino ma di colore, anziché nero, scarlatto, e con quattro baffi, scarlatti pure
essi, e lunghissimi, come quattro spilloni da signora, due per parte, oltre alle mandibole, in forma di zanche54, e assai pericolose loro pure;
qualcuno favoleggiava addirittura di un pesce-spada o pescespilla; eh, già! piccolo, appena nato; ch’egli avrebbe deglutito intero (bollitolo
appena quanto quanto, ma altri dicevano crudo), dalla parte della testa, ossia della spada: o spilla. Che la coda poi gli scodinzolò a lungo fuor
dalla bocca, come una seconda lingua che non riuscisse più a ritirare, che quasi quasi lo soffocava. Le persone colte si rifiutarono di prestar fede a
simili barocche fandonie: escluso senz’altro sia l’ittide che l’echinoderma55, ritennero di dover identificare l’orroroso56 crostaceo in una aragosta
del Fuerte del Rey57, stazione atlantica assai nota in tutto il paese per l’allevamento appunto delle aragoste.  pagina esilarante perché c’è un
dettaglio minimo, un racconto che non si sa nemmeno quanto sia vero, di questa quasi morte per soffocamento del protagonista Gonzalo. Cosa
aveva mangiato Gonzalo? Non si sa, ognuno aveva una teoria diversa: un granchio, un pesce spada, un riccio. Vediamo come il dettaglio, cioè
capire qual è l’animale incriminato, si spalanca sulla pagina e si va avanti così per righe e righe rievocando semplicemente le fandonie barocche,
dirà la gente più colta frequentata presso queste località, che si rifiutano di credere che il protagonista abbia rischiato di morire soffocato a causa
di un granchio o un riccio. Il dettaglio diventa esorbitante e occupa tutto. Umoristico e grottesco: perché ricordare così a lungo un evento così
grossolano che sottolinea l’anti eroicità del protagonista? E in più, con uno stile espressionistico e di un barocco esorbitante (il barocco consiste
in una serie di immagini che si sovrappongono) e con una lingua e un plurilinguismo esplosivo: uno spagnolo inventato, nomi comuni dati ai pesci
oppure i nomi che vengono dalla letteratura alta o i termini scientifici.
Questo è tutto ciò che caratterizza la lingua e lo stile della cognizione del dolore ma già ne avevamo avuto un assaggio nel Pasticciaccio.
Nella Cognizione del dolore troviamo un linguaggio scientifico: viene fuori l’ingegnere, quando si parlava dell’ingegnere negli anni 60 ci si riferiva
a Gadda. Tutte le sue conoscenze, anche se in maniera parodistica e grossolana venivano riversate in questa lingua esorbitante, barocca e
ricchissima che è la lingua del narratore Gadda.
Andando avanti nella lettura ci accorgeremo che vengono richiamate: la filosofia di Aristotele, così come ieri avevamo trovato Kant, vedremo
come nello stile barocco della sua prosa sia evidente l’uso di forme che vengono da quello che pensa la gente, una specie di indiretto libero. Ad
esempio, in questa prima parte, lo troviamo quando ci sono le varie supposizioni riguardanti il pesce che lo avesse soffocato e a un certo punto si
legge: “e già! piccolo e appena nato.” che vuol dire è ovvio che, se è stato un pesce spada, è stato un pesce spada appena nato. Quell’ “è già”
senza virgolette, riporta sulla pagina, quello che da Verga in poi è la caratteristica del discorso indiretto libero che però in Gadda diventa – e lo
avevamo già visto ieri con i pensieri più profondi di Ciccio Ingravallo – monologo interiore. Viene buttato nel discorso, senza i due punti e le
virgolette, proprio il sovrapporsi dei pensieri più riposti, non espressi, dei vari personaggi.
In questo romanzo, si arriverà, in tanti momenti, soprattutto quando vengono riportati i pensieri più nascosti e più nevrotici di Gonzalo, al flusso
di coscienza, che è la punta estrema dello sperimentalismo narrativo del migliore modernismo, con Wolf e Joice sopra a tutti. Quindi non solo il
discorso indiretto libero, utile a riportare soprattutto il pensiero collettivo della gente e del popolo senza virgolette e come se continuasse a
parlare il narratore; non solo il monologo interiore: quello che pensa, in ordine razionale però, questo o quel personaggio ma spesso viene usato
il flusso di coscienza – lo stream of consciousness, che porta sulla pagina, nel caos totale che tutti quanti noi abbiamo represso dentro di noi,
flusso di pensieri, memorie, idee, supposizioni, esattamente come scompostamente sono nel nostro subconscio .
Nel monologo interiore ancora abbiamo una leggibilità e razionalità dei pensieri non espressi. Il flusso di coscienza riporta sulla pagina
esattamente, in maniera caotica, quello che è il linguaggio del subconscio, molto spesso difficilissimo da capire perché saltano le strutture
sintattiche regolari e razionali.
Grandissimo sperimentalismo narrativo e stilistico: non solo il monologo interiore ma anche delle punte di flusso di coscienza particolarmente
importanti nella cognizione del dolore.

Monologo interiore: presente ancora leggibilità e razionalità dei pensieri non espressi.
Flusso di coscienza: riporta sulla pagina, in maniera caotica, il linguaggio del
subconscio. Saltano le strutture sintattiche regolari e razionali.

All’interno di questo passo tutti hanno richiamato l’elemento parodico di questi buffi anti eroi Pantagruele e Gargantua di Rebelais. Lo stesso
Rebelais nel 500 si era già nutrito dei giganti in mezzo ai giganti del Morgante di Pulci, poema parodico che prende in giro i cantari e quello che
poi sarà il poema epico cavalleresco e che vede al centro del racconto Morgante e Margutte, il gigante e il mezzo gigante e la famelicità di questi
personaggi: uno di questi muore infatti soffocato mentre mangia. Qui viene ricordato da Gadda in questa pagina che abbiamo letto.
Queste pocherie lette ci servivano come esempio stilistico, strutturale, linguistico dell’espressionismo e del barocco e del plurilinguismo di Gadda
e dell’elemento grottesco e parodico presente nel testo anche quando si toccano argomenti serissimi.

52 Pastufrazio: nome divertente che richiama Milano

53 Babylon: indica la Babilonia romana. In realtà Gadda avrà un rapporto conflittuale con tutti i luoghi ma soprattutto con Milano, la
Brianza e Roma, dove finirà la sua vita.

54 Zanche: lunghe aste.

55 Termini scientifici

56 Linguaggio aulico

57 Altro nome inventato. Indica la località di Forte dei Marmi, luogo di villeggiatura.
2) Secondo passo. È tratto da uno dei tanti momenti in cui Gonzalo ritorna alla villa dove vive con la madre e dove vive molto male questo
rapporto: esplode questo groviglio esistenziale e psicanalitico della conflittualità rispetto alla figura materna che era stata la grande
nevrosi dello stesso Gadda.
Inizio capito VI parte II: ritorno di Gonzalo alla villa della madre. Troviamo questo scontro edipico, irrisolto tra i due personaggi.

Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né
dell’uragano58. Il cuore le martellava nella incertezza, si fece a preparare, sulla tavola, la lucernetta a petrolio.59 Ma non vi riuscì subito, anzi vi si
impigliò60: con zolfanelli umidi: tossì, ad accenderne alcuno: che subito si spegneva contro la cimasa annerata del lucignolo. Le sue mani rigide,
quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza61; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido,
come una trina dei costumi desueti62: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava 63… ma bisognò pensare al
figliolo64… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, alfine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo,
abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva
aggiunto dimolto.65 Richiuse i vetri come le riuscì66; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo. Il figlio, di sopra67, stava a lavarsi: a
riporre una spazzola in un tiretto. Ella ne udiva il passo, ammorzato, sopra la soffittatura.68 Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era
assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa:69 tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o
d’una qualunque fante.70 Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna 71: e sarebbe incorso nelle
peggiori bizze ed ubbìe72: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene)73. Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto
la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni 74tutti i padri e tutte le
madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. 75 Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire:

58 Esperienza autobiografica. Sta tornando da un viaggio di lavoro che è stato particolarmente difficile anche per le condizioni
atmosferiche

59 Non sa, come sempre, come reagire a questa furia del figlio.

60 In questo gesto, della madre che tenta di accendere il lume ma non ci riesce, c’è già tanto del rapporto sofferto madre – figlio.

61 È una madre anziana, provata, frustrata. Personaggio richiamato con tinte patetiche, contro la violenza del figlio.

62 È una vecchia lampada a gas e l’operazione di rimettere a posto la parte di cristallo sulla ghiera risulta difficile, non solo perché
lei ha un’artrite in quanto anziana ma perché proprio la lampada risulta essere particolarmente difficile.

63 Tremava: in questo verbo c’è tutto il rapporto difficile tra madre e figlio. C’è il verbo con i puntini di sospensione.

64 Monologo interiore.

65 Alla fine riesce in qualche modo ad accendere la lampada ma la luce è molto fioca.

66 È una madre in difficoltà sia fisica che psicologica.

67 L’ha abbandonata subito ed è andato subito nelle sue stanze.

68 È entrato bruscamente e senza dire niente è andato di sopra.

69 Al centro di questo rapporto conflittuale con la figura materna c’era questo elemento simbolico forte che è anche stato motivo
di attrito con la madre: questa grande villa di famiglia tanto cara al padre di gadda ma che costava tantissimo alla famiglia che dopo
la morte del padre è in grosse difficoltà. La madre, si rifiutò di vendere questa villa. Ci riuscì solo Gadda dopo la sua morte. La villa
simbolicamente è il luogo della prigione, il luogo che causa la sofferenza maggiore del figlio verso la madre. E la madre invece cerca
di far vedere come tutto funziona alla villa.

70 Altra verità autobiografica nascosta: la famiglia di Gadda era in difficoltà economica e quindi nella villa non sono presenti cuoche
e aiutanti, al contrario di quanto accadeva nei periodi di prosperità quando la villa era gestita da fantesche.

71 Se qualcosa non fosse stato a posto, finestre chiuse, la luce, la lampada: la madre sapevo che questo avrebbe causato l’ira del
figlio.

72 Bizze ed ubbie: sono le nevrosi di Gonzalo.

73 Siamo tra parentesi: abbiamo sintassi, punteggiatura molto particolari.

74 Sottolinea la ferocità del personaggio

75 Bestemmiava contro tutti


ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili76: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava 77 in quei momenti financo il sacro nome
di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl78) e il Prado, e Lukones, ed Iglesia79, e i rispettivi campanili, con le campane, i sindaci, i parroci, i
cocchieri, e via via tutto il Serruchón maledetto e testa di càvolo (così, o press’a poco, si esprimeva); tutte le infinite ville del Serruchón, i calibani
gutturaloidi della Néa Keltiké, lerci, ch’egli avrebbe impiccato volentieri, se potesse, dal primo all’ultimo.
Spingendoci più avanti nella lettura, se la curiosità ci accompagna, troveremo un passo che è un vero e proprio flusso di coscienza della madre:
non solo monologo interiore ma proprio quel linguaggio del subconscio che è alla base del flusso di coscienza.
La madre infatti dice:
Forse avrebbe scagliato via il coltello80… contro un ritratto, magari dei più in vista… gli zii…: contro il ritratto del padre!… Forse… No, no!… non
aveva mai fatto questo!  troviamo una serie di puntini sospensivi che sono propri del flusso di coscienza. Sono tutti timori che si accavallano
nel subconscio della madre e vengono riportati NON come un monologo interiore, non vengono ricostruiti sintatticamente ma proprio con il
discorso frammentato, spezzettato che è quello dei pensieri più riposti. È un vero e proprio flusso di coscienza.

CESARE PAVESE
Lasciamo Gadda per introdurre il prossimo autore: Cesare Pavese.
Pavese rappresenta tutta quella narrativa che è stata facilmente etichettata come realistica e neorealistica a cavallo tra fine della guerra e anni
50 e che, però, viene attraversata fortemente dal mito, dal non tempo, dall’infanzia dei luoghi reinventati, elementi fortissimi in questi autori
così detti del realismo post bellico, a cominciare da Pavese e per giungere alla Morante, a Vittorini di Conversazioni in Sicilia e così via. C’è una
forma di scrittura apparentemente realistica, che molto deve, nel caso di Pavese, alla scrittura realistica dei grandi americani come Steinbeck
che lui ama particolarmente, scrittura realistica che viene attraversata sempre di più, nel caso di Pavese e in particolare delle sue opere
narrative, da un forte ricorso a dei veri e propri miti fino alla punta, interessante, che è quella della Luna e i falò, ultimo romanzo prima del suo
suicidio nel 1950, romanzo in cui questi miti si mescolano ad una scrittura apparentemente realistica. Non solo, anche l’operetta i dialoghi di
Leucò, è molto importante perché Pavese, sotto forma di prosa poetica e prosa semi teatrale reiventa la forma del dialogo classico attraverso
la presenza di miti e divinità che lo aiutano a parlare del presente e di motivi esistenziali anche meta temporali.
La linea di Pavese è una linea ricchissima che si afferma tra gli anni 40 e gli anni 50: riesce a creare una sintesi nuova della narrativa italiana, tra
struttura e linguaggio apparentemente realistici e un presenza sempre più forte di elementi così detti mitici.
Nella Morante c’è il mito dell’infanzia, di luoghi ideali per sempre perduti; nel caso di Pavese, abbiamo un mito che è anche un anti mito: è
quello della sua infanzia e dei luoghi di campagna dove ha passato tanto tempo, anche tempo difficile legato al confino; con Vittorini abbiamo il
ritorno immaginario del protagonista nella sua Sicilia, con la riscoperta della Sicilia mitica che lui alla fine però abbandona e rifiuta.
Realismo ed elemento mitico, in vari modi reiventato, sono una commistione interessante in questi autori che sono tra i più importanti
all’interno della nostra narrativa del 900. Pavese è molto interessante perché i suoi romanzi e racconti parleranno della realtà storica, quindi una
forma di realismo, che è la realtà ormai della fine del ventennio fascista e dello scontro aperto con la dittatura fascista, scontro che verrà
raccontato in vari romanzi passando per il filtro autobiografico. Lo stesso Pavese verrà indicato come antifascista pericoloso e finirà al confino:
da Torino e le sue langhe d’origine verrà sbattuto nell’estrema Calabria, proprio come accadde a tanti altri scrittori – Carlo Levi, Morante e
Moravia che devono scappare da Roma – che hanno vissuto sulla loro pelle uno scontro aperto con il fascismo.
La prima narrativa di Pavese si era concentrata su questo: la scoperta dell’impegno, parola chiave nel secondo dopoguerra: Pavese si iscrive,
come tanti scrittori, al partito comunista, tutti quanti, poi, più o meno, ne resteranno delusi. L’esperienza della resistenza e del confino spinge
questi autori ad un impegno a sinistra. Nel caso di pavese, questo impegno è fortemente presente nel romanzo il compagno, all’interno del
quale troviamo una vena poetica, mitica.
Perché queste tematiche – presenza forte del mito, dell’ infanzia, dei luoghi perduti per sempre e reinventati - diventano così importanti in
Pavese? Perché Pavese è un grandissimo studioso di antropologia e di etno antropologia, tanto che con De martino, il fondatore della moderna
antropologia in Italia, condividerà la fondazione e la direzione della collana Einaudi di Antropologia: “studi religiosi e antropologici”.
Quest’ idea di simbolo e di mito, che entra sempre più forte nella sua narrativa è affiancata da uno studio, da riflessioni attrezzate e non
superficiali sul fronte antropologico.
Nel romanzo la luna e i falò, si capisce dal titolo, non c’è più la casa in collina e i compagni, non si parla della fuga e del confino in quei posti
come la Calabria o anche il Monferrato, le Langhe in cui si nasconde alla fine della guerra, ma si parla della valenza simbolica di questi luoghi
reinventati.
E quale titolo più simbolico della Luna e i Falò? La luna e i falò sono simboli complessi. La luna è al centro delle immagini più mitiche di
invenzione di un non tempo e di un non luogo che sono al centro di questo romanzo. Il simbolo dei falò parte dalla realtà, quindi possiamo
parlare di scrittura realistica, facendo riferimento ai fuochi che accendevano i contadini in campagna quando arrivava l’estate che vengono

76 La madre in fondo sa che, nonostante questa rabbia, di fondo c’è una verità: disfarsi della villa avrebbe aiutato il menage
familiare difficile.

77 Bellissimo espressionismo: dal sostantivo animale viene fuori il verbo animalare, cio che lo rendeva da uomo ad animale

78 Maradagal: stato immaginario del sud America. Ricordiamo che Gadda lavorò a lungo come ingegnere in sud America, in
particolare in Argentina.

79 Serie di nomi inventati che richiamano però personaggi e luoghi esistenti.

80 Vede infatti che il figlio, quando scende da lei è in preda all’ira, come al solito
descritti all’interno del romanzo: ci sono bellissimi notturni in queste campagne piemontesi, che vengono illuminate solo dalla luce di questi falò
ma anche attraversati da altri tipi di fuochi e roghi. Alla bellezza dei notturni si intreccia l’elemento drammatico della guerra: i roghi sono
dovuti ai bombardamenti utili per scacciare i nazifascisti nel nord Italia ( nel Nord è più duro l’ultimo biennio della guerra) e non solo all’attività
dei contadini.

La prossima lettura a cui ci dedicheremo è tratta dal IX capitolo de La Luna i falò: verrà richiamata la notte di San Giovanni in cui ancora tutt’ora,
anche nelle nostre campagne, vengono accesi dei falò che simbolicamente richiamano il solstizio d estate ma che, più realisticamente vedono il
dialogo tra questo protagonista, reinvenzione dello stesso Pavese, e i contadini che rincontra dopo tanti anni. Quindi questo rapporto mitico ma
anche tanto difficile tra il protagonista e il mondo contadino.

Lezione 6 – 30 marzo
CESARE PAVESE
Profilo biografico, intellettuale e letterario.

‘’La Luna e i Falò’’: Questo romanzo è l'ultimo che pubblica Pavese, prima del suicidio del 1950. Parte da posizioni che sono state vagamente
etichettate ma è sostanzialmente in un contesto di un Neorealismo, attraversato però anche da una linea mitica di rilettura del mito classico,
reinventato completamente, che è una linea molto novecentesca, non sono italiana.

Prima del ‘’La Luna e i Falò’’ Pavese scrive una serie di romanzi, soprattutto che ritraggono il momento delicatissimo della fine del secondo
conflitto, ma anche l'esperienza del confino, dei Partigiani che partecipano attivamente alla resistenza: si è parlato così di un approccio
neorealistico alla scrittura romanzesca.

Però questa linea di rilettura novecentesca del mito è altrettanto importante e si afferma sempre di più nella scrittura di Pavese fino ad arrivare
‘’i dialoghi con Leucò’’, che sono una specie di operetta morale di dialoghi tra Luciano e nelle operette morali di Leopardi, in cui c'è proprio
questa rilettura moderna e novecentesca del mito. Questi sono posti più sul piano esistenziale e speculativo, non più strettamente storico; sono
posti tra l'ironia dei dialoghi di Luciano e l'impegno filosofico Morale delle operette morali di Leopardi. (Come un esempi a livello europeo è
l'Ulisse di Joyce, che è la vita di un dublinese reinventata attraverso il mito di Ulisse, quindi con una serie di personaggi che interpretano il mito
delle sirene o Polifemo..)  è veramente una linea del migliore modernismo Europeo ed è totalmente e pienamente novecentesca.

Nel ‘’i dialoghi con Leucò’’ c’è una sorta di distacco dall’autobiografismo e dal romanzo storico che aveva scritto fino a quel momento, come ‘’La
casa in collina’’, ‘’Il compagno’’ dove c'è tutta una serie di riscrittura della stretta attualità storica (appunto di liberazione) ma c’è anche una
scrittura autobiografica perché lo stesso Pavese finisce al confino per ragioni ideologiche-politiche, però poi sfugge all'obbligo di arruolamento
per la Repubblica Sociale dopo il 43, dopo l'armistizio e vai in collina poi dalla sorella nel Monferrato. Quindi ‘’il compagno’’ è molto
autobiografico: c'è anche il tema di una partecipazione (ma non pienamente attiva) alla resistenza  un altro tema di questi anni molto
importante che tocca diversi scrittori e anche poeti, che idealmente erano vicini alla guerra di resistenza e quindi di opposizione nazifascisti dopo
il 43, ma che per un motivo o per l'altro poi non prendono pienamente parte a questo momento storico così importante della liberazione
partigiana. (uno tra questi è il grandissimo poeta Vittorio Sereni, poeta che tematizzerà proprio questo discorso di una grande frustrazione e
vergogna personale per non aver potuto partecipare alla resistenza). Dunque c’è questo tema della realtà storica e anche autobiografica, in
particolare del momento appunto post armistizio del 43, siamo nelle Langhe (in Piemonte), cioè nel cuore della Resistenza dei Partigiani. Quindi
per Pavese (e anche Fenoglio e altri scrittori lombardi) questo discorso, di una ideale assoluto, totale, di adesione alla lotta partigiana è
affiancato ad una mancata partecipazione attiva.
Tutto questo costituisce il momento che precede “La Luna e i Falò”, quel ciclo di romanzi e racconti che in un clima neorealista in senso lato
avevano parlato di questo momento storico.

‘’La Luna e i Falò’’


Cosa c'entra il mito nell'ultimo romanzo ‘’la Luna e i falò’’?
Nel ‘’la luna e i falò’’ si innesta il ritorno alla propria terra, la terra dell'infanzia. Si trova sempre tra le colline, tra le Langhe. Questo protagonista
rivive questo mondo, quasi come se fosse un mondo mitico, mitologico, fuori dalla storia, ma allo stesso tempo scopre che anche questo mondo
era stato attraversato e anche stravolto dagli orrori della guerra. Infatti lo stesso titolo ‘’la luna e i falò’’ da una parte sembra assolutamente
idilliaco, un paesaggio di campagna, secondo la tradizione idillica e pacificata con un paesaggio lunare e i falò dei contadini all’inizio dell’estate;
dall'altro in realtà richiama anche l'elemento dei falò, del fuoco. Ed è un elemento mitico del romanzo: non indica solo questo momento
importante della vita contadina che è l'inizio soprattutto dell'estate, perché in tutta Italia la sera di San Giovanni a giugno si accendono i falò, si
bruciano le sterpaglie dei contadini, quindi questo è un valore mitico e antropologico, ma allo stesso tempo accanto al livello mitologico c’è
sempre l'innesto della storia, della realtà, dell'orrore della realtà della guerra con altri racconti che fanno questi personaggi degli orrori, degli
incendi, delle violenze perpetrate dai nazifascisti in particolare in questi settori tra Piemonte e Lombardia.

Questo personaggio, su un piano idilliaco, ritorna alle proprie terre dell'infanzia, alla riscoperta di una civiltà contadina, alla scoperta dei miti
rituali di questa civiltà, ma alla fine però sostanzialmente lui si sente estraneo.

Il ricordo dell'infanzia (altro mito letterario) si infrange, anche contro la realtà, lontana ormai dalla sua biografia, dei suoi compaesani. Questo è
un idillio interrotto, è un mito che però poi non è veramente idilliaco e si infrange contro la storia e contro ormai la lontananza autobiografica
del protagonista (Si ritrova anche in altri romanzi di Vittorini o Elsa Morante).
Dalla Luna e i Falò – capitolo 9
Questo brano indica il ritorno alla sua terra e soprattutto questo momento mitico nel romanzo che è la notte di San Giovanni a giugno quando
tutti i contadini bruciano i falò.

Questo aspetto mitologico e di studi antropologici non deve affatto meravigliare in Pavese, perché Pavese ha profonde conoscenze e interessi
nel campo dell'antropologia. Infatti fonda e dirige con De Martino, il fondatore dell’antropologia in Italia, una importantissima collana ‘’la
collana viola’’ per Einaudi. Quindi questo versante antropologico e mitico non ha mai un volto puramente idilliaco di mito letterario ma affonda
le radici anche in studi precisi dello stesso Pavese.

In questo passo gli elementi più interessanti: c'è l’uso della prima persona che ovviamente sottolinea l’elemento autobiografico.
- ‘’adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel piacere. Non sapevo che avrebbe dovuto sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia
pagarla ai mezzadri’’: momento del festeggiamento della Sera di San Giovanni e lui parla al suo amico.
- ‘’gli dissi che era tardi, ch’ ero atteso in paese, che a quell'ora non prendevo mai niente. Lo lascia nel su bosco, sotto i pini. Ripensai a questa
storia le volte che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte’’: anche tutti i luoghi richiamati sono luoghi ben conosciuti e cari allo
stesso Pavese.
-‘’qui ci avevo giocato anch'io con Angiolina e Giulia, e fatto l'erba per i conigli. Cinto si trova sovente al ponte’’: nomi ovviamente di personaggi
di questo paese.
-‘’ perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani’’: il protagonista torna nel
suo paese dopo essere stato vari anni America e poi a Genova. Questo protagonista ‘’io’’ ha vissuto il distacco per moltissimi anni dal paese
perché prima è andato a lavorare in America e poi a Genova. Ricorda la sua infanzia in quei luoghi, mito letterario anche antropologico
dell'infanzia, e ricorda quello che lui faceva con questi amici, allora bambini: due ragazzini Angiolina e Giulia, l'amico Cinto a cui aveva regalato la
lenza per pescare.
- ‘’da qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiere di Gaminella ed del Salto [tutti i luoghi del paesaggio piemontese],
sulle colline più lontane oltre Canelli, c'erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie -sempre gli stessi- che Somigliano a quello del
cavaliere’’: ‘’sempre gli stessi’’ indica il tempo ciclico, eterno, sempre uguale a se stesso, che è il tempo ovviamente del mito (il mito è sempre
metatemporale, atemporale) contro la realtà storica autobiografica come per esempio i ricordi infanzia o i ricordi della guerra che faranno i
personaggi che l'hanno vissuta lì.
-‘’da ragazzo fin lassù non c’ero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi,
rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassù, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sperdute. Che cosa poteva esserci? Lassù tra incolto
e bruciato dal sole.’’: Ovviamente la finzione letteraria, questa scrittura letteraria, utilizza anche delle forme di monologo interiore. Che cosa
poteva esserci, scritto senza virgolette ma è chiaro che è un pensiero che fa il protagonista. Stilisticamente è una scrittura molto moderna e
novecentesca.
-‘’ — Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa’’: Questi
personaggi del paese, che lui interroga, sono dei rappresentanti di questa antropologia metatemporale. Ci sono gli avverbi di tempo (sempre,
sempre uguali), danno ripetitività, l’uguale a se stesso che si ripete: sono tutti elementi di un tempo mitico che si incrocia con quello storico.

- saltiamo lo scambio tra i due vecchi amici: lui, che è tornato dopo tanti anni, chiede se c'era ancora l'usanza dei falò. È un passo in cui i falò del
titolo diventano protagonisti assoluti. Alle fine di questo dialogo (brevissimi interventi dei due amici) si torna alla sua narrazione in prima
persona che commenta questi discorsi
-‘’ Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su,
diceva, come avrebbe detto suo padre: – Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva.’’: non finivano mai perché erano sempre inframezzati dai
movimenti continui di questo amico, Cinto. ‘’mai’’ è un altro avverbio metatemporale.
-‘’non mi lasciava mai capire se con me si fermava per creanza81 o perché ci stesse volentieri’’: ci sono una serie di interventi, di pensieri, di
commenti del protagonista, ‘’io’’, che fanno capire come lui sia ormai totalmente estraneo a questo mondo e neanche riesci a capirlo fino in
fondo, infatti neanche capisce se questo suo amico gli risponde di creanza/gentilezza solo per buona educazione o perché veramente ti faceva
piacere.
-‘’ Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti
giorni si sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili.’’: è affascinato quando gli parla di questo mondo altro, che dal punto di vista di questi
montanari è un modo mitico, quello della grande città. Genova è la città più industrializzata d’Italia (insieme a Milano e Torino).
- ‘’ Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in campagna.’’: monologo interiore. Il ragazzo è zoppo.
- ‘’ Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e cosí non vedrà la città. Se almeno gli mettesi la voglia’’: è un
pensiero del protagonista che non è mai stato verbalizzato, ma viene messo su una pagina esattamente come se fosse un suo monologo
interiore.
-‘’- Questa sirena dei bastimenti, – lui mi disse, quel giorno che ne parlavo, – è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra? —
Si sentiva? — Altroché. Dicono ch’era piú forte del fischio del treno.’’: Quindi quando lui gli parla della sirena del porto di Genova l'ho
immediatamente rapporta questo rumore a quelli più vicini a lui, alla sua esperienza. Da un tempo mitico metatemporale si torna ai ricordi di
guerra e personaggio spiega al protagonista che anche lì spesso suonava la sirena ma era una sirena di guerra, di allarme  si innesta la realtà
storica della guerra.
-‘’ La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani...’’: per questo
rappresentante di questo mondo contadino, mitico fuori dal tempo, lo scontro con la storia è uno scontro scioccante, perché è quello che a che

81 Creanza: gentilezza
fare con i bombardamenti.
-‘’ Ma si portavano ancora in braccio’’: gli dice l'amico, perché è più piccolo di lui.
- ‘’giuro che mi ricordo’’: risponde l’amico
- ‘’ nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, – mi
disse. – Fai male. Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato...’’: torna avverbio di tempo ‘’sempre’’. Il
protagonista cerca di incuriosire sulla grande città, sulla vita della città moderna di Genova, questo personaggio che non è mai uscito dal suo
paesello di montagna. Ma l'altro dal tuo amico più grande dice che male a fargli venire questa curiosità perché tanto lui non potrà mai conoscere
questo mondo al di fuori dalle colline.
-‘’ — Che almeno sappia quel che perde. — Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio, che
cosa gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la domenica, sugli scalini della chiesa c’è sempre uno
che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per i ricchi, col nome d’ottone...’’: quindi questo amico del protagonista, che si chiama
Anguilla, cerca di incuriosire questo ragazzo zoppo, anche perché pensa che ciò potrebbe fare lì è fare il mendicante, perché non può lavorare la
terra, quindi nella città spera che possono trovare un altro tipo di collocazione. Invece nel mondo mitico, atemporale l’altro amico gli dice di
lasciar perdere perché se deve scoprire com’è il mondo basta stare qua, basta andare semplicemente in chiesa a vedere i banchi per i ricchi e
quelli per i poveri. Questa è forma sempre di così di conservatorismo un po' qualunquistico e popolare del contadino che ha sempre vissuto solo
nel suo paese.
-‘’ - Piú lo svegli, – dissi, – piú capisce le cose’’: E invece l'amico, il protagonista Anguilla, tenta di difendere la sua posizione.
-‘’ — Ma è inutile mandarlo in America. L’America è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.’’: insiste dicendo che per conoscere il mondo e
per capire come va la vita non c'è bisogno di andare in America o a Genova perché si capisce anche qui, la cosa fondamentale, soprattutto nel
mondo contadino: c’è che muore di fame e chi invece non ha questo problema, i ricci.

Pavese è stato uno di coloro che, anche in piena censura autarchica, in epoca fascista cioè quando i romanzi stranieri non si potevano leggere e
tradurre (tantomeno quelli inglesi e americani) insieme a Vittorini, fa conoscere i grandi scrittori americani, in particolare del Novecento, li
traduce (come il Moby Dick) e porta questa ventata di apertura nell’ asfittica letteratura italiana e soprattutto porta una possibilità di una nuova
lingua e di nuovo mondo da raccontare: da una parte il mondo quasi metatemporale, nel caso di Pavese dei contadini e delle colline delle
Langhe, dall’altra c’è anche il mondo dei contadini Steinbeck, autore che lui traduce, fa conoscere in Italia. Questo scontro tra i grandi miti, come
il mito della balena bianca di Melville, ha ricreato un mito moderno, dunque sono tutti autori che danno una linfa fondamentale anche a questo
mondo tra storia e mito di Pavese e anche a questa lingua che si apre completamente a una lingua più moderna, antiletteraria. E ciò è tutt'altro
che ovvio poiché adesso si viene fuori da un ventennio di autarchia totale, di mitizzazione di un certo tipo di scrittura tutt'altro che aperta alla
lingua parlata e alla lingua popolare.

Pavese, insieme con Vittorini, pubblicherà presto Bompiani una importantissima raccolta, un’antologica dei grandi narratori tra otto e
Novecento americani, che si intitola ‘’americana’’ e sarà un caposaldo della nuova letteratura post-fascista, perché si scoprono i grandi
narratori, in particolare americani e da allora l'influenza della letteratura e della scrittura, dello stile dei grandi narratori americani non è mai
finita (ancora tutt’ora la maggior parte dei grandi scrittori, narratori contemporanei ancora si rifà soprattutto a questa grande narrativa
americana 800centesca e 900centesca). Quindi Pavese ha avuto un ruolo editoriale di traduttore assolutamente fondamentale.

Pavese è anche uno scrittore importante di poesie e un esempio importantissimo per lui è stato quello della poesia di Walt Whitman (nell’800,
nella metà degli anni 50, esce la prima edizione di ‘’foglie d’erba’’ di Whitman, di cui si hanno tantissime edizioni). Il Pavese poeta si ispira
moltissimo (non solo il Pavese narratore), sarà proprio nutrito dall'esempio della letteratura americana, dalla narrativa (non solo nei suoi
romanzi e racconti), ma anche dalla migliore tradizione poetica moderna americana e in primis proprio da Walt Whitman, che è il padre diciamo
tutta la poesia moderna anche novecentesca americana.

Dunque per Pavese è importante sia con Vittorini il connubio editoriale, anche di diffusione di una narrativa che era stata censurata dal in epoca
fascista e sia la produzione romanzesca molto particolare che mescola il tempo storico, i luoghi reali (che sono sempre i luoghi della propria
infanzia) a un piano metatemporale, mitico che si incrocia a questo tempo reale, storico.
Qualcosa di simile fa anche Vittorini nel suo romanzo “Conversazioni in Sicilia”.

ELIO VITTORINI
Vittorini nel suo romanzo più famoso, ‘’Conversazione in Sicilia’’, che esce ancora in piena guerra, nel 41 (quasi 10 anni prima del ‘’la luna e i falò
di Pavese), si nutre degli stimoli in buona parte che erano anche in Pavese. Il protagonista torna in Sicilia ma poi senz'altro se ne va, si distacca, in
maniera ancora più evidente, quasi traumatica alla fine del romanzo. La scrittura, in certi momenti (molto più che in Pavese) entra proprio in una
scrittura del puro mito, del sogno, di una infanzia, di una memoria dell'infanzia completamente reinventata. Sono temi assolutamente
modernisti e novecenteschi.

Vittorini prenderà parte attivamente al momento della Resistenza e poi, ancora di più, del ripensamento di una nuova cultura e letteratura post-
ventennio e fonderà una delle riviste più importanti dell'immediato dopoguerra, ‘’il Politecnico’’, in cui ritiene che lo scrittore non può più essere
solo il puro scrittore letterato di un tempo, ma deve necessariamente essere un intellettuale, che prende la parola sulla contemporaneità e
anche su questioni non soltanto storiche ma che riguardano i problemi della società contemporanea. Quindi per esempio nel suo caso la rivista
eloquente ‘’il Politecnico’’ esprime la necessità di una cultura più moderna e più aperta agli sviluppi della scienza e della tecnica, che erano
rimasti troppo a lungo lontani ed estranei all’Italia del ventennio.

Come Pavese, anche Vittorini sposerà la causa ideologica del Partito Comunista Italiano. Ma come la gran parte degli scrittori, che saranno per
un motivo o per l'altro profondamente delusi e si staccheranno da una adesione totale, attiva al Partito Comunista, anche in Vittorini in
particolare succederà ciò: sarà duramente attaccato dal Partito proprio per le posizioni sostenute nel ‘’Politecnico’’, prima fra tutte quella che
l'intellettuale non deve essere semplicemente organico al partito (cioè intellettuale organico di matrice gramsciana è il cuore di tutti gli scrittori
intellettuali che aderiscono al PC dopo la guerra), per Vittorini è importante che lo scrittore, l'intellettuale mantenga anche una sua autonomia di
giudizio, non diventi solo la voce o il portavoce del partito. Ovviamente questo crea scompiglio e soprattutto la condanna e poi la chiusura della
rivista del Politecnico e l'allontanamento anche di Vittorini dal partito. (Questo è un percorso che faranno molti scrittori tra cui anche Pasolini e
Calvino).

Fatto particolarmente scioccante sia per Vittorini che per Calvino è la soppressione dei moti ungheresi nel 56: in Ungheria ci fu una grande
rivolta antisovietica popolare che fu zittita con l'intervento di carri armati. Quindi quello che era visto come l'ideale libertario, socialista,
comunista dell'Unione Sovietica reprimeva con il sangue qualsiasi istanza libertaria venisse dai Paesi che erano sotto l'egida dell’Unione
Sovietica. Questo fatto fu particolarmente scioccante per gli scrittori e intellettuali Italiani nel 56, soprattutto perché videro che il partito
comunista decise di non chiudere i rapporti con l’Unione Sovietica. Nelle proteste che furono fatte sostanzialmente delusero profondamente
scrittori e intellettuali, quindi molti dal 56 in poi abbandoneranno le fila del PC.

ELSA MORANTE
Poi l'altra scrittura che sembra partire dai presupposti di Neorealismo, mai attraversata profondamente, ancora più che forse in questi due
scrittori, dal tempo mitico dell'infanzia, dalla memoria ricreata, d un mondo della libertà associato anche alle figure dei ragazzi, di fanciulli, non
degli adulti, è tutta presente nella scrittura di Elsa Morante, una delle scritture che ha in parte molto offuscato la fortuna critica che hanno avuto
gli autori, gli scrittori di questo periodo, anche rispetto al fortunatissimo consorte Alberto Moravia.

BEPPE FENOGLIO
Sempre in questo ambito, in senso lato neorealistico, questo neorealismo che fa sempre letto guardando individualmente alle singole opere, ai
singoli autori, che inizialmente narra gli ultimi anni di guerra e soprattutto la lotta della liberazione, c’è un autore fondamentale, un classico nel
canale più alto della narrativa del 900, che è Beppe Fenoglio. Con lui ci si trova sempre in Piemonte, tra Cuneo e Torino, anche se la sua attività si
concentrerà poi a Torino (come nel caso di Pavese).

Non è un caso che tra gli anni della guerra e il periodo post-bellico, Torino e il Piemonte diventino una capitale assoluta della migliore letteratura
del secondo Novecento. Torino, oltre ad avere una università prestigiosa, è la città più industrializzata, insieme a Genova e a Milano (c’è la Fiat,
che vede il suo Trionfo già negli anni del Fascismo: si crea un buon connubio tra fascismo e la Fiat di Agnelli), sarà la città più moderna e
all'avanguardia e quindi aperta anche alle influenze o alle più varie cosmopolite non sono nazionali, anche in epoca di autarchia fascista. Questo
perchè sarà una delle città e delle regioni meno fasciste d'Italia per tutto il ventennio, anzi una delle più radicalmente antifasciste già prima
dell'ultimo biennio di guerra, cioè quello della lotta di liberazione dopo l'armistizio. Quindi è una sua salda profonda traduzione antifascista: due
nomi su tutti sono quelli di Gramsci e Gobetti. Gramsci è sardo di origine e poi si forma totalmente a Torino, Gobbetti è Torinese e morirà
giovanissimo, ventenne, dopo esser scappato a Parigi e dopo essere stato più volte picchiato dai fascisti e quindi muore per le conseguenze di
questi attacchi. Ma Gramsci e Gobetti sono tra più grandi intellettuali antifascisti della prima ora, c'è più loro sono dall'inizio: capisco benissimo
già dagli anni Venti che cosa è veramente il fascismo e a cosa avrebbe portato e quindi creano un dibattito, un ambiente profondamente
antifascista, importante anche negli anni 50 quando si arriva preparati anche intellettualmente all'epoca post-fascista. Invece moltissimi
intellettuali, anche i migliori, prima di capire a cosa avrebbe portato il fascismo aspettarono un bel po', incluso Benedetto Croce. Questi all'inizio
pensavo veramente, subito dopo la guerra, che solo Mussolini avrebbe potuto fermare l'avanzata comunista nel post rivoluzione d'ottobre che
era arrivata anche in Italia (fabbriche occupate, i consigli di fabbrica) e vedono come dei liberatori, un ritorno all'ordine assolutamente
necessario, in Mussolini, nei Fasci di combattimento. Molti capiscono più tardi dove si sta andando a parare, Croce lo capisce già nel 25, ma molti
arrivano gli anni 30, aspettano la campagna imperialistica in Africa e tutti i morti italiani e soprattutto la partecipazione alla guerra civile
spagnola, accanto alle truppe di Franco contro i repubblicani, che furono la procura generale anche per i fascisti italiani poi della guerra che
sarebbe iniziata subito dopo.  Quindi a Torino e in Piemonte si formano intellettuali, nel senso più alto antifascisti, già dagli anni Venti, tutta
una classe di scrittori e intellettuali che poi rimarrà tutta la seconda metà del Novecento.

Fenoglio insieme a Pavese rappresenta proprio questo questa generazione di giovani.

Einaudi, la casa editrice più prestigiosa della migliore intelligenza italiana, non è un caso che nasca a Torino, perché Einaudi trova attorno a sé è
già tutto un contesto intellettuale (non solo di scrittori) molto vivace e molto attivo ancora in piena epoca fascista. Quindi Pavese ed Einaudi
arrivano alla fine della guerra non per caso ma c'erano già stato un ventennio di preparazione di questa cultura Democratica, ed Einaudi era
cresciuta in un ambiente di per sé ‘’naturaliter antifascista’’, il più naturale antifascista, di tutta Italia. Torino e il Piemonte avevano un ambiente
che dalle origini (prima ancora che vincesse il fascismo) era proprio agli antipodi di un’idea autoritaria e antidemocratica, come quella che
avrebbe imposto il fascismo. Pavese è uno degli animatori, dei fondatori della casa editrice.

Fenoglio verrà pubblicato dall’Einaudi, ma Beppe Fenoglio, uno di quegli autori che ha rimesso un po' in discussione il canone letterario
novecentesco, ha avuto un iter molto particolare come scrittura.

Innanzitutto importante è un fatto autobiografico: muore quarantenne, quindi giovanissimo all'inizio degli anni 60 per un incidente. Aveva già
pubblicato delle opere narrative, era stato giornalista, però la grandezza di Fenoglio viene soprattutto decretata post mortem, dopo la sua
morte.

Il partigiano Johnny
Dopo la sua morte, si riesce a mettere insieme quel romanzo straordinario conosciuto ‘’Il partigiano Johnny’’ che racconta, in maniera esplicita,
proprio la partecipazione di questo protagonista (sotto il quale si vede la figura dello stesso Fenoglio) ai gruppi partigiani piemontesi. Siamo nello
stesso ambiente geografico e storico di Pavese, c’è questo filone Torinese, appartenente alla letteratura cosiddetta resistenziale. Ma questo
partigiano Johnny ha una storia particolare: viene pubblicato dopo che è morto Fenoglio, dopo il 63, ma la prima edizione Einaudi è del 68 (di
cinque anni dopo), romanzo che non era stato finito. Ma in realtà se è fatta una gran fatica a pubblicarlo, perché si trovano almeno due redazioni
manoscritte di questo romanzo. Quindi, a partire dal 68, ci sono varie edizioni critiche, per varie ipotesi di filologia che hanno ricostruito questo
grandioso romanzo esistenziale cambiandone spesso, anche radicalmente il volto: si ritrovano altri capitoli, altre parti che inizialmente non erano
state pubblicate, alcune edizioni decidono che la seconda principale è in realtà quella più avanzata, quella a cui fare riferimento rispetto alla
prima redazione, che invece era stata utilizzata nella prima pubblicazione del 68.
Non è un caso che sulla riedizione del partigiano Johnny ci lavorano due dei più grandi filologi della letteratura novecentesca: Maria Corti, con
un altro importante importantissima edizione critica nella 78 (A 10 anni dal primo tentativo di edizione che però ha avuto successo enorme.
Questa della Corti è la prima vera edizione critica); negli anni 90 (1992) e all'inizio del 2000 (2001) l’altro grande filologo della narrativa del
Novecento Dante Isella prepara altri due edizioni  fortuna editoriale enorme ma si affianca allo stesso tempo una riedizione continua di
questo romanzo.

È romanzo molto particolare perché è un romanzo postumo, non ha visto neanche luce in una prima redazione voluta direttamente dall'autore.
La prima edizione nel 68 mette insieme sostanzialmente due grandi e diverse stesure che hanno proprio scritture e stili diversi. Maria Corti ci
lavora per 10 anni, crea un'edizione improvvisata e viene fuori un'altra stesura; poi ci lavora Dante Isella (anche perché trovano altro materiale,
altre testimonianze dello stesso Fenoglio, come il materiale epistolare) e fa altre due edizioni critiche. Nel 2015, qualche anno fa, fa un'altra
ancora edizione critica un filologo, più giovane, Gabriele Pedullà, il quale cambia il titolo, ritendendo questo titolo non quello che voleva
veramente l'autore, ma quello che si trova nelle carte di Fenoglio è ‘’il libro di Johnny’’. Quindi quello che era un titolo ormai emblematico al 68
‘’Il partigiano Johnny’’ invece diventa in questa ultima edizione critica ‘’il libro di Johnny”. Viene quindi eliminata una parola chiave che è
partigiano.

Questo romanzo ha di particolare tutte le motivazioni possibili e immaginabili, per cui ha avuto un grandissimo successo, che non ha mai smesso
di crescere. Il canone novecentesco, soprattutto per il secondo Novecento, è formato da qualcosa che ancora ci tocca da vicino, perché gli
studiosi ora stanno veramente o comunque non dà tanto, sondando il terreno della letteratura dagli anni 50 in poi.

EDIZIONI
 1968: prima edizione Einaudi
 1978: prima edizione critica della filologa Maria Corti
 1992 e 2001: edizioni del filologo Dante Isella
 2015: edizione del filologo Gabriele Pedullà con il titolo “Il libro di Johnny”

Di che cosa parla questo romanzo e qual è la sua peculiarità rispetto alla narrativa resistenziale?
Il Partigiano Johnny racconta in realtà (come sottolinea Pedullà) una vicenda esistenziale, assolutamente novecentesca di questo protagonista,
attraversato da un amore folle enorme per tutto ciò che è cultura anglo-americana (e nell'epoca fascista era già profondamente contestatario e
antifascista). Quando si narra il momento della partecipazione alla Resistenza, viene fuori un racconto che non è puro mito. Anzi all'interno dei
gruppi partigiani ci furono guerre intestine fortissime, tra gruppi liberali e socialisti, comunisti, anarchici, monarchici, repubblicani, erano tutti
partecipi attivamente alla resistenza, ma erano ovviamente ideologicamente molto lontani l'uno dall'altro e questo scatenò conflitti, anche
sanguinosi, all'interno di questi vari gruppi.

Fenoglio racconta questo, che nel 68 era stato un grosso tabù dell'immediato dopoguerra: le forze che escono dalla liberazione, che fondano la
nostra Repubblica italiana, non avevamo nessun interesse a sottolineare le debolezze, le ottusità, le violenze, il sangue, le ingiustizie di questi
gruppi eroici e residenziali, che hanno portato alla liberazione anche d'Italia, insieme agli alleati. Quindi sicuramente anche questo, con il
racconto a contropelo della Resistenza, in cui molti elementi che erano stati totalmente mitizzati ed eroicizzati, è uno sguardo sulla lotta
partigiana, che non a tutti piacque ma ovviamente piacque molto a chi aveva uno sguardo più disincantato e anche distaccato, anche per un
fatto generazionale, rispetto alla lotta di liberazione.questo è uno dei tanti motivi che ha portato alla fortuna enorme questo di questo
romanzo.

Racconta una verità storica, una esperienza esistenziale del personaggio di Johnny, un personaggio assolutamente profondo, interessante, molto
sfaccettato. Tanto che Gabriele Pedullà, ultimo editore negli anni 2000 del romanzo, che lui chiama ‘’il libro di Johnny’’, ritiene che l'elemento
che è stato sempre esaltato [quello della lotta resistenziale], come se tutta la vicenda di questo personaggio girasse solo nell'esperienza del suo
essere partigiano, in realtà aveva un respiro più ampio. Gabriele celebra questo romanzo proprio come una sorta di ‘’Epos moderno’’,
influenzato che dall’epos Virgiliano, ossia dall’Eneide. Ha fatto una serie di studi per dimostrare come l'esempio dell'Eneide, del classico, fosse
ben presente a Fenoglio quando scrisse questo suo romanzo e costruì questo personaggio, che è un eroe ma anche un antieroe, cioè è un
elemento mitico ed eroico che ormai circonda totalmente la resistenza, lotta partigiana, ma viene realizzato da Fenoglio con aspetti di anti
eroicità, perché sbaglia, ha debolezze umane enormi (mito di Enea). Pedullà rilegge il romanzo delimitando il territorio del racconto in maniera
più moderna, novecentesca questo personaggio. (libro di Johnny come Eneide del 900).

Incredibile è la lingua e lo stile di questo romanzo che ne hanno reso l'esempio di una narrativa di altissimo livello perchè sperimenta una lingua
mescolata, pluristilistica e plurilinguistica, in cui fa ampio uso non solo dell'italiano, del dialetto, della lingua popolare ma anche dell'inglese,
soprattutto in quello che hai conosciuto come ‘’il partigiano Johnny’’1, il primo nucleo, la prima parte, che era fortemente sperimentale in
questo senso anche linguistico e stilistico: si scopre una modernità nella forma, nello stile del romanzo.
Pedullà è convinto che Fenoglio abbia davanti l'Eneide, cioè la storia di un finto vinto dalla storia che scappa da Troia e capace di fondare una
nuova grandissima nobilissima civiltà, però prima di arrivare lì c'è tutto il racconto di come ci arriva e di come diventa il fondatore di questa
grande civiltà con tanti elementi assolutamente umani di questo personaggio, i suoi sentimenti, le sue debolezze (episodio di Cartagine:
dell'innamoramento per Didone, per la quale lui dimentica completamente il suo dovere di fondare questa nuova città). Per Pedullà ‘’Il
partigiano Johnny’’ quello che chiama ‘’il libro di Johnny’’, voleva essere un Epos novecentesco, quindi una grande prova (non portata a termine
per ragioni accidentali) di Fenoglio di una grande romanzo non soltanto della Resistenza ma di un personaggio assolutamente novecentesco,
come appunto il protagonista con tutta la sua grandezza perché partecipa attivamente alla guerra di Liberazione (ha un suo lato eroico) ma con
anche tutte le sue debolezze. Questo riguarda anche altri personaggi che lo circondano. Ma questa lettura molto più ampia, metatemporale, non
strettamente legata alla storia, come quella della liberazione partigiana, ha trovato molti critici che hanno storto il naso. Si ha avuto un dibattito,
che ancora assolutamente in corso perché l'ultima edizione di Pedullà del 2015 e ha innestato una serie di riflessioni critiche: lo ha fatto uscire
diciamo da quel recinto, in cui era stato inserito, della letteratura resistenziale, cioè tutto quell'insieme li romanzi, racconti, in parte molto meno
poesie che è un raccontato l'epoca della lotta partigiana.

Passo tratto dal Partigiano Johnny.


Questo passo racconta un momento importante cioè quando gli alleati intimeranno ai Partigiani, anche Piemontesi, di smettere la guerra
partigiana, perché americani e inglesi temeva la rivoluzione ideologica sociale, politica radicale di cui erano portatori questi gruppi di partigiani,
in particolare quelli comunisti. All’inizio addestrano, aiutano, danno le armi ai partigiani, però nel 44 intimano lo stop. Quando ormai
nell'autunno del 44 la guerra è quasi vinta, gli alleati intimeranno i Partigiani di smettere, di abbandonare le armi e chiudere questa
partecipazione resistenziale: ma non fu semplice perché ovviamente moltissimi di questi gruppi partigiani (in particolare ma non solo quelli
comunisti) non accettarono facilmente questa richiesta da parte degli alleati, perché si sarebbe tornato a un ordine prebellico, facilmente
controllabile politicamente da parte delle forze alleate.

Quindi in questo passo sta raccontando questo momento chiave, nel fine 44 sta per finire la guerra, quindi nel novembre del 44 mancano pochi
mesi alla fine della guerra. I partigiani non servono più agli alleati e quindi si tenta di convincerli ad abbandonare la lotta armata.

Questa (che sta leggendo) è l'edizione della Corti:

-‘’Il mattino successivo marciarono a Mango [tutti luoghi reali e storici] per vera sete di notizie e inquadramento della situazione. Marciarono
valutando l'aria che era stata fatta di recente respirata da nemici, con le suole sentivano la terra che essi avevano così a lungo e trionfalmente
calpestata.’’: i partigiani passano i luoghi che fino a poco pochissimo tempo prima e calpestati dai nemici, dai nazifascisti. Importante è
l'espressione ‘’i mortali nemici’’ e ‘’trionfalmente calpestata’’: il passo trionfare dei nazisti viene evocato quando ormai invece la loro guerra
persa.
-‘’ e quel mondo collinare [le stesse colline piemontesi di Pavese] che stavano attraversando gli appariva ora fittizio e provvisorio, sinistro e
squallido, come un teatro sgomberato alle 4 di mattina.’’: era il mondo con le case dei contadini, i campi che erano velocemente abbandonati,
non solo dai nazifascisti in fuga, ma anche dai contadini che erano scappati da quei territori martoriati. Vengono rievocati con uno stile
espressionistico.
-‘’i fascisti avevano espugnato, distrutto e cancellato tutto’’: c'è Climax ascendente: erano state prima espugnate, poi distrutte e poi addirittura
cancellate.
-‘’non si trattava soltanto di perdita di iniziativa, della più a fondo distruzione della versione, la stessa natura e possibilità del partigianato in
crisi’’: erano i luoghi che stavano per abbandonare anche i Partigiani, proprio perché erano stati ammoniti dagli alleati che avevano chiesto di
lasciare la guerra in collina. I partigiani si rifugiano in luoghi occulti sulle colline ma quando con gli alleati gli richiamano a tornare città, molti di
quei luoghi vennero abbandonati improvvisamente. È momento anche difficilissimo all'interno dei gruppi partigiani perché molti invece si
rifiutavano di consegnare le armi e di cessare questa guerra partigiana. Qui parla infatti dei partigiani che sono in crisi: è un momento di
passaggio molto delicato nella loro storia.
-‘’ la diserzione, la vacuità delle grandi colline era così lampante da ferirne gli occhi’’: molti partigiani disertarono, cioè avevano abbandonato le
armi perché era stata una guerra molto dura e terribile. A una vittoria dei partigiani poi rispondeva una controffensiva nazifascista, che era
particolarmente violenta. C'era una vendetta vera e propria contro i Partigiani e contro la popolazione inerte che in qualche modo li proteggeva.
Quindi molti partigiani non ce la facevano a restare fino alla fine e abbandonavano anche prima che gli alleati chiedevano di abbandonare le
armi. C’era dunque anche una diserzione dei Partigiani. La vacuità delle grandi colline indica proprio il fatto che erano abbandonate, c’è un senso
di vuoto che era tanto lampante negli occhi.
-‘’i fascisti li avevano ridotti da parecchie migliaia a poche centinaia’’: non è una marcia trionfale quella della lotta partigiana, nell'immediato
dopoguerra. Fenoglio la conosce bene perché aveva partecipato attivamente e sà che a una offensiva partigiana corrispondeva una
controffensiva, per cui venivano sterminati centinaia e centinaia di partigiani e di uomini inermi, donne, vecchi e bambini della popolazione che
in qualche modo secondo i nazifascisti li aveva protetti. Quindi quello piemontese è un territorio ‘’naturaliter antifascista’’, per cui ci fu una
adesione immediata alla lotta partigiana ma poi successero una serie di cose terribili (cose che non faceva piacere ricordare nell'immediato
dopoguerra) e da un'adesione enorme, soprattutto in Piemonte, di migliaia di partigiani poi (perché morti o perché trucidati o per diserzione) da
tante migliaia alla fine della guerra erano rimasti in poche centinaia.
-‘’quanto a queste migliaia, pensava Johnny, andando, dove avevano preso rifugio e nascondiglio?’’: è un monologo interiore, usato nello stile
novecentesco americano di Fenoglio. C'è il partigiano Johnny che medita sulla fine che hanno fatto tutti quelli che hanno lasciato la guerra
partigiana e lo dice in un monologo interiore.
-‘’la terra doveva averli inghiottiti. Anche Castino, l’antico gran quartiere generale, ora stava vacuo e squallido’’: questi territori abbandonati,
espressionisticamente nello stile, vengono richiamati con aggettivi molto forti. “vacui” sono svuotati, abbandonati, squallidi, mummificati come
una similitudine, come se fosse un paesaggio di una mummia di un essere morto, imbalsamato così com’ era nel punto di morte, per sempre.
-‘’sul suo ciglione scalcinato [imbiancato] spoglio di erba tutto cancellato’: è fortissimo stilisticamente. Dopo tutto questo passo, in cui parla del
paesaggio delle colline devastato, dai nazifascisti, dalla guerra partigiana, dall'abbandono da parte di molti partigiani, insiste proprio
stilisticamente anche sull’idea dello squallore di questo paesaggio semi abbandonato. Le parole cancellato/vacuo sono le parole più forti che lo
definiscono. Fortissimo è questa brevissima proposizione: tutto cancellato.
- ‘’i quartieri, i posti di blocco, le linee telefoniche, le linee di conduzione elettrica... tutto cancellato’’: inizia l’elencazione di cosa è stato
cancellato. C’è l'immagine più forte che vuole dare Fenoglio di questo paesaggio. C’è la contrapposizione netta in tutte queste righe, proposizioni
e periodi: era tutto squallido, cancellato, abbandonato.
-‘’quella ultra viva, colorita, blatante [riprendere al francese: plurilinguismo incessante, rumorosa] la vita ribelle letteralmente sradicata come un
grande e lieto e tremendo maypole’’: è l'albero della cuccagna in inglese. Tutto cancellato, tutto squallido ora (dopo che i territori sono stati
abbandonati), viene evocato però immediatamente dopo la contrapposizione fortissima di come era viva la vita in quelle colline ed era stata
letteralmente sradicato dalla storia prima dai nazifascisti e ora dall’abbandono da parte dei partigiani. C’è la funzione antitetica di lieto e
tremendo albero della cuccagna. Questo paesaggio bellissimo delle Langhe, prima vivo, animato e ricco è stato saccheggiato come l’albero della
cuccagna il quale dopo che tutti hanno preso i premi rimane completamente spoglio. Oltre a questi elementi stilistici c’è il plurilinguismo con
‘’blatante’’ e ‘’maypole’’, con l'uso della parola direttamente in inglese.
- ultimo periodo: ‘’Pier [amico del protagonista Johnny] concluse per tutti [un futuro nero e breve] <<restiamo uno per collina. I fascisti lo sanno e
ci sistemeranno molto presto’’: sono rimasti in pochissimi a non abbandonare la lotta partigiana le colline e Pier dice, quello che nessuno vuole
dire ad alta voce, cioè che i fascisti sono violenti.
-‘’ 5 o 6 guarnigione di alba verranno super collina e spacceranno l'uno di noi su di essa, Così saremo tutti morti prima della primavera’’: il topos
della Primavera in un territorio di guerra è uno degli elementi simbolici più importanti di tutta la letteratura narrativa e poesia di guerra del 900,
sia per Prima Guerra Mondiale che per la seconda. Cioè rievocare il ritorno della vita, che è simboleggiato dalla primavera, la vita che ritorna
dopo l'inverno, già nella prima guerra mondiale e poi nella letteratura della Seconda Guerra Mondiale, la primavera paradossalmente richiama
invece la morte, la fine di tutto. [il campo di grano di De Andrè si abbevera proprio a questa fonte]. La primavera è topos letterario, dei miti
letterari che hanno reinventato il mito classico, la primavera è uno dei più antichi utilizzato nell'arte, nella letteratura in ogni secolo. Già nella
letteratura e nella poesia della guerra mondiale era associato ed era interpretato come momento in cui riprende la guerra dopo inverno (perché
per le due guerre i mesi freddi dell'inverno, soprattutto nelle colline piemontesi, significavano stop all'avanzata e aspettare di poter riprendere
l'offensiva con la primavera) dalla Prima Guerra Mondiale in poi primavera significava sì rinascita della natura ma anche ripresa gli orrori della
storia.

Precisazione: [un'opera meravigliosa è ‘’con me e con gli alpini’, un prosimetro, poesia di Piero Jahier, volontario nella prima guerra mondiale tra
gli alpini. C’è il topos reinventato della primavera che riporta il rigoglio della natura, ma contemporaneamente il ritorno della morte, perché
ricomincia l'avanzata estenuante nella prima guerra mondiale con gli austriaci.

È stato un mito fondante, venuto fuori dalle due guerre, nella cultura, in particolare italiana, che ha portato ad uno dei film più belli degli ultimi
decenni che è ‘’Torneranno i prati’’ in cui c’è questo rapporto tra il rinascere della natura e la bellezza sacra, spirituale della natura e insieme
l'orrore della storia, in questi stessi luoghi in cui la natura riprende i territori di guerra]

Quindi in questo passo dell’opera di Fenoglio viene evocato questo paesaggio abbandonato, squallido delle colline dove sono rimasti pochissimi
partigiani ancora combattere. Si chiude con l’immagine della primavera associata alla morte.

Alcune pagine dopo c’è uno dei capi partigiani (molti erano totalmente scoraggiati nell’inverno del 44, invece alcuni capi partigiani riuscirono a
tenere duro fino alla fine), il Partigiano Nord (sono tutti i nomi inventati quelli dei partigiani, come Johnny, Pier, Nord, nomi di battaglia perchè
non bisognava far riconoscere facilmente l'identità perché sennò ci sarebbe stata la ritorsione conto le loro famiglie e il paese di provenienza).
Questo Partigiano Nord alla fine, dopo un lungo scoraggiamento sia di Johnny che di Pier, dirà con l’arrivo della primavera:

-‘Nord sorrise e sospirò: -La primavera’’: la primavera potrà (invece di portare la morte), se resistono ancora, portare la vittoria. Ed è quello che
successe perché con la primavera del 45 finisce veramente la guerra.

• Con Calvino e Pasolini affrontano questo discorso, rispetto alla letteratura resistenziale.

CHIARIMENTI: cosa si intende per autori americani in Pavese? statunitensi o Americani? Sono statunitensi. La letteratura nordamericana è molto
diversa rispetto a quella sudamericana. Il mito della letteratura nordamericana (che tuttora influenza profondamente la nostra narrativa) è
lontanissimo dall'altro grande mito sudamericano. La scrittura antieroica, antiaulica, antiletteraria della gente della lingua comune, della
scarnificazione del racconto che tipica della letteratura nordamericana, viene portata in Italia Innanzitutto da Pavese e Vittorini, in parte durante
l’autarchia fascista. Malville e Steinbeck, maestri massimi della narrativa americana, diventano dei maestri anche per gli scrittori italiani, grazie
alla antologia americana curata da Vittorini e poi grazie alle tante traduzione di Pavese e poi di molti altri scrittori che hanno fatto conoscere
questa letteratura nordamericana otto-novecentesca.

Lezione 7 – 31 marzo ’21


PIER PAOLO PASOLINI
Negli stessi anni in cui si va affermando la scrittura di Fenoglio, si afferma una voce apparentemente estranea a tutto quello che abbiamo detto
finora: quella di Pierpaolo Pasolini.
Pasolini è un intellettuale e scrittore a tutto tondo, sicuramente uno dei più grandi se non il più grande del secondo 900 italiano, scrittore in
realtà coltissimo, studia lettere a Bologna, allievo di uno dei grandi storici dell’arte Roberto Longhi e questo si vede anche nelle sue opere da
regista. Scrittore coltissimo che sposa già agli esordi della sua carriera letteraria l’idea di una letteratura che parli lingue nuove e lingue che
guardino soprattutto a quello che è il popolo degli ultimi, dei reietti, quello che è, possiamo dirlo ormai in termini novecenteschi, il
sottoproletariato tanto caro a Pasolini che è uno dei più feroci antiborghesi che ci sia stato nel secondo novecento.
In che senso? Già nelle prime opere guarda a questo mondo degli ultimi e utilizza una nuova lingua apparentemente antiletteraria, piena di
dialettismi.
Inizia come poeta: pubblica in dialetto friulano perché soprattutto negli ultimi anni della guerra si rifugerà con la madre in Friuli (che è la Terra
della madre) proprio per scappare dalle violenze dei nazifascisti, mentre il fratello diventa partigiano e verrà ucciso proprio dai partigiani. (Già
questo è un primo shock enorme nella vita ideologica di Pasolini).
Pasolini invece scappa con la madre in Friuli, qui fonda un accademia di poesia friulana, pubblica versi in dialetto friulano che saranno molto
apprezzati dai critici più raffinati e poi avrà – riassumiamo la sua enorme vicenda culturale - oltre ad una produzione poetica molto ricca e molto
importante anche una produzione narrativa altrettanto importante e più influente forse fino a qualche decennio fa perché legata ad un realismo
popolare un po’ passato di moda: i suoi due romanzi più vicini ad un’idea di neorealismo, di lingua, di racconto del sottoproletariato urbano,
degli ultimi, sono i due romanzi “Ragazzi di vita” (1955) e “Una vita violenta” (1959), due romanzi bandiera del migliore neo realismo che da
voce anche nella lingua a questo sottoproletariato dimenticato e lasciato nelle borgate (a questa altezza cronologica, negli anni 50 in cui scrive i
due romanzi, le borgate a cui fa riferimento sono le borgate romane perché nelle sue diverse tappe esistenziali e letterarie Pasolini lascerà
Bologna e l’insegnamento perché subirà un processo per atti osceni: la sua omosessualità sarà il grande scandalo).

I due romanzi sono l’emblema del romanzo neorealista che parla delle borgate romane degli ultimi, in assoluto.
Al romanzo corale “Ragazzi di vita” - in cui troviamo giovani che vivono di espedienti, anche di prostituzione, per sopravvivere nella Roma,
invece, in piena espansione anche economica negli anni 50 - succede il romanzo “Una vita violenta” che si concentra invece su un personaggio
in particolare, sempre dalle borgate romane, che cerca una possibile redenzione o possibile riscatto. Quindi l’ambiente è il sottoproletariato che
viene assolutamente mitizzato da Pasoli: gli unici puri a cui riconosce una sorta di sacralità assoluta sono proprio gli ultimi, i sottoproletari. E
questa sarà una tematica chiave non solo dei romanzi ma anche della poesia.
Precisazione: nel romanzo “In una vita violenta” si sofferma su uno dei ragazzi di vita che tenta, cerca una sua presa di coscienza e un suo
riscatto sociale. Se vogliamo fare un confronto che sembra una bestemmia ma non lo è, pensiamo ai Malavoglia, romanzo corale, la comunità
degli ultimi dei Malavoglia e a mastro Don Gesualdo: l’operazione che fa Pasolini è simile. Dal romanzo tutto corale “Ragazzi di vita” si passa al
romanzo “Una vita violenta” in cui abbiamo in particolare un personaggio.

Pasolini: grande poeta, poeta anche dialettale, poeta del riscatto degli ultimi, poeta che indaga, nella sua poesia che è impegnata almeno quanto
i romanzi, una possibile via nuova per il PC – anche lui aderisce al Partito Comunista e verrà poi allontanato per la sua scandalosa omosessualità,
che sarà lo scandalo di tutta la sua vita e sarà il primo a farne oggetto di riflessione pubblica e sociale. Parlerà del PC anche nella sua poesia, di
questo mito soprattutto Gramsciano: “Le ceneri di Gramsci” è la raccolta in cui, più direttamente, riflette anche sulla crisi del PC, in particolare
dopo i fatti del 56 che abbiamo già richiamato ieri cioè la repressione violenta dei sovietici contro le manifestazioni di piazza in Ungheria.
Ma la sua attività culturale e letteraria non si ferma a questi due generi chiave – quello del romanzo e della poesia, in cui tanto innova - ma
diventa anche un grandissimo regista, uno dei registi più importanti, espressione più alta del neorealismo cinematografico in cui in realtà – come
nei romanzi e nella poesia - questa voce dovrebbe essere la voce che difende gli ultimi. Poi in realtà in particolare nel suo cinema si arricchisce di
una valenza artistica strepitosa. Per molti (e anche per la Chiummo) il suo cinema resta nel canone altissimo della cultura del 900 anche più dei
suoi romanzi, che gli danno grande fama e per i quali viene ricordato nelle antologie.

Alcuni dei suoi capolavori cinematografici: la ricotta; che cosa sono le nuvole; il vangelo secondo Matteo; mamma Roma  sono tutti
espressione di questo neorealismo anche cinematografico perché Pasolini capisce ormai che la cultura passa anche per i nuovi mezzi artistici più
moderni, quindi anche il cinema, a lui particolarmente caro. Ma è anche un cinema che ha uno sguardo fortemente estetico, perché Pasolini è un
grande conoscitore della storia dell’arte, ha fatto studi particolarmente approfonditi e filmicamente questa cosa viene fuori, così come viene
fuori chiaramente una forte vena poetica. Uno degli episodi più strepitosi del cinema pasoliniano è l’episodio filmico che s’intitola “che cosa sono
le nuvole”.
Nella sua ricchissima produzione cinematografica si dedicherà anche a mettere in scena cinematograficamente i grandi classici della narrativa
medievale come il Decameron, i racconti di Canterbury e il fiore de le mille e una notte, quindi la migliore narrativa medievale e allo stesso tempo
si cimenta nella forma del teatro, attraverso un teatro fortemente moderno che rilegge i classici – che lui conosce molto bene - del teatro
classico e anche forte, fortissimamente sperimentale.

Altra opera importante sono “I comizi d’amore”: inchieste, in giro per l’Italia, su varie tematiche, anche quella sessuale ma non solo. Troviamo
anche inchieste sui paesaggi africani, sulle società africane: assocerà anche documentaristicamente e anche teatralmente l’antico, il puro, il
selvaggio anche al selvaggio puro degli ultimi della terra, quindi gli africani, anche in questo tematica impegnata e allo stesso tempo
esteticamente innovativa. C’è anche il confronto con Moravia: Moravia – sodale letterario strettissimo di Pasolini in particolare nella Roma dagli
anni 50 in poi in cui risiederà. Pasolini partecipa attivamente alla rivista di cui è protagonista in assoluto Moravia “Nuovi Argomenti” (rivista
culturale e letteraria tutt’ora molto importante). Il sodalizio con Moravia e anche con la Morante sarà talmente stretto che per esempio i viaggi
in Africa verranno compiuti insieme a loro. Nel frattempo la Morante è stata sostituita da Dacia Maraini ma insomma la Roma degli anni 50, in
particolare, ma anche la Roma degli anni 60 è una delle grandi capitali culturali d’Italia, una delle capitali del neorealismo, grazie anche a
Moravia, alla Morante e a Pasolini e anche, come sappiamo della grande cinematografia del grande realismo italiano che viene tutt’ora
riconosciuto come una delle espressioni più alte del cinema post bellico da tutti i grandi registi internazionali. E Pasolini con la sua
cinematografia e con i suoi film inchiesta partecipa attivamente a questo rinnovamento del cinema e a questo risorgere e soprattutto affermarsi
del cinema neorealista e del cinema di scuola romana.

Quindi il cinema, le inchieste documentaristiche e insieme la militanza intellettuale: intellettuale militante al 100%, scriverà non solo su “Nuovi
Argomenti” ma su tutte le riviste e i quotidiani, come il Corriere della sera. Le sue riflessioni mordaci, assolutamente lucide, spietate contro la
società borghese e capitalista è sempre a totale favore di questo sottoproletariato urbano dimenticato, fino al famoso attacco frontale, che gli
costerà moltissime critiche anche da parte di vecchi sodali intellettuali, l’attacco sferrato contro la rivolta studentesca sessantottina che vede
Roma come una delle sue capitali. Pasolini in tale occasione scriverà il suo famoso attacco contro i giovani sessantottini che stanno facendo il
68 a Roma che dirà lui, sono i figli di papà della buona borghesia romana che attaccano quelli che sono i figli e l’espressione del proletariato cioè
i poliziotti. Una posizione, come sempre, assolutamente eretica, come scrive lui stesso nelle sue “Luterane” raccolta di articoli feroci contro la
società e la cultura anche più vicina a lui.

Domanda della classe: Pasolini si metterà contro i sessantottini durante tutta la rivoluzione o solo dopo la battaglia di Valle Giulia?
Risposta: bisogna leggere con attenzione l’ultimo capitolo del testo “Decostruzioni dell’homo Italicus” quello sull’invettiva perché Pasolini è stato
uno dei grandi maestri della poesia invettivale d’Italia, cioè di quella poesia che in versi si scaglia contro anche le battaglie più apparentemente
avanzate. In questo capitolo ci sono alcune riflessioni di Pasolini sul 68, le fa a caldo su Il corriere della sera dopo che c’è stato il famoso assalto a
Valle Giulia da parte degli studenti, in particolare di architettura, che fanno esplodere, incendiano il 68 romano che sarà uno dei più accesi
insieme a quello di Milano, Padova e Bologna in tutta Italia. Pasolini affermerà che le istanze libertarie che vogliono superare la cultura borghese
vengono però messe in mano ai figli di papà che studiano nell’ateneo romano e in particolare nelle facoltà di elite come quella di architettura da
cui era partito l’attacco a Valle Giulia, sede della facoltà. Tra i protagonisti di questo attacco c’è l’architetto Massimiliano Fuksas, uno dei più
importanti tra gli architetti viventi e agenti ancor in Italia e all’estero, amatissimo in tutto il mondo. Pasolini attacca profondamente tutte quelle
che dovevano essere le istanze rivoluzionarie di questi studenti perché non crede alla loro sincerità sociale e culturale, sono figli di papà che
giocano alla rivoluzione e si permettono di attaccare – in questo scontro violento tra polizia e studenti – anche moralmente i poliziotti che
intervengono pesantemente. In realtà quelli da difendere sono i poliziotti in quanto espressione del proletariato di tutta Italia. Pasolini non crede
alla sincerità della rivoluzione fatta dalla buona borghesia romana.

Solo questo? No. Pasolini è stato un grandissimo intellettuale perché non ha mai smesso di rileggere a contropelo la società e i fatti dell’Italia
capitalistica dagli anni 50 in poi, fino all’anno del suo assassinio.

In questa produzione degli ultimi anni scriverà un tipo di prosa poetica a metà tra prosa giornalistica (tanto che pubblica sul Corriere della Sera e
sull’Espresso quest’attacco frontale ai sessantottini) e struttura ritmico retorica che è propria della poesia. Questo è tipico di tutti i suoi
interventi sui fatti più caldi tra fine anni 60 e anni 70, come il colpo di Stato in Grecia, dove i colonelli reprimono le rivolte sociali in Grecia con la
dittatura e nel famoso dito puntato contro l’IO SO, che probabilmente gli costò la vita. Pasolini è stato trucidato allo scalo di Ostia da giovinetti
sottoproletari che lui amava in tutti i sensi (anche sessualmente) il 2 novembre 1975. Il processo ha condannato poi il principale istigatore di
questa violenza di gruppo ma l’ombra, il sospetto (sono gli anni in cui c’è uno stato parallelo – a partire dai fatti del 69 di piazza Fontana – quello
stato parallelo che aiuta a mettere le bombe qua e la) è rimasta sul fatto che dietro questo eccidio apparentemente a sfondo sessuale in realtà ci
sia stata la manina occulta di questo Stato deviato che vedeva nelle accuse dirette e molto chiare di Pasolini, rivolte a tutto il sistema politico e
istituzionale, un pericolo enorme. Questo perché Pasolini ormai negli anni 70 era un maestro assoluto e tutto quello che lui diceva, anche dalle
prime pagine del corriere della Sera (questo dito puntato “IO SO” che siete voi colpevoli, dove voi è lo Stato, i grandi capitalisti che mettono le
bombe a Piazza Fontana e così via), ovviamente faceva molto paura. Sono i famosi misteri (entriamo nella contemporaneità) degli anni di
piombo che non sono mai stati rivelati. Su Pasolini resta l’ombra e il sospetto che non sia stato solo un omicidio a sfondo sessuale ma che ci sia
stata una manina occulta che ha aiutato a eliminare questa voce scomodissima del giornalismo e di questa particolare forma di scrittura tra
scrittura giornalistica e poesia, qualcosa di inedito, che troviamo in questi suoi scritti che sono tra i più violenti: dall’IO SO, fino all’attacco
frontale agli studenti in rivolta del 68 o contro quello che sta succedendo in Grecia, mostrando di essere uno degli intellettuali più lucidi e senza
paura.

All’interno del romanzo incompiuto “Petrolio”, comunque pubblicato anche se non finito (perché lo ammazzano nel 75) nella sua forma spuria,
troviamo un attacco frontale anche ai monopoli internazionali, in particolare quelli delle sette sorelle (grandi multinazionali petrolifere) e di tutti
gli intrecci politici e le stragi di stato fatte in nome di questo strapotere economico internazionale. Pasolini costruisce questo libro – romanzo –
inchiesta che è Petrolio che portava avanti teorie su ciò che era successo, per esempio la morte misteriosa di Enrico Mattei in Italia a causa di
questo strapotere economico e politico soprattutto delle multinazionali del petrolio.
Era quindi un intellettuale e uno scrittore talmente scomodo tanto che l’idea dell’ombra di uno stato parallelo deviato che abbia aiutato
nell’uccisione di questo intellettuale, tutt’ora persiste. (ufficialmente è stato ucciso da quei ragazzini che pagava per prestazioni sessuali, cosa
chiaramente affermata in “Ragazzi di vita”).
Il film “la macchinazione” riprende proprio il romanzo incompiuto di Pasolini “il Petrolio”.

Domanda classe: quali sono gli scritti più violenti?


Risposta: Contro l’attacco a Valle Giulia; l’arrivo dei generali e quindi il colpo di stato di destra in Grecia; il famoso “IO SO” che è una denuncia di
tutti i fatti oscuri che stavano succedendo in Italia, da Piazza Fontana in poi. Pasolini denuncia apertamente lo stesso stato italiano, lo stato
deviato, che secondo lui ha architettato queste stragi degli anni di Piombo. Lo sa pur non avendo prove, perché è un intellettuale.

Domanda della classe: Si può dire che l'operazione di Saviano, con i suoi romanzi-inchiesta, sia discendente da Pasolini?
Risposta: Saviano è nipote di Pasolini, cronologicamente parlando. C’è tutto un recupero della scrittura militante pasoliniana soprattutto
nell’ambiente letterario italiano e romano. Le vie raccontate in Ragazzi di Vita e Vita violenta sono quelle di Monteverde, un tempo proletaria,
piena di borgate, di casupole ora quartiere borghese, dal quale sono stati cacciati via i proletari. Monteverde è il cuore della vita di Pasolini,
perché vive li. Saviano quindi si ricollega direttamente ma c’è tutta una generazione di scrittori impegnati oggi che riprende la parola, lì dove
l’aveva lasciata Pasolini e tra questi troviamo Saviano, con i suoi libri inchiesta, discendenti diretti dell’opera, nel senso più ampio, di Pasolini
perché gli scritti corsari – altra opera in cui raccoglie i suoi scritti “giornalistici” insieme ai suoi romanzi, alla sua prosa poetico giornalistica – sono
tutti elementi che sono stati raccolti da questi scrittori. Pasolini quindi è uno degli scrittori più scomodi e impegnati del 900 che ancora oggi ha
tantissimo da dire.
La stessa morte di Pasolini, tutto ciò che lui ha scritto su gli anni di Piombo, che lui intuisce prima di tutti e ha il coraggio di dire, anche se non
aveva le prove (e non ha visto la strage della stazione di Bologna, perché fu ucciso cinque anni prima) ma ha visto le stragi di piazza della Fontana
e piazza delle Logge a Brescia: è stata buttata questa cappa di piombo pesantissima sull’Italia, a partire dal 69. Dopo quarant’anni q, anche grazie
ad anni di processi e deviazioni di ogni tipo, è stato provato che aveva ragione Pasolini. Le forze di destra organizzarono e fecero anche
materialmente quell’eccidio di Bologna, così come a piazza Fontana e a Brescia ma erano state armate e coperte, affinchè non venissero
individuati i colpevoli veri, dai servizi deviati. Pasolini l’aveva capito e detto prima di tutti.
Saviano ha avuto una copertura e una protezione di stato che Pasolini non ha avuto: eravamo negli anni di Piombo e Pasolini stesso accusava lo
stato per quelle stragi.

Una volta morto, Pasolini è diventato una divinità assoluta: il grande martire è stato osannato da sinistra a destra, è diventato un nume tutelare
di espressioni di una cultura molto lontana da lui.

Ultima cosa che diciamo di Pasolini: molto importante e interessante è il Pasolini critico letterario. Intellettuale super colto e raffinato, riconosce
in Gianfranco Contini uno dei suoi maestri in campo letterario, così come riconosce Roberto Longhi tra i suoi maestri massimi nel campo delle
arti visive. Studia in uno degli atenei più importanti d’Italia, l’Alma mater studiorum di Bologna che conferma la sostanza che c’è dietro ai discorsi
anche puramente letterari di Pasolini e tra le opere più importanti criticamente che raccolgono gli scritti letterari di Pasolini troviamo “Passione
e ideologia”: sono suoi saggi bellissimi sulla poesia del 900 , lui vede, capisce, è un po’ il post Montale. Per quanto Pasolini e Montale vanno in
conflitto diretto e Montale prenderà in giro anche Pasolini nella sua poesia negli ultimi anni, in realtà nella lettura della poesia del 900 e dei
giovani e scrittori e poeti del 900, Pasolini sembra un erede della lungimiranza di Montale. È difficile azzeccare giudizi su scrittori e ancora di più
poeti contemporanei nuovi: noi ci appoggiamo ormai ad una tradizione critica anche di pochi decenni che però ci aiuta a giudicare lucidamente e
con distacco soprattutto i giovani poeti. Ma questa è una delle cose più difficile da fare: la critica militante sulla nuova poesia prende degli
abbagli clamorosi per cui si inneggia a poeti che poi, dopo pochi decenni, nessuno legge e decadono completamente dal canone. Montale è stato
uno dei primi a farlo in maniera assolutamente lungimirante sulla poesia del primo e metà 900, Pasolini continuerà in questo lavoro molto
complicato di critica militante letteraria. In passione e ideologia troviamo la quint’essenza della sua critica letteraria e in particolare, per quanto
riguarda la poesia, la sua lettura anti novecentista. Negli anni 50 lui dirà chiaramente che non c’è solo la linea ermetica come linea vincente,
quasi fosse l’unica della nostra poesia contemporanea: c’è anche tutta una linea anti - novecetesca, (in cui Pasolini si riconosce) che ha una
lettura e una scrittura, degli stili e dei linguaggi che sono opposti alla linea ermetica e tra i padri della linea anti novecentesca, Pasolini pone
Pascoli e Saba. Quindi anche come critico militante, in particolare della poesia, riesce a mettere a fuoco già negli anni 50 qualcosa che molto
dopo verrà messo meglio a fuoco dalla critica militante e accademica che ha letto e studiato la poesia del 900.

Passo scelto da una vita violenta (che troveremo nei testi della prof ma che non abbiamo letto a lezione)  al centro c’è il protagonista, il
singolo sottoproletario Tommaso e la sua lenta e difficile presa di coscienza. In questo passo la scrittura neorealistica che descrive le borgate
romane e il ragazzo di vita Tommaso, con la sua lingua popolare, il romanesco, viene associato ad un momento quasi idilliaco, poetico, cioè il
momento in cui Tommaso, nella sua baracca, guarda la bellezza dell’arrivo della notte. Questo perché Pasolini è un grande poeta anche quando
fa il romanziere, il regista.
“Fuori era già notte alta, con tutto che non dovevano essere neppure le sette e si sentivano le voci” è un linguaggio che riproduce la semplicità
della lingua di Tommaso però passa anche la bellezza post Pascoliana. La tesi di laurea di Pasolini è su Pascoli, è uno dei suoi poeti più cari e in
questa descrizione, attraverso gli occhi del sottoproletario Tommaso, viene descritto questo squarcio bellissimo della notte nelle borgate
romane. Lo sguardo poetico di Pasolini sull’umanità, in particolare su questa umanità sottoproletaria è evidente anche quando descrive una
notte in una borgata, quindi in un luogo che non è idilliaco: la notte viene descritta attraverso gli occhi semplici di questo ragazzo.

Saggio di Carla Benedetti: Pasolini contro Calvino


A fine anni 90 uscì un saggio molto interessante di Carla Benedetti – studiosa di letteratura contemporanea - dal titolo “Pasolini contro Calvino”
che dovendo stabilire un canone soprattutto narrativo, intellettuale, smontava il mito che aveva messo al centro della letteratura e degli studi
scolastici e universitari sulla narrativa post moderna Calvino, con la volontà di recuperare una letteratura più vicina alle battaglia intellettuali e
allo stile, alla scrittura, allo scandalo di Pasolini (parola molto cara allo stesso Pasolini), contro la ricerca molto post moderna, post
strutturalistica, semiologica, narratologica di Calvino che ha vinto nelle scuole e nelle aule accademiche rispetto alla narrativa che era
all’apposto, l’anti- Calvino, che era quella di Pasolini. Questo saggio, che incitava al recupero di questa scrittura anche d’impegno, mettendo un
fine al post strutturalismo e alla narratologia di Calvino, ha creato grande scandalo e dibattito.
La cosa interessante è che parliamo di noi: siamo nel 2000 e anche noi possiamo farci la nostra idea ed esprimere la nostra preferenza tra un
intellettuale, narratore, critico provocatore come Pasolini e un narratore e scrittore post strutturalista che indaga sulla struttura del narrare in un
senso molto moderno come Calvino.
Calvino aveva stravinto negli ultimi anni e probabilmente ancora adesso a scuola ma, più da parte degli scrittori, c’è un fortissimo ritorno alla
scrittura dell’impegno di Pasolini.
La narratologia, il post strutturalismo e il post moderno, ora iniziano a segnare il passo anche in Italia.
Quindi benissimo Calvino, benissimo Eco, benissimo il Lector in fabula (saggio di Eco), gli apocalittici integrati di Eco, benissimo se una notte
d’inverno un viaggiatore e in nome della rosa ma ci siamo dimenticati, strada facendo, che c’è anche un’altra tradizione che potremmo portare
avanti.
C’è stata una forte riscossa che è partita proprio dagli scrittori e solo in parte dalla critica accademica, con un forte recupero della lezione ancora
molto viva di Pasolini rispetto a un canone più elitario, razionalistico, filofrancese, post moderno che ha portato al centro degli studi e delle
glorie del secondo 900 una linea che, per semplificare e riassumere, possiamo definire narratologica, post strutturalista, post moderna Calvino-
Eco, con cui chiuderemo il percorso.
ITALO CALVINO
Questo perché Calvino parte da un discorso di narrativa resistenziale: è uno dei primi scrittori che a ridosso della fine della guerra, nel 47, fa
uscire questo particolarissimo romanzo “I sentieri dei nidi di ragno” (Calvino è stato un grande innovatore nella scrittura). La novità assoluta
risiede nel fatto che l’esperienza resistenziale, assolutamente vicina, viene letta e vista tutta attraverso lo sguardo di un ragazzino, Pin, che è la
voce narrante e il punto di vista principale in questo romanzo resistenziale. Vediamo come sotto l’etichetta di narrativa resistenziale c’è tutto e il
contrario di tutto. La Chiummo, in questo caso, è d’accordo con Mengaldo: non bisogna straparlare di poetiche e scuole letterarie e bisogna fare
attenzione alle specificità, quando si parla di grandi autori. Questa è la differenza tra il grande scrittore e lo scrittore di maniera: lo scrittore di
maniera si aggrega ad una scuola, ad un pensiero, ad una poetica che lo convince ma non riesce a lasciare un’impronta tutta sua e quindi prima o
poi cadrà nel dimenticatoio.
Calvino non smetterà mai di essere un grande innovatore, un grande ricercatore di nuove forme narrative fino ad approdare a quelle che hanno
avuto un enorme successo: c’è stato tutto un momento di scrittura narrativa legata ad un impegno anche politico, intellettuale, ecologico anche
importante tanto nei suoi racconti quanto nei suoi romani, quindi sicuramente anche un innovatore di sostanza ma il suo punto di arrivo, che è
stato molto amato nelle aule scolastiche e universitarie, è stato l’ultimo Calvino che è entrato in contatto diretto, animando anche da Parigi,
dove lui risiedette a lungo, gli esperimenti narrativi del Gruppo degli OuLiPo (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero
"officina di letteratura potenziale") che erano i laboratori di letteratura potenziale. Questi avevano sperimentato fino ai limiti possibili della
scrittura narrativa le possibilità di destrutturazione e ricostruzione delle tradizionali vie della narrazione e lo stesso Calvino si era fatto portavoce
delle ricerche più avanzate della semiologia (soprattutto anni 70/80) grazie ai suoi contatti francesi ma non solo. Negli anni 70/80 in Italia
spopola, anche nelle aule universitarie, la semiologia, gli studi narratologici, il post strutturalismo che studiano le forme poetiche e soprattutto
narrative, per sperimentare al massimo, giocare (c’è un aspetto ludico importante) con le strutture del romanzo in una chiave assolutamente
post moderna. Calvino negli ultimi anni fa propria la riflessione sia teorica che la pratica letteraria in quelli che sono i suoi scritti che hanno un
enorme successo, anche scolastico e universitario: “Se una notte d’inverno un viaggiatore” “il castello dei destini incrociati” “le città invisibili”
sono tutti delle prove di narrativa post moderna (è anche sbagliato chiamarli romanzi) in cui si destruttura cioè si rompono gli schemi tradizionali
della narrazione e si prova a rimescolarli tutti quanti secondo forme sperimentali che sono proprie della letteratura potenziale (chiamata così dai
francesi che sono stati i più grandi maestri di questa letteratura post moderna).
Calvino mostra come, per esempio, un incipit di romanzo “se una notte d’inverno un viaggiatore” può essere replicato all’infinito seguendo
forme, tra loro diversissime, della narrativa tradizionale: dal giallo, al romanzo realista, a quello sentimentale, al romanzo russo esistenziale. E
quindi si gioca a replicare, a rompere questo cubo perfetto del romanzo tradizionale e a rimescolare tutte le carte, con una letteratura che è
definita potenziale.
Letteratura potenziale vuol dire proprio questo: giocare con le vecchie figure della narrativa e mostrare, in una forma che è anche saggistica
(narrativa che è anche teoria della letteratura: una fusione perfetta tra scrittura narrativa e teoria della narrativa) quali sono i segreti della
narrazione, scomporli e rimetterli insieme in un laboratorio, mostrare questo gioco post strutturalista, che rompe le strutture tradizionali del
racconto, sotto gli occhi del lettore. Lo scrittore – narratore – saggista rompe sotto gli occhi del lettore queste strutture della narrativa
tradizionale. È una letteratura potenziale, dalla quale può venire fuori una mole infinita di possibili riscritture.
“Se una notte d’inverno un viaggiatore” dimostra proprio questo;
“Il castello dei destini incrociati” si ispira a quello che è un grandissimo maestro di questa destrutturazione post strutturalista che è Ariosto con il
suo Orlando Furioso che ha insegnato poi ai secoli successivi e anche ai narratori del 900, in particolare ai post strutturalisti e ai post modernisti
come Calvino, come un intrecciarsi narrativo possa essere scomposto, sospeso, ripreso, nei modi più ricchi e possibili in base ad un’ inventiva
straordinaria che è quella di Aristo nel suo Orlando Furioso che era costruito proprio così: intreccio enorme di racconti che si intrecciano tra di
loro nei modi più vari, sospendendo la narrazione, introducendo lo stesso episodio ma dal punto di vista di un altro personaggio. Ariosto è il
maestro classico di questo gioco narratologico che è anche un gioco saggistico che farà il Calvino degli ultimi anni, che avrà un successo
strepitoso in Italia, nelle scuole italiane, nelle università, in Francia che è la patria di questo post strutturalismo, per gli Americani (scriverà le
lezioni Americane).
Le lezioni americane, che sono l’ultima prova da saggista e conferenziere in America di Calvino, omaggiato anche in Italia e negli Stati Uniti.

Domanda classe: cosa introduce Calvino al posto del romanzo tradizionale?


Risposta: una letteratura potenziale cioè attraverso la scrittura tradizionale più varia - persino il Milione di Marco Polo è presente nelle Città
Invisibili - il post moderno gioca a rompere sotto gli occhi del lettore la struttura e la narrazione della narrativa mondiale più varia (da Ariosto a
Marco Polo, passando per il romanzo tradizionale, al giallo) e gioca a ricomporre, nelle maniere più varie, queste strutture narrative. La
letteratura potenziale, quindi, sa giocare – come un grande chimico – con gli elementi che da secoli ormai si erano incancreniti in forme e idee di
narrazione plurisecolari e destrutturarle. Il post moderno è un grande cumulo di macerie con cui giocano gli scrittori. Quelli più intelligenti come
Calvino lo fanno anche per evocare cose bellissime e nobili di questa produzione. Seguendo e riscrivendo: la riscrittura e la decostruzione dei
classici è il nucleo di qualsiasi scrittura che viene definita post - modernista. Niente di più lontano dalla lezione di Pasolini.

Il visconte dimezzato, il barone rampante e il cavaliere inesistente compongono la trilogia dei nostri antenati. Lui stesso, si è profuso da bravo
scrittore, ad una linea consapevolmente post modernista, si è profuso nei generi più diversi.

Calvino reinventa il genere della favola moraleggiante, che ha tra i suoi modelli massimi Voltaire con il suo Candide. Ancora prima di arrivare
all’epoca post strutturalista del suo ultimo decennio già alla fine degli anni 50 si era cimentato nei generi più vari.

Da Le città invisibili.
Il romanzo post strutturalista destruttura le fonti, evocando luoghi e città esotici che molto spesso richiamano luoghi reali, reinventano luoghi
favolosi e mitici come per esempio, nel passo scelto, Venezia. Marco Polo racconta a Kubai Khlan di essere nella città Smeraldina che è la città di
Venezia.
“ A Smeraldina, città acquatica”  vediamo come l’elemento fiabesco, del racconto di viaggio favoloso, segue una linea fiabesca molto cara già
dagli anni 50 a Calvino. Con le città invisibili siamo già negli anni 70
“un reticolo di canali, un reticolo di strade si sovrappongono e si intersecano”  racconta in maniera immaginifica, quasi fiabesca, questa città
che è in realtà Venezia.
“Per andare da un posto a un altro hai sempre la scelta tra il percorso terrestre e quello in barca: e poiché la linea più breve tra due punti a
Smeraldina non è una retta ma uno zigzag che si ramifica in tortuose varianti, le vie che s’aprono a ogni passante non sono soltanto due ma
molte, e ancora aumentano per chi alterna traghetti in barca e trasbordi1 all’asciutto.”  Calvino va avanti con questa evocazione favolosa di
questo luogo che non è solo favoloso, non è solo un non luogo dell’immaginazione di marco Polo ma è Venezia, chiamata Smeraldina dal colore
smeraldo. Ma qual è la cosa interessante? Chiaramente evocando favolisticamente questa Venezia sta in realtà parlando al 100% secondo quei
dettami post strutturalisti e post moderni del reinventare e destrutturare la scrittura.
Il passeggiare, il viaggiare attraverso Venezia diventa un perdersi in una ramificazione infinita dei vicoli della topografia di Venezia. Il topos del
racconto di viaggio, come topos delle possibili scritture narrative è il topos più importante, motivo fondante di tutta la scrittura teorica e insieme
narrativa, aspetti inscindibili in questa sua ultima produzione.
Il reticolo di canali di questo viaggio e di questa topografia non solo evocano la Venezia reale ma evocano i sentieri infiniti della possibile
narrazione, della letteratura potenziale.

Da Le lezioni americane – la leggerezza.


Dalle sue Lezioni Americane la prof ha scelto il passo sulla Leggerezza, che però non abbiamo letto.
La leggerezza è una delle qualità indicate da Calvino come una delle strade importanti da recuperare di questa nuova narrativa. Leggerezza
insieme a Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Coerenza (solo progettata) sono le qualità di questa scrittura che è anche la sua. Noteremo
che insieme alla leggerezza (quindi il togliere più che la sovrabbondanza della scrittura) Calvino unisce l’elemento dell’esattezza, della precisione,
che viene dai suoi miti razionalistici e scientifici che gli vengono dalla sua stessa formazione e famiglia. Calvino è figlio di chimici, di scienziati, di
studiosi di formazione scientifica e questa ricerca della precisione è costante nella scrittura e nella riflessione di Calvino sulla letteratura anche
del domani. Quindi accanto alla leggerezza, alla rapidità, uno dei punti che qualifica anche la ricerca letteraria di Calvino razionalista è appunto
quella dell’esattezza.

UMBERTO ECO
Eco si può legare facilmente a Calvino.
Eco è stato un grande studioso, docente universitario di semiologia e semiotica, grande teorico della scrittura del post moderno e del post
strutturalismo, con saggi che hanno formato intere generazioni come Lector in Fabula e gli apocalittici integrati, all’interno dei quali troviamo il
trionfo del post moderno, della destrutturazione delle forme della narrativa tradizionale, che vengono scomposte e assemblate in maniera quasi
ludica in nuove narrazioni.
Il cuore della riflessione di Eco, studioso di letteratura e di narratologia, è in Lector in fabula dove fa irruzione l’importanza del lettore all’interno
della struttura del romanzo (qualcosa di molto simile aveva detto anche Calvino). Non è importante l’attività assoluta dello scrittore, non c’è una
letteratura chiusa per sempre ma l’opera è sempre aperta alle infinite letture da parte del lettore, quindi il lettore diventa parte integrante e
fondamentale della scrittura narrativa e della riflessione di Eco (questo era implicito già in Calvino). Siamo in un territorio vicino e per molti
aspetti uguale a quello di Calvino: post strutturalismo, post moderno e moderna narratologia. Grazie a questi saggi che in vario modo hanno
riflettuto sulle infinite possibilità della narrativa tradizionale, scomposta e rimessa insieme, con i brandelli del passato ricostruiti liberamente,
Eco ha fatto la fortuna anche come romanziere.
Il successo del suo romanzo “In nome della Rosa” 1980 è stato enorme e internazionale. Cosa faceva nella narrazione di questo romanzo
l’enorme fortuna? Umberto Eco applicava le sue teorie di professore universitario di estetica e semiotica nell’ateneo bolognese, rimettendo
insieme delle strutture tradizionali della narrazione ( come il ritrovamento del manoscritto, il giallo con una serie di morti ammazzati,
l’ambientazione medievale all’interno dei chiostri dei monasteri medievali assolutamente affascinante dal romanticismo in poi, la riflessione
metaletteraria) ci gioca insieme, le rimette insieme. Essendo un grande studioso non racconta idiozie perché costruisce un modo immaginario in
base a conoscenze mostruose che nascono dai suoi studi di filosofia medievale (Eco è uno dei più grandi studiosi della filosofia in particolare di
San Tommaso) e quindi ricostruisce con le conoscenze sue di professore ma come scrittore questo nuovo mondo narrativo.
Trama: finge che nella contemporaneità questo narratore ritrovi questo manoscritto (questo è un vecchio espediente, basti pensare a Manzoni
ma anche ai romanzi del 700 – non italiano). Questo espediente del manoscritto ritrovato fa parte fa parte della tradizione narrativa
sette/ottocentesca e lui lo riprende. E cosa ritrova? Il manoscritto di questo giovane aiutante monaco Guglielmo di Basskerville che è il monaco
che scoprirà cosa c’è dietro a questa serie di morti all’interno di questo monastero benedettino. Qual è il giallo che alla fine si scopre? Che in
realtà i monaci venivano ammazzati tramite un veleno da uno dei più reazionari di questi monaci bibliotecari ,che ammazzava color che
scoprivano questa ultima copia (unica) del secondo libro della Poetica di Aristotele che doveva occuparsi della commedia e del riso(che non è
mai arrivata a noi. Noi conosciamo solo la parte sulla tragedia) e poiché era parte scandalosa che avrebbe buttato all’aria una tradizione classica
e classicistica e anche scolastica – l’aristotelismo è la chiave di volta della Scolastica medievale – la scoperta di questa parte ignota avrebbe
minato la serietà e la moralità della nostra cultura occidentale fondata sulla poetica di Aristotele. E per questo venivano ammazzi in vario modo,
in particolare con il veleno che veniva sparso su questo unico codice. È un vero e proprio giallo.
Questo romanzo può essere letto a tantissimi livelli, qui risiede la sua grandezza.
La peculiarità del romanzo:

1. Eco ne parla senza dire fesserie, ricostruendo un mondo che lui conosce a menadito da studioso.
2. Gioca su tante forme della narrazione, decostruendole e ricostruendole.
3. È un discorso assolutamente metaletterario che flette su una tradizione che è tutta la nostra tradizione occidentale, che ha
avuto la poetica di Aristotele come base di tutta la sua riflessione sul fare letterario. Alla piacevolezza della scrittura si arriva
pian piano, oltre a conosce Aristotele e la filosofia del medioevo, ricostruita abilmente dallo studioso di filosofia medievale
Eco, si arriva alla riflessione narratologica. Eco è uno di quegli scrittori che come Calvino e anche più di Calvino, gioca
sempre sul filo dell’ironia, il gioco della destrutturazione e ricostruzione dei possibili narrativi è giocato sempre con estrema
leggerezza.

Lezione 8 - 1 aprile
Rapporto tra Pasolini e Italo Calvino: in una prospettiva critica di contemporaneità e di 900.
In particolare, trattiamo la letteratura dagli anni 50 agli anni 2000, elemento molto interessante e molto stimolante, perché veramente si tratta
di un canone ancora da costruire, o quello più o meno provvisorio che sta venendo fuori viene costantemente ridiscusso, criticato, rielaborato.
Pasolini e Calvino: in parallelo, a partire dal secondo dopoguerra, in particolare dagli anni 50 in poi, hanno dovuto necessariamente riflettere
(parlando della narrativa) su cosa scrivere, perché scriverlo e come scriverlo.

Pasolini, intellettuale militante, per quel che riguarda la narrativa degli anni 50, risponde con due dei romanzi chiave della linea neorealistica:
‘’ragazzi di vita’’ e ‘’una vita violenta’’. In questi c’è una rappresentazione del sottoproletariato urbano, in particolare romano (sua città di
elezione finale per molti decenni fino alla morte), il quale viene brutalmente messo sulla pagina, cioè non viene affatto edulcorata la
rappresentazione del sottoproletariato, infatti viene rappresentata la violenza, temi scottanti come, al di là quello della povertà e della miseria,
dello squallore della loro vita nelle periferie o in zone degradate ci sono dei temi della prostituzione minorile. Quindi c’è tutto quello che
veramente faceva parte della vita animalesca e della vita violenta del sottoproletariato urbano. Eppure, questo il proletariato urbano, in tutta la
sua primitività e in tutta la sua violenza, rappresenta qualcosa di veramente vero, unico, ultimo, è rappresentante sociale di quella avversione e
lotta al capitalismo e all’omologazione trionfante anche in Italia (con qualche decennio di ritardo rispetto ad altre grandi potenze industriali) che
ha falcidiato, raso al suolo l'Italia sostanzialmente contadina, quella cultura plurisecolare, di cui Pasolini sente una profonda nostalgia. Per questo
è stato (ed è tutt'ora da molti considerato) paradossalmente reazionario. La critica radicale, totale alla società borghese e capitalistica, ancora
più neocapitalistica, post-industriale, che trionfa in Italia creando quel famoso boom economico tra gli anni 50-60, a Pasolini non piace: perché
ha creato una omologazione di massa, quello della società borghese capitalistica, una lingua unica omogenee, grigia quella creata in particolare
dei mass media e della televisione, che Pasolini odia. La nostra cultura, il nostro portato culturale, antropologico, vero, profondo, plurisecolare,
millenario, Italico è stato cancellato in pochissimi anni una volta per tutte.
Tutta la narrativa, tutta la poesia, il teatro, il cinema di Pasolini canteranno la fine dolorosa e straziante di questa storia plurisecolare di una
civiltà contadina e il trionfo della omologazione di massa.

Pasolini non si arrende fino al 75, quando viene ammazzato, e continuerà questa battaglia su tutti i fronti possibili, anche quello del romanzo.
Infatti compone il romanzo ‘’petrolio’’, incompiuto, pubblicato molto dopo, postumo da Einaudi, mettendo insieme quello che si era riuscito a
ritrovare tra i manoscritti di Pasolini o tra stralci pubblicati , fino ad arrivare al superamento del puro Neorealismo, negli anni 50, di ’’una vita
violenta’’ e ’’ragazzi di vita’’ per una narrazione di tipo mescidato (mescolato) di giornalismo, documentarismo e critica militante, che metteva
insieme lo scandalo di tutta la società capitalistica e post industriale dagli anni 50 in poi in Italia, asservita alle grandi lobby delle multinazionali,
in particolare quella del petrolio e che appunto hanno stravinto, stravolgendo la storia d’Italia, macchiandosi di feroci colpe, non solo culturali,
ma anche sociali.

Lo scandalo orrendo delle morti sospette, a cominciare da quella di Enrico Mattei (che aveva attentato nell'immediato dopoguerra di creare una
industria petrolifera italiana, autonoma alle grandi multinazionali, il quale morì in un incidente aereo), fino a tutte le stragi di Stato, quelle
avvenute dal 69, da Piazza Fontana in poi, tutto questo viene richiamato in maniera radicalmente critica in questo abbozzo di romanzo, che ha
superato totalmente la linea neorealistica degli anni 50 e ha creato le basi di una forma di iper-realismo, cioè una scrittura del romanzo che si fa
profondamente giornalistica, d'inchiesta, apertamente militante e con una lingua che aderisce totalmente a questo linguaggio non più letterario,
neanche ingenuamente neorealistico (come quello punto dei ‘’ragazzi di vita’’, ma profondamente calato nella lingua e nella realtà, soprattutto
dalle realtà d'inchiesta, di cui si nutre questo particolare romanzo-saggio- inchiesta.

Ma la lezione di Pasolini è arrivata fino ad oggi, fino a Saviano? per buona parte sì, la lezione di Pasolini non è morta nel 75 e in questi anni
proprio si sta fermando, anche soprattutto grazie ai libri di Saviano, questa forma mescidata di romanzo saggio, di inchiesta, pezzo giornalistico,
animato da un taglio militante, idea di una militanza ideologia che non è più partitica. Noi siamo una società, in un sistema post partiti, in una
società post ideologica. Quindi questa forma di romanzo saggio, giornalismo, d'inchiesta è una eredità pasoliniana.

Quindi il Pasolini neorealista degli anni 50, con due romanzi ‘’ragazzi di vita’’ (corale) e ‘’una vita violenta’’, con unico personaggio Tommasino,
ha raccontato il sottoproletariato urbano che il capitalismo trionfante in Italia (quello che sta portando il boom negli anni 50 e una ricchezza
economica in Italia) ha sostanzialmente dimenticato e buttato nelle periferie.

Lo sperimentalismo di Pasolini è stato veramente infinito. Per vent'anni, ha rivoluzionato tutto, non solo la narrativa e l'opera, che è difficile
chiamare romanzo (perché non è un romanzo nel senso vecchio) ‘’petrolio’’ ha rivoluzionato l'idea della narrazione.
Ma Pasolini ha rivoluzionato tutto a cominciare dalla poesia, che è stata il suo punto di partenza, e (secondo la prof) la sua visione
sostanzialmente e profondamente poetica della realtà. E ciò è confermato dai suoi cinema e dal suo teatro. Il nucleo poetico di Pasolini è
evidente non solo nella sua poesia. Quindi Pasolini è il narratore che va da Neorealismo a quello, che oggi viene chiamato iper-realismo: un
romanzo che non è più semplicemente romanzo, ma diventa romanzo-inchiesta e così si arriva a ‘’petrolio’’.
In Pasolini è una idealizzazione questo mondo contadino e questo sottoproletariato, che lui non ha mai cessato di cantare in tutti i modi e in tutti
i generi. La poesia esprime benissimo questo sguardo sia militante, cioè che prende la parola, è un punto di vista corrente critico sull'Italia
contemporanea, sia molto lirico e molto poetico.

Nella sua scrittura Pasolini si ispira a tanti autori, è uno degli scrittori più vulcanici che abbiamo avuto nel giro di 20 anni, ha rivoluzionare l'idea
di letteratura. Accanto a Pasolini narratore si possono porre Pascoli e Saba.

Pasolini è stato anche un grandissimo poeta e critico militante e critico letterario che già negli anni 50 creò una linea di lettura della poesia del
900 facendo presente, dal suo punto di vista, una lettura contraria a una assolutizzazione della linea ermetica, come la linea novecentesca per
eccellenza. Sosteneva una linea anti novecentesca, contraria alla poesia post simbolista, essenziale, scarnificata (di rinvii a questo altrove
metafisico), con un tono metafisico (tutto quello che poi si definisce una poetica ermetica). Per fondare questa sua linea interpretativa anti-
novecentesca della poesia prendeva a padri, poeti vati per eccellenza Pascoli e Saba (anche se il punto di vista critico resta quello di Pascoli).

- PASCOLI: (ovviamente è la visione critica di Pasolini, basata sulla sua idea di poetica). Di Pascoli Pasolini dice che finora si è saltato il poeta della
natura, dei simboli, della poesia rarefatta, di un linguaggio simbolistico (quello caro alla linea ermetica), invece per lui Pascoli ha un versante
superiore, che corrisponde, non al Pascoli delle Myricae, ma al Pascoli dei ‘’poemetti’’, che sono le due raccolte ‘’primi poemetti’’ e ‘’nuovi
poemetti’’, in cui invece Pascoli adotta generosamente la forma narrativa della poesia, quindi non una poesia simbolistica, delle epifanie, della
parola sminuzzata, ma al contrario una poesia narrativa sul modello dantesco (la Commedia per cui Pascoli ha una assoluta venerazione. Infatti
Pascoli aveva ripreso la forma della terzina incatenata, quella con cui è costruita tutta la commedia). In questi pometti raccontava, proprio in una
sorta di romanzo in versi, la vita di una famiglia di contadini della zona dove lui viveva cioè torno a Castelvecchio, dove inizia la Garfagnana, in
Toscana. Motivo per cui questo piaceva a Pasolini era la presenza della civiltà contadina, che lui rimpiange perché secondo lui è stata
completamente distrutta nell'Italia industrializzata del boom economico.

- SABA: è il poeta anti avanguardistico per eccellenza. Saba in pieno periodo di esplosione delle avanguardie poetiche (crepuscolarismo,
espressionismo, Futurismo) orgogliosamente si riallaccerà a quella che lui chiama ‘’la linea d'oro della tradizione’’, ovvero da Dante e Petrarca
fino a Carducci. Questo avviene già nelle prime raccolte famose nel 1912, quando in pieno periodo di avanguardia (che fa venire meno la
tradizione poetica italiana) Saba fonda un discorso poetico completamente diverso e su questa linea si pone Pasolini.
Saba è da sempre, anche nel periodo delle avanguardie, fautore di una letteratura sincera (quindi niente provocazione futuriste, neanche
languori estenuati crepuscolari, niente frammentazione del discorso e dello stesso io poetico come nell'espressionismo), oltre un versante
fortemente sensuale, passionale, anche se depresso e, dopo la sua morte, anche uno sessuale. In questo ovviamente Pasolini trova facilmente la
sua visione.

Quindi Pascoli e Saba c'entrano con la lettura del Pasolini critico, letterario e con la sua idea controcorrente degli anni 50 di una poesia del
Novecento, che non sia stata tutta rivoluzioni radicali rispetto alla tradizione passata (che si tratta o di avanguardia di primo 900 o della linea
ermetica imperante dopo la Seconda guerra mondiale). Crea una linea anti-novecentista di cui mette a capo a punto in particolare Pascoli e
Saba.

Italo Calvino
Perché è importante far dialogare questi due autori così diversi?
Calvino, tutto scrittura fondata su principi razionalistici. Veniva da una famiglia dai forti interessi scientifici.
Pasolini e Calvino sono due voci che hanno interpretato due possibili tradizioni narrative del secondo 900: Pasolini dai romanzi neorealisti degli
anni 50 fino al romanzo inchiesta ‘’petrolio’’, Calvino invece, scrittore ricchissimo di scritture diverse. Criticamente parlando ha una linea di
grande sperimentazione secondo le avanguardie più innovative nel campo della letteratura e della linguistica del 900 mondiale. Pasolini è
profondamente calato nella realtà storica, culturale, letteraria e linguistica italiana, ha lo sguardo sempre in parte rivolto verso il passato
perduto, verso la civiltà contadina perduta, Calvino ha lo sguardo tutto proiettato in avanti e nel mondo, è uno degli autori più amati e conosciuti
in tutto il mondo del secondo 900.

Le primissime mosse da giovane sono nel campo della narrativa. Nel 47, a ridosso della fine della seconda guerra mondiale, scrive e pubblica ‘’Il
sentiero dei nidi di ragno’’, che fa parte del filone resistenziale, e la peculiarità, già in questa opera giovanile, è che il punto di vista è quello che
un ragazzino, ed è già una costruzione molto originale dell’epica resistenziale. invece al centro c’è il punto di vista, della questa narrazione del
periodo della Resistenza, di un bambino, Pin. Anche il titolo richiama proprio le immagini, luoghi, linguaggio che è caro ad un bambino. Quindi
già ha una prospettiva narrativa, uno stile soprattutto, una scrittura molto innovativa anche all'interno di un territorio che avrà una sua forza
importante (come nella letteratura della Resistenza).

Poi fino agli anni 80 (muore 10 anni dopo Pasolini), in questo quarantennio, sperimenta tantissimo e incessantemente. Allora c'è tutto un cotè
che rilegge e modernizza, come il genere fiabesco, di fantasia quindi apparentemente romanzi che sembrano scritti per dei ragazzini, ma in realtà
si rifanno a una tradizione soprattutto del racconto filosofico che viene dalla Francia del 700, cioè sotto una favola ingenua raccontava, in modo
ingenuo e favolistico, dei contenuti profondi e filosofici. Questi sono tre romanzi che poi lui stesso raccoglie sotto il titolo di favole filosofiche dei
‘’nostri antenati’’ (visconte dimezzato, il barone rampante e il cavaliere inesistente).

Contemporaneamente e fino agli anni 80 scriverà molti racconti e molti romanzi ispirati alla questione dell'inquinamento, al problema della sua
crisi in quanto intellettuale inizialmente militante fra le file del PC, dopo il 56 (fatti in Ungheria) è uno dei tanti che si allontana dal partito. Quindi
riversa in parte tutte queste problematiche moderne in diversi suoi racconti e romanzi, come ’’la speculazione edilizia’’ ‘’la nuvola’’ ‘’la giornata
di uno scrutatore’’. C'è tutta una narrativa che guarda ai problemi politici, ambientali in questo momento innovativo e vicini alla realtà
contemporanea. Spinge, ancora più in là, la sua visione di una letteratura che deve guardare al futuro, che non deve avere paura di creare nuove
scritture, nuovi generi all'interno ormai di un sistema sociale ed economico che è quello del capitalismo avanzato.

Domanda: domanda circa il riferimento agli aspetti filosofici nei romanzi. Abbiamo citato la Francia del 700, ma ci sono anche dei riferimenti alla
filosofia di Heidegger, perché sia la questione assistenzialistica sia quella dell'inquinamento sono molto presenti nella filosofia di Heidegger?
Risposta: Calvino è un uomo molto colto e qualsiasi scrittore e intellettuale, come lui, frequenta la filosofia di Heidegger, che è LA filosofia della
letteratura non solo italiana del secondo 900. La grande differenza rispetto a quella di Heidegger: è che il fortissimo scetticismo di Heidegger
rispetto all'uomo tecnologicus, tutto ciò che è modernità post capitalistica e tecnologica e il recupero delle tracce della purezza dell'uomo
precapitalistico, non ci sono assolutamente in Calvino che invece, proprio per sua formazione intellettuale, è autore e critico militante che negli
anni 50, nell’immediato dopoguerra, chiedeva di non guardare con sguardo rivolto al passato nei racconti dell'Italia moderna, contemporanea e
invece dava importanza a saper parlare e ad essere anche parte attiva di una società che ormai è quella del capitalismo e dell’uomo tecnologico.

Questo è l'aspetto razionalistico, illuministico di Calvino; il rapporto letteratura - industria è uno dei temi chiave del secondo 900 in particolare
nella narrativa perché l'Italia arriva più tardi delle altre grandi forze industriali capitalistiche (come l'Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, la
Germania) in questo territorio del capitalismo avanzato, del capitalismo tecnologico, del capitalismo post-industriale, che non è più solo quello
delle industrie del carbone ottocentesco. Calvino sfida invece anche gli altri scrittori intellettuali sin dagli anni 50 a saper creare un rapporto
anche positivo, non di semplice rifiuto da parte di scrittori, rispetto a questo mondo ultramoderno e in questo Heidegger e Calvino vanno per
due sentieri esattamente opposti.

Calvino ha un legame fortissimo e ostentato nelle favole moderne (barone rampante ecc..) all’interno delle quali riprende un genere
illuministico, il cui più importante rappresentante è Voltaire, uno dei filosofi dell'illuminismo francese, che viene tradotto in italiano con racconto
filosofico, conte philosophique alla Voltaire (Candide): Questo è quello che troviamo molto vicino a Calvino. Se c’è una tradizione alla quale lui
non rinuncerà mai è quella dell’illuminismo: scienza, letteratura e modernità sono intrecciate nell’illuminismo. La ragione, i lumi, vogliono creare
una letteratura della modernità che non si rifacciano sempre al classicismo.
Domanda: cos’è il conte pilosophique?
Risposta: Voltaire scrive dei romanzi, il più famoso e indicativo è il ‘’candide’’ che sono dei racconti filosofici, in cui attraverso un racconto che
sembra fiabesco, leggero, di avventure inverosimili, un personaggio in particolare, ma anche più personaggi, fa esperienza del mondo e ne trae
verità filosofiche. È una via di mezzo tra il racconto e il romanzo in cui sotto la scrittura di una favola moderna in realtà si nascondono cose
serissime, con un significato filosofico profondo. l'Illuminismo propugnava ottimisticamente il diffondersi dei lumi della ragione, in tutti i campi
del sapere e in tutte le civiltà della modernità, ma questo ottimismo dell'illuminismo andò in crisi per molte ragioni, tra cui per esempio una delle
tante, per cui questo progresso che la ragione umana avrebbe portato pian piano in tutto il mondo non era probabile, era una ragione solo e
soltanto di ordine naturale. A metà 700 ci fu un terremoto devastante nell'Europa occidentale che per esempio distrusse completamente
Lisbona, la capitale del Portogallo, e questo portò I filosofi porto i filosofi a chiedersi se possa bastare la ragione dell'uomo a portare il progresso
inarrestabile nella civiltà; ovviamente la risposta era implicitamente scettica. E ciò viene fuori dal racconto filosofico del Candido di Voltaire che
scopre, lui che nasce ottimista (dice sempre di essere nato nel migliore dei mondi possibili), in questo suo viaggio (il viaggio della vita) che forse
non è esattamente così e alla si chiede cosa possiamo fare e la fine famosa del racconto è che ‘’si può coltivare il nostro giardino’’, in senso
figurato, almeno ciò che effettivamente è nei suoi poteri coltivare, perciò ciò che lui può curare secondo criteri razionalistici. Riprende
fedelmente Voltaire? Non riprende fedelmente Voltaire ma è un modello che Calvino rielabora, però se c'è una linea cui possiamo rapportare,
soprattutto la linea delle sue favole filosofiche dei nostri antenati, resta ancora valido questo parametro, cioè di tradizione nel racconto
filosofico, soprattutto settecentesco.

 Quindi se c'è una tradizione forte, a cui Calvino non rinuncerà mai, è quella dell'illuminismo. Scienza, letteratura e modernità sono
assolutamente intrecciate, non in senso conflittuale, nell'Illuminismo. Anzi la ragione, i lumi, di cui gli ho scrittori dell'illuminismo, a cominciare
da Voltaire, che vogliono creare una letteratura della modernità (che non si rifacciano sempre a ideali e modelli che vengano da un passato
classicistico).
Un altro famoso romanzo filosofico, ancora più stralunato del 700, tedesco è quello del ‘’balcone di Munchausen’’, in cui attraverso una favola si
vogliono dire una serie di cose serissime.
L'Illuminismo, gli intellettuali, tutti convinti che solo la ragione possa portare la felicità in progresso fra gli uomini, ma ci fu un ‘ma’ cominciando
da quello che non dipende dalla volontà umana. Quindi ci fu un proliferare di questi racconti filosofici, ‘’Contè’’ in francese, che dà l'idea del
racconto, soprattutto del racconto fiabesco, ma in realtà erano filosofici, sotto una patina leggera e piacevole, fiabesca, c’erano delle riflessioni
molto profonde. Quindi è una tradizione settecentesca, è un legame culturale che Calvino non spezzerà mai con il Settecento illuminista
europeo.

Terzo percorso narrativo è quello dell'ultimo periodo, in particolare degli anni 70, che è quello dell’OuLiPo, quando Calvino, che peraltro
soggiornò a lungo nella Parigi letteraria, entra a far parte di questo famosissimo gruppo francese di narratori che provavano a sperimentare, fino
al limite del possibile, le strutture narrative, spezzettando la struttura tradizionale del romanzo, ricomponendola come se fosse un puzzle (che si
può cambiare all'infinito) seguendo i principi linguistici e filosofici del post strutturalismo. Lo studio delle strutture letterarie (che era alla base
dello strutturalismo) nel secondo 900 diventa non studio delle strutture tradizionali del romanzo, ma possibilità di applicare dei principi massimi,
narrativi e linguistici, a destrutturare le forme tradizionali del romanzo. Calvino si impegna in prima persona su questo versante: il romanzo
(anche se non sono più veri proprio romanzi), questa narrazione originale, che viene fuori dalla sperimentazione di Calvino, vede tra le opere più
riuscite, più poetiche, ancora una volta, una costruzione totalmente fantasiosa dei racconti di Marco Polo all'imperatore Kubla Khan,
dell'estremo Oriente in Cina, dei suoi viaggi. Reinventa delle città che nascondono sempre un rapporto diretto con città realmente esistenti,
come nel caso di Venezia. La città, chiamata ‘’Smeraldina’’ raccontata da Marco Polo a kubla Khan è chiaramente la città di Venezia, quella dei
tanti canali e delle tante viuzze che rappresentano le infinite possibilità delle strutture del narrabile. Quindi anche questa immagine di Venezia,
oltre ad essere poetica, evoca i principi della sua letteratura potenziale, quella dell'Oulipo (cioè laboratorio della letteratura potenziale).

Questa coerenza scientifica, razionalistica, illuministica di Calvino, che va dall'inizio alla fine della sua produzione narrativa, è confermata alle
origini del suo percorso, non solo di narratore, ma di scrittore che vuole che l'Italia (come le altre letterature delle società industrializzate
moderne) si doti di una letteratura, che non è solo contro questa storia e questo presente, ma anzi sappia parlare e dare il suo contributo alla
letteratura del presente e del futuro.

Questo inizia già con la rivista che fonda insieme a Vittorini, che si chiama Menabò, una tra quelle più innovative tra anni 50 e 60 in Italia, perché
rifletterà sul rapporto per Calvino che non deve essere radicale rifiuto da parte della letteratura delle moderne società industrializzate e anche
quindi di una Italia che sta entrando in un boom economico che per molti invece è l'inizio della fine (come per Pasolini).

Questa linea illuministica, razionalistica, che parte dagli anni 50 e arriva fino al 1985, è confermata dallo stesso fatto che Calvino sia uno dei più
cari sodali, per esempio, di Eugenio Scalfari quando lui fonda negli anni 70 il giornale il quotidiano della Repubblica. Scalfari ha tra i suoi principali
sostenitori e collaboratori nella pagina culturale proprio Italo Calvino, perché non ha mai smesso di credere in un impegno attivo concreto e con
lo sguardo non sempre al passato degli scrittori e degli intellettuali. Basti pensare all'importanza del giornalismo settecentesco, per capire la
indefessa, continua collaborazione di Calvino alla fondazione di giornali che vogliono parlare di una cultura moderna, industriale, tecnologica.

È presente una linea di continuità nell'attività di Calvino dalla rivista Menabò fino alla Repubblica di Eugenio Scalfari.

 per questo sono stati sempre letti come antitetici: coloro che sposavano la linea Pasolini nel secondo 900, non poteva sposare
contemporaneamente la linea Calvino.

Il saggio, di qualche anno fa, di Carla Benedetti, ‘’Calvino contro Pasolini’’, non solo ha preso di petto questa linea implicita della critica sia
militante cioè quello sui giornali, sia della critica accademica, infatti dice che se dobbiamo parlare di un canone narrativo bisogna tener conto
che c'è un canone pasoliniano e il suo contrario che è il canone calviniano. Lei sposa il canone pasoliniano, mentre nelle aule, soprattutto
scolastiche e universitarie, negli ultimi decenni ha stravinto il canone pro Calvino.

PAOLO VOLPONI
È tra i grandi scrittori dell’ultimissimo 900 (muore negli anni 90). In questa generazione degli anni 20 (da Pasolini a Calvino) c'è anche Volponi,
che muore dieci anni dopo Calvino, muore nel 94 o 95. Volponi ha qualcosa di vicino a Pasolini e a qualcosa di vicino a Calvino.

Paolo Volponi è stato un importante dirigente, prima della Olivetti, l’industria informatica e tecnologica più all'avanguardia in Italia e livello
mondiale, e poi della Fiat, la grandissima industria automobilistica. Ha vissuto dall'interno, in maniera anche dirigenziale, la vita dell'industria e
tutte le problematiche legate alla moderna industria e alla società industrializzata post-capitalistica. Mette al centro della sua narrazione e anche
riflessione la vita della fabbrica e il moderno mondo industrializzato dell'Italia postbellica, visto e conosciuto molto bene perché lavora a livelli
altissimi di gestione del personale, comunicazione.

Per altro Volponi con questo romanzo, che esce all'inizio degli anni 60, il ‘’Memoriale‘’, apre le porte del mondo reale, della fabbrica. Scrive ciò
senza nessuna narrazione fantasiosa o metafora fiabesca e senza il rifiuto totale a priori, che era in Pasolini, di questo mondo industrializzato.
Quindi da una parte sposa la linea Calvino, di una letteratura, in particolare di una narrativa, che non deve rifiutare l'Italia industrializzata del
boom economico, del grande capitale e quindi una letteratura narrativa sicuramente moderna con uno sguardo molto profondo sul presente,
dall'altro c'è un elemento che lo accomuna almeno idealmente a Pasolini che è una profonda e corrosiva critica di questo mondo.

Da ‘’memoriale’’ a tutti i romanzi successivi di Volponi c’è una critica profondissima di questo mondo che crea alienazione e sfruttamento.
Scriverà la ’’macchina invisibile’’, ‘’la strada per Roma’’, ‘’ il pianeta irritabile’’: sono tutti i romanzi in cui c'è la tematica della distruzione del
mondo ad opera della tecnologia moderna e soprattutto della grande minaccia nucleare, che ci sarà fino alla fine degli anni 80.

Questa visione profondamente critica di questo sistema economico e sociale e quindi culturale è molto forte e molto militante da parte di
Volponi, tanto che alla fine sfocerà nel suo aperto impegno politico, si dichiarerà convinto sostenitore degli ideali comunisti, fino ad arrivare a
superare lo stesso ex PC e ad essere candidato tra le fila di Rifondazione Comunista. Questo creò un grandissimo scandalo, un distacco
immediato dalla Fiat, ma fa capire come l'idea di un impegno controcorrente è sicuramente molto forte in Volponi, anche in un’epoca in cui
molti invece si erano già da tempo distaccati da un impegno diretto, soprattutto in prima persona, ed esplicito.  Potremmo dire che quella di
Volponi è una specie di sintesi e di terza via in parte molto diversa: non c'è il mondo sottoproletario ingenuo di Pasolini, così come non c'è la
fiducia razionalistica e illuministica di Calvino, ma c’è una visione lucida, dal di dentro, del sistema capitalistico contemporaneo e una critica
politica, militante, ideologica di questo mondo.

Domanda: Volponi può essere associato a Orwell e al libro ‘’1984’’?


Risposta: Sì, è quello che viene associato al ‘’il pianeta irritabile’’ perché è un anti-utopia, è un mondo distopico quello che viene raccontato da
Volponi, un mondo post-nucleare del pianeta irritabile e quindi è stato spesso associato anche alla distopia (genere opposto a quello dell'utopia)
che appunto aveva visto nel ‘’1984’’ di Orwell un modello noto e molto conosciuto e amato anche al di fuori dell' Inghilterra. È un mondo in cui ci
sono anche per protagonisti degli animali, i pochi sopravvissuti in quest’era post-nucleare.

Uno dei grandi timori, una paura collettiva fortissima, per cui vengono fuori diversi romanzi distopici, era proprio la paura di un grande conflitto
nucleare, a cui si associò quello che accade nell' 85, che fu il mostruoso incidente nucleare in Russia. Quindi questa tematica sarà una tematica
molto presente nel dibattito, non solo letterario, per anni 70 e 80, cioè lo scontro tra le due superpotenze Unione Sovietica e Nato e il patto della
Nato filoamericano. Oltre al timore storico, c'era poi l'altra grande paura, cioè l'utilizzo del nucleare anche a livello civile, anche in tutto
l'occidente, non soltanto nell'Unione Sovietica dove ci fu l'incidente di Chernobyl, sposato con ottimismo da molte potenze (che oggi fanno parte
del G8) ma molto meno sposato dall'Italia; ma per esempio assolutamente in modo molto positivo in Francia, in Germania c'erano centrali
nucleari perché rendevano queste superpotenze economiche indipendenti dal petrolio. Quindi i timori del nucleare industriale erano fortissimi
ed esplosero in maniera evidente a metà anni 80, quando ci fu il mostruoso incidente a Chernobyl, che non è stato l'unico perché c'erano per
esempio i test nucleari, le testate nucleari nelle armi nucleari, che venivano fatte regolarmente da tutte le potenze e si avevano notizie dei
risultati dei test nucleari americani ma fatti nei deserti, come quello dell'Arizona. Ma soprattutto ci fu lo scandalo dei test nucleari francesi che
avevano inquinato profondamente le meravigliose acque dell'Oceano Pacifico della Polinesia francese, perché li venivano fatti gli esperimenti
nucleari. Il nucleare è stata una delle grandi paure.

Volponi si rifà anche a questo.

Paolo Volponi è stato anche un importante poeta, sicuramente più conosciuto e più letto come romanziere ma ha avuto anche una lunga
produzione poetica. Anche qui la fabbrica e l’industria sono al centro del racconto in versi di Volponi.

Passo famoso del romanzo che aveva dato la fama a Volponi, ’’Memoriale ‘’, in cui al centro c'è proprio il racconto di un operaio e la cosa
interessante è che il racconto, in prima persona di questo operaio, non ammicca ingenuamente al lettore, in modo che dal primo all'ultimo
momento il lettore sia del tutto dalla parte del povero operaio sfruttato, contro il cattivissimo capitale che lo sfrutta, questo perché in realtà è un
personaggio urticante, è un personaggio che ha una serie di nevrosi, soprattutto di paranoie, è un personaggio disturbato. Lo mostra
chiaramente nella scrittura Volponi, perché molto spesso il lettore deve avere anche il sospetto che i suoi racconti di fabbrica non siano
assolutamente lucidi.

- ‘’ Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice [una delle macchine presenti in tutte le industrie metallurgiche], più del padrone,
odiavo tutti i compagni.’’: questo è un punto di vista di un operaio che non deve suscitare subito una simpatia e il pieno appoggio. Più del
padrone odia i suoi compagni di fabbrica, non c'è quella solidarietà di classe che ci si aspetterebbe per un certo tipo di ideologia che era quella in
realtà di Volponi. Quindi è un narratore è tutt'altro che militante nel senso più semplice e diretto del termine.

C’è il fortissimo legame con Urbino: Volponi non è nato né a Torino, né a Milano, né nelle grandi capitali industriali, ma è nato nelle Marche ad
Urbino e sarà sempre legatissimo, anche se sarà poi spinto altrove per l’aspetto lavorativo per tutta la sua vita. Morirà infatti nelle Marche, ad
Ancona.

Questa vena nostalgica, ma mai in senso ingenuo, è quella più presente nell'ultimo romanzo ‘’la strada per Roma’’, nel rapporto anche di amore-
odio con Roma e con le ‘’strade per Roma’’ vince finalmente vince il premio Strega.

UMBERTO ECO
È un altro narratore che è amatissimo nelle scuole, soprattutto ancora più nell'Università.
Interessante è il rapporto con Calvino, per questa sua vena di narrativa sin dall'inizio (a differenza di Calvino) chiaramente post-strutturalista e
postmoderna. La letteratura post-strutturalista e post-moderna, come per alcuni racconti dell'ultimo Calvino, è quella che gioca a scomporre le
strutture del romanzo, in particolare della narrativa tradizionale, in nome di una totale frantumazione anche dell'idea di storia letteraria e con
una fortissima implicazione citazionistica e meta-letteraria  è la letteratura che smonta la letteratura e gioca con una tradizione della narrativa
contemporanea citandola in continuazione. Quello che non sarà amato, ancora ora da tanti critici della narrativa dell'ultimo Novecento, è
proprio questo elemento citazionistico, di gioco letterario e meta-letterario, che è il cuore della poetica post moderna, a cui si associano tutti i
romanzi di Eco.

Dall'inizio alla fine, Eco viene fuori dalla generazione successiva degli anni 30, rispetto ai narratori precedenti (di cui abbiamo parlato finora), ma
soprattutto è un grandissimo filosofo, conoscitore della filosofia medievale, e questo giocherà moltissimo nei romanzi. È poi docente a Bologna
di semiotica (tutto ciò che ha a che fare con la conoscenza dei segni). Nel romanzo post-strutturalista e post-moderno, la vittoria del significante
sul significato è proprio il trionfo del segno puro.

Tutto questo, nel caso di Eco, sostanzia sicuramente tutta la sua narrativa. Il cuore del romanzo postmoderno insieme al ‘‘castello dei destini
incrociati’’, ‘’se una notte d’inverno un viaggiatore’’ e ‘’le città invisibili’’ di Calvino, l'altro esempio ovvio di letteratura e di narrativa
postmoderna è quello dei romanzi di Eco, a partire da quello strafamoso che dà la fama internazionale, che vede la luce lungo gli anni 80 e
diventerà un best-seller mondiale, che è ‘’il nome della Rosa’’ : il gioco principale di Eco in questo romanzo sono una serie di finzioni che hanno
molto a che fare con il montaggio, smontaggio e rimontaggio di elementi letterari e culturali del passato: il mondo medievale e quindi la filosofia
medievale, in particolare la filosofia scolastica, di cui è stato grandissimo studioso Eco; l'elemento del romanzo gotico, tradizione tra sette-
ottocentesca, il citazionismo e la meta-letteratura (romanzo gotico perché era di ambientazioni in genere medievali, notturne, legate ai
monasteri, a misteri in questi ambienti ecclesiastici e monacali in particolare, infatti l’azione si svolge in un monastero, che racchiude l'ultima
copia rimasta manoscritta della seconda parte del secondo libro della poetica di Aristotele, quella sulla commedia e sul riso, che noi non
abbiamo perché si studia la poetica di Aristotele sulla tragedia).

Quindi qui c’è un gioco meta-letterario e meta-filosofico che è implicitamente una riflessione di Eco sul valore creativo del citazionismo. Tutti i
romanzi di Eco sono attraversati da un sorriso ironico dell'autore, implicito dei romanzi, rispetto a quel laboratorio e a quel puzzle con cui ha
giocato nei suoi romanzi che hanno un successo di pubblico enorme. Non tutti quelli che hanno letto i romanzi di Eco hanno riconosciuto i
riferimenti filosofici, letterari, culturali, storici che ci sono e che sono tutti serissimi. La bravura di Eco e dei suoi romanzi iper-colti è quella di aver
creato una leggerezza (come direbbe anche Calvino) di stile e di scrittura che li ha resi molto piacevoli ad un pubblico molto ampio e molto vario,
ma che realtà nascondono livelli di lettura, molto vari e profondi e una serie di citazioni e riscritture.
Questi saranno sempre gli elementi portanti del post moderno di Eco con ‘’il pendolo di Foucault’’, con ‘'Isola del giorno prima’’ fino arrivare
all'ultimo romanzo, ‘‘il cimitero di Praga’’.

Domanda: possiamo paragonare l’operazione citazionistica e metatestuale all’opera di Borges?


Risposta: Sì, Borges è uno dei grandi miti di Eco, lo cita sempre in un personaggio, quello del bibliotecario. Borges è uno dei miti della scrittura
post-moderna perché ha inventato quella famosa allegoria moderna della biblioteca infinita. È stato uno degli autori più cari ad Eco ed una delle
citazioni è proprio nel ‘’Nome della Rosa’’.

La Biblioteca di Babele di Borges. È la storia di un universo onirico che prende la forma di una gigantesca – e forse infinita – Biblioteca.
Articolata in innumerevoli stanze esagonali, sviluppata in orizzontale e in verticale, la Biblioteca appare quasi come un labirinto, per la
ripetitività di tutte le sue stanze. Il narratore ci racconta che ogni sala contiene un preciso numero di libri, tutti delle stesse pagine, tutte
contenenti lo stesso numero di segni grafici. Gli scaffali della Biblioteca contengono tutti i libri possibili: tutte le innumerevoli
combinazioni di segni grafici possibili. In altre parole, la Biblioteca contiene qualsiasi cosa. Anche se, per la maggior parte, le parole che si
leggono nelle pagine sono incomprensibili, delle semplici serie di caratteri privi di alcun significato nelle lingue conosciute.
Questo particolare universo porta gli uomini a vivere a stretto contatto con due sensazioni diametralmente opposte: da un lato, la
certezza che la Biblioteca contenga qualunque potenzialità possibile, che nulla manchi nella Biblioteca e che esistano persino dei libri
capaci di spiegare il senso della vita di ciascun individuo e descriverne il futuro o un libro capace di riassumere in sé il contenuto di tutti
gli altri libri; dall’altro lato, la consapevolezza che una sola vita non basterà mai per trovare ciò che si cerca, tante sono le stanze
esagonali da esplorare. E dunque, l’esistenza di quella potenzialità finisce per divenire motivo di dolore, piuttosto che di euforia. È
meglio che qualcosa sia impossibile, piuttosto che possibile ma destinata a non realizzarsi.
E in questa Biblioteca, in tutta la sua finzione, c’è tanta realtà da restarne stupiti, c’è l’umanità intera nelle sue più moderne
contraddizioni. C’è una generazione padrona di un mondo in cui tutto sembra possibile, nulla è davvero proibitivo, nulla sembra limitato,
tranne il tempo e lo spazio, che anche nella Biblioteca apparivano tanto angusti, insufficienti. Un mondo di alternative finite, ma
talmente numerose da apparire quasi impossibili da terminare, esattamente come i libri.

Nel ‘’Cimitero di Praga’’ c’è un passo, in cui in questo gioco della biblioteca nella biblioteca, della verità dentro la quale si vede un'altra verità,
come tutte le verità sono una specie di sogno infinito che cita un altro sogno, viene citato Nievo, che diventa un personaggio.

Lezione 9 – 6 aprile
UMBERTO ECO
La grandezza di Umberto Eco è stata non solo come narratore in senso stretto, anche se sarà un narratore molto fortunato a livello di pubblico e
di successo editoriale. Ma la sua grandezza non dipende solo da questo: sia i suoi romanzi che, soprattutto, la sua produzione scientifica (insegna
semiologia all’ università di Bologna) sono stati fondamentali per capire cos'è questo contesto post-strutturalista e soprattutto post-moderno di
cui abbiamo già detto qualcosa parlando di Calvino.
Eco: grandissimo teorico, proprio del docente universitario e insieme grandissimo scrittore di successo. Questa è una peculiarità ben precisa.
Abbiamo un grandissimo intellettuale, grandissimo studioso: nasce in gioventù come grande studioso di filosofia medievale e questo gli servirà
molto anche per i suoi libri.
È stato inoltre, un grandissimo teorico della letteratura, in particolare nell'ambito della narratologia che è quella branca degli studi letterari che
si occupa delle strutture della narrativa e quindi capiamo anche il successo a tanti livelli dei suoi romanzi, nel senso che tutti i suoi romanzi
hanno avuto (quasi tutti insomma chi più chi meno) un grande successo editoriale ma ovviamente in particolare “il nome della rosa” il suo primo
romanzo dell'80.
I suoi romanzi hanno avuto successo enorme perché possono essere letti a tantissimi livelli: parlano quindi a un pubblico enorme, da quello che
vuol leggere per puro intrattenimento e divertimento, al lettore più sofisticato in grado di cogliere anche i tanti - o almeno una buona parte - dei
tantissimi riferimenti colti dei romanzi di Eco.
E questa però è anche una peculiarità proprio del romanzo post – moderno. L’avevamo detto già detto per Calvino ma questo discorso
veramente esplode con Umberto Eco.

Avevamo accennato, ad esempio, al romanzo che gli da una fama enorme Il nome della rosa.
Perché? Perché è piacevole da leggere per chi vuole puro intrattenimento. Già il fatto che sia ambientato nel Medioevo, nelle cupe e misteriose
atmosfere di un monastero in cui avvengono una catena di morti violente che devono essere capite e spiegate, rendono molto piacevole il
racconto a chi ama i romanzi ambientati nel Medioevo, a chi ama le atmosfere un po' cupe, a chi piacciono i gialli. Questo può essere il primo
livello di lettura de il nome della rosa.
Ci sono poi una valanga di altri livelli di lettura, più profondi, più sofisticati, più sottili che ovviamente il professore Eco sa gestire magnificamente
e quindi abbiamo quello a cui accennavamo già l'altra volta:
 abbiamo la filosofia medievale, in particolare la scolastica (Eco si è laureato con una tesi su San Tommaso, l’emblema della filosofia
medievale)
 abbiamo una rete di riferimenti storici e culturali, non solo fondati scientificamente ma indagati in tutte le loro pieghe che però
vengono colte da una piccola fetta di lettori, ma va bene così perché sono anche puramente piacevoli.
 Abbiamo il riferimento che è alla base poi del giallo all'interno di questo monastero: è il riferimento alla poetica di Aristotele, la base di
tutta la letteratura occidentale dal Medioevo all'ottocento, di ciò che era letteratura basata su fondamenti classicistici, è la base della
nostra cultura letteraria occidentale. Ma La Poetica è un trattato arrivato monco.
Qual è il giallo e la cosa interessante e sofisticata di questo romanzo? è che alla fine si capisce che queste uccisioni erano legate al fatto
che in questo monastero era conservata l'unica coppia della seconda parte, il secondo libro della poetica di Aristotele, che non tratta
della tragedia (che conosciamo), ma della commedia e quindi ha al centro una poetica del riso che, ovviamente, ai monaci strettamente
legati a una filosofia, un cristianesimo di stampo scolastico e anche fortemente conservatore non andava a genio. Questa seconda parte
era tutta incentrata sul riso e la commedia quindi ovviamente contraria a una filosofia cristiana severa promulgata da parte dei monaci
medievali (in realtà non tutti).
Il riso e la commedia sono qualcosa di scandaloso, da censurare, fino a essere pronti a uccidere i monaci che trovavano in questa
immensa biblioteca questo libro perduto di Aristotele. La stessa metafora dell’immensa biblioteca, di una biblioteca del sapere che
richiama infiniti saperi, è una metafora squisitamente novecentesca e post moderna: la letteratura che cita altra letteratura e che a sua
volta cita altra letteratura e così via all'infinito, di una biblioteca infinita.
Il più grande teorico e anche narratore, che ha messo al centro questa idea della biblioteca infinita, degli infiniti labirinti che possono
essere percorsi in una biblioteca ideale è stato il grande scrittore Borges, che infatti è amato e citato esplicitamente anche in un
personaggio da Umberto Eco.
Questo è il post-strutturalismo: il giocare con le strutture proprie della narrazione, studiate precedentemente dallo strutturalismo,
ricomporle a piacere.

L’altra volta, a proposito di Calvino, abbiamo citato la letteratura del possibile: la troviamo al fondo di questi romanzi di Eco, della narrativa di
Eco, insieme a quell'altro fulcro post moderno, di una narrazione postmoderna che è appunto la citazione. Tutta la letteratura diventa citazione
del passato perché ormai la letteratura è questa grande biblioteca in cui si può liberamente attingere da una parte all'altra, in maniera
assolutamente creativa.

Il cimitero di Praga – ultimo romanzo di Eco.


Approfondiamo l'ultimo romanzo perché è il punto di arrivo dei romanzi di Eco. Esce nel 2010 (dopo trent’anni circa da Il nome della rosa): i
riferimenti post strutturalisti, post moderni di questo romanzo sono sostanzialmente identici a quelli di trent’anni prima, siamo quindi ancora in
un clima chiaramente post moderno. Ma è interessante perché, con il romanzo Il cimitero di Praga siamo catapultati in pieno 800, attraversiamo
tutto L'Ottocento, tutto il nostro Risorgimento. Ancora una volta il professor Eco usa tutta la sua mostruosa eccezionale cultura perché
costruisce questo romanzo attorno a un personaggio inventato, che praticamente è l'unico inventato (a parte qualche figura minore) e che è il
protagonista- Simone Simonini - che viene inventato di sana pianta da Eco, che però, come sempre, mette insieme un profilo biografico e storico
assolutamente credibile e assolutamente fondato. Perché?
La trama: Simone Simonini – il protagonista - è un falsario di documenti e sarà al soldo sia dei Savoia, sia della monarchia francese e poi anche
dei tedeschi. Praticamente è una grande spia, una figura di spia eccezionale, che si trova ad agire in pieno 800 europeo, non sono affatto italiano.
Qui Eco mette insieme altri personaggi, fatti storici e culturali assolutamente reali e quindi questa spia si troverà coinvolta in attività spionistiche
che nell'Ottocento creeranno quella cosa mostruosa, quel bombolone mostruoso, che è il fortissimo antisionismo, il razzismo antiebraico che
porterà poi dritto a quello che accadrà durante la Seconda Guerra Mondiale. È il contesto mondiale fascista e nazista, tutti gli storici lo sanno,
all’interno del quale nulla si inventano fascisti, nazisti e Hitler. Tutto il contesto, le convinzioni, si fondano su tutta una serie di documenti
falsificati nell'Ottocento: è una cultura che, sempre più durante l’Ottocento, diventa profondamente antisionista, contraria all’idea di uno stato
libero e all’idea secondo la quale in Palestina, gli ebrei potessero ritrovare una loro patria perduta, progetto che nel secondo Ottocento inizia a
realizzarsi quindi antisionista. Ma anche peggio antiebraica in generale, complotto antiebraico cioè l'idea che gli ebrei siano stati il nemico
numero uno di tutti gli stati occidentali, che abbiano tramato per secoli contro i non ebrei e in particolare contro i cristiani con una serie di
documenti che in rete vengono presentati come documenti storici e sull'ignoranza ovviamente si fonda l'antisionismo e l'antiebraismo
In questo romanzo Eco mostra la verità storica e cioè chi, nomi e cognomi reali, quando e perché ha creato questa serie di mostruosi documenti
anti ebraici. Tra questi documenti inventati il più famoso è il protocollo dei Savi di Sion che venne costruito a tavolino, uno dei falsi storici che
ancora adesso viene citato come un vero documento storico in chiave anti ebraica e anti sionista, più una serie di schifezze che ci hanno portato
ai 6 milioni di ebrei sterminati nel Novecento.
La cosa interessante è che Eco su tutti questi documenti ci costruisce un romanzo.
Il cimitero di Praga è proprio il luogo in cui si trova un bellissimo cimitero ebraico, uno dei più importanti in Europa. Il protagonista inventa
questo luogo di adepti ebrei che complottano contro l'occidente, in particolare l'occidente cristiano. Dove? nel cimitero di Praga. Quindi
comincia a fabbricare una serie di documenti che avranno un enorme successo e sono i documenti reali, tra i quali troviamo l’orrendo protocollo
dei Savi di Sion, che ancora adesso viene citato documento storico.
Ma non finisce qui. Perché? accanto a questo filone del complotto ebraico, ci sono una marea di altri filoni che hanno basi storiche, come per
esempio quello antimassonico: i massoni che sono stati (e sono tutt'ora ma sono molto cambiati rispetto all’800) uno dei grandi spauracchi
soprattutto dei conservatori di tutto l'occidente europeo. Già l’anno scorso abbiamo visto che la massoneria è stata una delle protagoniste del
nostro Risorgimento italiano. Era il libero pensiero quindi sostanzialmente laico, che veniva fuori dalla cultura illuministica, che fece paura ai
conservatori dell'occidente per tutto 800.
Nel romanzo di Eco, attraverso l'utilizzo romanzesco dei documenti storici assolutamente reali e fondati c'è anche la ricostruzione di questa
presenza importantissima nella storia dell'800 dell'azione anche politica dei Massoni in Italia e non solo e poi anche ovviamente della caccia alle
streghe antimassonica dell'800. Anche qua parliamo di questi filoni narrativi che hanno, anche oggi, grande successo presso il pubblico, non
necessariamente dotto e colto.
Simonini praticamente si trova, essendo una delle più grandi spie europee, al centro dei fatti storici più importanti in Italia, per esempio
l'impresa dei Mille

E qui ci ricollegheremo, leggendo il passo in cui Simonini riesce a entrare nelle grazie di Nievo e quindi a raccontare una serie di cose legate
all'impresa dei mille, facendo la spia per i Savoia e non solo. Simonini è uno di quelli che ordisce il famoso affondamento della barca che doveva
riportare Nievo a Napoli dalla Sicilia con tutti i documenti che provavano la correttezza della sua amministrazione Garibaldina in Sicilia. Fece
invece naufragio e questi documenti non arrivarono mai e quindi l'ombra anche questa costruita a tavolino dai Savoia e compagnia di un
governo e un'amministrazione garibaldina corrotta ovviamente aiutò molto a sminuire quel mito Garibaldi che invece era gigantesco ancora
dopo l'Unità d'Italia.
Troviamo una serie di fatti fondamentali della storia d’ Europea del secondo Novecento in cui Simoni diviene protagonista in quanto spia: il
Risorgimento italiano, il mito Garibaldino, il complotto ebraico, il complotto massonico, sono tutti elementi, temi narrativi di enorme appeal, di
enorme presa sul vasto pubblico ma insieme anche una ricostruzione documentatissima e filologicamente ineccepibile di Eco di tutta questa
enorme e aggrovigliata storia dell'800 italiano ed europeo e dei due grandi temi ancora molto vivi nel 900, quello anti massonico e anti ebraico.

Non solo: abbiamo poi ovviamente una costruzione da esimio professore di estetica e narratologia, studioso dello strutturalismo, post-
strutturalismo che come sempre gioca sulla costruzione del romanzo e quindi una costruzione proprio strutturalmente molto articolata come lo
era ovviamente anche il nome della rosa.
1° livello  Abbiamo quindi: un narratore che parla e parla come Calvino, ovviamente cita tutti, nel romanzo troviamo una quantità indefinita di
citazioni e quindi il romanzo inizia con questa prefazione del narratore in cui dice: “se il lettore, se il lettore, se il lettore”  tutti i possibili
narrativi di Calvino vengono richiamati, anche proprio stilisticamente, in questa prefazione, dal narratore del cimitero di Praga, quindi rende un
omaggio caldissimo al postmoderno di Calvino .
2° livello C’è quindi un narratore che ogni tanto farà Capolino all'interno del romanzo e poi c'è un manoscritto ritrovato che è il diario di
questa grande spia e quindi il secondo livello di narrazione in cui il narratore è la spia Simone Simonini.
3° livello  le pagine del suo diario in cui lui non capisce. Seguiamo tutta la sua indagine di spia e contro spia al soldo di praticamente tutte le
forze politiche europee e quindi si intrecciano la narrazione del narratore, la narrazione di Simonini anziano – narratore, che cerca di ricostruire
la sua vita perché ci sono dei buchi nella sua mente che lui non riesce a ricostruire e il terzo livello che è la narrazione in questo diario che è il
diario della spia Simonini.
Ancora una volta abbiamo quella che nel romanzo postmoderno, come lo era anche in Calvino, è una scrittura che in francese viene chiamata en
abime: è lo scrittore che richiama all'interno una scrittura che a sua volta richiama un'altra scrittura in profondità. È il narratore che cita un altro
che cita un altro.

Domanda: la spia è il narratore?


Risposta: È uno dei narratori. C'è un narratore principe, che quello della prefazione, che ogni tanto commenta la narrazione di Simonini, poi c'è
la narrazione di Simonini che ci dice “dal diario non riesco a capire, non ricordo più certi eventi…” e poi la narrazione del contenuto del diario.
Quindi c’è un narratore al primo livello che trova il diario di Simonini, che a sua volta è un narratore di secondo grado. Le pagina dello stesso
diario sono il terzo livello della narrazione.
Quindi il narratore con la N maiuscola è quello: c'è la prefazione in cui il narratore con la N maiuscola dice che sostanzialmente riprenderà da
questo diario di questa spia contro spia Simonini, una serie di fatti legati alla sfera dell'800. Questa è la fine della parte del narratore con la N
maiuscola. Inizia poi il romanzo vero e proprio: è il diario che il narratore ha trovato però presentato dallo stesso Simonini. Simonini dice di aver
ritrovato un diario in cui racconta una serie di fatti che non riesce più a ricostruire a causa di buchi di memoria che non gli permettono di
mettere insieme i pezzi della sua vita (è il secondo livello di narrazione: il narratore Simonini che si interroga sulla sua stessa narrazione).
Terzo livello di narrazione: le pagine del diario, del racconto che Simoni ha trovato per iscritto nelle pagine del suo diario.
Quindi tre livelli di narrazione:
 narratore con la N maiuscola che trova il diario.
 il narratore Simonini che si interroga sulle sue pagine di diario. Pensiamo a Nievo: in “Confessioni di un italiano” Carlino Altoviti da
vecchio commenta i fatti di lui da giovane e ne ride anche, si sdoppia.
Stessa cosa in Simonini: c’è un Simonini vecchio, che è l'altro narratore, che si fa domande sul Simonini giovane che ha scritto il diario.
 Le pagine del diario.
Sostanzialmente tre livelli di narrazione.
Questo è un tipico escamotage da romanzo post-moderno: il romanzo nel romanzo nel romanzo o la citazione che cita e che ricita, anche quello
che sembra inventato da Eco in realtà è la citazione di altri autori e tra l'altro molto spesso autori di cui riporta parole, pensieri storicamente
fondati.
Eco ha questa peculiarità: di Calvino abbiamo sottolineato l'importanza del modello del racconto filosofico settecentesco o di Ariosto; Eco, a
parte tutta la letteratura medievale di cui è maestro assoluto, ha una passione smodata - e l’ha sempre apertamente sostenuta - per quello che
viene considerato romanzo di consumo dell'800, per quei romanzi che già nell'Ottocento erano considerati romanzi d'appendice di giornali o
comunque romanzi non sofisticati, non dal grande scrittore è che però ebbe un successo spaventoso a cominciare dai romanzi di Alexander
Dumas mito assoluto e Eugene Sue, grandissimi autori di successo enorme in tutta Europa inclusa l'Italia che nell'Ottocento appunto spopolano,
creano un mercato del romanzo spaventoso.
Eco non cita quelli più sofisticati, non cita Balzac e Flaubert (che ama moltissimo) ma cita proprio questi che già nel secondo Ottocento e
Novecento venivano considerati romanzieri di serie B non Grandi Maestri della narrativa realista ma scrittori di consumo che vengano divorati da
un popolo anche non molto acculturato. Alexander Dumas è autore del il conte di Montecristo, dei tre moschettieri, opere che leggiamo ancora
adesso, anche da ragazzi per il puro piacere della lettura, perché Dumas si inventa una narrazione meravigliosa soprattutto sulla storia francese
(ma non solo francese). Eugene Sue scrive i misteri di Parigi, caso editoriale spaventoso nell’800, un successo pazzesco in tutta Europa, che
costruiva la storia di Parigi e dei bassifondi con tutta una serie di episodi intriganti tra giallo e il romanzo di consumo che ebbe un successo
europeo enorme.
Quindi ovviamente il professore snob, soprattutto nel Novecento, soprattutto suo contemporaneo sicuramente citava come modelli seri della
narrativa ottocentesca - novecentesca i vari Balzac, Flaubert. Eco invece da bravo post moderno della prima ha difeso da sempre questi romanzi
(Dumas e Sue) e ne fa i suoi modelli prediletti: nel il cimitero di Praga Alexander Dumas e Eugene Sue sono tra le fonti letterarie del tipo di
narrazione più care, più evidenti già a un primissimo livello di questo romanzo assolutamente postmoderno di Umberto Eco.

La peculiarità a cui tiene molto Eco, tanto che scrive una noticina brevissima a fine romanzo e di dire “attenzione cari lettori qui non ho
inventato” perchè il romanzo post moderno poteva anche inventare fatti storici, personaggi, incrociarli come meglio credeva invece ci tiene a
sottolineare che non è inventato anche se può sembrarlo perché c'è un intrigo. Eco afferma che tutto è fondato su documenti storici e
personaggi storici realmente esistiti. Tutti i grandi protagonisti della costruzione dei documenti anti ebraici antisionisti di fine 800 sono
personaggi realmente esistiti, sono stati soprattutto giornalisti, al soldo di questo o quello che hanno costruito dei Famosi falsi storici sui quali si
è fondata tutta una pubblicistica tuttora ampiamente presenti in rete, in particolare antisionista e anti ebraica. Sono tutti fatti storici, tutti i
documenti di cui Eco ricostruisce la costruzione: questa è la costruzione anabim, in profondità il narratore che ricostruisce fatti sostanzialmente
tutti i veri. A sua volta questi fatti che vengono citati sono una costruzione di falsi quindi il confine tra il reale e l'invenzione letteraria è
assolutamente difficile da tracciare nel romanzo post-moderno in particolare quello iper colto, iper ricco, iper esuberante di Eco.
Questa è la mobilità letteraria ma anche post moderna nella maniera più sofisticata di Umberto Eco che però ci tiene a dire attenzione non è
romanzo post-moderno fondato solo sulla citazione, sulla ricostruzione di falsi storici ma anche costruzione storica no .

Precisazione: Eco ha sempre difeso il valore letterario dei romanzi cosiddetti di consumo del secondo Ottocento e i più grandi, i più fortunati
furono i romanzi storici e pseudo storici di Alexander Dumas e il romanzo pseudo o realmente realistico di Eugene Sue, sulla Parigi
contemporanea. Eco però ha anche difeso, in particolare per quanto riguarda questo ultimo romanzo, Il cimitero di Praga, il fatto che è
importante anche in un romanzo postmoderno come il suo usare la storia con serietà e quindi quando si parla di fatti enormi che hanno avuto
una ricaduta storica e culturale enorme ancora nel Novecento e ancora nel 2000 (antiebraismo, antisionismo, tutti i complotti internazionali
buttati addosso o a massoneria o agli ebrei) devono essere fondati su documenti storici, attraverso la ricostruzione storicamente fedele in un
contesto reale e questa è una qualità particolare del romanzo postmoderno di Eco perchè il romanzo postmoderno normalmente da libertà
totale di mescolare vero e falso (vero storico e vero poetico avrebbe detto Manzoni) perché c'era l'idea (molto anni 70-80) che fossimo alla fine
di quella storia che avevamo conosciuto fino agli anni 80, soprattutto la figlia della storia postbellica.

Una delle critiche fatte nei decenni più recenti tra anni 90 e oggi al postmoderno, che invece ha avuto enorme fortuna negli anni 70-80 ancora 90
e anche 2000 (vedi i romanzi di Eco) mirava a superare il post-moderno, a superare questa idea di tutto si può dire, tutto si può fare, tutto si può
ricostruire come se fosse vero tutto, tutti i possibili narrativi erano leciti, ma da un punto di vista di fine della storia.
Che vuol dire Fine della storia?

È la fine della storia delle grandi ideologie, delle grandi fedi storiche e ideologiche: il romanzo post-moderno poteva reinventare la storia come
meglio credeva, tutto era lecito.
La prova è che anche nella storiografia contemporanea si diffonde l'idea di una fine della storia cioè con la fine delle grandi ideologie, dopo la
caduta del muro di Berlino, la storia è in un vuoto pneumatico, inizia un nuovo e ancora non sappiamo cosa sarà questo nuovo. Questa era
un'idea molto forte tra anni 80 e 90.
Quindi i romanzi postmoderni hanno sguazzato in questa idea che tutta la storia potesse essere liberamente reinventata, diventa una libera
materia di formazione.
Eco ci tiene a sottolineare che il suo romanzo - in particolare il cimitero di Praga - tocca snodi ancora molto delicati nel 2000 come l'antisionismo
e l'idea che tutti i complotti abbiano una comune matrice massonica, sono nervi scoperti della nostra storia su cui non si può tanto giocare. Il
Mein Kampf di Hitler, ad esempio, si fondava su questo clamoroso falso storico dei protocolli di Sion.
La peculiarità del romanzo post moderno di Eco e in particolare di questo romanzo che attraversa tutta la storia dell'Ottocento italiano ed
europeo, peculiarità rivendicata in una noticina finale da Eco e in tante interviste fatte da Eco è questa: non è un romanzo puramente post
moderno in cui si gioca ad attizzare la curiosità di quanti più possibili lettori su temi che hanno sempre presa (il complotto ebraico e il complotto
massonico) ma sono tutti fatti, documenti e personaggi storici – a parte il protagonista, la spia che ovviamente è uno snodo narrativo
interessante del romanzo spionistico invece tutto il resto quello che viene narrato della storia d'Europa, di questi due grandi snodi storici e
culturali pesanti per il 900 – il sionismo e il complotto massonico - sono trattati molto seriamente. Eco afferma di non giocando liberamente con
questi che sono temi molto seri e lui lo sa da intellettuale a tutto tondo, sa benissimo che non si può giocare con questi temi ancora così caldi
così scottanti per noi.
Se vogliamo trarre una delle peculiarità più importanti di questo romanzo è questa: puro romanzo postmoderno, che gioca soprattutto sul
genere del romanzo storico e del romanzo spionistico, cita in abbondanza i grandi narratori da lui amati che reiventarono la storia più o meno
liberamente (Dumas e Sue).

Ma non solo: cita anche tanta storia reale, di documenti. Questo è il bello del Post moderno: anche i documenti finti, costruiti, sono un elemento
squisitamente postmoderno. È stata una storia inventata, il complotto ebraico, i documenti che vengono citati così come certi documenti anti
massonici ce li fa vedere a tavolino, da bravo scrittore post moderno, come vennero prodotti.
È solo che quella produzione di falsi storici, di falsi documenti, poi utilizzati in tutto il 900 è stata vera. I personaggi che li hanno costruiti, nomi e
cognomi, sono reali.

Quindi il gioco non è solo sulle strutture narrative, tipico del post strutturalismo: gioca con le strutture del romanzo spionistico, del romanzo
storico, del romanzo d'avventura, I tre moschettieri ecc. Eco era un intellettuale ideologicamente e apertamente schierato, ha fatto tutte le
battaglie possibili anche se scomode.
Sono documenti di cui ci mostra in realtà come vennero costruiti ma che hanno avuto un impatto storico che è quello che lui racconta, impatto
storico vero.
Perché esplode l’antisionismo e l’antiebraismo nella Francia del secondo 800 e da li a macchia d’olio in tutta Europa fino a creare quei mostri che
ben conosciamo del 900 fino ad arrivare alle camere a gas? C’erano degli interessi enormi, politici ed economici, di cui si servirono tuti i poteri
europei nel secondo 800, assoldando le varie spie, che erano soprattutto giornalisti e facendo loro costruire finti documenti storici, che
provassero questi complotti.

Eco ama i “mallopponi” che però potrebbero stancare: all’interno troviamo accumulo di notizie e fatti raccontati. Ricostruire la rappresentazione
di Eco in questo romanzo è un’operazione delicata e ricca.

Passo tratto da “Il cimitero di Praga”.


Pagine dedicate all’amicizia nata tra Simonini – spia che i Savoia mettono alle calcagna dei garibaldini e di Nievo in particolare in Sicilia – e il
nostro Ippolito Nievo. Simonini riesce a fingersi un garibaldino convinto ed entra in confidenza con Nievo.
In una pagina del diario di Simonini troviamo le domande che lo stesso Simoni si fa. Molto spesso (e queste sono le domande che si fa anche il
narratore l’anziano Simonini) la stessa spia Simonini non capisce qual è il gioco di cui lui è solo una pedina. Siamo nell’ esplosione della
diplomazia moderna dall’800, con la creazione di rete spionistiche e anti spionistiche che hanno fatto la storia della politica dell’800, anche nel
nostro Risorgimento
Simonini non era un eroe dei due mondi: era nato come semplice falsario al soldo di un notaio. Tanti giornalisti sbancavano il lunario in realtà
facendo le spie anche costruendo finti documenti storici. I personaggi mediocri non erano grandi eroi ma neanche grandi anti eroi. Simonini
spesso nel diario si chiede “ma io Per chi lavoro Veramente? Chi è che mi chiede di fare queste cose? e perché?” anche questo è molto
interessante nella narrazione.

Passo:
“Nievo, con il quale ormai ho una certa dimestichezza, mi confida (ecco che riesce a carpire le confessioni di Nievo) che Garibaldi ha ricevuto una
lettera formale da Vittorio Emanuele che gli intima di non attraversare lo stretto”  Nievo gli dice guarda che ho avuto una lettera proprio dal re
che mi dice di non fare questo viaggio perchè è pericoloso. L’ordine è accompagnato da un biglietto riservato che dice:
“prima le ho scritto da re ora Vi suggerisco di rispondere che lei vorrebbe seguire i miei consigli ma i suoi doveri verso L'Italia non le permettono di
impegnarsi a non soccorrere i napoletani quando questi si appellassero a lei per liberarli”  doppio gioco del re. Ma contro chi? contro Cavour
oppure contro lo stesso Garibaldi? Lo stesso Nievo dice di non riuscire a capire. Ha ricevuto un messaggio del re che diceva di stare alla larga
dalle imprese dei Garibaldini e non andare a Napoli ma lo stesso re poi dice di aver scritto lì come re, mentre ora scrive da amico. È come se il re
facesse lui stesso il doppio gioco anche con i suoi fedeli servitori come Cavour, che guardavano con molto sospetto i garibaldini.
Precisazione: Nievo racconta che a Garibaldi, il re gli ha scritto prima di non dover partire e poi insieme un biglietto con scritto devi partire, devi
andare a Napoli. Lo stesso Nievo non capisce che gioco sta facendo il re e quindi non lo capisce neanche la spia e quindi la stessa spia Simonini
dice ma io per chi sto lavorando e perché?

Vediamo la scrittura anabim: lo stesso Nievo che viene raccontato nel diario gli racconta di una lettera, quindi di un’altra scrittura del re che a
sua volta ne contiene un'altra che dice il contrario. Dove finisce la verità? non lo sappiamo, non l'ha capito Nievo, non lo capisce Simonini, non lo
capiremo neanche noi. Questo è puro post-moderno cioè la verità alla fine non è una ma centomila.

Questa pagina di diario ci fa capire il gioco veramente post moderno di questo romanzo di Eco.
Altro elemento interessante e che ci interessa è la citazione: è il post moderno e citazionismo all'ennesima potenza. In genere si citano altri
scrittori: Calvino citava il racconto filosofico e il racconto Alla Voltaire (Il Candide) oppure L'Orlando Furioso amatissimo da lui; Eco qui richiama
moltissimo “Confessioni di un italiano” uno dei modelli chiaramente anche di questo romanzo di Eco, cita dei versi degli amori Garibaldini che
abbiamo letto insieme, il famoso poema dedicato a Garibaldi, è una citazione fedelissima che viene fatta. Infatti poco oltre quel passo che
abbiamo letto dice Simonini che rimane affascinato da questo scrittore:
“ho scoperto che quest'uomo (Ippolito Nievo) indubbiamente colto, vive che anche lui nell'adorazione di Garibaldi”  e sappiamo che è
assolutamente vero storicamente.
“In un momento di debolezza mi ha fatto vedere un volumetto”  vediamo come Simonini carpisce i segreti di questo personaggio tenuto
d'occhio dai Savoia.
“Mi ha fatto vedere un volumetto che gli era da poco arrivato Gli amoie Garibaldini  conosciamo gli Amori garibaldini: è quella poesia
risorgimentale d'ispirazione Democratico garibaldina.
“amori Garibaldini stampata in oro senza che lui avesse potuto rivederne le bozze”  Sì lamenta più volte degli errori di stampa contenuti in
questa raccolta
“ Spero che chi mi legge Pensi che nella mia qualità di eroe abbia il diritto di essere un po' bestia”  Questo è un dialogo che finge che stia
facendo Nievo con lui
“e hanno fatto il possibile per dimostrarlo lasciando una serie vergognosa di errori di stampa”  Nievo gli confida che addirittura che secondo
lui hanno fatto apposta a lasciare degli errori di stampa in questa raccolta per sminuire un po' anche la mia figura di eroe Garibaldino.
A queste parole di Nievo segue il commento di Simonini che è anche affascinato da questo scrittore eroe e dice :
“ho scorso una di queste sue composizioni dedicata proprio a Garibaldi e mi sono convinto che un po' bestia Nievo deve essere”  l'ironia è uno
dei registri più presenti nei romanzi di Eco. Anche qua il riprendere la definizione di un po' bestia che subito prima Nievo ha attribuito a quelli
che hanno pubblicato gli amori garibaldini con tanti errori di stampa mostrandogli quanto può essere un po' bestia anche un eroe, dice a me mi
sa che proprio un po' bestia perché ovviamente Simonini è un cinico, è una spia che non crede a niente a nessuno quindi neanche ovviamente al
mito Garibaldi e quindi ritiene un po’ cretino questo che scrive questi versi su Garibaldi è un po' bestia anche lui e cita dei versi di quel
componimento su Garibaldi (l’inno a Garibaldi) che conosciamo e li riporta sulla pagina. Questo è puro post moderno, questo è puro
citazionismo letterario.
“Ha un non so che nell’occhio che splende nella mente, a mettersi in ginocchio sembra inchianar la gente, pur nelle folte piazze girar cortese,
umano il porger la mano lo vedi alle ragazze”  notiamo la scrittura anabim: il romanzo cita il diario di Simonini che a sua volta cita una pagina
questa volta da una poesia, da una raccolta realmente esistenti, cita uno scrittore. Questo è un puro meccanismo post moderno.
Si chiude con una breve citazione questa pagina dedicata a Nievo e agli Amori Garibaldini: abbiamo ancora una volta l'ironia perché Simonini non
crede a niente e nessuno.
“qui impazziscono tutti per questo piccoletto dalle gambe storte”  è Garibaldi. Quindi anche Nievo si è fatta infinocchiare, secondo il cinico
Simonini, da questo piccoletto con le gambe storte Garibaldi (sappiamo quanto ci ha creduto fino in fondo Ippolito Nievo in questo eroe dei due
mondi). I Savoia storicamente avevano una gran paura di Garibaldi e della forza che ebbe tanto da fermarlo poi in Aspromonte e impedirgli
l’impresa di liberazione di Roma. Sono tutti i fatti storici attestasti e proprio gli storici sapranno dirci quanto la diplomazia sabauda abbia tenuto il
fiato sul collo su tutta l’impresa garibaldina e in particolare sui fatti dello sbarco di Sicilia, tanto che Nievo ci rimette le penne: non si è mai
scoperto se il suo battello fu affondato o meno. Qui Eco sposa la teoria del complotto per cui lo stesso Simonini è quello che prepara proprio
l'attentato a Nievo, che gli fa fare naufragio e lo farà morire e farà affondare insieme a lui tutti i documenti dell'amministrazione garibaldina in
Sicilia.

Qua ci fermiamo: la grande fortuna del postmoderno arriva fino ai giorni nostri e contemporaneamente abbiamo visto questo filone più
impegnato nella realtà presente in particolare nel caso di Volponi. Negli stessi anni del boom del post moderno abbiamo detto che lui invece
segue tutt'altro filone della narrativa del secondo Novecento, quella più impegnata, quella che parla della realtà dell’Italia capitalistica, del
consumismo, dello sfruttamento in particolare della classe operaia e quindi svelando la realtà soprattutto della vita in fabbrica.
La peculiarità di Volponi è stata proprio l’aver lavorato in fabbrica – Olivetti, Fiat – due delle più grandi industrie italiane e per questo sa di che
cosa parla.
LA POESIA
Per comprendere la poesia del secondo 900 bisogna capire cosa accade tra fine 800 e inizio 900. Questo perché è difficile dire quando inizia il
Novecento poetico.
Semplificando: Svevo e Pirandello sono dei tramiti fondamentali e con loro inizia il Novecento, nessuno dirà che Svevo e Pirandello sono
narratori ottocenteschi, sono chiaramente il romanzo moderno del Novecento.
Con la poesia, la faccenda è più complicata, è tuttora aperta perché per molti Il Novecento Viene aperto in poesia da Pascoli e D'Annunzio – ad
esempio l’antologia di De Caprio Giovanardi apre la poesia del 900 con Pascoli e D'Annunzio e così tante antologie e tanti manuali.
Perché alcuni possono farli e altri no? Perché alcuni aprono con Pascoli e D'Annunzio quindi sostanzialmente diciamo con il simbolismo di fine
Ottocento e altri invece no? Perché per alcuni sono D'Annunzio e Pascoli quelli che aprono le nuove porte della nuova poesia del 900, senza i
quali non si capisce che cosa succede nel primo Novecento cioè Come nascono le avanguardie del primo Novecento. Secondo tanti altri sono
degli scrittori che vengono collocati in quel periodo noto fine de siecle, con l'espressione francese “fine secolo” che indica la fine del secolo 800.
Secondo questa concezione, Pascoli e d’Annunzio sono un momento di passaggio e non aprono il discorso nuovo del Novecento: quest’idea è
condivisa da Mengaldo e moltissimi altri ancora che li collocano come parte di un discorso che al massimo è a cavallo ma non è ancora
veramente 900. Questi cioè fanno iniziare il vero Novecento poetico sostanzialmente con quelle che noi chiamiamo le avanguardie storiche cioè
crepuscolarismo, Futurismo e vocianesimo/frammentismo (la prof preferisce espressionismo).

Una delle prime antologie importanti è quella curata per Einaudi da Sanguineti, di cui parleremo come importante poeta del secondo
Novecento. Anche lui, come Eco, è stato un importantissimo e stimato professore proprio di letteratura italiana quindi è poeta e studioso di
letteratura italiana. Secondo Sanguineti, Pascoli e d’Annunzio fanno parte della fine de siecle, che è questo momento di passaggio in cui si supera
l’idea di poesia carducciana. Però il vero 900 inizia con gli avanguardisti e per uno come Sanguineti è importante: è stato uno dei fondatori e uno
degli esponenti più importanti di quelle che vengono chiamate neo avanguardie.
La neoavanguardia è quella che nasce negli anni 50 in Italia è che per superare la linea ermetica si rifà alle avanguardie del primo Novecento:
per questo è entrato in uso il termine neoavanguardia o meglio neoavanguardie per i poeti più sperimentali del secondo Novecento e invece il
nome di avanguardie storiche per il primo Novecento.
Ma quelle nuove avanguardie del secondo 900 si ispirano proprio alle avanguardie del primissimo 900 e per Sanguineti e per tutti coloro che
credono che il Novecento inizi con questa novità radicale (le neoavangurdie) ritengono Pascoli e d’Annunzio, quindi non aprono il discorso
radicalmente innovativo della poesia del primo Novecento.

La stessa collocazione di Pascoli e d’Annunzio è tuttora territorio di riflessione. Pascoli D'Annunzio sono parte del nuovo discorso 900 o no?
Dobbiamo prendere la nostra posizione e argomentarla. La prof dev’essere diplomatica per poterci far capire in che cosa consiste l'avanguardia,
cioè la rivoluzione in poesia del primo Novecento. Bisogna capire a chi parlano, chi sono i maestri ancora vivi per altro con cui dialogano o
combattono ferocemente, questi crepuscolari e futuristi espressionisti.

Le prime avanguardie nascono quando ancora Pascoli e d’Annunzio sono vivi e vegeti. Per capire cosa contestano, cosa riprendono questi nuovi
autori bisogna capire in che cosa consisteva la poesia di Pascoli e d’Annunzio quindi noi necessariamente partiamo da qui. Ognuno di noi si fa la
sua opinione, possibilmente argomentata critica e approfondita, se Pascoli e d’Annunzio possiamo considerarli i maestri del 900 o della fine
dell’800 come per il critico Borgese che nel 1911 scrive un articolo in cui sostanzialmente inventa questa categoria dei Poeti crepuscolari (la
inventa un giornalista a cui piacciono fino a un certo punto) e afferma di chiamarli così perché sono Il Crepuscolo della grande poesia che ha
chiuso l’800 (quella di Carducci, Pascoli e d’Annunzio)..
Quindi sono più una fine che un vero inizio. Borgese termina chiedendosi se saranno anche l'inizio di un nuovo giorno? Chi lo sa. Noi oggi
possiamo affermare che si, sono stati l’inizio di un nuovo giorno. Le avanguardie del primo 900 sono una pietra miliare per capire tutto il 900.
Piccola parentesi: Pasolini già negli anni 50 afferma che Pascoli è parte del miglior Novecento italiano. Ogni lettore nel senso serio, forte di
poesia, nel Novecento ha dovuto dire la sua su questa poesia di fine secolo pascoliana e dannunziana. Per Pasolini la poesia di D'Annunzio è
qualcosa che non ha portato frutti positivi nel 900; Pascoli secondo lui si. Di quale Pascoli parliamo? non di quello che nutre poi l'ermetismo ma
di quello che nutre tutta una poesia narrativa.

GIOVANNI PASCOLI
Come prima cosa mettiamo in soffitta l’etichetta di decadente e quella definizione di decadentismo come quella etichetta che è stata molto utile
a capire certi fatti tra fine Ottocento e primo Novecento. Ma questa coperta è stata talmente tirata da una parte all'altra dalla critica, dagli
studiosi dei manuali soprattutto scolastici del 900 che alla fine questo decadentismo era tutto e il contrario di tutto. Per questo, da tempo, chi
tratta di studi universitari ha messo in soffitta il termine decadentismo e utilizza altri nomi ma non per un fatto puramente nominalistico o per il
piacere di inventare nuove etichette perché come sapete parlare di una poetica cioè di un pensiero che è alla base di una certa scrittura
letteraria, definire una poetica dice moltissimo dello scrittore, del poeta e anche dei suoi rapporti assolutamente inscindibili nel caso della fine
Ottocento di tutto il Novecento poetico italiano, i rapporti con un contesto europeo, per non dire proprio internazionale. Per esempio pensiamo
alla poesia americana del Nord e del Sud quanto ha influito sulla poesia italiana del secondo Novecento.
Decadentismo: quella definizione che viene dai padri del simbolismo, di loro stessi come voce dell'impero alla fine della decadenza, venne
utilizzata immediatamente già in Francia negli anni 80 per dire, sì, Questi sono i poeti della decadenza e da lì tutto è diventato decadentismo
quindi non più solo i poeti di una tradizione simbolistica e post simbolistica cioè tutti i figli e nipoti del simbolismo fondato da Baudelaire. In
seguito il decadentismo ha dilagato nei manuali per includere tutto e il contrario di tutto fino a farlo arrivare fa metà 900 anche per il teatro,
anche per la narrativa. Se parliamo di decadentismo in un senso storico utilizzando in senso ben preciso questa etichetta, dobbiamo parlare di
quella parola coniata dagli stessi simbolisti francesi, l’immagine dell’impero alla fine della decadenza, ma che viene soprattutto coniata e
utilizzata poi dai critici che gli volevano stroncare e quindi dicevano Sì in effetti è pura decadenza puro decadentismo (con accezione negativa).

Questo veniva detto dei vari Rimbaud, Verlaine, Mallarme, i grandi Padri del simbolismo europeo che nutriranno gran parte anche della poesia
italiana del Novecento, tutti i figli diretti del simbolismo baudelairiano, seguiti da tutta una stagione post simbolista che sarà altrettanto
importantissima e molto influente sulle nostre avanguardia del primo 900. I post simbolisti Jammes, Verhaeren, Maeterinck sono poeti
fiamminghi che a loro volta – eredi di Rimbaud, Verlaine e Mallarmè - diffusero una poetica post simbolistica di cui parleremo per i poeti del
primo Novecento.

Pascoli conobbe veramente testi dei simbolisti (Rimbaud, Mallarmè e Verlaine)? Buona parte della critica lo ritiene impossibile perché non
erano conosciuti. Quelli che poi hanno studiato meglio le carte pascoliane, quello che veramente circolava nelle riviste, spesso addirittura nei
giornali italiani di fine Ottocento scoprono che in realtà che Verlaine, Rimbaud e pochissimo Mallarmé circolavano nelle riviste che Pascoli
leggeva e nelle quali spesso compariva come protagonista.
La più importante è il Marzocco Fiorentino, una di quelle riviste di fine 800 che aiutò moltissimo a sprovincializzare la poesia italiana di fine
Ottocento e a far conoscere tutti questi importantissimi poeti del simbolismo francese (Mallarmè sarà letto e conosciuto a partire dal primo
900). Insomma di simbolismo francese di parlava già tanto a fine Ottocento anche in Italia: per altro il francese, fino al secondo Novecento è
stata una lingua conosciutissima e ben nota a tutti gli italiani e ovviamente Pascoli, D'Annunzio, leggono tranquillamente la letteratura francese
nella lingua madre.

Altro a quello del simbolismo francese, altri apporti importanti saranno quelli dell'estetismo inglese. Per esempio, nel caso di d’Annunzio,
l'importanza di Walter Paper.
Capire Pascoli e d’Annunzio vuol dire saperli collocare in contesto non solo italiano ma in un contesto anche e soprattutto europeo.

Il simbolismo pascoliano si nutre della linea che parte con il Baudelaire e in particolare con il Boudelaire della poesia delle corrispondenze in cui
crea questo grande nucleo tematico di tutto il simbolismo europeo cioè l’unione di tutti i sensi a formare una visione unitaria del cosmo, evocare
una unità che diventa poi anche metafisica. I dettagli, gli elementi della natura, le parti del Cosmo, le parti della natura che conosciamo e
vediamo diventano un’unità che diventa sempre più metafisica soprattutto negli eredi che saranno gli eredi post simbolisti.

Precisazione: Qual è il fondamento di tutto il simbolismo europeo, quindi anche di Pascoli D'Annunzio? il sonetto “le corrispondenze” di
Baudelaire. In questo sonetto Baudelaire richiama l'immagine fortissima, che è alla base di tutto il simbolismo europeo, della natura come un
tempio. In questo tempio ogni singolo elemento (lui richiama proprio degli elementi architettonici) è parte di questo tutto.
Il tutto a noi sfugge, vediamo parti della realtà, capiamo, percepiamo parti della realtà; il poeta visionario sa vedere questo tutto, sa soprattutto
evocarlo.
Evocare: è la parola chiave di tutta la poetica simbolistica da Baudelaire in poi (la parola evocare, invocazione).
La poesia non definisce semplicemente, non può e non deve essere puramente descrittiva, deve evocare questa unità del tutto, questa unità
cosmica che il poeta visionario sa percepire.
La natura è un tempio in cui ogni elemento visivo, sonoro, tattile (vengono coinvolti i cinque sensi) in realtà richiama l'altro perché appunto sono
parte di un tutto. Ogni elemento della realtà che si trova anche nella poesia simbolistica evoca qualcos'altro che in Baudelaire è un'unità del
cosmo o in tutti i poeti eredi di Baudelaire vorrà dire tante cose diverse.
Esempio fortissimo, importantissimo - per questo è importante partire da questi poeti simbolisti per arrivare per esempio all'ermetismo
novecentesco italiano – è il tutto che viene evocato dal poeta ermetico - se è un ermetismo ed è un poeta ermetico religioso cattolico - vorrà
dire evocare quella unità che è veramente una unità metafisica. Evocano una unità del tutto che in Baudelaire non era veramente religiosa
mentre ,per esempio, nei poeti dell’ermetismo fiorentino di matrice cattolica erano l'evocazione di questo tutto, di questo tempio perfetto della
natura che è un tutto con una valenza religiosa fortissima.
Quindi ogni elemento si utilizza come qualcosa di astratto, come un’idea astratta che in qualche modo ci richiama questa unità del cosmo.
L’importanza della sinestesia.
Già in Pascoli, come poi nei poeti del simbolismo francese, una delle figure retoriche più importanti è quella della sinestesia è una figura retorica
che mette insieme immagini provenienti da ambiti sensoriali diversi, per esempio, la più famosa sinestesia pascoliana è quella di “odore di
fragole rosse”: l’odore, il senso dell’olfatto, viene associato, nella stessa immagine poetica riferita allo stesso elemento che sono le fragole, al
loro colore, il rosso.
Perché la sinestesia è la figura retorica più problematica, più importante del simbolismo, non soltanto pascoliano, dannunziano ma europeo?
Perché richiama questa unità del tutto attraverso i frammenti della natura e quindi anche attraverso la frammentazione dei vari sensi, di come
noi percepiamo la natura. Questa idea di un tutto compresente nella natura che mette insieme ogni parte della natura, ogni parte dei sensi e
richiama questo tutto non immediatamente percepibile ma dal poeta visionario si e ancora di più dal poeta credente, è rappresentato al meglio
attraverso la figura retorica della sinestesia proprio perché unisce sensi diversi come nelle corrispondenze di Baudelaire.
Corrispondenze – Baudelaire
La Natura è un tempio dove incerte parole
mormorano pilastri che sono vivi,
una foresta di simboli che l’uomo
attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari.
Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un’unità profonda e buia
grande come le tenebre o la luce
i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.
Profumi freschi come la pelle d’un bambino,
vellutati come l’oboe e verdi come i prati,
altri d’una corrotta, trionfante ricchezza
che tende a propagarsi senza fine – così
l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino
a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.

Lezione 10 – 7 aprile.
PASCOLI & D’ANNUNZIO
Abbiamo visto che per alcuni Pascoli e D'Annunzio sono parte del discorso 900esco, perché sono il superamento soprattutto del classicismo, per
quanto moderno, di Carducci. Ma invece per altri sono un momento di passaggio, che è stato chiamato il momento ‘’Fine de siecle’’, termine che
viene dal contesto francese e che indicava le poetiche tra fine Ottocento e primissimo Novecento. Per altri è un discorso ancora parte dell'800,
cioè che non apre alle novità fortissime delle avanguardie del primo Novecento → quindi sono posizioni critiche legittime.

Però alcuni elementi fondamentali del simbolismo di Pascoli e D'Annunzio, soprattutto degli elementi proprio stilistici e linguistici di Pascoli e
D'Annunzio, rimarranno importantissimi per la poesia del Novecento, anche oltre il primo 900. Così influenti sono soprattutto le strutture
linguistiche di Pascoli e D'Annunzio, oltre che elementi retorici, che Mengaldo, uno dei più grandi linguisti che ha studiato a fondo la poesia del
Novecento italiano, ha parlato di una koinè Pascoliano - Dannunziana: un elemento che rimarrà importantissimo, quindi assolutamente
novecentesco. → la lingua poetica coniata da Pascoli e D'Annunzio, con tanti elementi in comune, rimarrà ancora molto viva e molto presente
nel 900.

Giovanni Pascoli
Cosa c'è da dire per la poesia del primo Novecento? importante è il suo SIMBOLISMO.
Superiamo la definizione di decadentismo, che viene dalla Francia. È la critica francese che parlò di decadenza con i simbolisti, da Baudelaire in
poi, e lo fece riprendendo un verso in particolare di Verlaine, uno dei grandi eredi del simbolismo di Baudelaire, ‘’sono l'impero alla fine della
decadenza’’. Quindi questa idea di una decadenza ricca, la fine della storia, della grandezza dell'impero, che viene poi ripresa in chiave negativa,
come avviene molto spesso. I critici usano delle etichette, come quella di decadentismo, già in Francia e poi in Italia, per usare una critica
negativa, con una connotazione fortemente negativa. Questa è rimasta appiccicato sul decadentismo per buona parte della prima parte del 900.
Superiamo questa definizione ancora manualistica, ma ormai abbondantemente superata nell'ambiente degli studiosi, e usiamo invece,
appunto, definizioni più precise e puntuali, che rispondono a poetiche non solo nazionali ma internazionali. → Quindi parliamo più propriamente
di Simbolismo per Pascoli come nuova poetica e per D'Annunzio simbolismo soprattutto nella chiave dell'estetismo.

Il testo di poetica più importante di Pascoli, quello noto con il secondo titolo definitivo che dà Pascoli, è ‘‘IL FANCIULLINO’’ (il primo titolo invece
‘’pensieri sull'arte poetica’’ era un’apertura più profonda nella definizione del fanciullino). È un testo di poetica molto importante che ci fa capire
cos'è il simbolismo pascoliano, perché riprendendo dall'inizio nei ‘’suoi pensieri sull'arte poetica’’ il Fedone di Platone, Pascoli riprende questa
immagine del fanciullino che vede tutto il mondo, come se fosse sempre la prima volta, e che è in tutti gli uomini, ma rimane attivo nell'età
adulta solo in pochi, e tra questi ovviamente ci sono innanzitutto i poeti. Quindi è già un superamento dell'idea che solo pochi abbiano dentro di
sé questo fanciullino, perché lui retoricamente se lo chiede in questo dialogo immaginario.
-‘’è solo in pochi, non posso credere’’ – dice Pascoli - ‘’ma questa voce che è così forte nell’infanzia’’ - quella che dà l'immagine ingenua del
fanciullino alla vista di tutto ciò, che lo circonda che l'essenza è lo spirito poetico - viene dimenticata poi nell'età adulta - e lui aggiungerà anche –
‘’per riaccendersi nella vecchiaia’’- perché c'è la figura del senex - puer in Pascoli, cioè il vecchio che torna all'ingenuità dell'infanzia e riscopre e
ascolta meglio dentro di sé questa voce. Quindi famosa assimilazione → la voce del poeta è come quella del fanciullino, il bimbo che scopre per
la prima volta il mondo attorno a sé e gli dà anche parole nuove. -‘’ogni poeta’’- scrive Pascoli- ‘’è un novello Adamo’’, come il primo uomo
Adamo che scopre attorno a sé tutto ciò che è il creato e deve dare un nome a ogni cosa. Questo è il grande potere del fanciullino e del poeta
che continua ad ascoltarlo anche nell'età adulta.

Ogni elemento evocato anche della natura pascoliana rinvia ad un nuovo senso, che Pascoli ogni volta reinventa. Così si hanno i grandi simboli,
soprattutto nello sguardo sulla natura della poesia pascoliana. Anche se in realtà Pascoli non è solo ‘’Myricae’’ e ‘’Canti di Castelvecchio’’, ma si
parla principalmente di queste opere perché qui il simbolo è profondamente legato a elementi naturali che evocano ogni volta un significato
nuovo, perché il poeta è il fanciullino che reinventa le parole e il loro senso, ogni volta che volge il suo sguardo attorno a sé.
Quindi si hanno i più famosi simboli, tra cui quello del gelsomino notturno, il fiore che è chiuso durante il giorno e che si apre durante la notte e
diventa il simbolo dell'amore in tutte le sue valenze anche erotiche; o il famoso simbolo del lampo e del tuono in cui in quel lampo non c'è
semplicemente l'immagine naturalistica e bozzettistica del lampo che illumina per un secondo la notte, la casa nella campagna, ma è nella realtà
il simbolo della morte del padre, di quel l'occhio che si apre e si chiude per un secondo, come proprio la luce che si vede per un secondo nella
notte tempestosa, quindi in realtà evocava il momento più tragico, che tante volte torna nella sua poesia, che è la morte del padre.

Questo è il tipico simbolismo pascoliano, legato soprattutto con la natura (anche se non solo) in Pascoli perché il suo grande modello è Virgilio.
Le raccolte principali hanno tutte un'epigrafe presa dalla IV bucolica di Virgilio e quindi appunto per Pascoli il Virgilio fondamentale è quello
delle Bucoliche. Ma non solo per questo, ma anche perché (gli sarà rinfacciato poi dai critici più impegnati del secondo 900) rimane legato ad una
Italia contadina, agricola e non capisce la modernità e anche i valori progressisti della nuova società industrializzata moderna del primo 900.
Quindi questo è stato visto come un arroccamento, dirà Sanguineti, di piccolo-borghese, secondo una ideologia pascoliana, tutta legato e ancora
aggrappata all’Italia contadina, non aperta al progresso, al futuro, all'industrializzazione.

I due grandi classici sono il ‘X AGOSTO’’ e ‘’LAMPO’’.

X Agosto
È una poesia famosissima dedicata alla morte del padre, al ricordo della morte del padre, legato secondo un calendario pascoliano: il titolo è 10
agosto, una data precisa sul calendario pascoliano. Quindi è collegato nel calendario (che in realtà costituisce una parte importante della
struttura di Myricae) a quel 10 agosto, in cui il padre viene assassinato. Il momento di uno dei grandi traumi, elaborati, con grande difficoltà,
poeticamente da Pascoli. Questa poesia è importante non solo perché è una poesia emblematica del suo simbolismo, ma anche per le
particolarità tecniche.

San Lorenzo io lo so perché tanto


di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dè suoi rondinini.

 L’invocazione del Santo, San Lorenzo, è volutamente molto ambigua. Molti elementi del simbolismo sono volutamente ambigui, il
simbolismo deve evocare, suggerire. San Lorenzo può essere inteso semplicemente come il ricordo del santo, legato (ancora adesso)
alla data del 10 agosto. Ma in realtà è anche una specie di preghiera, dialogo preghiera, con questo santo. Infatti rimane sospesa questa
evocazione del santo del 10 agosto, San Lorenzo.
 Poi inizia quel ‘’io lo so’’ perché c'è questo pianto di stelle nel cielo nella notte di San Lorenzo, perché il 10 agosto le comete sono più
visibili. Quindi la caduta di queste stelle viene letta, primo elemento evidentemente simbolistico, come un pianto di tutto il cielo,
evidentemente un pianto di dolore.
 Nella quartina successiva, senza connessioni logiche e neanche sintattiche, si passa alla similitudine simbolistica chiave, alla morte
della rondine che torna col cibo in bocca presso il suo nido: diventa poi il simbolo della morte violenta subita dal padre, mentre tornava
da lavoro sul suo calesse dai suoi cari. È una costruzione poetica fortemente simbolistica, c’è un salto logico e temporale dalla
evocazione del pianto al simbolo del ritorno della rondine, che viene uccisa portando nel suo becco il cibo per la sua famiglia.
Ora è la, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

 Continua nella quartina successiva la similitudine con la rondine, il simbolo della rondine uccisa. Chiude la similitudine con l'immagine,
altro elemento ancora simbolistico, della rondine che appare come in croce. Quindi con le sue ali spiegate come se fosse in croce e
viene richiamato un altro simbolo: l'immagine cristologica, il sacrificio di sé, il martirio di Cristo attraverso l'immagine della croce. →
Dunque è un doppio simbolo: c'è il simbolismo della rondine rispetto all' uccisione del padre e su questo simbolismo si innesta un altro
livello simbolico che quello della morte di Cristo in croce.
 c’è il richiamo, ancora una volta, in chiusura al nido, che lo attende sperando nel suo ritorno.
 fine della similitudine vicine di questo altro livello simbolico con la rondine.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:  immagine sinestetica
portava due bambole in dono…

 viene resa esplicita la metafora legata l'uccisione del padre. Il momento è particolarmente drammatico: richiama un fatto reale e
soprattutto particolarmente doloroso per il poeta. Lo stile si fa secco e c'è una costruzione per asindeto, cioè non ci sono le
congiunzioni, sono tutte sullo stesso piano paratattiche le varie fasi e non sono unite fra loro dalla congiunzione → paratassi per
asindeto.
 ‘’un uomo tornava al suo nido’’: prima frase principale; pausa forte con i ‘’:’’, ‘’l'uccisero’’ altra frase principale, ‘’disse: perdono’’ →
quindi sono una pura costruzione di paratassi per asindeto, tipica dei momenti drammatici, delle vocazioni drammatiche, legate
soprattutto (ma non solo) alla morte del padre. È una scelta stilistica tipicamente pascoliana, che anche in questo caso lascerà una
buona eredità anche nella poesia del Novecento.
 ‘’mi resta aperto negli occhi un grido’’ è un'immagine sinestetica. Il grido è sonoro ma lo immagina nei suoi occhi, quindi attraverso la
vista. La sinestesia è un altro elemento retorico fortemente simbolistico e molto amata Pascoli.
 ‘’portava due bambole in dono…’’: immagine ancora più triste, infatti si chiude questa immagine con lo sfumato dei puntini di
sospensione. L'immagine triste che portava anche il dono alle sue bambine più piccole, che poi sono Ida e Mariù, con cui Pascoli vivrà, e
portava appunto delle bambole. L’invocazione è tragica perché ricorda un altro elemento molto tragico: cioè che i più piccoli della
famiglia, quando viene ucciso il padre, erano veramente molto piccoli, come le due sorelline di Pascoli, ma anche lui era molto giovane.
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

 salto temporale brusco.


 Richiama la casa in cui lo aspettano invano. Entra in un ‘’non luogo’’ e in un ‘’non tempo’’: tipico del simbolismo Pascoliano. La casa è la
casa dell’infanzia che Pascoli ha abbandonato da tempo remoto, alla fine degli anni 90, quando scrive questa poesia, cioè la casa di San
Mauro in Romagna: a questa casa è riferito il ‘’là’’. Ma è una casa che ormai è in un ‘’non luogo’’ perché per lui è sempre la casa che è
rimasta lì abbandonata e che lo aspetta invano, come se il tempo si fosse fermato. Evoca nel presente un ‘’non luogo’’, quella casa che
ormai è da tempo abitata da altri. Ed evoca un ‘’non tempo’’ perché il tempo lì per il poeta e la sua famiglia, nel suo nido, è rimasto
bloccato a quel momento di 30 anni prima.
 Fortissima chiusura con l’uso della paratassi e dell’asindeto. L’aggettivazione fortissima dell’’’immobile attonito’’, cioè ancora conserva
in questo ‘’non tempo’’ la stessa meraviglia e lo stesso sgomento del momento in cui sta per morire. E continua in questo non tempo
eterno del dolore, della memoria del dolore, ad ‘’additare le bambole’’.
 Elemento fortemente drammatico è dato, non solo in questa visione tragica immobile nel tempo del padre, ma soprattutto nell’accusa
al ‘’cielo lontano’’: il cielo che non è stato accanto né al padre nel momento dell’uccisione ingiusta, né al nido che da quel momento ha
iniziato la sua fine.
 ‘’Cielo lontano’’ è già di per sé forte come sintagma riferito a quel cielo che dovrebbe esser abitato da San Lorenzo, a cui è rivolta la
preghiera, invece è lontano e riprende la stessa identica voce che aveva già espresso al v.10, due strofe prima. Quando un poeta ripete
un intero sintagma vuol dire che quella è una dell’immagine, dei motivi chiave, dell’intera poesia. Il dolore terribile che c’è nella poesia
pascoliana, al di là del terribile ricordo di quel momento drammatico, al di là anche del dolore della fine di quel nido che si disgregò
immediatamente perché la madre muore di dolore un anno dopo, l’accusa implicita di Pascoli (che non fu mai credente anche per
questo motivo) fu che la visione del cielo (che è una visione positiva manzoniana e riprende l’immagine del nido e della rondine) viene
rovesciata in Pascoli in una accusa al cielo lontano: c’è il pianto delle stelle all’inizio ma la chiusa è su questo cielo distratto e lontano
dalle pene degli uomini.
altra cosa importante, che è evidente in queste strofe, è che Pascoli, insieme a D’Annunzio, è uno dei grandissimi inventori di una metrica in
parte liberata. La poesia del 900, anche quella più innovativa (Montale, Saba…), ha la caratteristica di non aver del tutto abbracciato il verso
libero, che è la grande rivoluzione della poesia del 900 italiano e non solo italiano. Verso libero: cioè la rinunzia totale alle leggi della metrica
italiana. Ma invece moltissimi poeti preferirono un verso liberato, cioè che si liberasse solo di alcuni elementi, non tutti, della metrica tradizione.
Un maestro fu Pascoli perché rifiuto esplicitamente l’uso del verso libero e cercò all’interno, tra le maglie, del sistema metrico italiano una serie
di piccole rivoluzioni all’interno della metrica italiana.

Una delle grandi rivoluzioni fu quella del verso ipermetro che imparò anche D’Annunzio ad usare ma ritenne generosamente che Pascoli fu il
vero maestro. È quel verso in cui l’ultima sillaba eccede la lunghezza normale, è al decimo posto o al dodicesimo posto, quindi un verso in più
rispetto al novenario o endecasillabo, ma va conteggiato con il verso successivo. Questo crea una continuità ed una fluidità del sistema metrico e
del sistema strofico, di cui Pascoli è uno dei grandissimi inventori e manipolatori, insieme a D'Annunzio. Perché anche D’Annunzio lo utilizza ma
lui stesso ammette che nessuno però come Pascoli è riuscito a nascondere una libertà, rispetto al sistema tradizionale, pur rimanendo all'interno
della metrica tradizionale. Così c’è una serie di escamotage per esempio nell'uso degli accenti, dei ritmi e degli accenti secondari. È uno degli
eredi della metrica Barbara-carducciana, quindi prova a fare una metrica che richiami in qualche modo la metrica classica quantitativa. Pascoli lo
attua ancora più che D'Annunzio, perché D'Annunzio invece poi accetterà la grande rivoluzione del verso libero e già con il ‘’libro di Maia’’, a
cavallo tra la fine dell'800 e primo 900, proverà anche lui a utilizzare il verso libero, cioè quello che prova a liberarsi completamente dalla metrica
tradizionale. Pascoli invece a questo non arriverà mai, ritiene che il massimo per lui che si avvicina al verso libero è l'endecasillabo sciolto.

Verso ipermetro: ha una sillaba in più del normale. L’ultima sillaba del verso ipermetro si elide con la
prima sillaba del verso successivo o viene assegnata al verso successivo (che ha una sillaba in meno).

Domanda: Il verso ipermetro ha per esempio un novenario con l'accento sulla decima sillaba?
Risposta: No, un novenario è tale se l’accento cade sull’ottava sillaba. Per esempio Gozzano, primo Novecento, riprenderà da Pascoli le rime
ipermetre e lo capiamo perché riprenderà anche proprio la stessa rima, le stesse parole, che ha usato Pascoli come ipermetre: cioè la sillaba
eccedente veniva conteggiata in quella successiva. Per esempio nella frantumazione del verso (attraverso la sospensione delle parole, attraverso
i puntini di sospensione, tipici di un linguaggio poetico simbolista) sembra frantumarsi la lingua poetica e quindi lo stesso verso, ma in realtà
anche quando il linguaggio è frantumato e si sospende la frase e ci sono i puntini di sospensione, alla fine in Pascoli il conteggio torna sempre.
Uno dei versi su cui sperimenterà di più Pascoli (e tutti, incluso D'Annunzio, gli riconoscono la sua bravura) è certo l'endecasillabo sciolto in certe
raccolte.

Ma la cosa importante è la rivoluzione che Pascoli applica, con tutti gli espedienti incluso il verso ipermetro, sul novenario. Il novenario è
protagonista di molta poesia anche pascoliana ed era un verso buttato fuori dalla metrica canonica, cioè da Dante in poi, il novenario veniva
considerato un verso brutto, da evitare nella poesia. Il verso nobile era l'endecasillabo e il settenario che erano i versi della canzone, il
componimento più nobile della poetica italiana. Il novenario, di cui parla nel ‘’de vulgari eloquentia’’ Dante, diventa principe della migliore, più
innovativa metrica italiana, a fine 800 proprio grazie a Pascoli. (anche D'Annunzio lo utilizza, ma Pascoli sicuramente è quello che sperimenta di
più). → quindi usa un verso, che non si può dire che sia fuori dalla metrica, ma ne crea una tradizione moderna che infrange tutti i tabù che
erano nella metrica tradizionale.

La modernità del simbolismo pascoliano è in tutte le invenzioni simboliche, non solo quella del nido familiare ma molte altre. Anche in una
poesia in cui c'è al centro il solito dramma familiare, si innesta un simbolo sull’altro, già questo è innovativo, ma lo userà nei modi più diversi. Il
simbolismo pascoliano avrà strade in realtà enormi e infinite.

Una meravigliosa raccolta, quella che per prima ha dato una fama minima europea a Pascoli, fu quella dei ‘’Poemi Conviviali’’, in cui ci sono dei
simboli meravigliosi: la simbologia di Eros e Thanatos, amore e morte, nella poesia legata a questi due temi (‘’Solon’’ è il testo di apertura) dei
Poemi Conviviali. È una simbologia che va ben al di là della simbologia più nota di Myricae e Canti di Castelvecchio: c’è il nido familiare e la
natura.

Lampo
Altra poesia irrinunciabile per capire cos'è il simbolismo pascoliano e la natura è quella del famosissimo lampo, che va letta insieme ‘’al tuono’’:
il lampo è la poesia che viene composta prima, ma poi in una edizione successiva delle Myricae Pascoli crea un dittico, cioè una poesia a due
senza soluzione di continuità, unendo al ‘’Lampo’’ il ‘’tuono’’→ i due sensi principali della vista e dell'udito formano un dittico, legato anche
all'idea delle ‘’Corrispondenze’’ di Baudelaire, cioè che ogni senso sia, in realtà, unito all'altro nella percezione del cosmo.
Emergerne nel ‘’Lampo’’ la grande simbologia che è quella del momento dell’uccisione, dello sparo che uccide il padre. Quindi si riferisce a quella
luce, che dura un secondo e poi torna il buio ma in realtà evoca ancora una volta quel momento drammatico. Ma qua si sbizzarrisce nella forma
di quei famosi (che spesso vengono chiamati) frammenti di Myricae, che tanto insegneranno alla poesia dell'ermetismo per esempio in pieno
900. Ma ancora una volta questi frammenti in realtà rispondono ad un’epica canonica perché sono stanze di ballate. La ballata esiste dall'inizio
della nostra poesia, ma diventa un frammento modernissimo.

E cielo e terra si mostrò qual era:


la terra ansante, livida, in sussulto:
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

 Nella ballata medievale c’è un verso singolo, che era quello del ritornello. Questo invece è un verso che rimane isolato e ha una sua
solennità.
 ‘’E Cielo e terra si mostrò qual era’’: l'uso della E all'inizio è come se evocasse, perché è tutta una poesia di evocazione quella simbolista,
e come se ci fosse un discorso precedente che noi non abbiamo né visto e né sentito.
La terra come si mostra in quel secondo, che è quello del lampo? Si mostra ‘’ansimante, livida, in sussulto’’: ci sono tanti elementi
espressionistici in questo Pascoli. Espressionismo inteso come quello che intende Contini, grande lettore di poesie e di Pascoli, cioè un
linguaggio che implichi una immagine di rottura, di angoscia: immagine angosciante del momento del temporale, del lampo che
ricordano il padre. E spesso l'espressionismo attribuisce a elementi inanimati o anche eventualmente ai bestiari aggettivi che sono
chiaramente umani. Quindi mescola animato e inanimato e non umano e umano: la terra che ansima ed è livida ed è in sussulto
evidentemente viene antropomorfizzata → elemento fortemente espressionistico
 ‘’il cielo ingombro, tragico, disfatto’’: qua il cielo ha delle qualità invece astratte. Tragico, disfatto: il cielo di per sé normalmente non
può essere tragico.
 ‘’bianca bianca nel tacito tumulto’’: anche la ripetizione di quel bianca fa parte di una costruzione nuova del testo poetico. Il ‘’tumulto
tacito’’ è quello del temporale. Quindi ancora non è arrivato il suono del tuono, per questo è silenzioso questo tumulto. C’è un
ossimoro fortissimo: il tumulto che diventa silenzioso. → Iper-costruita metricamente.
 ‘’una casa apparì sparì d'un tratto’’: anche qua i due verbi non hanno congiunzione, sono per asindeto, proprio per dare l'idea della
velocità, della immediatezza, tra la casa che appare illuminata dal lampo e il momento in cui immediatamente dopo sparisce.
 ‘’come un occhio, che, largo, esterrefatto, si aprì si chiuse nella notte nera’’: c’è l'analogia forte. Pascoli è il grande anche inventore di
una poesia che va al di là del simbolismo e diventa puramente analogica, come faranno i poeti dell'ermetismo novecentesco. Qua viene
introdotta dal ‘’come un occhio’’, quindi con una similitudine. Se avesse tolto il “come” sarebbe stata una pura analogia 900esca, perché
avrebbe detto direttamente ‘un occhio che largo esterrefatto si aprì si chiuse’, avremmo dunque un'analogia ermetica, ma qui Pascoli
usa il ‘’come’’ che introduce l'analogia. → A questa casa, illuminata per un secondo, è successo quello che succede a un occhio che per
un secondo si apre e si chiude subito nel buio. Però qui si innesta, su questa similitudine che già è una analogia (la casa come l’occhio),
una analogia più profonda, che possiamo solo intuire in questa poesia ma che è documentata dalle carte pascoliane. In realtà l’analogia
più profonda è quella proprio degli occhi che si chiudono nel buio improvvisamente, quando il padre viene ucciso, ammazzato da un
colpo di fucile.
→ simbolismo, analogismo, che insegnerà tantissimo all’analogismo soprattutto ermetico del 900, e costruzione raffinata metricamente,
modernizza la ballata metricamente e retoricamente. C'è veramente tutto: dalle analogie, all'antropomorfizzazione, all'espressionismo,
all'ossimoro e stilisticamente l'asindeto e soprattutto questa fortissima immagine analogica. L'analogia è l'ultimo livello a cui si può spingere una
tradizione simbolistica, cioè quello di evocare soltanto un’idea, un pensiero, un'immagine che normalmente è assolutamente diversa, non
collegata direttamente a quello che viene presentato: un occhio, che si apre e si chiude nella notte, ovviamente per analogia, quindi per
un'invenzione poetica che non tutti possono intuire, può essere collegato al momento tragico dell’uccisione del padre. Quindi al simbolo si
unisce, per esempio in questa poesia, ma non solo, ormai anche l’uso proprio dell'analogia. Questo è di una tradizione ormai post simbolistica
che rimarrà, anche se spesso rifiutata ufficialmente anche in molta poesia del 900. Questi sono gli elementi fondamentali del simbolismo ormai
quasi analogico.

Altro elemento importante, legato all’elemento espressionistico e stilistico di questa piccolissima ballata, è il fonosimbolismo pascoliano di cui è
stato grande studioso Contini, che ha parlato non solo dell'espressionismo a livello anche immaginario di Pascoli, ma un espressionismo unito a
un fonosimbolismo: suoni che devono evocare un simbolo, un'immagine poetica. In questa poesia c’è un fonosimbolismo fortemente
espressionistico: ‘’ingombro, tragico’’ sono tutti suoni (soprattutto quelli col TR) tipicamente pascoliani, ‘’esterrefatto, tratto’’ c’è un
fonosimbolismo molto duro dei suoni, soprattutto con la sillaba del TR, che ritorna tante volte nel fonosimbolismo pascoliano. → Dunque sono
un altro elemento tipico dello stile pascoliano, che insegnerà molto e lascerà molto ancora in eredità alla poesia del 900.

•In realtà poi c'è tutto un contesto poetico pascoliano, altrettanto meraviglioso, che è i ‘’non luoghi’’ pascoliani, che sono i luoghi di una
memoria che reinventa.

 Per esempio ‘’una patria’’, una delle più belle poesie di Myricae, in un ‘’non tempo’’ della memoria, evoca un luogo che neanche riesce
a mettere a fuoco perfettamente fino alla fine, finché non appare un campo santo, che sono i bellissimi ‘’non luoghi’’ della memoria
pascoliana che ricostruisce attraverso tutta la sua poesia, in particolare in Myricae e Canti di Castelvecchio. In questo ‘’non luogo’’ della
memoria moltissimo viene lasciato in eredità a una poesia post simbolistica del 900, in particolare alla linea ermetica.
 In questi ‘’non luoghi’’ poetici c’è il non luogo di ‘’casa mia’’ altra poesia bellissima: questo tornare con la memoria in maniera
visionaria, tornare e reinventare i luoghi della infanzia perduta per sempre, i luoghi perduti per sempre di San Mauro. (è un poeta
visionario come la migliore poesia simbolistica europea). Soprattutto li reinventa nel dialogo con la madre: la madre morta solo un anno
dopo il padre, quindi perde anche la madre da bambino. La madre è la figura più poetica e più bella in tutta la poesia, è la figura
ancora più presente di quella padre.
 l’ombra della madre bellissima è la protagonista di quel ciclo finale dei’’ Canti di Castelvecchio’’, che si chiama ‘’il ritorno a San Mauro’’:
un ritorno nella memoria, quindi in realtà in un non luogo poetico, in cui tocca i vertici del suo linguaggio e soprattutto della sua
visionarietà simbolistica. Di questi dialoghi con questa presenza, che non ha nulla di inquietante perché non è il fantasma ottocentesco
della madre morta, ma è invece una presenta bellissima, assolutamente poetica, Pascoli lascia molto a quel dialogo che è sempre un
dialogo infranto, mancato, non si sentono mai le due voci che riescono a comunicare, si sente sempre una voce a non l'altro, lascerà
questi in eredità anche ai vertici della poesia del Novecento.
Gabriele d’Annunzio
Anche in D’Annunzio c'è un elemento simbolistico molto presente nei romanzi. D’Annunzio è altrettanto famoso come autore di romanzi, di
novelle, di teatro, cosa che invece non riuscì a Pascoli e fu una delle grandi frustrazioni di Pascoli. Il simbolismo in D’Annunzio è fortemente
presente già nei suoi romanzi, non soltanto nella sua poesia.

Ma a questo simbolismo si associa, sempre di più fino a sopraffarlo, un fortissimo elemento che viene dall' estetismo di fine secolo. Estetismo,
che è di marca soprattutto inglese e che a fine 800, attraverso alcuni grandi autori come Peter e Oscar Wilde, porta a una fortissima esaltazione
del bello estetico che viene ricreato soltanto dal grande poeta (che è ancora un poeta con P maiuscola) capace di riplasmare incessantemente
l'arte e creare dei capolavori, che sono dei capolavori però che rinviano sempre a una forte ambiguità, forte allusività → L’evocatività e lo
sfumato sono l'elemento comune alla poetica pascoliana e dannunziana e anche il lascito forse più duraturo da parte di D'Annunzio alla poesia
del 900.

Walter Peter, grande scrittore e soprattutto grande studioso di storia dell'arte, nel suo saggio sul Rinascimento, famosissimo subito in tutta
Europa, parlando dei grandi artisti del Rinascimento, in uno dei saggi dedicato a Leonardo, esalta la bellezza ambigua della Gioconda, ne fa un
mito fortissimo a fine Ottocento e nel primo Novecento, che è uno dei miti fondanti dell'estetismo europeo → Riprendere i grandi di certe
epoche, in particolare di un Rinascimento non ancora manieristico e non ancora da pieno 500, riprende più gli autori del 400, e ricrearli in un
modo moderno, che è quello lungo una linea simbolistica, quindi una linea che deve, attraverso la parola poetica, evocare, essere una parola
sfuggente e ambigua. → La grande metafora dell'ambiguità del sorriso della Gioconda e del fascino enorme, che va al di là dei secoli, sarà una
delle basi dell’estetismo europeo a cui si rifà D'Annunzio, insieme a tutto ciò che è poetica Wildiana, legata al grande scrittore di teatro che fu
Oscar Wilde e soprattutto l'inventore della vita che si fa opera d'arte. Quindi ancora una volta l'estetica, l'opera d'arte, che plasma anche tutta la
vita del grande artista. → questo sarà uno dei cardini dell'estetismo dannunziano: la vita come arte.

C'è poi tutto il fonosimbolismo, a cui rimane molto legato soprattutto in quello che forse è il suo capolavoro poetico: il libro del ’’ALCYONE’’, nel
1903 (anche se porterà la data del 1904) . Qui il simbolismo si fonderà con l'estetismo e soprattutto utilizzerà tanti elementi che erano del
fonosimbolismo pascoliano. → Creano insieme, soprattutto con l’’Alcyone’’ dannunziano che è della stessa data dei ‘’Canti di Castelvecchio’’, il
1903, una koinè pascoliano – dannunziana, un linguaggio comune che riesce ad accomunare la sensualità, il panismo superomistico di
D'Annunzio, apparentemente in maniera paradossale a trovare un linguaggio comune, con il fanciullino pascoliano, che com’era stato analizzato
da un critico, Salinari, è in realtà parte della stessa faccia, è l'altra faccia della poesia di fine secolo, di quella si chiamava prima decadente ma che
noi chiamiamo simbolistica: la poesia racchiusa nel l'ingenuità del fanciullino, così come invece la poesia racchiusa nelle saltazione panica,
superomistica di D'Annunzio.

Consolazione – Dal poema Paradiasico


È una poesia in cui sono evidenti i punti di contatto con Pascoli, il simbolismo dannunziano che incontra anche la simbologia pascoliana. Una
poesia in cui c'è proprio il dialogo con la madre. È una raccolta più vicina agli elementi di raccoglimento interiore di tutta la poesia pascoliana,
che evoca la memoria della famiglia, il dialogo con la madre lontana perché morta, in una chiave anche più malinconica (che piacerà moltissimo
ai crepuscolari). Questa raccolta è la raccolta del ‘’POEMA PARADISIACO’’, nel 1892 in pieno clima simbolistico. Un simbolismo, anche del dialogo
con la madre lontana, che lo avvicina per tanti aspetti a Pascoli e che si rifà anche al simbolismo europeo.

Non piangere più. Torna il diletto figlio


a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

 c’è, come in Pascoli, una costruzione molto franca, con asindeto senza congiunzioni e paratattica, sono tutte frasi principali, una
attaccata all'altra senza congiunzione. Ma questo discorso poetico di D'Annunzio è accomunato a Pascoli anche dall'idea del pianto della
madre che lui cerca di consolare. Il titolo è proprio appunto ‘’consolazione’’ ed è molto vicino alle atmosfere pascoliane.
 ‘’il volto bianco come un giglio’’: è parte di quell’estetismo di fine Ottocento, che viene dai grandi preraffaelliti, che sono coloro, che
insieme a Wild e Peter, inventano l'estetismo di fine secolo inglese e poi europeo, perchè recuperano la grandezza dell'arte non del
pieno e maturo Rinascimento di Raffaello, ma tutto ciò che conservava qualcosa di primitivo, quindi soprattutto l’arte medievale e l’arte
del primissimo 400. Per esempio, riprendono una simbologia, che si fa anche alla poesia del medioevo, quella di Dante, innanzitutto,
che viene tradotto dal poeta e pittore Dante Gabriele Rossetti, riprendono la simbologia del giglio, della purezza candida che viene
associata in pittura, da questi pittori-poeti soprattutto, alla Beatrice e sono elementi che poi in D'Annunzio diventano decorativi ma
perennemente presenti.
Sono gli anni di poco successivi all'uscita del ‘’PIACERE’’ e nel ‘’piacere’’ c'è tutta una estetica preraffaellita: la figura angelica per
esempio di Maria, nella seconda parte del romanzo, ha tutti i tratti della beata Beatrice (Beata Beatrix come si chiamava nel famoso
quadro di Dante Gabriele Rossetti)
I preraffaeliti sono: 1) Dante Gabriele Rossetti, pittore e da grande traduttore di Dante e degli stilnovisti, figlio di un famoso Carbonaro,
famoso patriota del primo Ottocento italiano che deve scappare in Inghilterra per sfuggire alla prigione e Inghilterra nascerà suo figlio
Dante Gabriel Rossetti, in omaggio innanzitutto a Dante. Gli altri sono 2) Peter, non solo romanziere, ma soprattutto studioso di storia
dell’arte, la insegnava ad Oxford e crea dei miti dell'arte, ripresa soprattutto dal primissimo 400, primo tra tutti è il mito di Leonardo in
particolare, insieme a quello di Botticelli e dei primitivi medievali, e in particolare il l'idea della fusione delle arti, della poesia che
diventa anche musica. 3) Oscar Wilde, il grande inventore della vita che si fa arte, il grande lavoro artistico dell'artista estetizzante per
eccellenza, che fa della propria vita un'opera d'arte, come riscriverà fedelmente lo stesso D'Annunzio.
→ questa è la qualità dell'estetismo dannunziano.
 quindi il giglio di consolazione è un elemento che viene proprio dall'immaginario preraffaellita, così come fortemente estetizzante e
post simbolistico è quello che leggiamo subito dopo.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancora per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.

 c’è l’invito ad andare in un giardino abbandonato: è un topos di tutta la poesia simbolistica ed estetizzante. Il Giardino abbandonato ha
quell'elemento di decadenza, è un giardino non fiorito, non illuminato dal sole, ma alla deriva, decadente (che viene invocato tante
volte dai Poeti di fine Ottocento e sarà caro poi anche ai crepuscolari). → Gli elementi più interessanti di questo componimento sono
quelli che più avvicinano il simbolismo pascoliano e quello dannunziano

Gli elementi del simbolismo pascoliano e del simbolismo dannunziano si allontanano decisamente poi nella poesia dei libri della maturità e
soprattutto nella poesia, che forse è la più grande ed è quella più rimasta nella traduzione 900esca, cioè quella del libro di ‘’ALCYONE’’, uno dei
libri delle Laudi come chiamò queste raccolte D’Annunzio. Un ciclo delle Laudi che rimarrà interrotto, non scriverà tutti i libri, ma uno dei più
grandi che esce nel 1904 è proprio il libro del ‘’ALCYONE’’.
Perché è uno dei vertici ed è anche uno dei più rappresentativi del simbolismo ed estetismo dannunziano? perché lascia tanto anche a parte
della poesia del Novecento?
 Innanzitutto è una natura totalmente simbolistica, con tratti fortemente antropomorfizzati. La natura sembra farsi umana, ancora più viva
delle stesse presenze umane, protagonista assoluta, così come l’umano si fa natura, si identifica totalmente nella natura. Questo è un elemento
fortissimamente simbolistico, la fusione dell'umano nel non umano e viceversa.
 In questo trionfo di questa natura c'è anche un trionfo di suoni, oltre che di immagini. C’è un fonosimbolismo molto forte perché i suoni della
natura vengono evocati più volte in tutto il discorso poetico, in particolare nell'uso delle ‘’liquide”, le Gocciole foglie che parlano…’’ o invece in
un fonosimbolismo più vicino a Pascoli ‘’gli irti, le salmastre arse’’, quindi i suoni più duri. C'è un fonosimbolismo molto vicino in questo senso a
quello di Pascoli, come tecnica fonosimbolistica.
 Però di diverso c’è il questo PANISMO, che viene chiamato ormai ‘’panismo Alcyonio’’, proprio perché trova vertice nella poesia dell'Alcyone.
Panismo vuol dire la totale pervasività della natura, che diventa un tutto nel Dio Pan classico, era il dio della natura perché era il dio del tutto.
 C'è un elemento che riprende e modernizzata (è una chiave interessante): modernizza i limiti della classicità.
 ’’La pioggia nel pineto’’: per esempio c’è il nome di Hermione, la figlia di Elena di Troia: c’è un classicismo moderno, che è un retaggio anche
carducciano, che lui porta alle estreme conseguenze.
 per esempio nel primo libro delle Laudi, il libro di Maya, c'era tutta una ricostruzione moderna del mito di Ulisse: il viaggio di Ulisse era in
realtà il viaggio che banalmente faceva su un panfilo D'Annunzio nelle acque della Grecia. Quindi c’è il reimpossessarsi, in una la chiave moderna,
di elementi e spesso anche proprio di stile della classicità.

Oltre al panismo alcyonio, al fonosimbolismo, al classicismo moderno c'è anche molto altro in questa bellissima raccolta.
La sera Fiesolana – Da Alcyone
Cosa c'è di altro, oltre al continuo panismo alcyonio di tutto il libro dell'Alcyone?
C'è il fonosimbolismo, ma c'è soprattutto l'elemento musicale che diventa centrale. La funzione di arte visiva e arte musicale è uno degli
emblemi dell'estetismo di fine 800, a cui D'Annunzio va assolutamente incontro. Quindi suoni e immagini, soprattutto nell’ Alcyone, si fondono
perfettamente, tanto ne ‘’la sera Fiesolana’’ quanto nell'altra famosissima poesia della ‘’pioggia nel pineto’’.

In questa poesia l’ispirazione, l'evocazione, la riscrittura guardano chiaramente al ‘’Cantico delle creature’’ di San Francesco. Quindi altro
elemento tipicamente estetizzante è la ripresa di immagini, topoi, figure della religiosità più vera, però usate in una chiave solo estetizzante, cioè
una chiave che le ripresenta solo per la loro bellezza estetica, per la loro funzionalità poetica. Qui, in pieno panismo alcionio, quindi nella
sensualità tutt'altro che Cristiana e Francescana, D'Annunzio riesce a rileggere anche la Lauda Francescana, piegando totalmente un discorso
religioso in chiave estetizzante e simbolistica. Anche questo elemento interessante verrà preso in vario modo, in particolare da certi crepuscolari.

Gli elementi fondamentali della Sera Fiesolana sono questi: un immaginario, legato tutto alla natura, al panismo, alla sensualità e anche al
fonosimbolismo della natura dell'Alcyone, a cui però si lega questo richiamo assolutamente strumentale, assolutamente estetizzante alla
religiosità, in particolare alla religiosità francescane e a quella della Lauda.

Lezione 11 – 8 aprile
Come in tutto l’Alcyone, anche in questa bellissima poesia c'è l'elemento di un panismo molto sensuale cioè l'umano che si fa a natura e la
natura che ha caratteristiche umane, soprattutto di sensualità. Questo panismo passa attraverso i sensi e in questa poesia in particolare ancora
di più attraverso il senso della vista e dell’udito. Altro elemento particolarmente interessante è il fatto che in questa poesia D'Annunzio evochi la
Lauda Francescana: questa non è una stranezza che si inventa D'Annunzio, anche questo è parte di una poetica simbolista perché ancora una
volta a fine 800, in particolare in Francia ma anche in Italia fino al primissimo 900, c'è questo riuso assolutamente strumentale, assolutamente
poetico, delle forme e degli elementi che possono ricordare una spiritualità Francescana. Il tutto però, quasi sempre nel caso eclatante di questo
D'Annunzio, in una chiave non veramente spirituale e religiosa. Fa parte dell'estetismo europeo il riuso estetizzante delle forme e della poesia
religiosa o anche proprio dei simboli della religione. Si parla proprio, nel caso particolare del riuso delle forme della Lauda Francescana e della
stessa figura, dello stesso simbolo di San Francesco, di francescanesimo. Questo è un tema importante nell' estetismo di fine 800 europeo (ci
sono tanti studi sul francescanesimo) perchè San Francesco diventa un emblema importante del simbolismo europeo. Anche in questo caso
d’Annunzio, che è bravissimo a cogliere tutte le novità che arrivano da tutta Europa (e questo suscita molta invidia anche da parte di Pascoli)
rielabora, anche lui alla sua maniera, questo francescanesimo tipicamente estetizzante.

La sera Fiesolana
Questi sono alcuni degli elementi fondamentali per capire l'importanza di questa poesia.
Elementi fondamentali del componimento  Sono strofe di varia lunghezza e soprattutto che mescolano vari versi di diversa lunghezza,
esattamente in quell'idea di una metrica tra liberata e propriamente libera che D'Annunzio sposa con molta più convinzione rispetto a Pascoli.
D’Annunzio sfonda i limiti della metrica tradizionale in maniera volutamente molto più eclatante rispetto alla metrica - al massimo liberata – di
Pascoli.
Vediamo gli elementi fondamentali di questo simbolismo.
Da Alcyone – La sera Fiesolana
Fresche le mie parole ne la sera  enjambement
ti sien82 come il fruscìo che fan le foglie  elementi del fonosimbolismo: importanza del suono “FR”
del gelso83 ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta  elemento che EVOCA la presenza umana
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie  personificazione. Elemento classicistico moderno estetizzante
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo

82 È un enjambement: si continua sintatticamente oltre la fine del primo verso.

83 Altro enjambement ancora più forte rispetto al primo. Il verso finisce metricamente con le foglie ma sintatticamente e
ritmicamente viene unito al verso successivo. Uno degli enjambement più forti nella metrica italiana è quello tra il sostantivo e il
suo complemento di specificazione o quello che unisce il sostantivo al suo aggettivo.
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,


o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

 Mescola vari versi e usa l’enjambement in maniera esagerata(il verso non finisce sintatticamente e logicamente con la fine del verso
ma continua anche con l'inizio del verso successivo) .Per cui questo lungo pensiero, una specie di lungo periodo sintattico che prende
tutta la prima strofa – e questa è una novità interessante stilisticamente – ha un ritmo unico e continuo per cui il ritmo della frase
poetica non si spezza mai, non mi devo mai fermare ma continuare a mantenere lo stesso ritmo musicale, continuando a leggere al di là
della fine del verso. Un’unica frase, sintatticamente e poeticamente, costituisce questa prima strofa e la fluidità che è voluta
ritmicamente è sottolineata dall’uso dell’enjambement. La fine verso ritmicamente oltre che sintatticamente non coincide mai con la
fine del pensiero poetico.
 L’elemento musicale è uno degli elementi fondamentali di questa poesia, del fonosimbolismo di questa poesia.
Ancora più della vista – e qui ci sono dei riferimenti e dei richiami forti, c’è una visività forte – è importante la sonorità: qui vanno a
braccetto Pascoli e d’Annunzio. È presente quindi un importante fonosimbolismo, lo stesso che troviamo anche nella poesia di Pascoli
(non solo nelle Mirycae e nei canti di castel vecchio ma anche in molta altra sua poesia). Il fono simbolismo è una delle caratteristiche
stilistiche più forti del simbolismo pascoliano e dannunziano.
Dov’è qui il fono simbolismo? “fresche foglie” – “fruscio”  sono tutti elementi che sottolineano volutamente la sillaba sonora del “FR”,
assolutamente mirycea.
Perché si dice fonosimbolismo? Perché questo suono che si ripete, che è incalzante, deve richiamare anche fonosimbolicamente il
fruscio delle foglie. Già la parola “fruscio” è fonosimbolica perché in se, attraverso il suono, deve richiamare un’immagine  l’immagine
sono le foglie del gelso che un uomo, che però non appare mai – perché al centro troviamo la natura, l’umano è in secondo piano –
continua a raccogliere (con la sua mano) durante la sera, caratterizzata da un forte fruscio di foglie. il fonosimbolismo deve dare il suono
di un fruscio.
 “Fresche le mie parole ne la sera ti sien84 come il fruscìo che fan le foglie del gelso85 ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor
s’attarda a l’opra lenta”  guardiamo il simbolismo: l'aggettivo più forte che evoca soltanto (l’elemento chiave del simbolismo è che
non si descrive ma si evoca) una presenza umana è quel “silenzioso” che è riferito ambiguamente a quella mano umana che coglie il
gelso in questo paesaggio sempre più notturno. Però è una presenza umana, solo evocata da quel silenzioso, e qui troviamo ancora il
simbolismo. E infatti l'aggettivo è “silenzioso”: la natura è piena di musica e rumori - il fruscio delle foglie fresche nella sera ecc -
l'elemento umano, che solo vagamente è evocato da quel “silenzioso”, non a caso è evocata unito all'idea del silenzio. Non è l'umano
che fa la musica di questo paesaggio ma è la natura stessa.
 Accanto a questo fruscio che accompagna tutta la prima parte di questo lungo periodo sintattico troviamo a metà di questa di questa
strofa l'apparizione della luna: evidentemente passiamo da un fonosimbolismo sonoro alla luce della luna, perché arriva la sera
Fiesolana  ovviamente la luna è anche protagonista di questo paesaggio serale e alla maniera dannunziana (per niente pascoliana) la
luna è personificata, tanto che Luna viene riportato con la L maiuscola questo fa parte di quel preziosismo e anche classicismo
moderno estetizzante che è tutto dannunziano. Usa ancora una serie di elementi che vengono da una tradizione alta e anche
classicistica: gli elementi della natura personificati sono un elemento di questo moderno classicismo tipicamente dannunziano.
Appare quindi questa luna che distende un velo dinanzi a se e abbiamo anche qua un paesaggio che, se anche viene riportato in una
maniera e in uno stile tutto dannunziano, è molto vicino ai paesaggi notturni e lunari di Pascoli, molto allusivi, evocativi. Ricordiamo che
la parola chiave è evocazione (la prof suggerisce di leggere l'Assiuolo di Pascoli, una poesia che ha scritto nell’anno in cui d’Annunzio
scrive la Sera Fiesolana 1899. Nell’ Assiuolo troviamo proprio questo paesaggio lunare velato in cui la luna quasi non si vede, si vede
invece solo un velo di luce). Quest’immagine di un notturno velato è fortemente evocativa ed è un paesaggio notturno molto vicino al
simbolismo pascoliano.
 ”quel nostro sogno si giace”: viene evocata la presenza del poeta associato a un “tu” che già era evocato, solo evocato, nel secondo
verso di questa poesia come in tutto Alcyone. Praticamente in tutto Alcyone le due presenze umane evocate sono il centro del racconto
poetico e sono la figura stessa del poeta dannunziano, che è onnipresente insieme a una figura che sappiamo essere l'ombra della figura
femminile della sua amatissima Eleonora Duse, il grande amore (tra le decine di amore avuti, il più importante) avuto proprio a cavallo
tra fine Ottocento e inizi novecento: è molto importante perché la Duse è stata una grandissima attrice teatrale, la vera Musa ispiratrice
di tanti scrittori, e non può che essere che l’idea,anche sul teatro e le opere teatrali di d’Annunzio simbolistiche vengono anche dalla
influenza e dal dialogo con questa grandissima attrice. Ma qui è poco importante chi sia questo “tu” femminile: c'è un tu che
chiaramente implica l’io poetico che sta parlando e questo è tipicamente dannunziano e per niente pascoliano.
“dov'è il nostro sogno si giace”  Quindi il loro sogno d'amore, il loro sogno della vita. L’elemento del sogno è assolutamente
simbolistico è in altra maniera ce l'abbiamo anche nel simbolismo pascoliano.
 ”da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla.” Tutto era sommerso in un notturno gelo che viene da
questa luna e si spera che questa luna che si intravede in un velo notturno possa portare una pace, una serenità nella sera. C'è questa
luna, questo paesaggio lunare che irrompe già nella prima la prima strofa. Il paesaggio lunare è fortemente simbolistico, fortemente
evocativo, visto attraverso un velo, esattamente come nel simbolismo pascoliano, in particolare nel simbolismo dell' Assiuolo. Abbiamo

84 È un enjambement: si continua sintatticamente oltre la fine del primo verso.

85 Altro enjambement ancora più forte rispetto al primo. Il verso finisce metricamente con le foglie ma sintatticamente e
ritmicamente viene unito al verso successivo. Uno degli enjambement più forti nella metrica italiana è quello tra il sostantivo e il
suo complemento di specificazione o quello che unisce il sostantivo al suo aggettivo.
quest’esaltazione della sera e della luna che viene richiamata in quei versi che sono un vero e proprio refren (ritornello) tipico della
Lauda Francescana.
Alla fine di questo lunga strofa con un unico periodo “Laudata sii pel tuo viso di perla o sera”  chiaramente nel viso di perla c’è
l’evocazione di una sera con l'unica luce - che è quella velata della Luna.
 e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo!  Ovviamente sono gli occhi della sera in cui per un momento tace tutto,
anche l'acqua del cielo, anche la pioggia d'aprile che viene dal cielo. Qua abbiamo una vera orchestrazione simbolistica “il viso di perla”
che è quello della sera, “di perla” perché è illuminato dal biancore lunare richiama però un elemento che è tipico anche del simbolismo
pascoliano e cioè un fortissimo impressionismo coloristico: non si dice semplicemente il bianco della sera, il biancore della sera ma si
dà una qualità proprio impressionistica come nella pittura di fine 800 per cui si dice un viso di perla o una luce di perla. E’ un
impressionismo coloristico assolutamente comune al simbolismo pascoliano: il biancore lunare viene tradotto con una qualità
coloristica - impressionistica in questo viso di perla.
La sera viene qui assolutamente personificata: ha la S maiuscola e dei caratteri chiaramente umani  “viso di perla” chiaramente
umanizza questo paesaggio serale. Tutta la natura è antropomorfizzata.
 Un altro elemento importante a chiusura di questa strofa, di questo refran tipico della lauda francesca, è la presenza di due voci che
vengono dalla più alta tradizione poetica – sia nel “fresche le mie parole” nell'incipit della poesia sia in questo ringraziamento all'inizio
della prima strofa ritroviamo Petrarca sia per quanto riguarda il “fresche” che richiama il “chiare, fresche e dolci acque”  tutti i lettori
di d’Annunzio riconoscevano immediatamente il richiamo petrarchesco, mentre il richiamo alla sera come richiamo ad una sperata pace
ricorda Foscolo. D’Annunzio, fortemente simbolista, imbevuto di tutte le novità che vengono dal simbolismo e dall’estetismo europeo
alla moda non dimentica mai questa altissima e grandissima tradizione poetica.
In questo totale simbolismo e fonosimbolismo di questa prima stanza, abbiamo già invocato almeno due grandi voci del canone poetico
italiano: Petrarca nell’incipit e Foscolo nella chiusa della prima strofa (anche se la ricerca di questa pace sarà uno dei motivi dominanti di
tutta la poesia).

Domanda: dal punto di vista stilistico, Foscolo può essere considerato un antecedente di d’Annunzio, visto che “Alla Sera” è un continuum, fino
quasi al punto finale?
Risposta: l’uso dell’enjambement diventa una caratteristica positiva della poesia italiana già nel 500. Il grande innovatore nell’uso
dell’enjambement, che rende continuo il verso pur rimanendo all’interno della metrica, è stato Della Casa. Le Rime e il canzoniere di Della Casa
sono stati poi un modello per Foscolo, che lo cita esplicitamente nei suoi saggi letterari. Questo poi da vita ad una tradizione dal 500 in poi, che
include Foscolo e Leopardi, in questo uso di un discorso poetico che ritmicamente sembra proprio rompere i limiti del verso tradizionale. Della
Casa è grandissimo, come tutti i petrarchisti più moderni del 500, ed è stato il più grande nell’uso dell’enjambement. Perché? Perché siamo nel
500, nel classicismo 500, tutti questi poeti avevano il modello che doveva essere Petrarca (da Bembo in poi, il modello per la poesia era Petrarca)
però, riprendendo soprattutto il sonetto petrarchesco che facevano? Rendevano assolutamente moderno quel sonetto ritmicamente perché, lì
dove doveva finire l’endecasillabo nella metrica tradizionale, loro creavano un verso che andava oltre le undici sillabe metriche e Della Casa in
particolare. Quindi già Della Casa semina questo terreno, attraverso l’enjambement crea ritmi che sembrano modificare il verso tradizionale e da
Della casa in poi, dal Petrarchismo “disinibito” del secondo 500, deriva un uso liberatorio metricamente dell’enjambement, che vede in Foscolo e
Leopardi due dei grandi modelli dell’800 a cui chiaramente si rifà anche d’Annunzio.
L’uso dell’enjambement che rompe l’uso della metrica tradizionale, nella tradizione poetica italiana, inizia almeno nel 500: tutti riconoscono in
questa tradizione petrarchista del secondo 500 un modello importante di liberazione dall’endecasillabo canonico ed è normale che, andando
avanti, ogni poeta dia il suo tocco (Leopardi ad esempio, lo spinge ancora più in la nei suoi componimenti, fino ad arrivare a fine 800 con Pascoli
e d’Annunzio con i quali l’enjambement sembra rompere proprio tutti i canoni del verso canonico).
Quindi da una parte la domanda è giusta, perché non possiamo capire l’uso così sfrenato dell’enjambement e del ritmo che rompe la canonicità
metrica se non capiamo che dietro c’è almeno la sperimentazione ottocentesca di Foscolo e Leopardi per d’Annunzio. Ma in realtà, è presente
tutta una tradizione che è precedente – quella dei petrarchisti del 500, con Della Casa in particolare – che avevano mostrato a Foscolo e Leopardi
come si poteva dare un ritmo nuovo al solito endecasillabo puramente petrarchesco.
Inoltre Petrarca è stato il primo ad utilizzare l’enjambement in maniera forte: basti rivedere il sonetto proemiale del Canzoniere (Voi ch’ascoltate
in rime sparse il suono). Tra le cose migliori del petrarchismo, che sarà un po’ la malattia della poesia italiana dal 500 fino a tutto il romanticismo,
i più bravi, i più innovativi tra i petrarchisti sono quelli che sanno usare in maniera disinvolta l’enjambement.
In conclusione, dietro d’Annunzio c’è tutto questo, non si può parlare solo di Foscolo e Leopardi, soprattutto per quanto riguarda questa rottura
del ritmo tradizionale del verso attraverso l'enjambement.
C'è una tradizione ricchissima che è una delle parti più interessanti della metrica italiana dal petrarchismo del secondo 500 in poi. C’è tutta una
tradizione petrarchista: anche Tasso, ad esempio, rientra in questa tradizione innovativa del 500 petrarchesco, che crea le basi per quello che poi
verrà fatto da Foscolo, Leopardi fino a giungere a d’Annunzio.
I padri di tutto questo discorso, dietro Foscolo, dietro Leopardi, dietro Tasso, sono i primi petrarchisti che usano moltissimo l’enjambement in
senso ritmico e il più grande, lo sottolineo ancora una volta, è Della Casa (e su di lui proprio Foscolo scriverà delle pagine interessanti).

Altro elemento importante: d’Annunzio conosce a menadito quello che sta succedendo nella poesia europea e quindi sa che c’è una rivoluzione
in atto verso – liberista e vi aderisce.
Cos’è il verso liberismo? È un elemento fondamentale dell'Innovazione anche dell'Alcyone. Il verso libero dovendo rompere tutte le strutture
tradizionali del verso e della strofa, fa un uso sfrenato, libero per l’appunto dell’enjambement. C’è una tradizione poetica - che è quella che
abbiamo detto, che parte dai petrarchisti del secondo 500 e arriva fino a Leopardi e oltre, ma accanto a questo c'è una tradizione modernissima,
che andava di moda che era quella del verso libero, soprattutto francese, che D'Annunzio conosce benissimo e infatti aderisce al verso -
liberismo della poesia di tradizione simbolistica e post simbolistica francese.

Domanda: la rivoluzione verso liberista c'era in tutta Europa e in Francia è esposta dai simbolisti?
Risposta: si. Il modello più importante per l'Italia (ma non solo) per il verso libero sono stati i francesi, i figli e i nipoti da Baudelaire, per
intenderci. Simbolisti (Verlaine, Rambaud e Mallarme) e post simbolisti che continuano questa tradizione che sarà poi molto influente per i
crepuscolari e futuristi ecc. Il verso liberismo francese, di aria poetica simbolista francese è quello che influirà di più sul verso liberismo di
D'Annunzio e di quasi tutta Europa.

Per d’Annunzio in particolare, il verso liberismo francese è il modello più importante. C’è però un altro modello che riprenderà nelle ultime
Laudi, sia d’Annunzio che i poeti del 900, che è Walt Whitman, poeta americano che a metà 800 pubblica “Foglie d'erba” la sua unica opera
compiuta, opera che pubblicherà in edizioni sempre più ampie fino alla sua morte negli anni 90. Whitman lo citeremo soprattutto per i poeti del
primo 900 perché usa un verso libero che in realtà viene dal modello sulla prosa poetica della Bibbia. Per gli americani il libro più influente,
sempre e in letteratura (questa cosa è evidente soprattutto nella letteratura nord americana), è la Bibbia perché i bravi protestanti, quelli più
radicali, che vengono cacciati dall’Inghilterra e emigrano già nel 600 e dopo verso l'America, avevano come grande libro di riferimento e di
lettura costante la Bibbia. Quindi per tutta la letteratura nord americana la Bibbia è il modello imprescindibile sempre e comunque: anche i più
rivoluzionari come Whitman.
Per questo il verso libero di Whitman viene proprio dai Salmi della Bibbia. Questo elemento sarà ancora più influente per il primo 900.

Ricapitolando: le fonti più importanti per il verso liberismo italiano e per d’Annunzio, in questo caso, sono:
 i poeti francesi di fine 800.
 Whitman che già conosce, infatti farà dei tentativi whitmaniani negli ultimi libri dell’Alcyone con
le Laudi. Ma Whitman sarà ancora più importante per i grandi innovatori del primo 900.

Dolci le mie parole ne la sera


ti sien come la pioggia che bruiva voce aulica, dal francese bruì, rumore.
tepida e fuggitiva, antropomorfizzazione della natura attraverso un termine caro a Leopardi.
commiato lacrimoso de la primavera,

su i gelsi e su gli olmi e su le viti


e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,  petrarchismo
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.  serie di versi polisindetici: uniti dalla congiunzione “e”.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,


o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!

 Qui il verso inizia con “dolci le mie parole” e questo ci conferma il modello di Petrarca. D’Annunzio è sempre raffinatissimo: cita non solo
gli ultimi modelli letterari europei ma anche la tradizione nobile italiana. In “dolci” (e prima in “fresche”) la citazione petrarchesca diventa
esplicita.
Abbiamo sempre il dialogo con quest’ ombra con cui sta parlando l’io poetico di d’Annunzio, immanente e onnipresente. Queste parole
devono essere dolci come la pioggia che “bruisce”: “bruire è voce assolutamente aulica del linguaggio dannunziano, molto francesizzante
perché bruire deriva da bruì che in francese vuol dire rumore.
Potremmo quindi dire: “la pioggia che rumoreggiava, tiepida e fuggitiva  attraverso l’aggettivazione la natura viene antropomorfizzata:
“Fuggitiva” ad esempio, è un aggettivo che ci ricorda subito “A Silvia” di Leopardi, aggettivo carissimo a Leopardi proprio perché è la
quint’essenza di quella “gioventù fuggitiva” della vita fuggitiva di Silvia.
La lingua petrarchesca è ricchissima di riferimenti al canone classico della letteratura italiana.
 “commiato lacrimoso de la primavera”: ancora più astratta è l’immagine della sera con quel commiato lacrimoso della primavera. Quindi
questa pioggia della dolce sera ricorda l’addio lacrimoso: le lacrime della pioggia vengono antropomorfizzate – perché un commiato tra
lacrime non può che essere umano – e rendono astratta un’immagine concreta della natura.
Anche qui abbiamo un’astrazione di tipo simbolistico: la pioggia serale è un’astrazione simbolistica di un addio tra le lacrime.
Precisazione: simbolismo fortissimo in questo verso “commiato lacrimoso della primavera” perché è riferito alla pioggia, appena evocata.
L’immagine delle lacrime è legata alle gocce di pioggia ma questo elemento panico, naturale, diventa simbolistico perché le lacrime della
pioggia devono evocare simbolisticamente un addio doloroso tra due esseri umani. Ricordiamo infatti la presenza dell’io onnipresente di
d’Annunzio e questo “tu” che sappiamo essere una figura femminile (quasi sicuramente Eleonora Duse).
Il commiato lacrimoso della primavera è un’evocazione simbolistica, attraverso la pioggia della natura, di un addio fra le lacrime che è un
addio umano.
 su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l’aura che si perde, e su ’l grano che non è biondo ancóra e
non è verde, e su ’l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. 
Dopo ciò, si scatena una serie di elementi di questo paesaggio naturale (la natura è al centro di tutto il discorso dell’Alcyone) attraverso
una serie di versi polisindetici: versi che sono uniti da una congiunzione. Tutta la seconda parte di questa strofa è una lunga elencazione,
per polisindeto, di questi elementi del paesaggio naturale, che è onnipresente nella poesia dell’Alcyone.
Poesia ad elencazione: dobbiamo ricordarci di questo elemento perché sarà importante nella poesia di primo 900.
In tutti questi versi c’è un panismo fortissimo, tutta la natura è il tutto.
 che giocano con l’aura che si perde L’elemento petrarchesco che viene fuori in più punti, ritorna fortissimo in questi versi ad elencazione
quando si gioca con “l’aura”: anche d’Annunzio gioca con il senario petrarchesco e con il termine “l’aura”. Qui “l’aura” è inteso come
vento. Troveremo il petrarchismo dove non ce lo aspetteremmo proprio: nelle poesie più innovative di d’Annunzio.
 “Trascolorare”  altro verbo importante del simbolismo italiano e in comune con il simbolismo pascoliano. Trascolorare indica proprio il
trasformarsi, la metamorfosi dei colori della natura.
Questo panismo alcyonio, questa pervasività onnipresente della natura che è una vera e propria divinità in cui si perde lo stesso elemento
umano, ha alla base un discorso di metamorfosi continua della natura e anche di metamorfosi continua dell'umano in questa natura.
Ricordiamo che Metamorfosi = Ovidio. In questa continua metamorfosi della natura e dell’umano in questa natura, in cui tutto si fonde e
si trasforma il verbo “trascolorare” è un elemento chiarissimo dell’impressionismo coloristico pascoliano e dannunziano.
 Altra cosa importante, in questa strofa che abbiamo letto, sono due parole chiave: “fratelli” e “santità” che fanno parte di quel linguaggio
francescano, usato in maniera estetizzante, come fanno tanti poeti di fine 800, più che in Italia, in Francia.
Tutto deve evocare anche la forma della Lauda: non solo la forma, che è evidente in questo componimento ma anche nel linguaggio.
Questo linguaggio francescano si ripete nella strofa refren “Lauda sii..”  è la sera che ha le vesti profumate. “Aulenti” è una forma tratta
da un linguaggio aulico propria del classicismo moderno di d’Annunzio: qui, ancora una volta, all’elemento visivo di una sera illuminata
solo da una luna velata si sovrappone l’elemento fortissimo di altri sensi (prima sonori – nella prima strofa – qui entra in ballo un altro dei
sensi: quello dell’olfatto). Tipico del simbolismo europeo è questo richiamo ad un’orchestrazione di tutti i sensi – ricordiamo “Le
Corrispondenze” di Baudelaire – tutti i sensi, presenti nella natura – rievocano una unità che è mistica, metafisica per i poeti più religiosi
mentre da Baudelaire (e poi anche con d’Annunzio) è l’evocazione di una unità priva di riferimenti religiosi e spirituali.
Abbiamo quindi le vesti aulenti, profumate, con riferimento alla natura: questo richiamo è ribadito dal fieno che odora.

Io ti dirò verso quali reami


d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto  parole chiave
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire

 Io ti dirò verso quali reami Abbiamo “l’io” onnipresente di d’Annunzio fino all’ossessione.
 Gli enjambement sono fortissimi. Viene evocato un paesaggio illuminato dalla presenza di un fiume, assolutamente astratto,
simbolistico che richiama il mistero della Natura e il segreto della natura.
Le due parole chiave in questo caso sono: “mistero” e “segreto”. Ancora una volta questa natura è fortemente simbolistica, evoca un
mistero e un segreto: questo è puro simbolismo.
Raramente Pascoli usa esplicitamente la parola “mistero” perché è tutto più filtrato, più evocativo e l’io del poeta non è così
incombente come nel simbolismo dannunziano però anche tutta la natura pascoliana evoca un mistero e un segreto: questo è l’
elemento più evocativo e più simbolistico della natura sia di pascoli che di d’Annunzio.
 le colline su i limpidi orizzonti s’incùrvino come labbra che un divieto chiuda Cosa rende ancora più astratto e evocativo questo
paesaggio misterioso? Il fatto che il profilo delle colline ricordino quello delle labbra chiuse  siamo oltre il simbolismo, siamo già nel
terreno dell’analogia. Le labbra, essendo chiuse, evocano un silenzio misterioso, per questo parliamo di analogia.
il profilo dolce delle colline, richiama il profilo delle labbra chiuse che a loro volta (simbolo nel simbolo, siamo nell’analogia) richiamano
il silenzio misterioso di questa natura.

e nel silenzio lor sempre novelle


consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare evocativo dell’umano
d’amor più forte  figura etimologica

 Chiusura meno analogica. Il silenzio rende tutto questo paesaggio consolatorio. Questo paesaggio collinare, bagnato da un fiume rende
particolarmente amorevole per l’anima (evocazione dell’umano) queste colline, che ogni sera vengono amate sempre di più.
La presenza dell’anima è un elemento vocativo della presenza umana, rendendola più esplicita.
 Amare d’amor: figura etimologica. Ripeto la stessa radice etimologica all’interno di due parole vicine tra di loro.

Laudata sii per la tua pura morte,


o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare  verbo simbolistico.
le prime stelle!

 Ecco il trionfo della lauda francescana: proprio come nella lauda di San Francesco, anche qui troviamo la lode alla morte. Non solo la
lode a tutti gli elementi della natura, elemento tematico ripreso qui in maniera poco religiosa da d’Annunzio ma il trionfo finale, l’amore
anche per la morte. L’elemento francescano è fortissimo in chiusura.
 o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle!  Simbolismo e paesaggio vicino al simbolismo pascoliano: leggiamo il
paesaggio notturno dell’Assiulo. L’attesa delle stelle: sta arrivando la sera e per questo iniziano ad apparire le stelle che palpitano.
Palpitare questo è un verbo fortemente simbolistico che richiama paesaggi e verbi simili che umanizzano, rendono vivo ciò che è
astratto o non umano (gli elementi della natura).
Sera e morte in chiusura richiamano le fonti italiane: non solo la lode alla morte di San Francesco ma anche quell sera – morte, con la morte che
porta serenità e non paura, che è propria del sonetto “Alla Sera” di Foscolo.
Notiamo, per concludere, l’uso libero delle rime. Il verso libero vuol dire poter inserire a piacere anche delle rime in totale libertà.

Da Alcyone – La pioggia nel pineto.


A questo punto richiamiamo la poesia – forse più conosciuta di d’Annunzio – “La pioggia del pineto” che è la quint’essenza del panismo alcyonio
ma anche di questo umano che si fa natura e di questa natura che ha tratti umani. Ancora una volta è l’io onnipresente del poeta, che parla ad
un tu – qui esplicitamente femminile – e nascosto sotto il nome di Ermione, figura femminile che proviene dalla più alta classicità: Ermione è
infatti la figlia, bellissima, di Elena di Troia (il classicismo moderno di d’Annunzio è presente) ma non solo, Ermione è anche una delle eroine
femminili delle Heroides di Ovidio (Ovidio è onnipresente in d’Annunzio. L’Ovidio delle Metamorfosi e dell’Heroides è una delle fonti classiche
rilette in chiave moderna, in tutto l’Alcyone, da d’Annunzio).

All’interno del componimento è più evidente l’uso del verso libero alla d’annunzio (con rime libere) e la presenza della strofe lunga – che inventa
d’Annunzio  è il canto continuo, la musicalità continua coincide con una strofe particolarmente lunga che sottolinea ancora di più
metricamente e visivamente la lunghezza del ritmo musicale dell’Alcyone. Tutto questo è ancora più evidente nella poesia dell’Alcyone che si
chiama “l’onda” dove viene utilizzata la strofe lunga di d’Annunzio, che viene chiamata così nella chiusa classicistica dello stesso componimento
e in cui l’elemento ritmico di una musicalità continua segnato dalla strofe lunga diventa chiaramente visivo perché simbolisticamente deve
richiamare il profilo di un’onda marina.

Nella Pioggia del pineto: strofe lunghissime, composte da vari versi, di varia lunghezza. Siamo nello sperimentalismo verso – liberista di
d’Annunzio.
La pioggia nel pineto.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

 Strofe lunghissima in cui solo alla fine viene evocata la figura femminile con cui sta dialogando il poeta. Questa sarà una delle poesie più
imitate, non soltanto nel primissimo 900 ma sarà anche parodiata: ci saranno tantissime parodie di questa poesia, anche perché diventa
subito famosa. Parodie note della Pioggia nel Pineto le troviamo in Palazzeschi e nel secondo Montale, il Montale parodico  giocano
soprattutto su questo dialogo a distanza con questa figura femminile a cui dice “taci – ascolta”. E’ interessante perché con questo “Taci”
ci giocherà Sbarbaro, che capovolgerà questo imperativo esortativo di d’annunzio.
 Quindi: il silenzio umano deve porsi all’ascolto della Natura che anche qui è imperante, siamo in pieno panismo alcyonio. In questo
bosco abbiamo le parole della natura: sono assenti le parole umane mentre c’è il linguaggio e la musica della natura.
“Taci” – “Ascolta”  danno il ritmo anche sintattico a tutta questa prima strofe lunga.
Le “tamerici”  richiamano le Miricae pascoliane. C’è un dialogo continuo tra Pascoli e d’Annunzio che si conoscono, si leggono e si spiano. Ma
mentre d’Annunzio riconoscerà sempre la grandezza poetica di Pascoli, Pascoli no.
le tamerici sono evocate nel componimento patria di Pascoli
“salmastre e arse”  allitterazioni fonosimbolistiche del fonosimbolismo pascoliano.
Nella seconda parte della strofe lunga abbiamo ancora una forte ripetitività sintattica, in questa lunga elencazione per asindeto (senza
congiunzione, presente invece nella Sera Fiesolana) con questa giustapposizione, ancora una volta ad elencazione, “sulle ginestre, sui ginepri, sui
nostri volti, sui nostri vestimenti”  questa ripetitività sintattica è un elemento che da un ritmo a tutta la strofe lunga.
Anche qui tutti gli elementi naturali si fanno umani e viceversa.  i “volti silvani” questa pioggia cade sui volti che ormai non sono più umani
ma parte della natura, del bosco evocato sin dall’inizio.
“Che l’anima schiude”  Ancora una volta abbiamo l’evocazione dell’anima, che non c’è MAI in pascoli e invece è ricorrente nel simbolismo
dannunziano  l’anima è umana, l’umano stesso viene evocato attraverso l’anima.
“Favola bella”  è la favola della vita, ripresa dal Petrarca del primo sonetto del canzoniere ma è un’ immagine che più volte verrà usata da
d’Annunzio, la vita come favola bella.

Odi? La pioggia cade


su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde  allitterazione pascoliana
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto  torniamo al polisindeto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto  elemento umano
silvestre,
d’arborea vita viventi;  immagine etimologica
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre  rima perfetta
che hai nome
Ermione.

 “Odi?”  In apertura di questa seconda strofe lunghissima troviamo un’interrogativa.


 “Crepitio e fronde”  allitterazione del fonosimbolismo pascoliano. Evocano, attraverso il suono, delle immagini, in questo caso del
bosco. Le “fronde” richiamano tantissimo anche le fronde petrarchesche.
 Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino Abbiamo l’elemento del pianto della
pioggia che ritroviamo in tutta la poesia. Ancora una volta la natura viene rappresentata con elementi umani. Abbiamo, ancora una
volta, il richiamo all’ascolto, all’elemento uditivo, attraverso il canto delle cicale, a un suono ma anche al vento australe (di Libeccio) e
quindi al suo rumore.
Elemento invece del simbolismo visivo è il cielo cinerino: nel colore, in questo azzurro grigiognolo, troviamo, dopo una serie di
riferimenti uditivi (il pianto delle cicale, il pianto del vento) un’immagine tutta visiva.
 E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra: Torniamo al polisindeto.
 Stromenti diversi sotto innumerevoli dita  Tutti questi suoni della natura fanno parte di un’orchestrazione (strumenti diversi). Ancora
una volta la natura viene antropomorfizzata attraverso l’immagine delle innumerevoli dita che vanno a suonare la natura  sono le dita
della natura, in particolare del vento e della pioggia, che fanno risuonare questi suoni.
 E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi  ancora una volta d’Annunzio non ce la fa a cancellare l’elemento
umano: l’io e il “tu” femminile sono ancora al centro  il “noi” fa parte di questa natura. Nel panismo alcyonio l’umano si fa natura. È
come se fossero gli alberi del bosco.
“vita viventi”  immagine etimologica.
 Dopo la lunga pausa (il punto), nella seconda parte il noi umano è presente ma si fa parte della natura.
“Noi siamo nello spirito silvestre”  noi siamo parte di questo spirito della Natura, questo è il panismo.
“e viviamo una vita arborea”  siamo parte di questa vita degli alberi di questo bosco.
la vita umana è un tutt’uno con la vita della natura: è il sunto del panismo del libro di Alcyone.
Troviamo una lunga elencazione di come il volto e la capigliatura femminile, si trasformano in una parte della natura: “il volto è molle di
pioggia come una foglia” l’analogia è esplicitata con il come e così le chiome “che profumano come chiare ginestre”. La figura femminile
si fa un tutt’uno con la natura: tutto questo simbolisticamente è indebolito dall’uso del “come” che rende esplicita la similitudine. Le
chiome sono un elemento fortissimo della bellezza estetizzante della donna: ci sono una serie di riferimenti alla capigliatura già presenti
nel romanzo “Il Piacere” – che è un manuale dell’estetismo non solo dannunziano ma europeo  qui la capigliatura è uno degli
elementi della bellezza femminile onnipresente da Baudelaire in poi. Non è strano quindi che richiami più di altri elementi – come i
classici occhi – la bellezza femminile.
Qui vale quello che abbiamo detto ieri per Pascoli: c’è un “come” finale che rende esplicita la similitudine e quindi l’analogia.
Notiamo ancora una volta il linguaggio preziosissimo “aulire” per dire profumare  richiama un linguaggio aulico.
 La similitudine, quindi in realtà il simbolismo e l’analogia tra umano e naturale, in particolare la natura di Ermione, viene sottolineato
con un elemento retorico molto interessante: la fine di questa strofe vede una rima perfetta “ginestre – terrestre” che richiama le
ginestre (elemento della natura del bosco) che richiama però la creatura terrestre che ha nome Ermione  una creature terrestre che,
anche nella rima, viene associata al mondo naturale.
Quando ci sono delle rime, in un paesaggio metrico versoliberista, il poeta vuol sottolineare qualcosa di particolare, si vuole enfatizzare,
attirare l’attenzione.

Ascolta, ascolta. L’accordo


delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,  rima fortissima
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

 “Ascolta, ascolta”  richiama ancora uno dei verbi chiave di tutto il componimento.
 L’accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce;  Il canto delle cicale svanisce con la pioggia che
cresce. C’è un richiamo fortissimo all’udito.
 ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall’umida ombra remota.  ma c’è un altro suono, un altro canto che viene
dall’ombra lontana. “Umida ombra remota”  è fortissimamente simbolistico. Già “ombra” è una parola evocativa molto simbolistica,
presente anche nelle ombre dei morti di Pascoli. In questo caso, l’ombra è “remota”: tutto ciò che è poco nitido, sfocato, lontano nello
spazio è evocativo e quindi simbolistico. L’aggettivo “umida” associata a ombra crea una sinestesia simbolistica: le ombre non possono
essere umide, essendo evanescenti. Questo verso è fortemente misterioso perché evoca un’ombra che non conosciamo, lontana e
umida: è una fusione di più sensi.
 Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne  c’è questo canto lontano che torna e ritorna e viene modulato, come
se noi sentissimo l’onda della musica di un canto lontanissimo. Qui sembra ricordarci il canto degli uccelli notturni, in particolare
dell’usignolo, un topo di tutta la tradizione poetica occidentale, ben prima di Petrarca.
 Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda,  notiamo l’allitterazione, il fonosimbolismo (molto simile a
pascoli). È una pioggia che pulisce, che rende puro – “monda” – ha un significato spirituale.
 il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta  torna in tutta questa parte l’allitterazione “cr” “fr”  fonosimbolismo
anche pascoliano. Quindi abbiamo il croscio delle foglie unito al rumore della pioggia tra le fronde
 Ascolta. La figlia dell’aria è muta;  il richiamo al “tu” femminile è martellante. “la figlia dell’aria”  riferimento classicistico. È la
cicala. Si sono zittite le cicale.
 ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove!  “limo” sta per fango. È presente una rima
fortissima: lontana – rana. Volutamente, all’inizio, sembra richiamare una nota tipica che è il canto degli usignoli, canto notturno più
amato nella poesia italiana e occidentale (c’è una famosa evocazione del canto che “trema, risorge, trema e si spegne” che era già
presente nel romanzo l’Innocente di d’Annunzio del 42 quindi precedente rispetto a questa poesia). Tutto fa pensare che quel canto che
si sente lontano nella notte sia quello dell’usignolo e invece no: il canto è stato sostituito da quello della rana che gracida. Il canto della
rana è già stato utilizzato nelle Myricae di Pascoli in maniera fonosimbolica.
“Chissà dove, chissà dove”  richiama il canto della rana, meno armonico rispetto a quello delle cicale o del vento tra le fronde.
E’ un fonosimbolismo fortissimo, che fa l’occhiolino a tutta una tradizione poetica italiana e occidentale, il canto dell’usignolo. Ma alla
fine della lunga strofe scopriamo che questo suono, che ha silenziato quello delle cicale e anche quello della pioggia, è il canto della
rana.
 E piove su le tue ciglia, Ermione  solita chiusa

Piove su le tue ciglia nere


sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,  ripresa polisindeto forte allitterazione
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

 Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; Parte con un riferimento alle ciglia nere di Ermione: sono elementi della
bellezza femminile assolutamente estetizzanti, vengono da un cotè estetizzante che parte da Baudelaire. La capigliatura e gli occhi, le
ciglia, sono elementi sofisticati: d’Annunzio saccheggia una tradizione simbolista francese di fine secolo.
le ciglia sono parte di questa pioggia e di questa natura: riprende l’anadiplosi cioè la ripresa della stessa immagine presente nella strofe
successiva.
Abbiamo il dialogo con questo “tu” che è quello di Ermione. Piove sulle ciglia di Ermione e sembra che lei pianga non di dolore ma di
piacere  questo è un topos del panismo alcyonio. Dolore e piacere sono sempre uniti in d’Annunzio e l’elemento del piacere come
elemento sensuale del panismo alcyonio rende questo contesto dannunziano e per niente pascoliano  quello che sembra un pianto e
che dovrebbe quindi esprimere dolore è in verità un pianto di piacere perché anche il personaggio femminile si sente parte di questa del
tutto che è la vita della natura.
La parola “piacere” tanto cara a d’Annunzio, si allontana dal simbolismo pascoliano.
 non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca  il volto non è più bianco ma verde, come se uscisse dalla scorza degli alberi.
La bellezza femminile è associata, è fluita nella bellezza della natura.
inoltre quest’immagine è importante perché tipica di un metamorfismo ovidiano: la bellezza del personaggio femminile, che si
trasforma in un elemento naturale è uno dei nuclei dei tanti miti femminili delle Metamorfosi di Ovidio.
 E tutta la vita è in noi fresca aulente  vediamo l’aggettivo “aulente” che torna. È preziosissimo e richiama il profumo
 il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe  le “polle” richiamano una pozza d’acqua 
tutte le parti del corpo umano sono ormai trasformate in parti della natura.
 i denti negli alvèoli son come mandorle acerbe.  anche i denti sono ormai parte di questa trasformazione panica e sensuale nella
natura.
 E andiam di fratta in fratta  qui torna il polisindeto fino alla fine. È presente anche una forte allitterazione tipica del simbolismo di fine
800 e in particolare del Pascoli di Myricae. Le fratte sono i cespugli selvatici, le tamerici.
 or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi)  nel loro passeggiare, intrecciandosi, si intrecciano
anche i loro ginocchi
 “chissà dove, chissà dove”  richiama il canto delle rane che abbiamo trovato prima. Torna questa musica – il canto delle rane – che è
ormai parte della natura.
 E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, riprende il leitmotiv di tutta la poesia: siamo in chisura e deve chiudersi
il cerchio.
su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione  a
chiusura della prima strofe lunga avevamo dei versi quasi identici.
Questa chiusura circolare perché è interessante? Perché questo è tipico della costruzione, della circolarità – strutturale e sonora – del
d’Annunzio di Alcyone e richiama quel cerchio, quel circolo, sempre uguale, l’eterno ritorno, che era stato uno degli elementi forti della filosofia
di Nietzsche che viene più o meno ripreso anche da d’Annunzio che non legge veramente dalla fonte tedesca la filosofia di Nietzsche ma la
mastica un po’ tramite le fonti francesi. L’idea di questo eterno ritorno, del tutto che ritorna nell’eterno ciclo cosmico, viene rievocato spesso
nell’Alcyone, anche nella struttura circolare delle sue poesie che richiamano spesso – in questo caso in maniera esplicita – la parte incipitaria
(nella parte finale, richiamo della parte iniziale della stessa poesia).

Lezione 12 – 13 aprile
GIOVANNI PASCOLI e GABRIELE D'ANNUNZIO: segnano il fine secolo simbolistica, e non tanto decadentista, sul versante poetico.
Con il primo 900 siamo in quella stagione che viene chiamata delle AVANGUARDIE STORICHE.

Perché si chiamano avanguardie storiche? È una definizione data a posteriori, nel secondo Novecento, per distinguerle dalle cosiddette
neoavanguardie, cioè quelle che si sviluppano a partire dagli anni 50 del 900 e che guardavano proprio alle avanguardie storiche del primo
Novecento come un modello di ispirazione importante per uscire da quella linea ermetica e post-ermetica che ancora negli anni 50
continuava a dominare la scena poetica. Quindi chi volle drasticamente ‘’tagliare’’ con quella tradizione fondò le neoavanguardie.
AVANGUARDIE STORICHE: primo Novecento, definizione successiva
NEOAVANGUADIE: secondo Novecento
Cosa intendiamo per avanguardie storiche?
Molti studiosi contemporanei di questi anni (nota che si trova nel Mengaldo) non accettano un’analisi delle poesie e della poetica del primo
900 in base a queste ‘correnti’ avanguardistiche (non sono scuole perché non esiste, l'idea stessa di scuola è opposta a quella di avanguardia)
e in realtà i poeti non si sono mai ritrovati in un cenacolo comune a cui hanno dato il nome per esempio dei crepuscolari o dei vociani ed
espressionisti (a parte i futuristi). Quindi molti critici, tra cui primo fra tutti Mengaldo, hanno analizzato la poesia del primo 900 non in base
alle poetiche avanguardistiche, ma in base al profilo dei singoli poeti.
Mengaldo in ‘’poeti italiani del 900’’, se leggiamo (non obbligatorio, ma per curiosità intellettuale) la larghissima introduzione, dice: ‘’sono
contrario ad uno studio per poetiche, anche perché questi autori hanno avuto un percorso molto vario’’  per esempio Govoni o Palazzeschi
sono stati sia un po' crepuscolari e sia un po' i futuristi, ma poi sono anche andati subito oltre sia ai crepuscolari che ai futuristi. Quindi adotta
un'antologia e una panoramica della poesia italiana del 900, a prescindere da poetiche ben etichettate. La profess. Chiummo in parte è
d'accordo, perché è evidente che questi poeti, non solo del primo 900, si fanno influenzare volutamente da diverse poetiche; quindi è vero
che non si può associare il nome per un esempio di Gozzano semplicemente ai crepuscolari o di Palazzeschi come un crepuscolare e un
futurista, però è anche vero che utilizzare con cautela un’analisi anche in base a delle poetiche aiuta a capire meglio tutto il contesto culturale,
altrimenti diventa incomprensibile e diventa solo un elenco di nomi. Quindi è giusto utilizzare un criterio di poetiche, di influenze, di correnti
che possano aiutare a capire il profilo preciso e individuale dei singoli poeti.

Le tre Avanguardie Storiche, di cui si parla per il primo Novecento, sono:


1. CREPUSCOLARISMO
2. FUTURISMO
3. per la terza si sono usate (e ancora si usano) tante definizioni diverse come FRAMMENTISMO, oppure VOCIANESIMO, ma la prof
preferisce la definizione di ESPRESSIONISMO.

CREPUSCOLARISMO
(Emerge anche nell'antologia di Mengaldo) I poeti che si possono definire poeti crepuscolari, già tra il 1903 e il 1904, quindi all'inizio del 900,
sono coloro che producono le loro prime poesie o raccolte già crepuscolari, a cominciare da tre nomi fondamentali: PALAZZESCHI dal 1903-1905,
GOVONI e CORAZZINI.

Però tra il 1903 e il 1905, all’ apertura del 900, Pascoli e D'Annunzio erano ancora vivi, erano poeti che continuano a scrivere tanto, infatti nel
primo 900 escono i ‘’Canti di Castelvecchio’’ e la prima edizione dei ‘’poemi conviviali’’ di Pascoli e soprattutto le prime ‘’Laudi’’ di D'Annunzio,
a cominciare da Maia e Alcyone. Quindi il Crepuscolarismo nasce e si afferma contemporaneamente alla poesia di Pascoli e D'Annunzio 
primo elemento fondamentale, il panorama è sempre più vasto e più vario di certe definizioni standard. [la prof concorda con Mengardo].

Perché parlare di crepuscolarismo è più semplice? Nel crepuscolarismo ci sono elementi di poetica e di linguaggio poetico comuni, che
accomunano questi poeti. Infatti vengono definiti crepuscolari, non da loro stessi perché non esiste una scuola o una corrente comune, ma da
un critico importante nel primo 900, Borgese, che in un articolo pubblicato sulla Stampa nel 1911, parla per primo in assoluto di poeti
crepuscolari dicendo che ‘’sono il crepuscolo della poesia, dopo la grandezza della triade Carducci, Pascoli e D'Annunzio e chissà se da questo
crepuscolo verrà veramente fuori una nuova poesia’’, Borgese lasciava aperta la fine del discorso. [oggi noi a posteriori possiamo rispondere
di sì, ma è semplice giudicare dopo tanti decenni, è difficilissimo invece fare i critici militanti di ciò che è contemporaneo]  Quindi il
crepuscolo è l'idea di un tramonto della grande poesia, a cui i poeti si rifanno, che è quella di Carducci, Pascoli ed'Annunzio.

In comune i poeti crepuscolari avevano le TEMATICHE.


La tematica è la fine del poeta, in latino del poeta ‘’ore rotundo’’, cioè del poeta che può proclamare la sua parola poetica con un valore
assoluto, poetica in cui crede fermamente e che comunica un messaggio forte, che sia quello del fanciullino o che sia il superuomo. Infatti
Pascoli e D'Annunzio credono ancora fortemente nel valore, nella sacralità (in senso laico) della parola poetica. I crepuscolari non ci credono
più, si chiedono incessantemente a chi interessa la loro parola poetica, in un’epoca in cui anche l'Italia è diventata un paese moderno,
industrializzato, borghese, che sembra poter fare a meno della poesia e del poeta. Quindi tutti i poeti, da Corazzini a Palazzeschi a Govoni, si
chiedono che senso può avere nell'Italia moderna essere un poeta.
Quindi immagine crepuscolare del poeta e della poesia, associata a tante immagini che sottolineano questo aspetto quasi malato e quasi
mortuario della poesia e del poeta.

Si trova dunque nei poeti crepuscolari:


 il poeta solo come fanciullino che piange e il poeta del silenzio: Corazzini
 la poesia che il poeta svende a chi la vuole a prezzi di fine stagione: Corazzini e Palazzeschi
 immagini poetiche, che vengono dalla poesia francese di fine Ottocento, associate alla malattia e alla morte: gli ospedali, i cimiteri, i
giardini abbandonati (che è uno dei topoi letterari utilizzati già in D'Annunzio), i conventi, le monache e i frati perché la clausura, il
silenzio, la spiritualità vera o finta, che già si trovano in D'Annunzio, ancora più forte si troveranno in questi poeti crepuscolari, i quali
evocano tante volte anche gli ambienti tristi, malinconici e silenziosi dei chiostri, dei conventi e della chiesa.
Queste sono tra le immagini più presenti e che più avvicinano tutti questi poeti a livello di tematiche e di pensiero poetico. La poesia è ormai
inutile per il buon borghese, per la cultura che si sta modernizzando nell’Italia nel primo 900. Il poeta non ha più nessuna aureola sacra, è un
banditore che mette in svendita la sua poesia, o un fanciullino che sa solo piangere, o un poeta, un clown, un buffone, il ‘’buffo’’ è la figura
tipica che inventa Palazzeschi associata al poeta. Quindi qualsiasi sacralità della poesia e del poeta va completamente in frantumi con i primi
poeti crepuscolari.

A livello formale invece c’è la grande rivoluzione del VERSO LIBERO: questo è fondamentale.
Pascoli sappiamo che non lo accetta per niente, D'Annunzio in parte si. Questi crepuscolari spalancano le porte al verso libero. Anche se
alcuni di loro, come per esempio Govoni, all'inizio, nelle primissime poesie-raccolte utilizzano più una metrica liberata,che non una metrica
libera: per esempio sonetti mai regolari, in cui lo schema rimico o la lunghezza del dell'endecasillabo sono irregolari.
Però la stragrande maggioranza dei poeti delle avanguardie del primo 900 abbraccia una metrica libera, il verso libero, sciolto da tutte le
regole della metrica. Questa è una rivoluzione epocale, una la rivoluzione enorme che insegnerà tanto ai poeti di tutto il 900.

• Corazzini e Govoni [noi non li abbiamo nell’elenco per l’esame, non chiederà di analizzarli]
Autori importanti per capire il perché poi Gozzano e Palazzeschi solo in parte possono essere associati ad una poetica crepuscolare.

Corazzini
Muore giovanissimo, ha poco più di vent’anni. Molti di questi poeti di inizio 900 muoiono di tubercolosi, di tisi, che era la malattia più diffusa nel
primo 900.
L’antologia di Mengaldo elenca le opere di Corazzini: le prime raccolte ‘’Dolcezze’’ del 1904, segue ‘’l’amaro Calice’’ del 1905, ‘’leaureole’’ nel
1905. Corazzini scrive tanto in pochissimi anni, viene fuori dai circoli romani.
Roma e il Piemonte sono due centri importanti per il crepuscolarismo.

Nella poesia di Corazzini ‘’la finestra aperta sul mare’’ c’è una metrica libera, strofe di diversa lunghezza, non c'è uno schema ritmico che
viene rispettato esattamente. C’è immaginario assolutamente già decadente. In questa poesia parla un oggetto, una torre affacciata sul
mare che si inginocchia, crolla, davanti alla potenza del mare.

 assolutamente avanguardistico, è tutto un immaginario nuovissimo e novecentesco, con al centro un elemento, che accomunerà
tutte le tre avanguardie, molto presente, cioè la ANTROPOMORFIZZAZIONE: rendere umano ciò che umanonon è, in particolare
gli oggetti, tutto ciò che inanimato.
In questa poesia gli oggetti sono assolutamente animati e antropomorfizzati. La finestra sul mare viene vista guardare il mare con occhio, già
dai primissimi versi, come se fosse antropomorfizzata.
- Nell’ultima frase poetica: ‘’allora qualche cosa tremò, si spezzò, nella torre e quasi in un inginocchiarsi lento di rassegnazionedavanti
al grigio altare dell'aurora, la torre si donò al mare’’  immagine bellissima in cui, come se fosse personificata, questa torre, che si
affaccia sul mare, si inchina al mare. In realtà semplicemente crolla e nella stessa immagine del crollo e della desolazione di questa
torre, della morte della torre c’è un immaginario assolutamente crepuscolare.

Altro aspetto importante di Corazzini sono i poemetti in prosa.


Altro elemento interessante per avanguardie storiche, che lascia un segno indelebile per tutta la poesia del 900. Non c'è più solo il verso libero
nella poesia, ma c'è la glorificazione del poemetto in prosa, cioè quei poemetti in prosa che hannocaratterizzato le novità letterarie da
Baudelaire in poi, passando attraverso tutti i simbolisti. Sono quella forma di scrittura che sembra prosa, sono piccoli paragrafi in prosa, ma in
realtà hanno un ritmo o un immaginario o entrambe le cose molto più vicino alla poesia, che non alla prosa narrativa. (era già nelle grandi novità
del simbolismo francese)
Corazzini scrive anche lui Poemetti in prosa, elemento avanguardistico, in cui fa parlare le cose, cioè gli oggetti inanimati.

Un titolo fondamentale di questi poemetti in prosa è ‘’soliloquio delle cose’’ (presente sul Mengaldo, pag 33): sono le cose che parlano tra sé e
sé. C’è la massima antropomorfizzazione, rendere animato ciò che è inanimato: la cosa per definizione è quantodi più inanimato ci possa essere.
Soprattutto qui c’è l’adozione del poemetto in prosa: altra grande rivoluzione della poesia primonovecentesca.

La poesia più famosa di Corazzini è ‘’desolazione del povero poeta sentimentale’’ (Mengaldo, pag 36), quella che fa capire ancor di più cosa
si intende per crepuscolarismo di Corazzini. Esce nella raccolta del 1906, ‘’piccolo libro inutile’’, già nel titolo c'è l’idea del valore nullo della
poesia, perché la poesia e la raccolta è un libro inutile. Il poeta con Corazzini diventa un povero poeta sentimentale che, come emerge nella
prima strofa, sa solo piangere e pagare il suo tributo al silenzio.

Nella avanguardia crepuscolare il silenzio diventa paradossalmente una delle voci e della poesia più frequenti, è un silenzio che crea
poesia: elemento avanguardistico

-nella prima strofetta c’è la famosa interrogazione del poeta su se stesso.

Perché tu mi dici: poeta?


Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
 perché tu mi dici: poeta?’’  il tu è il tu del lettore
 io non sono un poeta.  fine dell'idea sacra della figura del poeta, che sia il fanciullino di Pascoli o il
 Io non sono che un piccolo fanciullo che piange’’  superuomo di D'Annunzio. C’è la ripresa evidentemente del fanciullino pascoliano ma
in una chiave negativa e distruttiva. Il piccolo fanciullo non è l’Adamo che mette la parola a tutte le cose, come se fosse il creato tutte le
cose, come è nel ‘fanciullino’, ma è solo un piccolo fanciullo che piange.
 Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio  Silenzio (con lettera maiuscola) è una personificazione del silenzio,
 perché tu mi dici: poeta?  chiusura circolare della strofetta.

In questi cinque versi c’è l’idea del crepuscolarismo di Corazzini: il poeta non crede più nel valore sacro della sua stessa figura di poeta. Da
fanciullino pascoliano, che crede ancora nel valore sacro della poesia, qui si ha il piccolo fanciullo che sa solo piangere e offrire il suo pianto al
silenzio. La voce del silenzio diventa più importante per il poeta della stella voce piena del poeta (che sia Pascoli o D'Annunzio o qualsiasi
poeta tradizionale).

Altra poesia (Mengaldo, pag 43) è ‘’Bando’’: è il bando commerciale, quello del banditore che svende la poesia. In questa poesiain maniera
assolutamente dissacratoria, la fine della grandezza della sacra triade 800 Carducci-Pascoli-D'Annunzio, il poeta svendere la poesia.

Avanti! Si accendano i lumi


nelle sale della mia reggia!
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delle mie idee. Avanti! Chi le vuole?
Idee originali a prezzi normali.
lo vendo perché voglio
raggomitolarmi al sole
come un gatto a dormire fino alla consumazione
de' secoli! Avanti! L'occasione
è favorevole. Signori, non ve ne andate, non ve ne andate;
vendo a così I poco prezzo!

Govoni
Mengaldo usa un criterio puramente cronologico nella sua antologia. Quindi prima di Corazzini, c’è Govoni.

Govoni è stato un poeta molto influente del primo Novecento, per esempio molto amato dal primo Montale. La sua prima raccolta esce già
nel 1903, ‘’Le Fiale’’. Con Govoni da una metrica liberata, quella anche delle prime poesie, si arriva già nello stesso 1903- 1904 ad una
metrica totalmente libera. È interessante come poeta perché è uno di quelli, come Palazzeschi, che in pochissimi anni sposerà prima una
poetica vicina a quella crepuscolare, ma pochi anni dopo, cioè già dopo il primo Manifesto futurista nel 1909 e ancora di più nel 1911,
sposerà una poetica invece futurista. Quindi nei primissimi anni del Novecento alcunipoeti mescoleranno poetiche diverse, anche
apparentemente inconciliabili, come quella crepuscolare e quella futurista.

Aldo Palazzeschi
Palazzeschi è stato uno di quelli che, come Govoni, avrà vita molto lunga che va ben oltre il primo ventennio del 900. Palazzeschimuore
vecchissimo, a 90 anni nel 74.
Già nei primi anni del 900 da una poetica strettamente crepuscolare passa una poetica incendiaria, propriamente futurista: incendiare
musei e biblioteche era quello che voleva fare Marinetti e che dichiarava nel primo Manifesto Futurista. Lo stesso Palazzeschi scriverà un
libro, una raccolta, che si chiama ‘’L’INCENDIARIO’’, in cui sposa l'avanguardia più dissacratoria del primoNovecento, che era l’avanguardia
futurista.

Nella antologia di Mengaldo (pag 52) c’è la prima raccolta, ‘’POESIE’’, in cui c'è la famosa poesia ‘’chi sono?’’, in cui ripercorre leimmagini più
ovvie del simbolismo di fine secolo.

C'è l’immagine del poeta come poeta folle o quella dei poeti maledetti oppure del
poeta pittore o del poeta musico: sono tutte idee di poesie e di poeta del simbolismo di fine secolo. Palazzeschi le supera, leattraversa, le fa
sue. Siamo già in epoca post simbolista, si fa la domanda chiave (la stessa di Corazzini) ‘’chi sono?’’ e alla fine di questa poesia si risponde ‘’il
saltimbanco dell'anima mia’’ : la chiave avanguardistica, post-simbolista, che distrugge l'immagine sacra del poeta, è quella in Palazzeschi
del ‘saltimbanco’.
Ci saranno poi una serie di definizioni che girano intorno a quest'aria semantica del poeta clown, del poeta buffo. Il buffo sarà ilpersonaggio
creato da Palazzeschi che attraversa gran parte della sua poetica, anche oltre la prima età delle avanguardie del primo Novecento.
Il poeta che si fa saltimbanco della sua stessa interiorità: smembramento assoluto del potere sacro del poeta e della poesia.

Punto d'arrivo della poesia di Palazzeschi, che sta già per aderire con entusiasmo al Futurismo e che si allontana da qualsiasi idea e forma
della poesia precedente (Pascoli e D‘Annunzio inclusi, quindi poesie contemporanee), è il manifesto del passaggio dal crepuscolare al
futurista di Palazzeschi nella famosissima ‘’LASCIATEMI DIVERTIRE’’ (Mengaldo, pagina 61). C’è l’adozione delverso libero e la distruzione
totale della parola poetica, come vorranno i futuristi.

Fondamentale è anche il sottotitolo, non solo il titolo: i titoli nelle raccolte delle poesie del Novecento hanno molto importanza,perché
sono titoli programmatici, dicono molto del contenuto e delle scelte di poetica dei poeti. In questo caso ‘’Lasciatemi divertire’’ e il
sottotitolo ‘’canzonetta’’ fa capire come qualsiasi sacralità seria e poetica della poesia è venuta meno, è stata
buttata all’aria.

 Tri tri tri,  inizia con dei suoni puramente inarticolati. Gioca, fino a renderlo paradossale e quasi ridicolo, con il
 fru fru fru  il fonosimbolismo di marca soprattutto, ma non solo, pascoliana e d’annunziana. La pura onomatopea o il puro
 uhi uhi uhi  suono.  assoluta dissoluzione assoluta della parola poetica
 ihu ihu ihu.
 Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente  Si parla all'ipotetico pubblico di lettori della poesia del primo Novecento e si dice
‘’non vi, scandalizzate, lasciatelo divertire, tanto la sua poesia è fatta solo di corbellerie’’..

Non lo state a insolentire,


lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

 Corbellerie = stupidaggini. È il grado zero della poesia poetica, della considerazione della parola poetica. La poesia come corbelleria.

Cucù rurù
rurù cucù,
cuccuccurucù!

 ogni strofa si alterna con un puro suono, un puro simbolismo. [Battiato, nella sua famosa canzone ‘’cuccurucucu Paloma’’, riprendeva
questa canzone di Palazzeschi].

Cosa sono queste indecenze?


Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche.
Sono la mia passione.

 rispondere allo scandalizzato lettore borghese della poesia, che legge ancora Pascoli-Carducci- D’Annunzio, per il quale queste sono
indecenze, non è vera poesia.
Il poeta chiede di farle definire ‘’licenze poetiche’’, cioè quelle libertà che il poeta si può prendere, contro le regole dalla poesia
regolare: gli basta questo per giustificare le sue canzonette che contengono più suoni non semantizzati, che parole semantizzate
Farafarafarafa
tarataratarata
Paraparaparapa
Laralaralarala!

 Sono quei tipi di suono per la maggior parte delle canzonette che noi oggi cantiamo quando non ci ricordiamo le parole di una canzone.
Palazzeschi gioca con una poesia che diventa canzonetta senza senso  elemento distruttivo e ‘’giocosamente’’ futurista di Palazzeschi.
Prima le ha definite ‘’piccole corbellerie’’, poi ‘’incidenze’’, ora ‘’roba avanzata’’ e ‘’spazzatura’’ delle altre poesie.  viene totalmente
desacralizzata la parola

Sapete cosa sono?


Sono robe avanzate,
non sono grullerie
sono la… spazzatura
delle altre poesie.

 In Palazzeschi viene fuori anche il punto di vista del buon borghese che legge poesia, perché ancora si leggeva la poesia, anche i
commercianti, avvocati o medici leggevano la poesia nel primo Novecento. Quindi con la frase ‘’Cosa sono queste indecenze’’ era già
filtrata la voce e il punto di vista del buon borghese lettore delle poesie del primo Novecento. il buon borghese che si scandalizzadella
Canzonetta di Palazzeschi.

Bubububu,
fufufufu,
Friù !
Friù!
 Ancora suoni senza senso che vengono ripetuti.
Se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

 il fesso è il poeta, la poesia è spazzatura. È presente il punto di vista dei lettori normali di poesia del primo 900. In questa poesia
Palazzeschi provoca il lettore di poesia.

Bilobilobilobilobilo
Blum!
Filofilofilofilofilo
Flum!
Bilolù. Filolù.
U.

 il gioco fonosimbolico viene sempre più spinto all’estremo, in maniera sempre più provocatoria.C’è la decostruzione della parola: da
puro suono in qualche modo polisillabico ‘’bilo-bilo-filo-filo’’ diventa sempre più suono monosillabico ‘’blum-flum’’, per poi diventare
addirittura solo suono vocalico ‘’u’’.
Si riduce sempre di più la parola poetica.

Non è vero che non voglion dire,


vogliono dire qualcosa.
Voglio dire
come quando uno s i mette a cantar.
senza saper le parole
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare

 In questo dialogo a distanza con il borghese che si scandalizza alle corbellerie di questo fesso poeta, Palazzeschi risponde che
non vuole dire niente. Sono suoni di canzoni, che a lui, poeta, va di fare e di inventare, e può farlo liberalmente.
 Il titolo è ‘’lasciatemi divertire’’

Aaaaa !
Eeeee!
li iii !
Ooooo!
Uuuuu!
 le famose sillabe onomatopeiche, che poi diventavano singola sillaba e poi singola vocale, tornano e formano interamente una strofa. A
E I O U: gioca con le vocali.
[c’è una famosissima poesia di Rimbaud ‘’Voyelles’’, cioè le vocali, in cui era stata resa esplicita, a questa idea simbolista, una
associazione tra vista e suoni, tra parola poetica e suoni e colori, cioè il rispondersi diA ! E! I ! O! U ! tutti i sensi nella parola
poetica, il fulcro di ogni poeta simbolista. Uno dei componimenti più importanti per tutti i poeti europei che si formano nella scuola dei
simbolisti francesi. In questa poesia viene menola tradizione simbolista e le ‘’Voyelles’’, cioè le vocali, diventano puri suoni]. In
Palazzeschi non c’è più nessuna associazione sinestetica di suoni e immagini di queste vocali.

Ma giovinotto,
diteci un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

 Viene data finalmente la parola al buon borghese scandalizzato.


importante è la costruzione di questa poesia: qui c’è l’uso di rime con cui parla il buon borghese. Il gran foco è il gran fuoco della
poesia secondo una tradizione pluricentenaria. Qui invece il gran fuoco, che si è immaginato animasse l’anima del poeta e che lo
rendesse divino, diventa poca cosa, un insieme di suoni, messi insieme a casaccio.

Huisc… Huiusc…
Huisciu…sciu sciu,
Sciukoku… Koku koku,
sciu
Ko
Ku.

 Il poeta non si interessa delle parole del buon borghese e continua ad usare le sillabe e i suoni in libertà. Gioca con delle parole
giapponesi: i nomi delle isole maggiori dell’arcipelago giapponese. E’ un gioco post simbolistico: destruttura, desemantizza, toglie il
significato primo alle parole rendendole liberi suoni. Gioca quindi con delle parole giapponesi che inizialmente avevano un
senso.

Come si deve fare a capire?


Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

 Il buon borghese non ha capito niente, sa solo scandalizzarsi. Qui lo dice in maniera assurda ‘’sembra scriviate in giapponese’’, ma in
realtà Palazzeschi sta giocando con la lingua giapponese, con il nome delle isole.

Abì , alì, alarì


Riririri!
Ri.

 il poeta se ne infischia dello scandalo del buon borghese, anzi vuole provarlo. ‘’Ri’’ riprende il riso in italiano e ancora di più in
francese: ride in libertà.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,


anzi, è bené che non lo finisca,
il divertimento gli costerà caro:
gli daranno del somaro.

 il buon borghese gli dice di continuare pure a prenderlo in giro, ma questo gli servirà solo ad essere chiamato ‘’somaro’’, cioè
imbecille, ignorante. Riprende l’idea del poeta fesso.

Labala
Falala
eppoi lala
e !alala, lalalalala !alala

 continua la lallazione, tipica di quando noi non sappiamo le parole. Continua a cantare la sua
canzone con suoni liberi.
Certo è un azzardo un po' forte
scrivere delle cose così
che ci son professori, oggidì ,
a tutte le porte.
 questo scandalo non toccherà solo il buon borghese che legge poesie del primo 900, ma anche i professori dalle loro cattedre:
infatti tutti gli studiosi di letteratura italiana non capirono la complessità di questa rivoluzione poetica. Come Benedetto Croce (che
non capirà l’avanguardia del primo 900) o Borgese (che inizia a capire la questione, seppur in senso limitativo, nell’articolo del 1911
sulla poesia crepuscolare).

Ahahahahahahah !
Ahahahahahahah !
Ahahahahahahah !

 la risata, lo sganasciarsi della risata del poeta, che se ne infischia di tutti: del buon borghese, ma ancora di più dello scandalo presso i
professori universitari.

Infine,
i tempi sono cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti:
e lasciatemi divertire' .

 strofetta che sintetizza tutto il pensiero del poeta, il quale che agli uomini non interessi della poesia. è la crisi della poesia del 900

-DOMANDA: c'è la lallazione del bambino-fanciullino? Sì, ma quello era Pascoli e in Pascoli c'era una teoria linguistica dietro. Palazzeschi va
oltre. Quando Pascoli usava quei suoni per esempio nelle poesie dei ‘’Canti di Castelvecchio’’, in cui si usa il Uè per indicare proprio il suono
del bimbo appena nato che piange o anche l’eco di Dov'è dov'è, tutti i riferimenti alla lallazione del bambino che non sa parlare, in Pascoli
portavano all'idea che la parola poetica, se è tale, è sempre una continua riscoperta della prima parola pura, primigenia; per definizione
poetica, inventiva del poeta fanciullino. In Palazzeschi siamo oltre, non vuol dire niente: la lallazione o il canticchiare non vogliono dire
niente, non devono rinviare a un significato. Indica ciò la fine anche del fonosimbolismo: il fonosimbolismo della lallazione del poeta
fanciullino rinviava ad una idea forte e sacra della poesia, che sapevarinnovare le parole usate dal poeta. In Palazzeschi questo non c’è, la
poesia è la spazzatura, è l'avanzo di tutta la poesia precedente. In Palazzeschi rinviano al non senso della poesia, la poesia non deve più dire
e non deve insegnare niente È semplicemente un gioco senza senso del poeta che si vuole divertire.
È questo il triplo salto tra i riferimenti che ci sono, ancora fortissimi, al linguaggio della poesia di Pascoli e D'Annunzio in
queste prime avanguardie e l’utilizzo di questi riferimenti. Si rovescia l'idea che era ancora un'idea forte e sacra (in senso laico) della poesia
in Pascoli, D'Annunzio e Carducci. Infatti Mengaldo ha parlato di una koinè pascoliano-dannunziana, dal greco koinè significa un linguaggio
comune, che è proprio di tutti i poeti del primo Novecento e arriva addirittura oltre, nel secondo 900. Peròa questo linguaggio comune, che
riprende il linguaggio di Pascoli e D'Annunzio, viene dato un valore completamente diverso. Le prime avanguardie rispondono e vanno
contro e oltre la parola poetica di Pascoli, D'Annunzio e di Carducci.

DOMANDA: quale reazione hanno suscitato i suoi versi tra i poeti del tempo? Era solo una provocazione o credeva fermamente che il poeta
non fosse in grado di andare oltre la visione comune della realtà? La maggior parte della critica guarderà malissimo questa poesia. Dall’altra
parte siamo già al confine, oltre la poesia crepuscolare, e siamo nella poesia futurista. Ha ragione Mengaldo ad analizzare questi poeti
singolarmente, però in realtà c'è una atmosfera, un terreno comune e questa poesia di Palazzeschi dialoga con vari poeti. Per esempio in
Corazzini il poeta è solo il fanciullino che piange e offre il suo pianto al silenzio eparadossalmente invece le cose parlano; in Palazzeschi, così
come in Govoni futurista, viene fatta esplodere completamente la parola poetica, quindi non è che è solo in Palazzeschi. Questo è il limite
dell'antologia di Mengaldo: un territorio comune non c'è solo Palazzeschi, ma la visione della realtà è in vari poeti a cavallo tra
crepuscolarismo e futurismo.
L’idea di poesia totalmente desacralizzata, che va completamente in pezzi e il poeta è una figura opposta sia al poeta-vate
d’annunziano che al poeta fanciullino che riscopre la purezza e la sacralità della parola poetica. Ci sono poeti che fanno ciò su un lato
lacrimevole, tipicamente crepuscolare, come la desolazione del povero poeta sentimentale di Corazzini, e ci sono poeti invece che lo fanno in
maniera più provocatoria, prima clownesca e poi futurista, come Palazzeschi. Ma è lo stesso ragionamento,è lo stesso terreno comune.

queste correnti sono state chiamate AVANGUARDIE, seppur a posteriori, nessuno di queste aveva costruito un gruppo
militarmente compatto (a parte il Futurismo), Marinetti ci aveva provato ma ha fallito.
Il termine avanguardie è un termine militare: è la parte appunto davanti, di sfondamento delle truppe, quella che deve partireall'attacco e
deve sfondare le truppe nemiche, lasciando il passaggio poi a quelli che combatteranno e, presumibilmente e sperabilmente, vinceranno.
Sono coloro che più sprezzano il pericolo coraggiosamente, sono le prime file. Termine proprio militare ‘’sfondamento dell’esercito
nemico’’. Non è un caso che venga dal linguaggio militare, infatti questo tipo di linguaggiomilitare viene adottato coscientemente e
consapevolmente nei manifesti dei futuristi.

RIFLESSIONE: Crisi della poesia del 900? A cosa serve ancora un genere nobile, così antico rispetto alla prosa in una società chesta diventando
società di massa, società una la cultura massificata.
Questa è la domanda che gli faranno tutti i poeti del Novecento (e che in realtà si continuano a fare i poeti anche nel 2021) : hasenso
continuare a fare poesia, a scrivere versi, e per chi scrive oggi il poeta?
I poeti del 900 fanno per primi questo discorso consapevolmente e trasformando radicalmente la parola poetica: questa grande domanda, e
anche questa grande provocazione del continuare a fare poesia in una società come la nostra, è partita dai poeti del 900 e arriva oggi nel
2021.
Le risposte sono state tante. C’è chi cercherà di recuperare la sacralità, in senso sia non religioso che religioso, della parolapoetica,
per esempio tutta la linea che va dalla Ronda agli ermetici, cioè fine anni 20 in poi.
Però la domanda che qui sta facendo Palazzeschi, che si faceva Corazzini e che si fanno tutti i crepuscolari e futuristi e poi anchegli
espressionisti è: ha un senso essere ancora un poeta? e la mia poesia scritta interessa a qualcuno?

Domande che ancor oggi sono rivolte a chiunque scelga materie umanistiche. La poesia del Novecento infatti ci parla tantissimo, Gli
illuministi dicevano a fine 700 ‘’ci vuole istruzione pubblica e anche studiare la letteratura fa parte di quella ricerca della verità a cui tutti
concorriamo, scienze applicate e la scienza umanistica’’. Continuiamo ancora oggi a difendere ciò strenuamente in una società totalmente
massificata e in una cultura che della poesia non so più che cosa fartene. Conoscere la poesia del 900 è interessante, non solo
letterariamente per conoscere meglio la letteratura, ma anche perché questa poesia ci parla direttamente.

In una società del post capitalismo, iper-tecnologizzata, in cui continuano a dirci i ministri dell'università e della scuola le famose tre ‘’i’’,
Inglese, Informatica e impresa, ciò che conta è produrre. Ma se siamo quello che siamo oggi è grazie alla cultura di secoli e secoli edefinirsi
italiani non ha senso se non si sa neanche chi è Dante Alighieri, cosa ha scritto, o cosa ha scritto Corazzini, Palazzeschi e futuristi. Noi siamo
italiani per questo aspetto qui e non solo per la produzione di merce. Noi siamo italiani, già per Dante quando non esisteva proprio questa
Italia, grazie alla nostra cultura, a quello che ci ha accomunato e ci ha fatto poi italiani: lo dicevano da Dante e Petrarca fino agli ultimi
scrittori del Risorgimento, ci possiamo dire italiani perché abbiamo una lingua e la cultura comune.

Molti che si definiscono italiani però pensano che l'importante sia solo essere ricchi, quanto la Germania o gli Stati Uniti.
Ma non è così, siamo italiani da molto molto prima e per altri aspetti: Petrarca e Dante ci hanno fatto italiani molto secoli prima che esistesse
l'Italia. o ‘’Lasciatemi divertire’’ di Palazzeschi.

Oggi ci vogliono tutti imprenditori, tecnologici. Merce di ricchezza ma questo produce sempre più assenza di senso critico, che è la basedel
nostro essere individui coscienti e sapienti. Saper scrivere in italiano e avere senso critico apre molte porte, per esempio nella
comunicazione, nel negli uffici stampa, ogni impresa o ditta minuscola ha bisogno di un addetto alla corrispondenza, nel senso più ampio del
termine.

Lezione 13 - 14 aprile
Guido Gozzano
La definizione netta, drastica per poetiche, ha dei limiti (e in questo, diamo ragione a Mengaldo).
Colui che verrà considerato (erroneamente) il padre del crepuscolarismo è Gozzano, autore fondamentale per i poeti del 900 che ha
un'importanza enorme. È stato, ed è tutt’ora da molti considerato o l’ultimo dei classici (come l’hanno definito i più intelligenti critici come
Pancrazi o Solmi - che sono stati grandi lettori della poesia del 900 – e affermavano che Gozzano non appartenesse al paesaggio di grandi
avanguardisti e sperimentatori e che fosse invece l'ultimo dei classici, considerandolo ancora un classico come Carducci, Pascoli, D'Annunzio:
quindi o è stato letto così, o è stato letto tutto come parte integrante del discorso crepuscolare, accanto a Corazzini, in parte Govoni e
Palazzeschi.

Perché? Perché il suo immaginario si fonda su un immaginario molto vicino a quello che abbiamo detto ieri che è tipicamente crepuscolare. Le
sue due uniche raccolte finite “la via del Rifugio” e “i colloqui” sono un auto rappresentazione dell'io, dell’io Gozzano come grande malato e
come colui che è destinato alla morte e sopravvissuto alla malattia. Il suo è un io poetico assolutamente antieroico, è quasi ridicolo. È chiaro
che è presente l’elemento autobiografico: Gozzano muore giovane di tubercolosi quindi sta raccontando, ad un primissimo livello di lettura, la
sua autobiografia poetica  in realtà però evoca ancora una volta la grande malattia dell'uomo del primo 900 e in particolare della poesia che
s’ interroga su se stessa e per questo potremmo pensare a un immaginario crepuscolare.
Però qual è l'elemento propriamente gozzaniano che poi sarà così importante per tutto il 900? sfugge un po' a queste categorie, sia di grande
classico che di crepuscolare, perché in Gozzano c’è un 'elemento chiave che è l'ironia , un'ironia che da una parte va verso la grande poesia
contemporanea, quella sostanzialmente pascoliano - dannunziana ma poi, in un senso molto più ampio, un’ironia su che significa essere poeta
e scrivere poesia nel primo 900 e l’io del poeta come un grande malato, quella figura assolutamente antieroica, anti sublime, agli antipodi del
poeta vate di cui, in quegli stessi anni, sta scrivendo D'Annunzio.

Ironia di Gozzano:
 verso la grande poesia contemporanea (pascoliano – dannunziana)
 su cosa significa essere poeta e scrivere di poesia nel 900
 sull’io del poeta come grande malato (agli antipodi del vate)

“La via del Rifugio” esce nel 1907 e “i colloqui” nel 1911, durante il pieno trionfo di Pascoli e D'Annunzio ancora viventi  gli eventi non sono in
successione ma s’intrecciano  Pascoli e d’Annunzio continuano a scrivere opere fondamentali.
“La via del rifugio” e “i colloqui” sono raccolte che hanno un immediato consenso di pubblico: questo è un altro stacco forte rispetto alla
maggior parte dei poeti di cui abbiamo parlato finora. Perché? Perché viene colta soprattutto la continuità rispetto a quella sacra triade
Carducci - Pascoli - D'Annunzio, viene colto come l'ultimo dei classici, quindi avrà giovanissimo già neL 1907, con la sua prima raccolta, un
consenso di critica enorme veramente raro.
Questo interrogarsi ironicamente su quello che la società borghese chiede al poeta ma anche su quanto è ridicola quella raffigurazione del
poeta e della poesia nel primo 900 ne hanno fatto un piccolo classico poi di tutta la poesia del 900: Gozzano è nel DNA dell’ironia montaliana e
sarà nel Dna di tanti poeti del secondo 900 che fanno dell'ironia, verso se stessi e verso la stessa poesia, il fulcro del loro fare poesia.

Dobbiamo capire questa posizione particolare, in equilibrio tra ultimo dei classici e coevo al crepuscolarismo. Nei manuali è presente una
visione sbagliata secondo la quale è il padre dei crepuscolari ma non è vero: le prime raccolte – e qui Mengaldo ci aiuta tanto - di Corazzini,
Palazzeschi, Govoni, quindi dei grandi crepuscolari, vengono prima del 1907, prima della prima raccolta di Gozzano  questa è una visione
proprio antistorica, cronologicamente sballata, vedere Gozzano come padre di tutti questi crepuscolari. Tra il 1907 e il 1911 i crepuscolari
hanno già dato il meglio, è un’avanguardia che finisce già alle soglie della Prima Guerra Mondiale nettamente, tanto che molti crepuscolari si
sono già "convertiti a una fede futurista” che durerà poco ma sarà quella di Govoni e Palazzeschi mentre Corazzini non si converte a niente
perché muore.

Con Gozzano siamo nel Piemonte, una sede amata dal versante crepuscolare, già nella poesia del secondo 800 c'erano immagini di una
provincia grigia, un po' vecchiotta, legata al passato Sabaudo quindi anche di una nobiltà e borghesia polverosa, su cui ironizzerà Gozzano che
pure avrà nostalgia (quindi ironia e nostalgia) verso questo ambiente polveroso della Torino dei suoi tempi.

Per capire la profondità della lezione poetica di Gozzano e di questa sua posizione così particolare dobbiamo pensare a quello che scrisse
Montale cioè un saggio molto interessante, all’interno del quale Montale afferma che Gozzano è il primo che attraversa D'Annunzio e arriva in
un territorio tutto suo. In che senso? Gozzano attraversa D'Annunzio cioè riesce ad assorbirlo, a metabolizzarlo per arrivare, però, a un
territorio tutto suo, per creare una poesia che è gozzaniana e non ha più niente di dannunziano: Pascoli D'Annunzio - D'Annunzio anche di più
anche per ragioni cronologiche perché lui sopravvive al 1912 di Pascoli - sarà l'ombra che accompagnerà tutti i poeti del primo 900 e oltre,
tanto che l'ombra si allunga sul Montale di “ossi di seppia” e ancora oltre. La sfida della poesia del 900 era superare D'Annunzio  Montale
dirà che Gozzano è il primo, lo fa proprio, lo deve attraversare perché è il grande poeta e quindi deve farlo suo, metabolizzarlo per arrivare poi
a una poesia che è tutta gozzaniana e ha superato la grande ombra pesante di D'Annunzio. Montale è stato un grandissimo lettore di poesia:
leggendo i saggi di Montale sulla poesia contemporanea, ci rendiamo conto che ha azzeccato praticamente tutto, quindi anche come critico è
stato grandissimo. Questa decisione di Gozzano è molto utile anche lì dove, nello stesso saggio, Montale dirà che è il primo che riesce a far
cozzare il verbo forte e voluto, l’aulico e il prosaico  l'aulico perché attraversa anche proprio stilisticamente la tradizione alta della poesia
italiana (Carducci Pascoli D'Annunzio in primis) ma fa cozzare volutamente cioè in maniera scioccante, ironica, questi richiami alla poesia in un
senso aulico con quanto di più prosaico e basso ci possa essere (cioè anti aulico). Famosissima - e tenetela sempre a mente perché è la
metafora di questo discorso che è fondamentale in Gozzano è la rima “Nietzsche – camicie” che farà in uno dei suoi componimenti più
importanti “la signorina Felicita”, farà rimare la parola del grande filosofo del momento Nietzsche, con la parola più prosaica possibile camicie,
che sono quelle che stira la signorina Felicita. Questa è l'ironia gozzaniana, che è un'ironia poetica, per quello che vi ho detto prima sulla
considerazione sul senso della poesia del primo Novecento ma è anche stilistica perché userà tutti i mezzi più raffinati, retorici e metrici per
sottolineare questa ironia fra un’idea e un'immagine, un linguaggio e lo stile aulico della poesia e insieme farlo cozzare con ciò che c'è di più
anti aulico, più prosaico e che ormai è ineliminabile dalla poesia del primo Novecento: questa è la novità importante, e non lo sublima neanche
come fa un Pascoli, per esempio nei Canti di Castelvecchio o nei Pometti, che sublima ciò che è semplice (anche gli attrezzi dei contadini
entrano nella poesia aulica con Pascoli, però sublimandoli in un discorso poetico che è alto, che conserva un'idea sacrale della poesia); Gozzano
invece no, la chiave di questo cozzo tra aulico e prosaico è l'ironia, ironizza verso la presenza della poesia in una società borghese ma ironizza
anche su quella società borghese.

Il suo sperimentalismo arriverà, ma non potrà essere portato a termine perché muore prematuramente: il suo sperimentalismo in realtà andrà
oltre queste due raccolte  l'ultima raccolta, che rimane assolutamente incompiuta, ne scrive pochissimi passi, è il libro delle “epistole
entomologiche” che riprendono forma classicistica del trattato scientifico in versi, che era parte della nostra lezione poetica, in particolare nel
500 e nel 700, per cui in queste epistole in endecasillabi sciolti – recupera una possibile forma della poesia classicistica - racconta le varie specie
di farfalle (questo è il riferimento all’ entomologia) e attraverso questi una serie di rinvii di altro tipo. Sarà uno sperimentalismo: Gozzano,
anche se in realtà non sembra, sperimenta in continuazione, anche proprio con i generi della poesia italiana: il discorso poi continuava e chissà
che altre strade sperimentali avrebbe preso con Gozzano ma queste epistole entomologiche rimangono assolutamente incompiute.
Precisazione: l’entomologia è una scienza che studia gli insetti e Gozzano, da poeta, vuole scrivere un trattato in versi sulle varie specie di
farfalle. In pieno 900 (1911) vuole rendere moderno un genere assolutamente classicistico della nostra tradizione poetica, di grande fortuna tra
500 e 700, che era il trattato scientifico in versi (endecasillabi sciolti). Per alcuni Gozzano è stato un post moderno ante litteram. Il post
modernismo del secondo 900 è quella grande poetica per cui, quando la modernità è andata a pezzi, la storia ha perso ogni essenza, la
tradizione letteraria si è ormai sbriciolata nel corso del 900, riutilizza, cioè fonda la letteratura sul riuso di brandelli di tradizione passata.
Questa è la caratteristica del post moderno: Gozzano fa già, agli inizi del 900, qualcosa che verrà ripreso poi dai post moderni, tanto da
diventare un modello per loro. Perché? Perché non solo nelle epistole entomologiche, sembra riprendere in maniera ironica (ironia
stilisticamente vuol dire: citare una forma, anche tradizionale, per segnare la distanza incolmabile rispetto a quella forma letteraria).
Il doppio novenario di certi componimenti, cita una tradizione poetica, ciò che resta di una nobile tradizione poetica ma è di per sé un
monumento di un qualcosa che cita il passato ma in un presente che ormai è caratterizzato dalla discontinuità rispetto a quel passato. (Per
curiosità, leggere il capitolo “L’Ulisse di Gozzano” dal libro della prof, che è in realtà un anti Ulisse).

La lezione di Gozzano passa per Montale, un grandissimo poeta del 900 e per Vittorio Sereni, che scrive la sua tesi di laurea su Gozzano.
Gozzano è una presenza importantissima anche per i poeti della neo avanguardia, da Sanguineti in poi, è un modello forte da tenere bene a
mente.
La Signorina Felicita
Probabilmente è la poesia più nota di Gozzano, già presente nella prima raccolta, viene riveduta, corretta e inserita nei Colloqui, nella seconda
raccolta perché è una poesia che evoca quella provincia, veramente provinciale, chiusa, gretta, ignorante, che Gozzano conosce molto bene del
Piemonte, li dove la sua famiglia aveva una villa che viene evocata più volte, la villa del Meleto, che è al centro di tutte e due le raccolte e lui in
questa signorina Felicita ovvero la felicità, evoca proprio questa figura di donna ignorantissima di questa provincia piemontese, che vive
all'ombra del padre, vivendo di affari quotidiani e casalinghi (le camicie che fanno rima con Nietzsche sono quelle che lei stira)  è una figura
femminile, un tu poetico assolutamente antitradizionale, non c'è nessuna Laura e Beatrice dietro l’umile e bruttina - lo dice anche felicita - che
però si è innamorata del giovane avvocato che era lo stesso Gozzano, che ha idealizzato questa figura di avvocato poeta. Rievoca quindi una
figura del suo passato del Piemonte più provinciale.
E cosa c'è insieme? Questa è una cifra forte di Gozzano: l'ironia verso questo mondo e quindi anche verso questa figura femminile ma allo
stesso tempo un filone malinconico e nostalgico verso questo mondo a cui lui non può più appartenere, a cui ha dato l'addio, sin dalla prima
giovinezza e allo stesso tempo anche una dolorosa ironia sul suo essere poeta  nella domanda finale famosa e nell'affermazione “mi
vergogno di essere un poeta” c'è qualcosa anche che è ironico nel senso serio, cioè c’è la presa di distanza dall'essere poeta e allo stesso tempo
un riscatto di questo mondo semplice tanto lontano da lui, che è quello della signorina Felicita, che sembra prendere amabilmente in giro per
tutta la poesia. Ma alla fine, la sua vergogna, riguarda se stesso, l’essere il poeta che ha illuso questa donna, ben sapendo che non sarebbe mai
potuto essere il suo il suo grande amore.

C'è anche l'altro tema gozzaniano: gli amori più belli sono quelli non vissuti. In un altro degli adagi tipicamente gozzaniani è quindi l'amore
impossibile, non vissuto, per questa sempliciotta di paese, la signorina Felicita, che è l'altra faccia dell’altro “tu” femminile, altrettanto ironico
ma è molto più sferzante l’ironia di Gozzano verso l'altro tu femminile che è l'opposto di quello della signorina Felicita, che attraversa in
particolare “i colloqui” che è quello dell'amante intellettuale, snob e nevrotica, dietro la quale c'è l'altra grande passione vera di Gozzano, un
amore difficilissimo per Amelia Guglielminetti. La Guglielminetti è una poetessa di grandissimo successo nel primo 900, lettissima, amatissima,
era una specie di Alter Ego di Gozzano. Le due facce sentimentali dei “colloqui” sono da una parte la sempliciotta signorina Felicita e l'amore
non vissuto, impossibile per lei e dall'altra la passione però difficilissima, che finirà malissimo, per la donna sofisticata, la poetessa
Guglielminetti.

Interessante è anche questo discorso dell'eros, discorso ovviamente poetico, che viene affrontato in una maniera diversa, nuova, da Gozzano e
anche in questo ci sarà un'importante modello per la poesia del secondo 900.

La signorina Carla, al centro di un lungo poemetto di un altro grande poeta del secondo 900 Pagliarani, è una figura scialba di piccola impiegata
incolta nella Milano del boom economico ed è un po' l'altra faccia della figura primo - novecentesca della ignorantissima provinciale signorina
Felicita. Veramente la lezione di Gozzano è una di quelle che rimarrà indelebile per gran parte del 900.

La signorina Felicita ovvero la felicità - i giochi anche ironici stilistici sono continui nella poesia di Gozzano che gioca sul nome di felicità e sull’
idea di felicità, nell'epigrafe avete anche la data che da calendario ricorda Santa Felicita il 10 luglio e da questo calendario parte il racconto, che
è proprio un poemetto narrativo molto lungo.
Elemento importante anche metrico: Gozzano non accetterà il verso libero (come Pascoli) ma solo una metrica liberata, e in questo caso
siamo oltre Pascoli, perché è molto vicino invece alla metrica liberata di Montale, di quello degli Ossi di seppia.
Il novenario irregolare, perchè non è mai un novenario perfetto della signorina Felicita, e tutta la costruzione metrica di questo poemetto,
rimangono nei ranghi della metrica italiana, non è verso libero, però c’è lo schema rimico, anche se spesso impreciso, ma non è mai un verso
perfettamente, armonicamente, metrico tanto che alcuni critici un po' più cattivelli, dicevano che non sapeva fare veramente bella poesia
metricamente parlando.

LA SIGNORINA FELICITA OVVERO LA FELICITÀ. (Mengaldo pag 189)


10 luglio: Santa Felicita.

Signorina Felicita, a quest'ora


scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

 Anche il richiamo alla data è riferito a una figura a cui è dedicato il componimento. Viene dalla poesia francese, anche post simbolista,
molto importante per i poeti del primo 900, in particolare i crepuscolari.
Però se vi ricordate, il San Lorenzo “io lo so perché tanto di stelle nel cielo ecc”… anche lì partiva dalla data del 10 agosto, qui è il 10
luglio ma ovviamente in maniera tutt’altro che ironica, dedicava l'intero componimento in quella data di San Lorenzo all'immagine del
martirio del padre. Ironicamente, secondo la prof, c'è anche questa eco pascoliana: rovescia la serietà del tragico calendario
pascoliano in qualcosa che qua è assolutamente ironico  lui vede sul calendario il 10 luglio e si ricorda, da lontano ormai, di questa
signorina Felicita, ricorda questa figura della prima gioventù.
La rivede, rivede nella memoria poetica questa signorina Felicita e il paesaggio piemontese dove lui passava le sue vacanze con la
famiglia, Ivrea, il fiume la Dora cerulea e il paese di Agliè, dice “il cui nome non dico” è il paese di Agliè, dove c'era la villa del Meleto di
casa Gozzano.
Sono i luoghi provinciali che però vengono rievocati anni dopo dal poeta affermato Gozzano.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
a l'avvocato che non fa ritorno?
E l'avvocato è qui: che pensa a te.

 Signorina Felicita,  e qui inizia il dialogo a distanza.


 è il tuo giorno!  è il giorno del suo compleanno.
 A quest'ora che fai?  attenzione, fa cozzare aulico e prosaico.
 Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me  caffè in rima con me.
 a l'avvocato che non fa ritorno?  l'avvocato è lui perché aveva fatto studi giuridici e quindi era conosciuto nel paese con grande
ammirazione molto prima che come poeta, come avvocato.
 In questa seconda strofa lo schema rimico varia, non è canonico: rime ABBA incrociate con AB alterna finale poi diventano AB AB AB,
tutte rima alterna nella seconda strofa  c'è uno schema rimico ma non è regolare, anche questo fa parte della metrica liberata.
Importante in questa seconda strofetta che caffè rimi con me  già abbiamo la prima parola anti aulica (caffè) che addirittura rima
con la figura del poeta stesso. Questa è ironia anche attraverso le rime di cui parla Montale.
 Forse mentre tosti il caffè, ricordi tì stai ricordando di me è il ricordo della passata gioventù.
 E l'avvocato è qui: che pensa a te.  Troviamo un dialogo, una memoria a distanza tra due figure, in realtà, totalmente differenti.
Precisazione: questo componimento potrebbe essere una rilettura di alcuni componimenti pascoliani (X Agosto e la cavallina storna) ma
bisogna essere molto cauti. Oltre al ricordo pascoliano troviamo qui anche Carducci che ricorda la sua Maremma Toscana di un tempo quando
“E ti rivedo ancora e Ivrea rivedo e la cerulea Dora” sono passaggi che evocano la poesia carducciana della memoria dei luoghi della Maremma
Toscana dell’infanzia. Quindi in realtà all'inizio c'è tutto un richiamo a quella poesia di fine 800. Per la prof c’è un richiamo a Carducci ma anche
a Pascoli, ovviamente rovesciati nell'ironia, come c'è l'elemento dannunziano del richiamo a Nietzsche tanto sbandierato da D'Annunzio, li
l’ironia è ancora più forte perchè viene associato allo stirare le camicie. Se leggiamo il capitolo della prof sull’ Ulisse Iper ironico di Gozzano, che
è in un poemetto che si chiama invernale – siamo ancora nei colloqui - vedrete che questo discorso di fare proprio tutto un immaginario e
anche una lingua pascoliano - dannunziana e rovesciarla ironicamente, ma quello è un mondo altro, è presente in quasi tutto Gozzano.
Se leggiamo altri saggi ci richiameranno altre poesie del neo simbolismo francese, in particolare la poesia di Jammes in cui c’è la data che
ricorda la figura femminile  questo vuol dire che era anche un topos post simbolista e questi sono autori che sicuramente Gozzano conosce
benissimo. La raccolta poètes d'aujourdhui era una raccolta che circola immediatamente in tutta Europa inclusa l'Italia in cui si raccoglieva
anche questa tradizione post simbolista, dei figli e nipoti di Baudelaire, amatissima da Gozzano, tanto che lui si forma su questa raccolta, su
questi poeti e quindi anche quei riferimenti che vengono fatti rispetto alla signorina Felicita.
Gozzano poi fa propria anche quella Koinè pascoliano dannunziana, come dice Mengaldo, assolutamente in entrambe le raccolte. Ricordiamo
che nel 1907 e nel 1911 quando escono le sue raccolte, i poeti di riferimento sono Pascoli e D'Annunzio, è impossibile per un poeta prescindere
dai due grandi poeti viventi e trionfanti in quel momento. Ci sono quindi i post simboli francesi, c’è il ricordo di questi anche nella Signorina
Felicita, sicuramente però ci sono anche Pascoli e D'Annunzio.

Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,


Vill'Amarena a sommo dell'ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso, e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa...
Vill'Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
LA tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.
Bell'edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore contorte!
Silenzio! Fuga dalla stanze morte!
Odore d'ombra! Odore di passato! [...]
Odore di abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte

 Pensa i bei giorni d'un autunno addietro  la memoria di un autunno è molto crepuscolare, perché l’autunno è la stagione
crepuscolare per eccellenza.
 Vill'Amarena a sommo dell'ascesa coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata  sono le decorazioni del Meleto, la contrada dov’è
situata la loro Villa (Villa Amarena). Tra le decorazioni sono presenti anche quelle della marchesa che era stata l’antica proprietaria
della villa, poi acquistata dai Gozzano.
 e l'orto dal profumo tetro di busso il profumo tetro, un guardino tetro sono elementi tipicamente crepuscolari
 e i cocci innumeri di vetro sulla cinta vetusta, alla difesa...  Che ci ricorda? “Meriggiare pallido e assorto” di Montale. Ricorda
l’immagine della vita che è questo muro che ha in cima i cocci aguzzi di bottiglia. Gozzano è molto importante per capire Montale,
anche l’ironia. Qui semplicemente sta ricordando l’architettura della villa, non c’è altro dietro l’immagine dei cocci a difesa della villa.
Montale userà la stessa immagine ma per ben altra riflessione.
 Vill'Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! LA tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestì da contadina.  qua si personifica Villa Amarena, la villa di famiglia,
l’immagine dolce nella pace settembrina, ancora una volta autunnale. La casa sembra una dama del 600 invasa dal tempo: è
un’immagine decadente perché l’immagine del tempo personificata con una figura femminile invasa, figura femminile la cui bellezza è
stata trapassata dallo scorrere del tempo riflette la bellezza di questa villa, anch’essa sfiorita a causa del tempo passato. La descrizione
di questa villa richiama tratti che possiamo definire crepuscolari.
 Bell'edificio triste inabitato!  la villa di famiglia è ormai inabitata
 Grate panciute, logore contorte!  sono le grate che proteggono la villa. Logore  gli aggettivi danno un’idea di decadenza molto
forte
 Silenzio! Fuga dalla stanze morte!  Anche l’elemento del silenzio è crepuscolare.
 Odore d'ombra! Odore di passato!  Immagine della tradizione post simbolistica. L’ombra non ha odore ma serve a rievocare una
presenza fisica della villa associata a qualcosa che ormai è nella penombra, quindi decadente. Odore d’ombra  parte di
quell’immaginario sinestetico che viene dalla tradizione simbolista del secondo 800.
 Odore di abbandono desolato!  sempre crepuscolare
 Fiabe defunte delle sovrapporte  i racconti mitici che sono nella parte della villa scolpita sopra le porte, che incornicia le porte.
Segue la descrizione di queste favole mitiche, una decorazione di un passato in decadenza che viene rievocato nelle descrizioni di
queste sovrapporte.
Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell'eroe navigatore,
Fetonte e il Po, Io sventurato amore
d'Arianna, Minasse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore . ..

 Questa è la descrizione del passato in decadenza.

Penso l'arredo - che malinconia! -


penso l'arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell'Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere... che malinconia!

Antica suppellettile forbita!


Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente... Avita
semplicità che l'anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

 Penso l'arredo - che malinconia! -penso l'arredo squallido e severo,antico e nuovo:  è un’immagine poetica gozzaniana, che rievoca
l’antico, squallido, dal presente in cui troviamo una vena nostalgica, di malinconia, verso qualcosa che si è abbandonato e perso per
sempre.

II

Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -


quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

 Finalmente arriva alla descrizione delle chiacchiere del paese, che vengono riportate fedelmente da Gozzano, quelle chiacchiere fatte
dai protagonisti del paese.
Ironia distanziante: non solo l’edera viene descritta negativamente, come bruttina e ignorante ma tutto il contesto della provincia
piemontese, totalmente lontano dall’animo sofisticato del poeta.
Questo è un elemento stilisticamente molto moderno di Gozzano, che verrà poi ripreso dai poeti successivi, cioè riportare le
chiacchiere senza senso, che sono poi le vere chiacchiere di paese. Ci sono brandelli spezzettati dei discorsi pettegoli e superficiali del
paese della Villa.

Nella terza parte del poemetto, inizia la descrizione assolutamente prosaica, anti aulica di questa anti Beatrice.

III
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga .

 Sei bruttina, però allo stesso tempo i tuoi tratti hanno un fascino discreto che è quello delle donne della pittura fiamminga, pittura
bellissima che dal 500 in poi ritraeva queste donne – le contadinotte fiamminghe - così com’erano.

E rivedo la tua bocca vermiglia


così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia

 In apertura troviamo la bocca vermiglia larga nel ridere e nel bere: è un elemento non armonico. Il volto non è né aulico, né perfetto,
la bellezza è mediocre.
 Efelidi leggere abbiamo il difetto nella bellezza femminile.
 Iridi sinceri gli occhi sono sinceri. Accanto al brutto, mette sempre una caratteristica positiva.
 azzurre d'un azzurro di stoviglia  scontro tra aulico e prosaico, il cozzo, ancora una volta sottolineato nelle rime, “sopracciglia” che
rima con “stoviglia”.
Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

 Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi rideva una blandizie femminina.  in quel tuo sguardo semplice e sincero, c’era quel sorriso da
fanciulla innamorata e Gozzano ne era consapevole.
 Signorina  in questo termine c’è l’elemento ironico perché così venivano chiamate le giovini non sposate. È un appellativo molto
lontano rispetto a quelli usati nella tradizione poetica per indicare il tu femminile.
 e più d'ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi!  e quella sua semplicità, quel suo essere un po’ civettuola, ha
lusingato Gozzano (un piacere narcisistico) in una maniera maggiore rispetto alle conquiste cittadine (le sofisticate donne di città che
ha amato e soprattutto da cui è stato amato. Tra queste, c’è la poetessa Guglielminetti).
 Notiamo quindi questa distanza ironica, tutto il mondo della signorina Felicita, anche la sua bellezza – bruttezza, sono agli antipodi di
tutto ciò che è alto o vicino all’idea di poeta e poesia ma allo stesso tempo è presente un moto di malinconia nostalgica verso questo
mondo.
Il poemetto è lunghissimo e al suo interno continua il cozzo tra aulico e prosaico, così come continua la trasposizione fedele dei
brandelli delle conversazioni pettegole e superficiali del paese – tecnica molto moderna che verrà ripresa nel 900.
Leggiamo la fine. Dopo che ha evocato anche la distanza totale tra lui e lei, tra la signorina Felicita e il suo mondo alla fine del componimento ci
saranno le esclamazioni famose di questo poemetto.

VI

Oh! questa vita sterile, di sogno!


Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
si, mi vergogno d'essere un poeta!

 Oh! questa vita sterile, di sogno!  è la sua di poeta la vita sterile.


 Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta  è il commerciante che parla solo di soldi, di cui ha riportato vari
brandelli di conversazione
 meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita meglio essere dei poveracci: l’importante è vivere una vita vera, non una vita
letteraria.
 Io mi vergogno, si, mi vergogno d'essere un poeta!  quest’ironia verso quel mondo, si rovescia nella parte finale. Qui siamo in un
contesto che conosciamo bene perché l’abbiamo visto in altri poeti crepuscolari: è la vergogna di essere poeti. La propria vita di poeta
non è più vista come qualcosa di perfetto e aulico a cui ambire ma diventa una vergogna, rispetto alla vita vera e vissuta che è quella
della signorina Felicita, del paesello e dei suoi protagonisti.
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi ... E non mediti Nietzsche ...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d 'un'intellettuale gemebonda ...

 Tu non fai versi.  Tu non sei una poetessa


 L’ironia, la distanza da quel mondo diventa un’ironia che si riversa tutta su se stesso e sul suo mondo. La vergogna di essere un poeta è
anche quella della signorina Felicita, ignorantissima, che ha fatto solo la seconda elementare e non è neanche convinta che la terra sia
tonda e giri intorno al sole. Nonostante tutto, la signorina Felicita avrebbe reso felice il nostro autore, più di una qualsiasi intellettuale
cittadina (i suoi veri amori)
 In questi versi, troviamo la più famosa rima di Gozzano “Camicie – Nietzsche”
VIII
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d'altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiczzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine…

 Giunse il distacco, amaro senza fine  è il distacco da quel mondo, da quell’infanzia, da quelle vacanze nella villa.
 Questa è anche l’ironia di Gozzano. È stato un addio straziante quello fatto quando se n’è andato per sempre dal suo mondo, simile a
quello che facevano le damine alle carrozze che partivano con i loro amati che andavano al confine. Come sempre troviamo ironia e un
velo di nostalgia malinconica nelle immagini del passato.
M'apparisti così come in un cantico
del Prati , lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico ..

Quello che fingo d'essere e non sono!

 M'apparisti così come in un cantico del Prati  nel momento del distacco mi apparisti come un cantino di Prati Aleari, uno degli ultimi
romantici. Questo addio straziante mi ricorda le immagini un po’ melense del romanticismo dell’ultima stagione.
 lacrimante l'abbandono per l'isole perdute nell'Atlantico  queste sono le immagini della poesia del Prati
 ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico ..  parla l’io del poeta, che nell’addio si rappresenta come un
giovane romantico. Attenzione perché quest’immagine si capovolge nel verso finale.
 Quello che fingo d'essere e non sono!  fingo ancora le movenze del poeta di altri tempi, del poeta di fine 800 ma è solo una finzione
che non corrisponde a realtà. È un’ironia verso quel mondo che si rovescia sempre in Gozzano, in una fortissima auto ironia,
rappresentazione fortemente ironica dell’io del poeta.

L’amica di nonna Speranza.


Altra famosissima poesia, anche questa presente già nella prima raccolta e viene rivista e pubblicata nella seconda dei “colloqui”.
Abbiamo un mondo molto simile: questa volta la poesia scatta non dal calendario ma da una foto di famiglia che lui ritrova, che è quella di sua
nonna Speranza, una foto del 1850: sono i primi dagherrotipi cioè le prime forme di fotografia a metà 800 in cui c'è la nonna ritratta accanto
alla sua amichetta più cara Carlotta. Ancora una volta da un piccolo fatto assolutamente prosaico (la fotografia) lui costruisce, ricostruisce e
immagina questo mondo polveroso provinciale della Torino di metà 800 e con movenze simili a quelle della signorina Felicita, rimette sulla
pagina il mondo ingenuo della nonna e dell’ amichetta Carlotta che leggono Foscolo ( leggono l' Ortis quindi i primi grandi romantici) insieme al
chiacchiericcio anche qua provinciale borghese benpensante quindi diverso da quello più ignorantello della villa di famiglia della Torino di metà
800, ma che è altrettanto frivolo, vuoto. Anche qua si raggiungono vette che sono da capolavoro del 900 infatti verrà citato tantissime volte
questo chiacchiericcio stupido della Torino bene  arriva proprio alla punta del nonsense in alcuni versi, qualcosa di inedito nella nostra poesia
quando uno dei vecchi zii, il “trombone” che sta parlando nel salotto di famiglia dice che “cerca di ricordarsi dove ha sentito il cognome di
questa fanciulla Carlotta, il cognome Capenna. E vediamo in questo caso come Gozzano costruisce un verso.
Lo zio dice:

<< Ma bene . . . ma bene . . . ma bene ... » - diceva gesuitico e


[ tardo
lo Zio di molto riguardo - <<…ma bene … ma bene … ma
[bene ...
Capenna ? Conobbi un Arturo Capenna . . . Capenna ...
[Capenna .. .

 ricalca in maniera assolutamente fedele, in una maniera nuova e sperimentale, il linguaggio poetico italiano, lo sforzo provinciale e
scemo dello zio (una cosa che facciamo tutti) di associare il cognome a qualcuno di conosciuto. È però la modalità del trasferimento di
questo linguaggio e di questo andamento prosaico è buttato nei versi: anche qua non siamo nel verso libero, riesce a creare dei versi
dagli sforzi dello zio trombone.
Tutto questo è assolutamente nuovo e sperimentale come modo di costruire la poesia: grande lezione alla poesia prosastica del 900.

Al di là di questo elemento che è fondamentale, c'è un famosissimo attacco: “l'epigrafe 28 giugno 1850 alla sua Speranza, la sua Carlotta
(dall'album: dedica d’una fotografia)  anche qua scatta l'immaginario poetico ritrovando nelle carte di famiglia questa foto della nonna con la
sua amica ed ecco che scatta l’immaginazione poetica e lui ricostruisce il salotto di metà Ottocento dove viveva la nonna Speranza.

(Dal Mengaldo pagina 203)


Loreto impagliato ed il busto d'Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice ( le buone cose di pessimo gusto) ,
il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po' scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,
le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature,
i dagherottipi : figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco
chèrmisi ... rinasco, rinasco del mille ottocentocinquanta !

 Valve  sono le conchiglie


 Vetusto  vecchio, antico
 Tutto questo è modernissimo. Immagina davanti alla foto semplicemente sfocata - il dagherrotipo appunto – com’ era in realtà il
salotto di una famiglia bene Torinese a metà 800 e inizia una poesia a elencazione. La poesia ad elencazione è una delle forme più
moderne della poesia del primo 900, ne fu un grande maestro il Govoni. c'è una poesia che non è altro che un elenco di cose; la forma
è modernissima, c'è la totale ellissi del verbo per intenderci ma soprattutto il fatto che sia un lungo elenco: abbiamo tutta la prima
parte del componimento che è fatta da un elenco di oggetti che richiamano questo ambiente vetusto e polveroso (il povero
pappagallo impagliato; il busto di Alfieri a memoria delle gesta antiche, il busto di Napoleone, tutto quello che rievoca, i dipinti delle
tele ottocentesche). E’ ancora una volta una ricostruzione di un mondo passato, polveroso, ormai molto lontano che viene rievocato
con movenze.
Domanda: poesia ad elencazione della Zimbosca? Sì, ma la poesia ad elencazione se la inventano nel primissimo 900 persino in Italia, già c'era
alla fine dell’800 in Francia. È un elemento fortissimo della migliore poesia novecentesca italiana e non, per questo Gozzano è un grandissimo,
perché tiene testa alla poesia anche più nuova europea su cui si è formato. Quindi si, la poesia ad elencazione è una caratteristica della poesia
del Novecento e in particolare di quella del secondo Novecento. Nel contesto italiano probabilmente la Zimbosca conosceva Gozzano, che è
stato uno dei maestri di questa poesia a elencazione.

Notiamo inoltre la presenza di versi doppi “Loreto impagliato il busto d'alfieri di Napoleone” sono tra sette e novenari (una metrica liberata)
doppi perché si raddoppiano in un verso e hanno una rima al centro - busto rima con gusto – che è la fine del verso successivo - Napoleone
rima con buone - che è a metà del verso successivo. Nella metrica regolare per esempio, si inventa questo verso lungo con rima al mezzo: è un
grande sperimentatore anche sulla metrica. Ripeto È uno dei modelli anche per il futuro Montale.

La chiusa è su questo, è su queste due fanciulle che a metà 800 sono prese dalla Muta romantica, della passione romantica e infatti ricorderà
come insieme leggevano Foscolo e i casi di Jacopo Mesti - Jacopo Ortis.
Anche il ricordo di questa letteratura, di queste passioni letterarie ormai definitivamente tramontate che sono appunto passioni ottocentesche.
La stessa definizione, l'ultima parte finale di Carlotta, un nome non fine, non elegante richiama la signorina Felicita Ovvero la felicità Cioè
questo mondo che non deve essere perfetto e bellissimo, che anzi ha poco di bello e perfetto tanto che è abitato da buone cose ma di pessimo
gusto. Questa è la cifra di tutto questo componimento e di tutto il paesaggio Piemontese, provinciale, grigiastro, crepuscolare, tipicamente
gozzaniano, verso il quale c'è l'ironia cioè la distanza massima ma allo stesso tempo anche una velata nostalgia, una velata malinconia verso per
quel mondo di cui non può assolutamente più fare parte lui.

Domanda: nel componimento della signora Felicita, il riferimento è alla felicità, che non è quella del poeta. Nel secondo componimento,
l'amica di nonna speranza, a cosa si fa riferimento con la ripresa del concetto della speranza?
Risposta: Speranza è il nome della nonna. C'è un rapporto strettissimo tra i due componimenti: anche qua gioca coi nomi, la speranza evoca il
nome vero della nonna  anche qua è un gioco sui nomi e anche questo è molto molto novecentesco. In questo caso però il gioco vero è su
Carlotta, l'amica di nonna Speranza perché viene evocato il nome di Carlotta che suona come un nome non raffinato: c'è sempre un gioco sui
nomi, che sia Felicita o nonna Speranza, però in questo caso la protagonista femminile è Carlotta, l’amica di nonna Speranza, infatti il titolo non
è la nonna speranza ma l'amica di nonna Speranza. Quindi mentre la giocava anche col nome della protagonista che è Felicita, la signorina
Felicita, qua in realtà quella possibile vocazione nel nome di speranza finisce là perché la protagonista diventa l'amica Carlotta, tanto che nella
chiusa ironizza sul nome Carlotta, un nome né fine né raffinato.
Il solco è quello, cioè tutti i personaggi femminili verso i quali c'è una distanza assoluta sia che sia l’ignorante signorina Felicita della sua prima
adolescenza o le due ragazzine del 1850, presentano tratti sia di ironia che distanza e nello stesso tempo anche un moto di nostalgia
malinconica, è un mondo che il poeta sceglie di mettere in versi non a caso, anche nella sua anti poeticità.
Abbiamo tirato fuori gli elementi essenziali che saranno poi particolarmente influenti sulla poesia del 900 a cui assoceremo le altre due
avanguardie - quella futurista e quindi leggeremo almeno alcuni passi dei manifesti di Marinetti che va nel senso opposto del crepuscolarismo
perché non c’è lo sguardo volto verso il passato ma totalmente inneggiante, glorificando tutto ciò che è moderno e tutto ciò che la tecnologia e
la modernità anche industriale porteranno nella società, quindi una specie di risposta in positivo alla trasformazione radicale dell'Italia (sono
proprio l'opposto dei crepuscolari). In questo caso l’avanguardia risulta essere organizzata e quindi il termine non è troppo forzato quello di
avanguardia, perché Marinetti si mette a capo di un avanguardia, lui dice “noi futuristi”.
Però vi ho anche accennato precedentemente che questa avanguardia dura poco perché già nel ‘12 si sono frantumati e una parte di quelli che
sono stati i più importanti futuristi, cioè quelli Fiorentini – Palazzeschi viene anche da lì - Soffici e Papini molleranno Marinetti e il Futurismo
Milanese in forte polemica perché il Futurismo vuole abbattere qualsiasi elemento di dialogo possibile, anche di rovesciamento della tradizione
letteraria del passato mentre i fiorentini ovviamente, innanzitutto in quanto Fiorentini, vogliono comunque dialogare e non buttare
completamente la tradizione poetica e quindi in realtà poi si sfarinera subito già intorno al 12-13 questa avanguardia marinettiana e il gruppo
dissidente più importante sarà quello Fiorentino con a capo Papini e Soffici che fondano la rivista L’acerba che sarà una delle riviste di marca
futurista, dove inizieranno a scrivere importantissimi nuovi poeti a cominciare da Ungaretti, che pubblicherà molti versi della sua raccolta, che
prenderà il nome molto dopo la prima guerra mondiale di “Allegria”: pubblicherà qui come molti nuovi poeti del primo 900.
Quindi in realtà questa avanguardia organizzata che si presentava compatta nei primi manifesti futuristi già si inizia sbriciolare intorno al 12 e
13.
prossimamente vedremo in cosa consiste questa poetica futurista dicendo subito una cosa: noi leggeremo soltanto alcuni manifesti perché, per
esempio, Mengaldo non mette neanche una poesia né parola di Marinetti, questo perché per lui non ha lasciato niente di duraturo.
Comunque noi possiamo leggere poesia futurista (non di Marinetti) che ha una sua qualità e una sua importanza, come Buzzi, Soffici però
l'elemento più importante restano i manifesti, l’ inneggiare al paroliberismo, non più i versi liberi ma le parole in libertà, quella che loro
chiamano l'immaginazione senza fili, per cui nella pagina poetica ci può essere di tutto, anche i segni matematici, segni geometrici, dei disegni
veri e propri che evocano un certo paesaggio e così via.
Accenneremo poi all'altra Grande avanguardia primo novecentesca, quella che nei manuali scolastici è chiamata frammentismo o avanguardia
dei vociani e diremo perché oggi sembra più giusto ormai parlare di una poetica, di un'estetica espressionista, perché i vari ambiti delle arti si
ritrovano sotto un'estetica comune che possiamo chiamare molto più efficacemente espressionista piuttosto che vociana e frammentista,
esattamente come Futurismo è un tutt'uno con la grande rivoluzione della pittura e della musica per esempio ma anche della scultura e
dell'architettura che si definisce futurista, un dialogo tra le arti molto importante che in particolare per i futuristi - espressionisti dialoga in
maniera assolutamente inscindibile anche con ciò che non è semplicemente letteratura ma arte in un senso molto più ampio. la prossima volta
vedremo almeno nei tratti essenziali cosa intendiamo per Futurismo ed espressionismo.

LEZIONE 14 - 15.04.21
FUTURISMO
Altro volto, il secondo volto delle Avanguardie, contrapposto ai crepuscolari seppur contiguo, è quello dei FUTURISTI. Nasce come falange
armata, per questo si parla di avanguardie, coordinata e voluta da Filippo Tommaso Marinetti e nasce a Milano come movimento marinettiano.

Ma una costola importante, quella Fiorentina, tra il 1912 e il 1913 arriva a un dissidio insanabile con Marinetti e nasce un altro filone, quello
dei lacerbiani, dal nome della rivista di Papini e Soffici. Questa costola fiorentina e lacerbiana fondamentalmente si differenzia perché è
contraria a un annullamento totale, cioè proprio a un incendio totale, di tutta la tradizione non solo italiana,ma plurisecolare, precedente ai
futuristi, quindi un dialogo creativo e rivoluzionario con almeno una certa tradizione poetica, ed ha anche un dissidio insanabile con Filippo
Tommaso Marinetti, perché gli viene rinfacciato il fatto che questo movimento era diventato una espressione diretta di Filippo Tommaso
Marinetti e non di un noi collettivo, vero ed effettivo, così come erano i manifesti.

Cosa volevano i futuristi, almeno a partire dal primo manifesto?


Il primo manifesto, MANIFESTO FUTURISTA, esce nel 1909 sul quotidiano Le Figarò di Parigi. (c’era già stato un percorso
crepuscolare importante dal 1904 fino allo stesso 1109)

Marinetti viene per nascita da Alessandria d'Egitto, grande città di un vivacissimo cosmopolitismo culturale e letterario, tra fine Ottocento e
primo Novecento, come Ungaretti. Però si forma, a livello culturale e intellettuale, spostandosi a Parigi e approda in Italia come Ungaretti, ma
Ungaretti approda a Roma, invece Marinetti resta a Milano. Quindi, come Ungaretti, ha una formazione assolutamente internazionale,
fondata sulla tradizione simbolista e post simbolista francese.

La sua rivoluzione del 1909, poi i manifesti saranno tanti, si riallaccia alle grandi rivoluzioni di fine 800 già nel contesto francese: il
versoliberismo diventa subito PAROLIBERISMO; le avanguardie aperte alla modernità, a un discorso che voglia rendere positivo il rapporto tra
poesia e modernità, esaltato da Marinetti come vero e proprio abbraccio a tutto ciò, e solo a tutto ciò, che rappresenta il futuro, il futuro
della modernità, della modernità industrializzata, della modernità tecnologica…

Lui è a Milano, una delle grandi capitali dell'industrializzazione italiana già fine 900. Già nel primo 900 c’è il triangolo rosso,

Milano- Torino- Genova, quindi non è strano che questo discorso esploda nella moderna Milano, e non a Firenze e non a Roma.

• Qual è la cosa interessante di questi manifesti?


1. la stessa scelta della forma del Manifesto (che non è affatto ovvia): proprio come nella moderna industria si iniziano a utilizzarele
reclame, cioè i comunicati pubblicitari, che venivano stampati su giornali e riviste, così in parallelo il Manifesto Futurista è una sorta di
reclame letterale e culturale, pubblicata su riviste, giornali, quotidiani, infatti ‘’le Figarò’’ è un quotidiano, non è un giornale letterario.
Mengaldo, che è contro Marinetti e i futuristi, ammette che la vera forma vincente di Marinetti e di questo primo Futurismo sono i manifesti,
non ciò che produrranno poi a livello letterario e tanto meno poetico.

 il termine Futurismo viene dall'evocazione del futuro: tutto ciò che è il futuro è positivo. La poesia e la letteratura si devono aprire
al futuro, devono annunciare il futuro.
 Ma deriva anche dalle iniziali del nome e cognome FTM, Filippo Tommaso Marinetti. C'è dunque un eco sovrabbondante di
Marinetti in tutto ed è per questo che molti si staccano da lui in pochissimi anni.
Inoltre Marinetti è uno di quei poeti militanti che abbraccia la causa della guerra. Ritiene che ‘’la guerra è la sola igiene del mondo’’
(definizione orrenda) e per questo abbraccerà con entusiasmo prima la guerra in Libia nel 1911-12 e poi la Prima GuerraMondiale. È un
interventista super infervorato. Questa sua militanza belligerante è un'altra delle cause per cui alcuni dei poeti migliori si staccheranno da lui:
Palazzeschi e Govoni sono per pochissimi anni futuristi e quando Marinetti sposerà l’impresa in Libia e dopo pochissimi anni l'entrata in
guerra lo abbandoneranno.

Marinetti ha centrato su di sé tutta l'elaborazione di un programma che non è solo letterario, ma anche culturale nel senso piùampio e
questo ha portato a varie derive o anche proprio a distacchi dal Futurismo di molti scrittori.

2. Altra cosa importante è l'ideologia. Non solamente un'idea letteraria, ma una ideologia forte, militante è alla base di questi manifesti a
cominciare dal primo. È una ideologia che, dal portare all'incendio di musei e biblioteche, porterà alla fascistizzazione dello stesso
Futurismo che sopravvive a sé stesso anche dopo la prima guerra mondiale. Viene infatti utilizzato da Mussolini, dal potere fascista, e
addirittura quando Mussolini crea l’Accademia d'Italia dà l'investitura solenne di accademico d'Italia proprio Marinetti, che avrebbe
incendiato tutte le accademie.
In realtà moltissimi incendiari della prima ora, cioè prima guerra mondiale, sono poi interpreti di un ritorno all'ordine severo e violento di
marca fascista dopo guerra mondiale: Marinetti è uno di questi.

• I manifesti futuristi sono uno degli esempi più importanti della poetica in senso stretto, riferito solo alla letteratura della poeticadi
Marinetti. I manifesti saranno vari, ne seguiranno altri dopo il 1909, ma quelli più interessanti sono soprattutto quelli appartenenti ad altri
rami della cultura: i manifesti della musica futurista, della scultura futurista, della pittura futurista.
Si ha una prima riflessione sulla musica dodecafonica, la prima riflessione su un'architettura moderna come il razionalismo architettonico (un
esempio l'EUR di Roma, dà un supporto allo svecchiamento dell'architettura), nella pittura c’è la promozione del cubismo che giunge da quelli
che aderiscono a un'estetica futurista. Marinetti sarà scavalcato dopo un secolo nella profonditàe validità della sua rivoluzione futurista da
altre branche della cultura.

 MANIFESTO FUTURISTA, 1909


Questo primo manifesto futurista è notevolissimo già nel primo articolo perché fatto proprio punto per punto, come se fosse unpiano di
guerra.

 punto 1: ‘’Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità’’
Da qui si evince perché piace tanto ai primi fascisti, alle truppe di assalto.
Importante è il ‘’noi’’: non parla a nome proprio, ma parla a nome di un noi collettivo, di una avanguardia organizzata, di un vero
esercito organizzato. E cantano il coraggio fino alle estreme conseguenze.
 punto 2: ‘’il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia’’: è molto ‘’muscolare’’ comepoetica.
 punto 3: ‘’La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo,
l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno’’
Lo ‘’schiaffo e il pugno’’ è una delle definizioni che ha più fortuna di questo manifesto e che viene molto amata dai fasci di
combattimento, quelli che sono la base della futura organizzazione fascista. È un'idea di cultura ‘’muscolosa’’, virile, ed è una
misoginia dichiarata (lo si dice poi in altri punti).
 punto 4: ‘’Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un
automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra
correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.’’
‘’bellezza nuova’’: modernità e tecnologia non sono contro la poesia o contro la cultura, bisogna avere un'idea nuova di bellezza,una
nuova idea di estetica.
‘’la bellezza della velocità’’: È uno dei punti cardini del Futurismo.
‘’automobile’’: a inizio 900 era maschile, non femminile. Ecco perché ‘’è più bello’’ e non più bella. Automobile nella sua
configurazione estetica è più bella della scultura, della più famosa Nike di Samotracia, che ha fondato l'idea di bellezza in tutto
l'occidente. Rifiuta tutta un'idea di bellezza, di estetica e di bello, che ha fondato tutta la tradizione occidentale.
L'automobile, il prodotto più all'avanguardia della modernità prima novecentesca, è molto più bella esteticamente della Nike di
Samotracia, perché ha in sé, alla base, l'idea della velocità. La velocità, il movimento fulmineo, è quanto più affascina i futuristi.
‘’Un automobile… di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo’’: Marinetti si forma a Parigi, in pieno ambiente simbolista e post
simbolista. Per questo anche quando vuole creare una letteratura completamente al di là di questa tradizione, in realtà deve usare un
linguaggio letterariamente che ha in sé una simbologia, dei simboli, assolutamente simbolistici, della tradizione del miglior
simbolismo di fine 800. (Avevano ragione Papini e Soffici). Questo è anche evidente in tutte le opere di Marinetti
Sembra voler revocare una macchina da guerra, tutto evoca qualcosa di bellicoso: la velocità, la potenza, la modernità. Ma hannoragione
Papini e Soffici, i quali ritengono che sia inutile che Marinetti voglia rifiutare tutto ciò che viene prima del 1909, perché è impossibile. Infatti lo
stesso Marinetti usa un linguaggio che affonda le radici nell’ analogia, nel simbolismo su cui si è formato.

… nei punti successivi continua a riprendere la grande sovraeccitazione all'idea dell'automobile, della tecnologia moderna, soprattutto
in quanto potenza e velocità.

 Punto 8:‘’Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare misteriose
le porte dell'Impossibile? il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna
velocità onnipresente.’’
‘’promontorio estremo dei secoli’’: proprio alla fine dei tempi.
‘’perché… Impossibile?’’: anche qui usa un linguaggio simbolista. Impossibile con la I maiuscola indica proprio la personificazione
di un principio astratto. Non esiste una rivoluzione letteraria che in qualche modo non debba nutrirsi e dialogare con la tradizione
precedente.
‘’il Tempo…ieri’’: i futuristi visti come al di là di tutto ciò che era tempo nel passato. Aprono e sfondano le porte di una nuovaidea
di tempo e spazio. Tempo e Spazio con lettera maiuscola sono personificazioni, sono prosopopee e quindi c’è ancora un
linguaggio assolutamente simbolistico.
‘’Noi viviamo…onnipresente’’: è un'idea molto moderna. Il tempo, come è oggi, e lo spazio, come lo pensiamo geometricamente
fino ad oggi, devono aprire le porte invece a un'idea di contemporaneità assoluta e di spazialità in cui non esiste più uno spazio
geometrico classico. È una idea molto moderna, perché siamo alle porte della grande rivoluzione di Einstein, rivoluzione sull’idea
di tempo e di spazio nel 900. Infatti per nuova idea di spazio e di eterna velocità onnipresente si può pensare al cubismo, che ha
un
idea di spazialità completamente diversa, non è più la geometria descrittiva dell’arte precedente, ma è una scomposizione e una compresenza
nello spazio anche di elementi che si sono sviluppati diversamente nel tempo. È un'idea molto moderna di tempo lineare e spazio geometrico,
Marinetti ha delle intuizioni molto moderne e molto novecentesche, infatti le rivoluzioni dellafisica del Novecento concordano con lui. Anche
se, come sostiene Mengaldo, passare da questo principio teorico alla pratica letteraria e poetica è molto diverso.

In Italia arrivò all'improvviso l’industrializzazione forzata. Nel primo quindicennio del 900, Giolitti ‘’accelera’’ una industrializzazione
dell'Italia assolutamente contadina fino a tutto l'Ottocento. Questo ovviamente ha avuto un impatto anche inambito culturale e letterario.

C’è una parte che è stata positiva, tanto che il Futurismo Italiano ha influito sui futurismi che si spargono in tutta Europa. A cominciare da
quello russo, che è simile al nostro, perché la Russia (molto più della Francia e dell'Inghilterra) era contadina finoall'inizio del 900 e la voce
del Futurismo Russo diventa rivoluzionaria perché spalanca le porte alla modernità.

Quindi Marinetti ha dato un'accelerazione a una idea di letteratura che non fosse solo sulla difensiva, in una società
industrializzata e borghese novecentesca che non sa più che farsene dei letterati e tantomeno della poesia.

Marinetti esce da questa posizione di difesa o di pianto nostalgico o di esibizione dell'inutilità (come era già con i crepuscolari), dàuna idea in
positivo. Però, sia in campo letterario che estetico, verranno fatte nei confronti di Marinetti delle critiche, da coloro che vengono della stessa
costola futurista e che ritengono sia impossibile prescindere totalmente da tutta la cultura precedente.

 punto 9: ‘’noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore deilibertari, le
belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.’’
-‘’glorificare la guerra’’: motivo per cui piace alle prime truppe fasciste.
–‘’disprezzo della donna’’: è la misoginia, uno dei cardini del futurismo perché è un'esaltazione di una idea assolutamente viriledella
cultura in generale. È una definizione tra le più famose, insieme a quella dello schiaffo e del pugno.
Tutto ciò che si intendeva per virilità viene esaltato e riversato in questo manifesto da Marinetti.
 punto 10: ‘’noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il
femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.’’
Dopo 10 anni da questo manifesto, Marinetti diventa accademico d'Italia per volere di Mussolini.
Questo punto fa capire benissimo perché poi piacque al fascismo e a Mussolini: sono le idee base che hanno nutrito questacultura
post bellica.
 punto 11: ‘’noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e
polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne;’’
Si evince perché Futurismo Italiano e poi Futurismo Russo saranno apprezzati dai grandi rivoluzionari della rivoluzione d'ottobre e
diventeranno gli amplificatori nella storia reale di questi principi marinettiani del 1909.
Tantissimi altri punti del manifestano continuano ad esaltare la modernità, le officine, quindi esaltano proprio ciò che è modernità
industrializzata. È un'idea di una cultura incendiaria: ‘’incendiare’’ è il proprio la parola che usa più avanti Marinetti. L'idea di incendiario è
quella che esalterà per pochissimi anche Palazzeschi, infatti scrive ‘’l'incendiario’’, un poema futurista in cuiemerge l'idea di incendiare tutto
ciò che è passato.

‘’ritti sulla cima del mondo noi scagliamo una volta ancora la nostra sfida alle stelle!’’ Queste sono le
ultime parole di questo manifesto.
-‘’sfida alle stelle’’: immagine simbolistica.
Queste sono le contraddizioni interne al discorso letterario e poetico di Marinetti, che gli verranno contestate dai suoi stessisodali.

 MANIFESTO 1912
Nel manifesto del 1912, tre anni dopo il primo manifesto, accanto all'immagine dell'automobile viene esaltata l’immagine degliAEROPLANI.
Questi iniziano ad essere utilizzati in maniera notevole già nella famosa impresa Libica nel 1911-1912 e lo stesso Marinetti sarà entusiasta
all'idea di questi aerei usati durante la guerra.

Ma in questo manifesto del 1912 c’è una rivoluzione letteraria: si scavalca completamente il versoliberismo e si arriva al PAROLIBERISMO vero e
proprio, in cui al principio della analogia, che è alla base di ogni tradizione simbolistica (cioè associare adun’immagine una idea che logicamente
e normalmente è totalmente nuova; creare dei richiami analogici che sono stati inventatidalla mente dell'autore), si associa l'idea che ci debba
essere un’analogia anche tra linguaggio letterario, tradizionale e poetico- tradizionale e altri linguaggi: per esempio il linguaggio della
matematica.

 Punto 6: ‘’Abolire anche la punteggiatura… s’impegneranno segni della matematica: + - x : = > <, e i segni musicali’’: dunque
Marinetti dice che al posto della punteggiatura si hanno i segni matematici e musicali.
 ‘’L'analogia non è altro che l'amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di
analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può abbracciare la vita della materia’’: usa
ancora la parola ‘’analogia’’, base di ogni simbolismo e soprattutto post simbolismo.
La letteratura e la poesia, in particolare, devono abbracciare tutta la vita della materia. Per poter abbracciarla tutta quanta nonpossono
non usare un analogismo spinto all'ennesima potenza, e quindi inglobare nel linguaggio letterario le arti visive, la policromia, quelle
polifoniche, i suoni, la musica e le arti polimorfe che possono includere qualsiasi forma.

Così si possono associare alla parola poetica non solo analogie in libertà.

Un esempio è la poesia di Govoni, ‘’Il Palombaro’’, di epoca futurista [pagina 17, Mengaldo]: è la trascrizione di ciò che èscritto nel
Manifesto del 1912. C'è un uso dell'analogia spinta tra il palombaro e una serie di immagini e di idee:

‘’il palombaro viene definito burattino per il teatro muto dei pesci
acrobata profondo
spauracchio’’ …e così via
Qui viene associata l’analogia libera con questa immagine del palombaro e con queste definizioni, pure analogie, del palombaro che
evocano tutto ciò che è sommerso, quindi un’immersione nell’io e nella realtà più profonda.

C’è dunque l’analogismo spinto, ma Govoni va al di là di ciò perché nella realizzazione di questa poesia futurista i disegni sono una parte
fondamentale: sono disegni con didascalia a mano, fatti volutamente con grafia a mano, sono degli appunti con didascalie. Perciò integrano
completamente policromia, polimorfismo all’idea della parola analogica, proprio come dice Marinetti nel Manifesto del 1912.

 punto 11: ‘’distruggere nella letteratura l’<<io>>’’: fine della poetica e dell’ingombrante presenza dell’io poetico, che è di tradizione
romantica (la quale invece poi ha vinto perché ancora adesso la poesia è strettamente unita all’idea dell’io poetico). Per Marinetti è
la materia e il mondo che devono diventare poesia. ‘’sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della
materia’’: non l’io del poeta, non la visionesoggettiva della natura, principio romantico alla base di tutta la poesia moderna e
contemporanea, ma invece l’esaltazione dellapura materia.
 ‘’facciamo coraggiosamente il <<brutto>> in letteratura’’: sono le parole finali di questo Manifesto.
Crolla l’idea estetica di bello, come nel primo Manifesto quando ha detto che le automobili sono più belle della Nike di Samotracia.
Il brutto deve essere parte integrande di questa materia della poesia e della letteratura futurista.

Quindi la conclusione del Manifesto è un'idea di immaginazione senza fili.

Il Paroliberismo vuol dire immaginazione senza fili, immaginazione poetica futurista dello scrivere sulla pagina tutta questa esaltazione
della materia, è una immaginazione che non deve avere confini di nessun tipo.

Domanda: Anche l’idea di brutto, ‘’grottesco’’, alla Hugo, può essere una di quelle contraddizioni interne riferite al simbolismo francese? Si,
c'era già un'idea di brutto e grottesco nella poesia romantica. Ma questa idea nel Manifesto indica un'altra cosa perché è il brutto moderno,
è brutto della materia, come materia delle officine, delle auto, degli aerei e delle armi.

Quindi sì, è vero che il brutto era stato inserito nella poetica romantica, in particolare di Victor Hugo, però c’era una mescolanza di bello e
brutto, che non mandava in pezzi l'idea di estetica occidentale: per esempio in ‘’Notre Dame de Paris’’ c’è Quasimodo, il nano brutto e
orrendo, e c'è lei che è una bella fanciulla.

Hugo aveva introdotto il brutto nell’epoca romantica francese, in Italia invece il brutto era entrato con gli Scapigliati, la scapigliatura italiana.
(per es. Fosca con il fascino del brutto). Però né Hugo né gli scapigliati, con questo inglobare il brutto nell’idea di estetica, avevano buttato via
l’idea di bello con una tradizione plurisecolare. Invece Marinetti vuole violentementebuttare la Nike di Samotracia e prendere solo ciò che è
modernità, ciò che nasce con noi, cioè ciò che nasce nel 1909. È un sovvertimento radicale rispetto a quello che avevano detto Hugo, i
romantici e anche gli Scapigliati italiani.

È un gesto violento e radicale ma poi in realtà non può prescindere, per quanto rivoluzionario, da un dialogo con la tradizione
immediatamente precedente.

 ZANG TUMB TUMB


Il poema parolibero, l'opera parolibera, più famosa di Marinetti si intitola ‘’Zang Tumb Tumb’’.
[Mengaldo si rifiuta di inserirla nella sua antologia].
È una raccolta che esce solo dopo la fine della guerra in Libia nel 1914 (la cosiddetta impresa libica), guerra che Marinetti hasaltato
enormemente e a cui ha partecipato come giornalista corrispondente.
‘’Zang Tumb Tumb’’ è chiaramente un’immaginazione senza fili, sono parole in libertà. C’è l'uso libero dell'onomatopea, è infattil'esaltazione
massima dell’onomatopea, che non ha quel tono leggero e scherzoso che invece è presente nel ‘’Lasciatemi divertire’’ di Palazzeschi. Sono
dunque suoni onomatopeici di guerra quelli che Marinetti vuole evocare.

C’è anche in ‘’Zang Tumb Tumb’’ l’esaltazione della pura allitterazione in Marinetti di guerra.
In Italia già Pascoli aveva usato i puri suoni onomatopeici nella poesia. Ma c’è differenza tra il ‘’frù frù’’ tra le fratte o anche ‘’oveove’’ delle
onomatopee pascoliane e l’opera di Marinetti.
Domanda: Quale fu il rapporto storico tra Marinetti e D'Annunzio? Sono rapporti interessanti che ancora oggi si stanno studiando
attraverso gli Epistolari, perché quello che si vedeva fuori non era sostenuto nelle lettere private.

Una delle cose fondamentali che si sta facendo da qualche decennio è pubblicare tutti gli epistolari, come quello di Marinetti incui, per
esempio, si è scoperto recentemente che nelle sue lettere parlava male di Mussolini. Quindi apparentemente era tuttoperfetto, venne
incoronato da Mussolini Accademico d'Italia, ma in realtà non era tutto così come sembrava.

Gli epistolari di D'Annunzio invece sono ampiamente studiati e pubblicati e per questo è noto che i rapporti con il fascismo e con Mussolini
non sono stati sereni, anzi sono stati tiratissimi. D'Annunzio ha sempre avuto un ego un po' spropositato, si è sempre sentito il vate dei poeti
che arrivavano dopo di lui, quindi anche dei futuristi. È chiaro dunque che non può accettare effettivamente fino in fondo una rivoluzione di
questo genere (infatti non la accetterà). Infatti dopo la prima guerra mondiale ci sarà un D'Annunzio completamente diverso, finisce il
D'Annunzio delle ‘’Laudi’’ e inizia il D’Annunzio ‘’del notturno’’, inizia un'altra stagione che però non è futurista perché D’Annunzio è stato
attentissimo e ha captato tutto ciò che stava arrivando, peròlui negli anni 20 e 30 vuole ancora essere il vate dei poeti. Quindi ovviamente
vive con una forte dialettica il rapporto con il Futurismo e con Marinetti.

Lo stesso Marinetti continuava a mandare le sue raccolte e le sue opere a Pascoli e a D'Annunzio, perché Marinetti ha un ego spropositato
anche a livello letterario e quindi ci tiene all'approvazione dei due grandi vati. Infatti nella biblioteca di Pascoli cisono ancora le opere di
Marinetti, mandate con la dedica assolutamente encomiastica verso Pascoli.

A D'Annunzio, rispetto a tutto ciò che è cultura e anche politica, dall’interventismo, di cui è stato uno degli interpreti principali,fino
all'impresa di Fiume, piace essere in linea con Marinetti. Però dopo la prima guerra mondiale questo rapporto diventa sempre più difficile,
tanto che D'Annunzio si sola completamente, si chiude nel suo eremo sul Lago di Garda, perché in realtà ormai è consapevole che non è
più il vate della letteratura e anche della politica dagli anni 20 in poi. Sopravvive a sé stesso.
Quindi apparentemente c'è un dialogo effettivo e profondo, culturale e politico tra Futurismo e D'Annunzio, in pratica no, D'Annunzio rimane
al di qua di quello che scriverà e farà Marinetti, esattamente come con Mussolini. D'Annunzio prenderà le distanze, si chiude nel suo eremo
dorato, si fa omaggiare in vario modo. Mussolini non ama molto il protagonismo di D'Annunzio. Marinetti riesce invece a strumentalizzare
molto meglio i rapporti con Mussolini e con il fascismo. Quindi sebbene in privato non ne parlasse sempre bene, diventa una specie di nuovo
vate dell'epoca fascista (è un po' come se prendesse in un certo senso l'eredità dannunziana).

Ovviamente cosa pensavano, come interagivano tra loro i protagonisti della scena più virile e nerboruta, Mussolini - D'Annunzio –Marinetti,
cosa pensassero uno dell'altro, dagli anni 20 in poi, diventa molto complicato. Apparentemente fila tutto liscio: Marinetti e D'Annunzio sono il
volto letterario del Fascismo anche degli anni 20; però le cose in realtà erano più complicate,

perché sia D’Annunzio che Marinetti avevano capito le intenzioni di Mussolini.

Nonostante ciò rimangono i volti ufficiali di quella cultura, nel senso più ampio possibile.

Mussolini aveva grandi ambizioni anche letterarie, era un giornalista importante e scrive anche dei romanzi orrendi e illeggibili, sicredeva anche
un grande intellettuale e per questo si vuole mettere alla pari rispetto ai due ingombranti D’Annunzio e Marinetti.

In un discorso strettamente letterario, il rapporto tra una tradizione pascoliano - dannunziana e il ‘’Zang Tumb Tumb’’ di

Marinetti:

- in una pagina del Zang Tumb Tumb, che si chiama ‘’Indifferenza’’, ci sono le parole in libertà e l'immaginazione senza fili.

Queste parole in verticale, come una specie di pioggia di parole, in realtà indicano e vogliono evocare come analogismo spinto, dicui parlava
ancora Marinetti nel 1912, la pioggia di manifestini piccolini che dagli aerei (nel caso dell’esperienza militare e di inviato di Marinetti)
venivano buttati sulla popolazione bulgara, per mostrare che gli occidentali, quindi anche gli italiani, erano dei liberatori. Perché la Bulgaria
viene sottratta in questa guerra, che non è solo la guerra di Libia, all'impero turco, che sta andando a pezzi: si legge il contenuto reale dei
manifestini che venivano buttati dagli aerei sulle popolazioni locali per spiegargli che questa guerra era per liberarli da l'impero Ottomano,
dall'impero turco.

Quindi in questa opera futurista ‘’Zang Tumb Tumb, la più famosa, vi è l'elemento militare e un linguaggio di immaginazione senza fili.

● C'è dunque uno scisma all'interno dell'anima futurista, infatti su ‘’LACERBA’’, cioè la rivista di Papini e Soffici a Firenze, pubblicheranno
poi tutti i più grandi poeti, da Ungaretti a Campana. Per questo diventerà molto più influente della prima rivista di Marinetti (già prima del
Manifesto del 1909), ossia una rivista che si chiamava ‘’Poesia’’ del 1905, in cui è evidente che la tradizione simbolista è ancora fortissima.
Nella rivista Poesia, una delle cose più importanti, che ancora oggi è un documento letterario importante, Marinetti ha descritto(per questo
ha messo radici nel canone poetico) il portato letterario e culturale innovativo: ‘’l'inchiesta sul verso libero’’, pubblicata nella rivista Poesia di
Marinetti, è una delle inchieste letterarie più importanti della poesia del primo Novecento, perché qui vengono interrogati tutti i grandi
scrittori, inclusi Pascoli e D'Annunzio. È proprio su ‘’inchiesta sul verso libero’’ che Pascoli annuncia che lui non sposa il verso libero, ma che
al massimo può accettare l’endecasillabo sciolto, D'Annunzio invece sposa anche il verso libero.
 ESPRESSIONISMO
La terza area delle avanguardie storiche del 900 è quella ESPRESSIONISTA, detta anche FRAMMENTISTA o VOCIANA.

Il termine Espressionismo deriva da una definizione che dà Gianfranco Contini sull’enciclopedia italiana Treccani,
fondata in epoca fascista da Giovanni Gentile. Contini, critico letterario e filologo-romanzo italiano, a cui si devono i
primi studi più lungimiranti e fondanti su Pascoli (grazie a Contini conosciamo Pascoli fuori dal fascismo), su
Montale, su Gadda e su una serie discrittori del 900, dice nella definizione sull’enciclopedia italiana che esistono
due tipi di espressionismo:

un espressionismo storico e un espressionismo metastorico, che ha tra i più importanti esponenti Dante dell'inferno.

• L'ESPRESSIONISMO STORICO è quella avanguardia, non solo letteraria, ma anche estetica del primo Novecento.
In Germania e in Austria esplode dagli anni dieci, mentre in Italia esplode negli anni 20 e nasce soprattutto in
ambito pittorico (poi nella letteratura e nella cultura) e metteva sulla tela, al centro, la rappresentazione violenta e
angosciante di tutto ciò che èla crisi dell'uomo occidentale nel primo Novecento. Quindi ci sono immagini e colori
che evocano angoscia, alienazione, cesura violenta tra l'io e il mondo, ma anche all'interno dello stesso io che si
sbriciola in tante facce.

• Dunque l’Espressionismo è un’avanguardia storica Europea di inizio 900, che negli anni 10 si è affermato,
soprattutto in pittura,in ambito tedesco, in Germania e in Austria, e ha avuto questo nome di Espressionismo. In
Italia invece si ha l’esplosione durantee dopo la prima guerra mondiale.
Con Espressionismo si intende la rappresentazione nell’arte della crisi epocale della civiltà occidentale di inizio 900,
quindi una rappresentazione novecentesca (nel senso che non è puramente descrittiva) della alienazione dell’uomo
del 900, della fratturatra l'io e il mondo e dell'io all'interno di sé. (per es. ‘’Uno, nessuno e centomila’’ di Pirandello).

• L’ESPRESSIONISMO METASTORICO è fatto di linguaggi e immagini nude, violente, crude con delle
peculiarità soprattuttostilistiche e linguistiche.
-Per esempio per Contini si aveva nel Dante dell'Inferno e sono nella centralità del verbo, la parte più importante è
il verbo, e neiverbi che hanno prefissi in S, DE, IN: come stroppiare, scricchiare, immillarsi, sono tutti i prefissi e
prefissoidi che indicavano un'azione di cesura o intensificazione dell'azione violenta del verbo.

-O per esempio per Contini è in tutta una tradizione dialettale e l'altro grande espressionista per Contini è Folengo,
grande autore

dialettale di area veneta del 500, in cui c’è l'espressionismo metastorico.

Dunque importante nel contesto del primo Novecento è l’espressionismo moderno novecentesco.
Per avere un’idea visiva dell’avanguardia espressionistica noti sono i quadri del famoso Urlo di Munch e di Kirchner in
ambito tedesco, i quali sono la rappresentazione pittorica più evidente dell’espressionismo primonovecentesco, della
lacerazione violenta, della alienazione dell'uomo novecentesco, che in Italia viene fuori soprattutto dall'esperienza
traumatica, violenta e lacerante della Prima Guerra Mondiale. Cosi come Egon Schiele e tutti i secessionisti viennesi, i
quali sono gli annunciatori di quel passaggio violento tra una pittura ancora di stampo simbolistico e
l'espressionismo: con le figure contorte per la sofferenza del io,che ricorda più un pupazzo smembrato, o addirittura
con i teschi del cadavere.

In ambito austriaco e tedesco si conosce prima anche l'irruzione della psicanalisi, non solo nella letteratura, ma
anche nella cultura occidentale, perché chi fa poesia nasce nel cuore della cultura mitteleuropea, a Vienna, e nella
letteratura in Austria e in Germania l’alienazione dell’io, la scissione dell’io, la frantumazione dell’io arrivano prima.
La Germania, uscita dalla prima guerra mondiale, letterariamente ha un'esperienza molto simile a quella degli
scrittori italiani che hanno partecipato alla guerra. Questo perché: tutta la politica Guglielmina, cioè la politica
violenta dell'impero Germanico che era stata alimentata anche ideologicamente da fine 800 in Germania, si scontra
con una sconfitta epocale nella prima guerra mondiale, soprattutto con la fine dell'idea di Impero Germanico, cioè
l’impero Guglielmino, e con l'instaurazione della Repubblica di Weimar. Ma la Repubblicadi Weimar, in cui sono le
più grandi utopie della politica postbellica, durerà pochissimo perché, per la paura delle libertà democratiche e
socialdemocratiche della Repubblica di Weimar, dieci anni dopo vincerà Hitler.

Dunque in Germania, cuore dell'espressionismo europeo, c’è una esperienza storicamente sconvolgente: la
Prima GuerraMondiale, la grande sconfitta e la fine dell'idea di una nuova Germania imperiale.
La Germania è nata, dopo dieci anni dell'Unità d'Italia, con la vittoria contro i francesi nel 1970-71. Il sogno
dell'imperatore Guglielmo di creare un impero in poco si frantuma con la prima guerra mondiale, dalla quale viene
fuori un'idea completamente diversa e rivoluzionaria di Germania, cioè la Repubblica di Weimar. È un sogno questo
che dura un decennio ed è anche un sognomolto burrascoso, perché all'interno della Germania la buona borghesia
tedesca è terrorizzata da questa Repubblica con forti presenze socialdemocratiche e anche rivoluzionarie. Infatti poi
avviene in Russia la rivoluzione di Ottobre.

Dunque questo sogno, che arriva anche in Occidente, terrorizza tutte le borghesie, tutti i poteri politici dell'Europa
occidentale,Francia e Inghilterra incluse, perché avviene la rivoluzione proletaria.

E da qui si capisce il perché poi avviene l'ascesa trionfante di Mussolini e Hitler in Germania.

L'orrore della Prima Guerra Mondiale, i grandi sovvertimenti politici e culturali che vengono fuori dalla Prima Guerra
Mondiale,le paure reazionarie di tutta la borghesia e del potere costituito in Occidente, creano un terreno culturale
assolutamente esplosivo e, cinicamente, interessante, perché l'orrore viene sublimato artisticamente in grandissimi
artisti europei, non solo italiani, in pittura, musica, nell'architettura e nella poesia.

LEZIONE 15 - 20.04.21
CLEMENTE REBORA
- Clemente Rebora è stato un grandissimo scrittore e poeta in particolare. Siamo nell’area milanese, dove la poetica
dell’espressionismo è particolarmente presente, in quanto Milano è una città modernissima, sulla buona via di
un’industrializzazione avanzata nel primo 900 ed è anche una città che per gli scrittori si presta molto a tematiche di
scissione dell'io, scontro tra l'io e il mondo esterno, tema dell’alienazione, tema dell'angoscia esistenziale, quindi a
tutto quello che è tematica di fondo dell’espressionismo storico del primo 900. Clemente Rebora vive e si forma nella
Milano del primo 900, ma nasce a metà degli anni ’80. Quindi rientra ancora in quella magica generazione di poeti di
anni ‘80 che ha portato i tre nomi Saba, Montale, Ungaretti. È interprete in pieno di questa poetica espressionistica e
ha un profilo molto particolare dopo l'età delle avanguardie, momento in cui le avanguardie iniziano a perdere peso. Il
suo curriculum poetico porta una svolta decisiva, cioè una svolta propriamente religiosa: Rebora prende i voti e per
questo la sua seconda stagione poetica è molto distante dalla prima, le inquietudini esistenziali in chiave
espressionistica diventano una bellissima poesia di stampo schiettamente religioso.

○ Interessante è il titolo della sua raccolta ‘’FRAMMENTI LIRICI’’ in cui vi è la tematica del frammentismo, tipica
dell'avanguardia espressionistica.

○ Un'altra ricerca molto importante di Clemente Rebora espressionista, quindi cronologicamente all'interno degli anni
20, entro il 1920, è che questa funzione espressionistica si esprime bene nei suoi ‘’Poemetti in prosa’’, il cui titolo è
‘’PROSE LIRICHE’’, fonda l’idea della prosa con la poesia, già il titolo sembra ossimorico.

(Nella Rivoluzione tra fine ‘800 e ancora di più nell’avanguardie del primo ‘900 si ha il verso libero, il prosimetro, cioè
un'opera che ha in sé insieme poesia e prosa, e il poema in prosa → sono tre forme dell'avanguardia del primo
Novecento).

Si ha la tematica della guerra, la Prima Guerra Mondiale, che porterà una produzione poetica interessantissima, a
cominciare non solo dalle ‘’prose liriche’’ di Rebora, ma anche ‘’L’allegria’’ di Ungaretti che nasce dall'esperienza della
Prima Guerra Mondiale. È la stagione degli intellettuali che si arruolano volontariamente per andare a liberare le zone
del Nord-Est, Veneto e soprattutto Trento e Trieste, dall'impero austriaco. Quindi molti intellettuali volontariamente
vanno sul fronte e scoprono l'orrore della Prima Guerra Mondiale che nessuno aveva immaginato, la prima guerra
veramente moderna.

Le “prose liriche” di Rebora sono scritte tra il ’15 e il ’17 e rispondono benissimo a una poetica espressionistica.
94
○ dai FRAMMENTI LIRICI,  ‘’DALL’INTENSA NUVOLAGLIA’’

[Mengaldo pag 254] Per l’espressionismo, come terza avanguardia della poesia del primo 900, peculiare ed
emblematica, di ciò che intendiamo come poetica ma anche come stile espressionistico, è la poesia di Clemente
Rebora dai ‘’FRAMMENTI LIRICI’’ che si intitola ‘’Dall’intensa nuvolaglia”. È un anepigrafo: non ha titolo, ma si usa il
primo verso.

Dall'intensa nuvolaglia frase principale: dal cielo…

giù - brunita la corazza, vi è una lunga pausa con i due trattini: nella poesia del primo 900,
espressionistica e futuri-

con guizzi di lucido giallo, stica, i segni diacritici e i segni di interpunzione sono importanti. L’uso dei trattini
serve ad

con suono che scoppia e si scaglia - inserire delle incidentali che spezzano la frase.

“corazza” indica una metafora di guerra: il grigio della corazza e del temporale
che arriva.

piomba il turbine e scorrazza ‘’Piomba’’: è il verbo principale, arriva dopo una lunga pausa. È tutto sincopato e
angoscian-

-te nel ritmo.

sul vento proteso a cavallo continua la metafora di guerra: “proteso a cavallo” come in un esercito

campi e ville, e dà battaglia; metafora bellica e di guerra: fortemente violenta ed espressionistica.

ma quand'urta una città 2° parte: ‘’urta” stile espressionistico→ climax nella furia del temporale “scorrazza,
piomba, urta”.

si scàrdina in ogni maglia, “maglia”: la maglia di battaglia. Metafora bellica.

s'inombra come un'occhiaia, “si scardina, si’inombra”: arrivo del temporale che dà vita al tuono e ad una luce che si
inombra

immediatamente. Sono i lampi e i tuoni del temporale.

“occhiaia”: similitudine tra il temporale, elemento naturale, e un elemento


antropomorfizzato. Le

occhiaie degli uomini: mescolanza tra animato e inanimato, umano e non umano:
espressionismo

e guizzi e suono e vento “guizzi e suono” ricorda luci e suoni violenti portati dall’arrivo del temporale come se fosse
un

esercito nemico. Dal cielo arriva in terra a dare battaglia, con immagini e suono duri.

tramuta in ansietà chiara metafora dell’angoscia della vita metropolitana, della vita in città.

95
d'affollate faccende in tormento: verso espressionistico nel contenuto: tipica alienazione cittadina. Sono gli uomini
che si

affaccendano in maniera piena di angoscia nelle città moderne: tematica


espressionistica.

e senza combattere ammazza. “ammazza”: verbo fortissimo nell’immaginario e fortissimo stilisticamente. Non
uccide ma

ammazza: è più crudo anche nei suoni, la doppia Z. L’immagine del temporale non
deve fare

guerra perché l’ansietà cittadina ammazza interiormente gli stessi uomini di per sé.

Poesia super espressionistica per le tematiche.

1. Apparentemente c’è semplicemente l'arrivo di un temporale in città, motivo centrale del componimento. Ma
l'arrivo di un temporale in città porta a un'immagine di sconvolgimento di tutta la natura, quindi già c'è un mondo
esterno in subbuglio. Poi l'arrivo in città, città dell’alienazione, ha una carica doppia espressionistica: è un temporale
sconvolgente, detto in termini duri.

2. In quest'unico, grande e lungo periodo c’è una sola vera pausa forte, cioè il “ma”, oltre la metà del componimento.
Non c'è un punto ma solo ;: quindi è molto interessante stilisticamente, perché è come se questo lungo periodo evoca
nel ritmo incalzante e angosciante il sovvertimento naturale, che chiaramente è una metafora di un'angoscia, di una
ansietà che invece è interiorizzata, come diventa più chiaro nella seconda parte. Quindi è un’unica costruzione, un
unico lungo periodo, fortemente ritmato, fortemente angosciante anche nel suo ritmo e anche nei suoi suoni: altro
elemento stilisticamente espressionistica.

3. Ci sono suoni duri, espressionistici: l'uso delle rime, per quanto strano perché non c'è uno schema rimico canonico.

- nuvolaglia scaglia battaglia maglia sono suoni duri, sono delle liquide dure con la ‘’gli’’ si ripete martellante a fine
verso.

- ci sono rime sparse, qua e là lungo il componimento, come corazza scorrazza ammazza, l'ultimo verso richiama le
rime iniziali, questi sono suoni duri con la doppia Z che ritorna incalzante è un suono duro, fortemente
espressionistico.

- appartenente ad una lingua e ad uno stile espressionistico sono le S iniziali, a Prefisso o suffissoide, scaglia scoppia
scorrazza scardina, o anche il prefisso o prefissoide IN inombra (gli ‘’in” che si inventa Dante nell’Inferno): questi sono
elementi linguisticamente e stilisticamente molto espressionistici.

→ motivi espressionistici 1. una natura sconvolta che indica uno sconvolgimento cosmico, un’intensa nuvolaglia che
precipita sulla terra. 2. Una tempesta, la nuvolaglia che arriva in città e diventa metafora di ansietà che è una
dimensione di angoscia esistenziale tipica di una poetica espressionistica. 3. Una struttura espressionistica, un unico
lungo pensiero che come il temporale arriva come un fiume in piena. 4. soprattutto linguisticamente e sonoramente,
suoni e in particolare verbi fortemente espressionistici S iniziale o IN iniziale, tipicamente espressionistici.

Domanda: Che ruolo ha il ; prima del ‘’ma’’? è l'unica pausa forte in un unico periodo, non ci sono punti e inizi di un
periodo nuovo. È un unico periodo in cui l'unica pausa è il ; seguito da ‘’Ma’’. Ma è un'avversativa molto forte, già
Petrarca lo usava per indicare l'inizio di una seconda parte nei “Sonetti”. Serve a creare, almeno all'interno di un unico
periodo, una sequenza tra l'immagine ‘’naturalistica’’ del temporale e la seconda parte con l’immagine cittadina. La
pausa con il punto e virgole e con l’avversativa serve a creare due parti: la prima il temporale che sta arrivando dal
cielo e la seconda l'alienazione cittadina, l’immagine metropolitana.

Domanda: potrebbe ripetere la metafora delle occhiaie? C’è l’inombrarsi del temporale, che da portare luce porta
ombra, come una occhiaia: c’è la similitudine tra il temporale e le occhiaie che sono tipiche di un volto umano, c’è una
antropomorfizzazione del temporale.

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Domanda: Quell’”occhiaia” potrebbe essere un riferimento a ‘’lampo’’ e ‘’tuono’’ di Pascoli? sì certo, c'è tutto un
retroterra simbolistico e post-simbolistico, che per quel che riguarda il fronte italiano è Pascoli, con il ‘’lampo’’ e ‘’il
tuono”. Rebora qui lo ha presente, solo che da un contesto simbolistico come quello di Pascoli, qui c’è uno scarto che
è molto più radicalmente espressionista. C'erano già degli elementi di espressionismo nelle poesie di Pascoli,
soprattutto nell'uso della lingua vi era già una carica di un espressionismo metatemporale, come dice Contini, cioè
quel espressionismo che nasce con l’Inferno di Dante. Però Rebora rende l’espressionismo puramente linguistico,
stilistico e metatemporale in una chiave molto più complessa, che a che fare con l'intero scenario culturale radicato
nelle avanguardie del primo Novecento. Lo scarto è quello tra la tradizione simbolistica, inclusi Pascoli e D'Annunzio, e
il salto nell'avanguardia del primo 900: tutti hanno le spalle e conoscono molto bene la poesia del simbolismo, non
solo italiano, ma in particolare italiano. Però poi c'è tutto il discorso che rende un espressionismo storico quello di
Rebora rispetto al simbolismo pascoliano che ancora evoca significati e un possibile rinvio a simboli collegati con
l’immagini, in Rebora invece c’è lo sconvolgimento molto più radicale e definitivo. Talmente radicale che la crisi, la
rottura nel rapporto tra l'io del poeta e la storia e la società e il mondo circostante e la stessa frattura all'interno del io,
“l’ansietà cittadina”, è talmente forte e sconvolgente in Rebora che porta a una ricerca disperata di una risposta che
trova nella conversione religiosa. Per capire questo salto mortale tra la tradizione simbolista di Pascoli e questo
bisogna considerare un discorso molto più ampio che non è solo stile e linguaggio, poiché questi sono simili tra Pascoli
e Rebora, ma bisogna pensare sempre al fanciullino, che non può più funzionare, un senso molto più ampio filosofico
e culturale per i poeti del primo Novecento.

 STRALCIO, da PROSE LIRICHE

[Mengaldo pag 272] Sono brani dalle “prose liriche”, in prosa, di Rebora. Qui si vede com’è innovativo il discorso di
Rebora.

Semicalmo imbrunire - caligine opalina in faville d'azzurro, sgocciata da un cielo a colpi di spillo: pioggerellina.

È una elencazione ancora una volta apparentemente dell'arrivo di una pioggerella. Non c’è un verbo, c’è l’ellissi del
verso e una costruzione paratattica, non ci sono le congiunzioni. È una costruzione proprio spezzettata per
giustapposizione anche grammaticale. È il periodo poetico fortemente espressionistica e innovativo. ‘’sgocciata’’
participio passato espressionistico.

Sulla terra è già mota, e si spettra.

“mota”: la pioggerellina diventa subito fango. “spettra” è un verbo fortemente espressionistico, le gocce quando
cadono sulle foglie e sulla terra formano una specie di spettro, dei colori, la luce trasparente delle gocce diventa un
piccolo arcobaleno.

Frigge in sordina l'enorme fatica che lavora la rovina.

Un'immagine di una fatica che dà ansia a tutto. Sono immagini durissime perché sono prose scritte sul fronte di
guerra. Il fango, che viene richiamato, è quello in cui vivono e poi combattono, completamente immersi, i poveri
soldati della Prima Guerra Mondiale. È quella orrenda straziante guerra di trincea, per cui per mesi quando arriva
l'inverno questi soldati, che spesso sono anche soldati-poeti, come Rebora o Jahier, vivono immersi nel fango e nella
pioggia. Evoca il paesaggio orrendo di guerra.

Attender l’attesa.

Una figura etimologica fortissima. C’è la stessa radice etimologica ripetuta due volte per indicare l’angoscia, l’attesa
immersi nel fango delle trincee.

C’è un’opera ‘’Con me e con gli alpini’’ di Jahier, un grandissimo poeta e scrittore che ha scritto tutto attorno agli anni
della guerra mondiale, perché è un altro poeta che va in trincera da volontario e scopre l'orrore della guerra. Però poi
scrive questo prosimetro “con me con gli alpini”, un’unica raccolta in cui ci sono versi e una parte in prosa, una delle
opere più belle legate alla Prima Guerra Mondiale, in cui lui esalta questa volta non sono l'orrore della guerra, come vi
è in Rebora, ma anche l'idea della solidarietà tra il poeta Jahier, che è ufficiale degli alpini, e i suoi alpini sottoposti,
che sono invece povera gente, contadini e analfabeti, buttati sul fronte da tutta Italia che muoiono ogni giorno
sostanzialmente dimenticati e sacrificati dagli alti ranghi dell’esercito, ma anche da coloro che continuano a vivere in
città, cioè coloro che non fanno la guerra direttamente e che non hanno idea di cosa stia succedendo. Quindi in

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quest’opera vi è questo tema fortissimo della solidarietà tra il poeta-ufficiale Jahier “Con me e con gli alpini” cioè i suoi
poveri, umili, analfabeti sottoposti, che creano un unico blocco umano insieme al poeta. Nel titolo il centro di tutto è
la congiunzione “con”, quell’unione solidaristica che i soldati non sentono con gli alti ranghi, che li mandano a morire,
e con il resto della popolazione, che in realtà non vede e non sa cosa sta succedendo sul fronte della Prima Guerra
Mondiale, poiché non ci sono ancora né la radio né la televisione a far capire cosa succede.

Così, sui giornali, c'è molta forza d'animo e calma virile.

Rebora ricorda ciò: sul giornale, unico mas media, si diceva che ci voleva forza d'animo e calma. È un linguaggio
dannunziano che veniva usato dal giornalismo per dire “resisteremo”, però gli unici che pagarono morti erano i
poveracci che venivano, mandati spesso con dei piani militari assurdi, sul fronte a morire.

Quindi il fronte tragico, storico e culturale della Prima Guerra Mondiale avrà poi dei risultati poetici fortemente
espressionistici che daranno risultati eccezionali, come nell'opera di Rebora o nell'opera di Piero Jahier.

DINO CAMPANA
- È un poeta molto particolare e di difficile collocazione. “Unius libri”, unica opera e unico libro sono “I CANTI ORFICI”.

- Dino Campana è un poeta che appartiene alla generazione magica degli anni 80, perché è nato negli anni 80, ma ha
avuto una vita molto particolare. Vive una buona parte della sua vita in manicomio e muore in manicomio. Solo grazie
al suo psichiatra viene pubblicata quella che per noi è l'edizione definitiva della sua unica opera “Canti Orfici” negli
anni 30.

- È di difficile collocazione perché Dino Campana, tutt'ora, ha letture molto varie. Per esempio Saba lo definì
semplicemente un pazzo, non un poeta, che scriveva in modo avanguardistico solo perché era folle, e questa è stata
un’idea presente nella critica di tutto il 900. Parte dell'ermetismo e parte delle neoavanguardie invece lo pongono tra
loro maestri.

→ Di particolare ha una tradizione poetica post-simbolistica, evidente nella parte dei versi, in particolare, nel suo
prosimetro, e anche elementi che alcuni hanno definito espressionistici in particolare nella sua prosa.

La prof non è d'accordo e colloca senz'altro Dino Campana su fronte post simbolistico. Tutto il suo immaginario
poetico lo ritiene fortemente post-simbolistico e non espressionistico, perché la poetica dell'orfismo sceglie alla fine
un titolo particolare “canti Orfici”, ma non si chiamava così all'inizio la raccolta, ma si chiamava “IL PIÙ LUNGO
GIORNO”. Se sceglie “canti orfici” evidentemente dà una forte importanza all'aggettivo orfici, rinviando all'orfismo
che, dalle epoche più antiche, indicava quella religione misterica a cui avevano accesso soltanto gli iniziati. Quindi
queste vocazioni sono chiaramente di stampo simbolistico e infatti è un elemento di raccordo tra tradizione simbolista
e post-simbolista e l'ermetismo. Quindi, al di là di alcuni elementi stilistici, che possono essere chiamati
espressionistici, in particolare nella prosa, per la prof ha una forte matrice di stampo simbolistico e post-simbolistico.
→ Dunque la difficile valutazione di questa poesia e prosa, che sembrano scritte da un pazzo, è stata letta nei modi più
vari: alcuni lo pongono in una corrente di stampo espressionistico, altri in una tradizione di stampo simbolistico. La
prof ritiene sia di stampo simbolistico. Anche se l'idea di prosimetro, di mescolanza tra verso e prosa, e spesso la prosa
è quasi più poetica della poesia, è un elemento dell’espressionismo, confondere i margini tra poesia e prosa.

– Mengaldo e Montale considerano più originale la parte in prosa, rispetto ai versi

LA NOTTE [Mengaldo pag 279]

E allora figurazioni di un'antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti al mio
spirito. Rividi un'antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi
gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle
di moschetto sulle sue mammelle estinte.

-È una prosa fortemente visionaria. C’è l’idea del post simbolismo migliore, la tradizione alla Rimbaud.

-In uno stile e in una grammatica completamente avanguardistica c’è una giusta posizione di immagini che sono pure
evocazioni, non c'è niente descrittivo. Nei miti solari, che vengono richiamati, appare un'immagine scheletrica ma
insieme vivente, associata a un corpo: quindi un’immagine di morte, di uno scheletro di un morto. Evoca immagini di
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morte che poi diventano evocazione di immagini di vita nella parte successiva della prosa, in cui al centro ci sono delle
immagini di donne che sono zingare, gitane e insieme il richiamo alle immagini della Pampa, quindi della natura
selvaggia dell'America Latina, che verrà evocata più volte nel prosimetro, perché è uno dei viaggi che compie Campana
e viene solo evocato, non descritto.

-Campana è il vero poeta maledetto, il poeta modì della nostra visione poetica del primo 900.

-Miti selvaggi e miti solari sono una evocazione Nietzschiana: Nietzsche è uno dei padri diretti di questa poesia di
Campana. Campana legge Nietzsche direttamente in tedesco e il suo libro sul comodino, cioè il libro più caro che lui ha
sempre con sé, è “Così parlò Zarathustra”, in cui viene evocata una rigenerazione totale dell'umanità e l'inizio di una
nuova civiltà fondata su nuovi miti solari, miti mediterranei e vitali, contrapposti invece a quei miti che Nietzsche dice
decadenti di Wagner

perché sono miti nordici, di oscurità, passione, di cristianesimo nordico, tipici dell'opera di Wagner.

→ Quindi c’è la contrapposizione tra i miti solari, che sono chiaramente di Nietzsche, dell'uomo nuovo e della nuova
civiltà rigenerata, e tra tutto ciò che era Decadentismo, anche spirituale e culturale per Nietzsche, simbolizzato da
Wagner che inizialmente era stato il suo grande ispiratore, perché Wagner non è solo l'autore della “Tetralogia” o
delle “Valchiria”. Questi miti nordici, che fanno parte della cultura germanica, riportati in auge a fine 800 da Wagner,
all’inizio vedono Nietzsche grande discepolo di Wagner in questa mitologia nordica, quando però diventa una
mitologia più mortuaria, decadente e sostituita da Wagner dal mito di Parsifal, un mito religioso e spirituale, Nietzsche
entra in collisione con il suo maestro Wagner e crea invece dei miti di rigenerazione radicale dell'uomo, anticristiani
(Dio è morto), in cui i miti decadenza spirituale vengono sostituiti dei miti solari, tutti Mediterranei. Quindi questa
evocazione di miti selvaggi e di miti barbari a inizio prosa richiamano tutto il contesto fortemente Nietzschiano che
attraversa l'intero prosimetro di Campana.

- Il primo titolo “IL PIÙ LUNGO GIORNO” deriva da D'Annunzio che a sua volta citava Nietzsche.

- Il mito orfico del poeta Orfeo, cioè colui che è capace di dare vita a tutta la natura e i cui miti possono essere
decriptati soltanto da degli adepti secondo le antichissime sette orfiche, c'entra perché, a questo elemento
nietzschiano, Campana costituisce l'enfasi su questi miti orfici. Il poeta è colui che sà essere l'erede del mito di Orfeo, il
creatore della parola poetica, è colui che dà vita all’intero cosmo e soprattutto l’idea dell'orfismo, cioè del poeta che
parla per enigmi decriptabili solo dai suoi adepti, è un elemento di tradizione fortemente post-simbolista che arriverà
fino al orfismo degli ermetici, come a Luzzi, uno di quei poeti che, a differenza di Montale, accetta Campana tra i suoi
dai suoi maestri più diretti. L’elemento orfico è un elemento che raccorda la tradizione simbolistica a una tradizione
che in Italia diventerà quella dell’ermetismo.

Nietzsche resta il suo modello fondamentale: l’idea di miti barbari, selvaggi, del Sud, solari, che sostituiscono tutti i
miti decadenti nordici, è un elemento nietzschiano. Però nel suo titolo non usa più “il più lungo giorno” ma
nell'edizione definitiva sceglie “i canti orfici” perché l’orfismo fa parte della tradizione antichissima, che si richiama al
dio Orfeo, che è il dio della poesia, è il Dio anche che dà voce a tutte le cose inanimate ed è un mito fortemente post-
simbolistico e poi ermetico. “il più lungo giorno” era riferito a un’immagine di un viaggio di un giorno, un giorno
immaginario e poetico, che attraversa l'intera struttura della raccolta. Era un titolo che richiamava l'idea circolare,
della circolarità dello spazio e del tempo.

-Il titolo viene sostituito. La vita di Campana è diventata mitica e questo non ha aiutato ad essere obiettivi anche nella
lettura della sua opera. Il poeta maledetto è molto affascinante, però non aiuta nell'analizzare l’opera, a prescindere
dalla biografia di poeta pazzo. Campana si sente non capito anche dalle avanguardie con cui entra in contatto, come
quella futurista e quella di Lacerba in particolare. Per questo manda il suo manoscritto, che si chiamava “il più lungo
giorno” a Papini e Soffici perché vuole entrare nei circoli più importanti dell'avanguardia, in particolare della rivista
Lacerba, ma Soffici perde il manoscritto. Quindi Campana, oltre che a perdere qualsiasi fiducia nel contesto culturale
primonovecentesco, riscrive in poco più di un anno la sua opera, il suo prosimetro, e cambia il titolo. Dal manoscritto,
che poi è stato ritrovato negli anni 70, che si dava per perduto da Soffici, che si intitolava “il più lungo un giorno”, lo
chiama “Canti Orfici”.

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Un altro mito che è stato sfatato abbondantemente alla critica: il poeta pazzo, geniale non lo riscrive in base ai ricordi.
Sono stati ritrovati i quaderni in cui lui aveva messo giù gran parte del suo lavoro per “il più lungo giorno” e quindi lui
riscrive quest’opera non semplicemente a memoria, ma basandosi sulle sue carte.

→ Il poeta maledetto, il poeta escluso dai grandi circoli letterari, poeta genio che riscrive a memoria la sua opera, gli
amori difficilissimi con una grande scrittrice, Sibilla Aleramo, hanno reso mitica la figura di Campana. Però questo non
ha aiutato a leggere la sua opera

- Campana è un poeta interessante perché è un poeta sradicato per eccellenza. (in un capitolo del libro della prof c’è
questo). Ha una vita proprio da sradicato, senza terra, gira tutte le parti d'Italia perché nasce nella zona di Faenza,
studia Bologna, si sposta a Genova, da qui si imbarca per andare in America Latina, ha un periodo di prigionia in
Belgio. Però bisogno essere attenti a non mescolare troppo poesia e biografia: molto spesso grandissimi poeti hanno
avuto una vita poco affascinante o grandissimi poeti sradicati e folli non hanno creato grandi opere. Per molti l'opera
di Campana non è stata giudicata un’opera che faccia parte del canone alto della poesia: per esempio da Saba,
Mengaldo dà una lettura molto riduttiva, Montale fa capire che la poesia riprende brandelli del simbolismo italiano ed
europeo, Barberi Squarotti avuto una lettura molto riduttiva.

- è difficile giudicare obiettivamente un poeta come Campana, da giovanissimo attraversato da fortissime crisi, da
quella che prima si chiamava semplicemente pazzia, oggi sarebbe stata analizzata in tutt'altro modo.

[riflessione studente: ad Alda Merini è successa la stessa cosa: passato un secolo da Campana, ancora il mito della
poetessa folle non fa valutare la poesia della Merini. La sua biografia di folle non aiuta ancora adesso a leggere con il
dovuto distacco critico la sua opera. Le valutazioni globali quindi sulla Merini sono ancora varie. Campana al contrario
è più considerato perché viene preso come modello, almeno in parte, dall’ermetismo e paradossalmente anche dalle
neoavanguardie].

LA CHIMERA [Mengaldo pag 280]


Famosissima è la sua prima poesia della raccolta “la Chimera”, in cui si capisce perché appartiene al simbolismo e al
post-simbolismo europeo, ma in cui c’è tanto di D’Annunzio.

- La poesia di Campana è una poesia più a litania, che evoca immagini, suggestioni dei miti. Il mito della chimera è un
mito che circola abbondantemente nel contesto simbolista europeo, lo sfrutta già D’Annunzio negli anni ’80. Campana
quindi sfrutta miti e motivi poetici fortemente simbolistici.

– Per alcuni è una costruzione geniale, sovverte l’ordine naturale delle cose e del discorso poetico.

– Nella Chimera ci sono le caratteristiche stilistiche della poesia di Campana fondata sull'iterazione (per questo si parla
di litania) e sull'anafora: il “non so” ricorrente all'interno della poesia, i “ma” avversativi che ritornano all'interno della
poesia, e la chiusura.

E l'immobilità dei firmamenti


E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Qui vi sono tutte caratteristiche al limite dell’ecolalia, cioè la ripetizione delle stesse parole e degli stessi suoni in
maniera ossessiva, tipici della costruzione orfica che sembra evocare, quasi tramite formule magiche, il mistero della
Chimera. Chiaramente evoca il mistero femminile, della figura femminile, che attraversa tutta di Campana, E insieme
anche la nascita della poesia. Il mito della Chimera è anche associato alla misteriosa nascita in cui c'è l'orfismo di
Campana della poesia. È il poeta visionario, tipicamente simbolista.

GENOVA [Mengaldo pag 286]


– Interessante è il complimento finale che si chiude con una delle città di adozione del senza patria Campana, che è
Genova.

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Una città mito, un mito mediterraneo, è un grande porto mediterraneo importantissimo, ancora più di oggi, a inizio
900 da cui partivano tutte le navi che andavano verso l'America e portavano, ancora nei primi decenni del 900, milioni
di italiani verso l'emigrazione di massa, verso d'America.

- Una città mito della poesia del primo 900 anche di un poeta genovese, Sbarbaro, amatissimo da Montale ed è
presente negli “Ossi di seppia” di Montale, che fa di Genova una delle capitali della poesia del primo 900 insieme a
Campana.

– Campana dedica tutta la parte finale della sua prosa e poesia alla città di Genova, con le immagini del porto al centro
di tutto.

- Genova è una città capitale della poesia anche nella seconda metà del 900, in particolare per Caproni che dedica
proprio una poesia “Litania” a Genova, la sua città e patria ideale, evocando tra i padri della Genova-poetica Campana,
Sbarbaro e Montale perché il genovese Montale mette al centro della sua poesia della prima raccolta il paesaggio di
Genova. Quindi la “Litania” di Caproni è un componimento dedicato a Genova, in qui c’è un omaggio esplicito a
Campana dei “Canti Orfici” e in particolare al componimento che si intitola “Genova”.

– Genova è il componimento più lungo di tutta la raccolta. Già nei primi versi emerge come una poesia della litania,
delle anafore, delle ripetizioni, dell’evocazione di diverse immagini.

Poi che la nube si fermò nei cieli


Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l'anima partita è l’anima dello stesso poeta.
Che tutto a lei d'intorno era già arcana- Uso della Tmesi: andare a capo, spezzare la parola fa parte della tradizione.
Usa stilemi
mente illustrato del giardino il verde in una poesia visionaria, simbolica ed evocativa
Sogno nell'apparenza sovrumana “Sovrumana” qualcosa di divino, metafisico.
De le corrusche sue statue superbe: Statue della città di Genova.
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni Parla tutta Genova, le sue statue, i suoi porti e il suo mare.
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell'aria: innumeri dal mare Evoca un Maggio genovese prima attraverso tutto ciò che c’è di vitale nella
città
Parvero i bianchi sogni dei mattini comprese le statue, e alla fine con un richiamo al mare e al fronte del
porto che
Lontano dileguando incatenare anima la seconda parte del componimento.
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.

– Sono versi fortemente evocativi, non c’è una costruzione logica e sintattica chiusa. Sono giustapposizioni di
immagini, salta completamente qualsiasi sintassi regolare grammaticale ma anche poetica. È tutta una pura
evocazione e sovrapposizione di immagini. Tutto prende vita in Genova, vista come città mediterranea, quindi come
mito Nietzschianamente selvaggio e barbaro,

due aggettivi chiave Nietzschiani e quindi hanno un'idea positiva. Tutto è mediterraneo, tutto è mito mediterraneo e
solare in Genova, è tutto con il Maggio di Genova porta un'idea di vitalità, anche il paesaggio urbano e anche quello
delle statue.

– Di orfico in questa evocazione di Genova ci sono gli aggettivi evocativi e fortemente simbolistici che evocano un
altrove non ben preciso. Tutto evoca da un paesaggio reale urbano qualcosa, un’evocazione di un altrove. Tutto

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questo è fortemente simbolistico, c'era già nella tradizione simbolista e post-simbolistica e sarà ripreso e potenziato
dai poeti dell'ermetismo.

– Per lo spezzettamento totale della logica del discorso, della costruzione del discorso, Campana è stato amato dai
poeti dell’avanguardia, in particolare da Sanguineti, uno dei padri della poesia del secondo 900.

– Campana decide di mettere alla fine dei “Canti Orfici” una piccola epigrafe di chiusa che in realtà è parte di una
citazione della Whitman, poeta amatissimo da Campana. Cita dei versi, cambiandoli un po': Whitman citava il sangue
versato dai soldati americani nella Guerra di Secessione, Campana invece reinterpreta il sangue versato come il
sangue del poeta Orfeo, che viene straziato dalle menadi secondo proprio il mito classico antichissimo e rinasce
incessantemente dalle sue membra sparse. È un mito antichissimo alla base dei miti orfici e dà l’idea del poeta e della
poesia che rinascono sempre, nonostante la morte e l’idea del poeta perseguitato dalla società. Le manie di
persecuzione di Campana, che portano fino alla violenza e che vengono sublimate nella sua poesia, sono
nell’immagine del poeta Orfeo perseguitato e smembrato dalle menadi ma che indica il potere orfico e immortale
della poesia. C’è proprio l’idea simbolistica forte in Campana, motivo per cui la prof lo considera alla fine di un
percorso simbolistico e non espressionistico.

Se si mette a confronto Rebora con Campana notiamo che: se Rebora nelle evocazioni del temporale può sembrare
una specie di Pascoli aggiornato, ma non è così se si confronta con il “fanciullino pascoliano”; invece Campana, con il
mito di Orfeo e con i versi reinterpretati con il mito di Orfeo a chiusura della raccolta, è perfettamente in continuità
con l’idea sacra della poesia e del poeta, che è assolutamente simbolistica.

Domanda: secondo lei c'è collegamento tra la Genova capitale della poesia e la Genova del cantautorato? Sì, quando
si parla di poesia del 900 si possono accostare anche testi di cantautori, come De Andrè. Tutto il cantautorato
genovese, per esempio, mette Genova al centro della loro poesia.
Domanda: Evoca anche “l'Infinito” in cui Leopardi stesso parla di un oltre? Guardano al “sovrumana” nella poesia?
Non tanto. Qui c'è un elemento Nietzschiano fortissimo, in cui si dà vita a tutto. Non c'è il poeta si isola (quello è in
Saba o in Montale), il quale ha davanti la siepe che ferma la visuale e da quel limite nascere immaginazione poetica.
Qua c’è tutta una Genova animata, è un mito solare, mediterraneo, vitalistico, i miti del sud, i miti barbari, che devono
indicare una totale animazione. Tanto che la parte finale di questa stessa lunghissima poesia si chiude sull’immagine
notturna del porto, il passare dal giorno alla notte, un'immagine notturna del porto che è altrettanto vivo con la figura
più animata, la figura della matrona, cioè una prostituta vista come una figura assolutamente positiva da Campana.
“Sovrumana” può richiamare Leopardi, però tutto il resto, tutto l’immaginario, non è leopardiano.
Domanda: quindi si può collegare al “chi sa dove, chi sa dove” di D’Annunzio? Si, c’è in simbolismo dannunziano.

LEZIONE 16 - 21.04.21
DINO CAMPANA
CANTI ORFICI
Autore dei ‘’CANTI ORFICI’’, un prosimetro (versi insieme a prosa). Poeta assolutamente sperimentale che ha diviso i
lettori, poeti e la critica del 900: c’era chi riteneva che la sua prosa e poesia, totalmente disarticolata, fossero opera
solo di un pazzo; invece una buona parte dei lettori e della critica (oggi ha vinto questo versante) riteneva che fosse un
grandissimo sperimentatore sia nella prosa poetica dei Canti Orfici (infatti molti pensano che sia la parte migliore e più
riuscita della sua sperimentazione, a cominciare a Montale fino ad arrivare a Mengaldo), sia per l'importanza
sperimentare e visionaria (un aggettivo chiave) della sua poesia totalmente disarticolata. Questo pensiero vale sia per
alcuni ermetici, come Luzzi, sia per alcuni neo-sperimentali, le cosiddette neoavanguardie del secondo Novecento, ed
entrambi si sono ispirati all'opera e alla visionarietà di Dino Campana.

Nella prosa poetica di Campana vi sono le visioni disarticolate dei miti barbari, miti mediterranei associati a un mito di
un Sud rigeneratore di tutta la civiltà, cioè l'Italia, la Liguria, ma anche le Pampas argentine, quindi l’America Latina
che visita.

-̶ Importante è la poesia finale, la più lunga di tutto il prosimetro, ‘’Genova’’ .

Questo lunghissimo componimento ha ispirato tanti poeti nel secondo 900, i quali hanno scelto Genova come loro
patria reale o ideale, per esempio Sbarbaro come patria reale o Caproni come patria ideale.

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Questo lungo componimento, totalmente disarticolato, fondato sulle interazioni, sulle anafore, si chiude con
l’immagine della prostituta siciliana che si affaccia sul porto di Genova. Un mito positivo, selvaggio, barbaro: aggettivi
campagnani e dunque positivi, che attraversa l'opera di Dino Campana.

• Molti collocano Campana su una linea espressionistica, proprio per la disarticolazione del linguaggio, per la scissione
dell'io, per la scissione rispetto anche al mondo esterno. Ma in realtà sia la prosa poetica che la poesia in versi
liberissimi di Campana è debitrice di una tradizione post-simbolistica, quella più visionaria, da cui derivano le visioni
folli e le accensioni folli della poesia e della prosa di Dino Campana. Al di là della tradizione francese simbolista, due
ispiratore dell’opera di Campana sono Nietzsche, con ‘’Così parlò Zarathustra’’, e Whitman, con ‘’follia d'erba’’.

 Quindi tutt'altro che ovvia come opera sebbene frutto di una tradizione simbolistica vista come il retroterra
naturale della poesia, in particolare del primo 900.

LA SACRA TRIADE: UNGARETTI, MONTALE, SABA. TRIADE DEI GRANDI MAESTRI DEL NOVECENTO.
È riduttivo considerare questi come maestri della prima metà del 900, perché in realtà la loro influenza arriverà fino
alla seconda metà del 900.
Una prima idea da abbattere è il confluire negli anni 30 di queste tre voci, molto diverse tra di loro, in una koinè, in un
linguaggio comune ermetico.

• Primo errore è associare Saba all'ermetismo.

UMBERTO SABA
Saba nasce già nel ’12, quando escono le sue prime raccolte, come anti sperimentale e debitore orgoglioso, nella sua
poesia e nel suo linguaggio poetico, della migliore tradizione italiana, in particolare anche quella ottocentesca, cioè da
Leopardi a Carducci. In pieno sperimentalismo delle avanguardie Saba prende una posizione esattamente contraria.

La sua è tutta una poesia Triestina: Trieste è una delle grandi capitali della letteratura del Novecento italiano.

A Trieste vi era già Svevo, ma ci sono tanti altri scrittori triestini, o comunque che provengono dall'area del Friuli-
Venezia-Giulia, i quali sono stati importanti nel 900. Saba è l'altro grande autore, insieme a Svevo, nella prima metà
del Novecento che ha avuto un'influenza fortissima su tutta la letteratura italiana del Novecento.

Saba sarà richiamato come maestro diretto da Pasolini, Caproni, Penna, da tutta la tradizione del secondo 900.

È stato un maestro fondamentale perché si pone consapevolmente contro una poesia che sia pura sperimentazione.

Si riallaccia alla migliore tradizione italiana, ma la rende moderna, novecentesca: infatti porta in Italia qualcosa di
ignoto, ossia la PSICANALISI. Questa emerge già in Svevo perché a Trieste arriva già nei primi del 900, in quanto è
parte dell'Impero austro-ungarico, parte di quell’impero che vede Vienna come la culla della nascita della psicanalisi.
Dunque come Svevo, Saba si abbevera da questa nuova fonte che è la psicanalisi, ma lo fa in maniera radicalmente
diversa, quasi opposta rispetto a Svevo, perché Saba crede nell’importanza e nel valore ormai imprescindibile della
psicanalisi, infatti lui stesso è in cura per tantissimi anni presso Vice, psicanalista più influente a Trieste, allievo di
Freud.

Questo è importante non solo per un fatto autobiografico riguardante le tante nevrosi di Saba, ma perché in molti
versi famosi Saba scrive che la bellezza della sua poesia si ispira alla bellezza, alla liricità più italiana, e anche
tradizionale, e nasconde e deve sublimare poeticamente gli snodi più oscuri della propria psiche, del proprio io più
profondo.

→ Verso famoso di Saba, che racchiude il cuore della sua poesia e della sua poetica, è ‘’quante rose a nascondere un
abisso’’: le rose sono la bellezza apparentemente fluida e armoniosa della sua parola poetica, che rimane fedele a una
tradizione plurisecolare italiana. Queste rose nascondono un abisso che è l’abisso della coscienza, del subconscio.
Quindi leggendolo superficialmente Saba sembra un poeta addirittura attardato rispetto a tutte le avanguardie che
esplodono negli anni in cui inizia a scrivere, ma invece la sua poetica è una chiave molto moderna, molto
novecentesca, in cui sotto l'armonia (le rose) della poesia si agita un sostrato dell'inconscio, il nodo di tutta la sua
poesia.

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STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE
La storia dell'abisso del poeta viene costruita dallo stesso Saba nei decenni fino agli anni cinquanta, fino alla morte,
nelle sue varie raccolte. Ma Saba fa un'altra cosa molto moderna e interessante: raccoglie e ordina lui, ancora vivo, le
sue varie raccolte in un CANZONIERE. Il modello è Petrarca, il quale dice ancora tanto a Saba e grazie a Saba dirà
ancora tanto a molti poeti del 900. Scrive una ‘’STORIA E CRONISTORIA DEL CANZONIERE’’, così intitola il suo
canzoniere, in cui finge che un critico commenta questa sua poesia. Saba la commenta per spiegarla e per far capire i
tanti malintesi che la critica aveva in realtà interpretato leggendo la sua poesia. Lo stesso Saba riordina le sue raccolte
come fa Petrarca. Esattamente come veniva chiamato il ‘’Rerum vulgarium fragmenta’’ di Petrarca, Saba intitola
quest'opera, che riorganizza tutte le sue opere, ‘’Storia e cronistoria del canzoniere’’ perché oltre a rimettere insieme
tutte le sue raccolte c'è anche una parte di cronistoria, cioè in cui viene commentata la sua poesia da un finto, pseudo
critico.

 Dunque Saba immette in maniera moderna e novecentesca un'idea di canzoniere moderno nella sua storia e
cronistoria, in cui riordina e rimette insieme tutte le sue raccolte, anche con una parte di commento. È un’altra
operazione apparentemente tradizionale, ma che in realtà porta la migliore tradizione poetica nel cuore del 900
italiano.

Tanti sono in realtà gli snodi interessanti e moderni che hanno parlato della migliore poesia del Novecento italiano, a
cominciare dalle prime raccolte che inizia a pubblicare Saba (prima ancora di Ungaretti).

RICAPITOLANDO: elementi importanti di Saba, visti fin ora, sono: storia e cronistoria, tradizione poetica, anti
avanguardismo, importanza della psicanalisi, la poesia come sublimazione nelle nevrosi.

-̶ C'è un altro elemento fondamentale: la sua parte ebraica.

Saba da parte di madre è ebreo, il padre invece era un italiano che abbandona la madre quando rimane incinta di
Saba, quindi Saba non conosce il padre italiano che si dà alla fuga. Vive sotto la figura fortissima della madre e della
legge ebraica. Infatti la figura della severità morale in tutta la poesia di Saba è la figura della madre, la difficile e severa
etica e religiosità ebraica.

È uno snodo interessante, che diventa poetico delle sue nevrosi, perché nella sua poesia c’è questo elemento ebraico
che si contrappone a una spinta alla vitalità, ad abbracciare la vita e il caos della vita cittadina, così com'è nel versante
italiano del padre mai conosciuto, il quale dunque rappresenta la vitalità contrapposta alla severa legge ed educazione
ebraica della madre.

Essere ebrei però significa qualcosa di pesantissimo, soprattutto sotto la dittatura fascista e le leggi del ’38, ma Saba
riesce a non essere catturato dalla polizia fascista, grazie a un suo peregrinare per l'Italia, passando per Firenze dove
viene ospitato e nascosto da diversi scrittori suoi amici, tra cui Montale. Montale infatti scopre tutta la letteratura
triestina ed ebraica già negli anni 20, ignorata dal resto d'Italia e scopre anche Saba, diventa suo amico e grande
estimatore. Montale è uno tra coloro che nascondono Saba, una volta arrivata la legge razziale del ‘38 in Italia, come
fa anche Carlo Levi: c’è una rete di protezione di Umberto Saba.

 Questo snodo biografico influisce moltissimo sulla poesia di Saba che è una POESIA DEL VISSUTO.

‘’quante rose a nascondere un abisso’’ indica una poesia che può sembrare una bellezza di pura ricerca dell'armonia,
ma in realtà è la storia della sua vita; infatti ‘’storia e cronistoria del canzoniere’’ è il titolo che Saba sceglie per la sua
opera omnia.

Anche l’elemento ebraico, non solo rispetto all'idea della severità morale e della legge ebraica, ma anche rispetto al
suo vissuto di perseguitato e di senza terra (scappa da Trieste, che era, insieme a Venezia, uno dei centri più
importanti di vita di una forte comunità ebraica) è uno snodo importante in Saba.

-̶ L'altro snodo importante è quello di una POESIA DEL VISSUTO.

Per Saba, già dalle prime raccolte del secondo decennio, cioè dal ‘12 in poi, la poesia del vissuto indica una poesia di
forte tensione vitalistica, di amore e di comunione con una umanità diversa e caotica rispetto alla sua stessa vita, che
verrà associata poi poeticamente alla vitalità di Trieste, la sua città, e alla vitalità prorompente, sensuale, gelosa e
passionale della sua LINA, il suo grande amore e moglie.

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Infatti una delle raccolte più belle è ‘’con i miei occhi’’ del 1912 e altra raccolta di poesie è ‘’Trieste e una donna’’:
raccolta che indica già nel titolo al centro della sua poesia le due grandi figure; Trieste e Lina passionale, fidanzata e
poi sposa di Saba, sono proprio due figure poetiche centrali e imprescindibili della sua poesia.

La poesia del vissuto è in tutti i grandi poeti, come nella poesia di Montale o di Ungaretti, perché tutti i grandi poeti
sublimano il vissuto, quindi non è una poesia solo di Saba.
Però la differenza è che il vissuto di Saba è un vissuto particolare, perché il vissuto trasposto in poesia è:
1. quello di un senza patria, figura legata alla cultura e vita ebraica nel Novecento e anche prima;
2. quello di una cultura di un italiano, che sceglie di essere italiano quando ancora è sotto un dominio austriaco,
sceglie la letteratura e la poesia italiana quando Trieste è austriaca;
3. quello delle nevrosi che affronta per tutta la sua vita tramite la psicanalisi, da cui però, da questo particolare vissuto
delle nevrosi curate tra virgolette della psicanalisi, viene fuori anche la poesia;
4. quello vissuto tra una figura femminile originale nella poesia del Novecento, cioè la donna passionale e gelosa, per
tanti versi diversissima da lui, associata alla figura di Carmen di Bizet nella sue prime raccolte, quindi Lina, unito
all'altro vissuto fondamentale (oltre a questo amore per Carmen/Lina) che è la città di Trieste a cui Saba dedica diversi
inni "poetici” perché è la città super industriosa, super commerciale, super aperta al mondo; è la Trieste del primo
Novecento in cui Saba si riconosce in quell'aspetto di vivacità, di caos cittadino, in cui riesce a ritagliarsi un suo angolo
di solitudine meditativa.
→ Tutto questo è poesia del il vissuto di Saba, il vissuto è sublimato. Vi sono gli aspetti più importanti che indicano
cosa vuol dire scrivere poesia da parte di ebreo, cosa significa scrivere poesia essendo Triestino quando ancora Trieste
non è italiana, cosa significa scrivere poesia vivendo le proprie nevrosi fortissime, che emergono anche in quello che
lui inizialmente non pubblica come il suo romanzo, “Ernesto”, in cui si scopre una forte componente e tensione
omosessuale che era stata più o meno nascosta da Saba nelle sue infinite nevrosi.

“Quante rose a nascondere un abisso” è il verso che riprende una delle parole di Nietzsche, filosofo carissimo a Saba
(ognuno legge Nietzsche a modo suo e quello letto da Saba non c'entra niente né con quello di D'Annunzio e né con
quello di Campana):questa idea, che è Nietzschiana, è una idea del bello della poesia che però sotto di sé deve avere
un fermento fondamentale che è quello non solo del vissuto, ma anche di ciò che è il represso dentro di sé.

“LA CAPRA”[Mengaldo pag 202]


Per capire tutti gli snodi del vissuto di Saba, che diventa poesia, una delle poesie più famose è “la capra”, una delle
primissime produzioni di Saba, pre 1912, momento in cui inizia a circolare un minimo la sua poesia.

È una raccolta quindi precedente al ’12, in cui viene utilizzata la figura della capra, parte di un bestiario, di una
simbologia fortemente ebraica. Infatti la figura della capra è presente anche nella pittura ebraica, per esempio di
Chagall, ma è usata anche come elemento di sbeffeggiamento dei tratti somatici ebrei nell’antisemitismo fascista.

In questo lamento della Capra c'è il momento in cui Saba riconosce la voce del suo dolore, un dolore non solo di
ebreo, ma di uomo. Quindi nel lamento, nel belato, della capra si ritrova non solo tutta la sua esperienza di uomo, ma
anche l'esperienza di ogni uomo, il grido di dolore dell'uomo in un senso universale e non più solo autobiografico.

È una famosissima poesia degli esordi poetici di Saba, in cui Saba gioca con una poesia liberata.

Non c'è il verso libero delle avanguardie ma c’è l'uso dell’endecasillabo e del settenario, i versi principi della metrica
italiana, e c’è anche un uso forte della rima però senza schemi fissi e canonici nell'alternanza di settenari e nell'uso
della rima. Si ha già un modello di metrica liberata.

Ho parlato a una capra. Richiama il dialogo iniziale con la capra, un dialogo che all'inizio avviene per
‘’celia’’, cioè

Era sola sul prato, era legata. per scherzo. Anche noi oggi giorno diciamo il ‘Beh’ delle capre
scherzosamente.

Sazia d'erba, bagnata

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dalla pioggia, belava.

Quell'uguale belato era fraterno Poi in quel belato Saba riconosce un elemento di fraternità rispetto al suo
dolore individuale

al mio dolore. E io risposi, prima Quindi inizia a rispecchiarsi il dolore dell’io del poeta. Ma il dolore di ogni
singolo uomo è

per celia, poi perché il dolore è eterno, l’eco di un dolore universale che è sempre esistito e sempre esisterà.

ha una voce e non varia. E quindi il pianto della capra, che prima viene chiamato con il belare e poi
diventa un

Questa voce sentiva gemere della capra solitaria, diventa in realtà una voce universale del dolore
universale,

gemere in una capra solitaria. non solo del poeta Saba ma di ogni uomo e di ogni essere vivente del
cosmo.

In una capra dal viso semita Il poeta nel viso semita, cioè nel volto triangolare della capra, elemento che
riprendeva

sentiva querelarsi ogni altro male, tradizionalmente i tratti tipici somatici ebraici, in quel viso che sembra un
viso di un ebreo,

ogni altra vita. sentiva piangere ogni altro male, non solo il suo, non solo quello di tutti gli
uomini, ma di

ogni essere senziente dell'intero universo.

Bellissima poesia in cui un bestiario moderno associa l'esperienza ebraica al dolore individuale di Saba e poi al dolore
universale.

Domanda: potrebbe esserci qui la volontà di ribaltare quell'idea di animali assolutamente imperturbabili e insofferenti
che era presente nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia di Leopardi?

Sì, però attenzione perché in Leopardi non c'erano gli animali che non sentivano. Leopardi alla fine del “Canto
Notturno” chiede al suo gregge “Ma è possibile che voi non sentite niente. Questa è la vostra fortuna”.Però alla fine
dice anche che probabilmente il gregge, esattamente come gli umani, sente e prova il dolore universale.

In Saba c'è tantissimo di Leopardi, perché Saba è un fedele lettore e un fedele difensore della migliore tradizione
poetica ottocentesca, e quindi c'è Leopardi però non è così lontano, non lo ribalta perché anche Leopardi diceva alla
fine il Canto notturno che anche gli animali soffrono.

‘’o forse erra dal vero mirando all'altrui sorte il mio pensiero: (guardando agli altri, quindi alla luna e agli animali, forse
sbaglio) forse in qual forma, in quale stato che sia, (qualsiasi stato si trovi un essere vivente) dentro covile o cuna
(dentro alla culla del bambino o dentro l'ovile dove riposa il gregge) è funesto a chi nasce il dì Natale”

Dunque in realtà non capovolge Leopardi ma riprende il discorso del Canto notturno e sicuramente quel ‘’forse’’ che
chiudeva il Canto notturno di Leopardi diventa in partenza un canto comune tra l'uomo-Saba e la capra.

Chiarimento: L’adesione al belato della capra arriva gradualmente anche nella poesia. All'inizio lui ripete il belato
insieme alla capra ‘’per celia’’, per scherzo, per imitare scherzosamente il belato della capra, poi ritrova il suo dolore, il
pianto. Il belato diventa un querelarsi, cioè un lamentarsi negli ultimi versi. Il dolore suo, dell'uomo-poeta Saba che
però diventa il dolore di tutti gli uomini, e non solo, alla fine diventa il dolore in ogni forma, il querelarsi di ogni male e

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di ogni altra vita. Qua riprende il messaggio finale di Leopardi del Canto Notturno (capiamo da ciò perché Montale
adori Saba).

Domanda: si può rintracciare un messaggio di speranza e di ''consolazione''? No, c’è poca consolazione, Saba è un
uomo che guarda in faccia la realtà. Speranza neanche, c’è un elemento in Saba attaccato la vita, quindi in questo
senso si può parlare di speranza. Però in questa capra, che piange il dolore dell'universo, non ci sono tanti elementi di
consolazione. Il dolore è un elemento che viene sviluppato in tutte le raccolte, anche successive, di Saba. È un dolore
universale, non è solo il dolore nevrotico o ebraico di Saba, è un dolore parte di un dolore cosmico nel senso
leopardiano. Elemento di consolazione e speranza si può trovare per esempio nella figura della Trieste vitale o della
vitalissima Lina o nella figura della figlia, a cui dedicherà moltissima poesia. Però non è questo il messaggio più forte
della poesia di Saba, è più una poesia di condivisione.

→ Per mettere a fuoco questa poesia aiuta l'elemento leopardiano, che è sempre presentissimo in Saba il quale
rimane fedele a una linea del migliore 800 anche in italiano, e l'elemento ebraico, perché la capra fa parte del
bestiario di tradizione ebraica. In un senso di bestiario come si usava nel Medioevo, cioè gli animali che indicavano
qualcosa: da una parte già nella loro forma del viso e della lamentazione, l'elemento della sofferenza degli ebrei in
senso serio, dall'altra lo stesso elemento somatico diventerà un elemento di denigrazione da parte dell'antisemitismo
fascista. Questo è ciò dice che di questa poesia si può dire se si vogliono trovare delle etichette e delle paternità:
quelle più calzanti sono l’elemento leopardiano e l’elemento ebraico, che attraversano buona parte di tutta la poesia
di Saba.

TRIESTE E’ UNA DONNA


[Mengaldo pag 203] Nella raccolta degli stessi anni nel ’12, “Trieste e una donna” c’è già nel titolo, molto indicativo
nella poesia italiana, le due grandi protagoniste della poesia di Saba: Trieste e una donna che è Linuccia passionale e
gelosa.

Vi è la Trieste commerciale, ricchissima, caotica in cui passava il commercio marittimo, la Mitteleuropa del centro
Europa di cui faceva parte del Mediterraneo, dall'Italia in giù nordafricano, fino all'Europa dell'Est, parte anche del
dell'impero austriaco. La vitalità caotica di Trieste è un elemento in cui si ritrova in questa vitalità assoluta anche Saba,
ma lui, poeta meditativo, Trieste lascia un cantuccio, che tutto suo e si trovava anche in questo aspetto più solitario di
Trieste.

Ho attraversata tutta la città. ho attraversato tutta la Trieste popolosa, l'inizio la Trieste bassa, ma
poi lungo

Poi ho salita un'erta, una collina (un’erta) sono arrivato in quella parte solitaria di Trieste

popolosa in principio, in là deserta, chiusa alla fine della città alta

chiusa da un muricciolo: e lì ti ho trovato Il Cantuccio in cui io siedo e medito come poeta.

un cantuccio in cui solo

siedo; e mi pare che dove esso termina

termini la città.

Questa prima strofa ricorda, con l’immagine dell’io che si isola nel cantuccio, ricorda “l’Infinito” di Leopardi. Da questo
si vede quanto Leopardi c’è in Saba, più avanti diventerà ancora più esplicito. Quella di Leopardi è un’altra vita
solitaria.

Saba arriva nel cantuccio solitario chiuso da un muricciolo, come la siepe che chiude la vista, l’orizzonte al poeta e lì
siede, esattamente come il Leopardi dell’Infinito della “Vita solitaria”, e da qui poi medita e crea la sua poesia, come
dice più esplicitamente nelle strofe successive Leopardi.
Domanda: Una sorta di locus amoenus? Sì. Il fatto è che in Saba il locus amoenus è tutto, non è solo l’angolo solitario
(l’hortus conclusus), ma è tutta Trieste, cioè Saba si riconosce anche nella caotica, popolosa Trieste perché c’è un
elemento fortemente vitalistico in tutto Saba (anche il Saba proprio degli ultimi anni). Non c’è solo l’elemento solitario
in cui si chiude il poeta, il locus amoenus, perché lui si ritrova anche nella bellezza vitale del caos della Trieste
popolosa. Questa è una differenza importante, anche perché è un elemento proprio forte della poetica di Saba.
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Domanda: Potrebbe anche esserci un riferimento al cantuccio pascoliano dell’ora di Barga? Sì, c’è anche il Pascoli
dell’ora di Barga, altro poeta che lui ama molto.
Domanda: Si potrebbe fare riferimento al “cantuccio” manzoniano? Sì, perché “cantuccio” è parola manzoniana che
era già stata ripresa da tanti anche nel secondo 900, però l’origine è quella del Manzoni che si trova il suo angolino e il
suo cantuccio nelle tragedie in cui esprime il suo pensiero. C’è tutta una tradizione ottocentesca e tardo ottocentesca
nel cantuccio di Saba, ma l’origine prima è leopardiana (Leopardi è un poeta che ispira moltissimo Saba). Lo abbiamo
già travato persino nel dolore universale e cosmico della sua poesia “La capra”.

Trieste ha una scontrosa


grazia. Se piace,
e come un ragazzaccio aspro e vorace ,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l 'ultima, s'aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l'aria natia.

Trieste è definita, come lui definirà anche la moglie, UNA DONNA: Trieste e una donna, il nome della raccolta.
Ci sono le figure dei fanciulli, che in realtà gli ispirano anche una passione repressa, che sono sempre caratterizzati da
una FIGURA OSSIMORICA in cui un elemento di grazia e bellezza è associato a qualcosa di più inquietante (il famoso
abisso nascosto dalla poesia). Anche Trieste ha una sua grazia, l’elemento vitale che a lui piace, ma anche l’elemento
scontroso, solitario in cui lui pure si riconosce.

In questi ossimori, così ricorrenti in Saba, si riconosce il suo DISSIDIO INTERIORE: il Saba che ama la vita in tutte le sue
forme e insieme ama l’aspetto cupo, l’aspetto represso, l’aspetto doloroso, che è sempre altrettanto presente. Quindi,
è una tipica espressione ossimorica, che tanti altri poeti riprenderanno anche da lui, tra cui la centrale riferita a
Trieste, ma gli stessi ossimori ci sono per la Linuccia e per le figure dei fanciulli: ed è l’elemento di una grazia
scontrosa.

Un ragazzaccio che nella sua bellezza, nella sua grazia, negli occhi azzurri, però non riesce a regalare con altrettanta
grazia un fiore, ma lo fa in maniera brusca, scontrosa.

‘’o come un amore con gelosia’’: secondo tema centrale della raccolta, ovvero l’AMORE DI LINA, che però è un amore
scontroso, pieno di gelosa e di attacchi. Linuccia è rappresentata in questa e nelle raccolte successive anche come la
figura di Carmen di Bizet, un amore vitale, ma anche geloso, di passioni fin troppo turbolente.

Trieste è costruita da due parti: c’è la parte bassa, quella del centro commerciale e del porto caotico e vitale, e poi
tramite la collina si va verso la parte solitaria, che è quella della collina e della chiesa di San Giusto e qui è dove lui
trova il suo

cantuccio meditativo. Il poeta scopre da questa collina appartata tutta la sua bellezza, quella che c’è giù, della spiaggia
ingombrata (cioè del porto pieno di gente e di merci; “ingombrata” vuol dire anche di merci), poi la collina e poi
l’ultima casa prima della fine, della parte alta che ha invocato nella prima stanza.

‘’in questa aria strana e tormentosa’’ della città di Trieste, perché è vitalità è vita, ma è anche solitudine, scontrosità,
cantuccio meditativo, Saba si ritrova. Questo doppio volto di Trieste diventa il volto dello stesso Saba e del suo dissidio
interiore.

La mia città che in ogni parte è viva,


ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita

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pensosa e schiva.

“Cantuccio” parola manzoniana, che però era già stata usata anche da tanti poeti nel secondo 900.
Nel cantuccio il poeta trova l’angolo, che è l’angolo del Saba schivo che osserva la vitalità, ma se ne tiene discosto e
pensoso perché è poeta e meditativo.

Questa è una delle poesie più famose di tutto Saba, ma molte altre poesie vengono dedicate, non solo in questa
raccolta, alla sua città e Trieste entra, come Genova già nei primi decenni del 900, nella poesia e nella letteratura del
900.

Le FIGURE OSSIMORICHE riferite a Trieste, riferite a Linuccia, ma anche a sé stesso, rimangono un marchio di fabbrica
della poesia di Saba e della poesia del dissidio interiore di Saba.

-̶ Un altro elemento interessante della sua poesia si ha con l’arrivo della figlia LINUCCIA: scopre il lato leggero,
giocoso, ancora una volta amorevole, piacevole della vita. Quest’altra figure femminile diventa una figura centrale
nella sua poesia e infatti una raccolta si chiama “COSE LEGGERE E VAGANTI”, poesie ispirate da sua figlia.

Crea, grazie a questa nuova poesia degli affetti famigliari, tutto un FILONE DEGLI AFFETTI FAMIGLIARI che attraversa il
migliore 900 e che si ispira molto al Saba della sua Linuccia moglie e della sua Linuccia figlia. Quindi, una poesia degli
affetti famigliari che toglie tutto quel dolciume, un po' appiccicoso, della poesia del tardo Romanticismo, che si era
ispirata anche alle figure di mogli e figli del secondo 800. Reinventa una poesia molto moderna e molto bella degli
affetti famigliari, che insegnerà molto ai poeti del secondo 900.

○ La raccolta PAROLE è una raccolta degli anni ’30, in cui si riconosce (come per il Montale delle Occasioni) una certa
vicinanza, solo in parte, nella lingua e nello stile al linguaggio ermetico. Ma Saba si scaglia sempre furiosamente contro
i poeti della poesia troppo scura, troppo analogica, come erano i poeti dell’Ermetismo.

○ Infatti in un'altra sua opera, molto innovativa, un’opera in prosa (prosette fatte tipo epigrammi), SCORCIATOIE E
RACCONTINI, in una di queste scorciatoie Saba scrive “poesia ermetica=parole crociate”: quando l’Ermetismo, tra anni
’30 e ’40, estremizzerà l’idea di una parola pura e di una poesia analogica, ogni parola rinvia a un possibile altro
significato in genere metafisico, anche religioso. Dunque quella che sembra una tangenza, tra il Saba di “parole” e il
parallelo affermarsi di una poesia e di una poetica ermetica, lascia il tempo che trova perché invece nel fondo della
sua poesia e della sua poetica Saba rimarrà molto lontano dall’Ermetismo.

ULISSE [Mengaldo pag 231].


È una poesia dell’ultimissima produzione di Saba che è MEDITERRANEE, in cui torna la vitalità del mondo e della civiltà
del Mediterraneo. Saba allarga lo sguardo da Trieste al Mediterraneo, e sceglie ULISSE, come tanti nel 900, come
figura da reinterpretare in una chiave autobiografica e moderna. Ulisse è quello che da giovane, pieno di ardimento, fa
il suo viaggio per mare, così come l’io giovanile che viene richiamato nella prima parte della poesia. A questo segue un
Ulisse vecchio, che nel caso di Saba è l’Ulisse vecchio, soprattutto ma non solo dantesco, che riprende il suo viaggio
per amore della virtù e della conoscenza (come dice Ulisse nell’Inferno di Dante) ma sostanzialmente è ormai un senza
patria, è colui che ritrova e perde la sua patria tante volte, come il Saba degli anni tardi, quando ha attraversato
l’orrore delle persecuzioni antiebraiche in tutta Europa e sulla sua stessa pelle ha vissuto questa persecuzione. È un
Ulisse anche molto ebraico, il senza patria alla perenne ricerca di una patria in cui approdare. Ulisse è tarda poesia di
Saba, in cui vi è l’Ulisse giovane e l’Ulisse anziano.

Nella mia giovanezza ho navigato


lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l 'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l 'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
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sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

La poesia si chiude con un’immagine ossimorica, ‘’doloroso amore’’, che chiude il cerchio.
Gli ossimori, “una grazia scontrosa”; “l’amore doloroso”, sono veramente uno degli elementi forti della poesia e del
vissuto tradotto nella poesia di Saba: vitalità, amore, grazia, però sempre insieme dolore, scontrosità, parte buia e
repressa, e soprattutto dolorosa.

In questa poesia c’è l’Ulisse che rievoca i suoi viaggi della giovinezza lungo le coste Dalmate: evidentemente sono i
viaggi della vera giovinezza di Saba a Trieste, nel mar Adriatico, poi costeggia la costa Dalmata e dove, qui e là,
emergono degli isolotti coperti di alghe, scivolosi, che vengono annullati dall’alta marea (quando c’è l’alta marea si
coprono completamente questi isolotti che si trovano difronte alla costa Dalmate) e le navi devono sbandare al largo
(cioè allargare la loro navigazione) per fuggire alla loro insidia (cioè al fatto che sebbene nascosti, sotto ci siano questi
isolotti contro i quali le navi potrebbero fare naufragio).

→ Questo è il viaggio dell’Ulisse giovane, del giovane Saba.

‘’oggi...’’ esprime la netta bipartizione della poesia, sebbene il componimento non sia diviso in strofe; divisione
rispetto ‘’nella mia giovinezza’’: l’attacco della seconda parte sull’oggi, cioè del Saba anziano.

(Saba è nato negli anni ’80, qua siamo in una poesia dei tardi anni ’40).

“Oggi il mio regno è quella terra di nessuno”: la terra di nessuno è la terra in cui ha navigato coraggiosamente da
giovane.

Saba, con la terra di nessuno, evoca la difficoltà storica della Trieste liberata dagli austriaci, ma ancora sofferente per
una sua collocazione geopolitica difficilissima, che arriverà molto tardi, dopo anche la fine della Seconda Guerra
Mondiale. Quindi, è

una terra di nessuno vera, geografica e politica, quella degli anni ’40, ma è anche una terra perduta, è una terra del
senza patria. Saba: come uomo del 900, come Ulisse novecentesco, ma anche come uomo ebreo che ha vissuto lo
sradicamento e continua a viaggiare cercando una patria ideale.

La figura del senza patria è una figura fortemente ebraica di tutta la letteratura europea, ma che poi diventa una
METAFORA di tutto l’uomo del 900.

In quella terra di nessuno c’è tutto questo: una realtà storico-geografica, riferita a Trieste e a tutti i territori circostanti
che non si riusciva a divedere, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra italiani, forze liberatrici, che per tanto
tempo presidieranno la città di Trieste, e la Iugoslavia di Tito che aveva aiutato a sconfiggere i nazifascisti e richiedeva i
territori anche di Trieste e dintorni e della Dalmazia. Fu uno scontro storico-politico tra i più difficili, anche dopo la fine
della Seconda Guerra Mondiale.

‘’Terra di nessuno’’: richiama una realtà storico- geografico difficilissima, che è quella di Trieste e della Dalmazia, ma
diventa una metafora dello sradicamento dell’uomo ebreo e dell’uomo del 900, che diventa l’uomo di una terra di
nessuno, l’Ulisse di una terra di nessuno.

Ulisse anziano (“oggi”) si trova lontano dai porti a cui approdava sereno nella sua gioventù e continua a essere
sospinto al largo, metafora dell’eterno navigare ormai del senza patria, però con un empito titanico foscoliano (“il non
domato spirito”, sonetto “Alla sera” di Foscolo, altro poeta che Saba ama tantissimo dell’800). È un io senza patria
anziano, ma che continua il suo incessante viaggio anche da anziano, come il Dante dell’Inferno, ma qui non c’è il
naufragio dell’Ulisse (quel naufragio che viene richiamato da Dante fino al Pascoli dell’”Ultimo viaggio” dei Poemi
conviviali) ma è un Ulisse anziano, ma titanico foscoliano, che anche nella sera della sua vita continua a viaggiare
perché ha quella brama dentro che ruggisce, come scrive Foscolo nel sonetto “Alla sera”, che lo porta ancora ad
amare la vita di un amore doloroso, sempre unito anche alla voce opposta.

Domanda: “Lo spirto guerriero che entro mi rugge” del sonetto “Alla sera” di Foscolo? Sì. Gli amatissimi poeti dell’800,
ormai nel cuore del 900, negli anni ’40, ancora illuminano la poesia di Saba, Foscolo e Leopardi quanto di più
tradizionale. Apparentemente si può dire che è un reazionario in poesia, un conservatore, ma non è così perché riesce,
senza sposare nessuna avanguardia, a portare nella poesia del 900 il meglio della poesia dell’800 revitalizzandola,
110
rendendola moderna.
Domanda: In questa poesia, può essere ripreso anche il modello sempre foscoliano, della morte del fratello Giovanni?
Vagare per le acque alla ricerca di qualcosa che è morto? Sì. Saba diceva: “faccio mio quel filo d’oro”, è l’immagine
scelta da Saba della migliore tradizione italiana, anche classica. Lo chiama proprio “il filo d’oro”, quindi c’è anche tutto
quell’altro coté foscoliano e di rimando classico che Saba conosce molto bene.

Se però c’è, analizzando gli snodi essenziali, un elemento fortissimo, oltre quello foscoliano, è quello del mito di Ulisse,
che nel 900 verrà attraversato da quasi tutti i grandi scrittori, romanzieri e poeti, e ognuno mette il suo sassolino nella
sua interpretazione dell’Ulisse. Saba è uno dei più grandi perché riesce a fondare una tradizione plurisecolare,
soprattutto Foscolo con alle spalle tanto altro, insieme all’Ulisse di Dante, insieme all’Ulisse che viene riscoperto da
tanta poesia italiana anche di fine 800, incluso “L’ultimo viaggio” di Pascoli, però gli dà una chiave tutta sua, che è essa
piana, riscopre da vecchio anche la vita e il doloroso amore della vita e anche quell’eterno, quel viaggio senza un
approdo definitivo che è una metafora del viaggio tormentato dell’uomo del 900 e ancora di più di un poeta
espressione anche di una tradizione ebraica.

Domanda: Nella poesia del vissuto e del dissidio interiore di Saba può esserci anche una scia del “Nulla stringo e tutto
il mondo abbraccio” petrarchesco? Sì. La tempesta della vita e la ricerca del porto quiete c’è in Petrarca del
Canzoniere. Dietro tutti

questi, c’è una tradizione plurisecolare, “il suo filo d’oro”, che nella tradizione italiana parte dai grandi Petrarca e
Dante e arriva, attraverso Leopardi e Foscolo e Carducci e in parte anche Pascoli, fino al 900. Dietro c’è anche Petrarca
e la metafora del viaggio in tempesta e della ricerca dell’approdo finale, quieto e rasserenante, che è una delle
metafore più usate da Petrarca nel

Canzoniere. Il fatto che qua è fortissimo, stilisticamente e linguisticamente, è perché Saba mette una specie di
evidenziatore in questa metafora, che è una metafora che attraversa quasi tutta la nostra tradizione occidentale. Saba
mette l’evidenziatore sull’elemento foscoliano, tanto che lo mette alla fine “il non domato spirito” che ancora rugge
nell’anziano Saba-Ulisse.

Domanda: Possiamo paragonarlo anche all’Ulisse di Primo Levi nel “Se questo è un uomo”? Sì. Ulisse è uno dei
personaggi più utilizzati e riletti e ognuno a suo modo dai grandi scrittori del 900, non solo italiano.

A cominciare da Joyce negli anni ’20, anche se è utilizzato già nel secondo 800. Il mito di Ulisse da reinterpretare in
chiave moderna inizia nel secondo 800 europeo, il poemetto “Ulysses” di Tennyson, e ritorna poi in tutto il 900
italiano. Quindi, ovviamente anche la lettura del famoso canto di Ulisse di cui scrive Primo Levi in “Se questo è un
uomo” centra con le riletture

di Ulisse, però è diventata una metafora e un simbolo dell’uomo, ma dell’uomo del 900 in tutta la letteratura. C’è
Primo Levi, c’è Pascoli, c’è T.s. Eliot. Saba è stato uno dei grandi reinterpreti del mito dell’uomo occidentale,
dall’antichità in poi, che è Ulisse.

Ecco gli snodi essenziali dell’Ulisse e le chiavi di reinterpretazione di questo Ulisse, dal giovane Ulisse al vecchio Ulisse.

Attenzione a non appiccicare sempre tutto con tutto. L’Ulisse di Saba e l’Ulisse di Primo Levi, lasciano un po' il tempo
che trovano quando generalizzano e accostano elementi che sono comuni a tutto un territorio plurisecolare nel caso
di Ulisse, ma soprattutto novecentesco che è stato utilizzato nei contesti e con i significati più diversi da quasi tutta la
migliore letteratura italiana ed europea. Quindi, nelle similitudini e negli accostamenti bisogna cercare sempre
filologicamente, cioè in quello che c’è veramente nei testi e in cosa è stato utilizzato nei testi, di trovare accostamenti
quanto più possibile filologicamente fondati. Certi temi, certi simboli, certi miti, Ulisse è un mito, è un mito
occidentale, è l’uomo occidentale.

Umberto Saba e Primo Levi sono entrambi di origine ebraica. La chiave di lettura ebraica c’è perché nell’Ulisse che
trova una terra di nessuno, lì dove prima c’era la terra che lui poteva tranquillamente visitare e fermarsi, c’è la
metafora ebraica. Ma tutta la migliore letteratura ebraica, soprattutto post-concentrazionaria, ha utilizzato la
metafora di Ulisse che nella sua navigazione, anche quando è una navigazione pericolosa e tarda, trova una risposta
giusta, che è quella di seguire sempre virtù e conoscenza. Questo accomuna Saba a Levi, ma Levi non ha bisogna di
Saba per utilizzare il mito di Ulisse in “Se è un uomo” e viceversa, perché è una poesia che esce prima del romanzo di
Levi. È chiaro che poi è stato utilizzato tanto soprattutto dalla letteratura ebraica, anche perché molti finiscono nel
111
naufragio e nella morte e il racconto dantesco del vecchio Ulisse, che riprende eroicamente il suo viaggio, ma poi
finisce per morire, per scagliarsi contro l’isola e morire. Il naufragio dell’Ulisse di Dante è l’altra faccia del racconto
ebraico: è quello del viaggio che si scontra contro la non risposta della storia, dell’umanità e di un naufragio senza
risposta.

Leggere il bellissimo e lunghissimo poemetto di Pascoli: “L’ultimo viaggio” nei Poemi Conviviali. È uno dei tanti volti
sconosciuti della poesia di Pascoli. I Poemi conviviali sono una raccolta dove Pascoli reinterpreta tutta la letteratura
classica e anche i miti della classicità, incluso quello di Ulisse e dell’Odissea, tanto che divide il suo componimento, il
suo lungo poema, in 24 canti. È l’Ulisse di Dante che fa naufragio, alla fine della sua navigazione tarda, chiede (si è
interrogato per tutto il componimento sul senso della sua vita e anche dei suoi viaggi mitici della gioventù) alle sirene
una volta che se le trova davanti: “Ma ditemi almeno chi sono io? Chi ero?”. La domanda esistenziale che è dell’Ulisse
vecchio, ma è dell’uomo che cerca una risposta ultima quando sta per morire e non avrà nessuna risposta. Le sirene
restano silenziose, e lui muore, fa naufragio senza avere avuto risposte dalle sirene. Questo è l’altro volto dell’Ulisse
del 900 e che sarà anche molto ebraico. Da una parte è l’Ulisse che è anche proprio la lettura del poema dantesco che
dà senso alla vita disumana nei campi di concentramento, recupera l’umanità lì dove c’è il disumano (questo è Primo
Levi e il suo recitare a memoria il canto di Ulisse); dall’altro c’è anche il mito dantesco, che è il mito del vecchio Ulisse
che poi muore, fa naufragio, che ha sbagliato o comunque non ha trovato una risposta. Questo è uno degli altri volti
dell’Ulisse del 900: è l’Ulisse che fa naufragio e non ha risposte. Anche questo è stato attraversato, a cominciare da “Il
silenzio delle sirene” nei racconti di Kafka, che reinterpreta un altro versante pessimistico del mito di Ulisse nel 900.
SUGGERIMENTO DELLA PROF: Vedere una serie letteraria dedicata a Giovanni Pascoli, per provare a rompere lo schema banale del
Pascoli delle piccole cose e del nido, che si chiama “Un narratore dell’avvenire”. È un documentario con studiosi di Pascoli,
immagini di Pascoli, ci sono le fotografie (Pascoli era un appassionato di fotografie, scopre la fotografia, le prime codax). In questo
documentario vengono mostrate tante foto scattate da Pascoli e tanti disegni fatti da Pascoli. È un documentario molto istruttivo.
L’Ulisse di Pascoli non ha nulla da invidiare a tanti altri Ulissi novecenteschi del resto d’Europa. Nel vecchio Ulisse di Saba c’è anche
l’Ulisse di Pascoli.

Questi sono gli snodi essenziali per capire perché Saba è stato un grandissimo del 900 e non solo della
poesia del primo 900. Ritroveremo dei fili sabiani nella poesia successiva del secondo 900: Pasolini, grande
cultore della poesia di Saba; Caproni; Penna.

GIUSEPPE UNGARETTI
L’altro grande è Giuseppe Ungaretti.
Saba, Ungaretti e Montale nascono tutti, a differenza di un po' di anni, negli anni ’80: il decennio d’oro della nostra
poesia del 900, chi nasce negli anni ’80 è baciati dalla stella della poesia.

○ Ungaretti inizia già a pubblicare le prime poesie in quel piccolo nucleo del 1916, pochissimo tempo dopo gli esordi di
Saba, in quella micro raccolta che si chiama IL PORTO SEPOLTO. “Il porto sepolto” lo spiega lo stesso Ungaretti, che è
un grande ‘spiegone’ di sé stesso (a differenza di Montale che gioca a depistare i critici, invece, Ungaretti ci tiene
molto a spiegare

seriamente la sua poesia). Infatti Ungaretti spiega il perché ha chiamato così la raccolta: perché faceva riferimento al
mitico porto sepolto della città di ALESSANDRIA D’EGITTO (città in cui lui cresce e passa la sua infanzia), ma il porto
sepolto di Alessandria

evoca anche tutta quella parte sepolta dentro di lui. Anche lui richiamerà moltissimo l’ELEMENTO DELL’INCONSCIO
come una parte importante della sua poesia, come tutta la letteratura del 900 necessariamente farà.

La grande scoperta dell’inconscio è una delle grandi rivoluzione del pensiero e della letteratura del 900.

Nel porto sepolto, in questa prima raccoltina, si hanno due motivi e luoghi ideali della poesia di Ungaretti: Alessandria
d’Egitto, che è un mito di una terra dell’innocenza e di un’infanzia dorata, desertica che viene evocato fino alle ultime
raccolte. Ungaretti muore all’inizio degli anni ’70, vecchissimo, e continua a scrivere poesia e a essere il VERO SENEX
PUER, espressione latina che vuol dire il vecchio che ha dentro di sé ancora il fanciullino poetico, e il mito di
Alessandria d’Egitto dell’infanzia, dei deserti, del sole dell’Egitto, visti come una terra persa dell’innocenza, tornano
fino alla fine della sua poesia anche da vecchio. Questo è uno dei temi. Questi sono gli snodi centrali che tornano in
tutto Saba, in tutto Montale, in tutto Ungaretti.
112
→ Il mito poetico della terra dell’innocenza, che in Ungaretti fino alla sua vecchiaia è il ricordo, e la ricostruzione
poetica dell’Alessandria d’Egitto della sua infanzia, sono uno degli snodi che lo accompagnano.

Quindi questa piccola raccolta del 1916 che ricorda la sua Alessandria d’Egitto.

-̶ Ungaretti va a Parigi, un'altra città importantissima per lui, per formarsi da adulto e qui conosce tutte le avanguardie
artistiche e poetiche del primissimo 900, che sono fondamentali nella sua formazione poetica, per capire la sua prima
raccolta: L’ALLEGRIA. -̶ Questa esperienza a Parigi, insieme all’altro snodo esistenziale fondamentale, l’Italia a cui
approda, l’Italia dei suoi avi della zona di Lucca, una zona molto povera ancora a fine 800 e primo 900, terra di
emigrazione fortissima (lo racconta Pascoli),che è la Garfagnana vicina ai monti del lucchese. Torna nella patria dei
suoi avi, lui non è mai vissuto in Italia, è nato in Alessandria d’Egitto, che era terra di emigrazione idegli italiani a fine
800, dove si sta costruendo il canale di Suez e molta manualanza viene dall’Italia degli immigrati.

Quindi, dalla patria Alessandria d’Egitto; alla seconda patria ideale la Parigi dove lui si forma e si crea una cultura
assolutamente moderna, come pochi poeti potevano permettersi da giovanissimi nel primissimo 900; approda poi in
Italia dove partecipa come volontario alla Prima Guerra Mondiale.

○ Qui c’è uno snodo fondamentale della poesia e della letteratura più avanguardistica del primo 900 (come per
futuristi e per espressionisti), ovvero la stupenda raccolta che è L’ALLEGRIA, che viene fuori anche e soprattutto
dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale.

- L’allegria ha una lunghissima rielaborazione da parte di Ungaretti, la prima edizione è del 1919, esce proprio a
ridosso della fine della guerra e dell’esperienza terribile della guerra sulle alpi orientali che fa Ungaretti. Il primo titolo
era ALLEGRIA DI NAUFRAGI, usa un ossimoro.

C’è uno snodo fondamentale della poesia di Ungaretti: l’allegria indica l’ELEMENTO VITALISTICO, che lui riprende dalla
filosofia di Henri Bergson. L’elemento vitalistico dell’allegria unito al NAUFRAGIO che è il naufragio della storia, della
Prima Guerra Mondiale che lui sperimenta in prima persona.

- Questa fusione dell’elemento vitalistico (l’allegria) e del trauma storico della Prima Guerra Mondiale attraversa tutta
la famosissima poesia fatta di ‘’versicoli’’ (così li chiamerà lui stesso), cioè versi che nelle varie edizioni, fino
all’edizione degli anni ’30, tende a rendere sempre più essenziale. Ungaretti tra il ’19 e gli anni ’30, continua a rivedere
anche proprio la lingua e lo stile di questa sua raccolta, togliendo (è tutto un lavoro a levare, a prosciugare la sua
parola poetica), e ciò lo porta anche a prosciugare il titolo della raccolta, togliere gli elementi evidenti della vitalità e
della morte del naufragio e usare soltanto il primo termine: ALLEGRIA.

L’effetto è scioccante: il titolo ‘’Allegria’’ fa immaginare tutta una poesia assolutamente vitale e invece su scopre una
poesia lapidaria, terribile, dell’esperienza della morte e della guerra in trincea.

○ Ungaretti ha lavorato a togliere e a rendere molto più evocativa la sua parola, come farà per tutta la sua raccolta
dell’Allegria di naufragi del 1919, fino ad approdare a una PAROLA FORTEMENTE EVOCATIVA e ERMETICA.
L’Ermetismo si afferma negli anni ’30 e questo non è casuale perché Ungaretti, quando sta ancora lavorando
all’Allegria, sta già scrivendo, pubblicando e rivedendo (Ungaretti è stato chiamato il POETA DELLE VARIANTI perché
incessantemente rivedeva, cambiava e cancellava la sua poesia nei decenni) la seconda raccolta SENTIMENTO DEL
TEMPO che alla fine diventa coeva, cioè vengono tutte e due fuori soprattutto negli anni ’20 e negli anni ’30.

 Anche la differenza scolastica, quella barriera, che viene utilizzata tra un PRIMO UNGARETTI, quello dell’Allegria, e
un SECONDO UNGARETTI, quello di Sentimento del tempo, che è la raccolta che ispirerà direttamente l’Ermetismo, è
piuttosto fasulla. È fasulla già la cronologia perché inizia a scrivere e a pubblicare ‘’Sentimento del tempo’’ nei primi
anni ’20 quando ancora sta lavorando alla prima raccolta ‘’Allegria di naufragi’’ e ancora per molto, parallelamente al
lavoro sull’Allegria di naufragi, continuerà a lavorare anche su ‘’Sentimento del tempo’’.

-̶ Avendo avuto una vita molto lunga, anche di poeta, importanti sono gli snodi essenziali.

L’allegria e i versicoli dell’Allegria, vengono fuori non solo dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, ma anche da
una poetica che è debitrice ancora alla tradizione post simbolistica francese, che Ungaretti conosce benissimo perché
si è formato a Parigi quando esplode una poesia di marca postsimbolista. I silenzi, per esempio, della poesia di
Mallarmé, il più evocativo di tutti, diventano i silenzi, lo spazio bianco della poesia del Primo Ungaretti dell’Allegria,

113
ma anche di Sentimento del tempo. Insieme alla tradizione simbolistica nell’Allegria c’è anche l’esperienza migliore
delle avanguardie poetiche francesi, ma anche italiane.

Lo spezzettare la parola in una maniera quasi futurista non è casuale. Le prime poesie di Ungaretti dell’Allegria e pre
Allegria, ‘’ il Porto sepolto’’, non a caso vengono pubblicate sulla rivista LACERBA che è la rivista fiorentina di Papini e
Soffici, cioè dei futuristi secessionisti. Quindi, capiamo anche lo stile di questa poesia fortemente evocativa, come gli
ha insegnato la poesia simbolista francese, ma anche fortemente sperimentale nel suo discorso spezzettato, nel suo
lasciare uno spazio ampio anche al silenzio, secondo una dimensione di avanguardia italiana molto importante. I primi
che sanno apprezzare la poesia del primissimo Ungaretti sono i poeti e scrittori della Lacerba di marca soprattutto
futurista.

-importante per Ungaretti è Henri Bergson, il vitalismo di Bergson. Ungaretti a Parigi segue le lezioni del filosofo
Bergson.

- l’influenza che l’Ermetismo ha con Ungaretti e perché si intreccia questa prima raccolta dell’Allegria con quello che
viene considerato il Secondo Ungaretti, che hanno proprio una specie di barriera di ferro.

- In “Sentimento del tempo” da una parte si ha l’evocatività fortissima della parola che estremizza qualcosa che era già
iniziata con la parola essenziale, con i versicoli, con i silenzi, con la pagina bianca dell’Allegria; e dall’altra parte in
questo Sentimento del tempo c’è anche quel ricostruire la parola e il discorso poetico, secondo un recupero di una
tradizione soprattutto petrarchesco-leopardiana, che sarà il secondo volto di questa raccolta. Da entrambi questi volti,
cioè dall’Ungaretti essenziale, della parola evocativa, del silenzio, dello spazio bianco, e insieme dall’Ungaretti che
recupera una nuova chiave (la migliore tradizione poetica italiana), e da questo Ungaretti che fonde questi due
elementi, verrà fuori il meglio della linea ermetica che a questo Ungaretti si ispirerà direttamente.

LEZIONE 17 - 22.04.21

GIUSEPPE UNGARETTI
La prima raccolta ALLEGRIA parla della vita vissuta dal giovane Ungaretti.

- Prima fase importante della vita di Ungaretti è la nascita ad Alessandria D’Egitto e quindi la fanciullezza in questa
terra, che lui avrà sempre cara in tutta la sua poesia, anche negli ultimi decenni ormai da senex puer. Questa terra
dell'innocenza, questa terra del Sole che è Alessandria.

- Il secondo momento importantissimo nella biografia intellettuale di Ungaretti sono gli studi nell’Università di Parigi,
dove forma una cultura amplissima e aggiornata. Questo perché a Parigi entra in contatto con tutte le più importanti
avanguardie del primissimo ‘900 e, tra l'altro, qui frequenta le lezioni dell’importantissimo filosofo Henri Bergson che
per tutta l’Europa, tra fine ‘800 e primo ‘900, diventerà un punto di riferimento fondamentale nella sua idea di una
memoria creatrice, idea dello slancio vitale e memoria involontaria. Sono idee che sono poi alla base di buona parte
della migliore letteratura del primo Novecento europeo. Bergson fa parte di quella grande schiera di fine ‘800 di
filosofi che con la crisi del positivismo aprono la strada a un contesto filosofico irrazionalistico. Qui convergono tutte
quelle idee di un fortissimo recupero della matrice idealistica filosofica a cui apparterrà anche Croce, quindi tutto il
contesto anche culturale e filosofico italiano.

Con la filosofia di Bergson, da cui Ungaretti ne sarà affascinato, si ha un tema centrale che è quello dello slancio vitale
e di memoria involontaria.

→ lo slancio Vitale è proprio quello che, nella crisi del tutto, quindi nel contesto filosofico post crisi positivismo, si
fonde fortemente su una dimensione soggettiva per cui è il soggetto, attraverso uno slancio vitale irrazionalistico, a
recuperare una dimensione di significato sebbene assolutamente soggettiva.

APPROFONDIMENTO CONSIGLIATO:

FILOSOFIA DELL’IRRAZIONALISMO: Nel primo ‘900 cominciano a essere presenti dei movimenti irrazionalistici, tutti questi movimenti
irrazionalistici trovano la loro base filosofica proprio nel fatto che il positivismo, il progresso sfrenato, in realtà mostra la sua
inconsistenza. Si passerà dall’ottimismo positivistico caratterizzato dal progresso che porta alla felicità, (epoca della Belle époque),
all’irrazionalismo e al vitalismo filosofico; quindi l’uomo si accorge che in realtà queste cose non gli danno la felicità, allora non può
far altro che pensare che non è vero che il progresso e la ragione daranno la felicità, ma daranno altre cose. Questo farà si che quelle
correnti irrazionalistiche, che già si erano presentate, prendono il sopravvento. La felicità non è nella razionalità, non è nella scienza
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ma qualcos’altro. I Filosofi riescono a concentrare il sentire dell’epoca e raggrupparlo in un pensiero, infatti percepiscono il
sentimento degli uomini sconfitti dalla razionalità appigliatisi all’irrazionalità. La critica del positivismo scientista ottocentesco nasce
sia dal pensiero di filosofi irrazionalisti, come Friedrich Nietzsche o Henri Bergson, sia in Italia dal pensiero antipositivistico di
Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Punto centrale del pensiero di Bergson è la teoria del tempo, secondo lui per ognuno di noi il
tempo è relativo ad ogni situazione, è commisurato a ciò che prova l’uomo in quel momento. La critica trova riscontro anche nei
nuovi e più aperti modelli di razionalità proposti da scienziati come Sigmund Freud con il concetto della psicanalisi e Albert Einstein
che enuncia la teoria della relatività, ovvero tutto è relativo alla situazione.

CRISI DEL POSITIVISMO: Dopo il 1890 il Positivismo entrò in crisi, il pubblico comprese che la scienza non poteva risolvere da sola i
problemi della vita degli uomini. Lo sviluppo della società richiedeva nuovi mezzi conoscitivi: la rivoluzione tecnologica aveva
modificato le condizioni di vita e di pensiero. La grande città era diventata espressione di solitudine. La questione sociale e
l'imperialismo rendevano sempre più difficile la speranza di una struttura razionale dell'agire umano e preparavano la grande crisi
europea che culminerà nella Prima Guerra Mondiale.

Sul piano culturale il tramonto del Positivismo lasciava emergere nuove correnti di pensiero irrazionalistiche potenza. Il nuovo
irrazionalismo rifiuta lo storicismo romantico e il culto dei grandi ideali. Per l'analisi dell'inconscio, ha inizio la meditazione di Freud e
la scoperta della psicoanalisi.

Sul piano letterario si ha una ripresa dell'esaltazione della creatività individuale.

Nell'età romantica e in quella positivistica il letterato era stato guida di popoli, mentre ora avverte la propria solitudine in una società
che lo rinnega.

I decadenti iniziano l'esplorazione delle zone profonde della coscienza, si interessano all'analogia fra i diversi ordini di sensazioni.

Essi esaltano l'IO soggettivo, creatore nell'arte, che diviene mezzo di conoscenza di quelle evasioni o paradisi artificiali che
consentono di sfuggire alla miseria della vita umana e di attingere una conoscenza della realtà vera. La ragione e lo storicismo
romantico vengono rifiutati e la vita diviene una successione di attimi, di rivelazioni improvvise in cui si attua una fusione con l'ignoto,
fuori dal tempo e dalla storia, evadendo dal grigiore dell'esistenza quotidiana ritenuta vana, senza scopo.

HENRI BERGSON: nasce a Parigi nel 1859, si laurea in filosofia e matematica. Bergson comincia ad insegnare filosofia moderna a
Parigi, ma non tenne mai nessun corso Sorbona per via delle sue idee, poco in linea con l’indirizzo filosofico dominante. La
personalità e la notorietà del filosofo si impongono anche fuori gli ambienti accademici e le sue lezioni e conferenze venivano seguite
da un pubblico vasto e variegato. La prosa e gli scritti, ricchi di metafore e descrizioni, gli fanno guadagnare, nel 1928, il Nobel per la
letteratura. Muore nel 1941 a Parigi, mentre la città è occupata dalle truppe naziste. Le sue origini ebraiche gli avevano fatto
conoscere e provare la crudeltà delle leggi razziali e delle persecuzioni antisemite; ma grazie alla sua età molto avanzata e alla fama, i
nazisti utilizzarono nei suoi riguardi i “guanti di velluto”, anche se il filosofo rifiutò sino all’ultimo qualunque privilegio concessogli. La
filosofia di Bergson si pone come una tra le reazioni meglio riuscite all’imperante positivismo. Dinanzi ad una concezione della realtà
spiegabile attraverso leggi meccaniche e conoscibile solo attraverso il metodo scientifico, Bergson si domanda quale sia la specificità
della filosofia e che posto rivestano le scelte, i valori etici, religiosi e artistici dell’uomo. Il filosofo rifiuta di considerali alla stregua dei
fatti naturali, così come rifiuta l’idea che l’unica forma di conoscenza della realtà sia quella scientifica. Bergson viene considerato il
più grande rappresentante dello spiritualismo francese. Tale corrente filosofica invita a concentrarsi sulla interiorità degli individui,
sullo “spirito”, sulla coscienza: una realtà diversa. Riconosce alla filosofia il peculiare compito di indagare tale realtà, differenziandosi
dal metodo e dall’oggetto propri della scienza. Per il filosofo, il limite proprio della scienza è considerare il tempo come qualcosa di:

- “spazializzato”: ovvero come una successione di momenti distanti l’uno dall’altro, misurabili, tutti uguali;

- reversibile: ovvero come qualcosa che si può ripresentare uguale a se stesso (per esempio negli esperimenti scientifici).

LO SLANCIO VITALE: è considerato il capolavoro di Bergson, L’evoluzione creatrice, il filosofo mira ad una concezione che fa
completamente cadere la divisione tra coscienza e natura, materia e spirito e vuole mostrare la realtà come unica e, soprattutto,
come interamente dominata dalla “durata”.

Ungaretti deve molto anche a questa filosofia (che non è quella di Montale).

Domanda: Può chiarire l’idea di slancio vitale?


Allora il panorama è quello della crisi di una cultura positivistica che a fine 800 scopre che la scienza non può tutto e
che non basta la scienza ad affondare la cultura e il pensiero. Cadono una serie di certezze o speranze che erano state
fortissime a metà 800. In questa crisi epocale, che diventa crisi dell'uomo occidentale, non solo del rapporto con la
scienza, vengono fuori a fine 800 una serie di filosofie, in cui invece viene recuperata la dimensione individuale e, in un
senso lato, interiore e spirituale.

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La risposta alla frantumazione dell'io e del rapporto col mondo, della crisi di tutta la storia dell'Occidente, durante la
prima guerra mondiale fa naufragio la storia d'Europa: davanti a questa crisi viene recuperata, soprattutto tramite la
filosofia Bersoniana, una dimensione di slancio verso la vita, proprio nel momento di massima crisi storica, individuale,
filosofica; uno slancio verso la vita che ogni individuo può recuperare dentro di sé e che significa accettazione di tutto
ciò che è vita e la possibilità di una fusione dell'io con una vitalità cosmica. Slancio Vitale dell’io e slancio vitale verso
l'intero cosmo, verso tutto ciò che è vita aldilà anche dell’io.

L’ALLEGRIA
L'allegria, la sua prima raccolta, è un diario di guerra pensato e strutturato come un diario di guerra, in cui alla fine
delle sue poesie c'è il luogo e la data, in cui sono state concepite sul fronte della Prima Guerra Mondiale in Italia.

- Il tema fondamentale è questo: davanti all'orrore della guerra e davanti alla morte vissuta giorno dopo giorno,
Ungaretti, grazie a questa dimensione soggettiva dello slancio vitale, riesce sempre di più a recuperare quella
dimensione di apertura alla vita cosmica, in cui l'individuo è in armonia con il Cosmo.

- Lo stesso titolo della raccolta è fondato su questa idea:

‘’allegria del naufragio’’ è il primo titolo, successivo alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel naufragio della storia il
poeta, sempre più nelle riletture di quest’opera, recupera l’idea di uno slancio vitale e totale verso una vita in cui il
soggetto riesce a trovare anche un’armonia con tutta la vita del cosmo, anche in un momento di totale smarrimento
storico ed esistenziale.

È un tema fondamentale per Ungaretti che fino alla fine avrà questa tensione verso la ricerca di una terra
dell'innocenza: un'espressione di ungarettiana.

- Nel naufragio generale Ungaretti vive l’ascesa al fascismo, che lui inizialmente appoggia. Infatti grazie all'appoggio
del fascismo ottiene negli anni ’30 una cattedra di letteratura italiana a San Paolo in Brasile. Riesce così a scampare al
peggio di quello che sta succedendo in Italia, in Occidente. Questo gli sarà anche giustamente abbastanza rinfacciato
dopo la Seconda Guerra Mondiale.

→ Quindi accanto alla Prima Guerra Mondiale, Ungaretti vive l'orrore dell'ascesa del nazifascismo.

- Grazie soprattutto agli insegnamenti di Bergson a Parigi, Ungaretti invece contrappone sempre a questa
decostruzione dell'io, della storia e della civiltà occidentale la possibilità di uno slancio vitale dell'io verso una possibile
vitalità cosmica.

- Se questo Elemento fortissimo compare nel diario di guerra della Prima Guerra Mondiale, che si condensa nella
raccolta che prenderà il titolo dell'allegria, la dimensione di uno slancio verso la vita diventa puramente spirituale con
il recupero della fede Cattolica negli anni ‘20 da parte di Ungaretti.

Altro elemento di tensione verso una dimensione metafisica e spirituale è molto presente nella seconda raccolta
SENTIMENTO DEL TEMPO, che sarà fondamentale per la poesia ermetica, che si afferma negli anni ‘30.

- Ungaretti verrà chiamato il poeta delle varianti dai filologi che si sono dovuti raccapezzare fra tutte le varianti dei
suoi testi: in particolare dell'allegria ma anche di sentimento del tempo.

IN MEMORIA
[Mengaldo pag 393] Emergono i temi fondamentali del lavoro di scavo della parola poetica di Ungaretti nella sua
raccolta dopo l'edizione del 1919.

- La poesia “memoria” è una delle più famose della prima parte dell'Allegria, ossia “IL PORTO SEPOLTO”, pubblicato
prima della Prima Guerra Mondiale e il titolo indica, come ha spiegato lo stesso Ungaretti, 1. non solo il mitico porto
sepolto della città di Alessandria, inabissato secoli fa ed è un richiamo fortissimo ad Alessandria sommersa nella sua
memoria; 2. ma anche tutto ciò che di sepolto ognuno porta dentro di sé.

Nel ‘’Porto Sepolto” la poesia “Memoria” è molto significativa perché esprime al meglio la funzione salvifica che
Ungaretti dà ancora alla parola poetica. In questa funzione salvifica chiaramente Ungaretti deve molto a un'idea
ancora alta di poeta, che per tanti aspetti lo avvicina fortissimamente ancora a una tradizione simbolistica di fine ‘800,
anche più che non a quella disgregazione dell'idea sacra di poesia e di poeta delle prime avanguardie del Novecento

116
che pure lui anima a livello europeo, non sono italiano, perché ha rapporti strettissimi con gli scrittori ma anche con
artisti delle più avanzate avanguardie parigine del primo Novecento.

- Nella forma la lezione delle avanguardie è fondamentale, infatti le prime poesie vengono pubblicate sulla rivista
futurista Lacerba, nella sostanza però questa idea salvifica della poesia lo raccorda moltissimo ancora una tradizione
simbolistica.

- Questa poesia è una poesia in memoria del suo amico egiziano, Moammed Sceab, che ha seguito Ungaretti a Parigi,
lasciando anche lui l'Egitto per scoprire la grande e moderna cultura europea. Però a Parigi perde la sua identità di
arabo egiziano, ma non trova neanche una sua nuova patria nella Parigi scintillante. Così Moammed Sceab si suicida
perché non ha più una identità.

Il suicidio di questo suo amico è un punto nodale di questa poesia: l’amico è un uomo senza patria.

Ungaretti si salva perché come dice nei suoi versi “ho sciolto in versi il canto del mio abbandono”. La stessa
dimensione la vive nella sua realtà biografica: si sradica dalla sua amata Alessandria d'Egitto ed entra nella caotica
metropoli modernissima di Parigi, ma riesce a salvarsi perché sublima questo sradicamento esistenziale nella parola
poetica e così si salva.

Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida 86
perché non aveva più
Patria87
Amò la Francia
e mutò nome88
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi89
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono90
L'ho accompagnato
insieme alla padrona dell'albergo
dove abitavamo

86
suicida/ Patria: parole-chiave, occupano un solo verso.
87
Patria: in forma di prosopopea, personificazione, con la P maiuscola, perché il tema della ricerca di una patria,
una patria ideale, una patria dell’anima per l’uomo senza patria, sradicato del primo 900, è un tema europeo
fondamentale. L’uomo sradicato nella dimensione della ricerca di una patria è comune in molti contesti, era anche
in Saba nella poesia ‘’Ulisse’’.
88
Francia: aveva scelto la sua patria ideale, lasciando Alessandria D’Egitto, e aveva cambiato il suo nome: da
Moammed diventa Marcel.
89
non riesce a trovare pienamente la sua patria ideale nella Francia, è ormai sradicato dalla sua patria di origine e
non può più vivere come vivevano i suoi padri e antenati, nomadi dell'Egitto.
90
sono i versi fondamentali che spiegano tantissimo la poesia di Ungaretti. Non può salvarsi perché queste
esperienze di sradicamento, di profonda crisi esistenziale e storica, non può sublimarle nei versi. Non può essere
salvato dalla poesia, cosa che invece ovviamente il poeta Ungaretti riesce a fare.
117
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes91
appassito vicolo in discesa
Riposa
nel camposanto d'lvry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera92
E forse io solo
so ancora
che visse93

In questa poesia si nota l’uso dei versicoli, come erano chiamati dallo stesso Ungaretti e dai critici, cioè versi molto
molto brevi, siamo infatti in pieno versoliberismo, in cui anche una sola parola può formare un intero verso e in
questo Ungaretti è molto all’avanguardia.

○ Parte centrale e corpo centrale della raccolta ‘’allegria di naufragi’’ nel 19 è l'esperienza della morte e l'orrore nelle
trincee della Prima Guerra Mondiale, per la quale Ungaretti parte come volontario.
Tantissimi intellettuali poeti credono a questa Guerra di Liberazione di Trento e Trieste dal l'impero austriaco (anche
se questa liberazione è molto più complicata e dura fino al secondo dopoguerra).

- Nell'orrore della guerra scopre lo slancio vitale, elemento fondamentale Bersogniano.

- Questo si coniuga con l'altro tema centrale, ossia la memoria involontaria e la memoria creatrice. C'è la ricostruzione
di un proprio io, di una propria unità dell'io, attraverso dei procedimenti che sono quelli della memoria involontaria e
creatrice.

Ricrea questo processo poetico, ma anche esistenziale e filosofico, in particolare in una poesia che si intitola ‘’Fiumi’’.

FIUMI
[Mengaldo pag 394]

- Ungaretti è sul fronte e sta combattendo sul fiume Isonzo, uno dei fiumi fondamentali nello scontro tra l’esercito
italiano e quello austriaco. In un momento in cui, dopo un giorno di guerra, si sta riposando presso il fiume Isonzo, in
questa dimensione fluviale, nasce la memoria involontaria e memoria creatrice: Ungaretti ripercorre dentro di sé tutti
i fiumi della sua vita. Questi non sono solo i fiumi della sua vita individuale, come Giuseppe Ungaretti, ovvero il Nilo e
la Senna e l’Isonzo, ma anche addirittura riattraversa dentro di sé i fumi che erano dei suoi padri, che lui non ha
vissuto, ovvero il fiume Serchio, il fiume della zona della Garfagnana, dei monti del lucchese, che erano i luoghi da cui
erano emigrati i genitori.

91
richiamo alla dimensione realistica, poiché lo accompagna solo con la padrona di casa parigina verso il
Camposanto. Dimensione della solitudine, dello sradicamento.
92
è il caos di tale delle periferie parigine, ma il caos vuol indicare anche una vita e una dimensione difficile dei
sobborghi parigini. ‘’decomposta fiera’’= ossimoro: decomposta=dimensione di morte; fiera=dimensione di
vitalità.
Come anche il titolo “allegria di naufragi” è un ossimoro.
93
è il poeta sradicato che vive in totale solitudine, che muore sostanzialmente solo, e l'unico che conserva la
memoria di questo nomade arabo sradicato è lo stesso Ungaretti, il quale nella stessa dimensione esistenziale
viene salvato dalla poesia che gli fa sciogliere “il canto dell'abbandono” e alla fine probabilmente attraverso la
poesia lascia una testimonianza che resterà ben oltre la sua morte.

118
Non solo scatta la memoria involontaria, in un momento di riposo, in cui riattraversa tutti i fiumi della sua vita, cioè
una ricostruzione ideale della propria bibliografia, ma scatta anche una memoria che investe anche ciò che lui non ha
potuto vivere, cioè la vita dei suoi genitori nelle loro terre.

- In questo processo, in una giornata orrenda presso il fiume Isonzo perché qui vengono combattute battaglie più
terribile e sanguinose anche per l’esercito italiano, scatta lo slancio vitale in cui egli ricerca una interiore soggettiva
ricostruzione dell’io, del proprio tempo, della propria memoria, attraverso una memoria involontaria e creativa capace
di ricreare una dimensione soggettiva forte e vitale, ricordando e facendo proprio il tempo che non è potuto essere
vissuto dall’IO del poeta.

- in questa poesia c’è il verso libero, totalmente sciolto, ma con una serie di rime sparse, anche rime interne al verso, e
con una dimensione stilistica che è quella del migliore verso libero, ossia quello che sa utilizzare nella libertà rispetto
alle istituzioni metriche una serie di stilemi, elementi dello stile, che hanno a che fare con la tradizione poetica, come
le allitterazioni, le rime, le assonanze, le analogie…

Mi tengo a quest'albero mutilato → Momento di pausa dopo una giornata di guerra in cui riposa presso il fiume
Isonzo.

abbandonato in questa dolina -̶ Albero mutilato, in sintonia con le avanguardie del primo 900: l’albero
elemento non

che ha il languore antropomorfico con un part passato in funzione aggettivale che è


antropomorfizzante,

di un circo cioè si riferisce alla sfera umana. Mutilato richiama ciò che sta vivendo come
soldato.

prima o dopo lo spettacolo -̶ le doline: il terreno cavo, tipico della zona del Carso in cui lui sta
combattendo.

e guardo -̶ paesaggio lunare: riprende Leopardi.

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso → ricorda il momento in cui, dopo i combattimenti, c’è stato il momento di pausa
presso il

in un'urna d'acqua il fiume Isonzo.

e come una reliquia → tra fine dell’800 e inizio 900 un elemento importante nella poesia, non solo
italiana, è quello

ho riposato di riutilizzare un vocabolo con riferimenti spirituali, religiosi ma con una funzione
nuova, non

ortodossalmente religiosa e cattolica: urna/reliquia.

L'Isonzo scorrendo Presso l’Isonzo, nel momento di pausa, scatta il processo della memoria
involontaria.

mi levigava → anche l’umano si trasforma in qualcosa di inanimato: così come l’albero era
mutilato e quello

come un suo sasso che era vegetale diventava antropomorfizzato, così qui ciò che è
antropomorfico, l’uomo Ungaretti,
119
viene accarezzato come un sasso.

Ho tirato su Dopo il momento di riposo sull’Isonzo, ha ripreso il suo cammino.

le mie quattr'ossa

e me ne sono andato

come un acrobata →dimensione del circo*, sia crepuscolare che futurista. Qui viene richiamata come figura
metaforica

sull'acqua del soldato Ungaretti: l’acrobata è qualcosa di vitale e allegro, ma qui è associato a un
momento

assolutamente non vitale, ossia la guerra.

* la dimensione del circo (presente in tanti poeti come Corazzini o Pazzeschi) nella poesia ‘’Fiumi’’ era già richiamata a
inizio poesia, nella prima strofetta, ‘’che ha il languore di un circo’’, qui è ripreso come circo triste: ossimoro perché il
circo è realmente qualcosa di vitale, di giocoso, di allegro ma qui è associato sempre nel contesto di guerra. Alcuni
ritengono che qui sia evocata un'immagine di una specie di Cristo umano e ferito mortalmente, il Cristo che cammina
sulle acque.

- nell'’Allegria c’è spesso la dimensione del gioco, di qualcosa che dovrebbe richiamare solo l'allegria, come il circo o
l’acrobata, ma subito è associata a qualcosa di assolutamente negativo e mortuario, legato alla dimensione della
guerra.

Domanda: 'prima o dopo lo spettacolo' potrebbe suggerire un riferimento ai momenti che precedono e che seguono
lo spettacolo brutale della guerra? Si, il prima e il dopo sono il momento dell'attesa che normalmente è un momento
gioioso perché indica un’attesa per lo spettacolo del circo, in Ungaretti invece indica l'attesa degli attacchi che
vengono sferrati in base ai comandi, attacchi quanto più possibile improvvisi partendo dalle trincee, in cui erano
immersi nel fango i soldati in attesa di ricevere l’ordine dalle alte sfere dell'esercito, che non erano in prima linea nel
fango delle trincee. Quindi si, il tema dell'attesa e del dopo dello spettacolo del circo ha dentro di sé l’orrore del prima
e dopo lo spettacolo orrendo della guerra e soprattutto di questa guerra, che nessuno si aspettava, orrenda forma
moderna di guerra che è la guerra nelle trincee del Carso.

Mi sono accoccolato E’ una specie di battesimo nelle acque dell’Isonzo. Però insieme a questo c’è il
richiamo

Vicino ai miei panni alla sua terra dell’innocenza, al nido dell’Egitto, dell’infanzia.

sudici di guerra

e come un beduino i beduini erano le popolazioni che Ungaretti aveva conosciuto ad Alessandria
d’Egitto: è

mi sono chinato a ricevere scattata una memoria involontaria

il sole

Questo è l'Isonzo C’è la memoria creatrice e involontaria, lo slancio vitale → nell’Isonzo, nel fiume di guerra,
nel

e qui meglio naufragio. Lo slancio vitale all’interno dell’individuo porta ad una comunione cosmica con
tutto

mi sono riconosciuto l’universo. La tensione verso questa armonia cosmica, verso la vita del cosmo, attraversa
tutta la

120
una docile fibra poesia di Ungaretti, spiritualmente risolta a partire dalla seconda raccolta e quindi dagli
anni della

dell'universo sua conversione religiosa.

Il mio supplizio

è quando Il supplizio si ha quando lo slancio verso il cosmo viene meno,

non mi credo vince il naufragio, la dimensione della morte.

in armonia

Ma quelle occulte

Mani sono le mani del battesimo nel fiume Isonzo

che m'intridono

mi regalano

la rara rara perché sono momenti di slancio vitale, non è mai una dimensione recuperata per sempre.

felicità

Ho ripassato

Le epoche memoria involontaria.

Della mia vita

Questi sono

i miei fiumi

Questo è il Serchio scatta la memoria involontaria e la memoria creatrice. Nel fiume Isonzo, nel
battesimo, lui ritrova

al quale hanno attinto dentro di sé la memoria di qualcosa che lui non può aver vissuto, cioè il fiume Serchio.
Il fiume in

duemil'anni forse cui hanno vissuto i suoi genitori e tutti i suoi avi.

di gente mia campagnola

e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo ha ritrovato il Nilo della sua infanzia, della terra dell’innocenza, in cui da fanciullo ha
vissuto la

che mi ha visto dimensione di purezza ed innocenza.

nascere e crescere

121
e ardere d'inconsapevolezza

nelle estese pianure

Questa è la Senna la Senna parigina. Ungaretti nel torbido della metropoli parigina si è rimescolato. Grazie a
questa

e in quel suo torbido fondamentale esperienza di vita e intellettuale ha fondato tutto ciò che è adesso.

mi sono rimescolato

e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi Nell’Isonzo ha ritrovato tutti questi fiume.

contati nell'lsonzo.

Questa è la mia nostalgia Tema chiave di Ungaretti: la nostalgia verso le terra dell’infanzia, ma in generale la
nostalgia verso

che in ognuno una terra perduta dell’innocenza. Ognuno: indica i fiumi.

mi traspare

ora ch’è notte Momento del notturno: chiusura circolare della poesia. Nel paesaggio del notturno, dopo
una

che la mia vita mi pare giornata di battaglia presso l’Isonzo, prova nostalgia anche verso qualcosa di non vissuto,
come il

una corolla Serchio. In un momento successivo a questa esperienza la sua vita gli sembra una ‘’corolla’’:

di tenebre dimensione in cui l’elemento umano, la vita del soldato Ungaretti, è associata a quella di un
fiore,

quindi con qualcosa di vitale. Però immediatamente associato al buio, alla notte, alle
tenebre, che è

il suo reale presente storico.

Ungaretti scrive una serie di poesie a frammento, molto brevi, in cui il tema del naufragio individuale e storico della
Prima Guerra Mondiale è associato al continuo slancio verso la vita e in cui la parola, usando un termine di Ungaretti
in questa raccolta, è la parola scavata sulla pagina poetica, una parola che innanzitutto cerca significati ed evocatività
fortissima, che toglie tutto ciò che resta in superficie, quindi tutto ciò che è un linguaggio troppo esplicito e
tradizionale. Ungaretti scava sempre di più nella sua poesia fino a avere una poesia sempre più essenziale nelle varie
edizioni dell'Allegria. Secondo una lezione, quella del simbolismo più avanzato, mette il silenzio, il non detto della
poesia, la pagina bianca, il vuoto, al centro del discorso poetico. Silenzio e bianco della pagina sono una parte
integrante di Ungaretti dell'Allegria e in realtà anche di ‘’sentimento del tempo’’.

SENTIMENTO DEL TEMPO


La seconda raccolta esce negli anni ’30, dopo che è stata lungamente meditata già alla fine degli anni venti, quindi
parallelamente al lavoro per l'Allegria.

1. Di nuovo c'è l'elemento spirituale. L'evocazione di una unità del cosmo che diventa veramente religiosa. Quindi è un
discorso metafisico, che verrà ripreso da tutto l'ermetismo, in particolare fiorentino e cattolico.
122
2. C’è un uso, portato alle estreme conseguenze, dell'analogismo. Cioè un salto ancora più sperimentale e più
evocativo rispetto all'uso del simbolo, tipico del simbolismo di fine 800. Per esempio il simbolo del gelsomino
notturno, che viene associato a l'aprirsi del fiore, che è chiuso durante il giorno e si apre verso la notte, è un simbolo
erotico in cui è evidente la continuità tra l'immagine e significato, questa continuità poetica e logica salta con l'uso
dell'analogia in Ungaretti nel ‘’sentimento del tempo’’ e nella poesia ermetica. Nell’analogia il rapporto tra continuità e
contiguità tra l'immagine evocata e il significato attribuito dal poeta, una continuità che è ancora nel simbolo, salta
completamente. Se il gelsomino notturno era un simbolo, perché dietro questo fiore che si apre c'era chiaramente
l'immagine dell'amore, questa continuità poetica e logica tra l'immagine del gelsomino notturno e il significato
erotico, salta nell’analogia, per cui l'associazione tra l'immagine evocata e i significati, che vengono solo evocati dal
poeta, è molto più rarefatta.

C'è qualcosa che possiamo chiamare già una libera associazione di idee. Questo era un punto per cui molti dicevano
che c'era una continuità tra l'ermetismo e surrealismo, perché anche nel surrealismo le immagini evocate non si
capiscono subito, cioè ci sono significati possibili. Questo veniva attribuito anche all'analogia del secondo Ungaretti e
dei poeti ermetici. Anche se molti, come Montale, diranno che in realtà questa sovrapposizione tra surrealismo ed
ermetismo va molto limitata.

→ Per esempio nella poesia ‘’L'Isola’’ [Mengaldo pag 402] l'immagine dell'isola, l’analogismo, non si capisce, è
difficilissima da capire, tanto che l'accusa di oscurità era giustissima da parte dei primi lettori e dei primi critici, perché
il linguaggio di Ungaretti è molto più rarefatto e molto più evocativo. L'uso dell'analogia è spinto al massimo in questa
seconda raccolta, non si capisce cosa centri l’isola, non si capisce il soggetto di questa poesia. È una poesia molto
evocativa e c'è l'evocazione di miti della classicità perché Ungaretti recupera la tradizione poetica plurisecolare, sia la
linea italiana Petrarca-Leopardi sia tutta un'altra tradizione poetica che è quella di un classicismo moderno. Infatti una
raccolta del più ermetico Quasimodo si intitolerà “Erato e Apollion” richiamando proprio figure del mito classico. Solo
alla fine si capisce che si sta evocando l'immagine di un pastore, che si immagina in un contesto da classicismo
moderno, infatti vede apparire all'improvviso dei fantasmi, delle ombre in questo paesaggio dell'isola e intravede una
ninfa, proprio come nella poesia bucolica classica, e c’è l'improvvisa apparizione presso le acque di un'isola di larve,
cioè di fantasmi che sono rivisti, rivissuti ed evocati poeticamente come fantasmi di ninfee vergini, come nel migliore
poesia bucolica classica. Quindi nella poesia l’Isola c’è tutta l’evocatività fortissima da parte di Ungaretti, l’uso spinto
dell'analogia per cui è difficile capire le immagini a quale significato sono associate, la frammentazione della frase
poetica con verbi posti in forma di anastrofe, con lo spostamento delle parti della costruzione normale delle parti del
discorso, c’è l’uso del iperbato cioè lo stare alla fine del discorso il verbo. Quindi tutto diventa molto più allusivo,
puramente evocativo e l’analogia viene spinta al massimo.

→ Quindi nel ‘’sentimento del tempo’’ c’è il significato e la modalità di uso dell’analogia. Questo tipo di attività
dell'isola è quella che verrà più ripresa dell’ermetismo.

Domanda: ogni verso inizia con una maiuscola, sicuramente la scelta è voluta, ma a cosa corrisponde, visto che nelle
poesie precedenti questa scelta non c’è? era una convenzione della poesia italiana, fino a buona parte della fine
Ottocento, usare la maiuscola come segno del a capo, per indicare che finiva il verso, ciò avveniva anche nei testi
medievali prestampa. Non c'era la scansione moderna dei versi, quindi era una convenzione tipografica fino a tutto
l’800 di mettere a inizio verso la maiuscola secondo una tradizione antica. Molti poeti non lo fanno più già fine 800,
neanche Pascoli e D'Annunzio. Nel periodo della stampa diventa inutile perché serviva quando non c'era la stampa
indicare che inizia un verso nuovo, è un retaggio antico dell'epoca della poesia prestampa, pian piano cadrà in disuso
nella poesia italiana. Ma in questo caso non ha molta importanza, era importante quando lo faceva Petrarca, quanto
la maiuscola serviva a vedere che si formava un acrostico nel Canzoniere, cioè quando la maiuscola iniziale di ogni
verso serviva a formare una parola, che in genere era Laureta Laura L’aura, quella era una convenzione e prendeva un
valore retorico.

3. Altro elemento importante di questa seconda raccolta è il tempo. È un tempo tutto moderno e novecentesco.

Domanda: quindi in questo caso l'elemento spirituale è dato dall’evocazione di queste immagini classiche? No, non c'è
un richiamo religioso. Con ‘’sentimento del tempo’’ si è nella stagione della conversione religiosa, ma non è qui. Qui è
un classicismo moderno in cui vengono evocati fantasmi e le larve degli antichi miti, le vergini ai piedi dell'albero, la
ninfa, ma non ha il significato spirituale e religioso che ha in altre poesie della raccolta.

123
INNO ALLA MORTE
[Mengaldo pag 403] Per esempio questo elemento spirituale forte è presente nella poesia importante “nel sentimento
del tempo” che viene associata alla città di Roma. Ungaretti torna a Roma e diventa la sua patria ideale e definitiva,
infatti morirà a Roma e a Roma scopre l’arte cattolica e l'arte religiosa. Tutta Roma è imbevuta dell'arte architettonica
e pittorica della controriforma, periodo d’oro dell'arte romana e del Barocco del'600 cattolico. Questo immergersi
nella Roma barocca e cattolica dell'ultima stagione di Ungaretti gli fa richiamare questo elemento spirituale che
diventa propriamente cattolico e religioso.

Questo emerge nell’”Inno alla morte” dove c’è richiamo alla innologia cristiana, a tutta l’innografia cristiana già
medievale, già nel titolo, quindi è un discorso poetico che si richiama direttamente a una tradizione religiosa cristiana.
C’è la personificazione della morte che diventa il cuore del discorso di questo ‘Inno alla morte’ cattolico, post-
tridentino, della Roma post-tridentina perché è il famoso “Memento Mori”, il ‘’Ricordati che morirai’’, che è la base
del cattolicesimo controriformistico, il momento della morte che sarà il momento del giudizio divino sulla propria vita
e quello che ci deve guidare sempre nella vita terrena per fare le scelte giuste, in un senso cattolico cristiano, in senso
moralmente e spiritualmente.

Tutto l'Inno alla morte è un richiamo alla spiritualità liberamente cattolica, romana, postridentina. È la base della
cultura della chiesa post il Concilio di Trento. Questa poesia è un esempio di questa componente cattolica di Ungaretti
in “sentimento del tempo”, importante perché una buona parte dell'ermetismo, in particolare fiorentino, è cattolico, e
c’è un richiamo alla cultura seicentesca, in particolare romana, barocca e cattolica post-tridentina. Ciò si capisce non
solo dal titolo, l'innografia cristiana alla morte personificata, cuore della riflessione cattolica post-tridentina, ma già
nell'inizio in cui viene richiamato un amore e viene fatto con un richiamo a un linguaggio barocco seicentesco:

“Amore, mio giovine emblema”: gli emblemi sono uno degli elementi forti della cultura barocca che fonde la parte
visiva (l’emblema) e il significato morale che c'era dietro gli emblemi. Richiama già nel primo verso un elemento non
solo che si rifarà cultura barocca, ma che fonde (come faceva la cultura barocca degli emblemi) l'elemento visivo, che
per lui era Roma, il fulgore artistico della Roma barocca, con dei significati spirituali.

“amore, salute lucente, mi pesano gli anni venturi”: anafora dell’amore che viene ripetuta.

“morte, arido fiume…”: L'evocazione della morte.

Il tema di amore e morte, Eros e Thanatos, una rivisitazione spirituale, viene richiamato ancora una volta
nell’evocazione della morte come un fiume, perché un percorso la morte che parte già nella vita, secondo una
spiritualità postridentina. Questo percorso è un fiume della vita verso la morte che dovrebbe richiamare una seconda
vita, però è anche arido: ossimoro perché è un fiume che toglie la vita

Domanda: c’è un richiamo a Leopardi? Leopardi è un riferimento continuo, esplicito della poesia e della poetica di
Ungaretti per loro stessa ammissione. Ungaretti spiega lui stesso tantissimo la sua poesia e questo ci ha aiutato molto
a capirla, non è un caso che sia stato molto più commentato subito. Invece i commenti alle raccolte di Montale ora
stanno venendo fuori, molto più tardi di quelli di Ungaretti. Diventa presto un professore universitario di letteratura
italiana prima in Brasile e poi quando torna Roma gli crea la prima cattedra in Italia di letteratura italiana
contemporanea, quindi è abituato a spiegare e a scrivere sulla poesia e sulla letteratura. Utilizza questa sua funzione
critica anche in funzione soggettiva. Si hanno molte spiegazioni sulla sua poesia di Leopardi e questo spiega subito
anche la poesia molto difficile di “sentimento del tempo”, dicendo “immergete l'idea di tempo in un tempo fluido”:
che il tempo bergsoniano, ma è anche il tempo del mito antico che viene rivissuto, come nell’”L'isola”, ma è anche (lo
dice esplicitamente Ungaretti) l'idea di un tempo come tempo della vita terrena che deve essere vissuta alla luce della
morte, in un senso cattolico cristiano, romano, postridentino. Leopardi non era un credente cattolico, ma uno scettico
radicale. C’è il richiamo a Leopardi perché a partire da fine 800 in poi diventa un poeta presentissimo in tutta la nostra
poesia del 900. Però ogni poeta ha il suo Leopardi: Montale ha il suo Leopardi di ‘’Ossi di seppia’’ che c'entra
pochissimo con il Leopardi del ‘’sentimento del tempo’’.

LEZIONE 18 - 27.04.21

UNGARETTI
○ L’'ultimo Ungaretti: ha continuato a scrivere fino alla morte, fino all'inizio degli anni settanta. È stato uno di quei
GRANDI “VECCHI” che ha continuato, lui stesso, ad aggiornare la propria poesia in base anche agli stimoli che gli

124
venivano dalle nuove generazioni, quindi dai cosiddetti post-ermetici. È stato un grande vate anche negli anni 50 e 60
per i giovani poeti e si è lasciato influenzare, in parte, da queste spinte di rinnovamento.

Domanda: la nostalgia dell'innocenza ha a che vedere con lo slancio vitale oppure no? Sì, indirettamente. Nel senso
che questa pulsione alla vita è una costante di tutto Ungaretti, che va ben oltre la stagione post-Prima Guerra
Mondiale. Quindi questa pulsione alla vita, fino alla fine, anche da grande vecchio della poesia italiana, lo porta al
rinnovamento e alla ricerca di una purezza di un rinnovamento interiore, che resta un'idea di nostalgia dell'innocenza.

→ All’Ungaretti, dagli anni 40 in poi, appartiene “un grido e paesaggi” [Mengaldo pag 411], una raccolta che viene
fuori nel ’52, di un Ungaretti quasi settantenne. Lui scrive questo monologhetto, una lunghissima riflessione sulla sua
poesia e sul suo essere stato poeta. Quindi è già un grande vecchio settantenne, negli anni 50, lui scrive questi versi:

Poeti poeti, ci siamo messi sono tutte le maschere che Ungaretti stesso ha indossato in decenni di poesia e
poetiche, che si

Tutte le maschere; sono trasformate con il tempo.

……. Verso la fine del monologhetto:

Solo ai fanciulli i sogni s'addirebbero: il sogno, lo slancio vitale, una terra dell’innocenza e dell’immaginazione è solo
dei fanciul.

Posseggono la grazia del candore i fanciulli sanno superare con lo slancio vitale e vitalistico, proprio della
giovinezza,

Che da ogni guasto sana, se rinnova qualsiasi “guasta”, esperienza dolorosa

O se le voci in sé, svaria d'un soffio. I fanciulli sono capaci di cambiare, naturalmente, il doloro in gioia.

Ma perché fanciullezza Il poeta è vecchio. Si chiede il perde la fanciullezza, lo slancio vitale, l’innocenza, il
candore sono

È subito ricordo? finiti così presto.

Non c'è, altro non c'è su questa terra

Che un barlume di vero

E il nulla della polvere,

Anche se, matto incorreggibile, è il vecchio Ungaretti, che dovrebbe aver perso qualsiasi slancio e sogno della
fanciullezza. Lui,

Incontro al lampo dei miraggi matto incorreggibile, il vecchio Ungaretti, continua a tendere, ad avere uno slancio
verso ciò che

Nell'intimo e nei gesti, il vivo è vita, verso ciò che ripara dai guasti della vita. Da vecchio c’è il senex puer, lo slancio
vitalistico

Tendersi sembra sempre. verso la terra dell'innocenza che è quella dell'infanzia. Normalmente l'infanzia è
subito memoria

eppure il poeta nei suoi slanci vitalistici riesce ancora a tendere verso la vita.

Ungaretti quindi, ormai vecchio, continua ad essere ancora, in un angolo di sé, il fanciullo pronto a uno slancio verso la
vita.
Ogni poeta ha il suo Leopardi: il Leopardi Ungaretti è quello della memoria, della rimembranza, della ricordanza, però
in Ungaretti vince sempre lo slancio vitalistico. Per cui dall’innocenza e dalla fanciullezza, che è subito memoria, pure

125
lui “matto incorreggibile” può trovare ancora lo slancio della fanciullezza di “A Silvia” di Leopardi, che Leopardi ha
perso da poeta vecchio.

EUGENIO MONTALE
Montale è definito padre dell'ermetismo, come Ungaretti, anche se lui non vuole essere associato all’ermetismo, non
crede nella poesia e nella parola pura, che è lo slancio di tutti i poeti ermetici.

• In una intervista, “INTERVISTA IMMAGINARIA”, che Montale fa a sé stesso negli anni ’40, (immaginaria perché
nessuno lo intervista ma lui si intervista da solo), lui dice che tutta la sua poesia nasce dalla realtà, da qualcosa di
assolutamente reale e concreto.

 Negli “Ossi di seppia” vi è il paesaggio ligure della sua fanciullezza, che poi lascia per trasferirsi a Firenze, la culla
dell'ermetismo, e in questa culla nasce sia parte delle “Le occasioni” e sia tutta la terza raccolta, cioè “La Bufera” → le
prime tre raccolte fanno parte della prima stagione poetica di Montale che lui chiama del “recto”.

 Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si trasferisce a Milano e dalla ricchissima raccolta “Satura”, che esce solo nel
’71, fino alle ultimissime raccolte (che scrive vecchissimo all’inizio degli anni ‘80) si avvia la seconda stagione che
Montale chiama del “verso”.

→ Cioè: la tensione poetica, che per certi versi ha fatto accostare, erroneamente, Montale all’ermetismo (cioè la
poesia del “Le occasioni” e del “La Bufera”), è presente in quella stagione in cui scrive anche l’”Intervista immaginaria”
e Montale dice “l’occasione-spinta”, cioè il riferimento concreto e reale che c’è sempre nella sua poesia ed è una
differenza con l’ermetismo, “l’ho sempre più nascosta, lasciando in primo piano l'oggetto della poesia”, quindi crea
una poesia che sembrava una poesia ermetica. “leggendo certi mottetti”, che sono la sezione centrale delle “Le
occasioni”, della sua seconda raccolta, e sono più vicini alla poetica dell’ermetismo, sembra che egli evochi, come gli
ermetici, sin dall’inizio, attraverso la poesia e la parola pura, un altrove, un’epifania, un significato metafisico. Ma
questo elemento fondamentale dell’ermetismo non c’è in Montale, lui è radicato su un’indagine, legata alla prima
indagine di “Ossi di Seppia” in cui cerca, nel non senso dell’esistere, l’anello che non tiene. Il poeta cerca la possibilità
di uscire dalla catena del non senso dell’esistere e avere un barlume di conoscenza, di verità. In Montale c’è sempre
una esperienza frustata e non c’è l’ermetismo, non c’è l’epifania che illumina un altrove, che per gli ermetici è quasi
sempre metafisico, religioso e spirituale. Quindi dove i mottetti sembrano che evochino l’epifania, il significato altro,
in realtà non è così, resta sempre una poesia radicata nell’esperienza reale e concreta del poeta, manca la metafisica
dell’ermetismo.

-̶ Fino al “La Bufera” Montale ha in qualche modo una fiducia nel valore e nell'espressione della parola poetica, per
quanto non ci sia l'evocazione di un significato altro, di un'epifania, di un significato metafisico, come negli ermetici. La
sua poesia non è mai una poesia pura, ma è una poesia tutta calata nel reale.

-̶ Per suddividere la sua produzione, dunque, Montale utilizza una metafora che viene dalla filologia italiana, utilizza il
recto e verso. Tra una e l’altra c’è uno stacco, un cambiamento nel voltare pagina, perché dagli anni 50 in poi Montale
perde qualsiasi fiducia in qualsiasi tipo di mandato culturale e sociale del poeta. Si chiude in un rifiuto di tutto ciò che
è cultura di massa e lo slancio ci sarà verso una Italia e una cultura che si libera dalla cappa asfittica e violenta del
ventennio fascista e della guerra.

Montale, a differenza di Ungaretti, è antifascista da quando è giovanissimo, infatti lo è già nella stagione di “Ossi di
seppia”. Fino alla “La Bufera” ha creduto che la poesia potesse avere un mandato sociale e che, una volta superata la
bufera della storia della Seconda Guerra Mondiale, ci potesse essere una rinascita e un nuovo mandato sociale e
culturale per i poeti.

Quella di Montale è una delusione totale e immediata già negli anni 50, ciò emerge in alcuni versi del “piccolo
testamento”, una poesia alla fine del “La Bufera”, in cui all'inizio degli anni cinquanta, finita la guerra, Montale parla
dei “mostri infernali” (ossia Hitler e Mussolini), che lui aveva evocato nella bufera, e dice che adesso arriveranno dal
Hudson, dalla Senna o dal Tamigi, cioè dall'America, dalla Francia o dall'Inghilterra, che erano le grandi democrazie in
cui Montale ha creduto fino alla fine.

Montale ha fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale, CLN, nel terribile momento di passaggio tra ‘43-45,
quando c'è la guerra civile in Italia tra chi resta fedele alla Repubblica Sociale e chi invece lavora con gli alleati.
Montale lavora con gli alleati, fa parte del Comitato Liberazione Nazionale, ma già all’inizio degli anni 50 dice “l'orrore
126
della storia in realtà è eterno”, non è finito con la fine della guerra, e la nuova società capitalistica, la nuova società di
massa che in Italia arriva dagli anni 50 in poi, non sa che fare dei poeti e della poesia. Ma Montale non smette di
scrivere poesia, continua fino a chiudere la sua stagione nell’80, quando muore, però ormai la funzione della poesia e
del poeta (che secondo Montale non esiste più perché la società mercificata, di massa, non sa che farsene dei poeti e
della poesia) può fare solo parodia e auto parodia della sua stessa poesia e della poesia in generale. Infatti per
esempio ci sono delle parodie di D'Annunzio nella raccolta “Satura” o delle parodie della poesia impegnata, degli anni
60 e 70, nelle raccolte successive → la poesia diventa una riscrittura parodica, che non si prende sul serio, e quindi è il
verso, cioè l’opposto, a quello che era il significato della poesia della prima stagione dagli anni ’50 in poi.

-Ungaretti continua ad abbracciare la cultura e la poesia dagli anni 50 in poi, è il grande vate dei nuovi poeti post-
ermetici, cioè coloro che iniziano con supposizioni ermetiche e poi le superano, per questo era molto criticato dalla
critica militante di sinistra, la più influente dagli anni 50. Montale invece sceglie la parodia e l'auto parodia contro
tutto ciò che è società di massa, società capitalistica e pubblico, che viene fuori dalla società nuova nell'Italia
repubblicana dagli anni 50 in poi.

-̶ Montale ha sempre avuto una vita difficile, nonostante sia stato amato moltissimo dai giovani poeti soprattutto per
le due raccolte “Ossi di Seppia” e “Le occasioni”, perché già nel ’25 (quando esce la prima edizione degli “Ossi di
Seppia”) firma “Il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti” promosso da Benedetto Croce, il più grande intellettuale
del momento.

Le strade si biforcano tra gli scrittori, gli intellettuali, i professori universitari: vergognosamente pochissimi si
oppongono alla dittatura e quindi coerentemente alla guerra, mentre altri invece all'inizio, per quieto vivere e perché
ci credono, come Ungaretti, danno fiducia a Mussolini, almeno fino a quando inizia ad emergere il lato oscuro
nell'alleanza con Hitler, nella guerra in Etiopia e nella partecipazione alla guerra accanto al Generale Franco Spagna.
Tutte le prove generali, che ci sono state negli anni ’30, prima che ci fu la guerra accanto ai nazisti, avevano già dato
prova di fedeltà alla Germania nazista e solo in questo momento si sono svegliati molti intellettuali.

Montale fa parte della ristrettissima schiera di intellettuali che già nel 25 hanno capito il volto oscuro e violento di
Mussolini e firmano il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”. Montale non prenderà mai la tessera fascista,
necessaria per poter avere qualsiasi lavoro e qualsiasi incarico, e quindi si trova senza lavoro. Riesce ad avere l'incarico
di direttore del Gabinetto Vieusseux a Firenze, per questo si trasferisce a Firenze, ma, quando alla fine degli anni ’30 le
cose diventano pesanti, il governo fascista lo pone davanti ad una scelta: o prende la tessera fascista o gli viene tolto
l’incarico. Montale ovviamente si rifiuta, non prende la tessera, perde l'unico modo di sostentarsi perdendo questo
misero incarico e letteralmente muore di fame, con una sussistenza dovuta soltanto alle traduzioni dal francese,
dall'inglese, un po' dallo spagnolo. Montale ha fatto una scelta opposta a quella di Ungaretti: Ungaretti ha creduto in
Mussolini, riuscendo ad avere la cattedra di letteratura italiana in Brasile quando i tempi erano bui in Italia e questo
crea un solco enorme, non solo di poesie e di poetica, ma di ben altro.

→ In Montale le scelte morali sono fondamentali.

- Nel “piccolo testamento”, una poesia alla fine del “La Bufera”, un testamento letterario ma soprattutto morale di
Montale, dopo l'orrore della Seconda Guerra Mondiale, Montale si sente uno sconfitto e dice che “nonostante fosse
piccola la fiammella di verità che ho tenuto acceso, in tutti questi anni, nel buio nella bufera della storia, io vi posso
portare questo come mio segno di coerenza, di dignità, di verità a cui sono rimasto fedele”, però la storia con la S
maiuscola è comunque una catena di orrori e quindi, finito l’orrore e la bufera della seconda guerra mondiale,
Montale vede l'orrore della storia che continuerà.

- Infatti la raccolta del “La bufera” si chiude anche con “il sogno del prigioniero”, cioè il prigioniero della storia che
scopre che la liberazione non arriverà mai.

• Inizia la seconda stagione detta di un Montale NICHILISTA, di un Montale CINICO, di un Montale che si chiude nella
torre d'avorio, di un Montale che non capisce niente di tutte le spinte nuove che vengono dalla cultura dagli anni 50 in
poi, di un Montale che polemizza e stronca tutti, partendo da Pasolini fino a tutti i poeti con cui inizierà un dialogo
tutto in negativo. In Montale il pessimismo diventa veramente totale da “Satura” in poi, con la grande fusione di ciò
che è venuto fuori dalla società e dalla cultura liberata, quella dagli anni 50 in poi.

127
- La grande delusione è una delusione non solo poetica ma storica e morale. Montale dall'inizio sperava di superare “la
bufera”. Lui stesso dirà il perché di questo titolo: è stata una bufera esistenziale, la donna da lui amata era
un’intellettuale ebrea, che deve scappare dopo le leggi razziali del ’38. Quindi inizia una sua bufera esistenziale dal ‘38,
che diventa poi una bufera storica: il fascismo di Mussolini si associa passivamente a tutte le scelte di Hitler, salito al
potere da ’33. Montale capisce che sta arrivando l'orrore assoluto, il disfacimento di tutti i valori dell'Europa, quindi
sta arrivando una bufera storica che investirà a tutti. Però la tensione alla speranza che “una fiammella di verità possa
essere conservata” (questo c'è da parte di Montale, poeta e uomo, in tutta la bufera) si scontrerà per Montale dagli
anni 50 in poi, cioè quando la bufera del fascismo e della guerra è finita, con la realtà storica, che è quella di un'Italia e
di un Occidente liberati sì dal orrore nazifascista, ma che sono entrati in un altro orrore che è quello di una società
massificata, in una società capitalistica, di una storia che sempre secondo Montale si fonda sull'orrore.

Montale dice che il nesso infernale, cioè il messaggero infernale che viene direttamente all'inferno (che ancora nella
poesia del “La Bufera” durante la Seconda Guerra Mondiale erano Mussolini e Hitler), c'è ancora, non è stato spazzato
via per sempre e il nesso infernale si è spostato sulle rive del fiume Hudson, Senna e Tamigi, che sono altri nessi
infernali, cioè provengono dall'Europa e l'occidente della rinascita, quella dei buoni, degli alleati in cui lo stesso
Montale ha creduto.

Bisogna sempre conoscere la storia per capire la letteratura e anche la poesia, che sembra più astratta. Ungaretti,
Montale e tutto l’ermetismo sembrano quanto di più puro e astratto ci sia, ma è un falso terribile. Finita la guerra, la
guerra in realtà continua. Gli americani hanno la guerra in Corea, con la minaccia delle armi nucleari. La paura della
guerra totale nelle generazioni c’è stata fino alla caduta del muro di Berlino. Le popolazioni hanno continuato a vivere
nel terrore di una guerra nucleare tra Russia e Stati Uniti, tra la Nato e Patto di Varsavia. La paura è stata una costante
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi già dal ‘45, fino al 1989.

Questo è l’orrore della storia di cui parla Montale. Già nella fine della raccolta del “La Bufera”, quella in cui ancora
parlava del nesso infernale come solo Mussolini e Hitler, nelle ultimissime poesie del “La Bufera” Montale afferma che
la storia è sempre un orrore e che i nessi infernali probabilmente sono quelli che sembravano i liberatori.

Domanda: Montale ha dei riferimenti politico-partitici nell'Italia del secondo dopoguerra e della guerra fredda?
In parte si e in parte no, perché Montale fa parte del Comitato di Liberazione Nazionale, cioè vicinissimo al Partito
d'Azione, quello di Parri, i liberali che non erano né partito popolare né tantomeno socialisti e comunisti. Ma questo
per pochissimo tempo perché il Partito d’Azione sarà il grande sconfitto dell'Italia Repubblicana e si scioglie tra Partito
Repubblicano e Partito Liberale, pochissimi sceglieranno anche il Partito Socialista. Sostanzialmente non erano né di
destra né di sinistra ed erano fedeli a una politica laica (non si potevano riconoscere nel Partito Popolare, poi
Democrazia Cristiana), ma furono i grandi sconfitti dell'Italia post-Resistenza, dell'Italia repubblicana.

Montale non mi schiera né con i rossi, né con i neri, né con la sinistra, né con i socialisti e comunisti, né con la chiesa
perché Montale è un laico, non è credente, né con la destra, né con il Partito Popolare. Il partito d'azione, i laici vicini a
Parri, a cui Montale aveva creduto, sono i grandi sconfitti e quindi Montale perde totalmente la fiducia non solo nella
storia e nella politica italiana, ma in generale nella politica e quindi nella storia del post seconda guerra mondiale.
Arriva alla conclusione ultima, quella del “piccolo testamento” e ancora di più della poesia finale del La Bufera “sogno
del prigioniero”, in cui appare il suo pessimismo, per alcuni nichilismo radicale, in cui Montale non trova un suo posto
né morale né politico né culturale.

Domanda: nel ritorno dell’orrore storico, possiamo riconoscere effettivamente l’eterno ritorno all’uguale?
Sì, abbastanza, in Montale l'eterno ritorno viene da un'idea nietzschiana. Cambia l'idea di un ciclo, di una catena
dell’essere che viene espressa da Montale in un senso esistenzialista e pre-esistenzialista, quando ancora non c'era
pienamente una filosofia che si potesse finire esistenzialista. È la grande eredità di Nietzsche per tutto il Novecento e
quindi questo ciclo di non senso, che è la storia, viene interpretato in vari modi da tutte le filosofie possibili del
Novecento, per Montale poeticamente, non è un filosofo, ma è un poeta.

INTERVISTA IMMAGINARIA
- inizia con il rapporto fondamentale e reale con la sua Liguria, un paesaggio geografico reale.
- il rapporto con la musica importantissimo, che lascerà come retaggio ai cosiddetti post ermetici. Montale studia da
baritono, da giovane conosce tutta l'opera lirica e questo incide anche sulla sua poesia.
- il legame filosofico più importante della sua poesia, in particolare da “Ossi di Seppia” in poi. Non tanto con Bergson,
quindi lo slancio vitalistico, quanto Boutroux e i contingentisti francesi.
128
Contingentismo francese, in particolare Boutroux, che però è di ispirazione cattolica: l’esito cattolico metafisico
Montale non lo accetta. In questa catena dell'esistenza, priva di senso, c’è il momento in cui ci si può liberare dalla
catena e trovare un senso che per Boutroux e contingentisti cattolici era un senso metafisico, era una verità
metafisica, per Montare è la famosa accensione epifania laica che però non avviene mai pienamente e che alla fine lui
delega (già alla fine degli “Ossi di seppia”, nella seconda edizione del ’28) a un tu femminile. Lo slancio fuori dalla
catena per trovare un’epifania, un senso, il poeta non lo trova già nella prima raccolta, quindi a partire dal secondo
“Ossi di Seppia” delega a un tu femminile la possibilità di senso. Il contingentismo già si stacca volutamente da
Ungaretti.

– Montale non sposa la rivelazione metafisico cattolica di questi filosofi e nello stesso passo dell’Intervista
Immaginaria dice: “occorre vivere la propria contraddizione senza scappatoie, ma senza neppure trovarci troppo
gusto”, senza lasciarsi abbandonarsi da questo non senso, “senza farne merce da salotto”: questa è anche la sua
accusa, in tempi difficili, a chi non si schierava apertamente e non cercava una via di fuga in tutti i sensi, da un senso
filosofico a un senso politico-morale. La contraddizione non è mai sanata tra essere ed esistenza, tra senso e non
senso, per Montale bisogna viverla con coraggio e senza abbandonarsi a un chiacchiericcio che non cerca neanche una
risposta dignitosa. → Montale è contro moltissimi poeti e scrittori che hanno scelto vie di comodo, si sono chiusi nella
loro torre d'avorio, hanno parlato tra di loro del senso della vita e della cultura, ma non hanno fatto merce da salotto.
Lui frequenta molto attivamente uno dei protagonisti della Firenze ermetica negli anni trenta, quando lui è a Firenze,
ma non condivide affatto con loro l’arroccarsi nella loro torre d'avorio, il loro non trovare una risposta in questa storia
e in questa contingenza e quindi il continuare a scrivere e a parlare fra di loro. C’erano dei ritrovi nei caffè fiorentini
famosi, in particolare “il Caffè delle Giubbe Rosse”, in cui si ritrovavano i poeti che più o meno giravano attorno a una
poetica ermetica e di cui è protagonista anche Montale, ma lui non si trova mai pienamente con questi che hanno
rinunciato a guardare in faccia la realtà.

– Montale dice “Mi pareva di vivere sotto una campana di vetro (come tutti i poeti ermetici fanno), eppure sentivo di
essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava da un'esplosione.”: è la poetica degli
“Ossi di Seppia”.

Dietro il contingentismo di Boutroux, di trovare la maglia rotta in quello spazio di libertà e di senso, molto più di
Nietzsche, c’è Schopenhauer, la realtà materiale è contingente come un velo di maglia che deve essere strappato per
trovare un senso oltre.

Un linguaggio che gli stessi contingentisti e lo stesso Montale degli “Ossi di Seppia” trovavano profondamente in
Schopenhauer.

– “il libro non parve oscuro quando uscì”: molti interpretarono gli “Ossi di Seppia” come una specie di diario di
crescita dell'Io del poeta dalla fanciullezza all'uscita dalla fanciullezza, in un territorio, in una stagione simile a quella
dell’ Alcyone di D'Annunzio, che è alla base degli “Ossi di seppia”.

– Montale era già andato oltre, infatti dice “Conteneva poesie che uscivano fuori dalle intenzioni che ho descritto, e
liriche (come Riviere) che costituivano una sintesi e una guarigione troppo prematura ed erano seguite da una ricaduta
o da una disintegrazione (Mediterraneo).”: ricaduta nel non senso e nella crisi esistenziale degli “Ossi di seppia”, è una
dichiarazione di incapacità di adeguarsi al senso ultimo e alle leggi forti che vengono dal mare, dal Mediterraneo. Nella
seconda edizione degli “Ossi di seppia” del 28 c’è un trapasso già ala stagione del “Le occasioni”, che è quella stagione
in cui lui delegherà a un tu femminile una salvezza che l’io del poeta non è capace di raggiungere.

– Parla poi dell'esperienza della vita a Firenze ermetica, in cui lui chiarirà la differenza dalla stagione ermetica: “nei
mottetti (che sembrano la poesia più rarefatta e più vicina a un'idea di poesia pura) sullo sfondo di una guerra cosmica
e terrestre, senza scopo e senza ragione, e io mi sono affidato a lei donna o nube, angelo o procellaria”: sono i simboli
del tu femminile che può salvare.

Questo è lo scatto più importante tra “Ossi di Seppia”, “Le Occasioni” e poi “La Bufera”.

→ L’io del poeta viene sempre rigettato al di qua di questa catena dell'essere negli “Ossi di seppia”, quindi nella
seconda edizione degli “Ossi di seppia” nel ‘28 lui delega a un tu femminile la possibilità di una liberazione, di un
andare oltre questa catena dell'essere.

129
→ Diventa poi un tu femminile e una salvatrice nel “La Bufera” che, con l'arrivo delle leggi razziali e della Seconda
Guerra Mondiale, diventa un tu femminile ebraico. La poesia di Montale si riempie di figure salvifiche che sono delle
ebree in fuga, le uniche innocenti che possono conservare nella loro fuga l'idea di una civiltà che Montale vede essere
spazzata via dal orrore che vince in Occidente tra il 38 e il 45. Il tu femminile diventa biblico, diventa ebraico nel “La
Bufera”, che ha l’ultima seconda parte dopo il ’46, quella parte in cui nelle ultime due poesie del “La Bufera”, cioè
“piccolo testamento” e “sogno di un prigioniero”, che escono dieci anni dopo nel ‘56, arriva a dichiarare che in realtà
l'orrore della storia non finirà mai.

OSSI DI SEPPIA
Il primo Montale che conosciamo è quello degli “Ossi di Seppia”.

– Già nel titolo richiamano quei titoli tipo gli “avanzi”, “i rottami”, “gli aborti”, che erano i titoli delle prime
avanguardie del 900, che indicavano ciò che non è vita, ciò che è dichiarazione di non vita, di non senso.

Gli “Ossi di Seppia”, nel paesaggio tutto Mediterraneo e Ligure, indicavano proprio gli ossi delle seppie che vengono
buttati sulla battigia, sulla spiaggia dal mare e che sono un segno di non vita, indicano i rifiuti buttati dal mare sulla
terra.

– Nella prima stagione fino al ’25, quando esce la prima edizione grazie alle edizioni Gobetti, cioè al più antifascista di
tutti gli intellettuali dei primi anni ’20, quello che fa guerra aperta a Mussolini e ai fascisti ancora prima che arrivino
alla marcia su Roma. Gobetti è colui che nutre le speranze del primissimo e giovane Montale, infatti Gobetti capisce la
grandezza di questo poeta e gli pubblica gli “Ossi di Seppia” nel ’25.

– Ma nella prima edizione mancano le ultime poesie che invece vengono aggiunte nell'edizione del ‘28, che sono
quelle in cui viene fuori il tu femminile. Montale dice “la speranza di un'uscita dall'infanzia passando dall’elegia
all’inno”: cioè da una poesia della mancanza, del pianto a una poesia capace di passare all'inno, cioè a un canto di
glorificazione di ciò che è. Questo passaggio è totalmente frustrato e nelle poesie del ‘28 lui Montale ammette che
non è lui che troverà l'epifania o un senso che si libera della catena dell'essere e chiede di provarci a un tu
chiaramente femminile. Tu che tra “Le Occasioni”e “La Bufera” diventa un tu con un volto s più chiaramente ebraico e
di ebrei in fuga.

LIMONI [Mengaldo pag 531]

– Nel primissimo Montale degli “Ossi di seppia” del ’25, la poesia “limoni” dichiarava apertamente che la poesia di
Pascoli e D'Annunzio andava attraversata e superata per arrivare a un territorio nuovo.

Nel “Saggio di Montale su Gozzano” (in cui Montale parla anche della sua esperienza), Montale dice che Gozzano è
stato il primo ad attraversare D'Annunzio, cioè non a scartarlo, ma a farlo suo per poi arrivare a un territorio tutto suo
e tutto nuovo di Gozzano. La stessa immagine è importante per capire che cosa se ne fa Montale di Pascoli e
D'Annunzio: in Montale quindi c’è anche Pascoli soprattutto nel suo dialogo con i morti che inizia dal “La Bufera” in
poi. D’Annunzio dell’Alcyone è importante per capire la prima edizione degli “Ossi di Seppia”, Montale ha fatto propria
la koinè pascoliana-dannunziana, ma è andato oltre.

Ascoltami, i poeti laureati → si rivolge a un ‘tu’ di un lettore, non femminile. ‘poeti laureati’:
Pascoli e D’Annunzio, i vati

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. → piante della botanica raffinata di Pascoli (Myricae e Canti di Castel
Vecchio) e

D’Annunzio (Laudi e dell’Alcyone)

lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi → ‘io’, giovane poeta del ’25, che ho attraversato Pascoli e
D’Annunzio, amo il

fossi dove in pozzanghere il paesaggio delle pozzanghere, in cui i ragazzi cercano di


agguantare l’anguilla,
130
mezzo seccate agguantano i ragazzi e le viuzze dei ciglioni scoscesi del paesaggio montuoso alle spalle
del mare

qualche sparuta anguilla: della Liguria, che scendono lungo i canneti e immettono negli orti
delle ville,

le viuzze che seguono i ciglioni, delle case ai piedi della montana. E negli orti ci sono alberi di
limone.

discendono tra i ciuffi delle canne

e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. → il limone è un albero mediterraneo comune e semplice,
contrapposto alle

piante nobili (bossi ligustri o acanti) che vengono evocati in


continuazione

dalla poesia dei vati, Pascoli e D’Annunzio (poeti laureati)

– C’è il retaggio post simbolista indietro questi versi di Montale, che lui dice apertamente essere stato fondamentale
per la prima raccolta già nell'”intervista immaginaria”.

– C’è nella prima strofa una dichiarazione di poetica fortissima del primo Montale: ha “attraversato” (usa questo
verbo) Pascoli, delle Myricae e Canti di Castel Vecchio, e D’Annunzio dell’Alcyone, ma da subito ha creato una poesia
altra, evocata attraverso il paesaggio dei limoni, degli alberi semplici e comuni, che illuminano il paesaggio reale (che
non è puro simbolismo della Liguria).

– Questo elemento dei limoni contrapposto ai “bossi ligustri o acanti” è un elemento di stilistica molto importante
della prima raccolta di Montale: la scelta di una lingua a forti tinte espressionistiche, cioè in cui anche solo nella lingua
e nello stile si richiama qualcosa di duro, qualcosa di non conciliato tra l'io e il mondo e anche tra l'io e sé stesso.

“agguantano i ragazzi” – “anguilla” – “ciglioni” – “viuzze” sono tutti suoni duri e fortissimi su cui insiste, agguantare è il
tipico verbo fortemente espressionistici con dei prefissi o prefissoidi. Sono tutti elementi di una lingua e di uno stile
espressionistico che indicano anche un superamento del simbolismo e della lingua più risolta di Pascoli e D'Annunzio.

– Viene descritta la Liguria semplice, delle piante semplici come i limoni e il loro colore e la loro luce sono realmente
concretezza, sono realmente il paesaggio della sua Liguria.

In alcuni versi della penultima strofa si scopre cosa c’è nei silenzi del paesaggio ligure:

Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s'abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto, → sembra arrivare una epifania, un senso nel non senso
dell’esistere.

talora ci si aspetta → “talora” = a volte

di scoprire uno sbaglio di Natura, → ricerca che era di Schopenhauer e dei contingenti. Sono termini e
immagini

il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, filosofiche di una catena dell’essere da cui l’individuo cerca di
uscire dalla

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta prigionia del non senso e trovare un’illuminazione di verità: questo
è tutto

nel mezzo di una verità. lo sforzo individuale, morale e filosofico di Montale degli “Ossi di
Seppia”.
131
– Sono i versi più esplicativi e più rivelatori del senso ultimo di questa poesia che è una ricerca di verità morale e
speculativa.

Lo sguardo fruga d'intorno, → lo sguardo dell’io del poeta cerca di trovare questo senso e questa via di
fuga

la mente indaga accorda disunisce → cerca di mettere insieme e non di disunire: processo speculativo di questi
verbi

nel profumo che dilaga → esperienza meditativa, filosofica, speculativa, ma sempre in un paesaggio
reale, che è

quando il giorno più languisce. quello della Liguria dei limoni

Sono i silenzi in cui si vede → sono i silenzi evocati all’inizio, nei silenzi del paesaggio, di tutto ciò che
circonda il

in ogni ombra umana che si allontana poeta, sembra arrivare un miracolo laico, di senso. Per Montale sembra di
scorgere

qualche disturbata Divinità. Delle tracce di una divinità, in senso laico, cioè una possibilità di senso però di
un Dio

che è sempre in fuga, sulla via della scomparsa. È una immagine cara a
Montale.

– In questa strofa c’è il momento dell’indagine in cui sembra che l’individuo, in questo caso l’io del poeta, possa
trovare un senso, una via di fuga dalla catena dell’essere, una traccia di senso della divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo → “Ma” rovesciamento nella strofa finale, l’epifania non arriva mai
pienamente.

nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra → non c’è più il paesaggio ligure della luce e dei limoni, del mare
Mediterraneo,

ma c’è quello delle città rumorose: Genova in Montale, la città


moderna e

industriale, che diventa (come in Rebora) città dell’alienazione,


evocata solo

con una lingua e uno stile espressionistico.

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. “cimase” = tetti

La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta “Stanca”: uso di verso con uno strano passaggio da intransitivi a
transitivi.

“La pioggia stanca la terra”: è un rendere animato ciò che non è


animato,

antropomorfizzare ciò che non è antropomorfico: in questo caso “la


pioggia”

elemento naturale “stanca la terra”, terra elemento animato. C’è uno


scacco

132
esistenziale: il miracolo non avviene, tutto è richiamato in uno senso
buio e

espressionistico. “s’affolta” = si fa più fitto, più forte.

il tedio dell'inverno sulle case,

la luce si fa avara - avara l'anima. → il giallo dei limoni scompare, il paesaggio reale della Liguria, in questa
poesia, si

è sempre rispecchiato in un paesaggio dell’anima. Quindi anche


l’anima diventa

avara, si chiude in sé stessa, nel non senso.

Quando un giorno da un malchiuso portone → “Quando” come un altro “ma”, c’è un altro scacco: la speranza che
arrivi questo

senso negli “Ossi di Seppia” non muore fino alla fine dell’edizione del ’28.

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni; → da un portone chiuso male viene fuori il giallo dei limoni, la luce: la
possibilità di un

miracolo, espresso tramite il simbolo dei limoni.

e il gelo del cuore si sfa, → l’avaro dell’anima si disfa

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni → la luce, che è una luce sonora: sinestesia simbolistica. Ritorno della possibile
illuminazione

del non essere e del non senso dell’esistenza.

le trombe d'oro della solarità. Attesa del miracolo, frustrazione e speranza che ritorni il momento
dell’illuminazione.

– Nella ricerca in cui sembra che nel silenzio debba apparire la pienezza di senso, invece, “ma” avversativo, viene a
mancare questa illusione. Tutto torna ad essere alienazione (termine che mai si sarebbe sognato di usare Montale).
C’è anche lo stile e la lingua espressionistica.

– “Limoni” è una poesia che già c'è nella prima edizione del ’25. Questo era il senso della prima raccolta di Montale:
ricerca di senso nel non senso della catena dell'essere, la ricerca della maglia rotta da cui si può uscire dalla prigionia
del non senso dell'esistere. Scacco esistenziale e filosofico: la epifania, il senso di illuminazione, la libertà, la pienezza
dell'essere non viene mai raggiunta. Si ritorna nel momento del ripiegamento e della sconfitta, quando c'è un
linguaggio espressionistico in Montale è il momento del ripiegamento e della sconfitta. Però un giorno tornerà a
risplendere questa possibile epifania, tornerà quello spiraglio di luce del giallo dei limoni. Il senso dell'attesa del
miracolo è in tutti gli “Ossi di Seppia” del ’25.

– Con l'edizione del ‘28 il poeta afferma che lui non si potrà salvare, non potrà arrivare a una pienezza di senso e di
esistenza ma che forse un tu femminile ci riuscirà.

Domanda: i limoni sono l'emblema dell'Italia mediterranea? Goethe definisce la Sicilia "la terra dove profumano i
limoni"? Certo

Montale per ragioni di salute fa studi molto irregolari. Tutta la sua cultura viene fuori grazie a letture personali e alla
sorella Marianna, che si laurea in filosofia, ed è lei che passa a Montale i riferimenti filosofici, tutt'altro che banali, già
quando lui è giovane (ancora non nessuno conosce come poeta): riferimenti ai contingentisti, a Boutroux, a

133
Schopenhauer. Questi giungono dunque a Montale grazie alla sua preparazione da autodidatta e allo stimolo della
sorella.

Si auto prepara a una cultura molto più libera rispetto a altri poeti laureati, come Ungaretti, perché la libera da dogmi
scolastici. Montale per esempio conosce già con la stagione degli “Ossi di seppia” sia la poesia inglese, che pochi in
Italia conoscevano, sia quella dell'800 di Browning, sia la poesia di TS Eliot che in quegli anni fa venire fuori la poesia
del “correlativo aggettivo”, cioè si mostra un oggetto ma dietro quello in realtà si evoca una ricerca di senso, che non
finisce mai, non è un singolo chiuso come nei poeti del simbolismo: gli stessi limoni non è un'invenzione di Montale,
ma la riprende dal correlativo oggettivo di Eliot. Montale smentisce ciò, dicendo che non conosceva Eliot, ma non è
vero: lo conosceva grazie alla mediazione di un italianista, anglista e comparatista, Mario Praz, il quale pubblica la
traduzione della sua poesia “Arsenio” che fa parte delle poesie del secondo “Ossi di seppia” del ’28. Quindi Ts Eliot
entra in contatto con il primo Montale degli “Ossi di Seppia” grazie alla mediazione di Mario Praz, che fa conoscere ad
Eliot e al modernismo, neoavanguardia, post simbolismo inglesi la poesia di Montale.

Montale conosce tutta la poesia moderna 8/primonovecentesca inglese, quando in Italia si ha sempre avuto fino agli
anni 50 un forte retaggio culturale influenzato direttamente dai francesi e molto meno dagli inglesi, perché non si
studiava l’inglese e si conosceva meno la letteratura inglese contemporanea. Montale ha un'apertura di conoscenze,
di cultura, di orizzonti poetici straordinaria già negli anni 20, infatti per esempio conosce Holderlin, poeta romantico
tedesco, quando ancora gli altri non lo conoscevano. Questo perché Montale, che si è dovuto fare una cultura da solo
per i suoi studi irregolari, ha come suggeritore la sorella Marianna, Praz che lo mette in contatto col mondo
anglosassone, Gianfranco Contini che lo mette in contatto con Dante e lo Stilnovo e con la poesia romantica tedesca,
Bobi Bazlen punto di raccordo tra Montale e la Trieste della cultura mitteleuropea, Saba e Svevo grazie a Montale
vengono farti conoscere tramite la rivista “Solaria” di cui Montale è uno degli animatori negli anni ’30, quindi tutta la
grande cultura mitteleuropea del centro Europa, di cui Trieste faceva parte, che Montale conosce prima di tutti gli altri
grazie ai suoi tramite culturali, che sono spesso uomini oscuri.

Montale riesce da grande intelligente, uomo, lettore sin da giovane, a guardare lì dove molti scrittori e intellettuali
italiani non arrivano per primi, ma per secondi, cioè al di là della tradizione francese, grazie a dei rapporti umani e
culturali (mostrati nell’epistolario di Montale) che gli aprono orizzonti europei, a cui arriveranno molto più
faticosamente nel secondo ‘900 altri poeti e scrittori italiani.

LEZIONE 19 - 28.04.21
EUGENIO MONTALE
Eugenio Montale è stato un grandissimo lettore di poesia, critico della poesia anche a lui contemporanea e anche di
quella dei più giovani, con un acume e una profondità che pochi critici hanno avuto, soprattutto quelli a lui coevi.

INTERVISTA IMMAGINARIA
È uno scritto, il più illuminante della poesia di Montale della prima fase, la stagione del recto tra “Le Occasioni” e “La
Bufera”.

– Il primo titolo è “INTENZIONI”, ma è conosciuta da tutti con il sottotitolo più suggestivo e rivelatore di ciò che è
questo scritto, cioè un'intervista immaginaria a sé stesso.

– E’ un’intervista immaginaria in cui tra i primi autori di cui si parla ci sono Gozzano e Gobetti, autori torinesi
importanti per capire Montale.

Gobetti: il primo grande giovane geniale, morto a meno di 30 anni, che aveva una mente eccelsa. Già da liceale aveva
contatti con Benedetto Croce e aveva capito tutto quello che stava succedendo in Italia già nei primi anni ’20. È stato
uno dei fondanti dell'antifascismo della prima ora, cioè proprio a ridosso della marcia su Roma, ed è stato uno dei
grandi martiri dell'antifascismo. Montale gli deve tanto perché è il primo che lo pubblica nelle sue edizioni gobettiane
nel ’25.

Gozzano: è il primo autore di cui si parla nella “Intervista Immaginaria”, è quello scrittore di cui Montale fa un ritratto
eccezionale nell’antologia dicendo che Gozzano è il primo, nella poesia del primo ‘900, che attraversa D'Annunzio, lo
fa proprio ma per arrivare a un territorio tutto suo e questo è un elemento che aiuta a capire sia Gozzano che
Montale. Per comprendere gli “Ossi di Seppia” è importante conoscere il rapporto strettissimo con Pascoli e, ancora di
più, con l’”Alcyone” di D’Annunzio.

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Un'altra cosa importante che dice nel “saggio di Montale su Gozzano”, che fa capire tanto della poesia del 900 e della
poesia di Montale, è “il primo che sa far cozzare l'aulico con il prosaico”: cioè Gozzano fa scontrare e convivere, in
maniera paradossale e ironica, l’aulico ossia la tradizione più alta, una poesia che deve ancora tutto alla tradizione
passata e anche più recente, con il prosaico, cioè con quanto di più basso ci possa essere nella realtà sia della poesia e
sia della vita quotidiana.

Questo elemento si trova anche nella poesia “limoni” di Montale in cui dice di non essere il poeta solo del linguaggio
aulico ma anche il poeta che, per parlare di questo elemento fondamentale come elemento di poetica programmatica,
usa come immagine i ragazzi che cercano di agguantate nelle pozzanghere le sparute anguille: c’è aulico e prosaico
che immediatamente, già nei “limoni”, hanno fatto esplodere la poesia del 900.

→ Quindi la poesia del 900 è un continuo mescolare aulico e prosaico, a volte facendo vincere l'aulico, a volte facendo
vivere il prosaico, e a volte invece, come Montale e come prima di lui Gozzano, facendo esplodere tutte le
contraddizioni poetiche in questo incontro- scontro tra aulico e prosaico.

– Altro elemento fondamentale è il melodramma. L'elemento musicale e soprattutto la librettistica è un elemento


importante in Montale ma anche nella poesia post-ermetica, come in Caproni. Si pone contro un'idea di poesia pura,
che era l'ideale ermetico, una poesia che evocasse qualcosa di assolutamente al di là della materialità e della vita e
che non fosse toccata da tutto ciò che circondava e rendeva impura la poesia, come la storia e la politica. Sono autori
che scrivono in pieno regime e censura fascista, quando era difficile esporsi alla realtà del presente e quindi si
chiudono in una torre d'avorio e cercano la poesia e la parola pura. Montale, riferendosi alla sua prima poesia degli
”Ossi di Seppia”, nell’Intervista Immaginaria dice:

“sapevo anche allora distinguere tra descrizione e poesia, ma ero consapevole che la poesia non può macinare” (cioè
essere autoreferenziale, essere poesia pura, prescindere dalla realtà circostante e concreta) “e che non può aversi
concentrazione se non dopo diffusione” → Vuol dire che prima di arrivare alla sublimazione e alla concentrazione della
parola poetica, che in una parola sola è capace di evocare interi paesaggi, anche solo mentali, Montale non può
prescindere dal punto da cui parte, ossi la concretezza e la realtà storica, materiale, civile e geografica (per esempio
senza la Liguria reale non si comprendono gli “ossi di Seppia”). Quindi descrizione e poi concentrazione e questo
l'elemento cozza contro la poesia dell'ermetismo, contro la poesia della poesia e della parola pura.

– Evoca un autore, che normalmente non è associato a Montale ma che torna e ritorna come un autore centrale, cioè
Foscolo.

– Altro elemento lo riprende da Leopardi, il più grande poeta dell'Ottocento, il quale aveva detto che “per nutrire la
poesia c'è bisogno di tanta prosa”. Montale riprende questo pensiero quasi con le stesse parole, scrivendo:

“il grande semenzaio di ogni trovata poetica è nel campo della prosa” → cioè la poesia che si nutre solo di poesia
manca di un sostrato fondamentale che, per Montale, è la prosa, l’elemento prosaico contrario a ogni idea della
poesia pura, del puro analogismo metafisico fondamentale negli ermetici.

– Ci sono riferimenti filosofici fondamentali: l'immanentismo e Boutroux. L’idea del uscire dalla catena dell’essere,
dalla ripetizione senza senso dell'esistenza per trovare uno squarcio di libertà, di senso e di epifania del senso, che
riprende soprattutto dai contingentisti francesi più che da Bergson.

– Altro elemento importante, nutrito da Gozzano, emerge quando Montale scrive:

“All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari al rischio di una controeloquenza” →
emerge “l’art poetique” di Verlaine, una delle basi del simbolismo e della poesia tra 800/900, il quale apre il testo
della poesia di fine secolo sostenendo che innanzitutto ci vuole musica, quindi ritiene l’elemento musicale come
fondante della poesia, e chiude il testo con un altro pensiero poetico fondamentale “bisogna torcere il collo
all'eloquenza”, cioè di rompere la catena e il linguaggio poetico plurisecolare e creare una poesia moderna e nuova
facendo un elemento di rottura e di violenza rispetto a una secolare tradizione poetica. Montale dunque nell’
Intervista Immaginaria cita direttamente Verlaine, però parla del rischio di creare una contro-eloquenza, rischio che
era stato di tutta la poesia del primo ‘900 di cui si era nutrito Montale. Quindi per rompere la tradizione poetica si era
creata una contro eloquenza, cioè quella delle avanguardie del primo ‘900, in cui tutto veniva distrutto ma era
diventato anche un gioco poetico. Montale ha saputo andare oltre e afferma che non è importante creare una contro-
eloquenza, cioè un altro sistema che dovrà essere in qualche modo retorico, ma l'importante è essere capaci di
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arrivare a un territorio nuovo, quindi c’è l’idea Gozzaniana di far propria la più alta tradizione poetica, di attraversarla
e di arrivare a un nuovo territorio. Gozzano era un esempio importantissimo della nuova contro eloquenza, che
andava oltre i secoli della poesia aulica. → C’è dunque il richiamo al legame con la tradizione simbolistica, da cui
proviene l’idea Verlaineriana “di torcere il collo alla vecchia eloquenza poetica”.

– Cita una nuova tradizione per la poesia italiana, Montale è uno dei primi che la conosce e la frequenta grazie a una
serie di fortunati incontri, cioè la poesia inglese. Per gli italiani però non è tutta nuova: Browning scrive già a metà ‘800
e lo cita esplicitamente contro un'idea di poesia pura, quindi contro la tradizione ermetica, e anche TS Eliot che lo cita
per l’idea che anche dove sembrava più vicino all’ermetismo (come nel’” Le Occasioni”, in particolare nei ”Mottetti”)
in realtà era “una poesia che nascondeva l’occasione spinta” (parole usate da Montale), cioè la realtà concreta,
storica, geografica, umana delle occasioni della vita la nascondeva, la occultava molto più che nella poesia precedente
di Montale (ma in realtà c'erano anche nella poesia che sembrava poesia pura) e metteva avanti solo l'oggetto
(emerge nei “Mottetti” nell’addio nella stazione alla sua amata). Quindi Montale dice a tutti critici, che per non hanno
compreso niente del “Le Occasioni” e soprattutto dei “mottetti”, che se non tornano all’origine, all’occasione spinta
che ha occultato, non capiranno nulla neanche dell'oggetto della sua poesia che gli è sembrata poesia pura, poesia
ermetica, poesia dell'analogia, poesia che evoca l'altrove, un significato ultimo e metafisico, come fa ermetismo.
Montale cerca di occultare TS Eliot, grande poeta del 900 poetico mondiale, ammettendo che in realtà non aveva
bisogno di conoscere la sua poetica del correlativo oggettivo, cioè il mettere l’oggetto avanti a tutto ma dietro
l'oggetto c'è un'occasione importante da capire per comprendere la poesia. (nei poeti c’è “l’angoscia dell’influenza di
tutti i grandi poeti”, occultare i propri padri, scappare dall'ombra che questi proiettano sulla propria opera. Lo ha già
fatto Petrarca con Dante, e qualcosa di simile fa Montale che cerca di allontanare l'ombra di un mostro sacro come TS
Eliot.)

– Alla fine dell’Intervista Immaginaria, Montale parla del “La Bufera”, una delle raccolte più difficili di Montale.

MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO [Mengaldo pag 534]

-È una poesia delle edizioni del ’25.

– Nel “meriggiare pallido e assorto” c’è l'immagine e la riflessione sul senso della vita semplicemente evocando un
meriggio, le ore immediatamente vicine e successive al mezzogiorno, assolatissime, nella calura della Liguria
onnipresente negli “Ossi di Seppia”. Quindi evoca un paesaggio reale, concreto e geografico: la famosa descrizione da
cui parte Montale e da cui tira fuori quella che lui chiama una concentrazione poetica, una concentrazione di pensiero.

– C’è il sostrato simbolistico fortissimo, l'evocazione in questo paesaggio di vista e udito che diventano un sentire
interiore e mentale.

Meriggiare pallido e assorto → verso chiave già all’inizio della poesia: paesaggio dell’anima

presso un rovente muro d'orto, → è il paesaggio dell’Infinito di Leopardi: è seduto ma il muro d’orto (come la
siepe per

Leopardi) blocca l’orizzonte del paesaggio della Liguria.

ascoltare tra i pruni e gli sterpi → “Ascoltare”, è il primo senso richiamato, i primi suoni della natura:
fonosimbolismo.

schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche → adesso c’è il senso “Guardare”, immagine che deriva più da Gozzano.

ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano

a sommo di minuscole biche. → i piccoli cumuli di terra dove le formiche creano il loro formicaio.

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Osservare tra frondi il palpitare → ritorna il senso della vista. “frondi” è una parola aulica.

lontano di scaglie di mare → “palpitare/mare” rime perfette con retaggio simbolista

mentre si levano tremuli scricchi → verso ripreso interamente dalle “Myricae” di Pascoli

di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia → è un meriggio molto dannunziano.

sentire con triste meraviglia → “sentire” che non è un ascoltare, ma è un sentire interiore

com'è tutta la vita e il suo travaglio → presso il muro lui vede la siepe e anche un significato oltre questo limite.

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. → “cocci di bottiglia” sono quelli che si mettevano in cima alle mura delle ville
per

rendere difficile il paesaggio da esterno e interno. Sono qualcosa che


possono

ferire, possono essere mortali e creano un limite.

È un Correlativo aggettivo.

– In questo paesaggio c’è l’”Infinito” di Leopardi e “il meriggio” di D’Annunzio:

-Leopardi dell’elemento sensistico, dell’esperienza del paesaggio reale circostante (i rumori, il sentire i frusci del
vento…), della vista (sulla collina c’è la siepe che ostruisce la vista ma lui grazie all’immaginazione poetica finge il
paesaggio che è aldilà ma che lui non vede), quindi c’è tutta la dialettica della realtà fisica, percezione del reale e
scatto della mente poiché finge l’infinto, che in realtà è un indefinito.

-“un rovente muro d'orto”: è il paesaggio dell’infinito. Parte dal reale, ma nel pensiero riesce a fingere orizzonti infiniti,
sterminati silenzi, suoni e spazi che diventano spazi della mente partendo da quelli concreti.

-Elemento fondamentale è anche l’infinito, che è anche l’infinito dei verbi. Questo si trova in chiusura anche
dell’”Infinito” di Leopardi “naufragar è dolce in questo mare” dove c’è anche il gioco tra l'infinito del “naufragare” e il
finto infinito della rima interna di “mare”, un gioco stilistico e linguistico di Leopardi. Qui l’infinito attraversa tutta la
poesia di Montale che si ricorda anche nei famosi finiti infiniti di D'Annunzio, il quale li utilizza per dare l’idea di
un'esperienza che poi diventa indefinita e mentale, non semplicemente fisica e sensistica.

“meriggiare, ascoltare, spiare, osservare, sentire” sono i verbi che danno la sequenza di questa poesia e sono tutti
all'infinito. Diventano il punto di partenza dell'esperienza al di là dei limiti dei sensi della realtà fisica, visiva e uditiva
del Montale di questa poesia, così come lo erano del Leopardi dell'”Infinito”.

-Lo stile e la lingua, fondamentale degli “Ossi di seppia”, deve tantissimo a Pascoli e in particolare a D'Annunzio
dell'”Alcyone” e quindi deve tantissimo a loro fonosimbolismo. Proprio gli stessi suoni di Pascoli e D'Annunzio vengono
ripresi e riprodotti da Montale: “gli sterpi, gli schiocchi, i tremuli scricchi” sono anche una serie di allitterazioni, sono
tutti i suoni fonosimbolici che riprendono suoni onomatopeici, cioè della natura di cui la poesia si era
abbondantemente nutrita con Pascoli e D'Annunzio.

Infatti si parla di una koinè pascoliano-dannunziana in Montale e in buona parte della poesia del ‘900, cioè il
linguaggio comune, la sintesi comune della lingua de 900 che viene da una nuova sintesi tra Pascoli e D’Annunzio.

• La chiave montaliana di questa poesia è già nel primo verso.

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“meriggiare pallido e assorto”: di solito l’aggettivo pallido è associato a un volto umano e non solo, ma assorto
sicuramente si può associare ad una mente e a una presenza umana. Quindi in realtà non c’è mai un ‘io’ del poeta, ma
l'esperienza dell'uomo e l'esperienza mentale sono la base di tutta questa poesia.

→ Dunque già nel primo verso tutto si fa “paesaggio dell’anima”: ciò che lui vede e ascolta nella prima quartina, poi
spia, poi osserva (guarda con ancora più attenzione) nelle quartine successive, diventa poi un sentire nell’ultima strofa
che non è semplicemente l'ascolto ma è un sentire interiore.

Con gli aggettivi “pallido e assorto” si ha una tecnica già post simbolistica: associare aggettivi e un nome, ma in realtà
normalmente quegli aggettivi non potrebbero essere associati a quel nome ma a un altro elemento del discorso
poetico, ossia all’io del poeta. È quella “ipallage”, detta anche enallage, che è uno degli espedienti retorici più
importanti del sostrato post simbolistico che si trova in Montale e che sarà, peraltro, uno degli elementi
dell’analogismo della poesia ermetica.

Quindi in questa poesia, questo paesaggio in realtà, da subito, evoca un filtro umano, un punto di osservazione
umano.

-Nella prima quartina troviamo il primo senso che è quello dell’ascoltare.

• Nella seconda quartina c’è il senso del guardare nel verbo “spiar”, che riprende più Gozzano.

• Nella terza quartina ritorna la vista, “osservare”. “Frondi” è una parola aulica, fa cozzare aulico e prosaico,
un'eloquenza e una contro eloquenza. “palpitare/mare” rima perfetta, in cui però si usa ancora una volta un retaggio
simbolistico, cioè la luce del mare che palpita, con qualcosa di animato che non è immediatamente e normalmente
associato alla vista.

• L’ultima strofa è formata da 5 versi in cui c’è lo stacco dalla descrizione fisica e dai verbi sensoriali. È il momento che
Leopardi indica con il fingere nella mente.

“cocci aguzzi di bottiglia”: creano un muro che impedisce di andare al di là e anche l'avvenuta da fuori a dentro, in
questo limite lui vede il senso di tutta la vita. Diventa un'esperienza veramente esistenziale. È un correlativo oggettivo:
nell'immagine che lui mette avanti i cocci di bottiglia, sul muro della villa presso cui sta seduto, è l'oggetto e dietro c’è
un pensiero che è quello del lungo travaglio, del continuo soffrire che è la vita che però ci impedisce di avere un senso
ultimo, un’epifania, un’essenza al di là dell'esistenza, che è la ricerca poetica e filosofica del Montale degli “Ossi di
seppia” e non solo.

Dunque “i cocci aguzzi” sono il limite, c’è la descrizione del reale che è sempre presente in Montale (lo afferma
“nell'intervista immaginaria”): lui è nella villa a Monterosso (la famiglia di Montale era abbastanza agiata) e presso
questo muro d'orto vede che in cima ci sono i cocci aguzzi di bottiglia che impediscono di andare oltre a chi sta dentro
la villa, ma anche di far entrare ciò che sta fuori dentro la villa. Questo limite invalicabile, che è il limite della nostra
esistenza e della nostra ricerca di senso, diventa il senso profondo dell’immagine dei cocci. È il limite da cui tutto lo
sforzo dell'io poetico di Montale vuole andare oltre negli “Ossi di Seppia” ma che però alla fine vince sempre su tutto.
È il cuore della ricerca poetica, esistenziale, autobiografica e filosofica novecentesca sublime di Montale.

– La ricerca su come scrivere è fondamentale: vi è già una metrica liberata. Usa le quartine, le forme più semplici e più
usate nella poesia moderna, che avevano rime incrociate o, ogni tanto, anche rime baciate. “assorto/orto”
“serpi/sterpi” sono rime baciate. Poi Montale incomincia a cambiare un po' le rime e usa un'abilità particolare di
Pascoli e D'Annunzio che si chiama “rima ipermetra” in “veccia/s'intrecciano”: veccia fa rima con intreccia e sarebbe
così una rima perfetta, ma c'è una sillaba metrica in più, quello ‘no’ finale in ‘s’intrecciano’, che deve essere
conteggiato col verso successivo metricamente e per questo si chiama ipermetra, ciò che va oltre il metro regolare.
Era una squisitezza stilistica di cui era maestro assoluto Pascoli, ma lo usa anche da D'Annunzio. → Quindi cambia lo
schema rimico di quartina in quartina e ancora di più nei 5 versi finali. Montale usa un elemento fondamentale della
nostra metrica canonica, ossia la quartina con rime baciate o incrociate, che era una ovvietà nella poesia moderna, ma
scompiglia tutto, ne dà una nuova interpretazione e questa è la metrica liberata (non libera, non c'è il verso libero).

Inoltre, i 5 versi finali “abbaglia/meraviglia/travaglio/muraglia/bottiglia” ripetono delle rime quasi perfette di verso in
verso. Ma in realtà abbaglia rima perfettamente solo con muraglia, meraviglia solo con bottiglia e rimane travaglio
come rima imperfetta: ciò vuol dire che gioca ripetendo, con piccolissime variazioni, lo stesso suono duro, la ‘gli’,

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perché è uno scacco conoscitivo e esistenziale che deve essere richiamato anche solo attraverso lo stile e anche solo
attraverso la metrica. Quindi diventa un suono ossessivo che sembra ripetersi uguale, ma non è esattamente uguale, è
un suono duro rispetto all’uso delle liquide, è un suono duro di scacco che è richiamato anche dai suoni duri, in questi
ultimi versi, di “cocci aguzzi”. Dunque i suoni duri sono quell’elemento espressionistico che nei grandi poeti, come
Montale, indica sempre uno scacco esistenziale e conoscitivo.

L’immagine delle mura coi cocci di bottiglia c'era già in Gozzano.

ARSENIO[Mengaldo pag 536]


– “Arsenio” è una delle poesie fondamentali aggiunte nell'ultima parte degli “Ossi di Seppia” nell'edizione del ’28.

– In Arsenio c'è Eugenio Montale: è uno dei nomi che Montale usa per nascondere l’io poetico, infatti già nei suoni di
“Arsenio” vi è la ripresa di “Eugenio”. L'altro nome che Montale usa è Eusebio, con il quale riprende l'inizio del nome
Eugenio, ed era il nome che usava nei suoi scambi epistolari con i suoi amici e in particolare con Gianfranco Contini,
che è stato uno dei primi studiosi della poesia di Montale ed è importante perché fa conoscere e studiare a Montale
dei fronti poetici, importanti per la poesia della prima età giovanile, come Dante e lo Stilnovo. Infatti, nei primi
epistolari completi di Montale, c’è l’epistola tra Eusebio e Trabucco, che erano i due nomi che usavano i due grandi
intellettuali e scrittori, Montale più come poeta e Contini più come filologo e critico, quando si scrivevano.

– In Arsenio c’è il poemetto di ampio respiro e soprattutto la descrizione di un temporale che sta arrivando sulla costa
ligure, l’arrivo di una bufera (che Montale avrà visto molte volte nella sua villa a Monterosso, quando passava lì le sue
estati). Questa immagine vuole richiamare la possibilità di un momento che spazzi via il ripetersi uguale della catena
dell'essere, dell'esistenza e che apre uno squarcio di verità, un'epifania, un senso al non-senso della vita, che è
frustato fino alla fine nella poesia di “Ossi di Seppia”. Infatti in un certo punto della poesia dice “discendi”, che è
un’anafora in questa poesia, è un richiamare finalmente un momento di liberazione, cioè l'arrivo di questa bufera, e
invece poi, subito dopo quando sembra che il vento spazi via la catena e arrivi il momento dell'epifania, questa verità
non arriva mai pienamente.

– C’è infatti una pausa, con la lineetta “–“alla quarta strofa, che spezza in due la stessa quarta strofa:

“Discendi in mezzo al buio che precipita”: sembra che stia arrivando il buio della tempesta, ma questa strofa si spacca
a metà.

“ - finché goccia trepido

il cielo, fuma il suolo che s'abbevera,

tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono

tende molli, un fruscio immenso rade

la terra, giù s'afflosciano stridendo → “Afflosciarsi”, verbo espressionistico, basso: la tempesta si sta per afflosciare,
pe finire

le lanterne di carta sulle strade.” prima che arrivi l’immagine di verità, l’epifania

….

“ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,

nell'ora che si scioglie, il cenno d'una

vita strozzata per te sorta, e il vento → “vita strozzata”: è la possibilità di verità, di epifania (che riprende nella poesia
successiva)

la porta con la cenere degli astri.”

LE OCCASIONI
- La verità e l’epifania, che emerge nelle poesie successive “casa sul mare”/”Delta”, Montale la consegna in mano a un
“tu femminile”, che dagli “Ossi di Seppia” del ’28 ci sarà sempre, fino almeno al “La Bufera”.

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– Nelle tre raccolte, “Ossi di Seppia”, “Le Occasioni”, “La Bufera”, c’è un rapporto strettissimo tra ultima parte della
raccolta precedente e l’inizio della raccolta successiva, cioè tra l’ultima parte degli “Ossi di Seppia” e la prima parte del
“Le Occasioni” e l’ultima parte del “Le Occasioni” annuncia la prima parte del “La Bufera”. Infatti più volte Montale,
con varie immagini e con varie parole, ha detto di aver scritto un'unica pagina, unita in tutti i suoi punti, che è il
“recto” (che va da “Ossi di Seppia” fino al “la bufera”) e poi il “verso”, che è una sua continuità (da “Satura” fino alle
ultime raccolte). Quindi anche strutturalmente sono costruiti come libri. Questa unione è voluta da Montale, non è
casuale, lui vuole scrivere un unico romanzo, tanto che il primo titolo che immagina per “La Bufera” è “Romanzo”: c’è
il romanzo della sua vita, c'è il romanzo della storia d'Italia e c'è un filo che diventa narrativo tra il Montale precedente
e il Montale del “la bufera”.

– Il “tu femminile” diventa protagonista, l'alter ego con cui dialoga Montale nel “Le Occasioni”, negli anni del pieno
fascismo: ha vinto Mussolini e Montale è nemico del fascismo, sta sul fronte opposto. Il contesto storico va sempre
tenuto presente in Montale, non è la sua una poesia pura. Quindi “Le Occasioni” hanno al centro il dialogo con un tu
femminile, che era stata la chiusura degli “Ossi di Seppia”.

– La novità però è che questo tu femmine, che sembra un tu femminile unico, in realtà comprende tanti tu femminili.

Quelli più importanti sono i tu femminili delle donne ebree: Liuba Blumenthal, una donna realmente esistente (si
parte dalla realtà anche nel “le occasioni”, che sono la raccolta più vicina a un linguaggio ermetico), Dora Marcus, altra
donna ebrea austriaca che Montale conosce in Italia → entrambe erano donne ebree, esistite veramente, in fuga dopo
le leggi raziali dei ’38. Poi la più importante di tutti, che Montale non nomina mai nel “Le Occasioni” neanche con un
nome inventato, è la sua amatissima Irma Brandeis, ovvero una italianista americana, in particolare studiosa di Dante,
che ha una borsa di studio a Firenze per poter studiare proprio Dante e lo Stilnovo. Studia anche presso il gabinetto
Viesseux di cui Montale è direttore, fin quando il governo fascista gli toglie questo unico incarico possibile perché non
prende la tessera fascista, e qui Irma Brandeis incontra realmente Montale. Diventa la donna della sua vita, la più
importante di tutte, colei che lascia un segno indelebile nella poesia e nella memoria reale autobiografica di Montale.
Da questo si evince come Dante diventi fondamentale per lui dal “Le Occasioni e ancora di più dal “La Bufera”, sia
grazie a Contini e sia grazie a Irma Brandeis. Questo grande amore però ha una fine tragica perché nel ’38, poco dopo
averla conosciuta, lei deve scappare dall'Italia e tornare in America perché ci sono le leggi raziali.

 Dunque tutte le donne, di cui Montale ha parlato in questa raccolta, sono donne ebree in fuga. Eppure loro, già nel
“Le Occasioni”, e in maniera più esplicita nel “La Bufera”, diventano quel tu femminile a cui Montale consegna, come
già aveva fatto alla fine di “Ossi di Seppi”, la possibilità di un riscatto che diventa un riscatto morale. La donna ebrea
prende su di sé tutte le colpe della storia, che le vengono buttate addosso dal nazifascismo, e lei forse è l'unica che
può portare da questa cattività, del ventennio in Italia e della guerra mondiale in tutta Europa e in tutto l'occidente, il
popolo, come il popolo ebraico dell'Antico Testamento, verso una nuova terra promessa, che è la terra promessa in
cui Montale crede si possa arrivare oltre la barbarie (termine gobettiana-montaliano degli anni 30 e 40). La donna
ebrea diventa quindi un simbolo fortemente biblico, perché sono gli ebrei dell'Antico Testamento, gli amati da Dio,
che vengono privati della loro terra, portati nell'Egitto e nella Babilonia dell'esilio e che poi cercano il ritorno verso la
terra promessa.

○ LA BUFERA → C’è tutta l’interpretazione allegoria, o meglio figurale, dell'Antico Testamento che viene ripresa da
Montale, in particolare nel “La Bufera”, in cui la chiave biblica diventa essenziale, è richiamata in tutto il linguaggio
biblico: Montale ha sempre le radici nella realtà e parla anche della realtà più terribile dei suoi anni, anche dove
sembra essere ermetico. Nel “la Bufera” petrarchesca c’è un linguaggio alto, il discorso petrarchesco è
apparentemente più aulico. E ciò emerge nel terribile e sconvolgente componimento che è “primavera hitleriana”:
Montale difficilmente fa riferimenti con nomi e cognomi storici e reali di cui lui parla nella sua poesia, anche in quella
che sembra poesia pura ed ermetica, ma questo è un caso unico in cui nomina apertamente, con questo ossimoro
orrendo, la primavera (che indica la rinascita) e l'odore di Hitler. Richiama il viaggio che fa Hitler, osannato a Firenze, e
l'orrore di scoprire che la maggior parte degli italiani in realtà non sono incolpevoli, ma sono colpevoli, anche quando,
subito dopo l’orrore nazifascista, si giustificano in quale modo dicendo di non poter far niente. Nel cuore di questa
poesia, che narra questo fatto storico preciso, il maggio del ‘38 con la visita di Hitler a Firenze osannato da tutto il
popolo anche fiorentino, ci sono dei versi difficilissimi da interpretare che vengono dall’apocalisse della Bibbia, in cui
però viene evocata la possibilità di un'altra vita dopo che ognuno sarà passato per il giudizio divino. Il linguaggio

140
biblico è fondamentale per “La Bufera”, però la cosa sconvolgente nella “Primavera hitleriana” è che Montale riesce a
parlare di un fatto storico precisissimo, per una volta in maniera esplicita, con nome e cognomi, ed essere allo stesso
tempo superar rarefatto, richiamare un linguaggio e delle immagini bibliche molto sofisticate e difficili e finalmente far
venire fuori la sua Clizia, che in realtà è Irma Brandeis. Clizia è un mito ovidiano, tratto da un sonetto pseudo
dantesco, è la donna che viene tramutata in girasole perché continua a volgere sempre lo sguardo verso Apollo, cioè il
sole. Quindi Montale in questa poesia mette insieme la complessità del linguaggio e di immagini: il fatto storico, Hitler
a Firenze, la folla osannante, l’idea che prima o poi ci sarà un giudizio universale e solo i giusti alla fine sono coloro che
vincono (storicamente gli ebrei perseguitati, ma anche tutti coloro che hanno subito l’orrore di ciò che è successo tra
fine anni 30 e anni 40) e poi un'immagine che viene dalla mitologia e che nasconde un’immagine reale, cioè
l'immagine del tu femminile più importante nel “La Bufera che è Clizia, Irma Brandeis, che è dovuta scappare in
quanto ebrea perseguitata dall'Italia.

[C’è un legame tra la “primavera hitleriana” e il film di Ettore Scola “una giornata particolare” in cui si ricorda la visita a
Roma (non a Firenze) di Mussolini e Hitler. Anche in questo film c'è una figura femminile al centro che è l'anti-Clizia,
perché Clizia in tutta “La Bufera” è la donna intellettuale, l'angelo Beatrice perché è colei che vede, è colei che sa ed è
l'unica che può dare la salvezza e la beatitudine (come la beata Beatrix della “vita nuova” e guida di Dante nel
“Paradiso”). Irma Brandeis era la donna di pensiero, era colei che rimane fedele fino alla fine al meglio della civiltà
occidentale, dove poi la civiltà occidentale viene buttata via dall’orrore e dalla barbarie nazifascista: è il tema chiave
delle ultime “Occasioni” e di tutta “La Bufera”. Sophia Loren nel film di Scola è l'anti Beatrice: in realtà ha la stessa
funzione salvifica, è una delle perseguitate, è una donna ignorante, è una donna che grazie alla presenza
dell'intellettuale Mastroianni capisce di aver avuto una vita miserrima, è stata condannata dalla società e dal marito a
fare una vita miseranda, di povera casalinga inconsapevole. Ma alla fine grazie a Mastroianni, intellettuale omosessuale,
altrettanto esiliato e perseguitato da ciò che avveniva in Italia e in Europa, apre gli occhi e arriva un brandello di luce nel
film di Scola tramite questa poverissima anti Beatrice, donna di nessuna cultura, donna semplicissima che, finché non
incontra l'altro esiliato del giorno di festa, lei non fa parte della festa, cioè quella che storicamente fu fatta per l’arrivo di
Mussolini e Hitler a Roma, accolti, acclamati e osannati dalla folla. Lei rimane a casa perché è una donnina di nessun
conto, però incontra sulla terrazza, prima con un dialogo a distanza tramite le finestre e poi sulla terrazza dove lei
stende il bucato, l'intellettuale omosessuale, altrettanto esiliato, Mastroianni e lì c'è la scintilla della verità.

Quindi attraverso questa bellissima figura della poveraccia miserrima, Sophia Loren, Scola ha creato un’anti Beatrice
che è l'opposto di Clizia nella “primavera hitleriana”. Però da queste ultime derelitte viene fuori l'unica verità vera,
l'unica purezza morale, in un momento di orrore generale in cui tutto l'occidente ha abdicato alla sua civiltà, al suo
senso di civiltà, in quei momenti bui]

[In una stupenda poesia, altrettanto difficile, del “Le Occasioni”, ossia “tempi di Bellosguardo”, si capisce perché Foscolo
è importantissimo per Montale, che cosa vuole dire l'idea di barbarie che Montale e Gobetti intuiscono già negli anni
’20 quando arriva Mussolini, molto prima che tanti intellettuali osannanti poi si convertitono all'antifascismo, alla
resistenza.]

POESIA FRAMMENTO [Mengaldo pag 542]


Nel capitolo centrale del “Le Occasioni” c’è uno splendido Mottetto che, richiamando la forma poetica e musicale
molto breve del Medioevo, richiama la forma di questa poesia che è un piccolo brandello, in genere con due voci, e
anche con due parti, brevissime costitutive di questa poesia ellittica, in cui l'ellissi non è solo stilistica ma anche di
immagine e di pensiero.

– È Cuore della poesia che è stata definita ermetica impropriamente perché ci sono delle analogie stilistiche e di
linguaggio con l’ermetismo degli anni ’30, ma Montale dice che la sua non è mai una poesia della parola pura,
analogica e astratta.

Addii, fischi nel buio, cenni, tosse → velocità e ritmo accelerato: riprende l’immagine del treno.

e sportelli abbassati. È l'ora. Forse → “è l’ora”: pausa fortissima, linguaggio biblico. L’ora dell’addio
definitivo.

gli automi hanno ragione. Come appaiono → immagine strana “automi” indica la massa, gli uomini che seguono
passivamente

141
dai corridoi, murati! tutto ciò che succede intorno

- Presti anche tu alla fioca → “tu”: Irma Brandeis. L’evocazione dell’accelerazione ora diventa la “litania”: il
treno che

litania del tuo rapido quest'orrida lentamente inizia a camminare.

e fedele cadenza di carioca? – Evoca il ritmo uguale che c’era in una delle musiche più amante in quegli anni:
la musica

sudamericana del Carioca, che era anche un ballo alla moda.

– Poesia brevissima, ellittica, mancano una serie di elementi anche logici e di raccordo tra le immagini e le parole.

– L’occasione spinta è l'addio definitivo che Montale dà a un “tu femminile”, dietro cui si nasconde Irma Brandeis,
ancora una volta una donna ebrea in fuga dall’Italia e dalla Europa della persecuzione ebraica. Questa occasione reale
viene resa ellittica da Montale richiamando una poesia di Carducci, “alla stazione di una mattina d’autunno”, in cui ci
sono parole, oltre che immagini, fondamentali che Montale riprende. Anche in Carducci c’è l’addio alla sua amata e c’è
l’idea del mostro, del treno e della folla che erano i nemici rispetto alla donna che lo stava abbandonando o lo stava
lasciando. Infatti nel primo verso appare la velocità e il ritmo accelerato, usando un termine che (non è un caso) è
legato al del ritmo del treno.

– il terzo verso indica con “automi” la massa degli italiani che hanno accettato passivamente non solo l’orrore del
fascismo, ma in particolare l'orrore delle leggi razziali. I colpevoli che Montale cita nella “primavera hitleriana”.
L’immagine degli automi ritorna in Montale, perché siamo bel oltre il ’25, qui si è già quando gli italiani e l'occidente
hanno accettato di tutto, anche tutto ciò che contraddice la loro essenza di figli di una civiltà come quella classica,
rinascimentale, del razionalismo illuministico, e buttano via tutto perché bisognava creare la nuova razza. Gli automi
erano gli “uomini che non si voltano” degli “Ossi di Seppia”, coloro che non guardano dietro per cercare di vedere il
brandello di verità che va oltre l’apparenza, ma in questa poesia viene storicizzato in maniera molto più drammatica.
Quindi gli automi erano gli uomini degli “Ossi di Seppia” che non si fanno domande, ma qui c'è il peso della storia,
Clizia sta scappando perché ci sono le leggi razziali e gli italiani le hanno accettate. All’inizio Mussolini era lontano
dall’idea di Hitler di applicare le leggi raziali in Italia, perché lui ha avuto ottimi rapporti con tanti uomini di pensiero e
addirittura nell'esercito c'erano tanti validi e valorosi ufficiali ebrei che avevano combattuto sul fronte nella Prima
Guerra Mondiale. Era una cosa totalmente lontana dalla nostra cultura, politica e ideologica. Poi però Mussolini per
primo per paura accetta le leggi razziali, fa pubblicare il manifesto della razza, lui stesso accetta tranquillamente tutto
ciò che viene fatto in Italia agli Ebrei. La colpa non è solo Mussolini, è stato facile scaricare tutto dopo la Prima Guerra
Mondiale sui fascisti e su Mussolini, ma il popolo italiano è stato passivo, gli intellettuali hanno avuto paura perché
con le leggi razziali vengono buttati fuori tutti i docenti ebrei nella scuola e nell'università e tutti i professori
universitari firmarono la fedeltà ai principi antiebraici, tranne 11 che rifiutarono di firmare la fedeltà, anche
intellettuale, al fascismo. → negli “automi” c’è tutto questo, si è nel ’39.

“gli automi murati” sono i veri prigionieri della paura, delle convenzioni, della passività.

– “Carioca”: Montale più volte evocherà nel “Le Occasioni”, e ancora più spesso nel “La Bufera”, il “fandango”, ossia le
musiche e i balli sudamericani che erano di moda dagli anni ‘30 e ’40, che sono quelli della massa che continua a
ballare e suonare questi ritmi allegri, mentre succede l'orrore. Per Montale quella che dovrebbe essere una musica di
vita, un ritmo di felicità, era contrapposto all’orrore che stava accadendo.

→ Quindi Montale chiede al “tu”, alla donna” se si associa a questa musica ritmata del treno, ma anche (secondo
livello di lettura) della massa inconsapevole e passiva che non si ribella a quello che sta succedendo. Questa è una
domanda retorica perché Clizia, donna in fuga, sicuramente è accanto al poeta.

Dunque la poesia e la parola pura, l’analogismo puro degli ermetici (siamo in pieni anni di trionfo ermetico) sono
molto lontani dalla poetica profonda di Montale. Ci sono affinità stilistiche, meno affinità linguistiche, ma, come
Montale dice nell'”Intervista Immaginaria”, dietro quello che sembrava un oggetto incomprensibile, messo davanti al
142
lettore della sua poesia, c'era l'occasione spinta che dava senso all’immagine. Dietro questa immagine di un addio a
una donna, un addio sentimentale, c’era il momento storico, le leggi antiebraiche, la fuga di Clizia insieme a tanti
intellettuali italiani che dovettero scappare all'estero. La filosofia, la filologia, la scienza italiana e tedesca persero
quanto di meglio avevano con la fuga che ci fu degli ebrei, i quali spesso prima passano dall'Inghilterra e molti poi
giungo in America (e da coloro che sono scappati dall’Europa, perché perseguitati, è nata la ricchezza culturale
dell'America dagli anni ’50 in poi).

Lezione 20 - 29 Aprile
Ieri avevamo letto “Addio fischi nel buio” e ci siamo fermati su questo mottetto particolarmente semplice e
esemplificativo sia del ruolo che pian piano muta e diventa sempre più complesso nella poesia di Montale, il ruolo di
questo tu femminile che in questo caso è chiaramente una delle donne ebraiche in fuga di “le occasioni” ma sta
diventando quel mito di Clizia cioè di una donna ebrea in fuga che è Irma Brandeis, amata da Montale che fugge dopo
le leggi razziali e diventa la coprotagonista del nucleo più importante di “la Bufera” cioè della raccolta successiva alle
“occasioni”.
E’ molto interessante nella forma, nella struttura stessa della poesia questa forma di mottetto, un riferimento ai canti
e alla forma poetica del Medioevo e quindi due voci e soprattutto una brevitas, una poesia frammento che si avvicina
al linguaggio dell'ermetismo di cui parleremo a breve. Queste sono “le occasioni”. Tra le 3 raccolte in particolare
quelle del famoso recto dell'opera di Montale e quindi tra “Ossi” “occasioni” e “bufera” c'è questo filo di continuità
come in un romanzo e quindi la parte finale di una raccolta già preannuncia la raccolta successiva; così succede anche
nelle “occasioni”: questo tu femminile prende il volto sempre più chiaro , nell’ultima parte dell’opera, di Irma Brandeis
che rappresenta questa figura salvifica, l'ebrea che sconta su di sé i peccati del mondo e nella sua purezza potrà
portare a un futuro riscatto universale dei giusti. Irma Brandeis prende le vesti e anche le forme poetiche di una figura
biblica: nella “Bufera” saranno tantissimi e fortissimi i riferimenti biblici, in particolare quelli tratti dell'Antico
Testamento cioè la Bibbia ebraica (la Bibbia dei Cristiani, la Bibbia dei Vangeli è poco presente).

La raccolta del 56, “la bufera e altro”  importante è questa aggiunta “altro” che viene apposta da Montale
nell'edizione definitiva perché oltre al nucleo iniziale e centrale della “bufera”, che è quello che riguarda la bufera
storica della seconda guerra mondiale e questa tensione verso un possibile trionfo finale dei giusti, grazie all’opera di
questa Beatrice salvifica Clizia - Irma Brandeis, abbiamo poi nella parte finale, quella degli anni 50 in poi, un Montale
che vive la delusione esistenziale, storica, morale, politica di un’Italia e di un Occidente liberato che per Montale non si
riscattano dai mali della storia passata, inizia quella disgregazione di quel possibile slancio morale e civile di Montale
che lo porterà a quella forma di nichilismo dagli anni 50 in poi, rispetto alla storia contemporanea, alla cultura
contemporanea, alla poesia contemporanea, per cui la sua poesia diventerà riscrittura, citazione, della sua poesia
soprattutto della prima stagione ma in forma parodica o parodizzante. Quindi c'è un “altro” oltre la bufera, che era la
bufera storica, quella che è racchiusa nella prima sezione della bufera che la sezione di Finisterre. Finisterre è il primo
nucleo della “Bufera” scritto quando arriva la famosa barbarie, questo orrore crescente della fine degli anni 30 che già
aveva evocato alla fine delle “occasioni” e arriviamo al conflitto mondiale: questa è la bufera storica, come dice lo
stesso Montale. Questo bufera storica è già sublimata in versi nel primo nucleo della “Bufera”, quello chiamato
“Finisterre”  viene pubblicato in segreto dal suo amico Contini (torna il nome di Contini, fondamentale per Montale)
in Svizzera, dove lui risiedeva e insegnava perché ovviamente questa bufera storica, questa fine della terra, fine
dell'Occidente ( con questa espressione si indica proprio l'estremo occidente d'Europa), questo Finisterre viene scritto
a caldo, proprio quando esplode la II guerra mondiale e quindi ovviamente era una poesia, un'invettiva contro l'orrore
contemporaneo della II Guerra Mondiale che non poteva assolutamente essere pubblicato in Italia.

La poesia che apre questa raccolta è il componimento eponimo (quello che dà il titolo alla raccolta). Il titolo è proprio
“la bufera” che viene scritto come ci dirà lo stesso Montale per evocare non solo una bufera storica ma anche una
bufera esistenziale, autobiografica, l'addio alla donna, alla studiosa americana da lui amata, ebrea che deve scappare.
La Bufera per Montale è anche apocalittica, metastorica: in tutta questa parte della bufera che ruota attorno agli anni
della II guerra mondiale, c’è questa evocazione proprio da Bibbia, da apocalisse, da libro dell'apocalisse in cui viene
evocato una specie di resa dei conti finale, alla fine della storia degli uomini tra Dio e gli uomini, il momento, il giorno
dell'Ira divina, in questo giorno alla fine della storia umana in cui Dio salverà i pochi giusti e condannerà tutti gli altri.
Questo empito biblico fortissimo della Bufera ruota attorno a questa evocazione fortissima di una condanna divina per
l'orrore perpetrato dagli uomini contro gli stessi uomini e una condanna definitiva Divina in cui il tramite, gli unici
giusti, sono queste figure di sacrificati e in particolare questa figura centrale di Clizia, che si immola per tutti, prende
veramente le vesti e il linguaggio biblico, è una specie di agnello sacrificale ed è anche però, in maniera più letteraria e
143
poetica, chiaramente ispirato alle Beatrici più importanti della nostra poesia, a cominciare dalla Beatrice dantesca.
Quindi la bufera è questa qui: non solo bufera esistenziale, autobiografica, il distacco definitivo da Irma Brandeis ma
anche bufera storica (le leggi razziali)  è arrivata quella bufera tanto temuta già nella fine delle “occasioni”, della
raccolta precedente e diventa una resa dei conti finale, una bufera veramente metastorica in cui gli uomini si
troveranno di fronte alle loro responsabilità, di fronte all'ira divina. L'empito biblico, metastorico è fortissimo già dalla
prima poesia ma ancora di più nelle sezioni successive.
Ci sarebbe tanto da dire su questa raccolta: è fondamentale perché anche un anello ci fa capire come si chiude questa
prima fase montaliana e come si apre a qualcosa che ormai è oltre.

In questa prima parte, quella di Finisterre quella che viene scritta e pubblicata quando è appena iniziata questa bufera
storica della II Guerra Mondiale, l’immagine della bufera (il linguaggio è molto rarefatto e molto petrarchesco) evocata
è quella di una bufera di notte in cui appaiono solo dei bagliori di luce. Questi bagliori di luce derivano dall’oro che
copre le pagine di libri preziosi, le edizioni pregiate dei libri, quelle che hanno il filo d'oro esterno.
Che cosa vuole evocare? Vuole evocare questa barbarie che sta inondando e sradicando le basi della civiltà
occidentale, che fa come incetta di tutti i valori più sacri del nostro Occidente e della nostra cultura. Questo bagliore
associato ai libri nella bufera è l’evocazione di quella civiltà a cui rimane invece fedele Montale (ed è sempre rimasto
fedele, ce lo dirà nel “il piccolo testamento”) ed evoca anche ovviamente i libri, la cultura, che simboleggiano anche la
figura di Irma Brandeis, la studiosa italianista raffinata, la dantista raffinata, che salva se stessa tornando nelle sue
terre americane e lasciando le terre della barbarie che stanno spazzando via questa civiltà della cultura italiana e della
cultura occidentale.
Questa volta Il bagliore e la bufera evocano una distruzione: una parola chiave sarà proprio distruzione. Nella chiusa
c’è come sempre questo stacco finale, quasi gnomico nella poesia di Montale: l’io del poeta si rivolge al tu, che è
chiaramente quello di Clizia - Irma Brandeis fuggita, che lo saluta per entrare nel buio. Il buio è il buio dell'assenza
d'ora in poi dalla vita, dalla storia del poeta Montale ma anche il buio della fuga, a causa delle persecuzioni.
Questa è la poesia incipitaria della raccolta, poi pian piano nel “Romanzo” – ricordiamo che questo è il titolo pensato
inizialmente da Montale, titolo che diventerà poi la Bufera –questa donna sarà l'unica possibilità di luce, evocata
anche in termini biblici, per una umanità che invece ha abiurato ai suoi valori umani e spirituali fondamentali.

Ci sono anche versi tratti da Daubigny, autore francese che scrive questi versi nel momento in cui in Francia c’è una
guerra civile sanguinosissima tra cattolici e ugonotti (protestanti), quella della notte di San Bartolomeo, quella
lacerazione terribile in nome della religione che fu uno degli orrori della storia Europea tra fine 500 e prima metà del
600 e anche oltre. Non è un caso che evochi questo autore francese e questi versi: “I principi non hanno occhi per
vedere queste meraviglie le loro mani servono solo a perseguitarci”  i principi sono il potere che abiura ai propri
doveri fondamentali come proteggere il proprio popolo e invece usano il loro potere solo per portare violenza e
morte, come succede in Francia per le ragioni, almeno a un primo livello di lettura, strettamente religiose. Cita quindi
un momento molto buio della storia moderna Europea in cui l'occidente, l'Europa Cristiana in realtà brucia, abiura,
rifiuta i principi più sacri che erano stati quelli dell'Occidente Cristiano.

La Bufera
Ora leggiamo i versi ed estrapoliamo gli elementi fondamentali di questa poesia.
Perché Montale sottolinea che questa è la raccolta più petrarchesca che lui abbia mai scritto? Ci sembra strano, se
pensiamo agli “Ossi di seppia” e alle “occasioni”, quella forma, la scrittura, i riferimenti (soprattutto Danteschi).
Montale afferma che Petrarca esplode in questa raccolta perché almeno alcune delle ragioni fondamentali ricostruite
lentamente dai critici e dagli studiosi sono che Montale utilizza e fa proprio un linguaggio e dei riferimenti al
petrarchismo, a Petrarca stesso e cioè a quella voce della poesia che è stato il fondamento della migliore poesia
classicista per tutta Europa. Petrarca è il padre della poesia classicistica, di una tradizione importante dal 500 in poi
per tutta Europa non soltanto per l'Italia. E’ stato quello che ha fondato e insegnato a tutta l'Europa moderna (in
Francia, Inghilterra, Germania, Spagna) cosa potesse essere il prodotto più alto e raffinato di una cultura che dal 500 in
poi si definisce come classicista cioè come tesoro di tutta la migliore, più alta, raffinata cultura italiana e occidentale. Il
riferimento è dunque voluto: nel momento della barbarie che abiura tutti i valori fondanti della civiltà italiana e
occidentale, Montale richiama in maniera fortissima i valori poetici più alti e fondanti di un classicismo comune
europeo che invece questi barbari, così vengono chiamati dagli antifascisti della prima ora a cominciare da Gobetti,
hanno distrutto e stanno distruggendo ancora nei primissimi anni della II guerra mondiale.
Non solo: Petrarca viene scelto anche perché la stessa figura di Laura è già un primo esempio di Clizia, un esempio di
144
una Beatrice che si fa possibile riscatto morale del poeta, pensiamo alla seconda parte dei “Rerum Vulgarium
Fragmenta”  sappiamo che l'amore per Laura ha un radicamento terreno e passionale che non rimane tale fino in
fondo, rispetto alla purificazione assoluta e spirituale del poeta Dante attraverso la figura di Beatrice, colei che da le
beatitudini, colei che riesce a portare il poeta dinanzi a Dio nel paradiso. Laura invece muore, è colei che non c'è più
ma vuole essere guida morale del poeta che invece non riesce a riscattarsi dalla sua accidia e dal suo amore terreno.
Quindi anche un riferimento petrarchesco a una figura femminile? Sì, sicuramente molto dantesca, giustamente
salvifica, una novella Beatrice ma attenzione perché comunque la Clizia, la figura Angelicata della bufera rimane anche
fortemente tinta di tratti terreni e anche dei ricordi, delle memorie passionali e terrene che vengono evocate nella
“Bufera” e quindi conserva dei tratti che in tanti momenti sono più della Laura petrarchesca e di quello che Laura è
comunque per il Petrarca che non riesce a purificarsi totalmente come Dante, rispetto alla Beatrice del Paradiso per
intenderci.
Tanto più Montale richiama un linguaggio alto, aulico e potremmo non capire perché classicistico, nel senso che
abbiamo detto prima, con Petrarca come guida del migliore classicismo moderno. Tanto più richiama questo, tanto
più sale il registro e la lingua nella bufera quanto più questa bufera invece sta spazzando via con la con violenza
inaudita le basi di questa stessa civiltà umanistica.

La Bufera
La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell'oro
che s'è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d'istante – marmo manna
e distruzione – ch'entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l'amore a me, strana sorella, -
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi salutasti – per entrar nel buio

L'intera costruzione è veramente raffinata. In realtà è un unico lungo pensiero: tutta la prima parte, con una semplice
elencazione, con ellissi del verbo principale, una giustapposizione di immagini, la bufera, i tuoni, il lampo, l'eternità
distante. Questo lungo elenco evoca questa bufera, questo arrivo del temporale, cos’ha di più raffinato? Che si blocca
o meglio si intreccia con una lunga parentesi - i suoni di cristallo - in cui questa bufera richiama però la luce sui libri
rilegati che sono un segno della presenza di Clizia e dei suoi studi quindi anche di quella civiltà che è in pericolo ma che
lei porta invece nelle sue palpebre. Gli occhi, la vista, l'iride di Clizia sono uno dei segnali delle figure legate a Clizia che
attraversano tutta la bufera, è lei che porta dentro di se, dentro la sua vista quanto la bufera storica che vorrebbe
cancellare per sempre. Queste tracce dei libri d'oro, questa luce nel buio che è innanzitutto buio della storia, sono
conservati negli occhi di Clizia, la donna di cultura ebraica. Continua poi questa elencazione, questa scrittura per
paratassi con ellissi del verbo principale, il lampo che illumina per un momento tutto – alberi, muri, e li sorprende in
un’eternità distante, nel momento in cui c'è il lampo che finalmente arriva ad illuminare tutto, è un lampo che porta
però insieme “manna”. Che cos’era la “manna”? immagini biblica dell'Antico Testamento, era il cibo che aveva nutrito
gli ebrei, mandato da Dio, nella loro lunga prigionia. Ancora una volta è un’immagine biblica legate alla Bufera Storica

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(la prima di tante immagini bibliche). C'è l'immagine di un Dio che nutre ed è vicino ai giusti, agli ebrei in fuga ma è
anche una luce che ricorda la distruzione, così come il temporale evoca la bufera che evoca distruzione. Tutto questo
può essere salvezza per alcuni mentre per molti è soltanto l'arrivo della distruzione.
Che cosa ricorda questa “eternità distante”, figura ossimorica fortissima legata alla bufera? E’ una delle immagini
pascoliane che resta nella poesia del 900, è l'immagine del lampo che arriva di notte per un secondo ad illuminare una
casa, che si accende e poi si spegne, appena finisce la luce del lampo come un occhio che si apre e si chiude nella notte
nera. In realtà c'era un analogismo fortissimo con la morte del padre, nel momento in cui il padre, nell’ultimo istante
di vita vede la luce, il fucile che lo sta uccidendo e poi buio per sempre perché muore. Sarà una delle immagini
metaforiche analogiche. L’analogia è il fulcro di questa traduzione post simbolistica. E’ uno dei simboli più forti e
ricorrenti apparentemente nei quadretti bucolici delle Mirycae: in realtà in quella luce che si accende e si spegne, in
particolare nel lampo ma anche al di là delle stesse Mirycae, c’è l'evocazione di questo momento di luce che però
porta ad un buio definitivo. E’ esattamente come la manna: dà l'idea di una possibile salvezza per l'umanità che è
oppressa da questa barbarie. A questo momento di salvezza viene associato immediatamente la distruzione, la morte,
che sta portando questa bufera.
Perché lei porta dentro di sé questa condanna? Perché è un’ebrea. Da secoli e secoli gli ebrei portano la condanna di
una persecuzione e di una possibile "Liberazione verso la Terra promessa perché Dio è accanto a loro” evocando
proprio uno degli snodi fondamentali di tutto L'Antico Testamento, nei libri.

Domanda: in Pascoli serve anche un correlativo oggettivo?


Risposta: sì. Noi lo chiamiamo correlativo oggettivo, se vogliamo citare TSL ma se vogliamo essere fedeli a Pascoli che
non può conoscere Tsl che viene dopo, parliamo di analogia, di simbolo che però è già un simbolo che diventa
analogia.
Qual è la differenza tra simbolo e analogia? simbolo non è coincidenza tra significante e significato ma contiguità
figurale e logica. Il simbolo classico, pensiamo a Pascoli, è il gelsomino notturno come simbolo dell'amore che si apre,
sboccia di notte, quindi c'è una chiara correlazione anche logica, non solo figurativa tra significante (l'immagine) e il
significato.
Con l'analogia, siamo già all’ analogismo novecentesco, quindi ad una tradizione post simbolista, questa contiguità
(che vuol dire essere uno attaccato all'altro) tra immagine e il significato che era propria del simbolo, salta, c'è un salto
logico ed è un salto in cui l'immagine viene associata a tutto un pensiero anche complesso, che però è frutto solo di
un’invenzione del poeta e che quindi non è immediatamente contigua e correlata a quella immagine.
Nel lampo c'è un salto da simbolo ad analogia: ci sono voluti gli studi delle carte pascoliane per capire che quella
correlazione tra l'occhio che si apre e si chiude, come nel lampo che velocissimo illumina e poi torna il buio, era in
realtà legato al ricordo della morte del padre. Non è un simbolo, c'è una contiguità creata in maniera assolutamente
soggettiva e prelogica dal poeta. Il rapporto tra l'immagine e il suo significato non è affatto contiguo, non ha una
continuità logica ma è creato liberamente da un forte potere evocativo, creato dall’ immaginazione poetica. Per
questo il lampo viene preso ad esempio già da un simbolismo che sta andando verso l’analogismo novecentesco, che è
l’ analogismo, per esempio, di questo Montale.
Il lampo della bufera si carica di miliardi di significati ancora più complessi del lampo di Pascoli: la bufera che sta
arrivando, la fuga di Clizia come simbolo della cultura occidentale in pericolo e in quel momento proprio spazzata via,
il simbolo della fuga degli ebrei e del loro possibile arrivo in una terra promessa per volontà di Dio che li ha eletti come
giusti. C'è tutto un contenuto complesso, una stratificazione di contenuti, in quella immagine che è diventa analogia,
non è un semplice simbolo.
Questo è il salto tra simbolo di fine 800 e analogia di questo Montale e poi di più nell'ermetismo che si fonda sull'
analogia delle immagini, che evocano spesso immagini e idee che rimangono oscure ai lettori. Per questo è stato
difficile studiare Montale per i filologi critici, per questo è difficile leggere la poesia dell'ermetismo, per questo Flora,
uno dei grandissimi critici del primo 900, nel 36 scrive quel saggio in cui per primo definisce ermetica quella poesia
degli anni 30, per dire che è troppo oscura, perché l'analogia nascondeva significati che sfuggivano ai più, significati
complessi, fortemente evocativi e quindi abbiamo un salto evidente, radicale da simbolismo di fine 800 a analogismo,
in questo Montale e nei suoi coetanei, che sono i poeti dell'ermetismo.
Precisazione: Pascoli stesso ci dice che il gelsomino, il fiore che è chiuso di giorno e si apre di notte, è come l'amore
che sboccerà e si aprirà di notte  il significato è evidente proprio perché ce lo svela il poeta stesso. Questo è un
simbolo. Se invece dietro un'immagine il poeta evoca (la parola chiave è evocazione) tanti possibili significati abbiamo
allora un’analogia  nella bufera che viene evocata da Montale abbiamo una serie complessa e numerosa di

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significati che vengono evocati, tanto che la critica e i lettori hanno fatto fatica a capire cosa veniva richiamato in
questi versi proprio perchè siamo ormai nel territorio dell’analogia. E’ saltata la continuità e la contiguità logica e
figurale tra l'oggetto e il suo significato immediatamente evidente collegato a quell'immagine, è saltata questa
evidenza, questa continuità, questa contiguità, tra immagine e significato. Il poeta invece con l'analogia evoca una
serie di possibili significati dietro a quell’ immagine senza mai rendere chiaro ed esplicito quel legame tra l'immagine e
i significati che vengono evocati. La parola chiave in questa tradizione post simbolistica, che si fonda sull’analogismo,
questa tradizione che poi diventerà l’ermetismo degli anni 30 e 40 (anni della Bufera di Finisterre), è evocazione
(evocare possibili significati).

Montale non essendo un poeta della poesia pura, della parola pura (che è quella degli ermetici), in realtà evoca una
serie di significati difficili ma in realtà razionali e fondati su un contesto storico e culturale preciso. Tutti i possibili
significati della bufera, dell’immagine della luce e del buio che porta speranza e distruzione, che porta il buio della
storia ma insieme la luce delle pagine dei libri pregiati, dei fogli dei libri pregiati: tutto questo in Montale c'è e bisogna
decriptarlo magari con fatica, come ci hanno aiutato a fare Contini, Mengaldo, Isella, tanti commentatori di Montale
ma c’è e ha significati anche autobiograficamente e storicamente fondati. I poeti dell'ermetismo che studieremo
subito dopo, invece, tendevano a una poesia pura, alla parola pura. Che vuol dire? che doveva evocare possibili
significati con una tensione metafisica fortissima, in cui il radicamento nella storia, nella realtà, doveva essere
superato.
In questa analogia fortissima della bufera vengono evocati almeno questi significati possibili: arriva la tempesta
storica, la bufera storica che va spazzando via tutto, in particolare la cultura occidentale ma restano dei segni negli
occhi della donna di cultura ebraica. In questo lampo, che è il lampo della bufera c'è insieme la luce, quella luce o quel
bagliore che ancora Clizia ha negli occhi, quella luce di quel po' di civiltà che ancora cerca di sopravvivere alla barbarie.
Ma c'è anche la distruzione, perché Montale scrive la Bufera e Finisterre, la prima sezione della bufera, con la bufera
in corso quindi non si sa ancora come andrà a finire. Questa bufera sta distruggendo tutto in Occidente, non solo in
Italia. C’è questo filo di questa strana sorella, che è questa figura ebraica, che in parte lui sente sorella, quindi fine a
sé, ma anche estranea, anche diversa da se. Questo perché la donna è ebraica mentre Montale non è ebreo, quella
della donna è una figura particolare  di Irma Brandeis sappiamo quasi tutto, è un personaggio anche diverso da
Montale, proprio autobiograficamente. Lui però la sente fine a sé, come sorella, se pure in alcune diversità evidenti, a
cominciare dalla sua radice ebraica e americana.
Dopo questa illuminazione veloce che porta luce ma ricorda anche la distruzione che sta arrivando con questa bufera,
arriva lo schianto e quindi viene richiamato (rileggetevi il lampo e il tuono in myricae ma anche il temporale di Pascoli)
il rumore, il suono arriva dopo la luce in un temporale. Il tuono e la bufera che è arrivata sono tutte immagini che
richiamano uno schianto rude, una distruzione.
I sinistri sono i famosi strumenti dei riti funebri egiziani che aveva evocato ancora una volta Pascoli nell’Assiuolo di
Myricae. Sono tutti rumori che ricordano l'arrivo della bufera che è innanzitutto la bufera storica.
Soffermiamoci sull’immagine del fandango: ieri abbiamo già trovato il ritmo di Carioca  tante volte Montale
evocherà questi balli e queste musiche sudamericane particolarmente ritmate, che erano in gran voga in quegli anni
 in Montale evocano non qualcosa di vitale e positivo ma qualcosa che evoca una musica e dei ritmi degli uomini
automi, della massa che facilmente accetta quello che sta succedendo.
Qualche gesto che annaspa: è l’immagine finale che finisce con i puntini di sospensione  sono coloro che stanno per
essere sommersi dalla bufera, a cominciare dai tanti ebrei in fuga. Quelli che annaspano, che stanno per essere
travolti vengono immediatamente associati al momento in cui Clizia, per non essere travolta da quelle persecuzioni
razziali, deve andare via. Questo è un giorno terribile per Montale: Clizia lo ha salutato per entrare nel buio, non ci
sarà più una Clizia reale nella vita di Montale, con un’ immagine che è un leitmotiv ricorrente, in particolare in
Finisterre ma che troviamo in tutta la bufera, cioè l'immagine della fronte, delle nubi dei capelli (la frangetta che
veramente Irma Brandeis aveva) viene evocata come tratto, come senal di Clizia in tutta la bufera.
Alla prof interessa sapere perchè la bufera è la poesia programmatica di questa raccolta; cosa intendeva Montale per
bufera storica ma anche metastorica, l’educazione dell'Ira divina, dell'apocalisse che tornerà in altra poesia della
bufera.
Precisazione: per i punti di sospensione, il grande maestro è stato Pascoli, poi per i poeti del primo 900 soprattutto
Pascoli, Montale che li userà tantissimo proprio a partire dalle “occasioni” e ancora più nella “bufera”  i puntini
indicano la sospensione del detto e in quel non detto c'è una suspence, che è una sospensione, che evoca in Montale
soprattutto, un momento in cui la parola non basta, la parola non riesce a dire. È un tratto stilistico che viene
soprattutto da Pascoli. Ricordiamo che la sospensione era un tratto tipico anche già dei mottetti di Montale delle
occasioni: spesso mette i puntini di sospensione proprio per dividere la prima parte dal secondo frammento dei
mottetti. E’ una pausa, una sospensione, in cui in quel non detto c'è tanto  proprio come qui, dopo i puntini di
sospensione, dopo la luce si evoca il tuono, arriva la bufera storica, momento di sospensione perché il non detto, la

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parola, non riesce a dire tutto fino in fondo, non deve dire perché non è possibile dire tutto, è stacco fortissimo che si
chiude solo evocando quel momento  la figura che annaspa di Clizia che scompare, ma quando Clizia scompare
annaspa anche Montale in questo buio storico e anche autobiografico della separazione definitiva da quella che resta
la sua donna Beatrice, la sua Laura, come nessun'altra donna sarà per lui, tanto meno la Drusilla Tanzi, moglie mosca
che avrà tutt'altra funzione.

La Primavera Hitleriana
La Primavera hitleriana è un momento culmine del passaggio tra gli anni a caldo di Finisterre, della prima sezione cioè
quando Montale sublima l'orrore che sta vedendo e sta vivendo e il dopoguerra. La poesia “primavera hitleriana”
viene iniziata a caldo subito dopo la visita a maggio del 38 di Hitler a Firenze, in cui viene acclamato dalla folla ma poi
verrà completata solo nel dopoguerra nel 46, quando Montale vedrà che troppi si puliranno la loro coscienza,
nell'immediato dopoguerra, dichiarandosi innocenti.

Nella “primavera Hitleriana” abbiamo Clizia - Irma Brandeis che per la prima volta viene citata esplicitamente tramite
questo mito ovidiano presente nelle Metamorfosi, quello della fanciulla Girasole che guarda sempre Apollo, che era
stata citata già in quel componimento attribuito a Dante nelle rime incerte e che viene evocato proprio nel verso che
fa da epigrafe a questa poesia. In questa poesia si passa dalla differenza, anche nell’ oscurità, che sembra tutta
ermetica di questa poesia ma emblematico dello stacco fortissimo dall’ermetismo, perché qua Montale sta
richiamando un fatto storico preciso, con elementi reali precisi, del momento storico del paesaggio Fiorentino di Hitler
in quel giorno.
Precisazione: per Montale gli uomini automi sono parte di questa passività collettiva che già nel 46 non è un segno di
innocenza come diranno tanti italiani e non solo italiani alla fine della II guerra mondiale, non è un segno di innocenza
ma un segno di correità, di essere stati corresponsabili dell'orrore che c'è stato anche grazie alla passività, anche all’
essere stata una massa di automi che hanno rinunciato alla loro libero arbitrio e al loro io morale.
Ecco lo stacco fortissimo pur nell'oscurità dei riferimenti ma in realtà poi sono stati pian piano decriptati anche da tutti
i filologi. La differenza, il salto fortissimo rispetto all'ermetismo, nel maggio del 38 c’è questa visita di Hitler a Firenze e
quella sera ci fu una pioggia di falene bianche, qualcosa che annunciava quasi un fatto contro natura, una pioggia di
farfalline bianche attirate dalla luce di sera che viene evocato e sembra chissà che cosa in sé, non si capiva a cosa
faceva riferimento ma avvenne veramente, quella sera di maggio a Firenze.

La Primavera Hitleriana
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

 sulle spallette  Lungo l’Arno.


 Scricchia  è lo scricchiolio delle falene.
 l’estate imminente sprigiona ora il gelo notturno  la visita di Hitler a Firenze avviene nel mese di maggio.
Nonostante fosse maggio, fa molto freddo. Sembra quasi un fatto contro natura.
 Maiano  Fuori Firenze
 questi renai.  lungo l’Arno.
 È un paesaggio storico – geografico assolutamente reale. Ricordiamo cosa dice Montale nel 46 (anno in cui
conclude questo componimento) all’interno dell’Intervista immaginaria “: mai fatta poesia pura; mai fatta
poesia accostabile a quella dell’ermetismo. La mia poesia parte sempre da dati concreti storici e geografici”

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale


tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
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la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

 Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale  evocazione dell’arrivo di questa figura diabolica.
Hitler è un messaggero degli inferi.
 tra un alalà di scherani  sono i fascisti, gli accompagnatori di Hitler
 un golfo mistico acceso e pavesato di croci a uncino  le bandiere con la croce ad uncino nazista, venivano
sbandierate lungo il passaggio di Hitler
 si sono chiuse le vetrine, povere e inoffensive benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra  è la
prima immagine dei negozi che sono stati chiusi per festa perché sta arrivando Hitler. Sono innocui negozi di
giocattoli che però ora espongono armi da guerra, è un richiamo alla colpa di chi invece sembra inoffensivo e
innocente. Tutti erano imbevuti da questa sete di guerra.
 il beccaio  macellaio. Evoca tra i negozi chiusi in questo giorno di festa, quello dei giocattoli che sembrano
inoffensivi ma sono giocattoli di guerra o le vetrine del macellaio, che espongono i capretti uccisi 
l’immagine del capretto ucciso è un’immagine biblica che richiama il sacrificio ebraico.
 miti carnefici  sono quelli nazi fascisti.
 Trescone  ballo molto ritmato, come il fandango della Bufera e il carioca del mottetto.
 d’ali schiantate  fa riferimento alla pioggia di falene.
 di larve sulle golene  ancora le falene bianche lungo il fiume.
 tutto sembra continuare nella Firenze, nell' Italia, nell' Occidente come se nulla fosse ma in realtà nessuno
d'ora in poi potrà dirsi incolpevole dopo aver accolto gioiosamente i miti carnefici. Questa è la condanna
terribile, morale che arriva da Montale che toglie qualsiasi alibi di innocenza a tutti quelli che poi diranno “ma
io non ho avuto colpe”.
Ed ecco il pensiero finale, quello che arriva poi nella parte finale del 46, in cui vengono richiamati
esplicitamente delle immagini, dei passi della Bibbia e dell'apocalisse soprattutto.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele


romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio ….

 San Giovanni  è il protettore di Firenze. Abbiamo un richiamo biblico alla festa di giugno di San Giovanni.
 lunghi addii  innanzitutto il suo a Clizia, nell’attesa che arrivasse l’orda barbarica, la bufera della guerra.
 (ma una gemma rigò l’aria stillando sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire)  ATTENZIONE: con la parentesi si stacca la continuità del racconto e delle immagini ed
entriamo nella Bibbia e nell’Apocalisse. È un messaggio che arriva dai lidi nordici dov’è scappata Clizia. E cosa
annuncia quella possibilità di riscatto di coloro che sono andati in una nuova terra promessa abbandonando
l’Europa? Il momento in cui Dio sarà accanto a loro – richiama la Bibbia, il libro di Tobia e poi l’Apocalisse – e
porterà l’ira di Dio contro gli uomini, alla fine della storia in cui punirà gli ingiusti e salverà i pochi giusti. I
Sette  sono gli angeli che portano i peccati che arriveranno dinanzi a Dio che li punirà nel giorno dell’ira
divina. La semina dell’avvenire da quei peccati che verranno scontati, arriverà poi la semina dell’avvenire,
la storia dei giusti e il loro riscatto.
 e gli eliotropi nati dalle tue mani  sono i girasoli, fiore che simboleggia Clizia, una degli innocenti che in
quanto tale verrà salvata e porterà un possibile avvenire, al di là di questa barbarie e della giusta ira divina.
 – tutto arso e succhiato da un polline che stride come il fuoco e ha punte di sinibbio ….  il trattino segna uno
stacco già utilizzato anche nelle Occasioni e nella Bufera: dopo le scene a tinte forti e apocalittiche, si torna
alla Firenze menzionata prima. Polline che stride  è quello delle falene iniziali. Il mare di falene è come un
fuoco con punte fredde, di un vento freddo (sinibbio) perché il vento freddo evoca sempre il vento gelido del

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Nord America in cui è tornata Clizia, quindi ha valenza positiva, il luogo in cui Clizia si è rifugiata, che diventa
speranza per un avvenire diverso dopo questa bufera.

Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

 Questa è la fine in cui torna Clizia e in cui Montale nomina per la prima volta la Clizia di Ovidio e dello pseudo
– Dante.
 Piagata primavera  è quella del maggio dell’arrivo di Hitler a Firenze che potrà servire se porterà ad una
rinascita, se potrà portare al giorno del riscatto, dell’avvenire.
 Guarda ancora in alto, Clizia  evoca il mito di Ovidio, Clizia che continua a seguire con lo sguardo Apollo che
lei ama e che qui viene ripreso nello pseudo – Dante.
 , tu che il non mutato amor mutata serbi  cita testualmente il verso di Dante contenuto nel sonetto pseudo
Dantesco, in cui lei conserva dentro di sè, non mutato, l’amore per Apollo, mentre lei è mutata perché è stata
trasformata in girasole nelle Metamorfosi di Ovidio. Clizia, attraverso queste immagini anche bibliche,
diventa la donna salvifica che potrà portare un riscatto morale dopo questo orrore. Clizia rimane fedele a
questo amore, che non è semplicemente l’amore verso Montale ma diventa un amore divino, infatti dice
“fino a che il cieco sole che in te porti”  il cieco sole è la verità nascosta.
 si abbàcini  venga illuminato fino a diventare una cecità sacra in quell’altro amore, che è l’amore divino,
perché Dio è accanto agli ebrei perseguitati.
 nell’Altro e si distrugga in Lui, per tutti.  e attraverso la tua persecuzione possa salvare, riscattare gli
uomini. L’ira di Dio, l’Apocalisse si scaglia contro gli uomini ingiusti e peccatori e salva pochissimi, Clizia fa
parte di quel popolo dei salvati proprio perché perseguitati eternamente dagli uomini. Grazie alla sua
persecuzione, Clizia potrà portare un riscatto morale che sarà anche salvezza universale. Quella di Clizia è
una figura che diventa religiosa, quasi mistica, una Beatrice salvifica che soprattutto in Finisterre continua ad
avere dei tratti della donna amata, terrena, amata da Montale e quindi ha dei tratti che ricordano più Laura
che Beatrice. Ma qui sta parlando di una figura mistica, la beata Beatrix, la beata che porta la beatitudine e
che quindi attraverso la sua persecuzione, grazie al suo amore fedele per Dio, per la giustizia divina, potrà
forse può riscattare i peccati.
La possibilità di una salvezza delegata ad un tu femminile molto più semplice di questo alla fine degli Ossi di
seppia, è diventata una salvezza universale. La persecuzione dell'ebrea Clizia porta in se una possibilità di
riscatto e di salvezza che può essere una salvezza universale.
 Forse le sirene, i rintocchi che salutano i mostri nella sera della loro tregenda  la tregenda è l’incontro dei
demoni nazisti e fascisti, Hitler, Mussolini e tutti i fascisti che si ritrovano in questa festa infernale a Firenze.
Tutti questi segni si confondono già col suono che slegato dal cielo scende e vince, questo suono della
tregenda dei diavoli che forse però è anche il suono delle trombe divine, della salvezza di Dio che forse
arriverà a salvare i giusti.
 col respiro di un’alba che domani per tutti si riaffacci, bianca ma senz’ali di raccapriccio, ai greti arsi del
sud… forse questi suoni orrendi della tregenda portano già i suoni del riscatto e della salvezza che arriverà
portando un’alba, che è un antico simbolo biblico poetico: è l’alba spirituale, l'alba di una Resurrezione
spirituale possibile. È un’alba che porti “ai greti arsi del sud” dove il sud è l'Italia, è l’occidente che invece si è
sporcato le mani di questa bufera. Forse quest'alba porterà invece un vento di speranza, una luce di
speranza, in queste terre desolate. Il sud è quello dell'Italia e dell'Europa funestata contro il nord glaciale,
freddo che però è la terra della salvezza, del Nord America in cui è fuggita Clizia, come tantissimi ebrei tra il
38 e la fine della II Guerra Mondiale.

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Deve esserci chiaro come il Montale di questa raccolta che sembra più vicina alla linea dell’ermetismo, anche proprio
nella sua oscurità, nelle sue immagini difficilissime da decriptare, sia sempre totalmente immerso in tutt’altra parte 
ci parla, in una maniera apparentemente solo oscura, della realtà storica ma anche proprio in quella descrizione del
paesaggio contro natura, di quella Firenze di quel maggio con la pioggia di falene e un vento freddo nel maggio. È una
primavera ma è una primavera hitleriana, non è, in realtà, un simbolo di rinascita ma di morte, questo maggio porta
una morte spirituale e forse - tipico uso del “forse” di Montale - però questo errore annuncia che un riscatto arriverà,
grazie a chi? Grazie alle figure salvifiche come quella di Clizia, associate sempre a simboli ebraici e della Bibbia ebraica
dell'Antico Testamento come anche dell’Apocalisse, che qua viene evocata attraverso la resa dei conti finale di uomini
d’innanzi a Dio.

Domanda: c’è un richiamo alla tregenda di uomini delle Occasioni?


Risposta: Si, le ultime occasioni evocano proprio la tregenda d'uomini che è questa barbarie che sta arrivando e che
Montale sente e di cui parla, sebbene apparentemente in maniera oscura nella seconda parte delle occasioni. È
proprio questo arrivo della tregenda d'uomini, che chiude le occasioni, è proprio quel legame tra le Occasioni e la
raccolta successiva, quella della Bufera. Questo è il filo che lega un unico romanzo, come un unico racconto, il
racconto degli Ossi di seppia, poi quello delle Occasioni e poi quello della Bufera.
Precisazione: l’alba è un simbolo di resurrezione spirituale, l'immagine biblica che ha segnato tutta la nostra tradizione
occidentale, in particolare la poesia italiana da Dante e Petrarca. L’ alba è sempre un’immagine di resurrezione
spirituale che in questo caso viene vista solo nella figura ebraica di Clizia perchè noi siamo stati tutti colpevoli, siamo
stati coloro che passivamente hanno accettato quell'orrore rappresentato da un fatto storico. Noi che siamo tutti
colpevoli se potremo avere un’alba, una possibilità di riscatto, sarà grazie a quei pochi giusti che sono stati
perseguitati da questa storia e che sono gli eterni perseguitati nella storia umana come la Bibbia ci insegna.

Piccolo Testamento (pag 644)


Questa è la Bufera petrarchesca e oscura di cui tanto si parla, questo è il piccolo testamento che alla fine del romanzo
della Bufera - che viene scritto all'inizio degli anni 50 quando Montale vede che l'orrore di quella II guerra mondiale in
realtà è un orrore che non ha fine neanche dopo la fine della guerra e qui inizia quel pessimismo definitivo rispetto
alla storia e all'agire degli uomini nella storia. Questo spinge Montale a scrive in questo piccolo testamento, che dopo
che quel messo infernale, Hitler e Mussolini, sono stati finalmente sconfitti ci saranno altri messi infernali che
verranno infatti dirà “scenderanno sulla prora del Tamigi dell'Hudson, della Senna”  di nuovo torneranno o
dall'Inghilterra o dall'America o dalla Francia. Finita la II Guerra Mondiale invece che un riscatto dall'orrore della storia
appena passata, gli stessi americani concludo terribilmente quella guerra con quella arma letale, che è l'arma nucleare
che minaccerà fino alla fine della guerra fredda tutta la storia degli uomini e quindi Montale perderà qualsiasi
speranza in una storia di riscatto possibile dopo la bufera storica della II Guerra Mondiale.

Piccolo testamento è una poesia difficile quanto la Bufera e la primavera hitleriana ma vediamo a fine percorso della
Bufera qual è questo responso finale in cui Montale afferma che l’orrore della storia non finirà mai, la storia in quanto
tale è una catena di orrori.
Richiama, come nella bufera che apriva la stessa raccolta, l'immagine di una traccia di luce che ancora resta
nonostante tutto e nonostante il buio della storia, “la traccia madreperlacea di lumaca o lo smeriglio di vetro
calpestato” sono tutte quelle immagini di una luce, in una Bufera di distruzione, che richiamano quella piccola luce che
è rimasta nell'iride di Clizia che veniva richiamata anche attraverso il filo d'oro dei libri preziosi. Si richiama quindi la
stessa immagine iniziale della Bufera, la possibilità di una traccia di luce, di speranza, di verità oltre l'orrore della
storia. Ma cosa scopre? che quella traccia di verità “non è il nome di una chiesa, nè rossa ne nera, né di sinistra né di
destra”  erano le due grandi divisioni politiche non solo italiane ma mondiali: il fronte sovietico e il fronte delle
democrazie occidentali.

Ormai sappiamo che i titoli delle raccolte sono importantissimi perché programmatici. Il titolo “piccolo testamento” è
importantissimo e fa riferimento a quel testamento che è piccolo perché ha a che fare solo con ciò che è stato
Montale, però è importante perché è la sua piccola, individuale, testimonianza di coerenza e fedeltà a certi valori. La
bufera c'è ancora, non è finita con la fine della II guerra mondiale, ci sono delle tracce di luce nell'iride che già veniva
richiamata negli occhi, dietro le palpebre della Clizia che apriva la Bufera, ed era una traccia di una speranza e di una
fede alla quale Montale era rimasto fedele e di cui erano stati simboli queste figure di ebrei in fuga, non solo Clizia ma
i tanti ebrei in fuga delle occasioni e della bufera, come la cipria nello specchietto che era uno dei simboli delle donne
in fuga ebraiche non solo Clizia ma anche Luba Blumenthal o Duramarcus quando c'era stata già una danza che era
simbolo di orrore, la Sardana (è la danza), ancora una volta.
Quella che sembrava il fandango orrendo della Bufera della II guerra mondiale in realtà è un'altra orrenda musica che
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si fa simbolo di un'altra tregenda infernale, di altri luciferi, quelli che verranno da quelli che devono essere i Salvatori
per portare un riscatto anche alla storia orrenda dell'Occidente. Quindi ancora altri messi invernali sul Tamigi,
l’Hudson e la Senna fino al momento in cui ognuno di noi dovrà, arrivato alla fine di questa tregenda, ancora una volta
rispondere delle proprie responsabilità individuali (pensiamo alla Primavera Hitleriana e all’Apocalisse) lui dirà: io però
ho mantenuto anche nella cenere, (che è stata questa storia, non solo la storia con Clizia ma la storia che ha bruciato
tutto nella Bufera della II guerra mondiale), io sono rimasto fedele a certi valori, a certe verità minime, le piccole luci di
verità, richiama qui “il tenue bagliore strofinato di un fiammifero”  è una piccola luce però è una luce giusta, di
verità a cui è rimasto fedele.
“non era il mio orgoglio rimanere lontano da tutto una fuga”  non è stata viltà la mia. La mia umiltà, l’essere ai
margini di tutto non è stata viltà  Montale non è uno dei grandi eroi della Resistenza per intenderci o comunque
colui che anche come i grandi antifascisti ha pagato con la vita: non è stato un Gobetti, non è stato un Matteotti, non è
stato una Carlo Nello Rosselli eppure anche il suo piccolo gesto umile di fedeltà a certi valori civili e umani è stato
comunque una luce di verità a cui lui è rimasto sempre fedele anche quando questa storia continuerà a portare
soltanto distruzione e morte, un'altra bufera storica.
Infatti, dopo questo piccolo testamento c'è un dittico finale cioè la Bufera è chiusa da un dittico finale e dopo questo
piccolo testamento ci sarà quella poesia ancora più apocalittica che è il sogno del prigioniero, in cui il sogno infinito è
quello della fine del dolore della storia, una fine dell’orrore della storia, in cui Montale poi non crederà più. Da
“Satura” in poi, questo suo non credere più a una possibile storia giusta e a una possibile voce giusta sarà definitivo.
Per questo è accusato spesso di un disfattismo, di un nichilismo dalla politica, dalla cultura degli anni successivi agli
anni 50.
Con il “Piccolo testamento” siamo ormai nel 53 però dopo la fine della II Guerra mondiale per l'America. Quando
finisce in Europa ci sarà l'orrore di quell’ attacco nucleare al Giappone per arrivare alla fine e poi la guerra di Corea e la
guerra in Vietnam: è un’eterna guerra, è un eterno scontrarsi, una tregenda infinita. È qui che crolla la fede di Montale
nella speranza di una storia diversa.

Piccolo testamento
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d'officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
d'una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere ali 'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi : l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

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 traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato  è la luce di verità, che era anche all’inizio
della Bufera.
 non è lume di chiesa o d'officina che alimenti chierico rosso, o nero.  quella luce di verità e speranza a cui
sono rimasto fedele non può coincidere con una verità di parte, che è quella, agli inizi degli anni 50, dei
chierici rossi e neri, difensori degli intellettuali, difensori di una fede politica o di quella opposta, che sono le
fedi che dividono l’Italia e l’Occidente per tanti decenni.
 Solo quest'iride posso lasciarti a testimonianza d'una fede che fu combattuta, d'una speranza che bruciò più
lenta di un duro ceppo nel focolare  simbolo fondamentale in tutta la Bufera è l’iride, l'occhio che mantiene
quella luce di verità dentro di sé che coincideva con l'iride di Clizia nella prima parte la Bufera mentre qua
coincide anche con quella luce di speranza e verità a cui è rimasto fedele Montale.
C’è ancora dentro la mia iride questa volta, quella fedeltà e quella speranza che ha continuato a essere viva
anche nel momento più buio e più profondo della storia.
 Conservane la cipria nello specchietto quando spenta ogni lampada la sardana si farà infernale e un ombroso
Lucifero scenderà su una prora del Tamigi, del Hudson, della Senna scuotendo l'ali di bitume semi mozze dalla
fatica, a dirti: è l'ora  quel Tu ovviamente non è più soltanto un tu generale, del Tu lettore, che dice
conserva questa mia testimonianza di fedeltà e di speranza ma lo sta chiaramente dicendo anche alla Clizia
per sempre lontana, tanto che dice conserva nella cipria nello specchietto  era uno dei senal, dei segnali
della presenza di Clizia. Sardana  tornerà un altro ballo orrendo che indicherà una tregenda infernale.
ombroso Lucifero  altra figura diabolica, come quella Hitleriana, scenderà sul Tamigi, sull’Hudson o sulla
Senna. Tornerà un altro messo infernale a dire che è l’ora della tua morte.
 Non è un'eredità, un portafortuna che può reggere ali 'urto dei monsoni sul fil di ragno della memoria, ma una
storia non dura che nella cenere e persistenza è solo l'estinzione.  Qua arriviamo alla testimonianza, a quel
piccolo giusto orgoglio di Montale nel dire che la sua piccola luce a cui è rimasto fedele però ha un suo valore.
L’eredità è anche quella degli oggetti salvifici di Clizia, come lo specchietto che portava nella borsa. Non è
semplicemente un'eredità che rimane nella nostra memoria vissuta anche insieme.
Ciò che poi alla fine veramente rimane, rimane oltre l'estinzione, quel segno che era un segno certo di una
distruzione come quei segni della fuga delle donne ebree che portavano con sé pochi oggetti a cui
rimanevano fedeli, per esempio lo specchietto della cipria di Clizia, la gabbia col gatto nero o forse il cappello
evocato in “Ljuba che parte”. In quella distruzione però c'erano anche dei segni, dei simboli, di una possibile
resistenza a quella distruzione. Lui ci crede e questa volta sta parlando anche di se stesso.
 Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato non può fallire nel ritrovarti.  Quei segni che sembravano portare solo
un segno della tua distruzione, della distruzione della storia, erano anche segni di una fedeltà a dei valori e a
una speranza giusta e dei giusti.
 Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio non era fuga, l'umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato laggiù non
era quello di un fiammifero.  Qua lo associa subito ai suoi segni, ognuno riconosce i suoi segni ma anche i
suoi simili  l'orgoglio non era fuga, l'umiltà non era vile e questa è la testimonianza di Montale della sua
fedeltà anche piccola, anche individuale, anche attraverso una luce non abbagliante però anche della sua
fedeltà a certi valori.
Il tenue bagliore  ancora una volta quel simbolo di una piccola luce. strofinato laggiù non era quello di un
fiammifero  quella piccola luce a cui io sono rimasto fedele, non era una luce falsa che brucia in poco
tempo, di una falsa fede ma era una fedeltà a dei valori assoluti umani e morali che vanno al di là della
contingenza. D’avanti all'orrore della storia rimarrà la bufera della II Guerra Mondiale nella prima poesia La
bufera e poi l’orrore della storia che continua negli anni 50 in piccolo testamento, quella piccola luce di verità
a cui era rimasta fedele all'inizio Clizia, ora è anche una luce verità a cui è rimasto fedele Montale che qui, alla
fine di questi lunghi difficili anni, rivendica una sua personale fedeltà a certi valori assoluti.

I simboli che vengono richiamati sono i simboli della bufera che questa volta vengono richiamati alla fine della Bufera
e quindi quei simboli della salvezza della donna ebrea in fuga. Questi diventano anche i simboli di una fedeltà a certi
valori che sembravano essere distrutti dalla storia, dalla cenere, dalla distruzione e invece erano simboli di una verità
che continua oltre l'orrore della storia anche quando quell'orrore diventa assoluto anche per l’occidente liberato, per
l'io montaliano. Quella piccola luce di verità in Montale rimane una fedeltà che lui rivendica con orgoglio, che va oltre
la distruzione, è una verità effimera che per Montale, d'ora in poi, sarà la verità effimera delle ideologie della chiesa e
dei chierici Rrossi o neri, che sono le ideologie che poi animeranno tutta la storia degli intellettuali del secondo 900.
Montale si chiama fuori da queste verità rosse o nere e ovviamente ancora una volta, è una scelta difficile  è
chiarissima la continuità rispetto alla storia del Montale anche precedente agli anni 50.

153
La prof invita a leggere, per conto nostro, “i tempi di Bellosguardo” nelle occasioni per capire il tema del petrarchismo,
della civiltà occidentale, della culla che era la civiltà rinascimentale umanistica per tutta Europa, che era la Firenze in
cui Montale vede arrivare l'orrore della guerra.
Montale negli anni 30 è a Firenze, negli anni 40 andrà a Milano: nei “tempi di Bellosguardo” è la cittadella della civiltà
rinascimentale a Firenze, quella cittadella della civiltà che Foscolo richiama nelle Grazie. In quella stupenda poesia in
tre tempi già alla fine degli occasioni Montale sentiva arrivare questo vento di bufera che avrebbe spazzato via una
civiltà occidentale e temeva il peggio che ovviamente poi arriva immancabile e di cui si fa portavoce nella Bufera.
Anche i tempi di Bellosguardo sono una poesia complessa ma molto importante per capire questo discorso e questo
rapporto complesso tra la poesia di Montale, le occasioni e la bufera e il contesto storico in cui agisce e scrive Montale
e come risponde anche diversamente rispetto allo stesso ermetismo fiorentino che è quello degli anni 30 che lui
frequenta anche direttamente e assiduamente. Anche la poesia più rarefatta, più petrarchesca, più oscura, più
analogica, più apparentemente ermetica, affondava profondamente le radici nella realtà storica geografica e reale che
è assolutamente imprescindibile anche da questa poesia apparentemente più vicina all'ermetismo, questa poesia degli
anni 30 e 40.

Lezione 21 - 4 maggio
Info esame: portare almeno due poesie per Saba, Ungaretti e Montale mentre per gli altri autori un solo
componimento (o tra quelli letti insieme o a scelta).

Eravamo arrivati alla Bufera di Montale, alla famosa prima stagione poetica montaliana. Avevamo iniziato a dire
qualcosa sulla seconda stagione.
L’ultimo componimento letto è stato “piccolo testamento” che fa parte proprio dell’ultimissima sezione della Bufera e
quindi di quelle tre raccolte – Ossi di Seppia, Occasione, Bufera - che fanno parte della prima stagione montaliana,
quella che Montale chiama il “recto” della mia poesia a cui poi seguirà a partire da “Satura” il cosiddetto “verso” della
sua poesia, una seconda stagione.

Un elemento fondamentale di questa seconda stagione è la riscrittura in chiave parodica della sua stessa poesia della
prima stagione, cioè da “satura” in poi Montale entra in una maniera montaliana.
Da Satura in poi Montale riscrive se stesso, cita moltissimo se stesso, il sé stesso della prima stagione ma evidenziando
che ormai quella poesia non sa più a chi parlare, non parla più a nessuno nella società contemporanea, cioè quella
dagli anni 50 in poi, nella società dell'Italia del boom economico, nella società del capitalismo avanzato e quindi non
avendo più un reale pubblico, una rispondenza rispetto a una realtà anche esterna alla stessa poesia, si riscrivere
evidenziando che quella poesia della prima stagione non può che essere parodia di se stessa, riscrittura di se
mostrando di mettere chiaramente in luce un aggancio della poesia a un pubblico, a una realtà sociale, culturale,
economica, che ha sempre meno voglia di stare a sentire la poesia  quindi anche qui sostanzialmente è un discorso
profondamente agganciato alla storia contemporanea dell'Italia del boom economico, della vittoria dei mass media
sulla cultura più raffinata e quella domanda di senso della poesia che abbiamo visto, che è la domanda di fondo di
tutta la poesia non sono italiana per tutto il 900, diventa drammatica soprattutto per un poeta come Montale che non
può accogliere in senso positivo e costruttivo, nella sua poesia, la società di massa, anche in base a tutto ciò che
abbiamo detto della sua prima stagione: il rapporto tra io e automi ,io e società con i suoi gusti di massa culturali e
artistici che già il poeta non condivideva. Per questo non può rispondere positivamente e includere in maniera
costruttiva e positiva quella società capitalistica di massa nella sua poesia, anche perché si trova in un contesto in cui
ormai l'altra risposta è quella di una poesia impegnata che anche quando vuole dire no a questo sistema culturale
economico e anche di annullamento del valore, di qualsiasi ipotetico valore sacro che è ancora della poesia, non trova
Montale in sintonia. La risposta di Pasolini che è profondamente radicata in un contesto di risposta negativa, militante,
contro la società e la cultura capitalistica del boom economico. Anche la critica da sinistra di tanti poeti, come Fortini e
tanti altri: Montale era su un altro territorio, completamente diverso e infatti in molta sua poesia, soprattutto dagli
anni 50 in poi, Montale in questa scrittura parodica della sua poesia non farà solo parodia della sua poesia ma farà
parodia anche di quella poesia impegnata e di quegli intellettuali poi impegnati, primo fra tutti Pasolini, perché non
crede neanche a questo discorso.
Dobbiamo ricordare che cosa è Montale, com’ è arrivato agli anni 50, quando già è uno scrittore affermato,
importante e influente e soprattutto anche di una certa età. Ovviamente non poteva in nessun modo abbracciare
un’ideologia di contestazione da sinistra, come quella di tanti poeti sia della nuova avanguardia, sia dello
sperimentalismo di tipo pasoliniano.
Montale diventa una figura che appare sempre più isolata e quindi anche spesso attaccata da questi stessi poeti
154
intellettuali, anche se, visto adesso con la debita distanza, capiamo quanto invece Montale fosse dentro, anche se con
una risposta diversa, a questo discorso di una poesia che nel secondo 900 prova a dire la sua, anche avendo la piena
consapevolezza che questa società e questo sistema culturale neo - capitalistico sapeva veramente poco cosa farsene
dei poeti e della poesia.

Il pubblico della poesia ormai è ridotto a quasi nulla, sono i poeti che quasi sempre, ancora oggi parlano soprattutto
fra di loro e quindi la poesia diventa sempre più autoreferenziale.
Montale è quindi un poeta contro e vediamo che entra in un discorso fondamentale della poesia del secondo 900, ma
è anche un poeta sempre più isolato, che polemizza anche in versi, in particolare a partire dalle ultime raccolte, con
questa poesia impegnata in particolare con autori come Pasolini, Sanguineti, intellettuali come Asor Rosa che pure
attaccavano, come lui, questo sistema culturale della società di massa, di una società dei mass media, di una società
capitalistica sempre più interessata ad altro rispetto alla cultura e ancora di più rispetto a un genere costitutivamente
iperletterario come quello della poesia.

Satura (pag 645)


La raccolta satura è una raccolta che ha sostanzialmente due anime. Questa è una raccolta strutturata in modo molto
chiaro perché abbiamo gli Xenia, che sono due sezioni importantissime perché dedicate alla moglie Drusilla Tanzi,
conosciuta nella poesia di Montale ma anche dagli amici come Mosca, la moglie che era morta nel 66 e Montale le
regala queste poesie in forma epigrammatica molto brevi che infatti citano anche gli Xenia di Marziale e soprattutto
quell’ idea degli Xenia come doni per gli ospiti (così erano anche nella classicità e soprattutto nella scrittura della
classicità). E’ un dono soprattutto per Mosca, per la moglie Drusilla Tanzi e per tutte quelle persone care che hanno
avuto a che fare con questo tu femminile molto diverso dalla Clizia che abbiamo conosciuto fino alla Bufera. Infatti
vengono citate negli Xenia la vecchia domestica di un tempo, la nuova domestica, le amiche, le tante amicizie coltivate
da Drusilla che scoprono, anche molto dopo la sua morte, della sua scomparsa. Quindi è un dono fatto a lei e a tutte le
persone più care che sono state legate a questa figura femminile.

Elementi essenziali.
Sappiamo che il tu femminile è fondamentale nella poesia di Montale perché Drusilla Tanzi è radicalmente altro
rispetto alle prime donne - più o meno angelicate -della produzione montaliana, è al di sopra di tutte ma è anche
diversa da un'altra figura importante dell'ultima parte della Bufera, che infatti si chiama “la bufera e altro” titolo
definitivo e in “quell'altro” ci sono anche le figure femminili post Clizia, che sono molto diverse. La più importante di
tutte è quella che si chiama Volpe, che ha un nome e un profilo suggerito da quel nome fittizio che è volpe che in
realtà nasconde Maria Luisa Spaziani, poetessa di una certa importanza e di un certo rilievo nel secondo 900 italiano,
che sarà un altro tu femminile particolarmente caro a Montale che aveva, rispetto a Clizia, dei tratti molto sensuali,
molto terreni, molto umani. La figura della volpe suggerisce qualcosa di molto più terreno e anche potenzialmente
pericoloso perché Marisa Spaziani e volpe vengono fuori quando il rapporto con Drusilla Tanzi era ben radicato nella
vita sentimentale, non solo poetica, di Montale.
C'erano anche altre figure di tu femminili di vario tipo ma molto più sensuali e molto terrene rispetto alle donne
angelicate, alle donne in fuga di cui abbiamo parlato finora e poi, invece, contemporaneamente e contro queste
figure, c’è invece la Mosca, l'altro bestiario femminile rispetto a Volpe sotto cui si nascondeva Drusilla Tanzi, donna
che lui decide di sposare solo poco prima che morisse ma compagna fondamentale di vita già dalla fine degli anni 30,
quando Clizia stava scomparendo  è una specie di sfida tra il legame ancora forte con Clizia e questo nuovo legame
con Drusilla Tanzi, fedele compagna di Montale che però aveva avuto una presenza molto più limitata anche nella
poesia di Montale rispetto a queste altre figure femminili.
Drusilla diventa la figura femminile fondamentale di questi Xenia una volta che è scomparsa ed è sostanzialmente
quella che potremmo dire, nei generi più antichi della poesia, una poesia in memoria di qualcuno che non c'è più, in
onore di una persona cara. Questo è un aspetto fondamentale. In pochissimi versi – è una struttura epigrammatica -
questa poesia degli Xenia dedicati a Drusilla Tanzi - Mosca c’è anche un riferimento classico e classicistico a una forma
epigrammatica della poesia classica, in particolare latina, che già era anche nel titolo “Satura”  Satura indicava
proprio una poesia della mescolanza, che mescola vari generi letterari, vari temi ed è esattamente quello che succede
in questa raccolta: un altro titolo che sembra classicheggiante ma in realtà anche molto moderno e che suggerisce in
maniera sottile un elemento di satira, perché è una satira quella che si ha nelle sezioni, che si chiama proprio satura, è
una satira anche contro la società contemporanea. Ci sono richiami come sempre interessanti nei titoli sia delle
sezioni – Xenia - che nel titolo della raccolta - Satura - richiami che sembrano fuori tempo massimo (classici e
classicistici) ma che in realtà citando generi e forme della classicità parlano assolutamente di una scrittura poetica
155
molto moderna, in questa forma così frammentale ed epigrammatica e di una poesia sulla società contemporanea,
che comunque miscela scrittura molto diversa. Negli Xenia abbiamo questo dialogo fortissimo, in memoria, con la
moglie e i personaggi che hanno gravitato attorno a lei; nelle parti invece propriamente chiamate Satura abbiamo
questo dialogo molto auto parodico che cita la poesia precedente per darla in pasto a una società che non sa più che
farsene. In questo senso tutto questo è veramente un “verso” della sua prima stagione, anche letteralmente, perché
riscrive in forma parodica se stesso.
Noi non abbiamo modo e tempo di leggere poesie anche della seconda parte, che dialoga e attacca anche intellettuali
e poeti della società contemporanea, fondamentali botta e risposta, come li chiama proprio Montale, con poeti e
intellettuali contemporanei ma sicuramente gli Xenia sono un piccolo tesoro di poesia meravigliosa in cui questa figura
di Drusilla Tanzi - Mosca viene fuori per quello che è: una donna molto intelligente, molto acuta, molto vivace, capace
di ridere e sorridere dello stesso Montale, il Montale di cui lei fa venire fuori anche la parte più ironica e come
sappiamo l’ironia è un elemento forte della poesia montaliana, ironia che esplode nella poesia di Satura e anche in
quella poesia più affettuosa e affettiva che è quella degli Xenia, perché Mosca, che veniva chiamata così un po' proprio
in maniera antifrastica perchè le mosche guardano e vedono benissimo mentre Mosca era completamente cieca, era
miope, e un po' facendo riferimento anche agli occhiali spessi che lei portava, che rendevano quegli occhi quasi come
gli occhi convessi delle mosche. In questo suo non vedere reale, fisico ma saper guardare molto più a fondo
ironicamente anche agli altri, anche allo stesso Montale  questi sono gli elementi che vengono fuori più
chiaramente in questa evocazione in memoriam post-mortem della figura di Mosca negli Xenia.

Il primo componimento degli Xenia è quello che troviamo sul Mengaldo: la forma è brevissima, epigrammatica,
Marziale e la poesia classica sono un richiamo indiretto sempre presente negli Xenia.
da Satura
[Avevamo studiato per l’aldilà]

Avevamo studiato per l'aldilà


un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

 Il dialogo, il tu, è chiaramente quello di Mosca - Drusilla scomparsa. È bellissimo evocare il fischio, che loro
usavano tra di loro. Vengono richiamati sempre elementi reali della loro biografia. Montale parte sempre
dalla realtà, in questo caso da un fischio, che loro usavano come un segno di riconoscimento quando uno
stava arrivando, si stava avvicinando all'altro. È bellissima la chiusa: “provo ancora ad usarlo” sperando che in
realtà anche noi che pensiamo di essere vivi, siamo già morti ma non lo sappiamo. Con quelle immagini dei
vivi che sono più morti dei morti, che è un'altra delle immagini e dei motivi più fruttuosi, più prolifici nella
poesia del secondo 900, fondamentale in Sereni, Caproni, in molti dei poeti di cui parleremo almeno
brevemente tra poco.
Il fischio usato in vita per riconoscersi, Montale immagina di usarlo anche ora che lei è morta perché
probabilmente i vivi sono più morti degli stessi morti e quindi quel fischio può servire ancora a farli
rincontrare.
Brevissimo esempio di Xenia: è evidente che dopo, nel secondo Xenia che noi abbiamo, viene richiamato ancora il
linguaggio dell'opera lirica, un'altra delle caratteristiche di questo Montale. Se leggiamo “botta e risposta” capiremo
che la polemica è con gli intellettuali contemporanei e alla fine di questo “botta e risposta” secondo, se leggiamo dei
versi, possiamo capire che vuol dire questa auto parodia di Montale e questo arroccarsi in una posizione sempre più
solipsistica, sempre più contro tutti. Gli ultimi versi dicono “nel buio e nella risacca” che è quella della società
contemporanea degli anni del boom “più non mi immergo, resisto”  “resisto” è la parola chiave tanto che la mette
alla fine del verso “resisto ben vivo vicino alla proda, mi basto come mai prima mi era accaduto”  la sua
testimonianza poetica e autobiografica di pura resistenza ma anche una posizione assolutamente isolata e solipsistica
- sembra lui contro il resto del mondo, lui contro la società contemporanea ma anche contro quasi tutte le voci della
poesia che provavano a dare risposte alternative a quella realtà contemporanea.
E’ una resistenza in cui lui deve bastare a se stesso e quindi in una posizione fortemente solipsistica come mai prima.

Se leggiamo “non chiederci la parola” li Montale poteva ancora usare, in Ossi di seppia, un noi, parlare non solo a
proprio nome ma a nome di un noi. Questo ovviamente per Montale è assolutamente impossibile ormai negli anni

156
post 50.
Ricordiamo che Satura esce nel 71, dopo che sono state pubblicate “la farfalla di Dinard” delle cose anche molto
interessanti di Montale da leggere a fianco della poesia di Satura dopo che Montale ha avuto una serie di incarichi
importanti a livello nazionale e internazionale, per esempio nell'Unesco, dopo che si è immerso completamente, per
sopravvivere, nell'attività giornalistica soprattutto sul Corriere della Sera. Dopo che ha avuto un’ immersione in un
mondo tutto culturale, alternativo a quello della poesia che era stato il suo mondo culturale e letterario essenziale
invece nella sua prima stagione , fino sostanzialmente ai primi anni 50.
Non è un caso che tra l'uscita della Bufera nel 56 e Satura che esce nel 71 passano tanti anni: certo ci sono stati gli
anni degli Xenia, alla fine degli anni 60, a caldo della scomparsa della moglie ma soprattutto c'è stata una scrittura in
prosa montaliana e una scrittura anche molto giornalistica e questo si sente anche proprio nella scrittura, nello stile di
questo secondo Montale, quella che Montale stesso definisce “la mia stagione in pigiama non più in frac” e già il titolo
botta e risposta è evidentemente una caduta prosaica fortissima, già a partire dal titolo e questo sarà ancora più
evidente nelle raccolte successive, già nel titolo “diario del 71 e 72” nella forma diaristica, diventa proprio un
prendere appunti di giorno in giorno, su tutto ciò che ha attorno, tanto che lodato questo diario, così come nel
“quaderno di 4 anni” la raccolta finale la chiama quaderno, cioè ancora di più un insieme di abbozzi, di appunti, presi
a caldo. Ancora una volta già i titoli delle raccolte o dei componimenti ci dicono di questa scrittura che è auto parodia
e consapevolezza che quella poesia della sua prima stagione non potrebbe parlare della società contemporanea,
soprattutto non avrebbe nessun pubblico pronto ad ascoltarla.

A questo punto abbiamo chiare le due stagioni e le due facce della poesia montaliana e soprattutto di quello che sta
succedendo dopo gli anni 50 anche nella poesia italiana e qui arriviamo al dunque con un'ultima annotazione  c'è
stato un Montale addirittura postumo, del diario postumo del Montale che avrebbe ordito questo scherzo, per cui
dopo la sua morte dovevano uscire regolarmente delle sue poesie che hanno creato un grande guazzabuglio tra i
critici letterari e gli studiosi, nel senso che alcuni hanno subito creduto alla veridicità di tutta quella poesia postuma di
Montale, grandi studiosi e filologi a cominciare dalla Bettarini o Maria Corti che erano state le curatrici - la Bettarini in
particolare – dell’ opera omnia di Montale e studiose fondamentali della poesia di Montale e altri che invece hanno
subito avuto dei sospetti sull’ autenticità di quelle poesie postume che effettivamente fanno troppo il verso al
Montale usato, riusato, abbondantemente parodico già dalla fine degli anni 50, auto parodico che facevano notare un
Montale con uno scadimento della qualità e del valore poetico troppo forte: per esempio un grande filologo
montaliano è stato Dante Isella che invece intuisce che c'è qualcosa che non va e dopo la scomparsa anche di certe
figure importanti come quella della Corti o di Cesare Segre e poi anche dello stesso Isella, è venuto fuori che
effettivamente erano poesie un po' estorte soprattutto da una figura molto ambigua che è quella della Cima, ultimo tu
femminile nella realtà biografica di Montale, poetessa di scarse qualità ma di grandissima auto promozione, Italo
Svizzera, che in realtà era riuscita a carpire qui e la ultimi versi di un Montale ormai vecchissimo, neanche
perfettamente sempre sul pezzo perché molto anziano e soprattutto con inserimenti di finti versi lasciati da Montale
alla stessa Cima e quindi probabilmente Annalisa Cima ha fatto un gioco molto sporco su questo diario postumo di
Montale che ormai viene considerato fuori dal canone nella poesia montaliana. Questo scherzo montaliano ha preso
strade di falsificazione. E’ stato un caso davvero interessante, su internet troviamo molte informazioni in merito: ora i
filologi hanno messo a posto le cose anche perché era molto imbarazzante dover smascherare anche dei falsi che
grandi filologi e grandi studiosi invece avevamo preso per autentici, quindi c'è voluto anche un po' di tempo e la
scomparsa di certi filologi e studiosi di Montale per poter dire chiaramente che quel diario postumo è da prendere
come qualcosa di stravagante rispetto al canone poetico montaliano.

Linee fondamentali del post ermetismo.


Già con il secondo Ungaretti, con Saba e con Montale abbiamo capito che loro stessi sono andati contro - soprattutto
Saba e un certo Montale - ma anche oltre i dettami del puro ermetismo già a partire dagli anni 50.
Cos'era questo ermetismo? Questo ermetismo sembra soprattutto dai manuali, da tanta critica letteraria, che avesse
invaso tutta la poesia italiana a partire dagli anni 30 fino a dopo la II Guerra Mondiale e fosse LA poesia italiana tra
anni 30 fino a ultime diramazioni degli anni 50, il che è abbastanza un falso evidente. Se pensiamo alla poesia di Saba,
per esempio, degli anni 30/40 fino a quando lui muore, se pensiamo a quanto dice Montale “non voglio essere messo
nello stesso calderone di certa poesia ermetica”, della poesia pura dell’ analogismo dell'evocazione di un altrove, nel
discorso di un'educazione, di un altrove metafisico e spirituale alla quale Montale aveva detto chiaramente NO già
dagli anni 30 e 40.
Avevamo già parlato della sua “intervista immaginaria”  lui si era già posto fuori da questa linea.

157
Ma allora in che cosa consisteva questo ermetismo, a partire dagli anni 30 in particolare? Su teams troviamo quello
scritto fondamentale, costitutivo della poesia dell'ermetismo che è “letteratura come vita” di Carlo Bo  scritto nel
38, quando ormai c'è un circolo soprattutto a Firenze di poeti che sono i veri protagonisti di questo fronte cosiddetto
ermetico, Carlo Bo è il critico di riferimento di questo ermetismo in particolare fiorentino o di matrice cattolica perché
su una linea post simbolistica, questa poesia fondata sull'analogia, sull'evocazione di mondi e significati altri sempre
più rarefatti, sempre puramente evocativi, in una determinata cerchia che è soprattutto quella dei poeti
dell'ermetismo fiorentino, significava una ricerca di un’ epifania, di un’ illuminazione di senso della realtà, in un senso
anche propriamente spirituale e cattolico.
Questo piano di evocazione di un altrove, di un significato altro che illuminasse in maniera epifanica i brandelli del
reale, di un reale sempre più frantumato e privo di senso, in buona parte di questi poeti che si riconoscono attorno a
questo manifesto di Carlo Bo voleva dire una poesia di matrice fortemente spirituale se non proprio cattolica.
In questo documento del 38 Carlo Bo cosa dice? Dice alcune cose fondamentali. Leggiamo solo alcuni nodi che ci
possono far capire di che cosa stiamo parlando. Carlo Bo dice: “rifiutiamo una letteratura come illustrazione di
consuetudine e costumi comuni, aggiogati al tempo, quando sappiamo che c'è una strada e forse la strada più
completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza”  quindi una letteratura, in particolare una
poesia, come conoscenza di sé innanzi tutto e della propria coscienza cioè di un io più profondo, più vero, al di là di ciò
che è puramente fenomenico.
“A questo punto è chiaro come non possa esistere un'opposizione tra letteratura e vita. La poesia, la letteratura è
un'esperienza di vita e di conoscenza di se e della propria coscienza. Per noi sono tutte e due egual misura strumenti di
ricerca e quindi di verità, mezzi per raggiungere l'assoluta necessità di sapere qualcosa di noi. La letteratura è la vita
stessa e cioè la parte migliore e vera della vita” .. “l'identità che proclamiamo (cioè l’identità tra letteratura e vita) è il
bisogno di una integrità dell'uomo” .. “poesia è ontologia: la poesia coincide con l'essere”  coincide quindi con
l'essere umano. “ci interessa questo mistero”  parola chiave mistero “che ci accoglie nella sua doppia misura di
chiarificazione e oscurità. La poesia che è verità (ed è quindi qualcosa che chiarisce ma resta anche in parte sempre
oscura) in questo sentimento metafisico (metafisico: aggettivo fondamentale) del tempo.
Quindi la poesia, ma pure in generale la letteratura che coincide con la vita, che coincide con una ricerca di senso della
nostra vita, in particolare della nostra coscienza e che quindi è un richiamo soprattutto a una poesia che vuole
coincidere con un sentimento metafisico del tempo e quindi richiama una luce di verità - la parola verità è
fondamentale - che è al di là di ciò che è materiale, terreno e fisico.
Qua il richiamo spirituale è fortissimo. Ci sono una serie di parole chiave:

 poesia come verità


 poesia come vita della nostra coscienza
 poesia come bisogno di integrità dell'uomo
 poesia come ontologia
 poesia che mistero
 poesia che è sentimento metafisico del tempo.
Vediamo chiaramente come viene richiamato l’Ungaretti della stagione più propriamente ermetica, cioè quella di
“sentimento del tempo”. L’Ungaretti di sentimento del tempo è veramente il grande padre di questi poeti. Ungaretti
in questa stagione fa della sua poesia una ricerca anche metafisica, una ricerca spirituale, con un’importante
conversione e ritorno alla chiesa cattolica tanto che Roma diventa il centro della sua narrazione poetica, religiosa e
spirituale, uno dei centri della poesia.

Questo documento del 38 chiarisce che ci sono due fronti ben diverse all'interno di questi poeti che, in particolare a
Firenze, si ritrovano in certi caffè, come il caffè delle Giubbe rosse, di cui è grande promotore e attiva presenza lo
stesso Montale. E chiarisce che alcuni andavano in questa direzione spirituale, metafisica, ontologica di verità assoluta
del senso dell'essere, come scrive Carlo Bo ed erano soprattutto i poeti che si ritrovavano attorno alla rivista che si
chiama “Frontespizio”. Ma questo chiarimento di questo documento del 38 ci dice che ci sono altri poeti che in questa
ricerca di un'epifania, di una verità non davano un significato spirituale, religioso e metafisico, come Montale che non
dà mai questo significato, e ci sarà una vera e propria scissione per cui altri poeti, tra cui per esempio Gatto, si
ritroveranno sotto un'altra rivista che è quella di “Campo di Marte” in cui questo ermetismo non viene collegato
direttamente ad una ricerca ontologica e metafisica – pensiamo al Montale dei barlumi di verità che sembrano
arrivare, dell’ epifanie di senso e di compiutezza. Si ritrovano più dietro questo Montale e in particolare quello delle
Occasioni e della Bufera che non dietro a Ungaretti del sentimento del tempo.
Esiste anche un ermetismo non di marca strettamente spirituale e metafisica, questo è importante e tra l'altro lo
158
stesso Montale, che non poteva riconoscersi in questo tipo di poesia, era stato tra gli animatori di un'altra rivista
fondamentale di questi anni, che è la rivista Solaria in cui la ricerca di verità alternative rispetto a quella dell'Italia
fascista, erano chiaramente improntate soprattutto ad una ricerca laica anche di voci letterarie diversissime tra di
loro.
Quindi ci sono queste due anime, anche all'interno di una poetica che ha dei tratti in comune.

Ma c’è anche un'altra cosa interessante: quel nome, quell'etichetta di poesia ermetica non veniva da questi poeti ma
viene da un saggio di un importantissimo studioso di letteratura italiana Flora che nel 36 scrive questo saggio,
addirittura due anni prima di Carlo Bo che risponde anche a questi stimoli. Flora diceva che questa è una poesia
talmente evocativa, talmente analogica, talmente oscura (l'oscurità viene rivendicata da Carlo Bo due anni dopo) che
possiamo definirla ermetica, con una connotazione però negativa, cioè che fosse pressoché incomprensibile a causa
dell’oscurità del suo linguaggio e nella rarefazione dell’ evocatività di questa poesia.
In particolare Flora parlava proprio dei due grandi padri cioè di Montale e dell’ Ungaretti di “sentimento del tempo”.

Vediamo di che poesia parlano questi critici come Flora da una parte nel 36 e Carlo Bo due anni dopo e capiamo anche
perché ci sono due volti ben distinti e ripeto se avete più o meno seguito gl snodi centrali del Montale dei barlumi di
verità, delle epifanie sfuggenti, del correlativo oggettivo, questo percorso che abbiamo fatto illuminato dallo stesso
Montale dell’intervista immaginaria, capite che la voce altra rispetto a quella dell’analogismo puro, della ricerca della
parola pura, dell'innocenza soprattutto della parola che indichi una ricerca metafisica spirituale che è invece quello di
“sentimento del tempo” di Ungaretti.

Un altro elemento fondamentale perché le cose non sono mai così schematiche, così etichettabili parlando di poesia è
che quasi tutti i grandi protagonisti di questa stagione così detta “ermetica” dagli anni 30 in poi, hanno avuto percorsi
molto vari che sono anche molto cambiati anche a distanza di solo 10 anni. Allora quando parliamo di tre protagonisti
assoluti, altri rispetto appunto ai grandi padri Montale e Ungaretti, parliamo di Quasimodo o Alfonso Gatto o Mario
Luzi, tre grandissime voci associate alla poesia ermetica, in questi stessi il percorso è molto più vario di quello che si
vuole far vedere perchè già negli anni 40 questi poeti si interrogano su vie possibili altre, al di là di una poesia della
parola pura, della poesia puramente analogica, di una poesia di ricerca, di senso al di là anche di ciò che è materiale e
caduco, loro stessi hanno un percorso molto vario:

 Quasimodo abbraccia subito, ancora prima che finisca l'orrore del nazifascismo, una poesia che abbracci la
realtà, la storia contemporanea che diventa una poesia esplicitamente militante e grazie a questo avrà subito
il Nobel, ben prima di Montale perché era un messaggio forte, anche a una poesia post ermetica che doveva
anche parlare in maniera oscura perché non poteva parlare esplicitamente o in maniera chiara quando c'era
la censura fascista, il linguaggio cifrato servita anche a questo. Quasimodo invece aveva già seminato un
percorso nuovo per la poesia italiana a venire, quella degli anni 50 in poi della post liberazione, in una poesia
che dovesse parlare e abbracciare il mondo contemporaneo, pur rimanendo una poesia fortemente ancorata
ad una ricerca di verità. Questo fa Quasimodo che è uno di quelli che creò anche proprio un linguaggio della
poesia ermetica che è quello che noi riconosciamo subito come un linguaggio ermetico. Già negli anni 30
Quasimodo è fondamentale per creare una koinè, come direbbe Mengaldo, cioè un linguaggio comune tra
tanti poeti, anche diversi tra loro, che possono essere definiti ermetici. Quasimodo ha un percorso molto
vario già partire dalla fine degli anni 40 in poi, così come lo ha Gatto.
 Gatto poeta molto interessante, ci sposiamo nel sud Italia. Gatto, più di Quasimodo, rimane ancorato al
contesto delle sue origini campane. La sua poesia abbraccia molto anche il canto, la purezza del canto, il
discorso musicale, anche tutta una tradizione napoletana che legava poesia, musica e canto e quindi scioglie
un linguaggio suo molto ermetico negli anni 30 a un discorso molto più aperto ad altro tipo di linguaggi,
soprattutto a un linguaggio musicale.
 Per non parlare di Luzi. Quando parliamo di quelli del secondo 900 parliamo di qualcosa di cui ancora
discutiamo: il canone poetico. Nel 2021, dalla nostra prospettiva la poesia di Quasimodo ha perso moltissimi
punti. Prima Quasimodo veniva studiato a scuola e le sue poesie venivano imparate a memoria. Adesso non è
considerato più, almeno all'unanimità, una voce che resterà per sempre nel canone della poesia della poesia
italiana.
Se c'è invece uno che rimane ancora importantissimo è Mario Luzi, un poeta che è proprio espressione di
quel cenacolo fiorentino ermetico cattolico, tutta la sua poesia è fondata sulla ricerca di senso, che è un
159
senso metafisico e spirituale. Eppure anche lui che sembra la quintessenza di quel manifesto di Bo del 38 in
realtà, indica già negli anni 40 un superamento di quella ricerca puramente analogica, della poesia pura, si
innesta su un discorso anche molto montaliano e arriva a strade poi assolutamente nuove già negli anni 50 e
60. La sua raccolta segna il passaggio a un altro tipo di linguaggio poetico, tutt'altro rispetto alla parola pura,
essenziale, evocativa, analogica dell'ermetismo, ce l'avete già nel titolo di una raccolta di Luzi che è “nel
magma”  se un poeta di natura ermetica entra nel magma, che è il magma della società contemporanea
postbellica e anche dei linguaggi, nel magma linguistico e poetico che diventa la poesia del secondo 900,
capiamo che dire poeta ermetico non basta ad etichettare anche questi poeti che sono i più esemplificativi di
una corrente ermetica italiana.
Serve capire cosa intendiamo per koinè ermetica, per linguaggio ermetico e vedere come questo linguaggio
cambia tra un decennio e l'altro, spesso anche in pochi anni di differenza all'interno di uno stesso poeta.
questi primi elementi primissimi visto nuovi sono chiari sull'ermetismo.

Dobbiamo leggere per conto nostro, tenendo sempre presente l’intervista immaginaria di Montale, quei passi tratti
dalla “letteratura come vita” di Carlo Bo + saggio fondamentale di Mengaldo che è un'analisi della koinè ermetica, cioè
cosa riconosciamo immediatamente come lingua dell'ermetismo, che è diventata una lingua passepartout, che è stata
usata tantissimo e ancora oggi si legge in tanta poesia italiana e che quindi ci ha fatto sembrare questa poesia
ermetica come onnipresente in tutta la poesia del secondo 900 (troviamo tutto nei materiali di teams).

Lezione 22 - 5 maggio
Nei file del corso troviamo i “Canzonieri” utili a capire qualcosa su questo tema che da struttura diventa tema cioè
come vengono costruiti i libri canzoniere da Petrarca fino a Montale, attorno ad uno degli elementi tematici
importante che è proprio quello della memoria. Ancora in Montale è fondamentale la costruzione del libro di poesia.

Abbiamo visto i primi elementi dell'ermetismo. Questi elementi fondamentali dell'ermetismo erano stati tradotti già
nel cuore degli anni 30 da alcuni dei rappresentanti più importanti della linea ermetica. Avendo presente queste due
strade, quella dell'ermetismo cattolico e spiritualista e quella dell’ermetismo laico (un’idea di analogia e di ricerca
dell'epifania in un senso laico come nel Montale delle occasioni) capite queste due strade fondamentali di questa
poesia cosiddetta ermetica - che è un termine che viene usato, coniato e poi ha vinto, da un critico che voleva studiare
più gli aspetti negativi che positivi di questa poesia. Vediamo allora perché un autore come Quasimodo diventa, già ad
apertura degli anni 30 uno degli esempi di questa poesia. Noi lo vediamo per snodi fondamentali, vediamo solo una
puntina infinitesimale di tutta la produzione poetica così detta ermetica.

Vento a Tindari dalla raccolta Acqua e Terre – Salvatore Quasimodo


Leggiamo questa poesia che diventò esemplare negli anni 30 che è “vento a Tindari” di Salvatore Quasimodo, poesia
che viene inclusa in una raccolta “Acque e Terre” che è del 1930 quindi si aprono gli anni 30 dell’ermetismo con
questa raccolta e questa poesia quasimodiana che diventano poi esemplificativi di tutto il discorso teorico
dell'ermetismo.

Alcuni degli elementi propri della koinè ermetica che troviamo in parte in questa poesia ma poi in moltissime altre (è
tutto scritto nel saggio di Mengaldo):

 uno dei primi elementi è il sostantivo assoluto. Faccio un esempio che già era fortissimo e lo riprendono
soprattutto da Ungaretti di “sentimento del tempo”: morte. Tutta la poesia usa un sostantivo assoluto che è
morte.
In questo caso la parola chiave è Tindari che diventa una realtà che poi accompagna tutta la poesia, un
sostantivo che viene assolutizzato anche astratto come morte, anima e così via.
 altro elemento fondamentale: usare il plurale al posto del singolare e viceversa e questo lo vedremo anche
in alcune poesie.
 Altra importanza: l'animazione - scrive Mengaldo - delle preposizioni semplici. Di, a, per, diventano parole
chiave della poesia ermetica. Pensiamo in particolare ai versicoli di Ungaretti: una preposizione di luogo
diventa fondamentale “a”, la preposizione “a” che viene assolutizzata e serve a rendere lontano qualsiasi
paesaggio o immagine in realtà vicina, anche questo lo troveremo tra poco. Pascoli e Leopardi sono tra i
maestri di questa idea della “A” assolutizzata  la “A” preposizione di luogo che allontana anche ciò che è
vicino, una delle preposizioni più usate per rendere astratto qualcosa di concreto.

160
 uso e abuso - dice Mengaldo – dell’analogismo. L'analogia è una figura chiave di tutto l’ermetismo. C'è
un'immagine davanti e a questa devo associare, con un grande sforzo di fantasia, una serie di possibili
significati e immagini altre. Questo era già stato chiarito nelle Occasioni di Montale e in sentimento del
tempo di Ungaretti.
Vedremo cosa significa l’analogismo per Quasimodo.
 Spesso una lingua aulica e ricca di latinismi quindi fine dell’espressionismo esasperato. Tindari, ad esempio,
già è un luogo che evoca la classicità. Quasimodo prendiamolo a modello ancora nel 36 quando scrive una
raccolta che si intitola “Erato e Apolion” quindi richiama evidentemente dei simboli stessi che vengono dalla
classicità, non semplicemente dalla lingua classica. Tantissimi sono gli aulicismi e i classicissimi linguistici in
particolare di Quasimodo e della linea ungarettiana.
 Uso dei i verbi intransitivi come avverbi transitivi: il più famoso l’aveva già insegnato Dante ma diventano
tantissimi  “piovere”  tanti già lo usavano come transitivo “piove speranza, pianto”. Gli ermetici
useranno tantissimi verbi intransitivi con una funzione transitiva.
 una figura del pensiero è quella dell'analogia; una figura figurativa del linguaggio letterario molto usata è
l'ipallage o enallage, ormai vengono usate con lo stesso significato. Abbiamo un’ipallage quando una parola
in particolare, in genere un aggettivo in realtà non è da collegare logicamente al sostantivo a cui è
immediatamente unito ma a un'altra presenza, in genere umana, evocata nel pensiero poetico. L'abbiamo
trovato in “meriggiare pallido e assorto”: “assorto” ovviamente non è il paesaggio attorno, post meridiano 
“assorto” e l’io poetico che guarda questo paesaggio e riflette.
Ancora una volta Montale, Ungaretti sono maestri anche nell'uso della enallage o ipallage
Questi sono i caratteri più forti della lingua e della poesia ermetica.
Vediamo cosa troviamo di questo discorso nel Quasimodo di vento a Tindari.
Dove sta l'elemento analogico ed ermetico? Quasimodo siciliano espatriato a Milano, vive la condizione dell’esilio
perenne in questa Milano, creando un mito assoluto, anche questo classico, perché la Sicilia è terra greca per
eccellenza (Magna Grecia) e mentre sta facendo una passeggiata in altri luoghi del Nord con i suoi amici viene
risvegliato da questo vento che lo riporta con la memoria alla sua Tindari, alla Sicilia dell'infanzia perduta.
Infanzia, memoria sono dei luoghi chiave ancora dell'ermetismo ma soprattutto questa immagine di una Tindari
assolutizzata, che diventa un mito assoluto, è la patria perduta per sempre, è la memoria dell'infanzia come mito.
Pensiamo sempre al deserto dell'Egitto per l’Ungaretti “dell’allegria” e di “sentimento del tempo”.
Per un momento quindi, ecco l'epifania, la vita di esilio di Quasimodo, si illumina della bellezza e della perfezione - per
quanto mitica e tutta mentale del poeta - che coincide con la Tindari della sua infanzia.
E ancora una volta pensiamo a Montale: il vento è quello che porta queste epifanie, queste analogie con luoghi e
momenti lontani dal presente, luoghi e momenti che illuminano il presente. Questa è la premessa ermetica a quello
che stiamo per leggere.
Vento a Tindari (pag 674)
Tindari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull'acque
dell'isole dolci del dio,
oggi m'assali
e ti chini in cuore.

 Presente è il richiamo a Tindari che diventa un personaggio quasi animato di tutta la poesia “assale in cuore”
cioè torna improvvisamente, epifanicamente nel cuore del poeta con il mito poi unito a questa immagine
della Tindari dell'infanzia e cioè il paesaggio dei colli che si affacciano sulle acque, delle isole dolci del Dio,
sono le isole siciliane care al dio Eolo. È tutto un paesaggio della Sicilia alla luce di un mito classico  questo
è l'elemento costitutivo.
 oggi mi assali  il verbo è fondamentale cioè all'improvviso mi torni alla mente come mito dell'infanzia. È
proprio uno scatto analogico, un'epifania improvvisa come lo erano quelli che abbiamo richiamato tanto in
Ungaretti e Montale.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m'accompagna
s'allontana nell'aria,
onda di suoni e amore,

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e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d'ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d'anima

 Lui viene risvegliato da quest’ immagine della sua Tindari, dell'infanzia, della prima giovinezza e insieme gli
ritornano anche immagini di silenzi e ombre della propria infanzia. Però anche alle ombre e silenzi del
passato, anche l'immagine di un rifugio pieno di dolcezza quindi momenti di morte dell'anima associati però
anche a momenti di dolcezza e di soavità uniti a questa memoria della Tindari dell'infanzia.
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

 A te  sempre assolutizzazione di Tindari, parla con il suo mito e luogo dell’infanzia.


 ignota è la terra ove ogni giorno affondo e segrete sillabe nutro  Tu non conosci questa mia terra dell'esilio
- dirà apertamente la parola chiave “esilio” - in cui nutro segretamente queste sillabe da Poeta, sono una
specie di mio rifugio segreto.
 altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa sul tuo grembo.  tu purtroppo
sei altro, sei lontana nel tempo e nello spazio da quella che è la mia condizione infelice ed esiliato che sto
vivendo ora.
Aspro è l'esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d'armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

 Aspro è l'esilio  “esilio” è parola chiave.


 e la ricerca che chiudevo in te d'armonia oggi si muta in ansia precoce di morire  quella ricerca di armonia
che io trovavo nei silenzi e nelle paure della fanciullezza, quella dolcezza in te. Qui invece quella ricerca di
armonia diventa solo ansia: è l'ansia, l'angoscia, tipiche della vita, dell'uomo e del poeta del 900, nella città
che lo distrugge. Questo è un altro tema chiave già dal primo 900: pensiamo a Rebora, al Montale dei Limoni
 la città e in particolare qui per Quasimodo la città del nord, è una città di ansia, di angoscia esistenziale:
non riesce a trovare quella armonia che lui riusciva a trovare nella sua Tindari.
 e ogni amore è schermo alla tristezza, tacito passo nel buio dove mi hai posto amaro pane a rompere  tutto
è una ricerca di una consolazione, consolazione anche amorosa a questo esilio, a questa tristezza dove vive la
condizione dell'esiliato che è stato “posto amaro pane a rompere”. Chi vi ricorda questo motivo dell'esilio e
della ricerca di quanto è salato l’altrui pane? Dante che torna negli autori più diversi: dal Dante espressionista
di Montale degli Ossi di seppia, al Dante di un territorio molto diverso come quello della poesia ermetica cui
Quasimodo richiama l'immagine dell'esilio forzato fuori dalla propria città natale e dell'esperienza dura del
vedere quanto è duro guadagnarsi il pane, in tutti i sensi, in queste terre dell'esilio.
Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m'ha cercato.

162
 Chiusura: torna serena Tindari nella mia mente perché è lontana, torna quel luogo altro, quell'altrove.
L’altrove poetico è un’immagine chiave della poesia ermetica. Torna a essere quel luogo dell'armonia e della
serenità lontano dal poeta. Io vengo risvegliato da questa mia immaginazione, questa mia epifania della
memoria, dagli amici con cui sto passeggiando in ben altri luoghi e fingo di essermi spinto da una rupe e di
essere stato colto da un momentaneo timore, perché gli altri non sanno quale vento profondo mi ha cercato
 è il vento della memoria, il vento dell'altrove che abbiamo trovato tante volte nel cuore della poesia, in
particolare di Montale.
L’altrove poetico assoluto è la Tindari siciliana; l’altrove poetico assoluto è il mito dell'infanzia e della
memoria, la Tindari e la Sicilia classica e greca delle divinità che l’animano.
Epifania improvvisa che dura poco: viene risvegliato da questo vento dai suoi amici che lo richiamano alla
passeggiata nel nord Italia.
Assolutizzazione di una voce e in particolare una voce astratta: Tindari, lui infatti dialoga con Tindari per tutta
la poesia.
Abbiamo richiami ad un linguaggio aulico e persino classicistico: le isole dolci del Dio e Tindari diventeranno
tutti i miti classici della raccolta che verrà pubblicata pochissimi anni dopo “Erato e Apollion” – vediamo come
già in questa poesia in cui non c’è affatto quell'elemento spirituale di ricerca di un’epifania religiosa
spirituale, pure abbiamo evidenti tutti gli elementi di una poetica dell'ermetismo.
Quasimodo come tutti i poeti dell’ermetismo ha un percorso molto vario già negli anni 40, in particolare nella raccolta
“giorno dopo giorno”. L'esperienza della Guerra di Liberazione e una poesia che si fa voce anche della storia
contemporanea diventano fondamentali.

Alfonso Gatto
Un altro poeta esemplificativo di questa poesia ermetica degli anni 30 è sicuramente Alfonso Gatto, pugliese. Se c’è
una poesia esemplificativa di questo linguaggio dell'ermetismo è sicuramente “carri d'autunno”. La raccolta “isola” di
cui fa parte esce nel 32, siamo proprio all'inizio, nel cuore di quel trentennio ermetico che sono gli anni 30 anche se
poi la linea ermetica lascerà tracce profonde fino agli anni 50.
La poesia è piuttosto complessa: il linguaggio oscuro, ermetico e l’analogismo - come dirà anche Mengaldo - esagerato
(lui parlerà di un abuso dell’ analogismo) è evidente, è assolutamente ai limiti del possibile quindi è molto
esemplificativa anche nella sua maggiore oscurità rispetto alla Tindari che abbiamo letto, rispetto alla poesia di
Quasimodo.

Cos'è questo analogismo spinto dell'ermetismo di “carri d'autunno”? Questi carri che vengono evocati giocano
sull'ambiguità dei carri di zingari (si intuisce poi) e i carri - carro maggiore in cielo, cioè la costellazione di un paesaggio
notturno e quindi l’ evocazione da un paesaggio terreno, i carri degli zingari di notte che evocano un paesaggio che
invece è un paesaggio dell'altrove per eccellenza, quello delle costellazioni. È proprio la quintessenza dell’analogismo
ermetico, dell’oscurità e ambiguità anche delle parole e delle immagini evocate. Pensiamo solo a questo: paesaggio
notturno, paesaggio lunare (il Leopardi lunare è fondamentale in questi poeti, in particolare qui), carri di zingari e carri
invece come il carro maggiore e minore nel cielo.

Carri d’autunno – dalla raccolta: Isola (pag 697)


Nello spazio lunare
pesa il silenzio dei morti.
Ai carri eternamente remoti
il cigolìo dei lumi
improvvisa perduti e beati
villaggi di sonno.

 Il silenzio dello spazio lunare evoca lo spazio dell'assenza per eccellenza, quello della morte. C’è tutto un
territorio post simbolista alle spalle di questo ma soprattutto i carri eternamente eguali che cigolano nel
cielo, con una luce che cigola, già evocano dei carri che da essere dei carri reali sulla terra, diventano i carri
delle costellazioni perse nel cielo.
Al di là dell'immagine evocata volutamente ambigua, pensiamo ai carri e all’assolutizzazione della
preposizione di luogo “A” che rende ancora più indefinito questo spazio tra terra e cielo. Inoltre il cigolio dei
lumi - associo un rumore, il cigolio, ai lumi, quindi ad una luce - da vita ad una sinestesia che è un altro
elemento fondamentale già nella tradizione post simbolista.

163
 Improvvisa  NON è un aggettivo ma il verbo improvvisare che a sua volta diventa addirittura transitivo:
“improvvisa perduti e beati villaggi di sonno”  Ecco che viene questo flash di un paesaggio di sonno. Ancora
non capiamo niente: cos'è sto paesaggio di sonno?
Il verbo usato in forma transitiva ma soprattutto è un verbo che evoca l’epifania, il ricordo improvviso, come
“Assali” nella Tindari di Quasimodo.
Qui improvvisamente gli viene da questo paesaggio reale, quello lunare evocato, tutto un immaginario
poetico, tutto fondato sull’analogia, i carri sulla terra e i carri in cielo. Quindi è un verbo fortissimo e
fortissimamente ermetico questo “improvvisa”.
Come un tepore troveranno l'alba
gli zingari di neve,
come un tepore sotto l'ala i nidi.

 Come un tepore  la similitudine già presenta l'idea dell'analogia


 Vengono fuori gli zingari, i carri di zingari che troveranno un'alba di neve, un'alba bianca che li proteggerà,
così come gli uccellini sono protetti dalle ali degli altri uccelli nei propri nidi.  immagine molto pascoliana :
dietro c’è Pascoli ma soprattutto l’ ambiguità, l’evocatività e l’analogismo.
Qual è l’ambiguità? Al di la di evocare all'improvviso questi zingari di neve (che sono gli zingari di neve?) è
l'alba di neve in cui si trovano questi zingari, un'alba bianca semplicemente vuol dire Alba di neve indica il
biancore della mattina che segue all'oscurità ma può anche molto pascolianamente, l'impressionismo
coloristico di Pascoli, ma può anche essere veramente un’alba che ha ricoperto anche i loro carri con la neve.
Quindi un’ambiguità che viene lasciata aperta. Ma questa ambiguità aperta dell'alba di neve è resa ancora più
ambigua e difficile se associamo la neve agli zingari “zingari di neve”.
Un altro elemento con cui Gatto, soprattutto il Gatto ermetico gioca, è l'uso dell'anastrofe e delle inversioni
che è un elemento classicistico, di un retaggio aulico. L’anastrofe è lo spostamento di parti del discorso
sovvertendo l'ordine naturale della sintassi e della grammatica. Allora il termine neve è più logico che sia
associato all'alba di neve, sono gli zingari che troveranno un'alba di neve però per rendere più ambigua
questa immagine, più evocativa, più analogica fino all'estremo ovvero più ermetica, “di neve” viene associato
a “zingari” e abbiamo una anastrofe. Così come “un tepore sotto l'ala i nidi”  cambia la costruzione
grammaticale normale della frase. Spostare pezzi della sintassi normale vuol dire rendere più oscura, più
evocativa quelle immagini, quel pensiero poetico.
 L’iperbato o l’inversione è presente in tutta la costruzione di questa poesia: ad esempio “della notte
l'oscurità” è una classica inversione che parte dalla poesia più classicistica e che sarà usata spessissimo da
Gatto e dagli altri ermetici per rendere più oscuro e quindi anche più evocativo il pensiero poetico. Vengono
usati quei sintagmi impressionistici di cui Pascoli era maestro (rileggere l’Assiulo). Tutta questa breve poesia è
giocata sull’anastrofe e sul rendere difficile, univoco, il discorso poetico: è al massimo dell’analogismo e al
massimo dell’evocatività la poesia ermetica di questo Quasimodo.
Così lontano a trasparire il mondo
ricorda che fu d'erba, una pianura.

 Ultimo distico. Non lo analizziamo parola per parola ma notiamo che di anastrofi e inversioni è fatta tutta la
costruzione. Il mondo ricorda che fu una pianura d’erba: è il mondo che ricorda, ancora una volta, qualcosa di
astratto, perché fa parlare e pensare il mondo che viene reso concreto e quindi rende concreto ciò che
astratto. Il mondo che è così lontano ad apparire in tutta la sua trasparenza e luminosità, il paesaggio inizia
come paesaggio lunare, ma il mondo ricorda che tutto questo paesaggio di autunno nevoso, molto
probabilmente, un tempo è stata una pianura piena d’erba e non di neve.
Abbiamo ancora l’assolutizzazione dell'astratto, l'astratto con qualità concrete e animate, uso dell'anastrofe e
dell'inversione fino a rendere assolutamente oscuro ed evocativo il pensiero. E’ un paesaggio lunare, i
paesaggi lunari erano molto cari ad Ungaretti già in “Sentimento del tempo” e soprattutto per capirci
qualcosa in più di questo paesaggio lunare, caratterizzato però da uno strano albore, una strana luce bianca,
bisogna rileggere l’Assiuolo di Pascoli.
Questa è proprio una specie di piccola enciclopedia della poesia dell’ermetismo degli anni 30.
Teniamo presente che oltre questa poesia di invenzione di Quasimodo e di Gatto, erano state le traduzione dei lirici
greci fatte da Quasimodo a rendere proprio stabile - una specie di piccola enciclopedia del linguaggio ermetico - il
linguaggio di questi poeti. Quindi non sono la loro poesia d’invenzione, non solo le poesie che scritte da Quasimodo e
da Gatto, ma l'elemento fortissimo per creare la koinè ermetica furono proprio le traduzioni dei lirici Greci fatte da
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Quasimodo, che inventò in realtà un linguaggio che doveva evocare questo altrove assoluto della poesia classica
grecam Saffo e così via e riuscirono benissimo in questa operazione perché tra le traduzioni poetiche più belle di
quelle poesie della classicità, ci sono sicuramente queste traduzioni di Quasimodo che saranno assolutamente libere
perché Quasimodo non era un fine classicista.
Per questo giustamente anche Mengaldo dice che quelle traduzione dei lirici Greci fatte da Quasimodo sono
veramente la summa della koinè ermetica. Teniamo presente questo elemento: le traduzioni (e ce lo dice anche
Mengaldo) sono un altro percorso molto interessante per vedere spazi importanti della poesia del 900 perché tutti i
poeti, non solo i più grandi, sono stati degli importantissimi traduttori (Ungaretti, Montale, Quasimodo) fino arrivare
agli ultimi come Valerio Magrelli, Amelia Rosselli ed è importante vedere come questi grandi poeti reinventano un
linguaggio della traduzione poetica reinventando dei mondi, evocando dei mondi attraverso un linguaggio che è poi
esemplificativo anche di tutta la loro poesia creativa. Altro esempio importante sono questi lirici greci che vedono la
prima edizione compiuta nel 40.
Gatto e Quasimodo dei primissimi anni 30 sono proprio le colonne portanti del discorso dell'ermetismo degli anni 30 e
40: anche Gatto poi scioglierà la sua poesia in una cantabilità e musicalità che andrà bene oltre il linguaggio ermetico
degli anni 30 e così farà uno dei grandi protagonisti della poesia del secondo 900, che inizia però in un territorio tutto
ermetico, che è Mario Luzi.

Mario Luzi
Luzi è proprio il rappresentante più chiaro di quell’ermetismo fiorentino che crea una poesia dalla forte evocatività e
dal forte analogismo che evoca un altrove che è metafisico e spirituale di matrice cattolica. Luzi si forma e muove i
suoi primi passi in questa Firenze dell'ermetismo cattolico del “frontespizio”. È stato un grandissimo poeta,
eternamente candidato al premio Nobel senza vincerlo mai (muore agli inizi degli anni 2000).
Perché è stato un grande poeta? perché parte da questo retaggio, da questo territorio dell'ermetismo cattolico
fiorentino ma ha poi un percorso ricchissimo sempre molto creativo nella poesia italiana perché passa ad una poesia
prosastica, con le poesie della seconda metà del 900: “nel magma” è la raccolta di cui vedremo alcuni versi  questo
entrare nel magma della lingua e della realtà prosaica del secondo 900 prende il posto del primo Luzi ermetico ma in
cui questa tensione spirituale non è mai spenta, fino alle ultimissime sue poesie che addirittura gli vennero richieste
dal Papa Giovanni Paolo II all'inizio del 2000. Il papa gli chiede di riscrivere la Via Crucis in versi: questo elemento di
spiritualità rimane intensissimo in Luzi, anche negli stili e con le poetiche più diverse che lui attraversa ma dirà
chiaramente in tutta la sua poesia e in tante interviste e scritti che la condizione per lui cristiana che più si addice alla
sua poesia e alla sua esperienza di poeta cristiano è la condizione del Purgatorio: non la condanna all'inferno
definitiva ma neanche il raggiungimento della beatitudine che è espresso dal Paradiso ma quel scontare le proprie
colpe e pene terrene avendo davanti la luce della redenzione. È molto bello e molto intenso questo richiamarsi
continuo nella sua poesia e nella sua poetica al luogo purgatoriale.

Altro elemento importantissimo è che Mengaldo, fermandosi agli anni 70, elimina circa 30 anni di intensa attività di
Luzi, un periodo molto ricco e molto bello della sua poesia a cui è da associare un'altra parte importante che
Mengaldo non cita perché esplode negli anni 80, che è l'attività teatrale. Il teatro in versi, poetico di Luzi è un altro dei
campi di indagine poetica molto interessanti, a partire da una bellissima opera teatrale Ipazia che è stata messa in
scena diverse volte, in cui richiama questa filosofa che viene condannata già nell'antichità per le sue tesi troppo
coraggiose. Se c'è un filo conduttore in tutta questa sua opera teatrale in versi molto bella degli ultimi anni è proprio
questo scontro tra l'io libero dell'intellettuale e del pensatore in generale in rapporto al potere che ha sempre questa
funzione di persecuzione degli uomini. Anche questo è un territorio molto ricco che si studia adesso in lungo e in
largo: le opere teatrali di Luzi sono state pubblicate circa due anni fa con un ricco commento della studiosa Paola
Cosentino  un territorio molto interessante da indagare e che non troviamo in Mengaldo per ragioni cronologiche.

Noi fermiamoci al Luzi ermetico però poi post ermetico perché poi parleremo di che cos’è post ermetico nel secondo
900, cioè di come poeti formatisi in quegli anni 30 ermetici, superano e arrivano in un territorio tutto loro, come
diceva Montale dell’esperienza di Gozzano.
Soffermiamoci sul primo Luzi ermetico: il Luzi degli anni 30, come cambia negli anni 40 e come approda già nei primi
anni 60 con la raccolta “nel magma” a superare assolutamente un territorio ermetico e mescolarsi alla prosaicità e
all’essere prosastico della poesia del secondo 900.

Se dobbiamo trovare un territorio ermetico in un Luzi che ancora si deve costruire come ermetico, prendiamo come
riferimento la poesia “L'immensità dell'attimo”, contenuta nella raccolta che esce a metà degli anni 30 “la barca”. Da
165
qui possiamo estrapolare già tutti gli elementi ermetici anche se, il saggio che è edificio della poesia ermetica uscirà
nel 36 con Flora e il manifesto dell'ermetismo cattolico uscirà solo nel 38, ma ci sono già tutti i nodi ermetici della
poesia in questa raccolta del 35, comunque successiva alle prime raccolte ermetiche, tanto di Quasimodo che di Gatto
ma, ancora di più, di sentimento del tempo e delle occasioni.

L’immensità dell’attimo - dalla raccolta: la barca.


Già il titolo è ermetico: perché? L'immensità dell'attimo, senza neanche leggere la poesia, ci evoca l'epifania che può
suscitare un singolo momento. In un istante, in un attimo c'è un momento di luce che illumina d’immensità e d’infinito
quel momento della vita terrena. È già un titolo tutto ermetico e per essere ancora più precisi, di un ermetismo di
matrice cristiana.
In che cosa consiste questa epifania, questa immensità di un attimo soltanto?
Quando tra estreme ombre profonda
in aperti paesi l’estate
rapisce il canto agli armenti
e la memoria dei pastori e ovunque tace
la segreta alacrità delle specie,
i nascituri avallano
nella dolce volontà delle madri
e preme i rami dei colli e le pianure
aride il progressivo esser dei frutti.
Sulla terra accadono senza luogo
senza perché le indelebili
verità, in quel soffio ove affondan
leggere il peso le fronde
le navi inclinano il fianco
e l’ansia de’ naviganti a strane coste,
il suono d’ogni voce
perde sé nel suo grembo, al mare al vento.

 “Sulla terra”  lì ci sono evocati questi strani fatti terreni sulla terra.
E’ una specie di spiegazione alle immagini della prima parte della poesia.
 Il linguaggio è oscuro, così avrebbe detto Flora tre anni dopo, ma era un’oscurità che voleva anche essere
sciolta soprattutto da un poeta dell'ermetismo cristiano come Luzi. Cosa evoca? Vediamo lo stile, le anastrofi,
lo spostamento di parti del discorso per rendere più evocativo il discorso.
 Cosa sta evocando nella prima parte? Un’estate, la profonda estate, un'estate in un paesaggio di pastori e
armenti di pastori e dei loro greggi in cui c'è una segreta alacrità della specie.
Qual è l'aggettivo chiave? Segreta. In queste immagini quasi bucoliche di questi armenti e pastori d'estate,
c'è una segreta verità che svela qualcosa della specie, di tutto ciò che è vivo sulla terra.
Qual è questo mistero, questo segreta alacrità? Il mistero della nascita, i nascituri avallano nella dolce
volontà delle madri e viene evocato per analogia un rinascere continuo, un risorgere continuo della vita che è
illuminato da un’immagine anche fortemente spirituale  Il segreto della vita perenne, chiuso in questo caso
nell’immagine analogica dei nascituri nel grembo delle madri e in cui tutta questa natura estiva, i colli, le
pianure premono verso il progressivo essere dei frutti, premono verso il rinascere della vita, il fruttificare, il
frutto della terra, immagine molto cristiana, il segreto della nascita, del miracolo della nascita che qui viene
evocato tramite il miracoloso rinascere, il fruttificare continuo della natura in un paesaggio estivo, è quello
della maturità. Questo paesaggio che apparentemente è fortemente evocativo, fortemente analogico è però
un paesaggio che parte, un paesaggio terreno, un'estate di pastori e di alberi che fruttificano. Ecco il
momento del pensiero, come aveva già indicato soprattutto Montale a Luzi, paesaggio reale ma
immediatamente già era scattato l’analogismo nella prima parte in Luzi ma poi c'è una riflessione vera e
propria nella seconda parte.
Qual è il commento a questo miracolo della nascita, del fruttificare continuo in una immagine sacra? i
nascituri nel ventre delle donne è un'immagine sacra e richiama l'accadere perpetuo, infinito, senza un luogo,
ovunque e in qualsiasi momento delle verità indelebili  le verità indelebili sono quelle verità nascoste ma
imperiture che per l'ermetismo di questo Luzi sono verità cristiane, la sacralità del creato sostanzialmente, il

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frutto della terra inteso in termini biblici e i cristiani.
Quindi ovunque, sempre, sulla terra accadono in ogni istante: questa è l’immensità dell'attimo, l'epifania
dell'attimo cioè in ogni istante avvengono dei miracoli, delle verità imperiture. Questo è un elemento
fortemente spirituale e cristiano in Luzi, in quel soffio che viene dalle fronde  immagine biblica ancora una
volta associata al vento che però qua è soffio: vento usato da Montale e dintorni è un conto; il soffio è una
parola biblica, è il soffio della creazione di Dio nella Bibbia, quindi ha una sacralità maggiore rispetto alla
parola vento.
Questo miracolo viene associato al soffio che dà vita alla natura, a queste immagini delle navi che si
inclinano nell’ansia dei naviganti, immagine purgatoriale (l’ansia dei naviganti del canto del Purgatorio) che
portano i naviganti verso strane coste, il viaggio della vita che porta verso coste strane: in quest’aggettivo c'è
tutta la evocatività ermetica, di non facile decrittazione, perché vuol dire strane, incognite ma anche nel
senso proprio di estranee alla vita, navigazione della terra che poi giunge verso terre incognite che sono
quelle della vita oltre la morte però con un’immagine che una delle più antiche metafore della vita:
l’immagine dei navigatori, della navigazione, che già Dante, carissimo a Luzi, aveva evocato nel Purgatorio.
E’ evocato il soffio biblico, l'immagine della navigazione dell'uomo verso coste estranee e l'immagine, il suono
di una voce - viene richiamato un altro senso - che è quello del vento verso il mare che però ovviamente vieni
immediatamente reso astratto  nell’ermetismo l’astrazione è fondamentale perché il suono di ogni voce
“perde se nel suo grembo” cioè nel grembo che richiama il grembo delle madri cioè il tutto, tutto il creato. Il
vento soffia e fa disperdere questo suono, che è il suono della creazione in ogni elemento e in ogni dove.
Altra illuminazione su ciò che intendiamo per poesia ermetica del 35, che ci siano o meno dichiarazioni ancora di
ermetismo, sebbene l’ermetismo non si chiami ancora così perché non l'ha ancora usato il critico Flora: bisognerà
aspettare il 36 e ancora Carlo Bo non ha detto “noi l'ermetismo lo intendiamo così”, cosa che farà nel 38. Ma tutti gli
anni 30 già prima di questa raccolta di Luzi erano stati animati dai circoli, in particolare dei poeti fiorentini che già
all'inizio degli anni 30 fanno venire fuori delle raccolte emblematiche dell'ermetismo. Ricordiamo che Luzi è fiorentino
e frequenta i circoli della poesia ermetica fiorentina quindi conosce dall'inizio, in maniera molto vivace e diretta
questo ambiente.
Dal titolo e da questi snodi essenziali di questa poesia fortemente evocativa, fortemente analogica, abbiamo un'idea
di che cosa sia un ermetismo in cui l'altrove, l'epifania, l'illuminazione dell'infinito prende una chiave veramente
spirituale, cristiana. Il miracolo del creato, il miracolo della nascita imperitura di tutto il creato è il momento
miracoloso in cui questo miracolo che avviene in ogni momento, in ogni dove, appare alla vista del poeta e prova ad
essere trascritto dal poeta: è il miracolo delle verità indelebili, così le chiama, che sono propriamente verità spirituali
nel caso di Luzi.

Ci sono poi raccolte degli anni 40 come “avvento notturno” nelle quali è un tutt’uno con il clima ermetico. Già il titolo,
“avvento notturno” è di per sé ermetico perché abbiamo l'immagine dell’avvento cristiano, la venuta di Cristo,
qualcosa di miracoloso che avviene nel cuore del buio. Ancora una volta una “verità indelebile” come l’ha chiamata
prima, che illumina l'oscurità, che è la vita dell'uomo. L’avvento è una parola cristiana al 100%. L’avvento cristiano
avviene all'interno di un paesaggio oscuro, in un notturno che è quello della vita terrena, che deve essere illuminata
da questo avvento.
Il miracolo nel buio: sostanzialmente è un miracolo, è un avvento che richiama direttamente un immaginario e anche
una lingua assolutamente spirituale, cristiana.
Già il titolo presenta degli elementi fortemente ermetici, dell'ermetismo cristiano proprio di Luzi. Siamo ormai nel
cuore dell'ermetismo, all'inizio degli anni 40 quando già tutti gli anni 30 hanno formato non solo questa koinè - come
dice Mengaldo - ermetica ma tutto un percorso di questi poeti. La cosa interessante di Luzi è che in realtà in tutta la
raccolta degli anni 40 è forte quest’idea di un'epifania richiamata in termini religiosi e spirituali, ancora nella raccolta
“quaderno gotico”, di cui abbiamo una delle poesie più famose che è “l'alta la cupa fiamma ricada su di te” che noi
non leggiamo ma in cui c'è ancora questa immagine di un fuoco che brucia e rigenera, un fuoco che è anche fonte di
rigenerazione che è un'immagine non solo biblica ma anche montaliana: già negli Ossi di seppia ma ancora di più nelle
Occasioni l'immagine del fuoco e della cenere che bruciano ma allo stesso tempo portano una luce, che è una luce
divina per Luzi ma non per Montale, sono una metafora, un simbolo fortissimo già montaliano, del Montale più vicino
all’ ermetismo, quello delle Occasioni. Qui il fuoco rigeneratore, purificatore, è ovviamente un'immagine anche
fortemente Cristiana che viene richiamata in questa poesia famosissima di Luzi in cui c'è anche un elemento
importante e cioè quel parlare con un altro io, un alter ego che è sempre Mario, è lo stesso Mario Luzi che è una

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caratteristica della poesia di Luzi e che sarà anche la caratteristica di molti poeti che da ermetici si fanno post ermetici,
per esempio Vittorio Sereni.

Domanda: questa immagine del fuoco come simbolo di rigenerazione può essere una sorta di analogia della
Resurrezione Cristiana?
Risposta: Sì, soprattutto del Purgatorio, le lingue di fuoco che danno la capacità di parlare a tutti agli apostoli nella
nostra Bibbia. Quindi si è un'immagine molto cristiana legata alla Pentecoste, l’immagine del fuoco rigeneratore con
un'immagine purgatoriale, proprio perché il Purgatorio è l'immagine più cara a Luzi ma è anche un'immagine che
viene da un dei padri dell'ermetismo laico - Montale - perché l'immagine del fuoco che brucia ma anche “persistenza è
solo l'estinzione” è uno dei versi famosissimi di Montate “in ciò che brucia rimane una luce di verità”  Questo era in
Montale e Luzi lo riprende dandogli una chiave propriamente cristiana. È interessante come Luzi ha conosciuto molto
bene direttamente a Firenze Montale, si forma su di lui e lo rilegge, usando anche stesse metafore, stessi simboli ma
in una chiave che diventa cristiana e che era totalmente assente in Montale.

Domanda: quando Mario Luzi parla con un altro io potrebbe significare anche che lui parli con il Dio, con il Cristo,
quando fa riferimento ad un'altra persona?
Risposta: in un certo senso sì ma è meglio se leggiamo dei versi.
Questa poesia è molto interessante, è una delle più famose di Luzi. Negli ultimi versi di questa poesia troviamo:
Versi tratti da: alta la cupa fiamma, ricada su di te.
L'immagine fedele non serba più colore
e io mi levo, mi libro e mi tormento
a far di me un Mario irraggiungibile
da me stesso, nell'essere incessante
un fuoco che il suo ardore rigenera.

è quell’idea di arrivare a una pienezza dell’io che però è sempre irraggiungibile ma che l'uomo, in questo caso
illuminato da una speranza cristiana, continua a cercare incessantemente attraverso questo fuoco che rigenera.
Il Mario irraggiungibile è lui stesso però è quell’ io perfetto, quella pienezza dell'uomo a cui aspira sempre
costantemente Mario Luzi e che però non viene mai pienamente raggiunta da nessun uomo ma che pure viene
accompagnata da una purezza cristiana, da una ricerca illuminata da una verità cristiana: il Mario irraggiungibile è il
Mario purgatoriale, che è l'immagine propria degli uomini oltre che dell’io poetico di Mario Luzi in tutta la sua poesia.
La ricerca di una pienezza dell'essere, di una pienezza dell'io che però resta sulla terra, irraggiungibile e che può essere
eternamente rigenerata solo da una fiamma, che è una fiamma di verità divina. Questa è la condizione purgatoriale
degli uomini che è innanzitutto la condizione purgatoriale dell'io poetico di Luzi ma che Luzi universalizza in tutta la
sua poesia. Chiama se stesso il Mario irraggiungibile e il Mario ripeto della pienezza dell'essere che non è mai tale
nell’esperienza terrena e che pure il fuoco che è un fuoco che brucia e rigenera incessantemente rende eterna questa
ricerca illuminata da una speranza cristiana. L’immagine dell’irraggiungibile, questo sdoppiamento dell'io, la pienezza
dell’io Mario e il Mario terreno che incessantemente è in un eterno Purgatorio che cerca la pienezza dell'essere,
diventerà tutt'altra cosa nell’io sdoppiato, per esempio, in Vittorio Sereni, poeta anche lui del post ermetismo però
assolutamente laico, una linea fortemente montaliana e quella non pienezza dell'essere che è propria dell'alter ego di
Sereni sarà richiamata in tutt'altro modo in un senso totalmente laico.

Quindi un percorso che si sviluppa lungo una linea ermetica e che però, ancora una volta, prende strade diverse  nel
Luzi cristiano è il Mario e la pienezza dell'essere cristiano; in Sereni è una pienezza dell'essere che non è mai raggiunta
per altri motivi autobiografici, storici.
Domanda: quest’ idea può essere ricollegata al mito della fenice che risorge dalle proprie ceneri e si rigenera?
Risposta: c'è tutto, ovviamente anche questo. Ci sono vari simboli che richiamano questa eterna rigenerazione: fenice;
fuoco cristiano non infernale; la verità divina che scende e della lingua di Dio. Il primo uso in ambito ermetico che si è
rivelato importante per Luzi è quello di Montale. Tutti i simboli moderni sono stati già usati ma ora ci sono riusi di certi
simboli e metafore antichissime, più o meno calzanti.  nel caso di Mario Luzi il debito più grande è quello
Montaliano. Quello del fuoco e della distruzione era un simbolo che però porta una luce di verità che rigenera, era già
stato usato da Montale in particolare nelle occasioni in una chiave laica. Montale e la Bibbia sono i riferimenti più
presenti, più calzanti in Luzi. Quello della fenice è mito antichissimo però qua c'è la chiave cristiana che è
fondamentale.

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Altra poesia bellissima di Luzi è “notizie a Giuseppina dopo tanti anni”. Cosa ci interessa di questa poesia?
Estrapoliamo gli elementi essenziali. La poesia è immaginata come una specie di lettera inviata a questa Giuseppina,
una lettera scritta dopo tanti anni di vita vissuta lontano da questa destinataria e anche questa è una movenza
fortemente montaliana: le “notizie dall'amiata” che abbiamo alla fine delle Occasioni sono esattamente questo, una
specie di lettera – dice Montale - lanciata nello spazio, una lettera a chi è ormai lontano ma vuole raccogliere le parole
del poeta in senso figurato. Quindi ancora una volta una movenza fortemente montaliana che viene ripresa da Luzi in
“notizie a Giuseppina” in cui vengono evocate quelle immagini di una vicissitudine sospesa. Nella seconda strofa dice
che la vicissitudine sospesa era la vicenda della vita, che è sempre sospesa, la collocazione purgatoriale, tra terreno e
rivelazione e approdo anche al di là della propria esperienza terrena ed è diventato un sintagma “la vicissitudine
sospesa” spesso usato dai critici anche in tanti saggi per richiamare questa poetica purgatoriale che impregna tutta la
stagione ermetica e post ermetica di Luzi. Quest’immagine della “vicissitudine sospesa” viene ripresa in quel sintagma
finale della stessa poesia “il sonno avventuroso” che è proprio questo viaggio, che è il diario e l'esperienza terrena
verso un sonno che potrà portare però a una rivelazione, al di là del sonno terreno. È una poesia fortemente pregna
del linguaggio ermetico analogico ovviamente, di un analogismo cristiano che però ci mostra il retaggio anche
profondamente montaliano di Luzi e soprattutto ancora una volta quei sintagmi che si trovano regolarmente nella
poesia di Luzi, anche nelle stagioni più diverse e che indicano questo viaggio purgatoriale dell'uomo e che in questa
poesia è racchiuso benissimo in quella vicissitudine sospesa che è l'esperienza terrena dell'uomo e il suo sonno
avventuroso al di là dell'esperienza terrena. Bellissima poesia, costruita con una preziosità letteraria che evoca un
andamento che guarda alla nostra migliore tradizione poetica già nell'apertura “che speri, che ti riprometti” che è una
tipica movenza interrogativa che da Petrarca in poi ha attraversato la nostra poesia. Inizia a venire fuori già un
retaggio che poi porterà Luzi ben oltre questa stagione.

Altra poesia meravigliosa, che ci dice già di questo passaggio di Luzi da una stagione ermetica a una stagione post
ermetica, in queste raccolte degli anni 50 siamo già sia con “primizie del deserto” e “onore del vero” in quella
stagione post ermetica degli anni 50 di Luzi. Ancora una volta i titoli delle raccolte delle poesie ci suggeriscono
moltissimo della poesia del 900:  “onore del vero” ha già dentro di se un omaggio alla verità, che è la verità terrena,
la verità storica e il rumore delle armi che la poesia spirituale di Luzi ormai paga alla stessa poesia negli anni 50.
Questo onore del vero è quello della sua esperienza tutta terrena che viene evocata in quell'altra famosa poesia di
Luzzi che si chiama “nell'imminenza dei quarant'anni”  anche in questo caso richiamiamo Sereni che pure fa parte
di un post ermetismo per altri versi lontanissimo anche da Luzi, che è quella specie di poesia “bilancio esistenziale”
che è un terreno comune a molta poesia del secondo 900 italiano, un bilancio esistenziale fatto ormai nella piena
maturità che è quella dei 40 anni. Ancora una volta si chiude su questa ricerca di una verità nella perenne cenere che
l'esperienza terrena (ancora Montale) e che pure in quella piccola luce che è venuta da questo fuoco terreno che tutto
consuma, pure è stata una luce di verità. A un certo punto, in maniera assolutamente montaliana, Luzi dice non “fu
vano e questa l'opera che si compie ciascuno e tutti insieme i vivi e i morti penetrare il mondo opaco”  Ricerca
epifanica, ricerca di una verità assoluta al di là del mondo opaco che non esprime mai una pienezza dell'essere - tutto
puro ermetismo cristiano - però detto in maniera montaliana non fu vano – rileggiamo in piccolo testamento quell’
idea della piccola luce di un fuoco che ha portato sia al bruciarsi delle verità terrene, al bruciarsi dell'esperienza
terrene ma in una piccola luce di verità che pure resta tale e non è vana. Se leggiamo il piccolo testamento o la poesia
“persone separate” capiamo che vuol dire questo discorso molto montaliano della cenere del tutto e la persistenza
nell’estinzione  il fuoco è la grande immagine analogica che viene richiamata negli ultimissimi versi anche di questa
poesia “sparire nella polvere o nel fuoco se il fuoco oltre la fiamma dura ancora”  Questo fuoco che distrugge,
illumina anche una verità che per Luzi è una verità che va oltre l'esperienza terrena e col fuoco brucia. Ma il fuoco è
anche persistenza. Per Luzi però, a differenza di Montale, è persistenza spirituale, religiosa, propriamente cristiana.
Questa è una poesia fortemente esemplificatrice della poetica di Luzi, soprattutto del suo passaggio da un terreno
ermetico ad un terreno post ermetico, che diventa ancora più evidente in quella raccolta del 63 “nel magma”
all’interno della quale, lo vedremo nella forma prosaica e prosastica, che salto ha fatto nella poesia degli anni 50 ma
soprattutto perché il titolo - ancora una volta - ci dice tantissimo di questa poetica di questo secondo Luzi che entra
nel magma della storia, nel magma prosaico della realtà terrena e storica.

Leggiamo qualche verso di “Menage”  questa è una lunga poesia prosastica, la poesia si fa prosa proprio nel
linguaggio e nella struttura (è una caratteristica della poesia del secondo 900). Non solo il titolo della raccolta “nel
magma” ma il titolo stesso della poesia “menage” richiama quello che è un menage quotidiano e in particolare, ancora

169
più prosaicamente, un menage a tre.
Cosa viene evocato nei primi versi? Leggiamo solo i primi versi di questo lunghissimo poemetto prosastico. Viene
evocato un incontro presso una coppia di amici e Luzi è il terzo incomodo (ma non viene richiamato niente di
sessualmente equivoco) che si incunea in questa coppia, in questo menage. Tutto diventa interessante perché non
solo il linguaggio e la forma ma anche proprio i contenuti sono volutamente molto prosaici e prosastici, più vicini alla
prosa che non alla poesia. Abbiamo qualcosa di fortemente esemplificativo di quello che sarà il nostro percorso
dell'ultimo 900.

Menage – tratta dalla raccolta “Nel Magma”


La rivedo ora non più sola, diversa,
nella stanza più interna della casa,
nella luce unita, senza colore né tempo, filtrata dalle tende
con le gambe tirate sul divano, accoccolata
accanto al giradischi tenuto basso.

 Siamo in piena prosaicità e prosasticità. Rivede questa figura femminile, evidentemente importante per il
poeta, dopo tanto tempo, in una casa mentre sta accoccolata sul divano con un giradischi che suona ma è
tenuto basso. Contesto perfetto di un menage di un interno borghese, in questo caso di intellettuali. Siamo
tra gli anni 50 e 60, quelli del boom economico, quelli di un'Italia che diventa all'improvviso modernissima e
grande potenza industriale a livello mondiale. Anche la poesia, persino quella di Luzi, deve fare i conti e paga
il suo onore del vero anche a questa prosaicità di questa Italia dei primi anni 60.
E’ presente un dialogo che si fa prosaico e prosastico: c'è la coppia, il menage della coppia, che diventa un
menage a trois perché si incunea questo io, che è l’io del poeta Luzi che crea un legame fortissimo più tra
questo tu femminile - che lui rivede dopo tanti anni - e lui, il poeta Luzi e rimane isolato invece questo
antipatico presuntuosetto personaggio maschile con le sue grandi domande da raffinato intellettuale.
« Non in questa vita, in un'altra » folgora il suo sguardo gioioso
eppure più evasivo e come offeso
dalla presenza dell'uomo che la limita e la schiaccia.
<< Non in questa vita, in un'altra » le leggo bene in fondo alle pupille.
È donna non solo da pensarlo, da esserne fieramente certa
E non è questa l'ultima sua grazia
in un tempo come il nostro che pure non le è estraneo né avverso.

 In un'altra vita, ma non ci dice come in un’altra vita, lei pensa che ha vissuto o pensa che sarà vissuto ma non
in questa, che è la vita in questo menage con un uomo che la schiaccia.
 << Non in questa vita, in un'altra » le leggo bene in fondo alle pupille.  si accende un forte legame tra
questa figura femminile schiacciata dal suo tu maschile e il poeta, perché lui legge negli occhi anche quello
che la donna non riesce a dire perché sopraffatta dall'altra figura maschile.
 La bellezza di questa donna e anche dei suoi silenzi è che nello sguardo lei dice “Ma la verità di tutto è in
un'altra vita” che sia già un vissuto suo lontano dal presente o proprio un'altra vita, in un senso più
metaforico e cristiano, non ce lo dice esplicitamente Luzi.
Però è la grazia di questa donna, questo dire questa verità, che va al di là della chiacchiera che è quella che
invece porta avanti il suo compagno.
Ma pure lei ormai è parte di questo tempo, di questa chiacchiera, anche di quello che dice il suo compagno.
Il poeta si sente un po' spaesato in questo tempo ma ha il coraggio, a onor del vero, di raccontare questo sguardo che
lui ha decriptato in cui vede la verità. Parte con un vero dialogo, con la prosaicità di questo dialogo.
<< Conosci mio marito, mi sembra » e lui sciorina un sorriso importunato,
pronto quanto fuggevole, quasi voglia scrollarsela di dosso
e ricacciarla indietro, di là da una parete di nebbia e d’anni
e mentre mi s'accosta ha l 'aria di chi viene
da solo a solo, tra uomini, al dunque.

 Importunato  sorriso un po' seccato dalla presenza di questa sua


 conoscenza pronto quanto fuggevole  gli intellettuali mantengono sempre un certo distacco, mai troppa
giovialità e cameratismo.

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 e ricacciarla indietro  vuole buttare indietro anche questa possibile conoscenza già fatta nel passato di
Mario Luzi.
 e mentre mi s'accosta ha l 'aria di chi viene da solo a solo, tra uomini, al dunque  ha dato vagamente segno
di conoscerlo già e poi si accosta a lui e inizia così un dialogo più profondo, su cose più profonde da
intellettuale raffinato da cui immediatamente viene esclusa lei, il tu femminile.
Notiamo l’ironia verso questa figura di intellettuale maschio supponente, che si avvicina all'uomo e da uomo
e uomo fa discorsi seri.
<<C'è qualcosa da cavare dei sogni?>> mi chiede fissando
su di me i suoi occhi vuoti
e bianchi, non so se di seviziatore, in qualche villa triste o di guru.
<<Qualcosa di che genere?>> e guardo lei che raggia tenerezza
verso di me dal biondo del suo sguardo fluido e arguto
e un poco mi compiange, credo, di essere sotto quelle grinfie.

 Lui si avvicina all'altro pari suo, all’altro intellettuale uomo e tira fuori la domanda delle domande, quei
blablabla intellettualoidi che, per esempio, sono messi ironicamente perfettamente in scena da un
grandissimo, ironico regista Ettore Scola nella “terrazza”: in questo film mette in scena e sbeffeggia questi
incontri nei salotti intellettuali propri di questi anni di grande impegno ma i più intelligenti intellettuali di
sinistra sorridevano già di questo presuntuoso conversare.
Tutto questo Luzi ce lo mette in scena qua: l'uomo si avvicina a lui e arriva al dunque - cosa si può tirare fuori
dal sogno? - e lo guarda con i suoi occhi vuoti  in realtà Luzi trova vuotezza e non qualcosa pieno di
significato, cosa che invece trova nello sguardo gioioso del tu femminile. Sono occhi vuoti, forse addirittura di
seviziatore, uno che gode a fare del male anche verso il tu femminile, capisce che è un tu maschile che mette
a tacere, mette nell'angolo il tu femminile o un grande guru intellettuale, quelli che con le grandi domande
affascinano stuoli di altri intellettuali e diventano dei maestri. La parola Guru diventa una parola chiave nei
circoli intellettuali del secondo dopoguerra.
 il silenzio, l'essere esclusa del tu femminile gioioso, invece era uno sguardo gioioso pieno di vita mentre
quello dell'uomo è uno sguardo vuoto. Il dialogo è un dialogo di sguardi tra il tu femminile e l’io Mario Luzi.
Lui fa la domanda per dire “qualcosa di che genere” è una domanda stupida. Èbrutto iniziare un discorso che
vuole essere impegnato facendo la domanda delle domande “che si cava dai sogni” e quindi lui chiede “ma di
che genere” e lei irrora proprio tenerezza dal suo sguardo verso di lui, quello sguardo fluido ma arguto, più
intelligente dello sguardo presuntuoso ma vuoto del tu maschile e legge anche in quello sguardo fluido e
arguto una pietas verso di lui, un essergli vicino, un compianto per essere finito sotto le grinfie. Notiamo il
linguaggio prosaico e prosastico di questo presuntuoso tu maschile.
vediamo come questo menage a trois, questo linguaggio e contesto tutto molto prosaico, è un contesto
realistico di un salotto di intellettuali con una rappresentazione molto realistica, prossemica dell'io che
inizialmente sta coccolato poi presenta il marito all’io poetico, all’io Luzi, con le gambe tirate sul divano e con
un giradischi acceso  è tutto un onore del vero che ormai viene accolto dal Luzi nella poesia, nei temi, nello
stile di un linguaggio che si fa sempre più prosastico come tanto linguaggio dei poeti del secondo 900.
La ricerca poetica di Luzi sarà lunghissima e arriva fino al nostro secolo  questa ricerca di “fondamenti invisibili” che
è il titolo di un'altra raccolta successiva di Luzi, continua fino agli ultimi giorni del vecchissimo Luzi, con una ricerca
incessante. Nelle ultime raccolte, per esempio, recupera una poesia visiva quindi molto sperimentare, una poesia che
nella struttura vuole richiamare delle immagini e non a caso una delle immagini più richiamate nella poesia visiva
dell’ultimissimo Luzi è quella della colomba e della rondine che indicano l'immaginario biblico e non solo  questo
uccello che vola libero verso un cielo innanzitutto spirituale. È una ricerca incessante, è una ricerca di vita - poesia e
ontologia - non è un puro piacere quello della letteratura e della poesia, è vita, parla della ricerca di una sostanza, di
un'essenza dentro di noi e nelle nostre coscienze, scriveva Carlo Bo. Luzi in stagioni diversissime e che accolgono la
prosaicità e prosasticità del tempo contemporaneo, come ormai è necessario fare alla fine degli anni 50, rimane fedele
a questa incessante ricerca dei fondamenti invisibili, anche in forme e linguaggi che cambiano incessantemente,
incluso la forma del linguaggio teatrale, che esplode benissimo nelle ultime raccolte e non solo (ci sono raccolte
poetiche con struttura teatrale) ma anche proprio nei libretti teatrali come il più famoso “Ipazia” degli ultimi decenni.

Lezione 23 - 6 maggio
Caproni, Sereni e Zanzotto: inquadriamo questi tre autori che fanno parte del canone del 900.
Caproni
171
Autore cardine del secondo 900.
Già alla fine degli anni 70 Mengaldo parla di Caproni come uno degli autori più importanti e interessanti del nostro
secondo 900 e quindi è chiaro che da decenni Caproni è un autore fondamentale nonostante si faccia ancora tanta
fatica a parlare di poesia del secondo 900 nelle aule scolastiche e universitarie.
Caproni è un autore che muove i primi passi e inizia a formarsi in pieno clima ermetico e quindi fa parte di quella
generazione così detta post ermetica – l’abbiamo visto già con Luzi che è la quint’essenza della poesia ermetica.
Sereni, Caproni e Zanzotto nascono già attraversando l'ermetismo e avendo come grandi maestri, nel caso in
particolare di Caproni, non solo Ungaretti e Montale (Montale più di Ungaretti) ma in particolare un altro grande
autore che è Saba che come sappiamo, non può essere messo in un unico grande calderone sotto l'etichetta
ermetismo. Ma Caproni, come e più di Luzi, veramente attraversa tanti percorsi e tante modalità di scrittura molto
diverse tra loro, da una poesia che potremmo definire post ermetica e persino narrativa già negli anni 50, a una poesia
che si fa sempre più essenziale, scarnificata nelle ultime raccolte, fino ad arrivare all'ultimissima raccolta che viene
pubblicata dopo la sua morte, anche se lui l’aveva già perfettamente organizzata e portata alle stampe, che si chiama
“Res Amissa” cioè la cosa che manca, che esce nel 92 quindi due anni dopo la sua morte. Quindi dalla narrativa, e
vedremo almeno una delle poesie più belle e intense di Caproni degli anni 50 e di una cantabilità anche molto simile a
quella di Saba, Caproni arriva a una scrittura assolutamente essenziale fatta più di spazi bianchi, di vuoti nella sua
ultima produzione poetica, rifacendosi cioè tornando un po' alle origini della poesia del 900, soprattutto all’ Ungaretti
più essenziale dell'allegria e di sentimento del tempo. Vediamo come crea un percorso anche molto vario e originale.

Caproni nasce a Livorno, che è la città della madre (poi capiremo perché è importante questa origine materna
livornese) ma già molto piccolo si trasferisce con la famiglia a Genova che sarà veramente la sua città, che lo formerà
anche proprio dal punto di vista intellettuale e letterario e sarà proprio eletta come la sua Heimat, la sua patria del
cuore, la sua patria ideale anche quando dovrà poi abbandonarla per approdare a Roma dove abiterà stabilmente
dagli anni 40 in poi, fino agli anni 90 quando muore. Roma sarà sempre vissuta con forti sentimenti contrastanti
perchè la sua vera patria è Genova, è la città di formazione. Se pensiamo a Genova immediatamente ci viene in mente
quella ricchissima linea Ligure della poesia del 900 che iniziava con autori come Sbarbaro, Montale ma passava anche
per un autore, un poeta come Campana, un visionario di cui abbiamo parlato a proposito dei canti orfici: anche lui
aveva eletto Genova a Città del cuore  il lungo componimento finale dei canti orfici è proprio dedicato alla città di
Genova. Anche Caproni richiama questo filo d'oro della poesia del 900, quindi tutto un ambito di un paesaggio
poetico, letterario - la Genova di Sbarbaro Montale, Campana – e allo stesso tempo anche culturale, geografico e
storico. Questo è importante perché dopo le primissime raccolte in cui si muove ancora in un ambito che risente di
sapori ermetici e in parte già anche sabiani, nel 56 pubblica una specie di libro canzoniere riassuntivo del suo percorso
e già aperto alla poesia che va oltre gli anni del secondo conflitto mondiale e infatti in questa data, che abbiamo
definito come la data spartiacque nella poesia del 900 tra 56-57, esce una delle raccolte più belle e importanti: “il
passaggio di Enea”, questo è il titolo del libro canzoniere riassuntivo e anche di apertura agli anni postbellici che
Caproni chiama così (e ce lo spiega anche lui) perché vuole indicare quello spartiacque di apertura di una nuova
cultura non solo poetica dell'Italia post-bellica, di una Rifondazione di una nuova cultura, di una nuova società
totalmente altra rispetto a quella del ventennio fascista, Caproni partecipa alla resistenza quindi è un'esperienza che
sente profondamente anche a livello storico, collettivo e autobiografico.
Il simbolo di Enea
E allora scegli il simbolo di Enea: se pensiamo ad Enea ci viene in mente la fondazione di Roma, grandissima civiltà
sulle coste laziali, è il simbolo non solo letterario, mitologico, della nuova civiltà che però viene fuori da cosa? Chi è
Enea? Enea è un profugo che scappa da Troia in distruzione e con il suo piccolo Ascanio/Julio il figlioletto e il padre
sulle spalle, il vecchio Anchise, riesce a fuggire dalle ceneri della civiltà distrutta dalla guerra e dopo una perigliosa
navigazione giunge a fondare una nuova grande civiltà che sarà quella di Roma. È un simbolo bellissimo che oggi dice
ancora tanto e che negli anni 50 indicava proprio questo, lo spiega lo stesso Caproni: la fine di una guerra e della
grande distruzione epocale di una civiltà non sono italiana ma occidentale, quale era stato il ventennio fascista e poi
l’antifascismo e poi la II seconda guerra mondiale e però da queste ceneri, da questa distruzione, la possibilità di
fondare una nuova grande civiltà. Già solo dal titolo di questa meta – raccolta, così chiamata proprio perché attraversa
anche le tappe precedenti agli anni 50 della poesia di Caproni, capiamo la fortissima simbologia di Enea scelta da
Caproni: quindi non tanto l’Ulisse, tanto usato dalla letteratura europea e anche della poesia del 900, pensate
all’Ulisse di Saba, ma Enea perché viene fuori dalla distruzione di una grande civiltà e però da quelle ceneri riesce,
dopo una difficile navigazione e una difficile lotta, una volta giunto sulle coste del Lazio, riesce a fondare la grande
civiltà di Roma. Grande afflato storico e di impegno storico e morale molto forte in Caproni: viene fuori Lui stesso dalla
lotta di liberazione dalla Resistenza e in particolare però questo simbolo ci dice quanto Caproni sia anche un
importante rilettore e riutilizzatore di grandi miti della civiltà Italiana e occidentale e questa è una peculiarità anche
molto interessante: ci sono tante Proserpine, il simbolo dell’Ade, oltre a quello di Enea di Iulio e Anchise, che vengono
richiamati in questo passaggio d'Enea  Altra caratteristica di Caproni è quella di essere un grande reinventore
172
novecentesco dei miti poetici, innanzitutto letterari più importanti della civiltà Latina, soprattutto, ma occidentale nel
senso più forte e più ampio, legati a un'idea di Rifondazione di una civiltà, non semplicemente un discorso
strettamente poetico ma proprio di Rifondazione culturale e civile in cui Caproni crede e continuerà a credere sempre
fermamente.
Il mito della città di Genova
Associato però a questo simbolo, a questa figura di Enea così importante per le ragioni che abbiamo appena detto a
livello storico, simbolico, di riuso del mito nel 900, sono profondamente radicate queste immagini e questi miti alla
città di Genova, perché Genova è una città medaglia d'oro della Resistenza, è oggetto di terribili attacchi, in particolari
bombardamenti aerei perché è una grande capitale industriale d'Italia insieme a Milano, Torino, perché il suo porto è
uno dei porti più importanti d’Italia e perché è una città profondamente legata alla storia della Resistenza italiana e
all'antifascismo della primissima ora  Genova fa creare questa statua proprio di Enea con il piccolo Julio – Ascanio,
mano nella mano con il padre quindi è una generazione che porta, che accompagna l'inizio di una nuova civiltà
simboleggiata dal figlioletto di Enea ma che non dimentica il passato, si fa carico del passato e anche delle colpe del
passato con l'immagine del vecchio Anchise sulle spalle: in realtà è una statua simbolo della città di Genova e in cui
Genova si riconosce proprio anche e soprattutto attraverso la sua storia che è la storia tra la II guerra mondiale,
resistenza e l'inizio di una nuova idea di civiltà.
Questo “Passaggio d’Enea” è evidentemente una raccolta fondamentale. Nell’antologia abbiamo solo la poesia di
Caproni che arriva fino alla fine degli anni 70. Ma per esempio negli anni 80 lo sperimentalismo di Caproni conduce da
una poesia narrativa, a una poesia, con “Res Amissa” assolutamente essenziale, fatta più di silenzi che di parole, più di
spazi vuoti che di pagina piena di versi e quindi torna alle origini dell’ermetismo ma con un’interpretazione molto
diversa 60 anni dopo.
Raccolte che si richiamano al libretto d’opera.
Già negli anni 80 aveva sperimentato, per esempio, una forma di poesia che reinventasse la forma del libretto del
melodramma italiano, quello che tra 7/800 diventa il libretto dell'Opera propriamente detta  l'elemento musicale è
anche uno degli elementi fondamentali della stessa formazione artistica di Caproni che fa studi serissimi da violinista,
esattamente come Montale aveva fatto studi serissimi da baritono. Questo richiamarsi della poesia al libretto d’opera
è anche un altro dei volti molto interessanti della poesia del 900, in particolare del secondo 900.
Caproni con due raccolte, che non sono nella nostra antologia, si muove in questo ambiente. Le raccolte sono:
 il “Franco cacciatore” dall’opera di un compositore Debe, richiama questo libretto da un'opera che è quella
del Franco Cacciatore ma in realtà sperimenta un linguaggio poetico fondato su un linguaggio da
melodramma. Con questa raccolta il tema della caccia diventa fondamentale.
 Il conte di Kevenhuller” che è la raccolta successiva sempre degli anni 80 in cui Caproni inventa un libretto
che non esiste, struttura proprio la raccolta con una parte poetica e una parte da spartito, come scrive lui
stesso, su un documento che faceva riferimento alla caccia a un belva feroce che negli anni 90 del 700
imperversava tra Milano e il Contado e il conte aveva messo un bando, un avviso, in cui chiedeva a tutti i
cittadini di fare attenzione a questa belva feroce e prometteva un premio a chi fosse riuscito a ucciderlo, a
catturarlo.
Quindi cosa c'è di interessante in queste due raccolte degli anni 80? Sicuramente lo sviluppo, ancora una volta, di
una nuova ricerca sul testo poetico, rifacendosi ai testi del melodramma – melodramma reale nel caso di “Franco
Cacciatore”, inventati invece nel caso del conte di Kevenhuller” - e allo stesso tempo il mettere al centro della propria
indagine poetica, che in Caproni diventa sempre più esplicitamente un'indagine anche filosofica, la ricerca della res
amissa, la ricerca del Deus absconditus, del Dio che si nasconde e incessantemente viene cercato e ricercato dagli
uomini  questo è un altro snodo fondamentale della poetica di Caproni, è una ricerca vera e propria metafisica di
un’eventuale risposta al vuoto, al non senso della vita, in una ricerca metafisica che però in Caproni non approda a
nessun tipo di risposta positiva come invece avviene con Luzi ma resta invece la ricerca di qualcosa che non c'è e non
si trova, la famosa Res amissa della raccolta poi uscita postuma nel 92. Quindi anche in Caproni, come in tantissima
poesia del secondo 900 (praticamente quasi tutta) il discorso poetico è strettamente collegato a una ricerca,
un'indagine di tipo anche filosofico e in Caproni, in particolare dagli anni 80 in poi, questo discorso è fortissimo.

Litania, tratta dalla raccolta Il passaggio di Enea pag 798


Nella nostra antologia dal passaggio d'enea abbiamo una famosissima litania. Questa è una raccolta simbolo della
poetica di Caproni almeno fino agli anni 50 ma in realtà simbolo di tutta la radice esistenziale e poetica di Caproni
perché in forma di litania, quindi una specie di nenia ripetitiva  vengono evocate le immagini fondamentali legate
alla sua città, la sua patria del cuore Genova. È una litania dedicata a Genova.
Genova città intera.
Geranio. Polveriera
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.
173
Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria, scale.
Genova nera e bianca.
Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.
Genova mio rimario.
Puerizia. Silabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.
Genova in comitiva.
Giubilo. Anima viva.
Genova di solitudine,
straducole, ebrietudine.
Genova di limone.
Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.
Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.
Genova tutta tetto.
Macerie. Castelletto.
Genova d’aerei fatti,
Albaro, Borgoratti.
Genova che mi struggi.
Intestini. Carruggi.
Genova e così sia,
mare in un’Osteria.
Genova illividita.
Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.
Genova d’uomini destri.
Ansaldo. San giorgio. Sestri.
Genova di banchina,
transatlantico, trina.
Genova tutta cantiere.
Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.
Genova di torri bianche.
Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.
Genova di mala voce.
Mia delizia. Mia croce.
Genova d’Oregina,
lamiera, vento, brina.
Genova nome barbaro.
Campana. Montale. Sbarbaro.
Genova di casamenti
lunghi, miei tormenti.
Genova di sentina.
Di lavatoio. Latrina.
174
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.
Genova di tramontana.
Di tanfo. Di sottana.
Genova d’acquamarina,
area, turchina.
Genova di luci ladre.
Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.
Genova di Soziglia.
Cunicolo. Pollame. Triglia.
Genova d’aglio e di rose,
di Prè, di Fontane Marose.
Genova di Caricamento.
Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell’Acquarola,
dolcissima, usignola.
Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.
Genova di Barile.
Cattolica. Acqua d’aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.
Genova di Corso Oddone.
Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.
Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch’è tutto dire,
sospiro da non finire.
Genova quarta corda.
Sirena che non si scorda.
Genova d’ascensore,
patema, stretta al cuore.
Genova mio pettorale.
Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.
Genova di mio fratello.
Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.
Genova di mia sorella.
Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.
Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d’angelo e di puttana.
Genova di coltello.
Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas, costernazione.
175
Genova di Raibetta.
Di gatta Mora. Infetta.
Genova della strega,
strapiombo che i denti allega.
Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d’urti da non scordare.
Genova di “Paolo & Lele”.
Di scogli. Fuoribordo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l’amore is impara.
Genova di caserma.
Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.
Genova d’argento e stagno.
Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.
Genova di grigie mura.
Distretto. La paura.
Genova dell’entroterra,
sassi rossi, la guerra.
Genova dicose trite.
La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.
Genova che si riscatta.
Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.
Genova della mia Riina.
Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche, dove ho preso moglie.
Genova sempre nuova.
Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.
Genova palpitante.
Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m’è nato Attilio.
Genova dell’Acquaverde.
Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, via Bernardo Strozzi.
Genova di lamenti.
Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.
Genova della Spezia.
Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
partenza senza ritorno.

176
Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita. Genova di stoccafisso
e di garofano, fisso
bersaglio dove inclina
la rondine: la rima.

Nel primo verso è presente il richiamo a un elemento fondamentale molto spesso proprio topografico della città di
Genova e sotto in corsivo (nell’originale la poesia presenta i versi alternati in stampato/corsivo) avete le immagini
collegate a un paesaggio più particolare, più nascosto se vogliamo della città di Genova, come nel primo verso “Città
intera” è simboleggiata dai gerani che sono le piante dei balconi che danno luce alla città di Genova e “città
Polveriera” perché è stata una città simbolo del martirio della II Guerra Mondiale, della Liberazione e quindi la
Polveriera richiama immediatamente il simbolo di Genova come città martire della liberazione. Allo stesso modo però
richiama quella che è la polvere della lavagna e dell'arenaria che sono gli elementi costruttivi della città di Genova,
lavagna di colore grigio che serve anche nelle strutture, nei tetti: per esempio i tetti di Genova hanno proprio il colore
grigio tipico del profilo urbanistico della città; l'arenaria che viene usata per le costruzioni nella città di Genova e di cui
è ricchissima la stessa città.
Caproni va avanti in questa lunghissima litania in cui vengono richiamati via via degli elementi del paesaggio: è un
paesaggio reale, geografico ma anche poetico legato a questa Genova, ed è, per esempio la Genova dei Limoni che
viene richiamata alla fine della pagina e che immediatamente ci richiama la Genova dei Limoni di Montale e alle spalle
di Montale, di Sbarbaro.
Oltre a un paesaggio reale, dietro questa Genova e dietro questa poesia c'è molto Montale, c’è tutta la linea Ligure
della poesia del primo del primo 900 a cui si aggiunge la famosa triade sacra “Genova nome Barbaro Campana
Montale Sbarbaro” : questa è la triade sacra anche per lo stesso Caproni, intimamente legata al panorama poetico del
primo 900 su cui si è formato lui stesso. Vengono richiamati Campana, Montale e Sbarbaro, tutti e tre grandi cantori
della città di Genova e grandi maestri anche per questo Caproni. Di Genova, in questa poesia, verranno ricordati una
serie di elementi fondamentali come il suo essere cattolica e comunista insieme e soprattutto viene richiamato, oltre
al suo essere stata città partigiana per eccellenza, il suo essere stata la città della sua Rina, della sua fidanzata e sposa
e quindi diventa anche città di elezione affettiva per Caproni.
Caproni è uno di quei poeti che tanto ha fatto per creare una poesia degli affetti familiari assolutamente strepitosa,
che è uno dei filoni più belli e interessanti della poesia, che parte da Saba nel primo 900 e arriva attraverso Pasolini,
Caproni, Bertolucci e tanti altri, ad animare uno dei territori più interessanti della poesia del secondo 900 e infatti, in
questi versi della litania, proprio verso la fine, troviamo l'omaggio non solo alla sua Rina ma anche al figlio Attilio, al
padre e alla madre e quindi un richiamo fortissimo agli affetti familiari su cui torneremo subito per un'altra raccolta
molto importante di Caproni.
Verso la fine troviamo anche un richiamo ad Enea e i bombardamenti, simboli chiave di questa meta raccolta.

Poesia degli affetti familiari: la raccolta Il seme del piangere.


La poesia degli affetti familiari è al centro di una delle raccolte più belle e più ricche di Caproni che è la raccolta
immediatamente successiva “il passaggio d'Enea” e che si chiama “il seme del piangere”  il “seme del piangere” è
un verso di Dante ed indica ciò che nasce dal pianto, dal dolore, dalla perdita e in questa raccolta il seme nasce dal
dolore per la perdita della madre, l'amatissima Annina, protagonista di tutta questa raccolta.
Cos’ha di straordinario, cos’ha di così inventivo questo territorio di una nuova poesia degli affetti familiari? Ha
qualcosa di straordinario perché dedica questa intera raccolta alla madre Annina ma ricostruendo un vero e proprio
romanzo autobiografico della figura della madre, che era una figura che veniva dal popolo, dal basso della città di
Livorno e che lui ricostruisce come se l'avesse conosciuta, come se fosse – dirà lui stesso - più una sorella e più una
fidanzata che non sua madre, capovolgendo l’ordine naturale degli affetti familiari e rendendo questo omaggio alla
figura della madre che reinventa nella sua figura di snella, semplice e vitalissima fanciulla che attraversa in bicicletta la
città di Livorno, quando lui era ben lungi dall'essere nato. Caproni reinventa un romanzo che è veramente un romanzo
totalmente inventato e dedicato interamente alla madre e uno degli aspetti più belli di questa reinvenzione lo
troviamo nella poesia che si chiama “l'ultima preghiera”  questa poesia è che un dialogo d’anima riassuntivo, alla
fine di questo racconto di una biografia chiaramente semi immaginaria della madre: c’è questo dialogo d’anima tra
Caproni e la sua Anna (il dialogo dell'anima è una delle forme più belle, più antiche nella lirica italiana a partire almeno
da Petrarca in poi) e cosa dice lui alla sua anima? “Anima mia fa in fretta, presto corri in bicicletta per vedere questa
giovinetta” che la mattina presto pedalava per le vie di Livorno per andare a lavorare e soprattutto chiude questa
meravigliosa poesia conclusiva del “seme del piangere” con quei versi finali: “dille chi ti ha mandato”  parla con la
canzone: questa è una tradizione che parte dall'origine delle nostre canzoni in volgare (si parla alla canzone
soprattutto nel congedo, quando si vuole lasciare la canzone perché vada tra la gente a raccontare quello che il poeta
ha raccontato). Caproni è un raffinatissimo reinventore anche delle forme più antiche della nostra poesia e quindi dice
177
in questa specie di congedo alla canzone “dille chi ti ha mandato” quindi dillo a lei, corri a Livorno e di ad Annina chi ti
ha mandato “il suo figlio il suo fidanzato”  questa è l’immagine di un amore che si fa amore incantato, proprio di un
fidanzato verso la propria fidanzata, che viene esplicitato in questa ultima preghiera “da altro non ti richiedo Poi va
pure in congedo”  richiama proprio i congedi delle canzoni della nostra lirica delle origini, lasciando che la canzone
vada tra la gente per parlare e far conoscere anche la sua Annina. Reinventa tutto un immaginario poetico familiare in
questa madre – fidanzata: pensiamo “alla madre” di Pascoli nel ritorno a San Mauro, una delle sezioni più belle di
poesia dello stesso Pascoli in appendice ai Canti di Castelvecchio, in cui lui reinventa questo dialogo impossibile con la
madre morta, esattamente sul filone che poi reinventerà su queste basi Caproni e alla fine la madre di Pascoli diventa
una figura bellissima verso cui il poeta stesso dirà di provare una tenerezza da sorella e si capisce anche quasi da
fidanzata, cioè esattamente quello che poi reinventerà molti decenni dopo lo stesso Caproni.

Raccolta il congedo del viaggiatore cerimonioso.


Arriviamo poi a questa strepitosa poesia degli anni 60, che fa parte di una raccolta che è “il congedo del viaggiatore
cerimonioso”. Siamo nel 66 quindi un decennio dopo “il seme del piangere” ed ecco che la poesia di Caproni ancora
una volta si rinnova sempre e in continuazione nelle sue forme, nell'oggetto della sua stessa indagine poetica ed
esistenziale. Ed ecco quella che noi definiamo una poesia narrativa di Caproni e che si rifà ad una poesia molto sabiana
anche nel cercare le rime facili, le parole facili, le rime facili “cuore amore” dirà anche lo stesso Caproni sull'esempio di
una famosa poesia di Saba che si chiama “amai” una poesia dalle parole semplici e quindi assolutamente
antinovecentesca e nel caso di Caproni sicuramente anti ermetica.
Abbiamo questo lunghissimo congedo, ancora una parola cara alla poesia di Caproni e questa volta il congedo non è
da una figura di afetto scomparsi come quello dalla madre ma il congedo che lui sente ormai di aver raggiunto, si
sente ormai alla fine anche nel suo percorso esistenziale ma in realtà vivrà ancora un ventennio. Questo è un
bellissimo congedo che Caproni, uomo, poeta prende rispetto a tutti i suoi compagni di viaggio: ancora una metafora
del viaggio che è portante in tutta la poesia di Caproni e chiaramente il viaggio come dall'origine della nostra poesia
occidentale, è il viaggio della vita e quindi questo è il congedo che l’io Caproni prende dalle sue compagne di vita più o
meno casuali. Non solo i grandi affetti, come il congedo difficile dalla madre ma tutti i compagni più o meno casuali di
questo nostro lungo viaggio, che è il viaggio della vita.
E’ una forma di canzone narrativa di lunga composizione, non più una forma succinta come l'ermetismo aveva stabilito
 è una poesia che si fa molto cristallina, apparentemente semplice, facile anche nelle modalità strettamente
poetiche, linguistiche e strutturali esattamente come gli aveva insegnato Saba.

Congedo del viaggiatore cerimonioso tratta dalla raccolta omonima. (pag 808)
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
 Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia. è un viaggio in treno, quindi
immaginato in un contesto molto semplice. L’io Caproni immagina di dover tirare giù le sue valigie perché
sente di essere arrivato alla stazione finale.
 Anche se (ecc..) forma narrativa, forma semplicissima, cantabile. Sembra la poesia di Saba (ricordiamo lo
stesso verso usato da Saba “poesia come una rosa” quindi bella e semplice ma che serve a nascondere un
abisso.

Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
 Anche la lingua si fa prosaica e prosastica: “mi è giunto all’orecchio”; “vi devo lasciare”; “perdonate il
disturbo”, sono tutte forme di un italiano antiletterario, prosastico e colloquiale.
178
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
 Ma sia  “sia quel che sia” altra forma di un italiano colloquiale.
 Il luogo del trasferimento lo ignoro.  inizia già negli anni 60 questa ricerca che poi diventerà una ricerca
filosofica nelle ultime raccolte, la ricerca di un senso oltre il non senso e i brandelli di significato della vita
terrena, quindi il luogo di trasferimento dopo la morte. C’è un dopo? Qui è detto tutto in maniera molto lieve
e colloquiale e totalmente distante dal Caproni delle ultimissime raccolte.
 Notiamo come nella cantabilità di queste lunghe stanze tornino forme appunto musicali, la musicalità tanto
cara anche a Saba, come rime perfette “nebbione che rima perfettamente e regolarmente con stazione”, una
serie di rime che tornano come “conversare – ricordare”, moltissime rime semplici, le più semplici sono
quelle che utilizzano la terminazione dei verbi all'infinito, una rima semplicissima così come amava Saba e
come dirà anche Caproni e poi una serie di rime imperfette o di quasi rime come assonanze e dissonanze.
Fondamentalmente è l’elemento della musicalità che accompagna questo italiano, questa lingua
antiletteraria e anti aulica e molto colloquiale.

Chiedo congedo a voi


senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
 (quell’inventare facile, nel dire agli altri)  quando si raccontano cose che non diremmo mai a nessuno e lo
diciamo ad uno sconosciuto sul treno o addirittura inventiamo fatti che non abbiamo mai vissuto.

(Scusate. È una valigia pesante


anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
 Notiamo l’uso della lunghissima parentetica, forma prosastica e colloquiale.
 tanto ch’io mi domando perché l’ho recata, e quale aiuto mi potrà dare poi, quando l’avrò con me.  tutto
quello che ci portiamo dietro nella nostra vita, tante cianfrusaglie che custodiamo perché le riteniamo
179
fondamentale ma che poi, arrivati al momento finale, capiamo che potevano essere facilmente lasciate da
parte.
 Questo passaggio assolutamente semplice del portare giù la propria valigia chiedendo scusa agli altri
passeggeri, è proprio il mettere la valigia dei propri ricordi, anche con le cose inutili, fuori da questo viaggio
insieme agli altri, pronti alla destinazione finale.
 Evidenziamo il senso di comunione fortissimo con tutta l’umanità “i più cari e più sconosciuti” altro elemento
importantissimo in Saba, quel suo amare la triste che è anche la Triste del caos del porto, città dei commerci
e quell’amore per l’umanità che era uno degli elementi fortissimi della poetica di Saba e che Caproni qui
riprende.

Da qui in poi la prof non ha più letto il componimento ma soltanto alcuni stralci. Suggerisce però di leggerlo nella sua
completezza.
Questo è il commento che la prof ha fatto per i versi successivi.

Inizia poi il congedo l'addio che lui fa a tutti i compagni di viaggio e quindi c'è il congedo al dottore, alla sua faconda
dottrina e poi alla giovane ragazzina e poi al militare e poi al sacerdote “ed anche a lei sacerdote congedo che mi ha
chiesto se io scherzava ho avuto in dote di credere al vero Dio” e notiamo come già il tema della ricerca del deus
nasconditus fa capolino in questa poesia apparentemente semplice e narrativa dei secondi anni 60. Riprende poi con
il congedo alla Sapienza, congedo dall'amore, congedo anche dalla religione “ormai sono a destinazione ora che più
forte sento stridere il freno” è il freno del treno, sento che ormai la fine è vicina “vi lascio davvero amici, addio di
questo sono certo io sono giunto alla disperazione calma senza sgomento scendo Buon proseguimento”  abbiamo in
questo congedo finale l’elemento di scioglimento di tutte le indagini e inquietudini esistenziali che si scioglie in quell’
ossimoro fortissimo di una disperazione calma che è un ossimoro molto sabbiano perché in Saba ci sono tutti questi
ossimori come la “serena disperazione”, ossimori che indicano proprio quella disperazione nevrotica, tragica, l'abisso
che evocava Saba che però nella sua poesia era sempre accompagnato, anche nell' esperienza di vita, da qualcosa di
piacevole, di bello anche nella vita più semplice, anche negli incontri più semplici. Quindi quella stessa figura
ossimorica finale, “la disperazione calma” è assolutamente sabiana, è anche un lascito fondamentale, una specie di
congedo con il timbro del Saba tanto amato da Caproni.

Dicevo, ch’era bello stare


insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.

Congedo a lei, dottore,


e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.

180
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento


stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Raccolta “il muro della terra”


Vediamo come Caproni ha toccato questa tappa fondamentale, tutto il racconto poetico che poi diventerà invece una
poesia di una ricerca esistenziale e metafisica sempre più forte e questa ricerca disperata, che rimarrà disperata fino
alla fine, fino a Res Amissa, porta anche a una poesia che è questa ricerca di una risposta che non c'è, si nutrirà
sempre più del bianco della pagina e del silenzio, perché è qualcosa che resta di non trovato, di perso per sempre, da
Res Amissa raccolta postuma ma questo elemento ce l'abbiamo già in una raccolta importantissima degli anni 70 che è
“il muro della terra”  ancora una citazione dantesca, questa volta è il muro della città di Dite di Dante che però qui è
riusato (come sempre perché Caproni riusa radicalmente dei miti letterari, come aveva usato il seme del piangere
dantesco, in quel senso li legandolo alla madre) per indicare quel muro che segna quel limite della nostra esperienza
terrena, che per Caproni resta un muro invalicabile, non riesce a trovare una risposta oltre quel muro della terra. Si
vede già dal titolo di questa raccolta importantissima dei maturi anni 70 che questa indagine filosofica ed esistenziale
di Caproni è già chiaramente presente e vediamo anche semplicemente guardando la struttura di questa poesia come
la frammentazione del verso diventa sempre più forte e poi in Res Amissa diventa veramente un vuoto radicale della
pagina poetica.

Raccolta postuma Res Amissa.


Proprio nelle poesie postume di Res Amissa si trova quella poesia che poi era stata usata nel famoso esame di
maturità ma soprattutto una sezione molto interessante dell’ultimissimo Caproni, dove troviamo questa ricerca
esistenziale e metafisica fondamentale in quest'ultima raccolta postuma che si riallaccia all’Ungaretti essenziale,
ermetico: basti dire che una delle sezioni Caproni la intitola “versicoli e altre cosucce” richiamando i versicoli di
Ungaretti, quelli che già nell’allegria avevano smozzicato al massimo il verso evocando il silenzio e il non detto.
Accanto a questa poesia che sembra riallacciarsi a quella indagine metafisica di Ungaretti che però non ha risposte
positive in Caproni, abbiamo una sezione molto interessante che Caproni chiama “delle anarchiche”. Cos’ha di
interessante? Di Res Amissa ci sono versi anche in rete quindi possiamo facilmente vedere cosa vuol dire “versicoli e
ritorno all'essenzialità del verso e alla pagina”. Prendendo a caso una poesia di questa raccolta vediamo come
consistono in due, tre versi addirittura ci sono poesie di un verso, lo spazio bianco occupa quasi tutta la pagina perché
questa ricerca esistenziale e metafisica arriva al vuoto, anche in Res Amissa. Accanto a questa indagine filosofica e
metafisica, in particolare in questa sezione delle anarchiche, Caproni continua incessantemente il suo impegno
morale, etico, che era stato alla base della sua formazione intellettuale già all'epoca della sua partecipazione alla
resistenza e nell'ultimo capitolo del libro della prof troviamo una serie di rinvii a queste a poesie di un Caproni che
inveisce contro quella crisi terribile che lui sente come tale, è tale è stata, cioè il passaggio dagli anni 70 agli anni 80, in
cui arriva il dominio di un’idea di un'Italia post ideologica e in cui la fanno totalmente da padrona, in un vuoto
pneumatico di pensiero e di cultura, il famoso reflusso per gli anni 80, la fanno da padrona i mass media e la
televisione, quel Blob Unico della televisione che Caproni sente come il bacino di un vuoto di pensiero e di cultura
nell'Italia a venire, a partire dagli anni 70 in poi, che è quello che poi porterà alla crisi ideologica, politica che però
Caproni non vede negli anni 90 in cui la cultura del nulla, del vuoto, del chiacchiericcio, del rimbambimento collettivo
che la TV degli anni 80 porta poi alla crisi, al voto pneumatico della cultura dell'Italia, anche nel senso semplicemente
sociale degli anni 90 e oltre.
In queste anarchiche Caproni si scaglia contro questo vuoto dell'Italia televisiva. La prima poesia si chiama “show” nel
senso di Show televisivi cioè uno spettacolo nato sulla stupidità, sul nulla, sull'intrattenimento facile che non
dovevano far pensare gli italiani. Venivamo fuori da un periodo difficile ma di scontro ideologico, come lo scontro tra
anni 60 e 70, che porta agli anni di piombo: quello che viene fuori è questo, l'intrattenimento sul nulla, sul puro
divertimento che non deve far pensare che è quello contro cui si scaglia Caproni.

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Lo show è una poesia essenziale in cui troviamo un Caproni invettivante, che fa parte dell’ultimo capitolo della prof
che noi portiamo che si chiama proprio la poesia dell'invettiva.

Guardateli bene in faccia.


Guardateli.

Alla televisione,

magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i "governanti".
Le nostre "guide".
I "tutori"
- eletti - della nostra vita.

Guardateli.

Ripugnanti.

Sordidi fautori
dell'"ordine", il limo limo  la feccia
del loro animo tinge
di pus la sicumera sicumera  sicuri, riferito a lineamenti
dei lineamenti

Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
- i provvidi! - Sindacalisti.

"Lottano" per il bene


del paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.

Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.

E poi va avanti con questo scagliarsi. il vuoto anche nei versi successivi, nelle poesie successive di questa televisione
del bla bla, che è il bla bla dell'intrattenimento in cui finisce anche la politica blaterante, fondata su un vuoto di idee,
che è quella contro cui si scaglia Caproni e anche quello della politica televisiva ormai degli anni vuoti 70-80 diventa
uno show televisivo, di intrattenimento. È l'inizio di un vuoto pneumatico della società e della cultura italiana che
Caproni sente fortissimo e addita in maniera invettivante in questa sezione delle anarchiche, dell'ultima raccolta in cui
abbiamo quella poesia, che è una poesia invece di un Caproni che non smette mai di credere in certi valori collettivi ed
è un Caproni, come tutti i grandi poeti, lungimirante perché aldilà di questo vuoto pneumatico, televisivo, politico,
ideologico, degli anni 70-80, vede l'importanza di qualcosa che ancora sta venendo fuori ma non è un oggetto serio di
dibattito comune, collettivo e soprattutto politico che è la questione ecologica: l’Italia sfigurata dal Boom economico,
dall'industrializzazione selvaggia iniziata nel dopoguerra che ha portato alla semi distruzione del nostro paesaggio, un
tema che avrà in comune con Zanzotto.
Abbiamo dei versicoli quasi ecologici - negli anni 80 questo non era un tema gonfio come ora - che iniziano ancora una
volta in una forma invettivante, iniziano con “non uccidete il mare, non uccidete il mare, la libellula, il vento, non
soffocate in lamento, il canto dell’ amantino, il galagone, il Pino” tutte specie animali e vegetali che vede in pericolo.
“anche di questo è fatto l'uomo e chi per profitto vile fulmina un pesce un fiume non fatelo cavaliere del lavoro:
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l'amore finisce dove finisce l'erba e l'acqua muore, dove sparendo la foresta e l’aria verde sospira, sempre più vasto
paese guasto. Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l'uomo, la terra”  sono versi che potremmo usare
adesso, versi militanti ecologisti, ora fondamentali, di un dibattito che è ormai un dibattito sociale, culturale
veramente condiviso e che persino la politica incomincia a prendere seriamente in considerazione. Caproni come tutti
i grandi poeti è visionario e mette già al centro di questa sua ultima riflessione negli anni 80 la questione ecologica e
riesce a fare dei versi bellissimi come questi versi della sezione anarchica di Res Amissa e ci va anche giù pesante nelle
ultimissime e brevissime poesie delle anarchiche, fatte di 3 o 4 versi, in cui si scaglia senza mezzi termini contro
l'Italietta di fine anni 70.
Inizia il reflusso tipico della cultura degli anni 80 e nella poesia che lui chiama “la patria” poesia che purtroppo è
ancora molto molto contemporanea. Caproni scrive in tre versicoli: “laida e meschina Italietta, aspetta quello che ti
aspetta, laida e furbastra Italietta”  l'Italietta rima solo con se stessa nel primo e nell’ultimo verso con aspetta: è
una rima perfetta, una rima identica che si ripete martellante, ossessiva e inquietante in questi tre versi che si
scagliano contro quest’Italia del nulla, l’Italia del grande vuoto degli anni post impegno, del grande impegno degli anni
60 e 70 ma anche ovviamente dell'orrore che questo impegno ha portato nelle sue malformazioni, escrescenze
tumorali che è stata l'Italia degli anni di piombo che però approda al nulla. Questa è un’invettiva terribile
dell’ultimissimo Caproni che peraltro scrive i versi “alla patria” quando è avvenuto quello che sarà la pietra tombale di
questa escrescenza tumorale degli anni e degli scontri politici, ideologici degli anni 60 e 70, gli anni di piombo e cioè la
scrive a caldo quando c'è stato il famoso rapimento di Aldo Moro con l'uccisione di questo importantissimo
rappresentante della migliore democrazia cristiana degli anni 70: è una poesia che è un'invettiva scagliata contro gli
orrori di quel preciso momento storico. Anche qui la lungimiranza di Caproni, segna un momento di passaggio 
implode l'Italia del super impegno fino alla lotta per strada: quella degli anni di piombo è anche però quella dei servizi
segreti deviati, di tutto quello che ancora non è stato sciolto e segna proprio un momento di passaggio perché
l'uccisione di Moro segna il momento in cui anche quell’Italia che era rimasta ad assistere inerme o peggio a destra
come a sinistra, non prendeva in mano le armi ma sostanzialmente ideologicamente non era contraria a questa idea di
una lotta fino alla morte, con l’uccisione di Moro si scatena una specie di tempesta che risveglia l'intera Italia e porta
sostanzialmente, nonostante le terribili appendici terroristiche degli anni 80 ma anche degli anni 2000 e oltre 2000,
porta a un'Italia che vuole voltare le spalle a quel periodo, a tutti i suoi risvolti negativi e però approda al nulla anche
degli show televisivi e della politica del blablabla che non dice e non fa niente.
Questo è il doppio volto che Caproni riesce a raccontare in pochissimi versi e su cui riesce a riflettere in quest’ultima
produzione poetica, evocando la fine di un orrore che è quell’Italia degli orrori degli anni di piombo, che ha davanti
però un nuovo orrore che è quello del nulla pneumatico degli anni 80 ed oltre e quindi della vittoria della chiacchiera
come diranno anche tanti filosofi cari a Caproni
L'ultimissimo Caproni postumo riesce a portare avanti ancora un’ininterrotta riflessione collettiva ma allo stesso
tempo anche profondamente autobiografica, nella ricerca di senso anche della propria esistenza che però non
approda a una risposta metafisica positiva.

Vittorio Sereni
Vittorio Sereni è l'altro grande della triade del secondo 900, anche lui nato e cresciuto in ambiente ermetico, facendo
però parte della cosiddetta linea Lombarda, come l'hanno chiamata i critici più intelligenti della letteratura e della
poesia del 900, a cominciare da Anceschi, Sella.
La linea lombarda, di cui fa parte anche il Montale Milanese, è una linea che ha veramente fruttificato tantissimo nella
poesia del secondo 900 e oltre. La linea Lombarda parte soprattutto da un retaggio montaliano, tutt'altro che di
indagine metafisica ma che rinvia sempre alla realtà concreta, come ci ha ripetuto incessantemente Montale che ha
provato a parlare di una poesia contemporanea e di una realtà contemporanea, così come ha fatto sempre Sereni, che
parte da un'esperienza di vita molto particolare, che è quella di una mancata partecipazione alla resistenza, a cui
l’antifascista Sereni avrebbe dovuto partecipare ma che non può invece vivere a differenza di Caproni, Zanzotto e tanti
altri poeti del secondo 900, perché viene fatto prigioniero dagli alleati e quindi vivrà quel biennio della Liberazione
d'Italia recluso nella durissima prigioia africana dei soldati che facevano parte, anche non volendo, dell'Esercito
Italiano, quindi fascista e che vengono imprigionati in campi di detenzione durissimi del Nord Africa e vengono tenuti
lì, lontano dal fronte occidentale. Sereni vivrà questa esperienza traumatica, di un non vissuto rispetto ai propri ideali
anti fascisti e socialisti utopici e questo tema della mancata vita e del mancato vissuto - del non vissuto - di una
passività rispetto ad un ideale anche di impegno civile, poi si trasformerà in altri contesti della sua poesia ma
accompagnerà tutta la poesia di Sereni.
Sereni è interessante perché il suo punto di vista è particolare, quello dell’ occasione mancata della partecipazione alla
grande storia collettiva che diventa poi una occasione mancata perché lui diventa un grandissimo, importantissimo
protagonista della Mondadori, della più ricca, importante e influente casa editrice italiana di cui sarà editor, sceglie
cioè cosa deve essere pubblicato nel settore, in particolare della poesia e quindi diventa un uomo di potere all'interno
di una grandissima industria culturale: anche qui però si sente dalla parte sbagliata rispetto ai suoi ideali perchè
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diventa il grande manipolatore dell'Industria culturale quindi altra immagine di un io che è un non io rispetto ai propri
reali ideali a cui vorrebbe rimanere fedele. Questa idea del non vissuto, del tradimento del proprio stesso io ideale,
una vita della passività, dell'occasione mancata, accompagnano anche le ultime raccolte: Sereni scrive pochissime
raccolte, è molto essenziale come poeta, quando la sua poesia ancora una volta si scioglierà in una forma che si cala
nella prosaicità e nella forma prosaica dell’Italia degli anni 50 60 e oltre, quelli del boom economico e anche di una
realtà, come quella per esempio delle fabbriche che Sereni conosce bene ma sempre filtrata dalla sua posizione
particolare, la conosce bene perché Milanese al 100%, perché Milano è la capitale delle fabbriche, delle Industrie della
questione operaia e da bravo socialista utopista, anche qua cerca un terreno comune rispetto a questo proletariato
che lui sente in parte di aver tradito nella sua stessa esperienza autobiografica. Con questo sdoppiamento dell'io
arriveremo ad una poesia che parla all'altro Io, all'altro Vittorio, questo sdoppiamento dell'io, questa idea di una vita
non vissuta, questa idea delle occasioni mancate, in realtà sono degli snodi poetici molto importanti, interessanti di
questo poeta che è assolutamente radicato in un territorio novecentesco e soprattutto nel territorio della linea
lombarda, quella linea dell'oggettività contro qualsiasi forma di lirismo puro e di linea puramente ermetica ed
evocativa. La linea lombarda è assolutamente radicata in una realtà del quotidiano e della storia contemporanea e
Sereni è uno di quelli che più hanno continuato ad animare questa per linea Lombarda che ha portato ad una
ricchezza estrema, molto interessante, molto viva nella poesia degli ultimissimo 900 in aria Lombarda, in particolare
milanese.

Lezione 24 - 11 maggio
Nella lezione precedente abbiamo introdotto Vittorio Sereni, collocandolo nel suo contesto Milanese Lombardo
(ci spostiamo rispetto a Caproni non solo per quanto riguarda la città ma anche per quanto riguarda la vita e la poesia,
quindi Livorno, Genova e Roma). Con Sereni ci sposiamo in quel contesto, non solo culturale ma letterario e poetico,
che è stato definito come linea lombarda, lo troveremo anche in Mengaldo: è un’etichetta che funziona bene, che
ancora si usa a differenza di altre perché ha indicato quella linea letteraria - in particolare poetica ma non solo –
d’ispettori lombardi di nascita o di adozione, culturalmente e poi letterariamente, che hanno avuto in comune una
forte aderenza alla realtà storica e in particolare a una riflessione civile e morale su questa realtà storica,
un'attenzione all'oggettività, con un forte occultamento dell'elemento lirico che è puramente soggettivo. Ora che
tratteremo Sereni, capiremo meglio che vuol dire la sua inclusione in questa linea: non solo vedremo che cosa
intendiamo quando indichiamo Sereni come parte di questa linea Lombarda ma per capirlo meglio dobbiamo pensare
anche a quello che abbiamo detto in particolare del Montale dell'ultima stagione, dalla Bufera in poi, quando diventa
milanese a tutti gli effetti, infatti Milano è la città in cui si trasferisce quando la guerra ancora non è finita e dove poi
vivrà per 40 anni e dove morirà  Quel discorso dalla Bufera e da Satura in poi, in particolare sulla realtà
contemporanea, un'assoluta oggettività reale, con una scomparsa, una regressione dell'elemento lirico puramente
soggettivo, era già caratteristico di quel Montale ed è assolutamente centrale in Sereni che infatti ha ripreso da
Montale tantissimi elementi linguistici e stilistici. C’è proprio una linea fortissima Montale – Sereni.
Sereni è di una generazione successiva (come Caproni nato negli anni 10) rispetto Montale: è proprio la stagione post
anni 80 che era quella di Montale, Ungaretti e Saba e quindi la sua gioventù poetica si sviluppa in un ambito
fortemente ermetico. Come Caproni già nelle sue prime poesie si capisce che ha un profilo che interpreta in maniera
assolutamente personale la linea ermetica, quell’elemento di forte tensione a un'epifania, a un altrove, a un piano
metafisico che dà luce al reale, la tensione verso una poesia fatta della parola pura, della poesia pura e incontaminata:
tutto questo viene immediatamente trasformato da Sereni in una chiave fortemente esistenzialista, grazie anche a
studi filosofici importanti che compie a Milano, dove c’era Banfi, un filoso molto importante in ambito italiano, a
cavallo tra esistenzialismo e soprattutto una filosofia fenomenologica, l’io che si scopre e indaga il reale momento per
momento, nella sua possibile oggettività.
Tanti poeti del 900 sono profondamente nutriti dal discorso filosofico, in particolare Sereni, per gli studi universitari
fatti a Milano: quindi tutto questo c'è nella sua poesia che nasce in un territorio ermetico, un ermetismo totalmente
riletto in una chiave diversa e questo lo vediamo chiaramente nella prima raccolta che si chiama “Frontiera” ed è una
raccolta che esce all'inizio degli anni 40 (nel 41), quindi scritta negli anni precedenti (fine anni 30) quando già
l’ermetismo aveva dato il meglio di sé  pensiamo agli anni 30 e alle raccolte che abbiamo letto, come Quasimodo
legato ad Ungaretti di “Sentimento del tempo” o il Montale dei “mottetti” e delle “occasioni”, le traduzioni dei lirici
greci di Quasimodo, fondamentali, che coincidono proprio con la pubblicazione di “frontiera”.

“Frontiera”: come sappiamo i titoli dicono tanto. In questo caso cosa indica? Indica una frontiera oggettiva e
oggettuale perché Sereni nasce, cresce sul Maggiore a Luino e poi si trasferisce, sempre in territorio Lombardo, a
Milano ma insomma nasce e cresce su un confine perché Luino si trova sul confine lombardo - svizzero quindi
“frontiera” indica innanzitutto un fatto concreto geografico, che è quello in cui nasce e si forma il giovane Sereni ma
poi si percepisce subito, leggendo questa poesia, che è anche una frontiera che indaga un territori incerto, un

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territorio che cerca una pienezza di significato di questa realtà, una ricerca che in Sereni è filosofica, non è una ricerca
di un piano altro, di un’illuminazione epifanica. Anche qui quindi un territorio di confine, un luogo di confine che
anche un po' un non luogo e questo potrebbe sembrare molto ermetico però sin dalle origini si nota che questa
ricerca è una ricerca esistenziale, una ricerca sul reale e su come l'io può indagare questo reale e quindi un territorio
tra esistenziale e fenomenologico sposta l'attenzione della poesia di Sereni da un luogo puramente ermetico,
puramente vocativo, puramente metafisico fatto di quello che è la poesia pura evocativa, in tutt'altro territorio.
Quindi si, è ermetico ma è un ermetismo che è arrivato in un territorio tutto suo, come avrebbe detto Montale.
La prima poesia che abbiamo nel Mengaldo è tratta dalla prima raccolta e si chiama “terrazza”  una terrazza che si
affaccia sul lago e anche in questo caso indica un luogo molto concreto, simile a quello che è la frontiera, un luogo che
da un punto fermo si slancia verso qualcos'altro che è un po’ un vuoto quello della terrazza sul lago che qui viene
evocata dalla poesia. Però è un luogo anche concreto e fisico ben preciso, come diceva Montale, tutta la mia poesia
non è poesia pura, non è poesia ermetica perché in tutta la mia poesia parto da un dato oggettivo, concreto,
geografico, fisico e senza quelli non si capisce niente della mia poesia, quindi l’opposto della poesia pura dei veri
ermetici.
Strutturalmente questa poesia si presenta come un frammento quindi anche nella struttura sembra proprio una
poesia ermetica ma dobbiamo pensare più al Montale dei “mottetti” (addio fischi nel buio.. dobbiamo comprendere il
contesto reale per comprendere la poesia, l'addio alla donna ebrea amata che sta partendo).
Terrazza – tratta dalla raccolta Frontiera (Mengaldo pag 837)
Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.

Siamo tutti sospesi


a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.

 È un inizio di serata in cui lui, con qualcun altro, è affacciato a questa terrazza sul lago
 Improvvisa  è una voce molto ermetica perché richiama il momento epifanico, l'illuminazione. “la sera
improvvisa”  solitamente non usiamo l’aggettivo ma l’avverbio improvvisamente che è più corretto e anche
questo è un elemento ermetico cioè spostare la posizione usuale delle parole nel linguaggio d’uso (verbi che
cambiano uso normale grammaticale, da intransitivi a transitivi, aggettivi che diventano avverbi e il
contrario). Quell'improvvisa e non improvvisamente ci coglie la sera è già fortemente ermetica come lingua,
fa parte di quel linguaggio ermetico, di cui parla Mengaldo nel suo saggio. In questo caso però è solo il
linguaggio, lo stile che sembra ermetico, andiamo ora alla sostanza della poesia.
 un murmure soltanto sfiora la nostra vita sotto una pensile terrazza  Il dato oggettivo è che non vede i
contorni del lago, sente solo un mormorio, “murmure” fa parte della tradizione simbolistica ed ermetica
fortissima da Pascoli in poi. C’è un rumore leggero, che è un mormorio detto con una parola simbolistica, un
rumore leggero che viene dal contesto naturale ma forse, chissà, anche da un qualcosa di indefinito, da un
rumore indefinito. La terrazza è un luogo fisico concreto ma anche un non luogo che cerca un'illuminazione
altra. Ma se leggiamo la fine del pensiero, che non coincide con la fine del verso, c’è infatti un fortissimo
enjambement voluto da Sereni dobbiamo leggere Siamo tutti sospesi a un tacito evento questa sera entro
quel raggio di torpediniera che ci scruta poi gira se ne va.  ci sono continui enjambement quindi il pensiero
e ben oltre il singolo verso ermetico “siamo tutti sospesi”.
 a un evento che viene illuminato per un momento da una torpediniera che poi invece si gira e se ne va 
leggiamo il Montale, non puramente ermetico, di “casa dei doganieri”, siamo nelle Occasioni, le più vecchie
occasioni delle poesie di passaggio degli Ossi di seppia e delle Occasioni. “La casa dei doganieri” si chiude con
quella petroliera che per un momento illumina e se ne va: qui c’è proprio Montale  noi però sappiamo che
quell’illuminazione veloce sembra dare un significato che poi sfugge sempre, sia a Montale che a Sereni, mai
illuminato da una pienezza di senso e da un’epifania metafisica come nel vero puro ermetismo, in particolare
in quello di marca religiosa
 E’ già tutto una linguaggio ermetico, solo linguaggio ermetico ma in una chiave di pensiero e di poetica
Montaliana: quella chiusura finale è parte di quell’ epifanie sempre imperfette e tutt'altro che metafisiche,
che sono proprie del Montale delle Occasioni e già alle spalle di questa poesia. Sereni si nutre
abbondantemente di Montale.

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Questa stessa immagine della torpediniera che passa per un secondo e illumina questo paesaggio sul lago di
sera e se ne va, va letta accanto alla fine di “casa dei doganieri” [ Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!] per capire cos’è questa linea lombarda e questo linguaggio ermetico ma che
non c'entra niente con una poetica del vero, del vero ermetismo e soprattutto ci accorgiamo che senza
Montale non capiamo Sereni: non a caso Montale, che è stato un importante critico letterario ha illuminato
subito molto bene anche la poesia di Sereni.

Domanda: questa poesia “terrazza” ha un sottile riferimento con la poesia di Montale “frammento”?
Risposta: “frammento” è del Montale successivo alle Occasioni. Terrazza è una poesia pubblicata nel 41 ma scritta
precedentemente a fine anni 30 e quindi dobbiamo guardare alle spalle degli anni 30. Bisogna stare attenti alla storia:
non dobbiamo credere mai a chi dice che con il secondo 900 finisce l'idea di storia, anche i poeti più “puri” senza la
storia non li capiamo. Montale apprezza molto Sereni e infatti il Montale successivo alla Bufera a sua volta viene
influenzato da Sereni quindi si rovesciano anche i rapporti tra maestro e allievo, tra Montale e Sereni che continua a
scrivere fino agli ultimi anni di vita, muore agli inizi degli anni 80, a due anni di distanza da Montale e però dal post
anni 50 in poi è anche Montale che prende un po' da Sereni e quindi li avrebbe ragione.
Nel caso della “terrazza” però abbiamo a che fare con un giovanissimo Sereni ventenne, che si è nutrito e si è
appassionato alla poesia di Montale e quindi capiamo che certe immagini che hanno un significato di poetica molto
più complesso, come questo apparentemente semplice quadretto di una terrazza sul lago, devono tanto al Montale
ovviamente precedente. Sia il Montale post anni 50 che Ungaretti dagli anni 50 in poi, sono anche a loro volta
influenzati da questi che si declinano e si dichiarano loro allievi. Dietro Sereni c’è anche Ungaretti ma c’è molto più
Montale; vedremo poi come dietro Zanzotto, altro grandissimo poeta, c'è tantissimo Ungaretti anche perché Ungaretti
aiuterà a promuovere moltissimo i giovani poeti, anche questi poeti qui Caproni, Sereni e Zanzotto. La cosa bella di
Ungaretti e di Montale è che la loro stagione poetica da anziani, quella post anni 50 poi sarà in realtà anche
influenzata da questi poeti che si sono formati sui loro testi. È vero, quindi, che il Sereni successivo agli anni 50
influenzerà anche in parte Montale, respirano proprio una stessa aria culturale che è quella della Milano e della
cultura vivacissima della Milano dagli anni 50 in poi, Milano che è ormai capitale assoluta del boom economico ed è
una città molto vivace culturalmente  Montale e Sereni sono due protagonisti assoluti, due colonne portanti della
cultura milanese e quindi cominciano ad influenzarsi a vicenda. Non dimentichiamo che Sereni è una figura del
panorama culturale Milanese più importante perchè altissimo funzionario dirigente della Mondadori, in particolare
per il campo poetico, quindi è una figura che ha un'influenza, un'importanza, un ruolo culturale e poetico enorme, che
lo stesso Montale sente molto bene. Tutto questo discorso però vale DOPO gli anni 50. In questo caso siamo al
ventenne sbarbatello che inizia a scrivere poesia e quindi si è formato negli anni dell'ermetismo ma in particolare ha
un legame d’elezione fortissimo con Montale.

Se leggessimo “settembre” ci accorgeremmo che è molto d’ispirazione ungarettiana, dell’Ungaretti di “sentimento del
tempo” ma soprattutto successivo, in questo clima delle stagioni. Il calendario ermetico e post ermetico di Ungaretti
lo risentiamo nel “settembre” di Sereni  sono i giovani che si sono formati sulla poesia di Montale e Ungaretti. Nel
caso di Sereni, Montale ha un ruolo fondamentale.

Diario d’Algeria
Arriviamo alla raccolta che lo fa conoscere in maniera dirompente nel panorama poetico “il diario d’Algeria”: esce a
guerra finita e però è stato composto come un diario – che è una forma tipica della poesia del 900, pensiamo al padre
di tutto ciò cioè “allegria” di Ungaretti. Perché si chiama “diario di Algeria”? Perchè si costruisce come degli appunti di
guerra quando Sereni viene fatto prigioniero dagli alleati. Scritto durante la prigionia tra Marocco e Algeria (Nord
Africa) che vivrà Sereni come tantissimi altri soldati fatti prigionieri dagli alleati a fine guerra, verso gli ultimi due anni
di guerra. Ecco la grande occasione mancata della vita di Sereni che avrebbe voluto partecipare alla resistenza,
liberare l'Italia da nazisti e fascisti e invece non lo farà e questo rimarrà una marca indelebile nella sua biografia e
anche autobiografia reale, non solo poetica. È la prima grande occasione mancata: i suoi ideali non potranno diventare
realtà e questo è uno snodo poetico fondamentale per tutto Sereni.
La poesia più famosa della raccolta è “Diario d’Algeria”: non ha titolo, ha l’epigrafe come tanta poesia del 900 e viene
riconosciuta dal primo verso.
Qui troviamo un Sereni in una chiave post ermetica tutta sua.

Non sa più nulla, è alto sulle ali


il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Per questo qualcuno stanotte
mi toccava la spalla mormorando

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di pregar per l’Europa
mentre la Nuova Armada
si presentava alle coste di Francia.

Ho risposto nel sonno: – È il vento,


il vento che fa musiche bizzarre.
Ma se tu fossi davvero
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
prega tu se lo puoi, io sono morto
alla guerra e alla pace.
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta -.

 Bellissima poesia in cui lui, mentre è prigioniero nel nord Africa, immagina dei rumori nella notte nel deserto
d'Algeria e in quel momento sente dei rumori ed ecco che immagina – ecco un elemento che viene dalla
poetica montaliana: il dialogo coi morti - immagina di essere visitato da questo primo caduto sulle spiagge
della Normandia. È il famoso sbarco in Normandia che porterà poi all’avanzata vittoriosa degli alleati che
liberano l’Europa dai nazifascisti. Lui immagina che, mentre non può partecipare a questo che invece per lui
sarebbe stato un momento fondamentale anche di riscatto personale, l’esercito fascista ha raggiunto e
liberato l’Italia dal fascismo e dal nazismo, lui immagina invece che questa prigionia, in questa non vita da
prigioniero lontano per la Resistenza dalla Liberazione dell’Italia e dell'Europa, immagina di essere stato
visitato - ripeto che la presenza dei morti, lo sappiamo, è un tema chiave della poesia del 900 – da questa
prima vittima degli alleati al momento dello sbarco in Normandia. Lui si è un eroe, perché ha dato la vita,
partecipando alla liberazione dell’Europa.
“E non sa più nulla” perché è morto. Ancora una volta, lo ha anche spiegato Sereni, perché “è alto sulle ali”?
sembra una figura angelicata, il morto che è volato verso il cielo ma il primo elemento è un elemento fisico di
quella immagine, perché, ricorderà Sereni, gli alleati avevamo anche preparato un immediato trasporto dei
feriti e dei morti per via aerea dalle coste della Normandia in luoghi in cui potessero essere salvati dalla
morte o essere poi seppelliti degnamente e non abbandonati morti sulle coste della Normandia. Quindi sta
evocando qualcosa di molto concreto e reale - il salvataggio dei feriti e delle salme per via aerea organizzato
dagli alleati e poi ovviamente scrive poesia, si è formato in un contesto ermetico. Dev’essere chiara
quest’immagine del soldato che vola alto sulle ali  evoca un'immagine ovviamente di ascesa verso il non
luogo per Sereni ma è concretamente metafisico e religioso dopo la vita, dopo che la sua vita è stata spezzata
sulle coste della Normandia.
 Per questo immagina di aver sentito nella notte del deserto qualcuno che lo toccasse sulla spalla chiedendo
di pregare per l’Europa.
La nuova Armada richiama l’invincibile armata spagnola che tra 500 e primo 600 tenta di sconfiggere l’altra
grande armata europea per mare che era quella inglese (vinceranno gli inglesi). In questo caso la Nuova
Armada è l’esercito degli alleati.
immagina che questo morto gli abbia chiesto di pregare per l’Europa mentre gli alleati sbarcavano sulle coste
della Normandia in Francia.
 Dopo lo stacco inizia un dialogo vivi – morti molto montaliano, ma sappiamo che è tutta una tradizione
poetica che parte almeno da Pascoli.
Lui cosa dice nel sonno quando gli sembra di essere stato visitato da questo primo morto sulle coste
Normandia? Dice no, è solo il vento che fa musiche bizzarre – ancora una volta il vento, pensiamo al vento di
Montale – ma qua il vento non porta nessun epifania, lui si vuole convincere che siano solo i rumori del
deserto.
Attenzione però! C'è quel MA avversativo, anche questo tanto montaliano, che sembra negare quello che ha
detto prima.
Quindi se fossi davvero il primo caduto sulle coste della Normandia e mi prendi chiedendo di pregare per te e
per voi Ti direi prega tu se vuoi perché io sono morto alla guerra e alla pace  ancora una volta tematica
fortissima ma qua storica e autobiografica, i morti che devono pregare per i vivi (presente da Pascoli in poi).
Lui dice non sono io che devo pregare per te, per l'invincibile armata degli alleati, perché io ormai sono vivo
in un non vita, sono vivo e morto e piuttosto siete voi e tu, quello che è morto partecipando veramente a
questa Liberazione, che puoi pregare per me. Si capovolge rapporto vivi – morti, tematica fortissima della

187
poesia del 900 e soprattutto tematica molto sereniana perché la sua vita è percepita come una non vita fatta
di occasioni mancate.
 Questa è la mia musica ora  questa è la musica che io ho veramente, cioè quella dei Padri del deserto e non
è una musica d'Angeli, non è un rumore che mi puoi evocare voci che vengono dall'alto e la mia sola, unica,
concreta, reale musica, è il vento del deserto, torna alla concretezza della realtà, all'oggettività, e questa mi
deve bastare. Assolutamente montaliano e assolutamente metafisico, anche se evoca delle immagini che
vengono da un immaginario poetico precedente – la voce che viene dall’alto, la figura angelicata – sono parte
di tutta la nostra tradizione plurisecolare. Però, ripeto, concretezza oggettiva vince l'oggettività, elemento
montaliano più un elemento molto sereniano cioè una vita fatta di non vita e di occasioni mancate: in questo
caso è l’occasione storica ben precisa della liberazione d'Italia e dell'Europa dal fascismo.
Questa è una poesia chiave famosissima e fondamentale perché qua Sereni, già con il suo “diario d'Algeria”
ha già tutto il suo retaggio montaliano - ungarettiano ma è già in un territorio tutto suo, ci sono già delle
tematiche chiave che sono tematiche assolutamente sue.
Strumenti Umani
Arriviamo così alla raccolta successiva che esce molto dopo: quella degli “strumenti umani” :siamo già degli anni 60
(Sereni scrive poche raccolte: oltre gli strumenti umani ricordiamo “stella variabile”) Ricordiamo che Sereni è molto
assorbito dal suo lavoro super impegnativo di dirigente della Mondadori – lo dirà anche nelle sue lettere - che decide
delle sorti degli scrittori e quindi la sua creatività poetica è sempre continua ma con tempi e modalità più limitate.
Gli strumenti umani esce in pieni anni 60, quasi vent’anni dopo la raccolta precedente. Cosa ci interessa di questo
titolo? Qui l’aggettivo, ancora una volta, rimanda ad una linea lombarda fatta di oggettività. Un altro significato che ci
ha aiutati a trovare Sereni, ancora più difficile, che però fa parte della sua poetica umana e di impegno di ideali
socialisti a cui lui vorrebbe e rimane almeno idealmente fedele, sono anche quelle tracce di inesistenza di coloro che
non hanno mai avuto voce fino alla storia contemporanea di Sereni nella società ma che prima o poi saranno ascoltati
e avranno una voce.
Pensiamo quanto c'è di quella chiave montaliana - ermetica sotto questa spiaggia di Sereni, partendo da un dato
concreto reale: la spiaggia che si spopola

La spiaggia tratta dalla raccolta “gli strumenti umani” (pag 848)


Sono andati via tutti -
Blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: - Non torneranno più -
Ma oggi ma avversativo sereniano preso da Montale. Nega ciò che è stato detto prima
Su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
Quelle toppe solari... Segnali
Di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
 Anche qui troviamo il Montale di “Ossi di Seppia”, lui che si volta per un momento e sente che c’è un
significato altro, una presenza altra alle spalle della nostra vita che è una catena senza senso.
Tutti gli altri vanno avanti e non vedono: queste voci, queste immagini, questi possibili significati e realtà che
si trovano alle spalle degli uomini automi (come diceva Montale, leggiamo “forse un mattino andando” tratta
da “Ossi di Seppia”). Ed ecco che lo riprende qui Sereni, zitti quelli che al tuo voltarti, è come se non
esistessero e non ci fossero possibilità di una presenza che da un significato alla realtà, in cui si percepiscono
le tracce di qualcosa che c’è e non c’è.
I morti non è quel che di giorno
In giorno va sprecato, ma quelle
Toppe di inesistenza, calce o cenere
Pronte a farsi movimento e luce.
Non
Dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
Parleranno.
 Rievoca esplicitamente i morti, quelle tracce che rimangono del loro passaggio sulla terra. “i morti non è” 
notiamo il voluto anacoluto.
i morti sono le tracce di inesistenza della propria vita che è fatta di non vita. questa è anche morta in vita.
Questa non vita, i morti, non sono solo quello che va sprecato ma “le toppe di inesistenza, calce o cenere” 

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voci montaliane presenti nella Bufera in particolare, ciò che è inesistente, ciò che non è più ma che potrebbe
un giorno invece essere – la calce (con cui si ricoprono i morti) e la cenere - ancora Montale.
 Pronte a farsi movimento e luce.  pronte a farsi vita. Tutto è consumo, consumarsi, persistenza è solo
l'estinzione. Tutto si brucia e si consuma anche nella vita, non bisogna essere morti, tanta vita nostra è fatta
di non vita, però in quella non vita ci sono tracce di quel qualcosa che rimane, persistenza è solo
all'estinzione. Sereni dice che la morte, la non vita anche in vita sono anche quelle toppe di inesistenza, quella
vita non vissuta, che è cenere, non vita, è calce (quella che si butta sui morti) però conserva la possibilità un
giorno ancora di vita e di significato, di un movimento di luce. Anche questo è molto montaliano e infatti ecco
la voce del mare - e anche qua c'è tanto Montale del ciclo Mediterraneo.
Cosa ti dice il mare? non dubitare: queste voci e toppe di inesistenza un giorno parleranno e qua viene fuori
anche il significato ancora più profondo: coloro che hanno vissuto senza avere voce, gli ultimi quelli, che non
hanno ancora avuto un riscatto esistenziale e sociale, prima o poi parleranno. È l’utopia socialista che si
affaccia in questi versi così complessi, così sottili di Sereni.
Stella Variabile.
Concludiamo il discorso su Sereni con “Paura Seconda” tratta dall’ultima raccolta “stella variabile” che esce a ridosso
della sua scomparsa. Le stelle variabili - ce l’ha spiegato lo stesso Sereni – sono quelle stelle intermittenti nel cielo,
ancora un riferimento concreto ma che fa riferimento anche a quei significati, quel senso, quella pienezza di vita e di
senso che non si manifesta mai pienamente, né per Montale, né per Sereni. Queste toppe di inesistenza prima o poi
parleranno, queste luci che ci sono e non ci sono, quella che in astronomia prende il nome di stella variabile, si rifà a
questo discorso, quello è il suo significato più importante.
In paura seconda, c’è lo sdoppiamento dell’io, il dialogo d’anima, il dialogo dell’io con se stesso è l’altro elemento
importante della poesia del 900 niente.
Paura Seconda tratta dalla raccolta Stella variabile (pag 854)
Niente ha di spavento
la voce che chiama me
proprio me
dalla strada sotto casa
in un’ora di notte:
è un breve risveglio di vento,
una pioggia fuggiasca.
Nel dire il mio nome non enumera
i miei torti, non mi rinfaccia il passato.
Con dolcezza (Vittorio,
Vittorio) mi disarma, arma
contro me stesso me.

 È una voce che sente di notte per strada, è una vita che non gli rinfaccia tutta la sua non vita, tutti gli ideali
traditi, il senso di colpa che ha preso tutta la vita di Sereni, che ormai è molto anziano, infatti muore di li a
poco, e ormai solo con dolcezza lo chiama la voce (è se stesso).
Chiamandolo con dolcezza la voce lo disarma, non c’è neanche più una lotta esistenziale da fare ma allo
stesso tempo comunque arma contro se stesso lui: è l’io scisso che non lo rimprovera ma comunque gli
ricorda quello che lui non è stato e non ha saputo essere pienamente.
Scissione dell’ io: altro tema e altra immagine fortemente presente nei poeti del secondo 900, in particolare
Sereni.
E’ la fine di un percorso esistenziale e di biografia poetica molto coerente: il dialogo con se stesso e con tutte
le toppe di inesistenza della sua stessa vita, i suoi stessi confini.
In questo modo abbiamo colto gli snodi fondamentali della poesia di Sereni.
ZANZOTTO
Zanzotto è di un decennio più giovane di Caproni e Sereni (con cui forma la triade perfetta). Nasce all'inizio degli anni
20 anche lui giovane ventenne si è formato in un territorio amatissimo che è quello dell'ermetismo, in particolare
ungarettiano. Zanzotto è più ungarettiano che montaliano (al contrario di Sereni) ma entrambi sono due modelli
fondamentali di cui si nutre. Zanzotto morirà anche molto dopo Sereni e Caproni (Sereni inizi anni 80, Caproni inizi
anni 90, Zanzotto nel 2011).
Ci spostiamo nel Veneto: questo è importante. La geografia reale e culturale, esistenziale e poetica poi è
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importantissima. Il veneto è poverissimo, regione molto povera che fino alla metà degli anni 50 è stata una terra di
fortissima emigrazione di contadini poveri quanto i contadini del sud, che migravano in massa del nord Italia e
soprattutto i veneti, al di là dell’Oceano, ci sono enormi comunità di veneti negli Stati Uniti d'America, Canada e Sud
America, Veneto che conosce poi un boom velocissimo e spaventoso di ricchezza, di industrializzazione forzata a tappe
anche violente e diventa il famoso lombardo-veneto del boom economico degli ultimi decenni. Tutta l’industria e il
terzo settore che ha, lo rendono una delle regione più ricche d’Italia.
Tutto questo però ha stravolto la geografia, umana, culturale e linguistica e poi paesaggistica del Veneto e di questo si
nutre la poesia di Zanzotto. Ci parla tantissimo di questa sua fedeltà al Veneto, tanto che vuole rimanere a Piego di
Soligo sulle Alpi venete che è un paesaggio assolutamente collaterale, periferico rispetto ai centri industriali di cui è
pieno tutto il paesaggio della sua regione. Lui vive questa profonda ferita, questa violenza inaudita fatta al paesaggio
del Veneto e quindi questo è uno degli elementi forti fino alla fine, la chiave ecologista ha anche un percorso più
ampio e più lungo, più profondo, anche rispetto a quello di Caproni ma è anche lo stravolgimento in pochissimi anni di
tutto quel patrimonio antropologico e etnologico che era quello del suo Veneto poverissimo e la scomparsa anche
delle lingue del Popolo Veneto di poveri contadini e quindi in primis ovviamente del dialetto e Zanzotto ha scritto
delle poesie in dialetto meravigliose  c'è una micro raccolta che si chiama “Filò” scritta inizialmente per il film di
Fellini “Casanova” , figura di libertino di fine 700 tutto all’interno di una cultura veneta, quella importantissima del
700: Fellini che non è veneto chiede a Zanzotto di scrivere dei testi poetici in dialetto veneto, quello di Zanzotto è un
dialetto molto sofisticato perché quello di Filò doveva essere il dialetto veneto del 700, quindi un’operazione in realtà
anche diversa da quella del Pasolini dialettale. Leggiamo con attenzione l’introduzione di Mengaldo alla nostra
antologia perché ci fa capire perché la poesia in dialetto è una delle chiavi di volta del Novecento perché non c'è
semplicemente il recupero nostalgico, quando ormai il dialetto viene parlato dalle classi più basse di una Italia che non
c'è più e di una cultura che non c'è più; ogni grande poeta che ha scelto consapevolmente in maniera militante di
usare il dialetto l'ha fatto con un disegno culturale poetico ben preciso.
Quindi Zanzotto ha si un territorio tutto in comune con Pasolini però ha anche un suo profilo tutto particolare.
Zanzotto è un poeta complesso tutt'altro che semplice anche perché è un poeta profondamente imbevuto di una
riflessione filosofica di cui si nutre e che arriva oltre, intrisa studi psicoanalitici - per un breve periodo lui anche è stato
in analisi - ma soprattutto fondamentali per capire la sua poesia sono gli studi di Lacan che è stato psicanalista e fine
linguista che ha studiato proprio questi meccanismi in cui la lingua dissocia significante e significato e il significante
non richiama più un significato ben preciso e in cui il significante diventa in realtà una lingua dell'inconscio. Questo
vale per tutti gli studi di tipo psicanalitico sui cosiddetti pazzi ma anche sugli studi della lingua letteraria del Novecento
non solo italiano: quando un significante non richiama più un significato ben preciso e quindi si scindono significante
significato, perché il significante rimane in primo piano e non richiama un significato che è quello della lingua comune?
perché il poeta, il folle, in quel significante fa parlare l’inconscio, la voce di tutto ciò che normalmente non parla.
Questo discorso viene assolutamente introiettato da Zanzotto ed è molto importante per capire anche una certa
poesia particolarmente difficile in Zanzotto che per questa lingua disarticolata in cui in primo piano abbiamo dei
significanti e dobbiamo capire come decriptarli, è stata inizialmente associata semplicemente allo sperimentalismo
delle neoavanguardie di cui parleremo. Ma l’avanguardia del gruppo 63 di Sanguineti sarà in collisione totale in realtà
con Zanzotto, saranno acerrimi nemici, perché Zanzotto richiama tutto ciò che è stato spazzato dall’omologazione e
dalla distruzione della modernità mentre la neoavanguardia, anche quando usa una lingua che sembra quella dei puri
significanti, in realtà vuole che la lingua anche della poesia parli una lingua della contemporaneità e quindi faccia
proprio anche il linguaggio omologato, disarticolato dell'Industria della pubblicità, del non senso, della Cultura
industrializzata e così via e rimprovererà Zanzotto di essere un poeta troppo elegiaco, un poeta che in realtà nella sua
lingua sperimenta, evoca, solo quello che non c'è più, ha lo sguardo solo al passato mentre la neoavanguardia vuole
avere una lingua e una poesia che guarda al presente e al futuro.
Quindi apparentemente ha un territorio in comune ma in realtà, ancora una volta, dicono cose completamente
diverse. Leggere l’introduzione di Mengaldo su Zanzotto per capire l’influenza di Ungaretti  l’io che cerca di trovare
un nome giusto alle cose, che cerca di chiamare le cose è un elemento importante. Zanzotto scrive delle “ecloghe” 
evoca così una tradizione poetica altissima, riempie la sua poesia di citazioni dantesche e soprattutto petrarchesche.
LEZIONE 25 - 12.05

ZANZOTTO
In Zanzotto molto importante è l’uso del dialetto, del discorso psicanalitico e del puro significante ormai scollegato dal
significato. Il significante è noto come voce dell’inconscio ed i primi passi dell’autore riguardano un paesaggio poetico
ermetico.

– Già il titolo della prima raccolta, “DIETRO IL PAESAGGIO”, fa tornare alla mente la raccolta di Ungaretti “Un Grido E
Paesaggi” in cui bisogna cogliere ciò che è al di là del paesaggio.

190
Il contesto dell’importanza del paesaggio, fisico e naturale, e del bello sono gli argomenti chiave della poesia di
Zanzotto, fino alle ultimissime raccolte. Importante è in particolare il paesaggio naturale, geografico e soprattutto
umano e linguistico, che è stato stravolto dal boom economico e che ha reso ricchissimo il Veneto, ma che per l’autore
ha svuotato una storia antropologica e linguistica ricchissima.

○ Già nelle raccolte successive, a partire da “VOCATIVO”, edito nel 1957 (tra il 1955-57 ci sono le svolte fondamentali
nella poesia italiana), richiama ancora un linguaggio di un italiano letterario ed alto insieme al dialetto, richiama il caso
delle declinazioni latine, ma soprattutto anche l’io vocale che parla cercando una possibilità di evocare e di richiamare
una realtà ben precisa, che invece è sempre più sfuggente, sempre più difficile, sempre più sfigurato da ricomporre e
da evocare.

→ IL COLLOQUIO [Mengaldo pag 878]

– È la prima poesia della raccolta “Vocativo”.

– Questa poesia è interessante perché racconta di una scritta, che lui ha veramente letto nella campagna veneta, di
uno scrittore semi illetterato, infatti richiama il ritorno della primavera in un italiano sgrammaticato che però per
Zanzotto è anche una lingua di per sé poetica quanto quella letteraria (è un grado sopra l’italiano medio e grigio,
quello parlato negli anni 50, quello dei mass media). L’autore richiama sempre una lingua o iperletteraria o una lingua
sotto la soglia dell’italiano standard, come una lingua sgrammaticata propria del popolo semiletterato, o il dialetto, o
la lingua dell'infanzia.

– in “Colloquio” c'è la lingua pregrammaticale di questa scritta che richiama il paesaggio amato da Zanzotto, quello
della campagna e del ritorno della primavera. Però lo richiama evocando quel mondo, poetico di per sé, del paesaggio
naturale, ma anche del paesaggio umano dell’illetterato, insieme all'idea di una primavera e del risveglio della natura
che (sempre più pessimisticamente rispetto a quanto vedrà Zanzotto verificarsi nel Veneto) è una natura sempre più
stravolta, sempre più urbanizzata, industrializzata e quindi è un mondo che sta scomparendo: di ciò Zanzotto ne
prende pienamente atto sia già in questa poesia ma ancora di più nelle raccolte successive.

– Nella seconda parte della poesia il richiamo alla pienezza della natura e a un risveglio della primavera, che lui sente
molto difficile per sé stesso, viene richiamato anche con la poeticità di queste parole sgrammaticate e quindi richiama
direttamente la scritta sul muro:

nel muro aperto da piogge e da vermi Zanzotto è un poeta di varie nevrosi, seguì cure di psicoanalisi. L’io del poeta è
quello

il fortunato marzo dell’autunno, di ottobre, del ritorno ad una vita falsa e oscura, quella degli
affanni,

mi spieghi tu con umili contrapposta alla vitalità, alla meraviglia di marzo, della primavera di cui il
poeta

lontanissimi errori, a me nel vivo illetterato, come colui che ha composto la scritta, è stato capace di esprimere
la bellezza

d'ottobre altrimenti annientato della natura. Zanzotto invece lo legge nella sua angoscia richiamata
poeticamente dalla

ad altri affanni attento. stagione autunnale.

– Il distacco, vissuto come una perdita, è un distacco tra l’io del poeta, quello dell'ottobre di angosce, rispetto all’io del
poeta illetterato, colui che ricorda le meraviglie della primavera, e quindi già in questa poesia c’è un richiamare sia un
certo paesaggio ma soprattutto un certo paesaggio umano (il poeta illetterato) e anche una lingua che nel suo essere
totalmente impura (quella dell’illetterato) è una lingua di per sé poetica.
191
→ Anche solo leggendo i titoli delle altre poesie, presenti in Mengaldo, c’è una costante nel richiamo sia alla lingua e
alla tradizione pregrammaticalizzata, sia invece l’evocare e richiamare in “Vocativo” una tradizione iperletteraria, i
brandelli di ciò che è rimasto nella tradizione iperletteraria. Ciò è costante sia queste in queste raccolte, in particolare
in “vocativo”, ma anche nelle “Ecloghe”. (Emerge anche nella poesia in Mengaldo nel titolo in latino e anche nel titolo
della raccolta successiva).

○ IX ECLOGLE

– La raccolta successiva si chiama “IX Ecloghe”, genere della poesia bucolica classico, con un linguaggio totalmente
frantumato, in cui il significante si è staccato da un significato comune e da una lingua comune, ma richiama però una
tradizione nobilissima, iperletteraria, come quella del genere dell’ecloga classica.

○ BELTA’

– È la raccolta fondamentale per Zanzotto, nel 1968, in cui c’è il richiamo alla bellezza provocatoriamente usando il
termine “beltà” (che ovviamente è un arcaismo perché nel ‘68 significava richiamare una parola del linguaggio
letterario, passato, più nobile) che rientra nel richiamo a una nobile tradizione letteraria che a brandelli viene evocata
anche nel cuore di una società e di una cultura come quella italiana nel 68, che sta andando per tutt'altra via, o quella
della omologazione, quindi di un italiano standardizzato e massmediologico, o in una tradizione ipersperimentale e
iperinnovativa e rivoluzionaria, come quella della neoavanguardia e quella di Sanguineti (non quella di Zanzotto che
evoca un paesaggio storico, naturale, linguistico veneto come fa nella “beltà”).

– Quindi la bellezza è tutto ciò che è stato fatto a pezzi dall’ipermodernità del boom economico, ma sono anche le
tracce della bellezza che vengono dalla lingua e dalla tradizione letteraria più nobile. Zanzotto, sulla scia di Ungaretti
del “sentimento del tempo”, è un poeta che evoca più volte la tradizione più pura e più alta della nostra poesia, cioè
quella di Petrarca e dei petrarchisti. È una costante di questo linguaggio che emerge già nel titolo in cui usa un
vocabolo che viene dalla tradizione petrarchesca.

→ ELEGIA IN PETEL [Mengaldo pag 891]

– La “belta” è sì quella della tradizione letteraria evocata a brandelli da Zanzotto, ma è anche quella dell’”Elegia in
petel”.

È una poesia molto famosa perché già nel titolo c’è il richiamo ai brandelli di una tradizione letteraria alta, della
bellezza petrarchesca, cioè la tradizione dell’elegia, classica e classicistica, ma insieme a questa tradizione, che è sopra
la cultura e la lingua standard omologata degli anni sessanta, viene richiamata anche la verità umana, culturale e
linguistica, che è quella del “Petel”: cioè quella lingua che le madri e le balie in Veneto usano con i lattanti, con i
neonati, che sanno balbettare, e mescola dialetto e balbettio (che ancora oggi vengono usati con vari regionalismi
quando si parla ai bambini molto piccoli). Già nel titolo si capisce come si riassume l’idea della beltà, dei brandelli della
tradizione letteraria alta insieme a tutto ciò che è sotto alla linea di un italiano e di una cultura italiana standard.

– è una lunga poesia che mostra la difficoltà della lingua di Zanzotto e come inizialmente è stato associato allo
sperimentalismo della neoavanguardia, il gruppo 63, ma come in realtà questo discorso va in tutt'altra direzione: è un
discorso che linguisticamente e formalmente sembra vicino alle neoavanguardie ma che in realtà va in una direzione
totalmente diversa, infatti lo scontro tra lo sperimentalismo di Zanzotto e quello della neoavanguardia sarà eclatante.
C’è in questa poesia un linguaggio difficile, così come sarà difficile decriptare il linguaggio disarticolato delle
neoavanguardie del ’63, come quello di Sanguineti.

Dolce andare elegiando come va in elegia l'autunno, cerca di raccogliere il suo essere fuori, il suo digiuno, dal
mondo dello

raccogliersi per bene accogliere in oro radure, accumulo e del “computare”, richiama un mondo del calcolo,
della

computare il cumulo il sedimento delle catture cultura dell’omologazione capitalistica che Zanzotto lo vede
come un

192
anche se da tanto prèdico e predico il mio digiuno. mondo che ha distrutto il suo mondo.

E qui sto dalla parte del connesso anche se non godo Zanzotto non sta dalla parte di un sistema di qualsiasi tipo, ma
fa parte

di alcun sodo o sistema: del “non svischiato”: metafora petrarchesca.

il non svischiato, i quasi, dietro: Lui è sempre dalla parte di una ricerca di una quasi verità, di
un qualcosa

vengo buttato a ridosso di un formicolio che sta dietro ciò che appare (dietro il paesaggio), un poter
richiamare e

di dèi, di un brulichio di sacertà. dire qualcosa solo per approssimazioni, non ha certezze, non
ha sistemi

Là origini - Mai c'è stata origine. a cui rifarsi ma sicuramente non sta dalla parte del “Cumulo”.

Ma perché allora in finezza e albore tu situi

la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?

– Zanzotto, nella costruzione del discorso poetico e anche linguisticamente, coniuga voci dell'italiano aulico e
petrarchesco, come “andare leggendo”, ma anche inventando formazioni linguistiche nuove, come “andare
elegiando” che è un neologismo, o gioca sulle rime o le quasi rime, come “radure” che rima perfettamente con
“catture” o “autunno” invece è in assonanza con “digiuno”, o c’è anche il gioco petrarchesco tra “oro” e ”radure”, in
cui i suoni vocalici si richiamano in una quasi rima.

– Richiama qui la poesia della mancanza, della nostalgia, tipica dell’elegia, associata a un paesaggio autunnale, tipico
dell’elegia, una stagione malinconica della perdita con tutto il valore simbolico del paesaggio autunnale che è un
paesaggio della perdita, dell'angoscia esistenziale.

– Zanzotto non ha certezze, non ha sistemi a cui riferirsi ma sicuramente non sta dalla parte del “computare il
cumulo”, cioè dalla parte dell'accumulo del capitale che ha distrutto la sua cultura e la sua lingua. Nella poesia
[Mengaldo pag 890] “IL MONDO” (difficile ma significativa) c’è la scommessa del potersi avvicinare a dire qualcosa di
ben preciso e anche ad essere qualcosa in maniera compiuta: “Mondo, sii, e buono ; esisti buonamente, fa’ che, cerca
di, tenta di, dimmi tutto.” → I brandelli del mondo devono provare a ricostruirsi in un quasi mondo e l’io del poeta è a
pezzi, a brandelli, e può tendere a qualcosa ma mai essere completamente qualcosa. Ma il mondo, l’io e la lingua a
brandelli sono però quelli più veri che vengono evocati da Zanzotto in tutta la sua poesia. Quindi si ritrova in tutto
questo mondo, in tutta questa lingua, in un io che sono solo un quasi, un’approssimazione.

– “vengo buttato a ridosso di un formicolio di dèi, di un brulichio di sacertà.”: c’è il richiamo ad uno degli autori
fondamentali, Holderlin, che diventa uno dei poeti di riferimenti dell’ermetismo (per esempio per Montale), poeta del
classicismo romantico tedesco che richiamava le tracce del passaggio degli dei che il poeta è in grado di evocare e
rintracciare. Zanzotto richiama la ricerca della purezza nelle origini e di un mondo in origine abitato dalle divinità tipico
della poesia di Horderlin.

– “Mai c’è stata origine”: evoca prima il mondo alle origini ma poi dice che non c’è mai stato questo mondo pure →
superamento dell’idea di una poesia pura nel senso ermetico.

– “Ma perché allora in finezza e albore tu situi / la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?”: la scrittura dell’elegia non
è neanche più scrivibile veramente, ma è inevitabile. Dunque qui Zanzotto dice che “se non credi al mondo puro e a
una lingua pura delle origini perché scrivi una elegia?” (elegia forma altissima della tradizione poetica occidentale). E’
inoltre è scritta nella lingua delle origini, quella del balbettio e del dialetto usato dalle madri e dalle balie con i bimbi
capaci solo di balbettare. Questo discorso affonda le radici nella ricerca continua (già a partire da Pascoli) dell’idea di
evocare una lingua e un contesto che l’Italia moderna stava distruggendo, il mondo dei contadini e del loro dialetto.
Sente questo mondo come lontano e impossibile, non esiste il mito delle origini pure che però è inevitabile evocare,

193
che sia la tradizione poetica alta assieme al linguaggio prelinguistico, delle origini materne, dell’infanzia che viene
mitizzato ed evocato da Zanzotto (come in Pascoli).

<< Mama e nona te dà ate e cuco e pepi e memela. Mamma e donna ti danno il latte, la mela

Bono ti, ca, co nona. Béi bumba bona. f: fet foa e upi.>> Buono qui con la nonna. Fai il bimbo buono. Fuori c’è un
freddo da lupi.

Evoca ogni tanto i balbetti, il linguaggio, il petèl tra mamme e balie, mamme e nonne, anche rispetto ai bimbi incapaci
ancora di parlare. Qui c’è un balbettio che richiama una lingua del balbettio, quella delle origini, richiamate tante volte
da Zanzotto: il balbettio è il linguaggio infantile insieme al linguaggio dell'infanzia, per definizione della lingua, che è il
linguaggio del dialetto. Zanzotto in questa poesia richiama Hordelin, una poesia che ha evocato una lingua e una terra
abitata dagli dei e insieme anche la lingua del pètel, la lingua dei bambini, dell'infanzia, la lingua materna per
eccellenza che mescola dialetto e balbettii, cioè la lingua più vicina all’idea di purezza.

– Zanzotto richiamerà più volte esplicitamente la contrapposizione tra il mondo e la lingua piatta dell'industria con vari
riferimenti a una lingua del denaro “Il desiderio di denaro fresco” e anche una lingua pura e altissima, come la poesia
delle origini di Hordelin, contrapposta in questa poesia a uno scrittorucolo della letteratura di consumo, in particolare
del ‘600 come Tallemant des Reaux.

Quindi c’è il richiamo a una letteratura di consumo accanto ad una letteratura altissima, implica un richiamo anche a
una lotta di sopravvivenza di una letteratura alta in un mondo ormai che culturalmente si è appiattito su una industria
culturale, quindi su una letteratura puramente di consumo.

– Alla fine della poesia c’è ancora un richiamo alla lingua del pètel, il balbettio della mamma e della nonna con il
bambino.

– Il verso finale è associato in maniera scioccante e provocatoria. Zanzotto parla di “oltraggio” in questa poesia, cioè
l’evocare la purezza della poesia altissima, la poesia che evocava già nell'800 la purezza delle origini, di una umanità in
dialogo con le divinità, subito dopo lo evoca dopo aver richiamato i versi in pètel.

L'ultimo verso "una volta ho interrogato la Musa” è un verso di Hordelin che Zanzotto cita testualmente, che è il poeta
vate, figura sacra di sacertà ancora nell’800 e solo il poeta nell'800 può evocare la musa, cioè la divinità della poesia e
dell'arte che ormai la cultura moderna, già per Horderlin, ha dimenticato e distrutto. Le tracce di divinità, la possibilità
di dialogo con le divinità, la sacralità della figura del poeta e della parola poetica per Horderlin erano ancora possibili
ma un secolo dopo sono state totalmente travolte per Zanzotto dalla storia e dalla lingua dell'Italia moderna, del
Veneto in particolare, del boom economico. Quindi “L’elegia del Petel” chiude con il pètel associato a un verso di
Hordelin che evocava la possibilità di una poesia sacra e di una poesia pura delle origini: sono le due facce di uno
stesso discorso per Zanzotto.

○ IL GALATEO IN BOSCO

– E’ una raccolta meravigliosa di Zanzotto del 1978. È una “pseudo trilogia” formata anche da altre due raccolte che si
chiamano FOSFENI e IDIOMA, scritte fino alla seconda metà degli anni ’80.

– Il “galateo in bosco” richiama il famoso scritto in prosa di Della Casa che nella seconda metà del 1500 diventa il
manuale del bravo cortigiano e delle sue maniere e della sua lingua, in un senso petrarchesco che è tutt’uno con la
cultura cinquecentesca. Zanzotto richiama questo stesso galateo, già nel titolo, e la cultura altissima del suo autore,
Della Casa (autore fondamentale del petrarchismo cinquecentesco).

– Fu scritto nelle terre venete richiamate dallo stesso Zanzotto in questa raccolta, quindi richiama l’elemento
iperletterario legato al suo Veneto, e inoltre “in bosco” perché sono i boschi veneti (richiamati anche dal galateo di
Della Casa) e sono quelli in cui vive Zanzotto stravolti dall’avanzata del capitalismo più feroce che ha dato una grande
ricchezza alla regione del Veneto negli ultimi decenni. Ancora una volta evoca i frammenti di poesia sacra insieme al
paesaggio naturale del Veneto stravolto, non solo dal capitalismo selvaggio, ma soprattutto dalla storia del ‘900,
quella che precede il boom economico. È una poesia sperimentale, riproduce anche le cartine della Prima Guerra
Mondiale perché negli altipiani del Veneto, assieme a quelli del Trentino, la guerra si è combattuta più ferocemente:
quindi anche le alpi e il suo Veneto, territorio per Zanzotto sacro, è stato stravolto ancor prima che dal boom

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economico dalla storia feroce del primo ‘900. Infatti in una delle poesie si richiama la violenza della storia che travolge
la natura del Veneto e la seconda poesia della sezione “Cliches” riproduce la scrittura tipografica del ‘500 di Della
Casa, sono dei collage non solo linguistici ma anche visivi tra la sua poesia e quella del ‘500. In altre poesie ancora
riproduce con disegni ciò di cui parla in questa poesia e anche le cartine geografiche del Veneto della Prima Guerra
Mondiale che, anche durante l’epoca dell’autore, stava scoprendo i vari ossari nel sottosuolo delle alpi venete dove si
ritrovavano le ossa dei soldati ignoti, morti durante la guerra. Quindi c’è una natura stravolta della storia del ‘900,
prima dell’orrore dell’industrializzazione selvaggia. → Storia, natura, poesia e letteratura trovano in questa raccolta un
punto d’arrivo alto della poesia di Zanzotto.

– Infatti una delle sezioni del “Galateo in Bosco” si chiama “Ipersonetto”, in cui recupera la forma più pura e perfetta
della tradizione lirica italiana, cioè quella del sonetto, e in cui sperimenta una nuova lingua visiva della poesia italiana.
L’evocazione dell’ipersonetto va di pari passo con l’evocazione di una lingua e di una realtà sotto la linea della lingua e
della cultura standard dell’Italia del boom economico degli anni ’50: sono due vertici che Zanzotto mette accanto,
anche se sembrano antitetici al suo discorso che è un discorso non di idealizzazione bucolica della natura e del
paesaggio ma è profondamente immerso nella storia.

L’autore proveniva da una famiglia di antifascisti della Prima Ora, il padre fu costretto a scappare in Svizzera negli anni
’20 perché era stato a stretto contatto col socialismo di Matteotti (ucciso dai fascisti). Zanzotto è un’antifascista sin
dalla giovinezza e fece parte della resistenza, quindi la sua poesia non è mai una pura idealizzazione elegiaca, in senso
classico, della realtà e del paesaggio come se fossero immersi in un tempo perfetto. Ma il suo paesaggio linguistico,
umano, geografico, naturale è attraversato dalla storia drammatica del Novecento. “Galateo in Bosco” è la raccolta in
cui il discorso antropologico, naturale-geografico, umano e storico sono inscindibili l’uno dall’altro.

– I titoli ”FOSFENI” ricorda le luci lampeggianti, tipiche di quando chiudiamo un occhio e vediamo dei bagliori veloci,
approssimazione ad una verità secondo la tradizione post ermetica, e “IDIOMA” ricorda l’approssimazione ad una
lingua mai esistita delle origini e della purezza a cui Zanzotto cerca sempre di accostarsi, la lingua del quasi, del dietro
che aveva evocato già nell’”Elelegia in Petel”.

○ CONGLOMERATI

– E’ ’ultima raccolta del 2009 (Zanzotto muore nel 2011) e richiama le conglomerazioni urbane del Veneto stravolto
dal boom economico degli anni 2000 che hanno bruciato il paesaggio a lui più caro, ma richiama anche la possibilità di
una nuova convivenza, ma questo sogno finirà due anni dopo.

– La sua fedeltà al paesaggio umano, culturale, storico, linguistico, dialettale di Zanzotto al Veneto ne fa una figura
straordinaria: Zanzotto già con “Beltà” negli anni ’60 è diventato un grande poeta di riferimento. Rifiuta sempre
incarichi molto più prestigiosi per rimanere nel Veneto e nella scuola, infatti è prima insegnante poi preside di una
scuola media, sperimenta nuove forme di didattica con i suoi studenti-allievi piccolini. Emerge la sua grandezza di
uomo di cultura assolutamente straordinaria, come Caproni che continua ad insegnare come maestro elementare a
Roma fino alla pensione: sono figure di poeti e scrittori che scrivono con perfetta coerenza rispetto alla loro reale
biografia. Zanzotto è un uomo-poeta che, ancora più di Pascoli, rimane attaccato alla figura di insegnante di scuola.

NEOAVANGUARDIA - SANGUINETI

Inizialmente i critici hanno pensato di poter assimilare Zanzotto alle neoavanguardie che esplodono tra fine anni ’50
ed inizio anni ’60. Questo perché anche Sanguineti, maestro della neoavanguardia e del Gruppo 63, già nella raccolta
del 1956 “LABORINTUS” (gioca su termini dotti ma anche stravolti linguisticamente: l’idea e l’immagine del labirinto)
aveva iniziato un percorso che sembrava quasi coincidere con quello di Zanzotto, cioè una lingua nuova che dovesse
evocare i brandelli della lingua e della cultura alta (Sanguineti usa il latino, soprattutto quello più prezioso e raro che è
il latino medievale con citazioni dalla classicità) insieme ad una lingua dell’assoluta modernità.

–Sanguineti getta le basi nel 1956 della neoavanguardia che si organizza come gruppo, a differenza dell’ermetismo,
sotto un’unica poetica (solo apparentemente) già nel 1963 (dopo poco la raccolta di esordio di Sanguineti). Scelgono la
loro etichetta, GRUPPO 63, e vogliono rompere, in maniera netta e assoluta, con la tradizione ermetica e
postermetica, creano una cesura, e aprire il discorso culturale e poetico italiano dagli anni ’50 in poi (l’Italia in pochi
anni diventa una delle grandi protagoniste del capitalismo) e provocatoriamente aprire il discorso del genere più
conservatore, la poesia, ad un discorso che sapesse immergersi completamente nella modernità.
195
– In un famoso convegno scelgono il nome GRUPPO 63 che richiama il GRUPPO 47→ gruppo dell’avanguardia
letteraria tedesca più importante dell’immediato dopoguerra che voleva creare una cesura netta e totale rispetto a
tutto ciò che era lingua, poesia e cultura pre ’47, perché La Germania doveva rielaborare il grande peccato storico del
nazismo e della cultura nazista.

– Per Sanguineti questo discorso non era stato attraversato dalla cultura e dalla poesia post Seconda Guerra Mondiale
e si mette a capo della neoavanguardia che richiama le avanguardie del primo ‘900, in particolare l’avanguardia del
Futurismo, e vuole rifondare un linguaggio e una poesia della modernità. Non è più la modernità del primo 900, dei
crepuscolari, dell’espressionismo e del futurismo seppur guardati con occhio benevolo da Sanguineti, ma è una
modernità molto diversa del secondo Novecento. La lingua deve guardare oltre i confini nazionali, che non si deve
definire solamente “italiana”, e si ricollega già a partire dal nome ad una delle avanguardie più avanzate di rottura del
panorama poetico e letterario europeo del secondo 900, ovvero il Gruppo 47 in Germania o TEI QUEL in Francia. C’è
una apertura totale, cosmopolita e transnazionale, fondamentale nella scrittura di Sanguineti. È una lingua che fa
propria la lingua della modernità e dei linguaggi e delle scienze più importanti, che si diffondono anche in Italia, che è
quella della psicanalisi, unito in particolare in Sanguineti ma non solo, a una visione militante della cultura e della
poesia. Sanguineti sarà anche un parlamentare di sinistra perché c’è appunto un’idea di militanza di questa poesia.

○ Sanguineti raccoglie i suoi scritti più importanti sulla lingua e sulla letteratura in una raccolta di saggi che si chiama
“IDEOLOGIA E LINGUAGGIO”: qualsiasi linguaggio è portatore di una ideologia (un’idea gramsciana), non esiste un
linguaggio puro ma qualsiasi linguaggio è moderno e veicola una ideologia per Sanguineti.

Questo discorso viene capovolto in Pasolini che già a fine anni ’50 entra in rotta di collisione con la neoavanguardia.
Infatti pubblica “PASSIONE E IDEOLOGIA”, un titolo polemico ed opposto alla raccolta di Sanguineti perché per lui
l’ideologia è un tutt’uno con l’elemento pre-razionale, quello della pura passione. Quindi l’intellettualismo, la
militanza gramsciana viene capovolta da Pasolini nella fusione di pensiero inscindibile dalla passione, dal sangue, dalla
vita, dal sentimento. Tutto ciò viene rifiutato da Sanguineti e dalla neoavanguardia, perché la loro è l’idea di una
poesia antilirica in cui l’io, il soggetto, non dev’essere il centro del discorso (com’era accaduto da Petrarca fino a fine
‘800). Alcuni elementi sono perfettamente coerenti con le poetiche delle avanguardie poetiche di primo ‘900 come la
morte dell’io lirico, la morte del chiaro di luna, la poesia della modernità, la poesia che sussume anche il linguaggio e i
segni della modernità, erano il dettato già del manifesto futurista e queste idee dalle neoavanguardie vengono
rielaborate in chiave moderna e neocapitalista.

– Nel 1993 i poeti si riuniscono in un convegno a Palermo cercando di riattivare questo gruppo e quest’avanguardia
col nome di GRUPPO 93.

– Questo discorso può sembrare formalmente vicino ad un livello superficiale di strutture poetiche a quello di
Zanzotto ma va in una direzione opposta: per Sanguineti l’ecloga, l’elegia, il dialetto, il veneto stravolto, l’antropologia
stravolta dalla modernità sono elementi regressivi, sono la solita pura poesia reazionaria, tanto che, inizialmente, non
inserì Zanzotto nella sua antologia della poesia italiana (è rimasta come una delle antologie più significative del ‘900),
pubblicata con Einaudi.

Ogni antologia poetica ha una sua linea militante, come per Mengaldo e così anche per Sanguineti, e gli elementi di
Zanzotto gli sembravano pura reazione, di nostalgia di un passato e di una tradizione che ormai diventavano un
elemento di reazione ideologica, oltre che linguistica e poetica. Lo scontro fu durissimo e due delle voci più importanti
che praticano la possibilità di una lingua poetica completamente alta rispetto a Sanguineti sono: da un lato Zanzotto di
“Beltà” e “Galateo in bosco” e dall’altro Pasolini che evoca una poesia in cui l’elemento militante è inscindibile, anche
se contraddittorio, dalla pura passione, dalla pura spinta biologica. Negli anni tra il 1956 e il 1957 viene pubblicata
simbolo di Pasolini che è la raccolta “Le Ceneri Di Gramsci”.

– Sanguineti è il poeta della modernità, molto sensibile alle avanguardie tedesche. Muore quasi in contemporanea con
Zanzotto nel 2010, ebbero due percorsi paralleli ma opposti. Scrive tantissime raccolte fino alla soglia della sua
scomparsa.

○ LABORINTUS è la metafora del labirinto dell’esistenza, della lingua e dell’io psichico. È un’immagine centrale
assieme a quella della palude, sono immagini molto usate dalla letteratura della neoavanguardia del gruppo 63 (ma
c’è anche una neoavanguardia del gruppo 63 in prosa, per esempio Manganelli ci si avvicina a questo gruppo e uno dei

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libri in prosa si chiama “La palude infinita”). Il labirinto e la palude erano già presenti in Rimbaud, colui che mescola
prosa e poesia.

– Sanguineti è un professore universitario, scrive numerosissime raccolte tra cui “REISEBILDER” e “POSTKARTEN”.

○ REISEBILDER già dal titolo si capisce come si è evoluta la sua scrittura. E’ una raccolta di inizio anni ’70 e questa
parola, in tedesco, (lingua che Sanguineti cita tanto del Gruppo 47), indica “il diario, gli appunti di viaggio, le immagini
di viaggio, le fotografie di viaggio” che è un genere di viaggiatori tedeschi in Italia, come Goethe, che scrivevano le
note di viaggio. Sono appunti di viaggio dunque molto moderni.

○ Subito dopo pubblicò POSTKARTEN che in tedesco vuol dire “cartolina”.

Questi titoli richiamano la disarticolazione del linguaggio e della struttura della poesia, puri appunti flash di viaggi
europei, in particolare tedeschi, che fa veramente Sanguineti, uso del plurilinguismo cioè mescolare tante lingue
diverse che è usuale in Sanguineti.

→ Da “Reisebilder”, BEVEVA, E RIDEVA, E BEVEVA, LA GIORNALISTA GISELA [Mengaldo pag 958]

– Richiama una giornalista tedesca Gisela e delle espressioni tedesche come “Liebling der Shnaken”, “Liebling der
Gotter”, “Liebling der Frauen”, ecc… Giocano linguisticamente, perché il gioco e la parodia linguistica sono sempre
presenti in Sanguineti, ma con la lingua tedesca.

– Già dall’incipit si capisce come il plurilinguismo e il pluristilismo sono avanguardistici e moderni: inizia con la lettera
minuscola, usa in maniera notevole i segni diacritici come i due punti (come in Campana).

beveva, e rideva, e beveva, la giornalista Gisela:

si è divertita enormemente,

alla dotta boutade del mio primogenito: “Boutade” termine francese = battute (pluringuismo)

un " ist mir vergallt , (malizioso) riprende Faust di Goethe

– La giornalista lo sta intervistando ma in realtà in un paesaggio che viene evocato non solo cosmopolita e moderno,
ma anche anti-lirico: bevono e ridono facendo tante battute. Vengono evocati in questa poesia tutti e tre i figli che
irrompono durante l’intervista allo scrittore intellettuale Sanguineti, ma lo fanno in tutte le poesie di viaggio: presenza
antipoetica, a differenza della poesia di Saba o di Caproni, in un contesto di Sanguineti è antilirico.

– C’è un giocare con la lingua: ogni lingua è di per sé impura e veicola un’ideologia.

“ist mir vergallt” viene ripreso dal Faust di Goethe ma in un contesto diverso, di battute spiritose, in una
conversazione prosaica e prosastica.

“Liebling der Gotter”: vuol dire “caro agli dei”, altra espressione dei poeti dell’800 tedesco, il poeta è caro agli dei
secondo Goethe, Holderlin e la tradizione più alta della poesia tedesca. Sanguineti gioca nel suo non poter essere più
quel tipo di poeta, ma è il poeta che beve e ridacchia, fa battute con la famiglia e la giornalista che avrebbe dovuto
fargli una intervista seria da poeta e intellettuale conosciuto molto in Germania.

– Chiude questi appunti di viaggio ricordando i tre momenti più importanti della sua vita ma avendo anche ricordato,
come elemento auto-parodico, il suo essere un ipotetico “Liebling der Frauen”, ovvero “caro alle donne”, prima di
sposarsi. L’elemento erotico senza alcuna sublimazione poetica è uno dei motivi ricorrenti nella poesia antilirica di
Sanguineti.

○ Anche altri titoli della sua poesia, come “TRIPERUNO”, rievocano la tradizione espressionistica italiana, come
l’espressionismo di Folengo un grande autore dialettale e di un latino maccheronico a cui si rifà molto Sanguineti, che
ha sovvertito già nel ‘500 il discorso serio ed aulico della poesia e del teatro. Infatti il titolo proviene dal linguaggio
maccheronico di Polengo.
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○ Così anche un’altra raccolta che prende il nome di “WIRRWARR” una parola in tedesco che vuol dire “guazzabuglio”.

– è un plurilinguismo e pluristilismo che tendono alla parodia e all’autoparodia.

Domanda: quando Sanguineti scrive in tedesco oppure in francese si aspetta che i suoi lettori comprendano quelle
frasi oppure è anche solo per dare un'impressione di plurilinguismo di questi viaggi?

Tutta la sua poesia è una poesia che, per poter essere veramente analizzata, non si può dire che è bella e che si
comprende soltanto leggendola a un livello superficiale ma è una poesia concettuale, come l’arte o la scultura
contemporanea o la musica contemporanea o la pittura contemporanea. Non ha più senso per Sanguineti la poesia
della purezza lirica che per tanti livelli poteva essere parte di un’idea tradizionale di poesia. Il rimescolare lingue e stili,
abolendo l’io lirico, il paesaggio lirico e la tradizione lirica, è una cosa molto intellettuale, non è possibile capirla
semplicemente leggendola perché ogni linguaggio porta una ideologia e ogni linguaggio, anche quello della poesia,
non può essere capito e decriptato senza capirne l’ideologia che c’è dietro. L’arte concettuale chiede uno sforzo
intellettuale particolare, perché l’arte del secondo ‘900 va decriptata insieme al discorso linguistico, ideologico,
filosofico, artistico, in un tutt’uno che non fa capire nulla (come per esempio l’arte di Fontana o l’arte povera di Burri).
Per la musica contemporanea importante è Berio, grande compositore del secondo ‘900 la cui musica è fatta di grandi
rumori, anti melodica e Berio e Sanguineti hanno collaborato creando testi musicati, come “novissimo testamentum”
che è un’opera che scrivono insieme.

Quindi Sanguineti va letto insieme alle avanguardie del secondo 900, pittoriche, scultura, arte visiva, musica e poesia.

I tentativi nel romanzo sono fallimentari, lo stesso “Capriccio italiano” romanzo di Sanguineti è illeggibile.

Una poesia concettuale va di pari passo con l’importanza della musica o dell’arte contemporanea, vanno studiate e
capite e non si può semplicemente dire che sia bello o no. Sanguineti vuole abbattere ciò, non esiste più il bello, l’io
poetico, lui stesso poeta non si definisce tale ma è la parodia di sé stesso, è il poeta che viene intervistato sbevazzando
con la giornalista, facendo battute, con il figlioletto che entra in scena anche lui facendo battute.

Questo è il discorso della modernità che ha avuto altre voci, per esempio negli stessi anni c’era la voce di Pasolini o la
voce di Zanzotto, cioè di altri poeti che si calavano nella modernità ma volendo dire altro. Ecco perché c’è distanza tra
“l’elegia in petel” Zanzotto e “Reisebilder” di Sanguineti: ci sono due mondi che si scontrano ferocemente. Pasolini con
“i ragazzi di vita” o “il dialetto romano” o la passione per quel popolo primitivo che viene mitizzato da Pasolini va nella
direzione opposta rispetto alla modernità assoluta, metropolitana, cosmopolita di Sanguineti e della neoavanguardia.

→ Fine dell’io poetico, fine della bellezza lirica e soggettiva, ci sono richiami a un espressionismo radicale, come quello
di Folengo

nella tradizione letteraria italiana.

ELIO PAGLIARANIUn altro dei protagonisti della neoavanguardia del gruppo 63 e del gruppo 93 è Elio Pagliarani.

È un grandissimo poeta ma che esprime lo sperimentalismo in una chiave completamente diversa rispetto a quella di
Sanguineti del “Laborintus” o “Reisebilder”. Quindi in realtà il gruppo 63 è stato terribilmente eterogeneo, come il
Futurismo.

Pagliarani è forse colui che diventerà sempre più importante nel canone poetico e nella tradizione del secondo 900
(restringendo il ruolo di Sanguineti). Autore origini romagnole ma romano di adozione perché è anche molto milanese.

Lezione 26 - 18 maggio
Pasolini poeta.
Avevamo già introdotto Pasolini precedentemente. Dobbiamo tener presente questo poemetto “Il pianto della
scavatrice” che fa parte della raccolta “le ceneri di Gramsci”. Perché s’intitola così? Sono una raccolta del 57: questo è
un dato importante perché tra il 56 e il 57 sono uscite le raccolte poetiche di tanti poeti diversi, tutte raccolte che
hanno segnato una svolta nella poesia del 900, soprattutto per i vari autori che erano partiti su un territorio ermetico
e che lo superano, in maniera vistosa, già in questi anni. Questi sono gli anni anche dell’uscita di “Laborintus” la prima
raccolta di Sanguineti, in cui abbiamo l’esplosione di quei principi di una poesia radicalmente altra, rispetto alla

198
tradizione ermetica, che saranno poi i principi della così detta neoavanguardia, capeggiata dallo stesso Sanguineti con
il gruppo 63. Quindi 56/57 sono due date che vanno ricordate, perché è un biennio in cui abbiamo una svolta decisiva
all’interno della poesia italiana.
E questa svolta ce l’abbiamo anche con questa raccolta di Pasolini. Con le “ceneri di Gramsci” abbiamo un titolo già
fortemente evocativo perché il Pasolini, comunista ed eretico, passionale in cuor suo da sempre, assiste nel secondo
dopo guerra alla sconfitta del partito comunista che viene messo fuori da ogni ipotesi di governo, viene messo
all'angolo soprattutto dalle forze del centro cattolico e del centrodestra: è un po’ una sorta di funerale storico –
politico di Gramsci.

Ma non solo: “Le Ceneri di Gramsci” evocano anche quel luogo di Roma, particolarmente caro allo stesso Pasolini, che
è il cimitero acattolico (non cattolico), luogo simbolicamente molto forte, dove sono sepolti autori, intellettuali (qui ci
sono le ceneri di Gramsci). È un luogo veramente sacro e profondamente laico, evoca un luogo particolare anche nella
topografia romana molto cara a Pasolini, che passerà gli ultimi anni della sua vita nella città di Roma, che diventa una
specie di patria elettiva.

Cosa racconta? Il verbo non è casuale in questo “pianto della scavatrice”. Racconta quella trasformazione radicale
della città di Roma, in particolare di quei quartieri che da popolari (vere e proprie borgate con casupole) diventano,
con il boom economico degli anni 50/60 dei quartieri ricchi. Vengono buttati giù i quartieri, le borgate fatte di
casupole per alzare palazzoni e nuovi quartieri. Il popolo romano, tanto amato in maniera viscerale da Pasolini, viene
messo fuori dai confini di questi quartieri.
La prima parte di questo poemetto in terzine richiama in maniera realistica (il neorealismo è la chiave per capire la
poetica del Pasolini anche romanziere e cineasta) una sorta di attraversamento, in termini proprio realistici, di questi
quartieri popolari o ex popolari (chiamati realisticamente Trastevere, Viale Marconi, Rebibbia) che verranno sventrati
dal boom economico – nota dolente che caratterizza il pathos Pasoliniano  l’Italia che sta crescendo velocemente, lo
fa a costo di cancellare una parte consistente del suo popolo, tutta la parte popolare che si trova al di sotto della linea
borghese e che in questi anni non solo vengono buttati fuori dalle borgate con questa scavatrice ma poi questo stesso
popolo perderà la sua anima che venderà al capitalismo, con l’appiattimento dei suoi desideri piccolo borghesi che
infrangeranno questo mito del popolo tanto caro a Pasolini.
Questa stupenda e misera città, tanto cara a Pasolini, viene richiamata nelle sue borgate e nei suoi famosissimi ragazzi
di vita (romanzo corale) – i romanzi neorealisti di Pasolini vedono la luce proprio in questi anni.

Il pianto della scavatrice mette al centro però non questo coro, non questi ragazzi e neanche il richiamo diretto alle
borgate che vengono sventrate ma viene richiamata antropomorfizzata, con sembianze umane, questa scavatrice cioè
quella pala meccanica che distruggeva le catapecchie delle vecchie borgate per costruire i nuovi quartieri. La chiave
poetica viene fuori già da questo titolo: il rumore continuo di questa scavatrice che butta giù queste borgate, questo
continuo rumore che fa da sottofondo anche al poemetto, viene evocato con un termine assolutamente umano che è
quello del pianto, quindi non il rumore della scavatrice ma il suo pianto, come se la scavatrice stessa si facesse
portatrice di un dolore che è il dolore, non tanto del poeta, quindi non solo un senso soggettivo (il pianto del poeta)
ma anche proprio il pianto di quella classe operaia che veniva dal popolo che è quella a cui viene affidato questo
compito di azionare il braccio e buttare giù le borgate da cui la stessa classe operaia veniva fuori. È un lamento che
non è solo lirico e autobiografico ma è un lamento in cui c’è il richiamo alla classe operaia che lavora in questi cantieri
e che viene richiamata poi nell’ultima parte (la sesta, quella che leggeremo) come la classe che prima o poi avrà voce e
la sua voce, prima o poi, non sarà solo quella del pianto, della povertà, della mancanza ma sarà un pianto di riscossa
sociale e politica e quindi l’elemento gramsciano viene fuori in questo poemetto e in particolare in quest’ultima parte.

Un elemento molto interessante di questo poemetto è la sua forma: Pasolini è un lettore di poesia molto raffinato, la
sua ideologia raccoglie dei saggi molto belli sulla poesia italiana e uno dei suoi modelli è il Pascoli dei poemetti, quindi
il Pascoli poeta narrativo, non quello del quadretto bucolico ma proprio quello che racconta in un romanzo familiare la
vita dei contadini, quella raccolta che si chiama semplicemente “poemetti” e che poi Pascoli arricchisce sempre più
fino a farla diventare un romanzo, scrivendone ben due parti – primi e nuovi poemetti. Ricordiamo che nel 55 Pasolini
dirà che è quel Pascoli, il Pascoli migliore che ha dato vita ad una tradizione novecentesca, molto diversa e lontana
dalla linea degli avanguardisti o dell’ermetismo a cui Pasolini non aderirà mai.

Il poemetto è in terzine dantesche (le stesse che usa Pascoli nei poemetti, modello a cui Pasoli si ispira direttamente).
In questo attraversamento più volte c’è stato un altro simbolo, insieme a quello della scavatrice, che è quello del
canovaccio rosso, che viene richiamato più volte nel poemetto: è lo straccio rosso, il cui colore richiama la religione
gramsciana, che gli operai portano al collo e attaccano alla scavatrice nei momenti di pausa. Tutto, all’interno di
questo poemetto, è animato da oggetti fortemente simbolici.
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Leggiamo quest’ultima parte del poemetto, costituito da più parti proprio come accadeva in Pascoli: è un racconto in
versi.

Il pianto della scavatrice (sesta parte) tratta dalla raccolta le ceneri di Gramsci
Nella vampa abbandonata
del sole mattutino - che riarde,
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi

riscaldati - disperate enjambement & antropomorfizzazione


vibrazioni raschiano il silenzio
che perdutamente sa di vecchio latte,

di piazzette vuote, d'innocenza. Parola chiave


Già almeno dalle sette, quel vibrare
cresce col sole. Povera presenza

d'una dozzina d'anziani operai,


con gli stracci e le canottiere arsi
dal sudore, le cui voci rare,

le cui lotte contro gli sparsi


blocchi di fango, le colate di terra,
sembrano in quel tremito disfarsi.

 Nella vampa abbandonata del sole mattutino - che riarde, ormai, radendo i cantieri, sugli infissi riscaldati -
disperate vibrazioni raschiano il silenzio che perdutamente sa di vecchio latte, di piazzette vuote, d'innocenza
 è il momento del caldo che avvampa, momento in cui tutto si riscalda anche sui cantieri dove, gli operai
con il famoso straccio rosso, stanno lavorando per buttare giù le vecchie borgate e tirare su i nuovi palazzi
borghesi.
Disperate vibrazioni  dal punto di vista stilistico è un enjambement, che Pasolini usa abbondantemente
all’interno del poemetto per dare un ritmo incalzante e più narrativo. Dal punto di vista contenutistico invece,
abbiamo un’antropomorfizzazione perché viene richiamato il pianto della scavatrice. Il rumore generato
sembra un segnale di disperazione: gioca sulla stessa linea del titolo.
Quando parliamo di realismo e neorealismo in Pasolini non facciamo riferimento solo ai film ma anche al
poemetto narrativo che vuole trasporre stilisticamente questo preciso momento storico romano ma vediamo
quanto è profondamente poetico Pasolini, al di là dell’antropomorfizzazione, è bellissimo questo “raschiano il
silenzio” costruzione metaforicamente iperpoetica, le vibrazioni di qualcosa che è un oggetto inanimato, in
realtà raschia – qualcosa di fortissimo e violento: è espressionistico – il silenzio. Associa l’immagine, anche
proprio visivamente molto forte, con il silenzio, che è qualcosa di non concreto.
Quindi abbiamo una costruzione realistico – narrativa ma il linguaggio e lo stile di Pasolini sono
assolutamente poetici sempre.
sa di vecchio latte, di piazzette vuote, d'innocenza  sono i luoghi che saranno distrutti dalla scavatrice e che
sanno della vita di quel piccolo popolo che ha vissuto questi quartieri. “Innocenza” è la parola chiave: Pasolini
ancora crede all’idea del popolo innocente che viene portato al patibolo e all’autodistruzione da questa
borghesia del capitalismo vincente.
 d'una dozzina d'anziani operai vengono sul proscenio gli operai. Queste figure di operai hanno già un tratto
patetico, fortemente liricizzato, che lottano con il fango e la terra. Questi operai si disfano della loro stessa
provenienza sociale, quella popolare non borghese.
 Disfarsi  fortemente espressionistico

Ma tra gli scoppi testardi della


benna, che cieca sembra, cieca
sgretola, cieca afferra,

quasi non avesse meta,


un urlo improvviso, umano,

200
nasce, e a tratti si ripete,

così pazzo di dolore, che, umano


subito non sembra più, e ridiventa
morto stridore. Poi, piano,

rinasce, nella luce violenta,


tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,

nell'ultimo istante, può gettare


in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po' d'aria di mare ...
 scoppi testardi della benna  pala della scavatrice. “testardi” aggettivo che ancora una volta
antropomorfizza.
 urlo improvviso  è l’urlo della scavatrice, che viene modulato e diventa umano e improvviso e di dolore.
Abbiamo l’apice del pathos di tutto il poemetto. Dopo questo urlo muore pian piano. Notiamo ancora una
volta l’uso di ossimori come “stridore – morto”: è tutta una connessione tra qualcosa di straziante, che
finisce e muore e insieme un urlo umano di dolore.
 Il mare di Roma è quello di Ostia, sono quartieri che si trovano li vicino. Insieme troviamo l’elemento di
disperazione, un urlo che annuncia la morte di questi quartieri popolari, addolcito appena dall’aria di mare
che arriva.

A gridare è, straziata
da mesi e anni di mattutini
sudori - accompagnata

dal muto stuolo dei suoi scalpellini,


la vecchia scavatrice: ma, insieme, il fresco
sterro sconvolto, o, nel breve confine

dell'orizzonte novecentesco,
tutto il quartiere ... È la città,
sprofondata in un chiarore di festa,

- è il mondo. Piange ciò che ha parola chiave


fine e ricomincia. Ciò che era
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa

cortile, bianco come cera,


chiuso in un decoro ch'è rancore;
ciò che era quasi una vecchia fiera

di freschi intonachi sghembi al sole,


e si fa nuovo isolato, brulicante
in un ordine ch'è spento dolore.

 A gridare  torna incessantemente l’immagine dell’urlo.


 ma, insieme  ma ecco che insieme a questo urlo di dolore, appare un orizzonte novecentesco in tutto il
quartiere che distrugge il suo passato pre novecetesco e si fa quartiere moderno, addirittura con un chiarore
di festa.
 Piange ciò che ha fine e ricomincia.  torna la parola chiave “piangere” e l’urlo di dolore è associato a
qualcosa che finisce – in questo caso la vita e la Roma popolare – ma nello stesso tempo ricomincia una storia
in cui troveremo questo popolo ma in una maniera nuova, che rinuncia alla sua stessa natura pre borghese.
 Ciò che era area erbosa, aperto spiazzo, e si fa cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch'è rancore 
vediamo come è stilisticamente avvertito Pasolini. Tutto rinasce bianco, splendente, come fosse positivo però
il decoro borghese di questo quartiere è associato a “rancore”  rancorosa sarà la borghesia e per forza sarà

201
sempre rancoroso quel popolo che ha rinunciato alla sua innocenza per farsi piccolo borghese (da questo
dipenderà il pianto del Pasolini del decennio successivo).
 Ciò che era selvaggio e innocente, i quartieri ingarbugliati delle borgate, è diventato isolato ma pieno di
ordine e decoro (aggettivi dei quartieri borghesi che vengono tirati su al posto delle borgate) ma è un ordine
che in verità è uno spento dolore.
le parole chiave in rima sono rancore e dolore.

Piange ciò che muta,


anche per farsi migliore. La luce
del futuro non cessa un solo istante

di ferirci: è qui, che brucia


in ogni nostro atto quotidiano,
angoscia anche nella fiducia

che ci dà vita, nell'impeto gobettiano


verso questi operai, che muti innalzano,
nel rione dell'altro fronte umano,

il loro rosso straccio di speranza.

 Piange ciò che muta, anche per farsi migliore.  anche se questa mutazione, non solo urbanistica ma anche
antropologica, porta un miglioramento economico e sociale, alla base di tutto ciò c’è l’elemento della perdita
e del dolore causato dalla perdita.
 La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci  è quella del boom economico. Questa ricchezza
provoca comunque delle ferite.
 Nell’avvenire, in questo futuro pieno di ricchezza rispetto alla povertà di questi quartieri popolari l’elemento di
speranza ideologica di Pasolini è l’impeto gobettiano che anima gli operai  Gobetti lo abbiamo evocato
parlando anche di Montale, fu uno dei più fermi avversari di Mussolini, prima ancora della marcia su Roma.
Gobetti morì in esilio a Parigi dopo i lunghi pestaggi fatti dai fascisti. Gobetti era nato come liberal socialista
ma nell’incontro con Gramsci sposò anche la causa gramsciana, quella della causa operaia. Il connubio
Gramsci – Gobetti fu il più temuto da Mussolini, infatti entrambi fecero una brutta fine.
L’impeto Gobettiano è quindi quello slancio di fiducia verso la classe operaia che rivede e spera di rivedere in
questa classe che agita il rosso straccio di speranza che richiama il fazzoletto rosso che gli operai portavano al
collo e che serviva a preparare quest’idea degli operai che hanno quest’ unica speranza di riscatto che è
legata a questo straccio rosso, all’impeto gobettiano. La speranza di Pasolini è che alla fine quel popolo
innocente possa almeno portare allo straccio di speranza, di cui si faranno parte attiva in causa questi stessi
operai che stanno distruggendo i loro stessi quartieri. Quindi sempre passione e ideologia, sempre una vena
elegiaca, malinconica unita però da uno straccio di speranza (che perderà alla fine del suo percorso).

Man mano che si va avanti, lo stile di Pasolini diventa più coraggiosamente prosastico e qui rinviamo all’ultimo
capitolo del libro della prof. Pasolini era già prosastico all’interno della sua raccolta “Trasumanar e Organizzar”, che
arriverà molto dopo la raccolta “le ceneri di Gramsci”. Qui siamo negli ultimi anni di Pasolini e il discorso si fa sempre
più apertamente prosastico e richiama i pochi che sente sodali nel mondo letterario. Uno dei lunghi e sostanziosi
poemetti di questa raccolta è il mondo salvato dai ragazzini, che richiama l’opera scritta da Elsa Morante, che era stata
la prima moglie di Moravia che scrive questo libro nel 68 in cui c’è lo straccio di speranza che viene lasciato alle
generazioni future, soprattutto a queste figure di fanciulli che sono sempre le più poetiche e cariche di speranza nei
romanzi e nei racconti della Morante e in questo c’è un connubio umano e ideologico tra Morante e Pasolini che viene
totalmente esplicitato in questa lettera d’amore indirizzata alla Morante che viene chiamata all’interno del poemetto
con il suo nome. C’è un legame molto forte che unirà Pasolini alla coppia Morante – Moravia: questo poemetto
prosastico, come lo sono la maggior parte delle poesie di Trasumanar e Organizzar, ne è una chiara esplicitazione.
Famosissimo è anche il “comunicato all’ansa”.
Ora la prof legge dei testi che non chiederà all’esame.
“Trasumanar e Organizzar”: notiamo che “trasumanare” è un verbo dantesco (andare oltre la dimensione umana)
associato in maniera ossimorica all’organizzare, che richiama ad un funzionamento della società e del mondo secondo
un ordine borghese e capitalistico. La prima poesia di questa sezione si chiama “Comunicato all’Ansa”  abbiamo una
prosa quasi giornalistica (negli ultimi anni di Pasolini la scrittura poetica e giornalistica diventano quasi un tutt’uno e

202
questo viene spiegato nel libro della prof).
Questo è un ipotetico comunicato all’agenzia di stampa nazionale.

Comunicato all’Ansa
Ho bevuto un bicchier d'acqua alle tre di notte
mentre Arezzo aveva l'aria di essere assolutamente indipendente.
Una volta decisa l'omissione dei principali doveri
(di poeta, di cittadino)
i miei versi saranno completamente pratici (benché io sappia bene che senza Dio la pratica è surrealistica)
Come dice Euripide: « La democrazia consiste
in queste semplici parole:
chi ha qualche utile consiglio da dare alla sua patria?»
Così, i miei consigli saranno di folle moderato.
Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza:
l'ambiguità importa fin che è vivo l'Ambiguo

Dopo la citazione di Euripide, troviamo il comunicato all’Ansa. Pasolini si auto dichiara un folle moderato, scegliendo
ancora una volta una sintesi ossimorica. Questo vivere nella contraddizione permanente, il cuore non solo dell’arte e
della poetica di Pasolini ma della vita stessa di Pasolini, è la sua ambiguità, essere sempre tutto e il contrario di tutto.
Questo da vita alla sua scomodità: non si può essere mai essere facilmente assimilabili ad una chiesa o ad un’altra e
questo Pasolini l’ha pagato a caro prezzo.
Gli scontri anche feroci con il suo partito il PC, causeranno il suo avvicinamento negli ultimi anni alle battaglie civili del
partito radicale: anche per questo è stato visto spesso come un eretico assoluto, anche da parte di quelli che in teoria,
almeno ideologicamente, gli era stato più vicino.

LEZIONE 27 - 20.05.21

DECOSTRUZIONE DELL’HOMO ITALICUS


– C’è una riflessione sul rapporto tra poesia e una idea nuova, diversa e controcorrente dell’italianità intesa non solo
in senso antropologico ma anche culturale, ideologico, politico: questa parte già da Pascoli.

– L'ultimo capitolo è dedicato alla forma dell'invettiva, forma poetica antichissima e usatissima già nella classicità, in
cui vi è una carrella di autori del secondo ‘900 che si sono serviti in vari modo di questa forma poetica.

Si comprende come il rapporto tra poesia e riflessioni storiche, ideologiche, morali e politiche sia presente in questi
poeti delle ultimissime generazioni in vari modi e in vari sensi, anche in coloro che apparentemente sembrerebbero
estranei a questa forma militante di poesia, a un’idea di invettiva politico-militare sull’italianità: basti pensare a
Montale, poeta apparentemente lontanissimo, sia prima che dopo la Seconda Guerra Mondiale, dall’idea militante di
poesia ma in realtà è militantissimo, come emerge nel componimento “Primavera Hitleriana” nel “La Bufera”, dove vi
è l’invettiva contro l’Italia e l’italianità, in cui non si sa chi, finito il fascismo, fosse veramente fascista ma che in realtà
tutti quanti, in un modo o nell’altro, anche semplicemente con il silenzio, sono colpevoli, nessuno è dunque
incolpevole. Vi erano altri poeti, come Pasolini, che negli ultimi decenni si sono serviti dell'invettiva come riflessione
fortissima, profonda sull’idea di una Italia contemporanea o di una Italia morale o immorale.

→ Dunque la poesia non è solo una lirica, soggettiva, che tocca facilmente l’emotività, la sensibilità, i sentimenti. Ma
anche la poesia che può sembrare tradizionalmente poetica, rispondente ad un’idea di poeticità (come Montale o
Saba), anche quelle forme anche cantabili di poesia, se sono voci forti che lasciano il segno, hanno sotto una
riflessione profondissima e lacerante sul mondo contemporaneo, su ciò che li circonda i poeti, su ciò che è diventato
un sogno che hanno visto infrangersi.

Questa è l’idea di poesia militante per la prof che non è concorde nel dire che la prima poetessa contemporanea che
viene ricordata è Alda Merini, perché non è solo quella di facile lettura degli ultimi anni, che toccava corde che ognuno
sentiva dentro di sé vibrare, come il sentimento, l'idea del poeta folle. La poesia che sembra troppo facile nasconde
una trappola: non dobbiamo lasciarsi trascinare da giudizi anche solo linguistici o metrici, specialmente per i poeti del
900, nonostante in apparenza possono sembrare semplici, musicali, cantabili. Ci sono poeti che bisogna saper leggere,
scavare, non fermarsi alla superficie, così si scopre tutto un universo di pensieri, di riflessioni, di stimoli che vengono
fuori ogni volta nuovi. E ci sono poeti che non rispondono all’idea di soggettività, di puro lirismo, di sentimenti sin dal
203
primo momento: come i poeti della prima avanguardia, Sanguineti, Pasolini controcorrente che vuole essere passione,
ideologica, contraddizione continua che interroga sé stesso e il lettore.

Quindi bisogna non lasciarsi trascinare da questa idea un po' ingenua e romantica di una poesia puramente emotiva,
sentimentale e soggettiva. Così si compie un passo fondamentale per riuscire a leggere criticamente e in autonomia gli
autori contemporanei.

Questo discorso vale anche per Pascoli (che apre questo libro), bisogna andare oltre i luoghi comuni. Per esempio
Luperini, da critico militante, fondato una idea di materialismo storico e gramsciano nel senso più puro del termine, ha
un'idea di Pascoli della poesia del piccolo borghese di inizio 900. Questa idea di un socialismo come qualcosa di
dolciastro, come facile chiave di uscita dai violentissimi scontri politici e sociali dell'Italia tra fine ‘800 e primo ‘900 che
finiscono nel nazionalismo e colonialismo della “grande proletaria si è mossa”.

→ È bello leggere il punto di vista dei critici militanti su scrittori e poeti, punto di vista anche contemporaneo e
ideologico. Ci deve essere lo studio dei testi ma poi ci deve essere anche l'interpretazione in cui il critico rende
significativo il leggere, il conosce uno scrittore o, nello specifico, un poeta lontano nel tempo. Però nell'interpretazione
militante c’è non solo la filologia, i testi nel loro contesto, ma anche la realtà storica così come cercavano di vederla
nel presente i grandi scrittori e i grandi intellettuali. È facile fare la predica più severa un secolo dopo, quando è chiara
la storia, era molto più difficile anche per intellettuali e i poeti più raffinati dire una parola definitiva e lucidissima sul
proprio presente storico e politico.

La chiave poetica di Pascoli era il tentativo di superare la lotta di classe e già Luperini dice esplicitamente nel suo
ultimo decennio di vita, in tantissimi scritti di prosa e di prosa militante, di aver superato la sua idea giovanile di
socialismo, di Marx e non crede che lo scontro fra le classi porterà a niente di buono: basti pensare a ciò che succede
nella fragile Italia appena unita in cui si trova Bava Beccaris, i vespri siciliani, le solfatare occupate, l'impresa coloniale
nel 1911… tutto ciò che avviene di sconvolgente tra gli anni 90 dell’800 e gli anni 10 nell’Italia fragilissima che si trova
a dover affrontare una sorta di guerra civile. Quindi la chiave di uscita di Pascoli è il recupero della matrice
risorgimentale, mazziniana e garibaldina fortissima, riprendendo coloro che hanno ispirato il Risorgimento, leggendoli
in maniera militante, per superare l’idea della lotta di classe. Il primo capitolo è una lettura più aperta su Pascoli che è
la porta di ingresso nella poesia del 900, quindi c’è un tentativo di capire senza troppi pregiudizi ideologici, partendo
dal suo punto di vista e dalla sua contemporaneità, che riflessione ha fatto Pascoli e se ha lasciato delle tracce
significative o meno. Nel 1900 c’è qualcosa di sconvolgente, c’è l'uccisione del Re Umberto I, succedevano cose
pazzesche, da una sorta di guerra civile, in una Italia fragilissima poiché nel 1911 l’Italia ha solo 50 anni di vita, non si
avevano tutti i territori, non si aveva neanche Roma nel 1861.

→ È dunque importante capire la profondità di certe riflessioni tenendo conto del momento storico e del punto di
vista, anche storico, degli scrittori che ne parlano, non con la saggezza e la lungimiranza di decenni dopo.

– Quindi per esempio l'idea d di Garboli, grandissimo autore, critico e lettore di Pascoli in cui c’è l'idea di un Pascoli
protofascista, ma non si può giudicare un autore che muore nel 1912 come protofascista. Nella “Grande Proletaria si è
mossa”, in cui Pascoli viene indicato come nazionalista e colonialista, ciò che interessa a Pascoli, al di là della visione
paternalistica, è il problema dell'emigrazione di massa: l'Italia si stava svuotando letteralmente tra fine 800 e primo
Novecento perché era una Italia poverissima, contadina che emigrava in tutta Europa e soprattutto oltreoceano, e
questo è una piaga che la politica non sapeva affrontare.

Quindi bisogna leggere i testi, anche più politici, rispettando innanzitutto la reale prospettiva politica in cui vengono
scritti.

– C’è Gozzano, poeta ironico, apparentemente giocoso, ma nella sua idea di poeta come malato, sopravvissuto e come
figura assolutamente anti-odissiaca Gozzano ha lasciato un segno profondissimo, duraturo ed è ripreso da tanti altri
poeti nel 900. Importante è anche il contesto storico: in Gozzano c’è il conformismo borghese dell’Italia giolittiana che
vede in D’Annunzio il poeta vate per eccellenza, la poesia della patria, della sacra famiglia su cui ironizzare
bonariamente.

– Campana dei “canti orfici”, un poeta, che al di là del mito del poeta folle, ha lasciato un segno profondissimo fino a
Caproni, alla poetica dell'orfismo della parola cara alla linea ermetica, ma è anche il poeta che fa pezzi l’idea di poesia
e di prosa poetica cara alla neoavanguardia e a Sanguineti che lo considera il primo vero grande poeta che rompe
204
tutte le leggi della poesia italiana tradizionale. Quindi nel primo capitolo emerge quanto, di prima mano (cosa non
ovvia per i poeti della prima metà del 900), Campana arrivi a ciò grazie ad una lettura originale di due grandi pensatori
e poeti come Nietzsche e Whitman. Importante è il contesto storico: Campana ha davanti la disillusione dell'orrore del
post anni della Prima Guerra Mondiale, tra anni 20 e 30, e anche la disillusione dei miti dell'Italia moderna e
dell'italianità che si afferma poi secondo un cliché fascista tra anni 20 e 30.

– Gobetti, scrittore, ideologo, critico di letteratura, arte e politica. È stato giovane genio che ha messo in guardia tutti
contro quello che stava per succedere negli anni 20 e che gli altri intellettuali non capivano. Gobetti morì
giovanissimo, ma ha visto tutto con una lucidità sconvolgente, non ha avuto tantissima fortuna nel secondo 900
perché lui, dopo essere stato un liberalsocialista secondo una ideologia liberale crociana unita a una influenza del
primo liberalismo socialista, per esempio dei Fratelli Rosselli, poi abbraccia con fiducia e con una speranza disperata
l'idea gramsciana del popolo che sovverte anche con la violenza un finto ordine borghese. Gobetti però capisce tanto
di quello che la poesia, molto strumentalizzata negli anni 20 e 30, poteva dire e magari soprattutto non sapeva e non
aveva voluto dire già nei primi anni del Fascismo. Gobetti è un ventenne ma ha la lungimiranza di pubblicare lo
sconosciuto Montale degli “Ossi di seppia” nel ’25. È un ragazzino che è riuscito ad avere una cultura pazzesca di
quello che stava succedendo negli anni 20, post Prima Guerra Mondiale, rispetto a tutti i piani della cultura italiana. Ha
avuto una lucidità nell'immaginare un nuovo Homo Italicus che però ha trovato tanti ostacoli anche nel secondo
dopoguerra perché era un liberalsocialista e quindi non facilmente assimilabile a una lettura militante marxista,
materialista in senso ortodosso per tanti decenni che lo ha visto come il fratello minore di Gramsci, schiacciandolo in
questa posizione di sudditanza totale. Gobetti è rimasto a lungo schiacciato da questo pregiudizio filo-gramsciano, ma
adesso finalmente si parla di liberalsocialismo come una chiave non minore di accesso a una nuova idea d'Italia già
partire degli anni 20.

– Montale già negli “Ossi di seppia” va letto non solo nella chiave esistenziale. Montale ha avuto una grande
lungimiranza negli anni 20. Gli “Ossi di seppia” escono nel ‘25 nel ’28, subito dopo l'inizio dell'ascesa al potere di
Mussolini che durerà 30 anni e Montale è stato uno dei pochi contro apertamente fin dal primo momento. Quindi per
la prof non è giusto leggere Montale solo in una chiave metafisico, esistenziale, pro-ermetica. Tanto che lui firma nel
25 il Manifesto degli Antifascisti promosso da Croce, in cui la parola non è più solo quella strettamente e unicamente
poetica dei poeti che non sono più quelli dannunziani e non è neanche un manifesto di una crisi esistenziale in un
senso astratto. Lui scrive in anni difficilissimi con una pienezza, una consapevolezza che pochi avevano negli anni ’20.
Quindi non è solo un Montale esistenzialista, non solo un Montale fuori dalla storia, non solo un Montale padre della
poesia pura dell’ermetismo, ma un Montale calato nella realtà storica e ideologica su cui riflettere sin da giovane. Ciò
emerge ancora di più ne ”La Bufera”, la quale è un prosimetro, c’è sia una parte in prosa che in poesia seppur limitata,
vista come un omaggio a Gobetti che è stato uno dei padri che ha reso possibile la fama di Montale. Ciò indica la
grandezza di Gobetti giovanissimo, coraggioso e intellettuale che paga con la vita il suo coraggio intellettuale e quindi
è ricordato, anche se sottotraccia, in tanti momenti. Montale è un grande fingitore, mescola le carte nelle sue
interviste, quindi il Montale vecchio alla fine si stufa delle domande su Gobetti, dà risposte limitative rispetto alla sua
stima enorme per Gobetti, infatti lascia delle tracce importanti in cui la figura di Gobetti viene riconosciuta come una
figura splendida. I nipoti di Gobetti sono gli antifascisti di giustizia, il partito d'azione di Parri, coloro a cui si trovava più
vicino Montale, ma che poi vengono messi da parte dall’Italia che dagli anni 50 in poi sceglie due grandi chiese, una
economica e l'altra culturale, così rimane schiacciata la tradizione liberal socialista, anche gobettiana.

LETTURE APERTE, POESIA SECONDO ‘900


● PENNA [Mengaldo pag 733]

– Visse in un contesto che risente delle influenze ermetiche e si avvicina già a tematiche di una soggettività
tormentata, di una soggettività in cui la passione omosessuale entra nella poesia italiana. Penna e Pasolini sono due
autori fondamentali perché hanno portato nella poesia alta la poesia di ispirazione ma in una Italia un po' bigotta.

– Penna riprendeva la forma epigrammatica classica, cioè una poesia di frammenti che veniva dalla poesia classica
soprattutto greca e che parlava di passione, di puro Eros che non ha confini, l’Eros che non deve essere per forza solo
tra uomo e donna, un eros libero come lo era nella poesia classica, che invece per noi è diventato un Eros scandaloso.

– Penna nasce nei primi anni del 900, scrive in un'Italia in cui la poesia, riprendendo forme della poesia classica, che
potesse parlare liberamente senza paure moralistiche di Eros, era qualcosa di scandaloso.
205
– Penna si trasferisce giovane, ventenne, a Roma e qui crea uno dei luoghi della poesia omoerotica più importante.
Nella Roma papale nasce una scuola di poeti che con grandi paure tirano fuori in maniera non troppo nascosta questa
poesia omoerotica, partendo da sé stesso Penna, o Pasolini, o Pecora, o Bellezza poeta scandalosissimo che a fine anni
’70 gridava apertamente le sue invettive omosessuali. Penna lascia un segno nella Roma della poesia del secondo
dopoguerra in cui questo filone della poesia, senza etichette moralistiche, mette radici.

– La sua poesia, riprendendo la forma epigrammatica classica, risultava affascinante anche in quella sua facilità che
lasciava un po' sgomenti soprattutto i giovani lettori di poesia.

– Nelle prime edizioni delle sue poesie, che escono già fine anni 30, lui scrive una poesia senza titolo:

Il mare è tutto azzurro. [Mengaldo pag 739]

Il mare è tutto calmo. Esprime la vitalità pura senza etichette

Nel cuore quasi un urlo

di gioia. E tutto è calmo.

– Distico più famoso di Penna, classico frammento che sembra venuto fuori dall’Antologia Palatina: [Meng
pag 741]

Poesia sublime nella forma, in cui vi è il vivere cullato, il vivere addormentato che è
una

Io vivere vorrei addormentato immagine in parte dolcissima, ma anche ossimorica: la vitalità addormentata, che
viene ripresa

entro il dolce rumore della vita. nel dolcissimo ossimoro del dolce rumore della vita. Il piacere della vita, che
attraversa tutta la

poesia di Penna, è unito alla dolcezza- rumore che richiama qualcosa di cacofonico,
che è il

rumore della vita, tutto il contrario di tutto.

– Pasolini invece vive con difficoltà la sua poesia erotica, lui è cattolico e comunista e questi non volevano sentire
parlare di poesia omoerotica. Penna scrive una poesia negli anni 50 in cui emerge la sua semplicità di un’idea di amore
per tutta la vita e in cui il puer, il fanciullo, era l'espressione di questa vitalità, di questo dolce rumore della vita. È un
frammento epigrammatico:

[Mengaldo pag 742]

E’ l'ora in cui si baciano i marmocchi la bellezza e la mentalità pura dei fanciulli vengono sentite come un senso
di colpa

assonnati sui caldi ginocchi. terribile nella poesia omoerotica. Lui si autodichiara, si autoflagella (tipica
anche di

Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi Pasolini) perché è cresciuto nell'Italia in cui la parola della poesia
omoerotica era

inutilmente. Io, mostro da niente. scandalosissima. La poesia omoerotica è una poesia che con grande
difficoltà salta

206
l'amore per l'amore senza etichette, per la vita e però c’è anche
un’autoflagellazione in

pubblico, vale sia per penna che per Pasolini. “io mostro da niente” perché la
pulsione

erotica verso i fanciulli (così anche in Pasolini) è vissuta come grande peccato e come grande
scandalo.

● CESARE PAVESE

– È uscito dal canone dei poeti che si studiano.

– C'è un problema con Pavese che ha toccato tanti poeti: la biografia non fa bene. Il mito del grande intellettuale che
si suicida

per amore, la versione banalizzata della sua biografia, non ha fatto bene. Per cui il poeta che finisce tragicamente e
misteriosamente suicida ha creato il mito Pavese, ma ha fatto leggere sempre un po' così con delle lenti banali la sua
poesia.

→ I MARI DEL SUD [Mengaldo pag 683]

Una poesia bellissima di Pavese è “I mari del sud” che va al di là della riflessione esistenziale.

– È stata scritta negli anni 30, quando è esplosa la poesia ermetica, quindi la poesia pura, esistenziale, del frammento,
epifanica, del non-detto. In questo contesto emerge un Pavese assolutamente controcorrente e ciò è visibili
banalmente anche dal fatto che è un poemetto lunghissimo che va contro l'idea della poesia pura, del frammento
tipica della poesia degli anni 30. Sotto questo punto di vista Pavese è interessantissimo perché è un uomo di cultura,
uno dei protagonisti tra fine guerra e dopoguerra, e crea una poesia controcorrente, una poesia narrativa lunghissima
del poemetto in cui usa un verso lunghissimo che va oltre l'endecasillabo, è un verso sciolto ma che usa bene anche i
suoni. Questo perché Pavese in piena autarchia fascista, in cui la cultura e letteratura doveva essere tutta italica (nel
senso anche un po' ridicolo), guarda oltre confine, fa conoscere la letteratura americana (è un traduttore della
letteratura e poesia americana insieme a Vittorini). Il verso lunghissimo è un verso narrativo-epico che deve molto alla
poesia di Whitman “foglie d'erba”.

– Nella sua poesia viene richiamata una geografia assolutamente altra rispetto a quella asfittica e italica, quindi contro
i mari, una geografia strettamente del reale. Infatti nella seconda stanza c’è <<tu che abiti a Torino>>: è uno dei grandi
interpreti culturali antifascisti della Torino di Gobetti e Gramsci. Ma apre non solo la sua poesia ma anche la sua
narrativa che guarda verso un orizzonte culturale molto più ampio rispetto a quello dell'Italia di quegli anni. Guarda
verso i mari del sud, verso l’oceano Pacifico, verso un altrove nel senso geografico e culturale vietato dai parametri
della poesia e della cultura italiana degli anni 30.

– C’è il richiamo al cetaceo alla fine di questo lunghissimo poemetto.

– Pavese è il traduttore di Moby Dick di Melville, cioè il romanzo più grande dell’800 americano che ha insegnato a
tantissimi scrittori, anche di questi giorni, a scrivere in modo diverso rispetto a quello era la nostra tradizione narrativa
italiana. Quindi i richiami i mari del sud, alla pesca, al cetaceo sono richiami al simbolo della caccia alla balena bianca
fatta dal mitico Acab, protagonista del grande romanzo di Melville, che Pavese traduce mirabilmente per l'Italia che
vietava l'apertura verso culture, letterature altre, tantomeno quella americana che era ben diversa dall’idea del nostro
Homo Italicus.

→ SEMPLICITA’ [Mengaldo pag 688]

207
– Qui c’è la poetica dell'uomo solo che è la sua trascrizione autobiografica ed è l'anafora che martella l'intero
componimento. L’io solitario può essere la forza ma anche la debolezza della poesia di Pavese. Per questo Mengaldo e
tanti storcono il naso davanti alla poesia di Pavese che rimane oggi molto bollata come la poesia di grandi amori e
passioni quando si ha 20 anni, ma che poi pian piano perde di smalto negli anni successivi, perché questa epica
gloriosa dell’io solitario crescendo si vede come è bella e molto affascinante da giovani, ma da adulti perde un po' di
bellezza.

– Pavese è un grande scrittore, intellettuale, uomo che ha vissuto il confino sulla sua pelle. È un mostro sacro, anche
se più si va avanti e più non è detto che lo rimanga (per la poesia e non per la narrativa o per il grande organizzatore
culturale della casa editrice Einaudi). Per Mengaldo già negli anni 70 la poesia di Pavese era una poesia che poteva
avere un respiro non così ampio come quello di altri poeti, perché lui la poetica dell’io può risultare stucchevole e
fastidiosa.

→ LO STEDDAZZU [Mengaldo pag 689]

– è un’altra poesia famosissima in cui c’è il richiamo ancora all’immaginario legato al mare come dimensione di libertà,
di un mare altro. Non è un caso che anche questa poesia inizi con “un uomo solo”: propone un’epica cioè c'è una
narrazione in cui c'è un’esaltazione forte dell’io solo, che è molto Whiitmaniana, che può diventare anche un limite
nella poesia di Pavese.

● GIOVANNI GIUDICE

È stato un grande poeta, anche per Mengaldo perché già negli anni 70 lo mette in primo piano.

La sua è una poetica che lascia il segno nella scrittura dell'io, però scrive una propria autobiografia superando l’epica
dell’io di Pavese, rovesciando. Scrive una autobiografia che lui chiama una sua “auto-biologia” in cui non c'è più l’io
solo, non c'è più l’epos dell’io, ma invece c'è una forte ironia e autoironia rispetto al proprio io e anche alla verità di un
io che si maschera di tante maschere necessariamente quando si racconta. È una poesia di ampio respiro, narrativa
ma narra sè stesso con tutta l'autoironia possibile e con tutta la consapevolezza delle maschere che l'io, che si
descrive, veste sempre in tutte le autobiografie.

Una delle poesie si intitola “Madame Bovary c’est moi”, citando Flaubert il quale diceva che è una delle maschere che
può vestire, quella di Flaubert non era una dichiarazione di romanticismo ma voleva dire che chiunque può vestire
qualsiasi maschera, basta saperla gestire e scriverla bene come scrittori. Questo vale anche per Giudici, quindi c’è la
fine dell’epos posto soggettività, dell’io lirico, dell’io solo che fa un’epica attorno a sé stesso, ma c’è e un auto-biologia
in cui la semplice scoperta, la natura dell'essere come essere umano che nasce, mangia, ama, fa figlia e muore, viene
spiattellata con un tocco ironico. Il superamento della poesia come poesia lirica e soggettiva è stata un'esperienza
molto importante per la vita di Giudice ma senza volerla rendere una vita esemplare, senza un io esemplare.

Il meccanismo dell'auto-biologia è un filone importante che accomuna tanti poeti, crea un territorio nuovo e
suggestivo nella poesia italiana, come per esempio Saba con il racconto familiare o Caproni con il racconto impossibile
della madre o della poesia in cui i figli si fanno padri del vecchio poeta.

● BERTOLUCCI

Anche Bertolucci fa parte del filone dell’auto-biologia, è protagonista di questa poesia narrativa che nasce già negli
anni 30.

Scrive una serie di raccolte in cui racconta la storia di tutta la sua famiglia, del rapporto con la propria autobiografia in
termini familiari, e ha anche un portato molto romagnolo, viene molto dall'Emilia Romagna da cui proviene Bertolucci.
C’è un retaggio molto pascoliano in Bertolucci, lui è profondamente investito dalla dimensione regionale in cui cresce,
e in cui Pascoli ha lasciato il segno (la Garfagnana).

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Bertolucci muore nel 2000, è una figura molto interessante perché ha influito molto sulla fortuna o sfortuna dei poeti.
Questo perché diventa molto presto il responsabile della “Guanda”, casa editrice di cui lui è tra i fondatori, in cui ha
tirato fuori il meglio di una nuova poesia italiana, già a partire dagli anni 40, quando parlare di una poesia nuova e
diversa da quella italica era stata un'impresa molto importante. Infatti non è un caso che Bertolucci sia stato un
grandissimo traduttore di poesia straniera e anche inglese, quindi è uno di quelli che ha fatto conoscere territori nuovi
che hanno rinnovato anche la poesia italiana dopo la chiusura autarchica degli anni 30. Bertolucci era stato un
grandissimo seminatore di poesia e di una nuova poesia. Si sposta a Roma nel secondo dopoguerra Roma e crea un
terreno fertilissimo per la poesia pasoliniana, di caproni. Crea una rete poetica che ha dato il meglio della poesia
italiana per gli anni 50 e 60, partendo da Roma che sapeva accogliere tante voci nuove e diverse.

● FRANCO FORTINI

E’ stato un poeta importantissimo, militante nudo e puro. ha creato delle divisioni ideologiche e letterarie fortissime, è
stato uno dei fondatori della rivista di Siena “L’ospite ingrato” ancora esistente ed è sempre andato contro tutto e
tutti. Poeta molto colto e grande traduttore della letteratura e teatro tedesco, ha fatto di tutto per far conoscere nel
panorama italiano Bertolt Brecht, all’inizio sostenitore della poesia invettivante pasoliniana per poi rompere con tutti i
poeti, compresi quelli usati come modelli all’inizio della sua carriera. La sua è una poesia fortemente intellettuale,
controcorrente rispetto alla poesia soggettiva, egli

afferma che “bisogna avvelenare i pozzi” e cioè fingere di rimanere nei canoni leggibili della poesia borghese e
tradizionale per avvelenare quegli stessi serbatoi tematici consueti, asfaltandoli. Vuole abbattere quella poesia
falsificatrice che ritiene un errore (POESIA è ERRORE)(E congiunzione e verbo). In lui c’è una dimensione politica
fortemente critica verso il perbenismo e conformismo borghese e di tutta l’Italia piccolo borghese, che viene da una
MATRICE fortemente religiosa VALDESE che più di altri credi è legata ad un’idea di moralità, di analisi e
consapevolezza interiore, prescinde dall’idea di peccato-confessione-assoluzione e diviene invece una costante la
severità verso se stessi, il tutto inserito in un’idea di collettività e comunità....SEMPRE VIVERE E AGIRE. Conoscere tale
componente è importante per capire l’autore. Fortini è uno di quelli che crederà nei giovani in rivoluzione, spazza via
anche i rigidi dettami del partito comunista, crede nella rivoluzione che capovolgerà l’idea di politica (giovani del 68’).
la poesia è errore, non crede nella forza della poesia di poter cambiare il mondo ma e’ comunque fondamentale
continuare a scrivere, la poesia è necessaria .

● GIOVANNI RABONI

Fa parte della linea lombarda, milanesissimo quanti altri mai, fondamentale anche lui come traduttore, poeta
assolutamente militante (tipico di tutto il contesto lombardo) e supera come i precedenti poeti citati qualsiasi idea di
soggettivismo, lirismo e poesia pura. Bersaglio della sua invettiva politica sarà Berlusconi a partire dal 94’.

● AMELIA ROSSELLI

Poetessa contemporanea morta suicida nel 96, è stata lei ad aprire il discorso poetico al femminile e cresce sempre
più nella tradizione del 900 occupando ormai un posto di primo piano. Produzione poetica complessa e non facile da
leggere

In realtà le poetesse del secondo 900 che scrivono senza etichette sono numerose ed è importante conoscerle, tra i
nomi più noti abbiamo: Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga e Mariangela Gualtieri.

MARIANGELA GUALTIERI - poesia dell’io mondo

Non è presente all’interno dell’antologia del Mengaldo poiché nasce come scrittrice di teatro, ha fondato uno dei
teatri più importanti, innovativi e interessanti della contemporaneità italiana che è il teatro “Valdoca” fondato negli
anni 90 con la collaborazione del regista Cesare Ronconi (una delle esperienze più belle del 900). I suoi versi dato la
tradizione teatrale da cui proveniva diventano sempre più una specie di “teatro in versi”. La sua è una poesia che parla

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di un noi in cui però l’umano non ha un posto preferenziale, l’io non è l’alfa e l’omega di tutto, è riuscita a scardinare
l’idea di antropocentrismo e la poesia è diventata una POESIA DELL’IO TUTTO. Questo è un discorso che è stato
animato in tutto il mondo specialmente da poetesse basti pensare alla Gluck (premio Nobel nel 20’) che sul fronte
americano ha fatto qualcosa di molto simile, ha creato una POESIA MONDO, POESIA VITA. Un componimento molto
interessante della Gualtieri è “Bestia di gioia” che Einaudi sceglie come copertina:

Ciò che non muta


io canto la nuvola la cima il gambo
l'offerta il dono la rovina
apparente d'acqua che tracima
di tempesta e di onde.
Io canto il semplice del grano
e del pane la stessa festa che si tiene
fra le rose a maggio, la corsa
della rondine e il coraggio dell'animale nella tana
quando gli esce il nato fra le zampe.

● VALERIO MAGRELLI

Poeta romano ancora in vita laureato in filosofia, docente all’università e traduttore soprattutto dei complessi autori
francesi fortemente intellettuali come Mallarmè. Da giovanissmio porta a termine una raccolta poetica che lo rende
subito un enfant prodige, la sua fu una poesia tutt’altro che ingenua e lirica acquisisce sin da subito un’intonazione
civile, sociale e politica nel sogno di un’autentica ortopedia civica. vive nella realtà storica egli anni 90 caratterizzati dal
crollo miserando della prima repubblica e dalla figura di Berlusconi. SOFISTICATISSIMO, DIVIENE UN POETA
D’ATTACCO IN TUTTI I SENSI, APERTAMENTE MILITANTE E FUSTIGATRICE. SFERZANTE E BRECHTIANO.

Compone una poesia allo stesso tempo terribile e stupends dopo uno degli eventi più terribili degli ultimi anni e cioè la
morte degli operai della Tysshenkrupp bruciati vivi in diretta in un altoforno intitolata “Per i senza parola”.

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