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Il Barocco di Montanari

Storia dell'Arte Moderna


Università degli Studi di Siena
24 pag.

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IL BAROCCO. MONTANARI

I. Conoscere il Barocco
Cosa vuol dire “barocco”?
Sono due le possibili origini, entrambe relative al campo semantico del bizzarro e dell’irregolare:
-con l’avvento della cultura umanistica, e fino al 700, barocco era sinonimo di ragionamento
capzioso.
-in Francia l’aggettivo baroque (fin dal 500) baroque designa perle di forma irregolare.
Esiste una terza improbabile etimologia:
-nel toscano del 300, barocco indica una forma di usura tanto popolare da dover essere
stigmatizzata già nelle prediche di san Bernardino da Siena.
Nel 700 francese, baroque entrò rapidamente nel lessico comune riferendosi a tutto ciò che è
irregolare e dotato di una sfumatura di bizzarria.

1788: Il Dictionnaire d’architecture di De Quincy trasformò l’aggettivo in sostantivo;


1797: La censura neoclassica di Francesco Milizia inaugurò in modo negativo la parola “barocco”
e la paragona all’eccesso del ridicolo;
1855: Burckhardt usò il termine non solo per l’architettura, ma per tutto lo stile del Seicento.
Se dapprima, con la storiografia tedesca, si parla di Barocco come “nome di battesimo di un
bambino brutto e di uno stile goffo” (Kurz), successivamente con Burckhardt il Barocco assume
nuova dignità stilistica.
Questo perché Kurz parlava alla luce di influenze più neoclassiche, mentre l’800 di Burckhardt apre
la strada al riscatto del barocco.

Il riscatto del barocco avviene essenzialmente grazie a 3 libri:


1)Adolfo Venturi pubblicò la Galleria Estense (1883), storia della collezione modenese in cui
Bernini e il Barocco giocavano un ruolo positivo;
2)Wolflinn stampò il saggio Rinascimento e Barocco (1888) in cui le due categorie tendenzialmente
astoriche sono definite su base meramente formale;
3) Il Piacere di D’Annunzio, in cui il protagonista Andrea Sperelli, avrebbe voluto scrivere un libro
sul Bernini, raggruppando intorno a ‘quest’uomo straordinario’ non solo tutta l’arte ma anche tutto
il Seicento nella sua complessità

Nel 1900, Fraschetti (allievo del Venturi) pubblicò Il Bernini;


Nel 1910, Roberto Longhi (con la sua tesi di laurea) intraprese un’opera di rivalutazione del
Caravaggio, che gli appariva come l’iniziatore della pittura moderna (allora Caravaggio era ancora
misconosciuto)
Nel 1929, Benedetto Croce scrisse Storia dell’età Barocca in Italia e ribadiva l’antico giudizio
negativo sulla decadenza barocca;
Nel 1931, Eugeni d’Ors vede nel Barocco un eone, cioè un’entità astratta e metastorica che si
opporrebbe e alternerebbe al “classico” conoscendo più di 20 reincarnazioni (dal barocco gotico a
quello buddista).
Nel 1935, d’Ors pubblicò un libro con la tesi filosofa e letteraria, non storica o artistica.
Oggi la sua idea è molto popolare, portando qualcuno a parlare di neobarocco contemporaneo.

I confini del Barocco.


Nel 1950, Giuliano Briganti (allievo di Roberto Longhi) scrisse un articolo Barocco, strana parola.
L’età barocca per lui appariva come una vicenda storica mal definita con un inizio che poteva essere
il 1630, il 1580 o il 1520.
Nelle sua edizione tedesca, questa vicenda va divisa in barocco severo, maturo e tardo.

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Briganti pubblicherà negli anni ’60 ‘Pietro da Cortona, o della pittura barocca’.

Nel 1950 Rudolf Wittkower scrive la storia dell’arte in Italia nell’età barocca che pubblicherà nel
1958 con il titolo Arte e architettura in Italia 1600-1750.
Il libro incomincia con le tendenze antimanieristiche che scorsero verso la fine del XVI secolo in
vari centri italiani, e il sipario cala sulla scena barocca in luoghi diversi e in decenni diversi
(comunque intorno al 1750).
Inoltre Wittkower stesso specifica che i termini in cui è diviso il periodo (primo barocco, barocco
maturo e tardobarocco) abbiano valore essenzialmente organizzativo più che concreto (riferimenti
indicativi dei passaggi graduali).

La differenza tra le due impostazioni è che Wittkower pensava di definire “barocca” l’intera arte
italiana tra il 1600 e il 1750, mentre Briganti proponeva di definire “barocca” solo l’arte fiorita a
Roma intorno al 1630 per merito di Cortona, Bernini e Borromini, e di estendere questa definizione
anche alle sue conseguenze molto più tarde.
Se leggessimo oggi quei due libri non ci apparirebbero differenti, dato che entrambi si fondano su
un rapporto diretto con le opere d’arte.
Si può osservare però che la scelta di Wittkower è legittima (cioè è ancora difendibile l’idea di
chiamare barocca tutta l’arte italiana tra il 1600 e il 1750: se non altro per mancanza di alternative
credibili), mentre quella di Briganti sembra essere oggi la più utile, a patto di operare alcuni
aggiustamenti.
Il primo riguarda l’aspetto cronologico.
Per lui il Barocco cominciava nel 1630 con le opere del Cortona.
Già nel 1617, però, il Bernini era operativo (San Sebastiano) e non possiamo dimenticarci di
Rubens che nel 1605 soggiornava a Roma e nemmeno del ruolo di Caravaggio e Annibale Carracci,
entrambi allora a Roma e in piena attività.
Secondo Briganti, 2 sono gli aspetti fondamentali del 600:
-uno rivolto al futuro (rivoluzionario): Caravaggio che è visto come il padre del moderno
-l’altro intento al presente (conservatore): Bernini e Pietro da Cortona
Questo però conduce all’esito paradossale di privare Caravaggio del suo ruolo nel presente; mentre
è negato il contributo di Bernini e Cortona al moderno.

Il Barocco cominciò con l’affermazione di Caravaggio e Annibale Carracci, le cui opere simbolo
sono la Galleria Farnese e la cappella Contarelli (siamo intorno al 1600).
Ci vorranno altri 25 anni per far sì che il Barocco diventi uno stile condiviso
Nonostante ciò, nelle opere della maturità di Caravaggio e Caracci sono già presenti molte
innovazioni e caratteristiche di stile e contenuti che Rubens, Bernini e il Cortona faranno deflagrare
successivamente.
Non vi è un passaggio graduale dal Manierismo del 1500 al Barocco del 1600, ma uno strappo
netto, una presa di distanza dal manierismo precedente.

Le Vite di Bellori, ovvero la storia di quella quarta età dell’arte italiana che Giorgio Vasari stesso
aveva profetizzato già nel 1568, furono pubblicate nel 1672.
-La prima età risale a Cimabue e a Giotto, che hanno fatto rinascere l’arte dopo la lunga parentesi
medioevale seguita dalla caduta dell’Impero romano.
-La seconda età è iniziata con Brunelleschi, Donatello e Masaccio e ha avuto una notevole crescita
che, però, solo con
-la terza età, aperta da Leonardo, maturata da Raffaello e culminata da Michelangelo, avrebbe
conquistato la perfezione suprema (superiore a quella che le arti figurative avevano raggiunto
nell’antichità).
-Dalla quarta età (il 600), vanno esclusi Rubens, che è nelle Fiandre, e Federico Barocci, che è a
Urbino (non possono quindi avere un ruolo decisivo a Roma).

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A Roma vi si troveranno dapprima Giuseppe Cesari (il Cavalier d’Arpino), ultimo manierista, a
confronto con Caravaggio e la sua estrema rivoluzione naturalista.
Giungerà anche Annibale Carracci, nuovo Raffaello, per l’altezza dell’opera e per la fecondità della
sua scuola.

Nelle Vite il Bellori utilizza la suddivisione tradizionale del Seicento in Manieristi, Caravaggeschi e
Carracceschi, ma in modo innovativo cioè inquadrandola in una prospettiva di evoluzione storica.
Pone a confronto 600 e 500: Annibale è il nuovo Raffaello, Barocci e Lanfranco sono, in modi
diversi, 2 nuovi Correggio, Caravaggio è un Giorgione, Van Dyck un Tiziano.

Nella visione di Bellori sono fondamentali la centralità di Roma e l’apertura europea.


Una delle caratteristiche del Barocco, infatti, è l’unità di stile riscontrabile nelle opere di artisti
diversi per provenienza (italiana o europea), età e storia personale, ma che sono attivi a Roma dopo
il 1625.

Ma come, quanto e quando questo stile si diffuse?


Se si può parlare di un’Italia (o di un’Europa) barocca non bisogna alludere a tutta la produzione
artistica di questo periodo, ma solo a quella che parla la lingua elaborata a Roma.
Facciamo un esempio: la fiorentina cappella dei Principi (1604) non ha nulla a che fare con
l’architettura e la scultura barocca.
Essa è infatti manierista, ma a causa dell’utilizzo di materiali preziosi ha avuto una lunga crescita
“fuori tempo”.
Tuttavia, è talmente diffuso l’uso di barocco come sinonimo di seicentesco che è usuale vedere
impiegate fotografie e menzioni della cappella per illustrare la Firenze barocca.
Non si può parlare di Italia o Europa barocca alludendo a una condizione poligenetica, ma solo alla
diffusione monogenetica di un’arte figurativa che si sviluppa a Roma a partire dal 1600.
Questo stile si diffuse grazie ai continui viaggi degli artisti, alla circolazione delle opere e della
grafica e ad altri fenomeni storicamente accertabili, almeno in parte.

Altra problematica è definire la data della fine del Barocco e della sua trasformazione nel Rococò.
Non ci fu una vera e propria data della fine di questo periodo e quindi, per convenienza, si
utilizzano le morti di Pietro da Cortona (1669), Bernini (1680) e Guarino Guarini (1683) per
segnare la fine del secolo breve del Barocco romano.
Da questo momento in poi si apre una fase nuova, in cui le tendenze formali e il rapporto col
repertorio esistente ricordano molto quelli del Manierismo nei confronti del Rinascimento.
Soffermiamoci sulla Cappella di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù a Roma (52), progettata da
Andrea Pozzo alla fine del 600 e decorata dai migliori scultori del momento.
Nonostante siamo nel cuore della Roma di Bernini e a soli 15 anni dalla sua morte è possibile
avvertire un’involuzione: anche se la lingua e il repertorio sono sostanzialmente immutati, mancano
la tensione narrativa e l’unità quasi organica che animava le cappelle di Bernini.
Tutto appare slegato, affidato a un senso decorativo e attento alla preziosità dei materiali.
Si rompe poi quel legame con l’arte del primo Rinascimento che era rimasto saldo dal primo
Annibale Carracci all’ultimo Bernini, e sopraggiunge un diverso senso del colore e della forma.
Questa irreversibile tensione decorativa apre il 700.
Se con Barocco intendiamo la linea portante dell’arte romana, il 700 aprirà una vicenda
che vedrà Venezia e poi Parigi affiancare e sostituire Roma per quanto riguarda lo sviluppo
artistico.
Quindi con il 700 si esce dalla quarta età belloriana-vasariana e si entra in qualcosa di diverso.

Nel 1924 Schlosser, fondatore della storia della critica d’arte come disciplina scientifica, identificò
in Bellori il capostipite di quell’opinione classicista del Settecento, che trova per l’arte dei propri
avi il concetto e l’epiteto parallelo di “barocco”.

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Quest’ultimo scrisse Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto scelta dalle bellezze naturali
superiore alla natura in cui avrebbe portato a maturazione un sistema estetico complesso a cui si
sarebbe attenuto nella valutazione degli artisti.
Bellori vede l’arte a lui contemporanea nei termini di un dualismo che ricorda l’antitesi tra Classico
e Barocco, che servì non solo ad ordinare le idee, ma anche gli artisti del Seicento.
Così ai barocchi Bernini, Cortona, Borromini si contrapposero i classicisti Poussin, Duquesnoy,
Sacchi, Algardi e poi Maratti.
Ci furono, però, parecchie obiezioni contro l’idea di usare il “classicismo” per differenziare gli
artisti del Seicento e si arrivò a conclusione che esso non era adatto a far emergere le differenze. Le
distinzioni possono avvenire, infatti, esclusivamente sulla base dello studio, più profondo possibile,
delle singole opere dei singoli autori.

II. Interpretare il Barocco

Una lettura del Barocco.


Nel 1651 fu aperta al pubblico la Capella Cornaro del Bernini (30).
Qui Bernini può controllare e connotare anche materialmente lo spazio che circonda la statua di
Santa Teresa trafitta dall’angelo.
La varietà dei marmi e degli stucchi e la luce controllata che scende dall’alto trasfigurano lo spazio
reale della cappella (quello in cui si muove lo spettatore) e lo rendono una cornice credibile per la
visione a mezz’aria.
Bernini struttura l’illusione in più livelli per includere i ritratti dei membri della famiglia Cornaro:
i cardinali, per quanto vissuti in epoche diverse, non vengono raffigurati isolati e singolarmente, ma
come marmorei spettatori del miracolo.
Si ha una comunicazione intermedia tra la realtà e la trascendenza.

Il carattere del Barocco sta nel superamento dei limiti.


L’obbiettivo è quello di abbattere i confini tra lo spazio fisico e psicologico della realtà e lo spazio
dell’arte.
I sensi (specialmente la vista), la mente e l’anima di chi guarda sono il vero teatro a cui ambisce
l’artista, che vuole convincere lo spettatore fino a creare un’illusione perfetta.
Il recupero e il rilancio del rapporto con lo spettatore (su cui si fonda l’arte barocca) è tra i sintomi
più evidenti di un ritorno al Rinascimento.
Nel periodo manierista gli artisti puntavano all’ammirazione estetica, mentre il Barocco punta alla
partecipazione emotiva.

Nella Madonna dei Pellegrini (2), Caravaggio trasforma la pala d’altare nella porta di casa della
Vergine, che esce incontro ai pellegrini ma anche a noi fedeli.
La Vergine è la porta che mette in contatto il Cielo e la Terra, il divino e l’umano.
Il naturalismo è messo al servizio di una narrazione illusionista: guardando il quadro si ha la
sensazione che la Vergine esca anche per me.
Il trionfo della vista e dei sensi veicola un significato esperibile attraverso le emozioni ancor prima
che attraverso l’intelletto.
Molti storici dell’arte non definiscono questo quadro barocco, anche se contiene tutti gli elementi
che il secolo successivo svilupperà.
Caravaggio:
-confonde i piani di realtà e illusione
-mescola la storia sacra con il ritratto e la visione con il naturale
-si appella ai sentimenti dello spettatore per raggiungere la mente.
Questo si vede anche nella Divina Provvidenza del Cortona a Palazzo Barberini (18) e nella Trinità
di Luca Giordano (51).

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È molto difficile rintracciare una base teorica per tutto questo nella letteratura artistica del tempo
proprio perché il Barocco non ebbe una teoria ufficiale.
Forse per colmare questa lacuna è nata la teoria del “bel composto”.
Il superamento delle regole e l’abbattimento dei confini tra le arti (caratteristica del Barocco) sono
ben presenti anche ai contemporanei.
Baldinucci, nella sua biografia sul Bernini, attribuisce il merito della teoria del bel composto a
Bernini perche è stato il primo che ha tentato di unire architettura, scultura e pittura, in tal modo che
di tutte si facesse un bel composto.
Ha vinto la regola (nel senso di legge formale, standard mediocre) senza mai violare le buone
regole, cioè senza violare i canoni classici dell’architettura.
Secondo Vasari nel 400 è mancata la licenza della regola e sostiene che il superamento della regola
lo ritroviamo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo di Michelangelo, che è una fusione di
architettura e scultura.
Bellori, nell’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto, aveva attaccato chi tira fuori dalla
propria testa una nuova idea e “larva l’architettura a sua modo”, sfidando le regole classiche con un
nuovo vocabolario.
Baldinucci risponde al Bellori sostenendo che Bernini è riuscito a fondere l’innovazione con il
rispetto delle buone regole.
Quando Baldinucci attribuisce il merito della teoria del bel composto a Bernini vuole dire che
Bernini ha avuto una concezione pittorica e scultorea del linguaggio architettonico e che le sue
facciate, le sue piazza, le sue chiese (se pur radicate nella tradizione classica e rinascimentale) sono
concepite come grandi composizioni di luce e di ombra, di masse e di vuoti.
Quindi non si allude alla fusione materiale di architettura, pittura e scultura in un’unica opera, né
alla perfetta padronanza delle 3 arti, ma al carattere scultoreo e pittorico dell’architettura
berniniana, e più in generale di quella barocca.
Un’architettura che, proprio come la pittura e la scultura, avvolge lo spettatore e lo conquista
attraverso l’illusione di vitalità, movimento e luce.

L’eredità del Barocco.


Qual è il contributo del Barocco (intenso in senso romano ed europeo) alla cultura figurativa
moderna?
La République des Lettres del XVIII secolo era ancora affetta dall’antico pregiudizio che
etichettava le arti figurative tra le attività meccaniche.
Non era nemmeno pensabile che la storia dell’arte moderna potesse essere affiancata dalla filologia,
all’antiquaria, alla storia o alla letteratura: solo tra ‘800 e ‘900 essa sarà riconosciuta dalle
università come disciplina scientifica.

Da Carracci in poi l’arte assume una dignità intellettuale.


Anche nelle Vite del Bellori, il ruolo dell’artista è parificato a quello dell’intellettuale e, al tempo
stesso, è condannato l’artista che vive troppo intento tra le corti e fa il cortigiano astutamente.
La consapevolezza del Bellori era possibile solo grazie al riconoscimento sociale e intellettuale che
Bernini aveva ottenuto per sé e per la sua arte e che intorno al 1660 giunse agli apici.
Prima di Bernini, solo Raffaello e Michelangelo avevano avuto un tale prestigio, ma Raffaello non
ebbe il tempo e Michelangelo non ebbe il carattere di cavalcarlo come fece Bernini, che ottenne una
fama smisurata.

Bernini riuscì a diffondere ammirazione per ogni singolo prodotto, non importava quanto piccolo
fosse, l’importante era la sua mano.
Lui stesso dichiarò di essere riuscito a vincere la difficoltà di rendere il marmo pieghevole come la
cera e i sassi così ubbidienti alla mano come se fossero fatti di pasta.

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Il suo obiettivo era, infatti, quello di diminuire le distanze tra i bozzetti e l’opera compiuta,
cercando di trasmettere nel marmo la morbidezza e la modellabilità della creta.
L’impostazione sociale e intellettuale della cultura figurativa comportava un’apertura ai valori
propri della società degli artisti, in un progressivo abbattimento delle barriere. Ma quali potevano
essere le conseguenze? Una delle più interessanti è la nascita della caricatura.
Essa era già in voga nel Medioevo, ma il primo ad utilizzare il termine moderno di caricatura fu
Bernini che ha eseguito molti di questi ritratti satirici immortalando personaggi più o meno noti.
Proprio per il ruolo sociale e di potere rivestito dai suoi soggetti, Bernini gioca più sugli attributi
professionali che su quelli fisici: i capelli fatti crescere da un abate sotto la tonsura alludono
inequivocabilmente alla doppiezza morale di alcuni personaggi della Curia, come le grandi mani
rapaci attribuite ad un prelato ci suggeriscono facilmente avidità e maestria nel ricoprire il ruolo di
maneggione (termine, giunto con caratteristiche dispregiative fino a noi, che si dava agli abili
portaborse dei cardinali era quello che nella Roma del '600)
Bernini si è dedicato alla caricatura probabilmente già dall'età giovanile, ispirandosi ai ritratti
umoristici del Guercino o di Carracci: una delle più antiche è quella che ritrae il cardinale Scipione
Borghese, datata 1633. Rispetto all'illustre ispirazione, Gian Lorenzo mostra una componente
sociale più acuta, sagace e sottile, oltre alla predilezione per soggetti conosciuti nell'alta società
Romana. Rispetto ai "ritratti carichi " del passato, che spesso sceglievano contadini deformi o rozzi
villani, è evidente che le caricature berniniane sono un prodotto d'élite, realizzate come
divertimento per quella stessa classe che in esse viene ridicolizzata, ma più con intento di divertire
e intrattenere che di criticare e condannare. Pare che alcune di esse fossero state addirittura
espressamente richieste da committenti colti e disincantati che avevano colto tutto il potere
espressivo di questa nuova tecnica. Prendiamo ad esempio due delle sue caricature più riuscite:
quelle dal cardinale Antonio Barberini e del Cardinale Chigi "quando era giovane". Anche in quei
pochi tratti di inchiostro i due personaggi mantengono tutta la loro nobile, altezzosa alterigia, quasi
schiacciati dal peso di fluenti e sovradimensionate capigliature.
Nel diario di viaggio di Bernini in Francia (1665) si apprende che " se i cortigiani continueranno ad
interrompere le sedute di posa per il busto al re, distogliendolo con questioni futili che avrebbero
potuto porgli in qualsiasi altro momento della giornata, sarò costretto a fare “qualche caricatura".
Bernini dovette spiegare il significato del termine al suo accompagnatore, cavaliere di Chantelou,
dato che in Francia sia la parola che la forma d'arte in questione erano sconosciute. In questo caso
Bernini allude di certo a ritratti non per ridere insieme al modello ma alle spalle di esso, in
un'accezione forse più simile al nostro concetto contemporaneo di caricatura.
Com'è noto Bernini in Francia la pazienza la perse veramente e tutto il suo astio si riversò sul
ministro delle finanze Colbert, considerato dall'artista il sabotatore del suo progetto artistico agli
occhi del Re Sole e definito nei suoi diari un vero coglione privo di gusto per l'arte. Quasi
sicuramente la caricatura del cavalier francese ritrae il famigerato ministro e la mancanza degli
occhi alluderebbe certamente alla mancanza di gusto per l'arte figurativa.
Anche l'ultima caricatura di Bernini è un ritratto senza pubblico, che probabilmente non ha mai
lasciato il suo studio: rappresenta addirittura Benedetto Odescalchi, eletto papa con il nome di
Innocenzo XI quattro anni prima della morte di Bernini.
Bigotto, tirchio e insensibile all'arte, non si servì dell'arte dell'anziano cavalier Bernini, ormai di
fatto scultore e architetto ufficiale della Santa Sede, se non per velare la nudità della Libertà sulla
tomba di Alessandro VII appena conclusa in San Pietro. Quando il papa ordina un'indagine sulla
solidità della cupola di San Pietro a causa dei lavori svolti da Bernini sulla crociera ai tempi di
Urbano VIII, la misura è colma: l'artista lo ritrae nel letto, dove usualmente dava udienza a causa
del suo stato malaticcio, con le sembianze non umane ma di qualche insetto travestito da persona,
con i cuscini al posto delle ali e la mitria al posto delle antenne. (Irving Lavin)
Nel 1934 viene pubblicato Che cos'è il barocco? di Erwin Panofsky, uno dei testi più autorevoli e
ancora attualissimi sull'argomento: l'autore si sofferma sulle caricature di Bernini sostenendo che il
barocco è l'unica fase della civiltà rinascimentale in cui i conflitti che la agitano non vengono
superati rimuovendoli, come nel classicismo, ma prendendone coscienza e trasformandoli in

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un'energia emozionale soggettiva con tutte le conseguenze che la soggettivizzazione comporta: è
l'inizio di un periodo che potremmo definire moderno con la "m" maiuscola.

III. I protagonisti
Rifondare la tradizione: Annibale Carracci e Caravaggio.
Il Barocco ha come ruolo privilegiato Roma.
Il motore per il suo sviluppo è la ricchezza dei cardinali.
I due principali esponenti del Barocco erano Annibale Carracci e Caravaggio (Michelangelo
Merisi).

Nel 1602, Rubens visita a Roma la Chiesa di Santa Maria del Popolo, per vedere la cappella Cerasi
(tesoriere papale), in cui era collocata l’Assunta di Annibale Caracci (pag.35).
A confronto con esse, le pale d’altare degli artisti di grido in quel periodo sembravano appassite di
colpo, eclissate.
L’Assunta di Annibale gli avrà ricordato quella di Tiziano (conservata a Venezia) che egli aveva
visto qualche mese prima: vi era lo stesso modo di macchiare d’ombra i volti degli apostoli, la
stessa energia vitale, lo stesso trionfo di colori.
Qualcosa, però, era diverso: in Annibale la luce era più fredda e il golfo di sole attorno alla testa
della Vergine non la consumava, ma la ritagliava facendola spiccare come una porcellana.
Rubens notò altri particolari che in Tiziano non c’erano: una costruzione di corpi intrecciati e i gesti
parlanti degli apostoli, eloquenti come filosofi intenti in una disputa.
Tutto questo, invece, gli avrà fatto venire in mente Raffaello, che nelle Stanze Vaticane (a Roma)
aveva resuscitato l’antico.
Annibale sapeva tenere insieme Tiziano e Raffaello, aggiungendovi un senso di moto del tutto
nuovo e personale.
Nella cappella, all’Assunta di Annibale si aggiungono le tele di Carvaggio nel vestibolo (la
Crocifissione di Pietro e la Conversione di Saulo pag.36/37):
-tutto clamore, moto e luce in Annibale
-tutto silenzio, immobilità e buio in Caravaggio.
In esse, la pittura annulla il tempo per esaltare lo spazio.
L’azione è bloccata, come in un fotogramma.
Nella prima tela, i carnefici sono bloccati nello sforzo di sollevare la croce, sotto il peso del corpo
di Pietro.
Nella seconda tela, Saulo è bloccato a terra e illuminato da una visione che Caravaggio non sa
mostrarci perché tutta mentale e privata.
Rubens capì che Annibale e Caravaggio stavano dialogando davvero.
Egli vide come entrambi si fossero preoccupati di far saltare le loro figure fuori dalla tela, di farle
sembrare tridimensionali grazie alla luce e di farle vivere nella coscienza dello spettatore.
Per far questo, i due artisti hanno tenuto anche conto degli spazi fisici in cui le opere sarebbero state
collocate, e dunque le loro condizioni di visibilità, il loro contesto, la loro funzione.

Caravaggio e Annibale, futuri padri del Barocco, arrivarono a Roma in anni non molto lontani
(Caravaggio nel 1592-93 e Annibale nel 1595), ma con prospettive completamente diverse: il primo
come pittore anonimo e sconosciuto in cerca di fortuna, mentre il secondo come un artista già
affermato e invitato a lavorare presso un cardinale illustre.
Annibale portò l’esperienza della sua famiglia a Roma e, dopo aver affrontato una serie di viaggi
nelle capitali artistiche dell’Italia del Nord (Parma, Venezia e Piacenza), egli aveva fondato insieme
al fratello Agostino e al cugino Ludovico un’accademia per la formazione artistica concentrata
unicamente sul recupero della pittura del primo Cinquecento e sullo studio della natura (valore
ormai lontano da quelli correnti).
Il modello dell’apprendimento era ispirato a quello universitario della trasmissione di un sapere da
rinnovare continuamente (per questo gli accademici si chiamarono Incamminati), non alla pratica
vera e propria di bottega degli artisti.

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Annibale polemizzava contro gli artisti che dominavano la scena intorno al 1560 e, ad esempio,
riteneva che le pitture del Vasari fossero gofferie che non somigliavano per niente al vero.
Grazie all’arrivo a Roma, egli poté conoscere l’antico e la grande pittura del Cinquecento,
arricchendo così la propria formazione.
In seguito articolò sul soffitto della Galleria Farnese (1) una lingua pittorica italiana, e non più solo
veneziana o emiliana o toscoromana.

Tra le opere esistenti nella Galleria bisogna ricordare la pala commissionata dal cardinale Odoardo
Farnese per una cappella del monastero di Camaldoli (e oggi della Galleria Palatina di Palazzo Pitti,
Firenze).
In essa, ritorna l’antica struttura a 2 livelli, quello celeste e quello terreno.
Nella parte superiore vola, tra san Pietro e san Giovanni, Cristo sulle nuvole che è bello, giovane e
nudo come uno degli dèi farnesiani.
In basso, a terra, sono inginocchiati la Maddalena e i sani Ermenegildo e Odoardo d’Inghilterra, che
introduce al Cristo il cardinal Farnese, ritratto inginocchiato e di profilo, quasi conficcato nel
terreno per distinguerlo dai santi (che hanno le sue stesse proporzioni) e porlo a metà tra lo spazio
della pittura e quello reale.
Tutti i personaggi si trovano davanti ad uno sfondo della campagna romana, con tanto di basilica di
San Pietro in costruzione, e con un tramonto che annuncia Poussin e Lorrain.

Caravaggio si formò a Milano in una tradizione di pittura della realtà tra Lombardia e Terraferma
veneta.
Egli non volle mai dipingere ad affresco e a Roma cominciò a farsi conoscere attraverso quadri da
stanza realizzati per collezionisti più interessati al suo stile e alla sua qualità, piuttosto che ai
soggetti dei quadri stessi.
In essi troviamo mezze figure in abiti contemporanei intenti in occupazioni feriali: concerti, giochi
di carte, scene di strada.
Anche quando il soggetto è tratto dalla mitologia classica, il risultato è molto lontano da quello
raggiunto dagli dèi eleganti e sensuali realizzati da Annibale Carracci per la Galleria Farnese.
Come, ad esempio, il Bacco degli Uffizi, dipinto intorno al 1595 e donato al granduca Ferdinando
de’ Medici dal cardinale Francesco Maria del Monte, protettore dell’artista.
Il dio del vino è seduto a tavola, sdraiato su un triclinio classico e coronato da tralci d’uva matura.
Sul triclinio è arrotolato un materasso coperto da un lenzuolaccio che fa anche da toga al dio (un
giovane di bottega, rubizzo per il vino): quasi a svelare che si tratta di una messa in scena di atelier,
e non di un epifania divina.
Anche lo sguardo diritto e l’offerta del calice mirano ad abbattere quel distacco con lo spettatore:
che si sente incluso, trascinato, in un colloquio vivo e palpitante.
Il Bacco sembra una rappresentazione teatrale: questa è una caratteristica presente anche in molti
altri quadri dello stesso periodo che accomuna Caravaggio ad Annibale.
L’Autoritratto di Annibale rappresenta lo studio dell’artista, sul fondo del quale si apre una finestra
di fronte alla quale c’è un manichino di studio.
In primo piano posa, su un cavalletto, un autoritratto dell’artista, un quadro nel quadro in cui
Annibale ci appare spettinato, malinconico, abbandonato, esattamente com’è abbandonato lo studio,
la tavolozza appesa al cavalletto.
Solo un cane e un gatto si affacciano al mondo reale, verso noi che guardiamo.

Nelle poche frasi dedicate alla natura morta nel suo Discorso sopra la pittura, il marchese Vincenzo
Giustiniani scrisse che Caravaggio disse di saper fare un buon quadro di fiori esattamente come uno
di figure.
E quindi, affermare che la differenza tra un quadro con una Madonna e uno con una canestra di
frutti si deve giocare più sul piano della qualità pittorica che su quello del contenuto significa
revocare il primato della pittura di storia rispetto a quella di genere, e cioè contestare il primato
della figura umana (caposaldo dell’estetica rinascimentale).

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Prendiamo, ora, infatti la Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana e la Maddalena pentita
Doria Pamphill, databile allo stesso periodo (1595-96).
Nel primo tutto sembra mettere in dubbio la possibilità di una classificazione di genere:
-il modo solenne con cui le forme occupano lo spazio
-la luce meridiana.
Il secondo, invece, nega la sua natura di quadro sacro.
Questo perché Caravaggio dipinse semplicemente una fanciulla a sedere sopra una sedia con le
mani in seno, in atto di asciugarsi i capelli.
La ritrasse in una camere e vi aggiunse in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme
La finse per Maddalena.
È l’inizio di una tradizione che strutturerà l’intera arte moderna, quella dell’atelier dell’artista come
soggetto e oggetto della pittura che vi si pratica.

Annibale, invece, è attratto dalla celebrazione del paesaggio, tanto da fargli assumere un ruolo
fondamentale anche rispetto al tema sacro che legittima il dipinto (es. Fuga in Egitto).
Quindi, se a Caravaggio spetta la rifondazione della natura morta, la storiografia del Seicento
riconoscerà ad Annibale il ruolo cruciale nella nascita del paesaggio moderno.

Caravaggio era stato in grado di costruirsi una libertà a cui aveva educato i suoi stessi patroni.
Quando, nel 1599, il cardinal Del Monte gli fece ottenere la prima commissione pubblica – tre tele
per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi – egli riuscì a imporre questa libertà anche nel
fortilizio (Fortezza di ridotte dimensioni ) dell’arte sacra.
I soggetti dei 3 quadri furono scelti molti anni prima dal cardinale francese Mathieu Cointel,
corrotto Ministro delle Finanze di papa Gregorio XIII, che aveva scelto le storie di san Matteo (cui
lo legavano il nome e il rapporto con il denaro).
Nella Vocazione di San Matteo traduce le indicazioni di Cointel.
Il dipinto raffigura il momento in cui Gesù sceglie il gabelliere Matteo come suo Apostolo.
La scena è ambientata in un locale buio che sembra essere uno scantinato, che in realtà ritrae lo
studio dell’artista.
La porta delle scale è rimasta aperta ed è da lì che entra la luce che accompagna l’ingresso degli
unici due personaggi in abiti antichi: San Pietro che quasi nasconde il Cristo, che alza la mano in un
silenzio eterno.
Poi il Martirio e, infine, lo straordinario San Matteo che sull’altare parla con un angelo calato dal
cielo come se fosse uno “yo-yo” di panni, mentre è in bilico su uno sgabello che rischia di farlo
cadere sulla mensa dell’altare, e fin sullo spettatore.
Quando la Contarelli fu aperta al pubblico suscitò grande impressione.
Ma il manierista Federico Zuccari disse di non capire a cosa fosse dovuto tutto il clamore suscitato,
dato che era solo una ripresa di Giorgione.
Lesse quindi una continuità tra Caravaggio e Giorgione, che oggi potremmo intendere in un duplice
senso.
Da una parte, Zuccari percepisce che Caravaggio (come Annibale) si connette direttamente alla
pittura del primo Cinquecento in una sorta di rinnovamento che intende tagliar fuori la stagione
manierista.
Dall’altra egli allude forse alla libertà del rapporto tra Giorgione e i soggetti religiosi, alla sua
tensione verso l’abbattimento dei confini tra i generi e alla sua attualizzazione della storia sacra.
Ironizzando, lo Zuccari disse che la pittura manierista se ne andava con Dio, nel senso che era
giunta ormai alla fine dei suoi giorni (a causa della rivoluzione di Caravaggio).

Nel 1606, dopo aver rivoluzionato la pittura sacra con una serie di strepitose pale d’altare,
Caravaggio fu costretto a lasciare Roma a causa di un ennesimo coinvolgimento in una rissa che ha
comportato la morte di un avversario.

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Cominciò quindi a scendere verso sud: Napoli, Malta, Sicilia e poi ancora Napoli.
I suoi due passaggi a Napoli introdussero e rafforzarono una stagione naturalista destinata a durare
molto più a lungo che a Roma, mentre le opere maltesi e siciliane risultarono tanto alte e disperate
da essere incomprensibili anche alle generazioni future.

E proprio mentre Caravaggio moriva a Porto Ercole (1610) la sua rivoluzione si diffuse talmente
velocemente che investì diverse generazioni e nazioni (dalla Francia, all’Olanda, dalla Spagna alla
Germania).
Moltissimi artisti divennero “caravaggeschi” per sempre, imitando più o meno il Merisi, mentre
altri attraversarono fasi caravaggesche passando poi a stili completamente o parzialmente diversi,
altri ancora recepirono il succo della lezione di Caravaggio senza però seguirne lo stile.

Nel 1609 muore anche Annibale.


Forse a causa del terribile trattamento che gli fu riservato dal cardinale Farnese, forse a causa dello
sforzo sovrumano della creazione della Galleria, il bolognese cadde in depressione che scaturì poi
in un vero e proprio stato di malattia che lo accompagnò fino alla morte.
A differenza di Caravaggio, però, lui fu un maestro esemplare e dai ponteggi della Farnese e dal suo
studio romano uscirono i più grandi pittori italiani dei primi decenni del Seicento, anche se nessuno
riuscì a superarlo:
-Domenichino approfondì l’espressione degli affetti,
-Francesco Albani trasformò l’eroica mitologia carraccesca in una brillante formula di
intrattenimento collezionistico [4],
-Giovanni Lanfranco esaltò le componenti dinamiche del linguaggio di Annibale, aprendo la strada
alle grandi macchine pittoriche del Barocco europeo [13].
A Ludovico si devono gli altri due grandissimi carracceschi:
-Guido Reni [12], e
-il più moderno di tutti, Guercino [6].
A differenza dei caravaggeschi (che scelsero di autoconfinarsi, come il loro ispiratore, alla pittura
ad olio), tutti i carracceschi furono frescanti e fecondi maestri.
Ma i risultati più carichi di futuro vennero dagli artisti che seppero mettere insieme la lezione di
Annibale e quella di Caravaggio: Rubens, innanzitutto, e Gian Lorenzo Bernini.

La miccia lenta di Rubens.


Rubens venne in Italia come un pittore in viaggi di formazione e sfruttò quindi le sue doti da
osservatore.
A Rubens, le opere di Annibale e di Caravaggio gli appaiono come il barocco tutto intero.
Questo lo si può vedere dalle sue opere romane di quel periodo.
Si tratta di dipinti aurorali, come ad esempio il ciclo realizzato per la cappella ipogea di Santa
Croce in Gerusalemme (oggi conservato nella cattedrale di Grasse – Francia).
Il Cristo deriso e l’Innalzamento della Croce sembrano quadri del Caravaggio sia per luce,
composizione e tipi di modelli.
Sembrano anche essere privati della loro immobilità e del loro silenzio, come accelerati e immersi
in un rumore di fondo.
Nella terza tavola, invece, la matronale Sant’Elena è una creatura strettamente carraccesca, ma
intrisa di luce e resa inquieta e vibrante.
Poi c’è la Deposizione della Galleria Borghese (1604) dipinta dopo aver visto la Deposizione di
Tiziano nel suo viaggio a Madrid.
In questo dipinto il sarcofago, il sudario, il braccio del Cristo e il tono cromatico vengono da
Tiziano, mentre la relazione che quasi fonde il corpo del Cristo con quello della Madre viene dalla
sua recente conoscenza della pittura di Correggio: era stato proprio Annibale ad insegnargli come
congiungere insieme i due giganti del secolo precedente.

È nel 1605 che Rubens dipinse il primo quadro barocco: L’imposizione del nome a Gesù.

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Essa è un’opera dolce e solenne dove l’irruzione della gloria celeste si accosta e si accompagna alla
monumentalità dei personaggi sul proscenio, alla delicatezza delle espressioni (ad esempio quella
della Vergine, che si volta per non vedere la circoncisione del Bambino), al violento contrasto di
luci e ombra.
Anche qui è possibile notare un po’ di Tiziano, Correggio, Annibale e Caravaggio, però non è più
possibile isolarli perché Rubens è riuscito ad amalgamarli alla perfezione creando un linguaggio
nuovo.

Il suo traguardo italiano si compì a Roma, quando nel 1606 ottenne l’incarico di dipingere la pala
dell’altar maggiore della Chiesa Nuova fondata da Filippo Neri.
Quando, però, nel maggio dell’anno successivo, il dipinto fu terminato e collocato sull’altare,
risultò illeggibile a causa della luce dell’abside della chiesa.
Decise quindi di farne un’altra versione senza perdersi d’animo e concepì un trittico su grandi lastre
d’ardesia per evitare i riflessi.
Inoltre, il cardinale Cesare Baronio aveva chiesto esplicitamente che vi fossero rappresentati alcuni
dei santi di cui la chiesa possedeva reliquie e al centro la Madonna della Vallicella.
Nel quadro di sinistra Rubens dipinse san Gregorio Magno tra i santi Mauro e Papiano,
“poggiandoli” su un fondo nero tipico di Caravaggio (pag.50)
Nel quadro di destra rappresentò santa Domitilla tra i suoi due schiavi Nereo e Achilleo e li
immerse in un paesaggio tipico di Annibale (pag.51)
Al centro, infine, vi era la Madonna col Bambino che era portata in volo da putti angelici in un
turbinio di nuvole paradisiache, e adorata da un cerchio di angeli in primo piano, proprio sopra la
mensa d’altare (pag. 50).
In questo trittico è nato qualcosa di nuovo: lo studio di Correggio e Tiziano ha generato una nuova
retorica dell’immagine, basata sul movimento e sul colore e funzionale a costruire una forte empatia
emotiva con lo spettatore.
Un’altra novità è stata proprio la realizzazione di un quadro diviso in tre parti che li rende come un
palcoscenico (dove si agita una sacra rappresentazione) grazie al dialogo di sguardi e di gesti e
all’unità dell’azione che li congiunge tutti e tre insieme attraversando lo spazio reale del presbiterio.

Proprio su uno degli altari della Chiesa Nuova Rubens lasciò una delle sue opere più avanzate, la
Deposizione (oggi nella Pinacoteca Vaticana), che rappresenta il momento in cui Giovanni e
Giuseppe d’Arimatea calano il corpo del Salvatore nella tomba.
Esso è dipinto in modo da sovrapporsi alla mensa dell’altare su cui è collegato il quadro.
Il corpo di Cristo sembra deposto direttamente sull’altare su cui si compie il sacrificio eucaristico e
su cui posa il pane divenuto corpo di Cristo.

L’ironia sta nel fatto che il Barocco esplose solo negli ultimi quadri di Rubens, ma nessuno se ne
accorse.
Bisognerà aspettare oltre dieci anni perché le sue opere lasciate a Roma (che nel 1608 abbandonò
Roma e l’Italia) siano davvero comprese. E, inoltre, colui che appiccherà il fuoco alla lenta miccia
rubensiana non sarà un pittore, bensì uno scultore: Bernini.

Il vero, il tenero, il movimento: Gian Lorenzo Bernini.


Gian Lorenzo Bernini nacque a Napoli nel 1598, dove suo padre Pietro – scultore fiorentino –
lavorava per il viceré e per le principali chiese della città.
Si trasferisce col padre a Roma per un incarico di papa Paolo V (studiò l’antichità).
Il padre, con le sue opere, era stato un maestro, ma Gian Lorenzo notò che la scultura era indietro di
15 anni rispetto alla pittura.
È proprio per questo che Bernini volle superare i risultati della pittura contemporanea.
Solo intorno al 1630 smise di farlo, perché grazie a lui le parti si invertirono e la sua scultura
divenne così importante e innovativa da dettare la linea anche ai pittori, e per oltre 50 anni.

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Ma quali modelli aveva in mente il Bernini quindicenne?
I suoi primi busti-ritratto avevano un’aria caravaggesca, ma temperò anche gli attardati
insegnamenti del padre attraverso Annibale Carracci.

Bernini ha fatto parte, insieme al padre, di quei “virtuosi” che avevano seguito il Carracci in
Vaticano (conobbe quindi le chiese romane al seguito di Carracci).
Il modello del primo Bernini è la pittura carraccesca, come dimostra il Fauno molestato da cupidi
di Bernini padre e figlio del Metropolitan Museum di New York (1616).
L’idea dei puttini che si arrampicano sull’albero, finendo per atteggiarsi in pose accademiche,
riprende la carracesca Venere dormiente oggi a Chantilly.

Tutto ciò che Bernini ha imparato da Annibale (caricatura, ritratto grafico a matite colorate e la
pittura) ha comportato un netto distacco dal linguaggio artistico del padre.

Tra gli artisti che lavoravano alla cappella Paolina, compreso Pietro Bernini, nacque una disputa sul
primato delle arti e fu consultato anche Galileo Galilei.
Galileo disse che la scultura deve la sua visibilità al chiaroscuro della pittura; di conseguenza la
pittura la vince grazie ai colori naturalissimi, di cui la scultura manca.
Inoltre, la scultura non può ingannare, mostra il vero, mentre la pittura può illudere (più ci si
allontana da ciò che si vuole rappresentare più il risultato è eccellente).

All’epoca delle parole di Galileo, Gian Lorenzo ha 13 anni.


Nella sua carriera futura, la scultura si farà pittura, addirittura dando l’idea del colore.
La sua scultura, infatti, riesce ad ingannare, a rendere vivo il marmo, a suggerire il movimento, la
morbidezza, il chiaroscuro e specialmente il colore.

Nel 1620, il cardinale Maffeo Barberini gli ordina una serie di sculture destinate alla cappella di
famiglia, tra cui il San Sebastiano.
Bernini scelse di rappresentare il momento in cui il martire è agonizzante, abbandonato sul tronco a
cui era stato legato per essere colpito dagli arcieri.
Sebastiano viene rappresentato come un cristo in pietà perché è l’essenza del martirio (si ispirò
infatti alle numerose Pietà del Michelangelo).
Ma a sofferenza di Sebastiano e la sospensione tra la vita e la morte riconducono a Rubens, i cui
corpi trasmettevano a Bernini la morbidezza della tradizione correggesca e tizianesca.
Per la prima volta lui stabilisce un punto di vista privilegiato, quello del lato destro della statua.

Gian Lorenzo finì subito al servizio del vero padrone di Roma, il cardinal nipote Scipione
Borghese. Egli lo mise davanti al suo primo marmo di dimensioni monumentali e da esso volle
ricavare un gruppo di tre personaggi – Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia – per la sua villa
suburbana.
Se il groviglio delle membra e la difficoltà di cogliere l’intera composizione da un unico punto di
vista ricordano le opere realizzate insieme al padre, qualcosa è completamente estraneo al
manierismo di quest’ultimo.
Ma dimostra anche una vicinanza al vero, al naturale: la pelle del vecchio, dell’adulto e del
bambino sono diverse e riesce a penetrare le diverse condizioni psicologiche di quelle stesse età (il
momento è la fuga dalla propria città in fiamme).

Il cardinal Borghese fu talmente soddisfatto da chiedere a Bernini un altro mito di marmo per la sua
villa: il Ratto di Proserpina (1621-22).
Ora è chiaro il distacco dal padre e le figure esplodono nello spazio dello spettatore.

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A sinistra ondeggia la testa del dio, selvaggia quanto il suo desiderio, mentre la mano sinistra
affonda nella carne del generoso fianco di Proserpina, che si divincola disperatamente, piangendo
lacrime di marmo e lanciando verso l’alto il braccio destro.
Quel braccio levato come un grido spezza il limite virtuale del blocco di pietra.
Plutone e la sua preda sembrano usciti dalla volta Farnese di Annibale Carracci o da una tela di
Rubens: e d’altro canto il gruppo è proprio pensato per una ricezione pittorica, cioè per essere
percepito frontalmente.
Alcuni punti di vista laterali consentono di scorgere particolari secondari, come il Cerbero dal pelo
iperrealistico, ma la statua è nata per funzionare solo se vista di fronte.
Bernini l’ha concepita per dare una forte illusione di transitorietà, per evocare davanti allo
spettatore il momento in cui Plutone afferra Proserpina e la trascina con sé nel suo mondo
sotterraneo.
Scipione decise di donare quest’opera al cardinale Ludovisi, nipote del pontefice successore di suo
zio, che era morto mentre il Bernini era al lavoro.
A Villa Ludovisi il gruppo si trovava in una sala al pian terreno vicina al giardino, ed era addossato
ad una parete e incorniciato da una porta, mentre sul piedistallo erano incisi alcuni versi scritti da
Maffeo Barberini che facevano dialogare Proserpina con lo spettatore immaginato mentre raccoglie
i fiori sul prato dove ha luogo il rapimento.
Lo spazio emotivo in cui si svolge l’azione si estende allo spazio reale in cui si muove lo spettatore:
il giardino romano.
La porta accanto al gruppo, invece, rappresenta quella dell’Ade.
Bernini, nelle sue opere, cerca di fissare una frazione di secondo nella realtà, e dopo quest’opera
molti membri delle vecchie famiglie desiderarono delle sue opere.

Ad esempio, il cardinal Montalto gli ordinò nel 1622 un Nettuno per il giardino della sua villa
(sorgeva dov’è oggi la stazione Termini), che oggi è conservato a Londra.
In esso Bernini rappresenta il momento in cui il dio placa il mare in tempesta, brandendo il tridente.
Tra le sue gambe, Tritone annuncia la furia.
La barba, i capelli e il mantello sono mossi dal vento impetuoso, in un’illusione di transitorietà che
Bernini riesce a fissare nel marmo.
La statua era posta sopra una peschiera in un’ambientazione che ne completava la finzione: la
calma della vasca era il segno che in quel momento il mare si era calmato, obbedendo al suo dio, e
lo spettatore poteva immaginarsi che, spostando lo sguardo su Nettuno, avrebbe potuto vederlo
posare il tridente e osservare l’acqua compiaciuto.
Lo stesso cardinale gli commissionò nel 1623 un’altra statua a grandezza naturale, il David
(pag.59): ma pochi mesi dopo lui morì e quindi fu Scipione Borghese a rilevare l’opera per la sua
villa.
Questa è completamente diversa da quelle realizzate prima: il giovane ebreo non ha già decapitato
Golia (come in Donatello e Verrocchio), e non è nemmeno in calma attesa dello scontro (come in
Michelangelo), ma si trova esattamente nel pieno della lotta, nel momento dell’azione.
Dopo aver deposto l’armatura ingombrante, il pastore si protende in avanti e si concentra sul
bersaglio Golia (che gli viene contro).
Sta per cominciare a ruotare la fionda, che ha già tra le mani, e si può notare l’espressione accigliata
e concentrata sul gigante.
Inizialmente questa statua era disposta contro una parete, come se sbucasse fuori da essa e in cui
l’estremità del piede era ancora impigliata.
Successivamente è stata collocata al centro della stanza e quindi il calcagno del piede sinistro è
stato composto da gesso.
Lo spettatore che si trova davanti alla statua ha inizialmente la sensazione di essere finito
inconsapevolmente sul campo di battaglia, quindi capisce che David sta prendendo la mira
guardando proprio lui: a questo punto realizza di essere il Golia che manca a completare l’azione.
Bernini vuole suscitare emozioni incontrollabili come la sorpresa o la paura.

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Qualche anno iniziò a scrivere delle commedie teatrali: nel 1635 finse un incendio con espedienti
realistici, mentre tre anni più tardi replicò sul palcoscenico un’inondazione del Tevere avvenuta
pochi mesi prima.
Entrambe queste potenti finzioni provocarono addirittura fughe dalla platea.

Subito dopo aver donato il Plutone al Ludovisi, Scipione chiese a Bernini di raffigurare un altro
tentato stupro in Apollo e Dafne e che diventerà uno dei capolavori indiscussi della scultura di ogni
tempo (8).
Le figure furono poste contro il muro e concepite per essere viste frontalmente.
Invadono, come nessun altra prima, lo spazio dello spettatore e sembrano condividerne la vitalità
(movimento, aria, colore).
Dopo cinquant’anni di decadenza, la scultura, che si era ridotta ad opere da giardino, tornava ad
essere al pari dei capolavori antichi, ellenistici e rinascimentali.
Era, finalmente, colmata la distanza tra essa e la pittura.
Per questo, furono moltissimi coloro che vollero da lui un ritratto di loro stessi o di un caro defunto.
Bernini cercò di imprimere ai busti un cenno di moto che possa porli in un rapporto più diretto con
lo spettatore.

Il vertice di questo gruppo di ritratti è rappresentato dal Montoya.


Il busto dello spagnolo aveva una destinazione funebre, ma riscosse talmente tanto successo che il
Bernini decise di tenerlo a lungo nella sua bottega e Montoya, invece, veniva riconosciuto per
strada ed elogiato dai cardinali e dai personaggi di alto rango.
Questo dimostra come un busto funebre si sia trasformato in un’opera da galleria, e la funzione
religiosa e memoriale abbia ceduto il passo a quella estetica.
La prima cosa che ci colpisce di quest’opera non è il viso, ma l’insieme del busto decisamente
verosimile.
Il Montoya ci guarda e il suo volto non sembra certo di marmo: si possono notare l’ombra intorno
agli occhi incavati, i baffi asimmetrici e disordinati, la barba che cresce lungo le guance, le rughe
che increspano la fronte e circondano gli occhi.
Bernini, inoltre, non ritrae monsignor Montoya in conversazione.
Ma se ci troviamo davanti a quel ritratto veniamo colpiti dal fatto che sembri come fotografato nel
momento in cui scorge la testa e guarda in basso.
La realtà è quella di un busto inserito nella nicchia ovale di un monumento funebre, mentre
l’illusione è quella di essere sorpresi dal padrone di casa che si è improvvisamente affacciato alla
finestra e ci fissa, facendoci sobbalzare.

In quest’opera Bernini fa un ulteriore passo verso la pittura e l’opera decisiva che chiude questa
fase è il Roberto Bellarmino (1623-24).
Esso venne collocato al centro del monumento funebre eretto nella chiesa del Gesù a Roma, oggi
abbattuta.
Si tratta di una mezza figura con le mani giunte.
Bernini lo ritrasse in questo modo perché Bellarmino, quando venne esumano, fu ritrovato in questa
posizione.
Lui non si limitò a riprodurre ciò che aveva visto nella bara, ma lo anima secondo un modello
pittorico ben riconoscibile: la mezza figura del cardinal Odoardo Farnese di Annibale.

L’opera in assoluto in cui l’abbattimento dei confini tra i due generi emerge con più forza è il David
in atto di tirare la fionda.
Bernini sceglie di non rappresentare Golia per imporre allo spettatore il compito di completare la
scena con la propria immaginazione.

Il teatro del Barocco: San Pietro in Vaticano.


Nel 1623 fu eletto papa il cardinale fiorentino Maffeo Barberini, con il nome di Urbano VIII.

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Con lui iniziò una rivoluzione culturale.
Egli promise di riportare a Roma l’età dell’oro di Giulio II e Leone X e il suo primo pensiero fu la
nuova basilica di San Pietro, che divenne luogo fatale per l’arte moderna.
Non si rivolse ad architetti affermati, ma al 25enne Bernini, scultore.
E così Urbano trasformò Bernini in architetto e Bernini trasformò Roma e ufficializzò il barocco
come linguaggio figurativo del papato.

Nel 1624 venne ritrovato il corpo della santa Bibiana e Urbano decise di ricostruire l’antico sacello
dedicato a questa martire romana.
Bernini ebbe così il suo primo incarico architettonico.
Realizza anche la statua della santa, per la prima volta una scultura vestita e chiaroscurata sul
modello della Santa Domitilla di Rubens.
Bernini trasforma lo spazio sacro nel palcoscenico di una rappresentazione il cui intreccio
coinvolge gli spettatori.
Bibiana è infatti rappresentata nel momento prima del martirio mentre, appoggiata alla colonna su
cui sarà flagellata, alza lo sguardo verso il Dio padre affrescato sulla volta del presbiterio.
Sulle pareti della chiesa la scortano i suoi familiari, ora impegnati in storie di martirio, ora dipinti
come statue vive incorniciate da festoni di frutta.
All’impresa pittorica partecipò anche Agostino Ciampelli, ma probabilmente essa fu ideata da
Pietro da Cortona: un altro toscano che con quest’opera usciva in pubblico alla soglia dei suoi
trent’anni.
Lo stesso anno Urbano, soddisfatto della sua prova nella chiesetta, invita Carlo Maderno, architetto
di San Pietro, a farsi da parte e incarica Bernini di realizzare il baldacchino per la Basilica di San
Pietro (pag.70).
Il baldacchino doveva essere collocato sopra l’Altare dei Santi Apostoli e doveva coprire lo spazio
semicircolare che racchiudeva la tomba di San Pietro, posta sotto il livello pavimentale.
Il risultato fu geniale: una colossale scultura-architettura tutta realizzata in bronzo.
Nel giugno 1629 vennero innalzate le quattro colonne alte undici metri che si diceva provenissero
dal Tempio di Salomone a Gerusalemme.
A quel punto bisognava pensare cosa fare nella parte superiore dell’opera: inizialmente l’idea era
quella di collocare sulla sommità una grande statua bronzea di Cristo risorto, ma poi venne
realizzata una sorta di gigantesca corona abitata da angeli e da rami di palma.
Il 29 giugno 1633 il Baldacchino venne inaugurato, anche se per completare le rifiniture ci vollero
altri due anni.
Esso sembra straordinariamente leggero e sembra quasi che colossali cerimonieri abbiano spiegato
un baldacchino di stoffa sull’altare del papa e sulla tomba di Pietro.
Alzando lo sguardo scopriamo che esso non appartiene del tutto a questo mondo: grandi angeli
sembrano atterrati sulle quattro colonne, e tengono in tensione la stoffa da cui pendono le nappe,
enormi, ma pronte a spostarsi al primo soffio di vento.
Che lassù tiri vento lo dimostrano lo scomporsi delle vesti e dei capelli degli angeli, e la difficoltà
con cui altri putti angelici sorreggono le insegne dei due Principi degli Apostoli: le chiavi e la tiara
di Pietro, il libro di Paolo.
Esattamente come ha fatto finora, Bernini non rappresenta ciò che è, ma dà l’illusione di qualcosa
che sta accadendo proprio in questo istante.

Ci sono alcune questioni del baldacchino, che non sono chiare: prima di tutto l’entità del ruolo di
Francesco Borromini, il più illustre di una schiera di collaboratori.
Egli debuttò nel cantiere vaticano, prima come scalpellino e scultore di ornato e poi come
disegnatore e supervisore della realizzazione delle varie parti del Baldacchino.
Viene, però, da chiedersi se qualcuna delle idee innovative venissero in realtà da lui.
Questo dubbio nasce perché la prima architettura commissionata a lui – la piccola chiesa di San
Carlino alle Quattro Fontane, a Roma (1638; pag.73) – ha lo stesso spirito dinamico e lo stesso
amore per le curve che anima le colonne del Baldacchino.

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Le stesse idee e le stesse forme si ritrovano nell’Oratorio dell’ordine di San Filippo Neri, alla
Vallicella (1637-49; pag.74): la prima faccia curva a Roma.
Come il Baldacchino, anche l’Oratorio è pensato come un organismo plastico, a metà tra
l’architettura e la scultura.
Tuttavia, il lessico architettonico di Borromini appare più personale, originale ed innovativo di
quello di Bernini.

Quest’ultimo, intanto, continuava a modificare San Pietro con la mentalità di uno scultore.
Bernini e Urbano trasformarono in quattro reliquiari i piloni alti 45 metri che sorreggono la cupola
michelangiolesca e circondano il Baldacchino.
Bernini ebbe l’incarico di scavare in ognuno di essi due profonde nicchie sovrapposte.
In quelle più basse sarebbe stata sistemata una statua del personaggio sacro legato alla reliquia
ospitata nella nicchia superiore, che a sua volta doveva essere allestita come una sorta di loggia per
l’esposizione della reliquia stessa.
Queste logge vennero ornate da grandi bassorilievi in marmi policromi raffiguranti gli oggetti sacri
custoditi dietro di essi.
Tutte e quattro le reliquie erano legate alla Passione:
-per il legno della Croce venne scelta sant’Elena, la madre di Costantino che fu protagonista del
miracoloso rinvenimento, e la stata fu commissionata ad Andrea Bolgi;
-per l’asciugatoio sul quale si sarebbe impresso il volto di Cristo durante l’andata al Calvario fu
prescelta colei che glielo porse, santa Veronica, che fu intagliata da Francesco Mochi;
-per il capo di sant’Andrea, morto in croce a imitazione di Gesù, François Duquesnoy rappresentò
l’apostolo con la sua croce obliqua;
-per la lancia che aprì il costato di Cristo, lo stesso Bernini, scolpì la statua di san Longino, il
centurione romano che un minuto dopo aver sferrato il colpo, riconobbe il Messia, e si convertì.

Andrea Sacchi dipinge, tra il 1625 e il 1627, la Messa di san Gregorio Magno, prima pala vaticana
nel nuovo “stile Barberini”.
In essa Sacchi prolunga lo spazio della basilica, rappresentando un altare sopra il vero altare,
dipingendo una messa come sfondo a quelle realmente celebrate.
San Gregorio si gira di scatto verso i fedeli dipinti e reali, forando, con una punta, un panno che era
servito per avvolgere alcune reliquie: esso sanguina e conquista la fiducia dei fedeli.

Tra il 1628 e il 1632 viene affidata a Cortona la pala della Trinità e lui la immagina come divisa in
due registri:
-in quello inferiore vola il globo dell’universo sorretto dagli angeli
-in quello superiore, in un cielo infuocato, plana la Trinità.
Il fedele si sente trasportato di peso in un paradiso credibile, che ti spinge a ripararti gli occhi dalla
luce e dal vento.

Tra il 1628 e il 1629 i Barberini assegnarono una pala anche a un pittore francese che da poco aveva
cominciato a lavorare per loro: Nicolas Poussin.
Una delle punte più avanzate del Barocco è proprio una sua opera: il Martirio di sant’Erasmo
(pag.77).
In essa la luce e il colore sono proprio quelli cristallini di Paolo Veronese.
Il martire, bello come una statua antica ma di carne, è gettato in faccia allo spettatore, martoriato
dagli aguzzini.
La scena, terrificante, è collocata in un proscenio palladiano popolato da sacerdoti in toghe candide,
colonne svettanti, statue antiche e legionari a cavallo.

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Proprio negli stessi anni Domenichino dipinse una pala per la Basilica, il Martirio di San
Sebastiano: nel tentativo di tener testa ai più giovani artisti barberiniani egli complica e affolla la
sua composizione.
L’effetto però è quello di un grande artista che tradisce la propria identità per capire qualcosa che
gli è precluso.

Urbano VIII, dopo aver trasformato San Pietro in un teatro dell’arte sacra, decise di costruirne uno
dedicato all’arte profana.
Infatti, sorge sul Quirinale Palazzo Barberini.
Esso fu affidato agli stessi architetti del Vaticano (Carlo Maderno, Bernini e Borromini) e divenne il
prototipo del palazzo barocco.
Paragonandolo a Palazzo Farnese – vertice dell’architettura civile del Rinascimento romano – era
un palazzo-villa aperto alla luce e alla natura che lo circonda, che vuole sedurre e conquistare.
Il soffitto venne affrescato da Andrea Sacchi con l’apparizione della Divina Sapienza accompagnata
dal suo corteggio di Virtù (1629-30).
Come nel Trionfo di Bacco di Annibale a Palazzo Farnese e nel Convito degli dèi di Lanfranco alla
Galleria Borghese, le figure sono allineate alla fascia centrale: ma, al contrario delle altre due
moderne, esse non sono dentro una cornice e in un insieme di finte architetture abitate.
Seguendo altri modelli (come l’Aurora del Guercino; 6), lo spazio è unificato e le Virtù galleggiano
tra le nubi, in parte schiarite dal sole, in parte cariche di pioggia ed elettricità.
Il soffitto del salone, invece, venne realizzato da Pietro da Cortona, che mette in scena il primo
soffitto profano barocco: il Trionfo della Divina Provvidenza (18).
Guardandolo è molto difficile stabilire l’ordine delle scene, ma l’obbiettivo del Cortona era quello
di imporre paura, confusione e smarrimento a chi lo guarda; per poi sentirsi rassicurati al sorgere
della Provvidenza che affida il governo dell’umanità a papa Barberini, rappresentato dalle sue
famose api che incrociano sul soffitto.

Anche Poussin ebbe un ruolo importante nel rinnovamento barocco della pittura profana,
specialmente nei quadri allegorici.
Tra queste una delle più affascinanti è l’Ispirazione del poeta (1630; pag.79) appartenuta al
cardinale Giulio Mazzarino.
In essa Apollo siede sotto un alloro appoggiato alla sua cetra e scortato da una Musa (Calliope).
Il dio detta i suoi versi a un poeta che tiene gli occhi fissi al cielo, mentre viene laureato da un putto
in volo: in terra i libri dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide.
Celebra la poesia figurativa.

Le forme di un’arte nuova stavano colonizzando tutti i generi e presto venne il turno dell’arte
funebre.
L’immagine di Urbano VIII era legata alla nuova basilica e quindi decise di non essere sepolto,
come tutti, in Santa Maria Maggiore e in Sant’Ignazio, ma di farsi costruire una tomba
monumentale proprio lì.
Affidò la progettazione a Bernini.
Il lavoro durò dal 1627 al 1647 (pag.81)
Seduta sul sarcofago c’è la morte scheletrica che sorregge un libro aperto su cui sta finendo di
scrivere, con un osso, il nome del papa.
A sinistra del sarcofago si vede il gruppo di marmo della Carità, rappresentata come una madre con
due bambini – uno addormentato in braccio alla poppa, l’altro in piedi che piange perché vorrebbe
poppare ancora –.
In marmo è anche scolpita la Giustizia che tiene il gomito destro su un libro di codici posto sopra la
voluta sinistra del sarcofago e sorregge con l’altra mano una grande spada decorata dalle api
barberiniane.

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Alla sua sinistra sfila un putto con il fascio littorio sulla spalla, mentre, incastrato tra la gamba
sinistra della Virtù e il sarcofago, siede un altro bambino che, imbronciato, alza un piatto della
bilancia lasciata a terra.
In alto vi è la statua bronzea di Urbano, rivestito degli abiti pontificali, mentre su tutto il sepolcro
sciamano api di bronzo.
Fin dall’inizio non si pensava a un singolo monumento, ma a due tombe accoppiate e simmetriche
(quella di Urbano e quella di Paolo III Farnese).
L’idea di 2 tombe simmetriche è ripresa dalla Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze, in cui
Michelangelo aveva realizzato un secolo prima le tombe dei 2 duchi medicei, Lorenzo di Urbino e
Giuliano di Nemours.
Il monumento funebre di Paolo III fu così modificato: venne rimontato privo delle 2 allegorie
femminili che giacevano sul fastigio, per riportarlo alla tipologia michelangiolesca: la figura del
defunto seduto che sormonta 2 allegorie.
Il ritorno al Michelangelo fiorentino lo si capisce dalla rinuncia alla diluizione decorativa e
architettonica tipica della scultura funeraria del manierismo romano in favore di una semplicità di
struttura e di una centralità e monumentalità delle figure scolpite: caratteristiche che diverranno
fondamentali nella tomba barocca.

Sul finire del 500 si aprì un dibattito sulla forma in cui completare la Basilica:
-da una parte c’erano i difensori della San Pietro rinascimentale e michelangiolesca (Urbano)
-dall’altra coloro che volevano un completamento a forma di croce latina
Il Barberini, prima di diventare papa, aveva consigliato più volte ai suoi predecessori la facciata di
Carlo Maderno perché comprometteva la visuale della grande cupola di Michelangelo.
Ma quando fu papa non ebbe il coraggio di demolire un lavoro tanto recente, poiché gli avrebbe
comportato impopolarità a causa dell’enorme e inutile spesa che avrebbe comportato.
Urbano, però, restaurò gli equilibri originari dello spazio michelangiolesco e corresse l’alterazione
prospettica e percettiva introdotta dall’aggiunta maderniana: e lo fece aggiungendo, non
distruggendo.
Urbano si fece poi seppellire in San Pietro e situò il monumento nella parte michelangiolesca.
Poi omologò alla propria la tomba di Paolo III, volendo creare l’inizio di una nuova tradizione
neorinascimentale.

Se l’impianto compositivo della tomba di Urbano segna un ritorno al Buonarroti, lo stile delle
sculture svela una distanza dai marmi michelangioleschi e lascia assaporare una dolcezza ignota
all’intera tradizione fiorentina.
E’ la tradizione venera, tizianesca che, riaccese dall’esperienza romana di Rubens, porta all’esito
naturalistico della Carità berniniana.
Nel volto della carità si riscontra un criptoritratto dell’amante di Bernini: Costanza Bonarelli [21].

Le sculture in marmo di Bernini avevano contorni morbidi e sfumati (es.La Giustizia).


Questa morbidezza aveva raggiunto l’apice nei pochi busti-ritratto che Bernini aveva realizzato nei
primi anni trenta.
Il più riuscito fra questi fu il ritratto del suo antico mecenate, il cardinale Scipione Borghese
(pag.87).
Nella storia del ritratto scultoreo non si era mai visto niente di così morbido, colorato e mobile.
Bernini è riuscito ad obbligare il marmo a restituire l’impressione visiva e tattile delle materie
imitate.
Secondo lui, il momento migliore per fare un ritratto è scegliere un atto caratteristico del modello e
cercare di imitarlo.
Uno dei momenti in cui il volto manifesta la personalità e l’individualità è quello in cui si sta per
aprire la bocca e parlare.
È proprio questa la situazione in cui egli ha colto il cardinal Borghese: si sta girando verso un
interlocutore invisibile e sta per rispondere a una sua domanda, o a un saluto.

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A questo movimento improvviso si devono la precarietà della berretta cardinalizia, le pieghe
disordinate della mozzetta, l’espressione mobile degli occhi, le labbra socchiuse, il colletto slacciato
e il sommovimento nel generoso doppio mento.

Quando Bernini scolpì la Giustizia, Urbano VIII era già morto ed era diventato papa Innocento X.
Sotto sua commissione l’artista creò la cappella di Cornaro con l’Estasi di Santa Teresa: forse il
vertice del barocco [30].
Innocenzo utilizzò i due massimi artisti di Urbano VIII per realizzare le due opere più importanti
che ornano il complesso monumentale di Piazza Navona, dove sorgeva il suo palazzo di famiglia:
così Pietro da Cortona affrescò la Galleria di Enea e Bernini scolpì la Fontana di Fiumi [31].

In San Pietro, Innocenzo volle provare a distinguersi da Urbano e decise che l’unica pala d’altare
che avrebbe donato alla basilica sarebbe stata un enorme rilievo in marmo, che costò sei volte ciò
che era stata pagata la più cara pala dipinta fino a quel momento.
Il papa e la Congregazione della Fabbrica scelsero l’altare dedicato a san Leone Magno e tra i vari
episodi della sua vita fu scelto quello in cui Leone scappò da Roma perché i santi apostoli Pietro e
Paolo lo avvisarono del sacco.
L’artista prescelto fu Alessandro Algardi, specialista del rilievo (l’unico genere evitato da Bernini).
Il risultato fu uno dei massimi capolavori dell’arte europea del Seicento: La fuga d’Attila (pag. 90).
Quando la luce invade San Pietro, il marmo si anima di qualità tonali neoveneziane.
L’opera cattura la luce con tanta efficacia perché la sua superficie è differenziata: si passa dal
tuttotondo delle figure in primo piano a sinistra a uno stiacciato leggerissimo, che lo scultore
sottolineò con incisioni per renderlo leggibile nello spazio colossale della basilica.
Partendo dalla composizione con cui Raffaello aveva rappresentato la stessa scena nelle Stante
Vaticane, egli creò una situazione di ben altra tensione, con gli apostoli che si avventano a spada
sguainata sopra il re unno, che inverte la marcia.
I due apostoli discendono dal cielo minacciando Attila e impugnano con la destra la spada e con la
sinistra gli fanno cenno di andarsene, mentre il barbaro re, impaurito, fugge.

Nel 1655 fu invece eletto un pontefice che si sentiva un erede di Urbano VIII: Alessandro VII
Chigi. Egli si concentrò sull’architettura e sull’urbanistica, e nei dodici anni del suo regno crebbe
una Roma moderna fatta di lunghe prospettive viarie, solenni quinte, facciate, piazze, fontane.
Per quanto riguarda San Pietro, egli chiese a Bernini di risolvere i due grandi problemi lasciati
irrisolti da Urbano: la piazza di fronte alla basilica e la zona absidale, dove si era incerti se collocare
un secondo altare dedicato all’Apostolo o una sede liturgica per il papa.
La soluzione al secondo problema fu la Cattedra di San Pietro (pag.92), una monumentale pala
d’altare.
Essa è un enorme reliquiario creato per accogliere un trono in legno e avorio di età carolingia, che
si pensava essere stato la sedia episcopale di San Pietro.
Su un piedistallo rivestito di marmi colorati, fanno corona alla sedia di bronzo quattro statue che
rappresentano quattro Padri della Chiesa: due di quella occidentale e due di quella orientale. Subito
sopra la sommità del seggio c’è una cascata d’oro e di luce: la gloria del Paradiso. Tutti lo
consideravano una visione. Lo spettatore è infine chiamato all’illusione più alta, quella della visione
di Dio: il mare di luce dorata che irrompe in San Pietro è la luce del Paradiso.
Era la rappresentazione di un evento sovrannaturale.
L’illusione è quella di un abbattimento del perimetro della basilica: la struttura architettonica
dell’abside è cancellata dall’irruzione delle colomba dello Spirito Santo, che scende sui 4 padri
della chiesa, vecchi dalle barbe fluenti e dagli abiti episcopali, e sull’enorme trono di bronzo , che
sembra sospeso in volo e abbracciato dalle nubi.
Dopo le apparizioni di angeli e santi, lo spettatore è chiamato all’illusione più alta e sconvolgente:
la visione di Dio.
Dipingendo la Colomba al centro di una grande vetrata, Bernini ha potuto catturare e controllare la
luce naturale, che da ogni alba ad ogni tramonto torna ad animare l’intero monumento.

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Da questo punto di vista, la Cattedra si può leggere in perfetta continuità con il Barocco degli anni
30.
Come ha scritto Giuliano Briganti, è il cielo, con le sue nuvole e il sole, ad offrire le sue ispirazioni
agli artisti barocchi.
Non a caso, infatti, la Cattedra di San Pietro è concepita come un paesaggio di nuvole contro il sole.

La conseguenza principale della Cattedra fu il cielo tempestoso e chiaroscurato che Giovan Battista
Gaulli affrescò sulla volta della Chiesa del Gesù tra il 1676 e il 1679 (pag.93).
Il pittore genovese prese lo schema geometrico e luminoso della Cattedra e lo usò per la
drammatica rappresentazione della caduta degli angeli ribelli, che precipitano fuori dalla cornice,
rotolano sugli stucchi dorati e piovono fin sulla testa dei fedeli a causa del trionfo del nome di
Gesù, che sfonda il soffitto in un abisso di luce.
Fu dunque un seguace di Bernini a chiudere il cerchio della stagione aurea della pittura barocca di
soffitti: forse il genere più potente di tutta l’arte nuova.

L’aspirazione paesistica della Cattedrale diventò letterale nell’altra impresa vaticana di Alessandro
VII, il Colonnato di San Pietro, e ancor di più nel Ponte Sant’Angelo, voluto da Clemente IX
Rospigliosi.
Esso fu decorato con dieci statue di angeli che recano gli strumenti della Passione seguiti, sotto
direzione del Bernini, da: Antonio Raggi, (Angelo con la colonna della flagellazione di Cristo pag.
95), Lazzaro Morelli, Paolo Naldini, Girolamo Lucenti, Cosimo Fancelli, Ercole Ferrata, Antonio
Giorgetti e Domenico Guidi.
Il viaggiatore diretto verso San Pietro attraversava il Tevere tra due schiere di angeli instabili, come
se fossero appena atterrati sulle spallette del ponte.
Dopo aver percorso uno dei borghi, il viandante si trovava di fronte al gigantesco ovale di Piazza
San Pietro.
L’impatto con il colonnato è ancora oggi denso di emozione: il movimento dello spettatore verso la
basilica provoca la strana impressione che siano le colonne a muoversi.
L’impressione di trovarsi immersi in un’architettura in movimento è aumentata dagli effetti di luce
e di ombra che regolano la percezione delle tre file successive di colonne, che vengono
continuamente inghiottite dall’oscurità, e quindi restituite alla vista.
La foresta di statue (90 eseguite da 14 scultori diretti da Bernini) sopra le colonne rafforza
l’illusione di trovarsi all’interno di qualcosa di “vivo”.

L’ultima vera esplosione che ebbe luogo nel teatro vaticano del Barocco fu il sepolcro di Alessandro
VII, eseguito tra il 1671 e il 1678 da un’équipe di artisti, sotto la direzione di un Bernini ormai
quasi ottantenne.
In un’edicola preesistente è scavata una profonda nicchia, una sorta di semicappella funeraria
contro cui si staglia la statua del pontefice, in marmo di Carrara.
Alessandro è inginocchiato a capo scoperto e, rivestito degli abiti pontificali, prega a mani giunte
rivolto verso la tomba di san Pietro.
Addossate al piedistallo si scorgono le mezze figure di due Virtù in marmo bianco: a destra la
Giustizia con lo sguardo fisso al cielo e sembra chiudere i piatti della bilancia; a sinistra la
Prudenza.
La parte superiore dell’ingresso è coperta dal drappo di diaspro, che proprio in quel punto viene
sollevato e scompigliato dal grande scheletro alato che irrompe sulla scena.
Con una mano la Morte si scosta dalla testa la coltre (drappo funerario), con l’altra brandisce una
clessidra.
A destra c’è la statua in marmo bianco della Verità: l’Allegoria doveva apparire nell’attimo in cui il
movimento dello scheletro le strappava di dosso la coltre, scoprendone la bellezza.
Ma quando il monumento era stato appena inaugurato, il papa allora regnante ordinò a Bernini di
nascondere queste simboliche nudità.

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A sinistra c’è la statua della Carità, che fissa il pontefice e si appoggia sulla coltre, come esausta
dopo un lungo cammino e provata dal peso del bambino addormentato.
Il sepolcro chigiano è ricco di motivi che furono ripetuti almeno fino a Canova: il papa
inginocchiato in preghiera, la porta reale che viene rivestita di significati simbolici, il drappo
ribelle, la decorazione architettonica, l’introduzione di un’allegoria (la Verità) estranea alle Virtù, il
dialogo che unisce queste ultime tra loro, e al pontefice.
L’innovazione più evidente della tomba di Alessandro VII è il movimento, che coinvolge tutte le
figure conferendo all’insieme un valore narrativo, drammatico in senso teatrale.
La porta è stata letta come una potente metafora visiva dell’incontro tra la vita e la morte, come la
porta della resurrezione e del Paradiso, come un sottile invito a varcarla per uscire dalla basilica e
tornare nel mondo reale. L
a chiave dell’intera composizione è il grande drappo colorato capace di creare l’illusione della
precarietà e della transitorietà.
L’intera tomba, nonostante abbia una concreta profondità architettonica, funziona visivamente come
una grande pittura.
Dopo aver attinto lo zenit per un tempo straordinariamente lungo, la parabola del Barocco iniziava
la sua fase di discesa.

Il trionfo della pittura: Rembrandt e Velàzquez.


Se Roma e San Pietro furono il centro del Barocco, i due pittori più grandi del secolo non vissero
nella città papale: Velàzquez fu il pittore di corte di Filippo IV a Madrid e l’olandese Rembrandt
visse soprattutto ad Amsterdam.
Ma ebbero rapporti con l’arte italiana del presente e del passato.

Visto dall’Italia, Rembrandt era una stella remota e le sue tele a sud delle Alpi erano pochissime,
come gli italiani che lo avessero visitato.
Ruffo, collezionista siciliano, domandò a Guercino di accompagnare Rembrandt con un quadro
dipinto nel suo primo stile gagliardo: e cioè quello forte, macchiato, chiaroscurato e dinamico
dell’Aurora Ludovisi.
Barocco, in una parola. [6]

Nel 1652, Ruffo aveva chiesto a Rembrandt di dipingergli un filosofo, a mezza figura.
Egli doveva avere in mente il tipo iconografico napoletano dei filosofi antichi, raffigurati come
mendicanti contemporanei distaccati dal mondo (un filone messo a punto da Ribera).
Quando Ruffo aprì la porta vide qualcosa di profondamente diverso: l’Aristotele contempla il busto
di Omero, oggi al Metropolitan Museum di New York (pag.101).
Rembrandt non volle mai venire in Italia, ma attraverso il suo maestro Pieter Lastman e attraverso
le opere dei caravaggeschi olandesi e di Adam Elsheimer assimilò l’essenza di quella rivoluzione
pittorica.
Cravaggeschi sono:
-la costruzione luministica
-l’abbattimento dei confini tra i generi (è un quadro di storia o di natura morta?)
-l’attuazione emotiva di un soggetto classico
-l’assenza di azione.
Il dipinto svela un altro canale dei contatti di Rembrandt con l’Italia: le stampe di traduzione.
Il volto del filosofo, infatti, riprende quello di Leonardo da Vinci che Raffaello attribuì al suo
Platone nella Scuola d’Atene, in Vaticano.
Aristotele indossa un costume di fantasia, da cui pende una catena d’oro: non è l’abito antico che ci
aspetteremmo, non è la veste lacera da straccione che avrebbe fatto indossare un Ribera, e non è
nemmeno il vestito contemporaneo cui sarebbe forse ricorso Caravaggio.
L’aspetto teatrale del costume sottolinea il tono teatrale di tutta la scena: Aristotele contempla il
busto di Omero come un Amleto contempla il teschio: solo, al centro di un proscenio, illuminato da
un fascio di luce.

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Uno spirito teatrale permea tutta l’opera di Rembrandt.
Prendiamo il ritratto del suo amico Jan Six nello studio, eseguito nel 1647 (pag.103).
La scena è naturale e spontanea, ma al tempo stesso teatrale.
Six è colto nell’intimità della sua casa, mentre col colletto della camicia slacciato si appoggia con
nonchalance alla finestra per leggere un libro, che piega nel modo più feriale e familiare possibile.
Una pila di libri, la spada e il cinturone gettati su una sedia, e un quadro con la tendina di
protezione mezza aperta completano la descrizione della stanza disordinata di un uomo di mondo.
Ma, al tempo stesso, il grande tendaggio della finestra si apre come un sipario e incornicia la luce
che circonfonde l’intellettuale.

Rembrandt nutriva un interesse per la recitazione, tale da utilizzarla come metodo di insegnamento
nella sua scuola di pittura.
Rembrant faceva leggere agli allievi il testo da dipingere e faceva loro interpretare i vari
personaggi.
Così potevano essere interpreti credibili di un volto e di una psicologia.
Qualcosa di molto simile accadeva anche con Gian Lorenzo Bernini.
Quando voleva attribuire un’espressione alla sua figura, assumeva lui quell’espressione e fissava se
stesso allo specchio.
I suoi allievi, infatti, ci hanno lasciato dipinti di lui vestito teatralmente (cosa che è accaduta anche
con Rembrant).

La messinscena serve a Rembrant per realizzare i suoi quadri più complessi, come la Ronda di notte
(pag.106), dipinta nel 1642 per decorare la Sala della Guardia nel palazzo del Municipio di
Amsterdam.
Rappresenta la compagnia del capitano Frans Banning Cocq in piena attività.
Questi è rappresentato in primo piano con il bastone e la fascia rossa del comando, in atto di
ordinare al proprio luogotenente (in costume giallo) di preparare la compagnia alla marcia, mentre
tutto intorno fervono i preparativi: si caricano e si scaricano gli archibugi (arma da fuoco), si srotola
la bandiera, si afferrano le picche e si muovono le bacchette dei tamburi.
Il forte chiaroscuro e la sensazione di moto che l’artista conferisce al suo quadro furono letti in
senso narrativo, e si pensò che tutto si riferisse alla cronaca pittorica di un esercizio di vigilanza
notturna (da qui il titolo Ronda di notte).
Ma la Ronda di notte non è solo un ritratto di gruppo teatralmente animato:
Rembrandt introduce nell’opera, tramite le strane figure di bambini in maschera bagnati dalla luce,
delle figure allegoriche.
Se in Italia era il prevalente genere storico a vedersi trasgressivamente ibridare col meno nobile, ma
più vitale, ritratto, in Olanda è invece la pittura di storia a contaminare e vitalizzare il ritratto, che lì
occupava invece il vertice della scala dei generi.

Al contrario di quella di Rembrandt, la vita artistica di Velàzquez si può raccontare come un


continuo confronto con l’Italia del presente e del passato.
Egli nacque a Siviglia nel 1599.
Intorno al 1621 Diego ultimava il suo primo capolavoro, l’Acquaiolo di Siviglia.
Il dipinto appartiene al genere del bodegòn (la versione spagnola del filone di pittura europea che,
tra 500 e 600, ritrae uomini e donne di umile condizione sociale all’interno di cucine, o comunque
in compagnia di cibi e oggetti), ma è privo del tono cronachistico e ironico che apparteneva a
questa produzione.
Le figure umane hanno una monumentalità che ben si adatterebbe ai santi di una pala d’altare, e il
venditore d’acqua porge il bicchiere come farebbe un sacerdote che alza il calice della messa.
È la luce caravaggesca che cava i copri e gli oggetti dall’oscurità.
Questo perché sia uomini sia oggetti sono tutti egualmente protagonisti del dipinto.

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Velazquez aveva compreso la tensione caravaggesca dell’abbattimento dei generi (copie di
Caravaggio giungono in Spagna).
Si tratta di una ripresa dal vero, perché l’acquaiolo era conosciuto in Siviglia.

Nella seconda metà del 1623 egli si stabilì a Madrid, dove avvenne l’incontro con la grande pittura
italiana, e soprattutto veneziana, collezionata dai re di Spagna.
In quel periodo Rubens giunse a Madrid e aprì anche a Velàzquez gli occhi sull’attualità della
lezione tizianesca, e più in generale veneziana, e gli consentì di assimilarla, consigliandogli di
andare in Italia.
Dal gennaio 1630 fu dunque a Roma, dove poté conoscere l’antico, i grandi maestri del
Rinascimento, i testi originali del caravaggismo e la lussureggiante arte barberiniana.
L’anno dopo tornò a Madrid e per i vent’anni successivi la sua vita venne scandita solo dai ritmi
monotoni della corte e fu privato di ogni libertà artistica, poichè, come di pittore del re, Diego
dovette dipingere quasi esclusivamente ritratti, e quasi sempre delle stesse persone.
Tuttavia, in questa gabbia dorata, riesce a creare alcune delle opere più importanti della storia
dell’arte occidentale: medita sulla natura umana e sovverte le regole del genere ritrattistico.
Divenne il pittore “di studio” per eccellenza: i suoi quadri nascevano nell’atelier all’interno della
reggia, come in un laboratorio in cui ripetere ossessivamente lo stesso esperimento sulla stessa
cavia.
Di qui proviene la disposizione a riflettere sulla propria attività, a parlare della sua arte attraverso le
sue stesse opere, a violare le regole dall’interno.

A questa filosofia appartiene il Marte in riposo (pag.110), dipinto a gran velocità con un colore
estremamente liquido.
Il risultato fu un guerriere triste, il dio più antieroico della storia dell’arte.
Si è provato a spiegarlo come una satira della decadenza militare spagnola, o come una sorta di
sequel dell’Apollo nella fucina di Vulcano di dieci anni prima, che rappresenti l’epilogo della storia,
quando Marte viene scoperto e preso in trappola dal marito tradito, e rimane solo sul ring come un
pugile suonato.

Diego riuscì ad essere di nuovo a Roma nel 1650 e qui nacquero i capolavori più impressionanti
della sua carriera, come la Venere allo specchio (pag.111).
Si tratta dell’unico suo nudo femminile e l’unico quadro di questo genere presente nella tradizione
spagnola fino a Goya.
La Venere sembra il ritratto di una donna precisa, che evidentemente ha posato per il pittore in
questa singolare posizione.
La sua sensalità e libertà ci rimandano agli esempi veneziane, mentre la posa si rifà alla statua
antica dell’Ermafrodito che aveva visto a Villa Borghese.
Solo un particolare trascurabile (le ali del bambino inginocchiato sul letto) fa intuire che non si
tratta semplicemente del ritratto di una donna nuda.
Ci si chiede se la genesi di quest’opera sia legata a quella storia d’amore che ha avuto a Roma e da
cui ha avuto un figlio.
Da lì a poco il quadro finì di proprietà del marchese Del Carpio.
Venere ha chiesto a Cupido di portarle lo specchio, e lui è volato a staccarlo dalla parete più vicina
ed è atterrato sul letto della madre.
Se vediamo il volto della donna nello specchio ciò vuol dire che lei a sua volta sta guardando noi.
In questo quadro troviamo una sintesi delle esperienze italiane di Velàzquez: una gamma cromatica
di ascendenza veneta innerva di vita una statua antica, e il tutto è posto al servizio di un’attenzione
al ruolo dello spettatore e al suo coinvolgimento, che proprio nella Roma barocca aveva attinto il
suo vertice.

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A questo secondo viaggio romano, risalgono anche gli unici paesaggi di tutta la sua carriera: le due
celeberrime vedute di Villa Medici: si tratta dei primi quadri dipinti en plein air della storia
dell’arte occidentale. S
appiamo, infatti, che gli artisti romani del periodo ritraevano scorci della campagna quasi sempre in
disegni che venivano poi rielaborati in studio in vista dei dipinti.

Divenne anche, per qualche settimana, il ritrattista più in voga alla corte di Roma.
Il quadro più importante fu il ritratto di Innocenzo X.
In esso, il ritrattista più grande incontrava il modello più importante del mondo. [32]

L’energia imbrigliata: l’alba del Re Sole


Nell’estate del 1665, Bernini fu inviato alla corte di re Sole, in Francia.
Se Bernini si fosse recato in Francia, il re Sole avrebbe posto fine alle minacce di invadere il
Vaticano.
Durante il viaggio Bernini venne onorato, ma il suo intervento fu un insuccesso.
Se si escludono il meraviglioso busto di Luigi XIV e il diario di viaggio scritto da Paul Fréart de
Chantelou è difficile elencare altri risultati di rilievo del soggiorno parigino di Bernini.
I progetti per il Louvre vennero abbandonati presto, l’accademia francese a Roma non fu fondata
sotto la direzione di Gian Lorenzo e la statua equestre del Re Sole che Bernini eseguì fu trovata
talmente brutta e meschina che lo scultore Girardon la trasformò in un Marco Curzio che si getta
nell’abisso.
Fu a spese di Bernini che Luigi XIV e il suo ministro Colbert si emanciparono dalla sudditanza
culturale verso l’Italia e specialmente verso Roma.
Si concludeva il periodo dell’imitatio Romae e iniziava la translatio studii ad Francos, che
accompagnava la translatio imperii sul piano politico e militare.
La translatio artis ad francos non si tradusse in un trapianto dello stile Barocco romano in Francia,
ma fu comunque ispirato ad esso.
Uno dei primi risultati di questo nuovo primato fu la Colonnade (facciata orientale del Louvre pag.
116) costruita tra il 1667 e il 1670 ad opera dell’architetto Louis Le Vau, del pittore Charles Le
Brun e da Claude Perrault, medico, ma anche traduttore di Vitruvio, teorico dell’architettura e
fratello dell’uomo di fiducia di Colbert.
Sebbene non sia presente alcuna linea curva, il ritmo delle colonne dell’ordine gigante accoppiate a
2 a 2 e stagliate contro l’ombra presuppone una profonda conoscenza del Barocco romano.

Inoltre il re chiese a Le Vau di avviare la trasformazione dell’amato castello di Versailles (pag.117)


in quello che sarebbe diventato non solo la sua residenza principale, ma un simbolo della stessa
monarchia francese.
La nuova Versailles segna una decisiva distanza dai modelli italiani, pur tenuti presenti.
A Versailles la gloria tonante del Barocco romano cominciava a trasformarsi nella grazia dello stile
che sarà noto come Rococò.

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