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La periodizzazione

da

della storia
dell’arte italiana
di Giovanni Previtali

Storia dell’arte Einaudi 1


Edizione di riferimento:
in Storia dell’arte italiana, I. Materiali e problemi,
1. Questioni e metodi, a cura di Giovanni Previtali,
Einaudi, Torino 1979

Storia dell’arte Einaudi 2


Indice

21. 1600. Caravaggio e il naturalismo

22. 1620. La crisi del Seicento

23. «Milleseicentotrenta, ossia il barocco»?

24. La crisi del Seicento: Roma e l’Italia


settentrionale

25. La crisi del Seicento: l’«eccezione» di Genova

26. La crisi del Seicento: Firenze, Napoli


e il Mezzogiorno

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21. 1600. Caravaggio e il naturalismo.

Di nuovo come alla fine del Due ed alla fine del Tre-
cento, l’espansione quantitativa si risolse, ad un certo
punto, in un salto qualitativo, rilevabile anche a livello
dello stile, e fu il segno di morte del manierismo. Ma
prima, anche questa volta, la ripresa di vitalità sembrò
investire contemporaneamente tutta la produzione arti-
stica nei suoi vari aspetti. La stessa spinta espansiva che
sosterrà, al momento giusto, la produzione negli stili
nuovi (Annibale Carracci) o rivoluzionari (Caravaggio)
assicura intanto una seconda giovinezza a quelli vecchi:
la formula «baroccesca» trova adepti entusiasti da Siena
(Francesco Vanni, Ventura Salimbeni)1 a Napoli (Giro-
lamo Imparato, Giovan Vincenzo Forlí)2 ed a Roma
stessa è adottata da giovani che si convertiranno in
seguito al naturalismo caravaggesco (Orazio Gentile-
schi, Giovanni Baglione); la «maniera dolce e pastosa»
di origine correggesco-zuccaresca trova sviluppi impre-
vedibili in artisti di grande talento, come il senese Ales-
sandro Casolani, il bolognese Bartolomeo Cesi, il pie-
montese Guglielmo Caccia detto il Moncalvo; la «rifor-
ma» tosco-veneta allinea, accanto ai vecchi campioni
(Santi di Tito, l’Empoli) i suoi nuovi devoti (Cigoli,
Passignano) spingendo i suoi avamposti fino a Napoli e
oltre (Giovanni Balducci, Fabrizio Santafede); e perfi-

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no il piú spericolato manierismo parmense conosce – lo


abbiamo visto – tramite Bartolomeo Spranger un inat-
teso e splendido revival (Raffaellino da Reggio, France-
sco Curia). A differenza, però, di quanto avvenuto nei
casi precedenti, il centro innovatore, che già al tempo
dei papi medicei aveva accennato a trasferirsi dalle rive
dell’Arno a quelle del Tevere, trova ora definitivamen-
te nella città dei papi la sua sede. Parallelamente, anche
al Nord, Milano e la valle padana sembrano essere in
grado di insidiare a Venezia il suo primato. Non è un
caso che tutto «lombardo» e padano sia (come è stato
una volta per tutte dimostrato)3 il retroterra di coloro nei
cui nomi il balzo qualitativo di fine Cinquecento giu-
stamente si riassume: Annibale Carracci e Michelange-
lo da Caravaggio.

22. 1620. La crisi del Seicento.

Gli storici dell’economia non hanno difficoltà a par-


lare, per il periodo che va all’incirca dal 1620 al 1730
di «crisi generale» e di «recessione» dell’economia euro-
pea; concordano anche nel considerare l’Italia la vitti-
ma piú illustre di questa crisi.
«Ancora agli inizi del Seicento, l’Italia – o meglio l’I-
talia centro-settentrionale – era una delle aree econo-
micamente piú sviluppate dell’Europa occidentale con
livelli di vita per quei tempi eccezionalmente alti. Verso
la fine di quello stesso secolo – cioè già all’incirca verso
il 1680 – l’Italia era divenuta un’area arretrata e depres-
sa»4; «tipico il caso dell’Italia che, da paese europeo col
piú alto grado di industrializzazione e col maggiore svi-
luppo cittadino, si trasformò in una tipica area di sot-
tosviluppo agricolo»5; «Gli anni finali del secolo XVI e
gli inizi del XVII sono ancora un periodo di fervore e di
vitalità per l’economia italiana, specie nelle città. Ma si

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trattò di un’ultima fase di euforia, seguita ben presto


da una recessione che finí col relegare l’Italia a un ruolo
marginale nel contesto europeo»6. Guido Quazza ha
intitolato una sua raccolta di saggi alla Decadenza ita-
liana nella storia europea7. Eppure la parola «decaden-
za» è, come è noto, passata di moda, presso gli storici
dell’arte, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del
nostro («rivalutazioni» dell’arte barbarica, del manie-
rismo, del barocco) ed è, col passar del tempo, divenu-
ta addirittura «tabu». In compenso ha goduto di gran-
de fortuna (con coloritura nuova, positiva) la parola
«crisi» fino al punto che al giorno d’oggi è difficile tro-
vare un singolo momento storico o addirittura un sin-
golo artista di cui non si dica, con malcelata soddisfa-
zione, che rappresenta un momento di crisi, è in crisi,
e cosí via. Sebbene francamente non si veda a che cosa
una «crisi profonda» «prolungata» e «senza sbocchi
positivi» possa portare se non a qualcosa che, in un
modo o nell’altro, coincide con ciò che una volta si
intendeva col termine di «decadenza».
Non si può negare che, a prima vista, non ci si trovi
qui di fronte – se solo si consideri l’opinione oggimai
corrente sull’arte seicentesca – ad un’altra di quelle
vistose contraddizioni tra fatti economici e sociali e fatti
culturali che hanno fatto la gioia di tanti storici ideali-
sti ed a risolvere le quali è stata di recente escogitata l’in-
gegnosa scappatoia degli «investimenti nella cultura».
È noto infatti come, a partire dalla fine del secolo
scorso, una grandiosa corrente di studi sia venuta a
riscattare dalle accuse illuministiche, rivendicandone la
validità e la grandezza, piú o meno tutti gli aspetti della
produzione artistica seicentesca: dal naturalismo al
barocco, dalla scenografia alle arti minori.
Alla rivoluzione naturalistica del Caravaggio viene
affiancata – spesso con toni anche piú esaltanti – la
riforma dei Carracci, con tutta la sua coorte di emiliani

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grandi e quasi grandi: Guido Reni, Domenichino, Lan-


franco, Guercino, l’Albani, l’Algardi, ecc. La pittura
veneta (che è sempre stata grande, fino al Tintoretto e
a Palma il Giovane) tuttavia «si rinnova» per l’influsso
dei tre immigrati (Lys, Fetti, Strozzi). I lombardi con i
Procaccini, il Morazzone, il Cerano proseguono la vigo-
rosa tradizione naturalistica, e la necessità di servire
l’apologetica religiosa e la propaganda dei Borromeo
non gli avrebbe fatto, a quel che si dice, altro che bene.
I fiorentini, oltre ad aver avuto, prima dei bolognesi, la
loro brava «riforma», sarebbero poi capaci di sintetiz-
zare, con raro equilibrio, i valori della tradizione dise-
gnativa con le novità naturalistiche. Napoli, accoglien-
do a braccia aperte le novità portate dal Caravaggio
fuggitivo si porrebbe addirittura, secondo alcuni, su
posizioni di avanguardia europea (posizioni che conser-
verebbe poi per tutto il secolo, fino a Solimena e...
Giambattista Vico). E non è ancora finita; perché verso
il 1630 abbiamo poi l’esplosione del nuovo grande stile
europeo, il barocco; che comprende Bernini e Borromi-
ni a Roma, Baldassarre Longhena a Venezia, Cosimo
Fanzago a Napoli e, solo con un po’ di ritardo, Guarini
e Juvarra in Piemonte. Un quadro roseo, una «risco-
perta» generalizzata, entro la quale bisognerà pure,
prima o poi, ricominciare a distinguere. Altra cosa, infat-
ti, mi pare che sia stata la rivalutazione della prima
grande generazione «seicentesca», della meditazione
antimanieristica di Annibale Carracci e dei suoi allievi
(Domenichino, Guido Reni), della drastica proposta
naturalistica (antiumanistica) di Caravaggio e dei suoi
immediati settatori, italiani (Gentileschi, Saraceni, Bor-
gianni, Serodine) e stranieri (Elsheimer, Ter Brugghen,
Honthorst, Valentin), ed anche di quella immediata-
mente successiva, cui appartengono pressoché tutti i
grandi della generazione «barocca» (Mochi, Lanfranco,
Fetti, Guercino, Bernini)8, altra l’estensione che, sotto

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impulsi di vario genere – non esclusi quelli mercantili –


dello stesso giudizio d’eccellenza viene oggi tentata per
quasi ogni aspetto della produzione successiva.
Gli studi sul Seicento vanno certamente mettendo in
luce le figure di tutta una serie di artisti validi, le cui
opere dimostrano che l’Italia continuò a produrre in
questo settore; non solo, che gli italiani continuarono ad
osservare, soffrire, riflettere e dibattersi anche nella
situazione di crisi in cui vivevano. E i risultati artistici
di queste osservazioni, lotte, riflessioni, sono evidente-
mente, oltre che in sé perfettamente validi, una fonte
unica per la conoscenza dettagliata degli aspetti molte-
plici in cui quella secolare «decadenza» effettivamente
si manifestò. Ma ciò non esclude, evidentemente, che di
«decadenza» si sia trattato. Certo, con i necessari distin-
guo. Innanzitutto che la produzione di opere d’arte di
qualità restò imponente (in alcuni casi si trattò proba-
bilmente, come è accertato per l’Olanda, di vera e pro-
pria sovrapproduzione). In secondo luogo che nella deca-
denza generale dell’economia il settore dei prodotti di
lusso (destinati alle classi privilegiate ed all’esportazio-
ne) deve aver risentito relativamente meno la recessio-
ne. In terzo luogo che l’ineguale distribuzione non solo
sociale, ma anche geografica, del peso della crisi ha per-
messo la sopravvivenza, per qualche tempo, di aree rela-
tivamente indenni, dove poterono manifestarsi feno-
meni abbastanza consistenti, anche se delimitati, di
euforia.
Sebbene la crisi seicentesca sia stata, per dimensione
e qualità, incomparabile con le precedenti, non è impos-
sibile applicare, anche all’Italia «barocca» il discorso
già fatto in altre occasioni: crisi recessiva, perdita di
slancio, diminuzione della capacità di rinnovamento,
non vuol ancora dire, necessariamente, calo repentino
della qualità media, né tantomeno cessazione della pro-
duzione.

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Ma tutto ciò accertato e premesso, non credo che sia


impossibile indicare, anche all’interno di questa pur
imponente produzione artistica, i segni della «decaden-
za» italiana. Il primo possiamo individuarlo con certez-
za nell’ulteriore concentrarsi della produzione in alcune
«capitali» (Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Genova,
Roma, Napoli, Messina, Palermo) e nell’accelerarsi del
processo di provincializzazione dei centri urbani mino-
ri (fra cui città che avevano mantenuto una certa impor-
tanza ancora nel Cinquecento: Mantova, Cremona,
Modena, Parma, Ferrara, Verona, Ravenna, Siena, L’A-
quila, Gaeta); il secondo nella perdita della forza d’e-
spansione e della funzione di guida dell’arte italiana
rispetto all’Europa.
La miglior riprova del primo punto è nel rinchiuder-
si provinciale delle culture locali, nella autodefinizione
delle «scuole» artistiche; ed è sintomatico che, proprio
nel momento in cui si definiscono concettualmente, e si
cominciano a prendere i primi provvedimenti «ammini-
strativi» per garantirne la sopravvivenza (scritti propa-
gandistici, accademie), il Lanzi sia costretto a registrar-
ne la perdita di slancio9. Mentre infatti sente ancora il
bisogno di aggiungere una nuova «epoca» (quarta, o
quinta) alle scuole fiorentina, romana, napoletana, vene-
ziana, cremonese, milanese, bolognese e genovese, non
altrettanto gli pare necessario per la senese, mantovana,
modenese, parmense, ferrarese, dove si limita ad accen-
nare alla fondazione delle accademie che avrebbero
dovuto far rinascere l’arte decaduta.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, basti riflet-
tere che, mentre il Cinquecento è ancora – su scala
europea – un secolo «italiano» in cui i migliori tra gli
stranieri (anche fra i fiamminghi) sono coloro che piú
profondamente assimilano l’esperienza della grande
maniera moderna (lombarda, veneta, tosco-romana) lo
stesso non può dirsi del Seicento. L’ultimo stile di ori-

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gine italiana che conquista l’intera Europa è il naturali-


smo caravaggesco (cui sono tributari, direttamente e per
vie diverse, Elsheimer e Rembrandt, Ter Brugghen,
Honthorst e Vermeer, La Tour e Le Nain, Velázquez e
Ribera)10 il quale, però, e non è sintomo da poco, in Ita-
lia viene assimilato con fatica, e per lo piú frainteso.
La successiva diffusione del barocco (romano, geno-
vese, napoletano) incontra, come è noto, notevoli diffi-
coltà proprio nei nuovi stati che hanno preso la testa
dello sviluppo (Francia, Inghilterra) venendo cosí a con-
figurarsi, in qualche modo, come stile «conservatore»
delle aree «marginali» (Spagna, Italia centro-meridio-
nale, Austria e Germania). E del resto attribuirne l’in-
venzione all’Italia (con il precedente di Rubens) non è
del tutto legittimo.
Non mancano, inoltre, in Italia, nel corso del Sei-
cento, sintomi di inversione di tendenza, per cui sono
ora gli artisti ed i collezionisti nostrani a guardare con
interesse alle novità d’oltralpe. Le acqueforti di Rem-
brandt vengono studiate da Stefano Della Bella e dal
Castiglione, i nobili genovesi si fanno ritrarre da Rubens
e Van Dyck, il collezionista messinese Antonio Ruffo
compra quadri di Rembrandt, Cosimo III mette insie-
me una collezione di pittura olandese. I ritratti «alla
Rembrandt» si moltiplicano, l’olandese Van Laer inven-
ta un genere, la «bambocciata» che, a dispetto di uma-
nisti ed accademici, ottiene strepitoso successo; l’Alba-
ni si afferma lanciando una formula, il rametto con
scena di genere di soggetto classico, che è un tipico
compromesso con la tradizione nordica. Ciò vuol dire
che una intera fetta del mercato (e il settore piú moder-
no, quello con piú avvenire) il settore dell’arte «da stan-
za» è sfuggito dalle mani degli italiani che nei quadri «di
genere» (ritratti, nature morte, bambocciate, paesaggi)
sono ora costretti ad imitare – senza troppo successo –
i prodotti stranieri.

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23. «Milleseicentotrenta, ossia il barocco»?

Ma, si dirà, a questo modo si torna a considerare


come periodo di decadenza proprio quello che coincide
con la grande «fioritura barocca» fatta iniziare, come è
noto, da Giuliano Briganti, in un saggio giustamente
famoso, di cui in questo paragrafo si riprende il titolo,
al 1630. Giuliano Briganti, avanzando la sua proposta,
aveva in mente soprattutto la pittura di Pietro da Cor-
tona11, ma se si guarda invece all’architettura, le cose
non sembrano cambiare di molto; ha scritto recente-
mente Anthony Blunt che «il barocco tutto d’un tratto
s’impose al mondo negli anni ’20 e ’30 del Seicento, e
nel corso degli anni ’60 aveva già esaurito quasi tutte le
sue risorse»12.
Se applichiamo però anche in questo caso il criterio
di interpretazione collaudato in precedenza e, senza
farci sedurre dalle metafore naturalistiche sullo sboc-
ciare, il fiorire, il vigoroso espandersi e sopravvivere
dello stile barocco, guardiamo freddamente alla dina-
mica dei fatti ed al suo piú probabile significato, credo
che dobbiamo dedurne che, mentre negli anni ’20 e ’30
la società italiana (nel caso: romana) fu ancora in grado
di esprimere soluzioni innovative (che fecero apparire
«desueti» anche stili, carraccesco, caravaggesco, di ori-
gine recente), tale capacità dovette venir meno negli
anni successivi, garantendo la «conservazione» (= «vigo-
rosa espansione e sopravvivenza») dell’ultimo arrivato
della fase espansiva: il barocco appunto.
Non già quindi, come si credeva una volta, il baroc-
co come arte della decadenza, espressione della corru-
zione della società italiana, ma la sua nascita come estre-
ma dimostrazione delle sue capacità espansive, sull’on-
da, ancora, dello slancio tardo-cinquecentesco (conser-
vato, a Roma, – e, per contrasto, con tanto piú rilievo
psicologico – per qualche lustro in piú), e la sua lunga

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sopravvivenza, come uno dei segni della successiva crisi


di ristagno.
Questa interpretazione del fenomeno barocco richie-
de, tuttavia, una piú attenta considerazione del «termi-
nus a quo». Che senso dare al 1630 proposto da Bri-
ganti, ed al 1620-30 di Blunt? Quello di punto di par-
tenza, o di piena estrinsecazione?
Mi sembra già significativo che proprio lo storico
dell’architettura, cioè dell’attività che richiedendo mag-
giore coordinamento di sforzi e concentrazione di inve-
stimenti, tende di solito ad essere rispetto alle arti sorel-
le, un indicatore piú lento e meno sensibile delle ten-
denze in atto 13, voglia arretrare di un decennio il
momento del decollo barocco.
Se ci spostiamo infatti sulla pittura e sulla scultura
dobbiamo constatare che tendenze non tanto, come è
stato detto, prebarocche, ma propriamente barocche in
senso pieno, sono perfettamente percepibili già alla fine
del secondo decennio. Anche a non voler risalire alle
premesse tardo-cinquecentesche di quello stile (al 1597
del Martirio di santo Stefano del Cigoli o al 1595-1604
degli affreschi di Annibale Carracci in Palazzo Farnese)
e a non voler troppo insistere (come pure sarebbe legit-
timo) sul fatto che quelle premesse furono subito messe
a frutto – e in senso già pienamente barocco – da Pier-
re Paul Rubens (in Italia tra il 1600 ed il 1607) a parti-
re almeno dal 160514, e limitandoci perciò solamente a
fatti italiani (e soprattutto romani), basti ricordare che
il Borgianni, autore tra l’altro della turbinosa e miraco-
listica Apparizione della Vergine a san Francesco di Sezze
(1608), è morto nel 1616, che dipinti del Lanfranco
dello stesso genere (Annunciazione in San Carlo ai Cati-
nari, Estasi di santa Margherita di Palazzo Pitti) vengono
datati nel secondo decennio, che l’Annunciazione di
Orvieto del Mochi è del 1603-1605, ed i suoi cavalieri
farnesiani di Piacenza (forse i piú «barocchi» di tutto il

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Seicento) degli anni 1612-25, che il Bernini scolpisce il


Nettuno (Victoria and Albert Museum) ed Il ratto di Pro-
serpina (Galleria Borghese) nei primissimi anni ’20, che
del 1621 è l’Aurora del Guercino, che il Fetti muore nel
1624, ed il Van Dyck è attivo in Italia dal 1621 al 1627,
ecc.15. Una serie impressionante di fatti che mi sembra
autorizzino a retrodatare il momento della scoperta
innovativa, del balzo qualitativo, almeno all’inizio del
secondo decennio, se non alla metà del primo.

24. La crisi del Seicento: Roma e l’Italia settentrionale.

Che dopo l’esaurirsi dello slancio della prima gene-


razione seicentesca quella dei seguaci del Caravaggio e
degli allievi dei Carracci, e di quella, di poco piú giova-
ne, dei nati alla fine del secolo (Bernini, Borromini,
Pietro da Cortona) si sia entrati in un periodo di relati-
va stasi è dimostrato, come al solito, indirettamente,
dalle difficoltà dei «conoscitori». Mentre nessuno stu-
dente di storia dell’arte scambierebbe un prodotto del
1270 per uno del 1320, o uno del 1470 per uno del
1520, e nemmeno uno del 1570 per uno del 1620, cono-
scitori anche agguerriti sono stati spesso assaliti da legit-
timi dubbi sulla datazione di opere tra il 1630 ed il
1680, e non credo soltanto perché, come suol dirsi, si
tratta di un periodo «meno studiato».
Piú direttamente, la tendenza al ristagno può essere
rilevata da due fenomeni che, malgrado le differenze loca-
li, spesso sensibili, possono, sul medio periodo, conside-
rarsi sufficientemente generalizzati. La già constatata tena-
ce persistenza degli stili affermati, e il carattere forte-
mente retrospettivo, nostalgico, vuoi «reazionario», degli
stili «nuovi» che si affermano a partire dagli anni ’30.
Per il primo aspetto abbiamo visto come, almeno a
Roma, vi vada compreso il cosiddetto «trionfo del

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barocco», solo che si consideri come lo stile del Berni-


ni, già perfettamente svolto alla fine degli anni ’20 (bal-
dacchino di San Pietro: 1624-33) possa continuare a
dominare, senza evoluzioni sensibili, fino agli anni ’80,
anche attraverso l’opera di allievi che, per quanto dota-
ti, non sentono il bisogno di apportarvi che varianti
minime: Ercole Ferrata (1610-86), Antonio Raggi
(1624-86), Domenico Guidi (1625-1701), Melchiorre
Cafà (1635-67) fra questi; e come lo stesso avvenga per
Pietro da Cortona, che è già tutto nel Trionfo di Palaz-
zo Barberini (1633-39), ma che continuerà a poter appli-
care felicemente lo stesso stile fino alla morte (1669);
stile che, anche in questo caso, viene esteso e prolunga-
to senza varianti se non di dettaglio, da artisti di note-
vole talento: Guidubaldo Abbatini (1605?-56), Salvi
Castellucci (1608-72), Lazzaro Baldi (1623-1703), Fran-
cesco Allegrini (1624-1679), Guglielmo Cortese
(1627-79), Ciro Ferri (1628?-89)16. Di questa tenace
affezione del pubblico e dei committenti agli stili già
affermati è segno del resto la sorprendente capacità di
tenere in pugno la situazione fino alla fine del secolo che
dimostrano alcuni vigorosi vegliardi nati ancora alla fine
del Cinquecento: Bernini a Roma, morto ottantaduen-
ne, Longhena a Venezia, ottantaquattrenne, Fanzago a
Napoli, ottantasettenne, Silvani a Firenze, novanta-
seienne.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello della
«invenzione» (retrospettiva), è sempre il Wittkower a
parlare, per Roma, nel decennio 1640-50, di «inversio-
ne di valori», «ritorno ad un secco ed arcaico stile bolo-
gnese», «arcaismo radicale», richiamando l’opera di
Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato (1609-85),
Gian Domenico Cerrini (1609-81), Giacinto Gimigna-
ni (1611-81), Francesco Romanelli (1610?-62)17; cui
aggiungerei Francesco Cozza (1605-82) e, senza falsi
pudori, anche il riconosciuto capofila di questa tenden-

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za retrospettiva, Charles Nicolas Poussin (1594-1665),


lo stoico portavoce della delusione degli «antiquari»
umanisti di fronte all’evolversi della situazione.
Se dal grande centro di elaborazione originale, la
Roma dei papi, spostiamo lo sguardo sulle altre capitali
regionali, il fenomeno è ancora piú sensibile. All’inizio
del secolo Venezia rimane una metropoli artistica di una
certa importanza, dove c’è posto anche per artisti venu-
ti da fuori (che sono poi i migliori), portatori di cultura
romana (Carlo Saraceni 1579-1620; Johann Liss
1595?-1629?), tosco-rubensiana (Domenico Fetti,
1589-1623), milanese-genovese (Bernardo Strozzi,
1581-1644) e poi perfino – cavallo di ritorno – riformata
toscana (Sebastiano Mazzoni, 1611-78). Ma le forze
propriamente locali esprimono una cultura decisamente
conservatrice, sia che si ponga mente al prolungarsi della
bravura tintorettesca nell’opera di Jacopo Palma il Gio-
vane (1544-1628), Sante Peranda (1566-1638) e Fran-
cesco Maffei (1600?-1660) sia che si consideri – ed è il
fatto piú interessante – che la meditazione antimanieri-
stica del Padovanino (1588-1648, in qualche modo con-
frontabile a quella romana di Annibale) assume già toni
arcaizzanti che si pongono come logico precedente per
le ricerche, parallele alle tendenze neovenete diffuse
contemporaneamente anche a Roma (Sacchi, Testa,
Mola, Poussin, ecc.), dei suoi allievi Pietro della Vecchia
(1603-78), Giulio Carpioni (1611-74), Francesco Ruschi
(1610?-1661), Pietro Liberi (1614-87)18. Ciò che per
questo gruppo di pittori sono stati i modelli canonici di
Giorgione e di Tiziano deve essere stato Palladio per gli
architetti veneziani: l’unico esempio di «barocco» che
viene citato è infatti quello, eccezionale, di Santa Maria
della Salute (1631-87) di Baldassarre Longhena
(1598-82).
Ancor piú chiara la perdita di slancio della scuola
bolognese, che pure, con Annibale, Guido, Domenichi-

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no, l’Algardi, si era presentata sulla scena romana in


veste di protagonista. La generazione dei nati fra il ’70
e l’80, Mastelletta (1575-1655), Alessandro Tiarini
(1577-1668), Giacomo Cavedoni (1577-1660), Lorenzo
Garbieri (1580-1654) è ancora in grado di esprimere una
cultura assai ricca e variata; ma dopo il ritorno del Reni
da Roma (1612) la stanchezza dell’ambiente è chiara-
mente dimostrata dal fatto che il suo stile tardo si
imponga anche ai piú giovani Francesco Gessi
(1588-1649), Giovanni Andrea Sirani (1610-70), Simo-
ne Cantarini (1612-48) divenendo «legge inesorabile
durante gli anni ’30». Né la svolta classicheggiante del
Guercino, se pure sincronizzata, come abbiamo visto,
con fatti romani, è segno che vada in senso inverso; né
lo è la persistente fortuna dei rametti mitologici del-
l’Albani (morto nel 1660). In questo quadro gli esperi-
menti piú interessanti sono proprio quelli del Cantari-
ni, che pur senza allontanarsi troppo dall’ortodossia
reniana, si prova in accostamenti naturalistici, in luce
trasparente quasi gentileschiana che, a quelle date, suo-
nano chiaramente nostalgici ed arcaizzanti, un po’ come
quelli, contemporanei, a Roma, di Francesco Cozza, del
Cerrini, del Sassoferrato19.
A Milano, poi, la peste «manzoniana» del 1630 è
generalmente accettata come segno anche della «fine
della prima e piú grande fase della pittura del Seicento
milanese»20. Anche qui, come a Bologna, non c’è con-
fronto possibile tra la generazione dei nati tra il ’70 e
l’80, Morazzone (1573-1626), Giulio Cesare Procaccini
(1574-1625), Cerano (1575-1632), che con il loro stile
bizzarro, tra Calvaert, Spranger e Cavalier d’Arpino,
sanno ancora inserire una variante vigorosa, con una
nota originalmente lombarda, nella fioritura internazio-
nale dell’estremo manierismo di Haarlem e di Praga, e
dove anche il naturalismo caravaggesco trova un rude
ma intelligente prosecutore in Tanzio da Varallo (1575?-

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1635), e quelle successive, dove il solo Daniele Crespi


(1598?-1630), con il suo naturalismo controriformato,
è capace di tenersi ai livelli piú alti21 e dove la persona-
lità piú spiccata che arriva a superare il crinale degli anni
’30, Francesco del Cairo (1607-65) è stato, giustamen-
te, e da tempo, indicato come uno dei grandi pittori
della corruzione e della decadenza22.
Il quadro fornito dai principali centri artistici dell’I-
talia settentrionale è quindi quello di una progressiva
perdita di slancio innovatore a partire dagli inizi del
secolo che diviene vero e proprio ristagno negli anni ’30;
e se passassimo ad esaminare i centri minori, la situa-
zione non apparirebbe certo migliore.
Sarà basso determinismo ricordare, a questo punto,
che «nella prima metà del secolo le regioni settentrio-
nali, coinvolte direttamente nella guerra dei trent’anni
e colpite dall’epidemia del 1630, perdettero oltre un
quinto della popolazione»?23.

25. La crisi del Seicento: l’«eccezione» di Genova.

Da questa panoramica della decadenza artistica del-


l’Italia settentrionale nella prima metà del Seicento
abbiamo tenuto fuori, fino a questo momento, la città
di Genova che fa, in qualche misura, caso a sé. Per
ragioni oggettive, come vedremo subito, ma, soprattut-
to, per ragioni di interpretazione storiografica. Perché
è stata indicata come caso esemplare – e controprova
positiva – dei danni economici della politica di «inve-
stimenti nella cultura» della classe dirigente italiana.
Cominciò il Lopez a chiedersi retoricamente «come
potremo spiegarci [...] l’oscurità artistica di quella metro-
poli degli affari che fu Genova?» e lo Hobsbawm ha
dovuto constatare come sia «ben accolta l’osservazione
degli storici indifferenti al fenomeno artistico, che

Storia dell’arte Einaudi 17


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

hanno osservato come l’unica fra le maggiori città-Stato,


Genova, che non produsse mai niente degno di men-
zione nel campo artistico, conservasse il suo commercio
e le sue finanze meglio delle altre»24.
Bisognerà innanzitutto intendersi sul significato
delle espressioni «oscurità artistica» e non aver pro-
dotto «mai niente degno di menzione». Perché certo
nessuno vorrà negare che, fin dalla fine del Duecento
(Manfredino da Pistoia, «Maestro di Santa Maria di
Castello») e nel corso del Trecento (tomba di Marghe-
rita di Lussemburgo di Giovanni Pisano, Bartolomeo
da Camogli, Taddeo di Bartolo), ma poi soprattutto del
Quattrocento (Donato de’ Bardi, Vincenzo Foppa,
Carlo Braccesco, Domenico Gagini) e del Cinquecen-
to (Giulio Romano, Perin del Vaga, Giovannangelo
Montorsoli, Galeazzo Alessi) i genovesi abbiano sapu-
to assicurarsi l’opera di maestri di tutto rispetto; e se
poi si intendesse alludere al fatto che la produzione
dovuta agli artisti locali risulta, rispetto a quella dei
«forestieri», mediamente di qualità minore, bisognerà
allora rilevare, che, usando tal metro, tra le città «arti-
sticamente oscure» bisognerebbe elencare anche Roma,
dove certo la sproporzione tra l’esile filone locale ricor-
dato con campanilistica fierezza dal Bellori (Cavallini,
Paolo Romano, Giulio Romano, Andrea Sacchi)25 e l’in-
sieme della produzione artistica è ancora piú marcato.
Né si vede come questa distinzione tra produzione
degli indigeni, produzione dei forestieri, e prodotti
importati, possa aver rilevanza rispetto al problema
degli investimenti improduttivi nella cultura, dato che,
importate o prodotte in loco, prodotte da cittadini o da
immigrati, le opere d’arte ci sono, e devono comunque
aver comportato investimenti adeguati. Investimenti
che, a giudicare dai risultati, devono essere stati, anco-
ra alla fine del Cinquecento e, a differenza dal resto
d’Italia, ancora per tutto il Seicento, tali da sostenere,

Storia dell’arte Einaudi 18


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

accanto all’attività di altri illustri immigrati, la fioritura


di una delle piú vitali ed originali scuole locali seicen-
tesche.
Per quanto è del primo aspetto basti ricordare l’atti-
vità genovese dei senesi Pietro Sorri (1556-1622), Fran-
cesco Vanni (1563-1619) e Ventura Salimbeni
(1567-1613), del lucchese Benedetto Brandimarte (noti-
zie 1588-92), del pisano Aurelio Lomi (1566-1622), del
bolognese-milanese Giulio Cesare Procaccini (1570-
1625, a Genova nel 1618); o i soggiorni dei fiamminghi
Pierre Paul Rubens (1577-1640, a Genova nel 1607),
Cornelis de Wael (1592-1667, che vi fu capo della folta
colonia fiamminga), Antonie Van Dyck (1599-1641, a
Genova nel 1621-22 e 1626-27) e dello spagnuolo Veláz-
quez (1599-1660, a Genova nel 1629).
Per il secondo, che, accanto al prolungarsi dell’atti-
vità di alcuni eccellenti maestri della generazione nata
nel sesto decennio del Cinquecento (Lazzaro Tavarone
1556?-1641; Bernardo Castello 1557-1629; Giovan Bat-
tista Paggi 1554-1627) Genova conosce, durante tutta
la prima metà del Seicento, la fioritura di una schiera di
pittori le cui date di nascita, a differenza di quanto
abbiamo dovuto constatare a Bologna e Milano (dove gli
artisti principali sono tutti, o quasi, nati negli anni ’70),
si scalano con ritmo pressoché uniforme tra il 1580 ed
il 1610: Bernardo Strozzi (1581-1644), Andrea Ansal-
do (1584-1638), Domenico Fiasella (1589-1669), Lucia-
no Borzone (1590-1645), Giovanni Andrea De’ Ferrari
(1598?-1669), Gioacchino Assereto (1600-49), Orazio
De’ Ferrari (1606-57), Giovanni Benedetto Castiglione
(1610?-1665) delineando, nell’insieme, un certo ritardo
del momento di maggior fioritura ma anche un paralle-
lo spostarsi in avanti del momento della crisi. La quale,
del resto, sembra essere stata meno sensibile anche se
non manca, a Genova come a Roma, Venezia, Bologna,
un artista che segna, nella seconda metà degli anni ’30,

Storia dell’arte Einaudi 19


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

il momento della «innovazione arcaizzante»: Pellegro


Piola (1617-40). E, dopo il momento di massima depres-
sione, sembra delinearsi, in certa misura su modelli
barocchi romani, ma con forte carattere di originalità,
una ripresa eccellente ed ugualmente sostenuta fino alle
soglie del Settecento per opera di artisti le cui date di
nascita si distribuiscono, di nuovo con notevole unifor-
mità, fra gli anni ’20 e gli anni ’40: Pierre Puget
(1622-94, a Genova nel 1661-67), Silvestro Chiesa
(1623-57), Valerio Castello (1624-59), Domenico Piola
(1627-1703), Filippo Parodi (1630-1702), Bartolomeo
Biscaino (1632-57), Giovan Battista Gaulli (1639-1709),
Gregorio De’ Ferrari (1647-1726). Nell’insieme (mal-
grado le perdite della peste del 1657: Orazio De’ Fer-
rari, Silvestro Chiesa, Bartolomeo Biscaino) un quadro,
rispetto alla situazione generale, singolarmente positivo,
e certo non inferiore (almeno per quanto riguarda la pro-
duzione indigena) a quello cinquecentesco26.
Lungi dall’essere una eccezione nel senso voluto –
isola di ricchezza per aver risparmiato sugli investimen-
ti artistici – Genova si presenta quindi, al contrario,
ottima conferma a quanto si sapeva sul mantenimento
– nella crisi generale del Seicento – della prosperità
della sua classe dirigente e, se ce ne fosse bisogno, del
parallelismo anche nel caso specifico dei diagrammi della
prosperità economica e della produzione artistica. La
quale, come abbiamo accennato, non manca di caratte-
ri tali (accentuato internazionalismo, apertura del mer-
cato locale ad artisti forestieri) da convenire agli orien-
tamenti di una oligarchia che doveva la conservazione
della propria straordinaria ricchezza, alla capacità di
mantenere i collegamenti con il mondo della finanza
internazionale27.

Storia dell’arte Einaudi 20


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

26. La crisi del Seicento: Firenze, Napoli e il Mezzo-


giorno.

In Italia centrale Firenze rappresenta il caso canoni-


co di cultura conservatrice. Non tanto perché anch’es-
sa non sia ancora in grado di dar vita, sull’onda dell’e-
state di San Martino cinquecentesca, ad una generazio-
ne di artisti paragonabile, per livello qualitativo, a quel-
le espresse dalle altre capitali provinciali, – Cristofano
Allori (1577-1621), Pietro Tacca (1577-1621), Matteo
Rosselli (1578-1650), Gherardo Silvani (1579-1675),
Giovanni da San Giovanni (1590-1636), sono profes-
sionisti di tutto rispetto – ma per la maniera in cui essi
si richiamano alla cultura della generazione piú antica,
e la trasmettono, con poche e marginali varianti, alla suc-
cessiva. Il Silvani mantiene l’architettura nel solco trac-
ciato dal Buontalenti (1536-1608); Pietro Tacca la scul-
tura in quello del Giambologna (1529-1608); Cristofa-
no Allori e Matteo Rosselli proseguono il moderato pit-
toricismo venezianeggiante del Cigoli (1559-1613), e
cosí via. Ed anche qui il nuovo assume, a partire dagli
anni ’30, accentuato carattere retrospettivo, sia che
Lorenzo Lippi (1606-65) rievochi il pulito naturalismo
bronzinesco di Santi di Tito Titi (1536-1603), sia che
l’enfant prodige Carlino Dolci (1616-86) si proponga a
fini devoti di ritradurre il naturalismo moderno del
Caravaggio in diligenza fiamminga, ottenendo effetti
allucinanti di cerea, mortuaria, quasi surrealistica evi-
denza. Una intonazione generale di contrito sentimen-
talismo accomuna l’opera dei giovani nati all’inizio del
nuovo secolo, Francesco Furini (1604-49), Felice Ripo-
so (1605-1669?), Cecco Bravo (1607-61), Orazio Fida-
ni (1610?-1668?), che sanno dar veste figurata alle devo-
zioni ed ai peccatucci di una provincia erudita, sonnec-
chiante, scettica e bigotta, ma in fondo sempre convin-
ta della propria insuperabile perfezione. La Firenze del

Storia dell’arte Einaudi 21


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

Seicento puzza di alcova e di confessionale, di muffa e


di camera ardente, ed i suoi artisti ce lo fanno sentire;
per questo essi sono certamente grandi; ma per la società
che li ha visti testimoni, non si dovrebbe parlare di
decadenza? È un ambiente in cui le novità vere non
potevano che provenire da fuori, e al di là dei confini
seppero infatti guardare i suoi figli migliori; fra gli arti-
sti soprattutto Stefano Della Bella (1610-64), l’incisore
che, come il genovese Castiglione, fece tesoro anche
dello studio delle acqueforti di Rembrandt28.
Abbiamo visto come Roma abbia sopportato meglio
di altri la crisi depressiva, ottenendone anzi, in un primo
tempo, per contrasto, un rilievo maggiore. È solo negli
anni ’60 che la decadenza della capitale papale apparirà
evidente a tutti.
Un caso abbastanza simile è quello di Napoli, dove
la grande fioritura artistica dell’ultimo quarto del Cin-
quecento sembra proseguire, sia pure con ritmo pro-
gressivamente rallentato, ben addentro nel secolo suc-
cessivo, fino alla rivolta di Masaniello (1647-48) o, addi-
rittura, fino alla peste del 1656.
Anche a Napoli, tuttavia, sono chiaramente leggibi-
li, a livello stilistico, i sintomi della stagnazione. L’ulti-
mo grande rinnovamento è quello determinato, con l’au-
torevole incoraggiamento dell’attività in loco dello stes-
so Caravaggio (1606-608), da Battistello Caracciolo
(1570?-1637) e Jusepe Ribera (1591-1652), cui si affian-
ca il neomanierismo naturalizzato dello Stanzioni
(1586-1656) e dello Spinelli (?-1647?), da confrontare
con le formule non troppo differenti adottate, negli stes-
si anni, da lombardi (Procaccini, Morazzone, Cerano),
genovesi (Strozzi, Ansaldo, Assereto) e, con un certo
ritardo, anche dai fiorentini (Furini, Pignoni, Cecco
Bravo). Negli anni successivi al 1620 non solo non si
registrano grandi novità rispetto a queste premesse, ma
si deve, anzi, prendere atto di una sorprendente capa-

Storia dell’arte Einaudi 22


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

cità di sopravvivenza anche degli stili di origine cin-


quecentesca: Fabrizio Santafede (1560?-1634), Bernar-
dino Azzolino (1572?-1645) e perfino Belisario Coren-
zio (1560-1648) continuano senza cambiar stile a riscuo-
tere notevole successo. I giovani, Andrea Vaccaro
(1604-70), Pacecco de Rosa (1607-56), Francesco Gua-
rino (1611-54) fino a Bernardo Cavallino (1616-56) pro-
seguono, con varianti minime, la corrente di stile ini-
ziata dallo Stanzione, o quella del Ribera (Francesco
Fracanzano, 1612-57)29.
Non sarebbe nemmeno difficile dimostrare che anche
altri centri portuali dell’Italia meridionale mantengono,
nella prima metà del Seicento, la capacità di produrre
autonomamente opere d’arte di buona levatura, citare i
pittori messinesi Alonso Rodriguez ( 1578-1648), Dome-
nico Marolí (1612?-1676) e Giovan Battista Quagliata
(1603-73), il siracusano Mario Minniti (1577-1640), il
palermitano Pietro Novelli (1603-74) o il trapanese
Andrea Carreca (?-1677) come perfettamente capaci di
far tesoro delle notizie delle novità napoletane, romane,
o fiamminghe portate nell’isola da Caravaggio (1609-10)
o da Van Dyck (1624)30, ma ai fini del nostro discorso,
il soffermarsi troppo a lungo nell’elencazione dei molti
nobili episodi di cui è ancora intessuta la storia dell’arte
italiana in questi anni rischia di far perdere di vista le
linee generali del fenomeno, ed il fatto fondamentale che,
in nessun caso, né in Italia settentrionale né in quella
meridionale, la seconda metà del secolo è neppur lonta-
namente paragonabile alla prima, anche se, per quanto
riguarda Roma ed il Meridione, il momento di massimo
cedimento sembra essere alquanto ritardato, al pari della
successiva ripresa settecentesca.

Storia dell’arte Einaudi 23


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

1
P. A. RIEDL, Disegni dei barocceschi senesi (Francesco Vanni e Ven-
tura Salimbeni), catalogo della mostra, Firenze 1976; cfr. recensione di
A. BAGNOLI e D. CAPRESI GAMBELLI, in «Prospettiva», aprile 1977, n.
9, pp. 82-86.
2
PREVITALI, La pittura del Cinquecento cit., pp. 111-19.
3
R. LONGHI, Momenti della pittura bolognese, in «L’Archiginnasio»,
XXX, 1935, n. 1-3 [anche in Opere complete, vol. VI, Firenze 1973, pp.
198-201]; ID., Quesiti caravaggeschi, II: I precedenti, in «Pinacotheca»,
marzo-giugno 1929, n. 5-6, pp. 258-320 [anche in Opere complete, vol.
IV, Firenze 1968, pp. 97-143]. Un’aggiornata messa a punto sulla
discussione relativa ai due artisti si può trovare nella edizione di BEL-
LORI, Le vite cit., pp. 31-45, 211-36.
4
C. CIPOLLA, The decline of Italy: the case of a fully matured economy,
in «The Economic History Review», serie II, vol. V, 1952, pp. 178-87
[trad. it. Il declino economico dell’Italia, in Storia dell’economia italia-
na, I, Torino 1959, pp. 605-23 (605)].
5
E. J. HOBSBAWM, The General Crisis in the European Economy in
the 17th Century, in «Past and Present», 1954, nn. 5 e 6 [trad. it. La
crisi del XVII secolo, in Crisi in Europa 1560-1660, a cura di Trevor
Aston, Napoli 1968, pp. 5-81 (10)].
6
A. BELLETTINI, La popolazione italiana dall’inizio dell’era volgare ai
giorni nostri. Valutazioni e tendenze, in Storia d’Italia Einaudi, vol. V, 1,
Torino 1973, pp. 489-532 (512).
7
G. QUAZZA, La decadenza italiana nella storia europea. Saggi sul
Sei-Settecento, Torino 1971. Cfr. PROCACCI, Storia cit., I, pp. 232-34.
8
Nell’impossibilità di registrare qui neppure i testi principali di que-
sto grandioso movimento di studi, ci limitiamo a rinviare alle biblio-
grafie recenti di R. WITTKOWER, Art and Architecture in Italy: 1600 to
1750, Harmondsworth 1958, 2a ed. 1965 [trad. it. Arte e architettura
in Italia 1600-1750, Torino 1972] e di E. BOREA, in G. P. BELLORI, Le
vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, edizione commentata, Tori-
no 1976, pp. XCI-CXXII, criticamente discussa nelle note.
9
LANZI, Storia pittorica cit., passim.
10
E. BOREA, La diffusione del naturalismo in Europa, in «I maestri
del colore», 265 (1968), pp. n. n.
11
G. BRIGANTI, Milleseicentotrenta, ossia il barocco, in «Paragone»,
gennaio 1951, n. 13, pp. 817; ID., Pietro da Cortona o della pittura baroc-
ca, Firenze 1962.
12
A. BLUNT, Some Uses and Misuses of the Terms Baroque and Roco-
co as applied to Architecture, London 1973 [trad. it. in A. BLUNT e C.
DE SETA, Architettura e città barocca, Napoli 1978, pp. 9-45 (17)].
13
Naturalmente se dall’architettura costruita si recede a quella sol-
tanto progettata il distacco tende a scomparire, senza tuttavia che ci
sia ragione di adottare l’opinione opposta, secondo cui «la trasforma-

Storia dell’arte Einaudi 24


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

zione architettonica precede i mutamenti relativi e corrispondenti del


pensiero di un’epoca e della sua struttura sociale» (E. KAUFMANN,
Architecture in the Age of Reason. Baroque and Post-Baroque in England,
Italy, and France, Cambridge (Mass.) 1955 [trad. it. L’architettura del-
l’Illuminismo, Torino 1966, p. 154]).
14
G. CHELAZZI DINI, Aggiunte e precisazioni al Cigoli e alla sua cer-
chia, in «Paragone», novembre 1963, n. 167, pp. 51-65; D. POSNER,
Annibale Carracci. A Study in the Reform of Italian Painting around
1590, London 1971; A. W. A. BOSCHLOO, Annibale Carracci in Bologna.
Visible Reality in Art after the Council of Trent, ’s Gravenhage 1974; M.
JAFFE, Rubens and Italy, Oxford 1977.
15
R. WITTKOWER, Gian Lorenzo Bernini. The Sculptor of the Roman
Baroque, London 1953; ID., Art and Architecture in Italy cit.
16
Vedi la bibliografia citata in WITTKOWER, Arte e architettura cit.,
e aggiungi almeno: A. GRISERI, Due dipinti di Lazzaro Baldi a Granada,
in «Paragone», settembre 1962, n. 153, pp. 37-39; V. CASALE, G. FAL-
CIDIA, F. PANSECCHI e B. TOSCANO, Pittura del Seicento e del Settecento.
Ricerche in Umbria, 1, Treviso 1976; G. DI DOMENICO CORTESE, Fran-
cesco Allegrini pittore di battaglie, in «Quaderni dell’Istituto di storia
dell’arte, Facoltà di Lettere, Messina», 1975, n. 1, pp. 31-37; C. ZAP-
PIA, Il volto ufficiale di Francesco Allegrini, ivi, 1976, n. 2, pp. 37-47;
F. ZERI, Francesco Allegrini: gli affreschi del Sant’Uffizio, in «Antologia
di Belle Arti», settembre 1977, n. 3, pp. 266-70.
17
WITTKOWER, Arte e architettura cit., pp. 251 e 278. Aggiungi: F.
MACÉ DE LEPINAY, Archaïsme et purisme au XVIIe siècle: les tableaux de
Sassoferrato à S. Pietro de Pérouse, in «Revue de l’Art», 1976, n. 31, pp.
38-56; E. BOREA, Gian Domenico Cerrini. Opere e documenti, in «Pro-
spettiva», gennaio 1978, n. 12, pp. 4-24.
18
Alla bibliografia citata in WITTKOWER, Arte e architettura cit.,
aggiungi ora A. SUTHERLAND HARRIS, Andrea Sacchi. Complete edition
of the paintings with a critical catalogue, Oxford 1977.
19
WITTKOWER, Arte e architettura cit., pp. 277-79; sulla pittura a
Bologna dalla seconda metà del Seicento all’Ottocento abbiamo ora il
volume di R. ROLI, Pittura bolognese 1650-1800, dal Cignani ai Gandolfi,
Bologna 1977.
20
WITTKOWER, Arte e architettura cit., p. 84.
21
Alla bibliografia citata in ibid., aggiungi ora AA.VV., Il Seicento
lombardo, catalogo della mostra, Milano 1973; G. PIZZIGONI, Inediti di
Tanzio da Varallo, in «Prospettiva», ottobre 1977, n. 11, pp. 58-62.
22
G. TESTORI, Su Francesco del Cairo, in «Paragone», marzo 1952,
n. 27, pp. 24-43; una interpretazione poi troppe volte applicata, con
varianti non essenziali, a soggetti non pertinenti, ma qui perfettamen-
te a posto.
23
BELLETTINI, La popolazione cit., p. 513.

Storia dell’arte Einaudi 25


Giovanni Previtali - La periodizzazione della storia dell’arte italiana

24
LOPEZ,Hard Times cit., p. 30; HOBSBAWM, La crisi cit., p. 24.
25
BELLORI, Vita di Andrea Sacchi, in Le vite cit., pp. 535-36.
26
È quanto risulta anche dalla piú recente panoramica sulla pittu-
ra genovese: AA.VV., La pittura a Genova e in Liguria dagli inizi al Cin-
quecento, Genova 1970, e La pittura a Genova e in Liguria dal Seicento
al primo Novecento, Genova 1971.
27
Cosí, giustamente, WITTKOWER, Arte e architettura cit., pp. 84-86
e 293-96. Cfr. anche QUAZZA, La decadenza cit., pp. 203-15 che si rife-
risce però, soprattutto, al periodo successivo.
28
La piú aggiornata messa a punto sulla pittura fiorentina del Sei-
cento è in E. BOREA, La Quadreria di Don Lorenzo de’ Medici, catalogo
della mostra, Poggio a Caiano 1977. Degli scritti anteriori, da ricor-
dare almeno, F. SRICCHIA, Lorenzo Lippi nello svolgimento della pittura
fiorentina della prima metà del Seicento, in «Proporzioni», IV, 1963, pp.
242-63 e M. GREGORI, 70 pitture e sculture del ’600 e ’700 fiorentino,
catalogo della mostra, Firenze 1965. Involontariamente rivelatore lo
scritto di C. DEL BRAVO, Carlo Dolci devoto del naturale, in «Paragone»,
luglio 1963, n. 163, pp. 32-41.
29
La piú recente trattazione d’insieme della pittura napoletana del
Seicento è quella di R. CAUSA, in Storia di Napoli, vol. V, 2, Napoli
1972, pp. 915-1055, dell’architettura quella di A. BLUNT, Neapolitan
Baroque and Rococo Architecture, London 1975. Aggiungi: A. SPINOSA,
Cosimo Fanzago, lombardo a Napoli, in «Prospettiva», ottobre 1976, n.
7, pp. 10-26; AA.VV., Mostra didattica di Carlo Sellitto primo caravagge-
sco napoletano, Napoli 1977; V. PACELLI, New Documents Concerning
Caravaggio in Naples, in «The Burlington Magazine», dicembre 1977,
pp. 819-29.
30
Lo stato degli studi per quanto riguarda l’Italia meridionale
(esclusa solo, fino a un certo punto, la città di Napoli) e la Sicilia è,
anche per il Seicento, estremamente arretrato, al punto che degli arti-
sti ricordati si cercherebbe invano una trattazione adeguata, o anche
soltanto una menzione fuggevole, nel piú volte citato, e peraltro aggior-
natissimo, repertorio del Wittkower. Vedi la recente messa a punto di
E. NATOLI nel commentario ad A. MONGITORE, Memorie dei pittori,
scultori, architetti, artefici in cera siciliani, Palermo 1977, e aggiungi: F.
NEGRI ARNOLDI, I «Cinque sensi» di Caccamo e l’attività siciliana di Gio-
vanni van Houbracken, in «Bollettino d’arte del Ministero della Pub-
blica Istruzione», aprile-settembre 1968, n. 2-3, pp. 138-44; ID., Alon-
zo Rodriguez: un caravaggesco contestato, in «Prospettiva», aprile 1977,
n. 9, pp. 17-37.

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