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RIASSUNTO LA GRAMMATICA TRA ACQUISIZIONE E

APPRENDIMENTO DI P. GIUNCHI E M. ROCCAFORTE

CAPITOLO 1
Definire la grammatica tra storia, polisemia ed eclettismo
La più antica testimonianza di grammatica è attribuita agli indiani. Il manuale di grammatica creato da Pāṇini
intorno al VIII-III secolo a.C. è intitolato Gli otto capitoli ed è un’opera nella quale l’autore raccoglie 3996
regole del sanscrito, ispirandosi a testi precedenti:
l’Unadisutra (una lista di vocaboli irregolari)
Il Dhatupatha (una lista di radici verbali),
Il Ganapatha (una lista di gruppi di parole alle quali possono essere applicate specifiche regole
grammaticali)
Sono però i Greci ad approcciarsi per primi all’arte di studiare sistematicamente la lingua. A loro si deve il
conio del termine “grammatica” per indicare la disciplina che include e sottende “l’arte di scrivere le lettere”.
Dunque la grammatica nasce per esigenze di classificare, tassonomizzare, catalogare e elencare regole della
scrittura, non dell'oralità. Nella cultura greca, infatti, la grammatica si riferiva esclusivamente alla capacità di
scrivere correttamente; quindi quella che noi oggi chiamiamo “ortografia”. Tra i primi greci a occuparsi di
nozioni grammaticali ricordiamo:
Il sofista Protagora, che per primo individuò i generi (maschile, femminile e inanimato)
Il filosofo logico Aristotele, che distingueva le classi di parole in nomi e verbi
Il filosofo stoico Crisippo, che crea un ponte tra greco e latino perché dalla sua grammatica verranno
presi tutti i principali assunti dei testi latini e delle prime Ars grammaticali romane.
Nella storia della lingua latina la prima Ars grammatica romana di cui si è mantenuta memoria apriva i
Disciplinarum libri di Varrone ed era un’opera breve e sommaria, concentrata in un solo libro; pare
comprendesse principi di fonetica e di flessione. Una costruzione un po’ diversa, sotto l’influesso
dell’applicazione dei principi di analogia e anomalia, doveva essere invece l’opera De lingua latina, di
Marco Terenzio Varrone, che ci è pervenuta solo in parte.
Il Medioevo, invece, è il periodo storico in cui si osserva una certa ambivalenza per quanto riguarda la
diffusione del concetto di grammatica, poichè da un lato notiamo un arresto nella proliferazione di testi che
si occupano di questo ambito di studio, mentre dall’altro lato la grammatica viene inclusa tra le arti liberali
che costituivano i due gradi dell’insegnamento scolastico medievale (Trivio e Quadrivio).
Tuttavia il concetto di grammatica, così come lo conosciamo oggi, risale al XVII secolo con la pubblicazione
della Grammaire générale et raisonnée (1660) di Lancelot, Arnauld e Nicole. Si tratta della prima opera
strutturata che include le nozioni di universali linguistici, cioè per la prima volta si afferma che tutte le
lingue abbiano categorie comuni (riferimento ai principi chomskiani universali). La prospettiva storica
sostanzialmente si ferma con quest’idea che l’universalità del linguaggio sia un dato di fatto, perché la
grammatica giustifica l'idea che ci sia un funzionamento comune che poi si manifesta sulla base di
evoluzioni sociali, storiche e culturali in modi diversi nelle lingue naturali, ma che richiama sempre questi
universali linguistici

La parola “grammatica” è per sua natura polisemica, cioè porta con sè numerose accezioni diverse. Di solito,
la prima accezione attribuita alla parola “grammatica” è legata al contesto scolastico per indicare gli esercizi
di memorizzazione di regole immutabili e inattacabili e di ripetizione a voce alta delle coniugazione verbali;
tuttavia, la parola può ricorrere in moltissimi altri contesti, come per esempio quello metaforico, o in
riferimento a discipline/arti ed attività che non hanno nulla a che vedere con la lingua. Il manuale cita il caso
del libro di Gianni Rodari “La Grammatica della Fantasia” all’interno del quale l’autore tratta una serie di
regole e tecniche da seguire per inventare storie bellissime. Inoltre, il termine “grammatica” assume
significati polivalenti anche tra i linguisti, gli studiosi di grammatica e gli insegnanti di materie linguistiche;
infatti, in campo linguistico il termine fa riferimento:
- l’insieme esplicito di regole in cui, a livelli molto vari di sistematicità e adeguatezza teorica, una varietà
standard di una lingua viene codificata.
- la competenza del parlante (che varia a seconda di quanti sono i sistemi linguistici che conosce).
- la descrizione teorica del sistema linguistico di una lingua naturale che utilizza un metalinguaggio per
addetti ai lavori.
- un libro che contiene un quadro esplicito, sistematico ed esaustivo delle caratteristiche di una lingua che fa
uso di un metalinguaggio adeguato al livello delle conoscenze degli apprendenti
- la sezione di un’unità didattica in cui gli apprendenti sono guidati ad osservare le specifiche caratteristiche
lessico-grammaticali della lingua oggetto di studio.
In conclusione, nell’uso comune, e per via di una tradizione ben radicati, il termine “grammatica” viene
riferito soprattutto a forme di codificazione e a descrizioni delle regole relative ai livelli di analisi della
lingua (fonologico, morfologico, sintattico, semantico e pragmatico) e all’apprendimento di queste regole
solitamente considerate disgiunte dal lessico. Ad oggi, però, questa idea della “grammatica” è stata
fortemente negata da una buona parte degli studiosi, i quali non reputano più opportuno insegnare la
grammatica come tassonomia di categorie universali del linguaggio, poichè tali categorie sono sdradicate
dalla realtà situazionale/comunicativa. Secondo gli studiosi più estremisti della grammatica, infatti, la
grammatica dipende dal registro che si usa o dalla lingua o dall’interlocutore o dalla situazione
comunicativa; di conseguenza, non è proficuo insegnare la distinzione tra genere maschile e femmile di un
sostantivo, laddove la grammatica dovrebbe servire per insegnare a comunicare e a farsi capire. Per anni la
grammatica si è concentrata sulla manifestazione significante della lingua, sulla sua forma, mentre ora si
dovrebbe andare oltre e studiare cosa c’è dietro.
CAPITOLO 2
Conoscere la grammatica
Il verbo “conoscere”, in italiano, indica il risultato finale di due processi molto diversi tra loro. In effetti
questo verbo può riferirsi tanto a un processo di apprendimento esplicito, ossia consapevole e deliberato,
quanto a un processo implicito e intuitivo. Di questo binomio si sono occupati numerosi studiosi nel corso
della storia e fin dall’antichità. Primo tra tutti lo storico Erodoto di Alicarnasso che, già nel I libro delle
Storie, dimostra di possedere una sorprendete finezza metalinguistica quando usa un verbo per definire il
processo esplicito, eteroguidato, con cui i figli di Ciassare imparano la lingua greca e a maneggiare l’arco da
una banda degli Sciti e un’altro verbo per descrivere l’acquisizione spontanea e naturale con cui la
sacerdotessa di Dodona ha acquisito la lingua greca.
Anche nella Roma del IV secolo d.C, la questione della conoscenza della lingua era molto sentita. Si
studiava soprattutto il greco, lingua per cui i latini nutrivano rispetto e ammirazione, dal momento che
consideravano la cultura greca la fonte del loro sviluppo spirituale. Quintiliano ci porta la testimonianza della
pratica diffusa nell’antica Roma di affidare i figli, sin dai primi mesi di vita, a nutrici e a pedagoghi greci
affinchè potessero acquisire con naturalezza la lingua, “succhiandola” come si fa per il latte materno. Ecco,
quindi, che l’esposizione alla lingua greca doveva procedere per via naturale mediante una interazione
quotidiana con un parlante madrelingua, in una dimensione che oggi verrebbe definita umanistico-affettiva.
In questo quadro, l’acquisizione della lingua greca, che durante l’infanzia e la puerizia avveniva con la
nutrice e/o il pedagogo e nel corso dell’adolescenza mediante soggiorni di perfezionamento ad Atene, portò i
Romani a una sorta di bilinguismo.
Con il procedere dei secoli, la conoscenza e la competenza della lingua greca presso i Romani andarono via
via scemando. Con la Constitutio Antoniniana, che aveva allargato la platea dei beneficiari della cittadinanza
romana agli abitanti delle province, furono i Greci a sentire la necessità di imparare la lingua latina, in modo
tale da avere accesso alle cariche pubbliche dello Stato romano. Si hanno tracce a Berito, l’oderna Beirut, di
una scuola dove si insegnava in latino il diritto romano, proprio perchè le possibilità di carriera nello Stato
romano tardoantico erano legate non solo a condizione fortuite, o a battaglie vittoriose, ma anche a una
solida preparazione in giurisprudenza e sull’apparato aministrativo dello Stato. Dalla necessità di insegnare,
in tempi brevi, la lingua latina a un più vasto pubblico di apprendenti incominciarono a nascere, non molto
più tardi del III secolo, nuove metodologie d’insegnamento che, all’occasione, potevano essere adoperate al
contrario da Romani desiderosi d’imparare la lingua greca. Di queste metodologie d’insegnamento ci sono
giunti i cosiddetti Hermeneumata, delle operette eterogenee composte da differenti parti, fra cui quella che
ha maggiormente suscitato l’interesse degli studiosi, ovvero la sezione definita colloquia scholica. Esse
assomigliano a brevi sceneggiature relative ad attività della vita quotidiana, poichè contengono dialoghi o
monologhi o parti descrittive, che verranno poi utilizzate dagli allievi come modelli per la conversazione in
situazioni specifiche. La lingua impiegata nei Colloquia è quella parlata, ben lontana dai modelli letterari in
uso nella scuola. In conclusione gli Hermeneumata presentano dialoghi tipici degli approcci che oggi
chiameremmo situazionali, seguiti da pratiche didattiche volte a memorizzare forme e vocaboli, soprattutto
tipiche dell’oralità, senza dare spiegazioni sulle regole grammaticali.

Il dibattito tra sapere implicito e sapere esplicito ha origine nel 1990 quando sul volume, edito da Zanichelli,
per la prima in volta in Italia viene proposta una riflessione sulla suddetta questione: la conoscenza implicita
è quella tipica dell’acquisizione linguistica, che evolve in modo autodiretto, esattamente come si impara a
camminare e poi a correre in condizioni fisiologiche normali; mentre la conoscenza esplicita è tipica di un
processo, in genere mediato, che comporta l’adizione di procedure di riflessione consapevole, che in generale
sono eterodirette. Proviamo ora a mettere in relazione la distinzione tra conoscenza esplicita e implicita con
il binomio acquisizione e apprendimento. Quest’ultimo distingue le due modalità di interiorizzazione o,
come si preferisce dire oggi, di processazione: la prima si sviluppa per immersione in un contesto naturale in
cui la lingua è quella in cui si comunica, ed è la modalità autodiretta tipica dello sviluppo del linguaggio da
parte del bambino; mentre la seconda è la modalità eterodiretta, in cui l’apprendente è esposto a un input
linguistico che è pianificato da altri e che si sviluppa generalmente in contesto educativo.
Non occorre avere grandi conoscenze teoriche per essere convinti che non sia possibile confrontare
l’acquisizione della lingua materna o di altra lingua a cui si sia esposti in età precoce con l’apprendimento di
una lingua oltre quella già acquisita, soprattutto se quest’ultimo ha inizio dopo il periodo ottimale, ossia
quello in cui l’acquisizione delle lingue è massimamente favorita dalla plasticità del cervello.
Benchè la sua teoria non abbia alcuna diretta applicazione alla didattica linguistica, Chomsky è fermamente
convinto che esista una predisposizione innata, una sorta di grammatica interna che viene definita LAD
(language acquisition device) e che consente al bambino di acquisire rapidamente una conoscenza implicita
del funzionamento della lingua a cui è esposto. L’affermazione di Chomsky viene ripresa da MacNeil per
sostenere che i bambini possiedono il concetto di frase dall’inizio e, sulla base di tale concetto, sono spinti ad
interpretare i dati linguistici che i parlanti offrono loro. Questo concetto è un esempio dell’esistenza di
principi linguisitci universali, ossia di una “grammatica universale” di cui l’individuo è dotato geneticamente
e che gli consente di applicare quei principi alla lingua o alle lingua in cui sarà immerso. Tra i numerosi studi
sull’acquisizione linguistica infantile, dobbiamo ricordare quelli longitudinali sull’ordine di acquisizione e
sulle strategie adottate dai bambini nello sviluppo della loro lingua, che sono stati il punto di partenza da cui
si sono mosse le ricerche per le lingue seconde al fine di dimostrare la similarità tra i principi che regolano
l’acquisizione della L2 e della L1. In questi studi è implicita la presupposizione che la conoscenza della
grammatica in età infantile avviene secondo un ordine “naturale” e attraverso un costante ricorso a strategie
cognitive e comunicative.
È necessario, però, sottolineare come gli aspetti grammaticali della lingua su cui fondiamo il nostro
ragionamento non sono considerati come fenomeni isolati, ma nel contesto situazionale in cui si manifestano.
Ciò significa che la necessità di studiare il funzionamento della lingua nell’ambito degli eventi comunicativi
reali comporta un diverso modo di concepire cosa si intende per conoscenza implicita ed esplicita della
grammatica. Prendiamo ad esempio il funzionamento di alcuni verbi di movimento come “andare e venire”
in italiano e “ir e venir” in spagnolo. Nel caso del parlante madrelingua italiano l’uso dei verbi “andare” e
“venire” risulta naturale, ma per l’apprendente italiano di spagnolo il corretto utilizzo di questi due verbi di
movimento è legato all’organizzazione della deissi spazionale, poichè è necessario capire se il luogo di
referenza ingloba locutore e interlocutore.
Sulla distinzione netta tra le due modalità poggia l’ipotesi dell’input comprensibile di Krashen, relativa
all’acquisizione e apprendimento di una lingua seconda da parte di adulti, che risale alla metà degli anni
Settanta dello scorso secolo. La teoria della psicolinguistica Krashen, che risente fortemente dell’influenza
del pensiero linguistico di Chomsky, opera una distinzione netta tra acquisizione e apprendimento.
 L’acquisizione è un processo in cui ha prevalenza il significato della forma, similmente a quel che
accade nella lingua materea; si può sviluppare anche in un’altra lingua a condizione che l’input sia
comprensibile, vale a dire che contenga informazioni rilevanti e significative per l’apprendente.
 L’apprendimento è invece il processo teso alla conoscenza esplicita delle forme della grammatica.
La sua posizione rispetto alla conoscenza della grammatica è molto radicale. Secondo Krashen, la
conoscenza della grammatica non nasce da quanto si può apprendere in modo consapevole con lo studio
delle regole e le spiegazioni che sono impartite in classe o consultando le grammatiche, ma è frutto di un
processo pressochè interamente subconscio, che si sviluppa con l’input comprensibile, e in particolare con la
lettura di testi di contenuto rilevante e significativo per gli apprendenti.
Un’altra affermazione forte avanzata da Krashen è che non si deve confondere l’acquisizione con
l’apprendimento induttivo. Nonostante sia l’apprendimento induttivo sia l’acquisizione condividano il fatto
che l’input preceda la rappresentazione delle regole, sussistono delle diversità:
APPRENDIMENTO INDUTTIVO ACQUISIZIONE
L’enfasi è sulla forma, per cui lo studente dovrà Lo studente tenterà di capire il messaggio che l’input
analizzare gli aspetti formali dei dati presentati contiene.
La regola appresa induttiva mente è la Una regola acquisita non è consapevole, ma si
rappresentazione mentale consapevole di una manifesta come senso per la correttezza.
generalizzazione linguistica.
Avviene molto rapidamente, in quanto è un’attività Richiede tempo e una quantità ingente di dati come
di problem solving. input.

CAPITOLO 3
Teoria, descrizione e pedagogia della grammatica
Tre sono le dimensioni che, nel concetto di grammatica, si sovrappongono, si integrano e si influenzano, sia
dal punto di vista definitorio che dal punto di vista della sostanza:
1. La grammatica teorica è un modello astratto del linguaggi, elaborato dal linguista per un pubblico di
addetti ai lavori, per cui una grammatica di questo tipo utilizza un metalinguaggio che è condiviso solo
nella comunicazione tra esperti. Alcuni esempi di grammatiche teoriche o scientifiche sono: La grande
grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi e Cardinaletti ed Syntactic Structures di Chomsky
2. La grammatica descrittiva indica una descrizione esplicita e sistematica del funzionamento dei
meccanismi che governano una data lingua per un pubblico di persone che la lingua la conoscono in
modo intuitivo e subconscio. Essa è diretta a parlanti nativi, ma può essere diretta ad insegnanti e
studenti, o anche parlanti sufficientemente competenti e che vogliano soddisfare la loro curiosità. Il
metalinguaggio usato è specifico e varia da lingua a lingua. Esempi di grammatica descrittiva sono
quelle di Serianni e Castelvecchi (quando la teoria di riferimento è tradizionale)
3. La grammatica pedagogica presenta le caratteristiche morfologiche, sintattiche, semantiche e
fonologiche salienti della lingua, con un metalinguaggio consono ai suoi destinatari: insegnanti e
apprendenti. Quando si dirige a chi la lingua la deve apprendere offre definizioni informali, tabelle e
schemi utili all’interiorizzazione delle regole; quando si dirige a chi la lingua la deve insegnare offre
spunti, esempi e attività da proporre agli studenti. Si pone come obbiettivo quello di attivare ed
arricchire progressivamente la capacità d’uso della lingua da parte di chi apprende tramite l’utilizzo di
un metalinguaggio consono al proprio apprendente, infatti la prerogativa della grammatica pedagogica
sarà quella di assumere come punto di vista quello dell’apprendente, adeguando la grammatica alle varie
fasi della sua interlingua o grammatica interna. Il concetto di grammatica pedagogica è stato introdotto
da Noblitt che la considera come “una serie di asserzioni sincroniche che rappresentino il graduale
approssimarsi dello studente alla lingua oggetto di studio”. Successivamente la nozione viene ripresa da
Corder che la considera come la presentazione delle informazioni sulla lingua a scopi pedagogici. Si
sono poi susseguiti una serie di riflessioni sul termine da parte di: Rivers, Allen e Zimmerman
- Rivers pone in evidenza la funzionalità pedagogica delle grammatiche, sottolineando come debbano
prendere forma in rapporto ad una serie di fattori tra cui (età, maturità intellettuale, bisogni
dell’apprendente o durata ed intensità del corso di studio…
- Allen afferma che la grammatica pedagogica è una collezione di materiali estratti da una o più
grammatiche specifiche e usata come base per l’insegnamento linguistico
- Zimmerman asserisce che una grammatica pedagogica si costituisca in base a due criteri: il
destinatario e il rapporto con il materiale didattico di un corso specifico di lingua. Inoltre, in base a
questi due criteri Zimmerman distingue quattro tipi di grammatiche:
quella per il docente che non è legata ad uno specifico manuale di L2
quella per il docente in relazione al lavoro svolto in classe
quella di riferimento per l’apprendente non correlata al lavoro svolto in classe
quella per l’apprendente strettamente correlata al lavoro svolto in classe
Se consideriamo il rapporto tra le tre dimensioni della grammatica, possiamo constatare che la tendenza, in
passato, è sempre stata quella di considerare i tre livelli in un rapporto gerarchico di dipendenza; in realtà,
ognuno degli aspetti di una dimensione può influenzare l’altro e determinarne profondi cambiamenti.

CAPITOLO 4-5
Se consideriamo come inizio della linguistica strutturalista moderna la pubblicazione del 1916 del Cours de
linguistique générale, l’opera che è generalmente considerata l’archetipo dell’orientamento tradizionale è La
grammaire générale et raisonnée de Port Royale contenat les fondments de l’art de parlare, expliqueés d’un
manière claire et naturelle, scritta nel 1660 dal teologo Antoine Arnauld e dal grammatico Dom Claude
Lancelot.
La prospettiva tradizionale (Grammatica di Port Royale) è del tutto centrata sulla forma e sul metodo
classificatorio. Essa classifica le diverse forme creando classi regolari, tali da formare un repertorio fisso e
stabile. Grazie alla forma si identificano alcune categorie principali ricostruite in base al principio delle
ricorrenze nel contesto. Il metodo si basa sulla componibilità/scomponibilità delle unità linguistiche. Il
secondo principio caratterizzante della grammatica è il principio della regolarità delle proprietà: una ricerca
di stabilità nel flusso dei fenomeni linguistici, per cui ciò che contravviene alla stabilità di una classe è
considerato divergenza alla norma. Generalmente le grammatiche tradizionali sono oggetto di critica da parte
dei linguisti contemporanei, soprattutto per quanto riguarda la consuetudine a presentare le regole in modo
troppo astratto, non approfondendo le ragioni che spiegano i meccanismi profondi e reali che governano la
lingua e dunque staccando la grammatica dalle esigenze reali di uso della lingua.
Il metodo grammaticale-traduttivo è stato uno dei metodi più diffusi dalla fine del Settecento fino alla fine
degli anni Settanta del Novecento; ciononostante questo metodo è stato ampiamento criticato nel corso del
XX secolo, in quanto centra il suo interesse sui prodotti linguistici, sulla grammatica, sulle regole
passivamente memorizzate, non attivamente scoperte, lasciando in ombra tutto quanto concerne i processi
cognitivi e linguistici che sono alla base dell’acquisizione di una lingua. Questo metodo ricalca i metodi
utilizzati per l’insegnamento delle lingue classiche e aveva come obbiettivo primario quello di permettere al
discente di accostarsi alle opere letterarie nella loro versione originale, senza bisogno di traduzione; infatti
tale metodo lavora sull’abilità metalinguistica e la scrittura, mentre si lavora poco sull’oralità, poiché
l’obbiettivo di tale metodo era che l’apprendente fosse in grado di comprendere e di tradurre dalla lingua
materna alla lingua target e viceversa. L’insegnamento della grammatica, dunque, rivestiva all’interno di
questo metodo un ruolo fondamentale. Il docente era considerato come il detentore di tutte le informazioni e
come il principale responsabile dell’apprendimento dei discendenti. Egli aveva il compito di insegnare la
lingua attraverso la spiegazione esplicita e deduttiva e in lingua materna delle regole grammaticali, di
cui gli studenti dovevano una conoscenza mnemonica. Da un punto di vista di come era strutturata
un’unità didattica di apprendimento, sappiamo che la lezione era frontale dove il docente spiega la regola
grammaticale in lingua materna e successivamente faceva fare un’esercitazione di traduzione presente sul
libro, spiegando agli apprendenti che cosa doveva fare e facendoli leggere. Durante l’esercitazione il docente
guida gli studenti nella lettura e nella traduzione, anche qui correggendoli subito in caso di errore (= l’errore
sarà considerato un effetto negativo in assoluto perchè è una deviazione da quella idea di lingua e da quel
modello. Tale errore andrà segnalato e sanzionato in qualche caso), ripetendo anche le frasi tradotte dagli
studenti per far sì che sia chiara la struttura e la pronuncia. Il metodo è top-down in quanto si basa
sull’acquisizione della lingua in maniera deduttiva, cioè dalla regola all’applicazione, per cui l’insegnamento
si riduceva alla semplice esposizione delle strutture grammaticali di una lingua e alla susseguente verifica di
tale apprendimento al di fuori di qualsiasi situazione reale o realistica di uso e di comunicazione tramite o
l’applicazione pura della regola o tramite la traduzione, che veniva considerato come l’unico modo per
l’apprendente di confrontarsi con la lingua.

Il metodo della lettura è un approccio di matrice comunicativa nato negli Stati Uniti nel ventennio tra le
due guerre mondiali. Questo metodo si caratterizza per essere focalizzato unicamente sullo sviluppo delle
abilità di lettura: la comprensione della lingua scritta è infatti la sola abilità linguistica curata al suo interno.
Nel reading method viene insegnata infatti solo la grammatica necessaria per comprendere testi di lettura, il
lessico utilizzato è inizialmente molto limitato e viene poi gradualmente ampliato; per verificare la
comprensione di un testo scritto si utilizza principalmente la traduzione. Il docente, che guida lo studente a
leggere, interpretare e tradurre i testi, non deve necessariamente avere una buona competenza delle L2 a
livello orale, poiché l’insegnamento è generalmente attuata nella madrelingua dei discenti.

Verso la fine dell’Ottocento nacquero i cosiddetti metodi diretti, il quale assunto di base afferma che
l’apprendimento di una lingua straniera sia tanto più efficace quanto più esso avvenga in maniera analoga
all’apprendimento della lingua materna, quindi in maniera naturale. I metodi diretti, infatti, mettono in
rilievo l’apprendimento della capacità orale rispetto a quella scritta. I metodi diretti si sviluppano in un
momento storico in cui l’esigenza di dover comunicare tra persone provenienti da paesi diversi aveva messo
in luce alcuni dei principali limiti del metodo grammaticale-traduttivo, tra cui l’inadeguatezza ad insegnare la
lingua d’uso. Nei metodi diretti vengono quindi abbandonate alcune delle pratiche che caratterizzavano il
metodo grammaticale-traduttivo, tra cui la traduzione e l’insegnamento grammaticale: al docente veniva
infatti richiesto di utilizzare soltanto materiali autentici, senza mai far ricordo alla lingua materna, in modo
tale che lingua straniere fosse così appresa per “contatto” con l’ambiente nel quale la si pratica tramite la
conversazione. Inoltre, l’apprendimento grammatica veniva scoperto in modo induttivo affinché si arrivasse
alla formulazione di un’ipotesi sulle regolarità della lingua.

Il metodo diretto più importante è il metodo di Berltiz, sviluppata nel 1878 da Maximilian Berlitz da cui
prende il nome e il cui obbiettivo principale è quello di consentire all’apprendente l’utilizzo della lingua
acquisita in situazioni reali; infatti, i metodi diretti in generale avevano come apprendenti principali i soldati
che dovevano avere una conoscenza rapida e molto pratica delle lingue che si dovevano trovare ad incontrare
nei luoghi in cui erano destinati.

La prospettiva strutturalista (esponenenti del gruppo di Bloomfield) si sviluppa sia in Europa sia negli
Stati Uniti come reazione al modello della grammatica tradizionale, alla quale si vuole contrapporre una
descrizione sistematica delle lingue; infatti, nella prospettiva strutturalista la lingua è concepita come una
combinazione di costituenti e costituenti immediati, organizzati in un insieme strutturato, gerarchico e
stratificato e distribuiti in classi che sono distinte in base alla loro possibilità di commutare in un determinato
contesto. In relazione all’apprendimento gli strutturalisti hanno condiviso la convinzione che ogni enunciato
fosse descrivibile a tre diversi livelli linguistic: frasale (sintassi), morfematico (morfologia e lessico) e
fonematico (fonologia) e l’apporto innovativo, rispetto alla tradizionale, è stato quello di descrivere con un
medesimo metodo di analisi i tre livelli linguistici, che vengono affrontati fornendo indicazioni utili alla
effettiva comprensione e produzione della lingua parlata. Nella prospettiva strutturalista la grammatica
strutturale si basa sull’assioma che ogni sistema è costituito da unità che si combinano tra loro in modo
concatenato e influenzandosi a vicenda.
Nel metodo audiovisivo strutturoglobale l’unità di apprendimento didattica si struttura sull’ascolto e su
contemporaneamente la visione di registrazioni di dialoghi inseriti in un contesto di vita quotidiana in lingua
target. I mezzi tecnologici permettono di esporre lo studente alla lingua straniera in situazione. Prima
dell’ascolto/visione della registrazione, la docente chiede agli studenti di individuare alcune informazioni
nell’ascolto. Si osservi come l’insegnante ha un ruolo marginale, si limita a presentare il materiale didattico
precostituito e suddiviso per unità secondo una progressione stabilita a priori. Per verificare la comprensione
del dialogo, finita la registrazione, l’insegnante chiede agli apprendenti le risposte alle domande poste
precedentemente e fa ripetere il dialogo frase dopo frase, correggendo eventuali errori di pronuncia. Gli
errori fonetici sono corretti immediatamente per evitare che siano automatizzati. Poi fa vedere i piatti
nell’immagine e fa ripetere i nomi dei piatti, in modo tale che lo studente memorizzi le strutture della lingua
imparando il lessico in modo tematico. Da un punto di vista della grammatica, l’insegnante esplicita la regola
appresa durante la lezione in modo induttivo, riprendendo la struttura e applicandola in altre frasi. Produce
lei ora delle frasi con la regola oggetto di interesse e invita gli studenti (uno alla volta) a ripeterle. Nella fase
di rimpiego delle strutture e del lessico appreso, l’insegnante divide la classe in gruppi e chiede loro di
costruire una conversazione. Guida la costruzione di questa conversazione dando loro delle informazioni
generali sugli argomenti da trattare. Gli studenti sono guidati verso una produzione orale sempre più
spontanea e orientata verso i loro i interessi. Il metodo audio-orale (situazionale) è stato ideato e messo in
pratica nell’ambito di un programma specializzato dell’esercito americano per l’insegnamento delle lingue
straniere. Alla base di questa teoria vi era, oltre alla teoria strutturalista della lingua, anche l’influenza delle
teorie relative alla psicologia comportamentista di Skinner. Secondo questo metodo l’apprendente dovrebbe
calarsi all’interno di una situazione, in modo tale da mettere in atto uno scambio comunicativo efficace. I
materiali didattici che seguono questo metodo sono caratterizzati da una serie di titoli per unità che sono
molto spesso simili tra loro (es. al ristorante, al cinema, in famiglia) e hanno una connotazione situazionale
molto forte e procedono sempre per dialoghi, in cui viene introdotto uno specifico lessico (fare un
complimento, elencare degli indumenti in un guardaroba) ma anche funzioni (come fare un reso, come
cambiare un capo). Sono tutti temi che fanno capo a una situazione comunicativa. Grande importanza veniva
quindi data allo sviluppo delle abilità orali, mentre quelle scritte erano lasciate in secondo piano. Il ricordo al
metalinguaggio e alla spiegazione esplicita delle regole non era mai previsto: la grammatica veniva infatti
appresa in modo implicito, tramite un processo di analogia e induzione; essa, dunque, cessava di essere il
focus primario dell’insegnamento linguistico. L’insegnante non gode di una particolare autonomia didattica,
il suo compito era quello di guidare l’apprendente lungo un cammino costituito da tappe precise e di
verificare il buon esito dell’apprendimento.
L’ approccio umanistico-affettivo non pongono al centro della riflessione didattica il docente o la
grammatica, come il resto dei approcci deduttivi e induttivi, bensì l’apprendente. Questo metodo si diffonde
a partire dagli anni Settanta-Ottanta soprattutto negli Stati Uniti. Questo metodo è caratterizzato dalla
particolare attenzione agli aspetti psicologici dell’apprendimento, al ruolo della motivazione
dell’apprendente e all’atmosfera della classe, che deve sempre essere rilassata; di conseguenza si cerca
sempre di mettere l’apprendente a proprio agio, in modo tale da tenere il filtro affettivo sempre abbassato, in
quanto questi metodi condividono la visione dell’apprendimento linguistico come un processo induttivo di
scoperta delle regole. La relazione che si instaura tra insegnante e allievo è simile a quella che
contraddistingue il rapporto tra psicoterapeuta e paziente. I metodi umanistico-affettivi più importanti sono,
tuttavia sono accumunati dall’idea di fondo che prevede il coinvolgimento dell’apprendente in un’attività
piacevole, che non sia né fonte di stress né si concentri sulla lingua, affinché il processo di apprendimento
della lingua in qualche modo ricalchi di più quel processo di acquisizione che procede senza sforzo quando
siamo esposti ad una lingua in modo naturale:

 Suggestopedia = L’apprendente è messo in una condizione di totale rilassamento, in modo da


escludere dal percorso di apprendimento qualsiasi componente di tensione. In questo metodo lo
studente è il protagonista del processo di apprendimento; tuttavia, egli non gode di particolare
autonomia, in quanto si lascia guidare dall’insegnante e non partecipa alle scelte didattiche . Il
metodo ha una maggior capacità di successo nel momento in cui in una seduta suggestopedica gli
apprendenti sono pochissimi, si parla di al massimo 4-5 apprendenti per classe, ancora meglio se
invece la seduta è singola. Durante la seduta si parla di argomenti che sono cari all’apprendente,
qualcosa che l’apprendente vuole tirare in ballo. In America questo metodo ha avuto grossa
risonanza, soprattutto negli anni ’80-90, perché era visto come un ottimo compromesso tra la terapia,
che porta ad un benessere psico-fisico della persona, e l’utilità di imparare un’altra lingua . È
necessario ricordare però che quello che fa l’insegnante di lingua non è assolutamente una
prestazione professionale consona rispetto a quella che potrebbe essere quella di uno psicoterapeuta,
però l’obiettivo è affine, in quanto si cerca di ricreare quello stesso benessere.

 Silent way = questo metodo è stato teorizzato da Caleb Gattegno. Il nome del metodo è dovuto al
fatto che il ruolo dell’insegnante era prevalentemente silenzioso, cioè il compito del docente era
quello di fornire dei modelli senza spiegare e dare pochi feedback. Più il docente non parla, più –
secondo i principi del Silent Way – il processo didattico sta avendo buon fine. Il metodo si basa su
una personale e rigorosa associazione dei suoni della lingua ai colori e alla loro conseguente
classificazione in tabelle di colori (Color Chart) che associano ad ogni colore o ad ogni coppia di
colore un fono. Ovviamente il Silent Way cambia, così come anche la gamma cromatica, da lingua a
lingua. Si serve non solo di cartelloni ma anche di tokens. Il Silent Way è uno degli approcci
umanistico-affettivi e funziona molto bene quando si hanno classi non troppo numerose e con
apprendenti con lingue materne diverse, perché si studia in modo molto approfondito la fonologia di
una lingua e questo serve di solito a tutti gli utenti di una lingua indipendentemente dalla loro L1.
Attraverso questo metodo si pone l’attenzione sulla corretta pronuncia e di conseguenza le abilità
che sono maggiormente interessate sono quelle dell’oralità, la produzione orale e la comprensione
orale, e poi solo in un secondo momento intervengono le abilità che riguardano la scrittura e quindi
comprensione e produzione scritta.
 Total Physical Response = è un metodo elaborato da Asher all’inizio degli anni Sessanta. Si tratta di
un metodo che pone al centro l’apprendente, perché si tende a coinvolgerlo non solo nell’ambito
della sfera neuro-cognitiva (vista e udito) ma anche e soprattutto nell’ambito della sfera psico-
motoria (gestualità e atti motori). Il TPR funziona molto bene con due fasce di età ben definite:
quella dei bambini e quella degli anziani, perché porta i bambini e gli anziani a non concentrarsi
sulla lingua ma a concentrarsi sul compito che gli viene dato, ad esempio il compito di saltare sulla
gamba destra o sinistra, di alzare le braccia insieme oppure prima solo il destro e poi il sinistro, di
girare, di toccarsi le mani e anche di interagire tra loro ... Il metodo risulta, invece, meno efficace
con gli adolescenti e gli adulti, perché i freni inibitori contrasterebbero l’apprendimento; quindi in
questi casi è necessario apportare degli adattamenti dal punto di vista psico-pedagogico. Questo
metodo è stato utilizzato specialmente sui livelli bassi di lingua (A1-A2)

L’approccio comunicativo fa parzialmente parte della famiglia degli approcci induttivi, in quanto
attinge le sue peculiarità da tutti i metodi e da tutti gli approcci, per esempio si osservi come
nell’approccio comunicativo la grammatica non è totalmente esclusa, in quanto ci sono delle riflessioni
anche grammaticali e si osservi come il metodo comunicativo metta al centro della didattica il benessere
degli apprendenti, non la loro performance ed infine il fatto di esporre l’apprendente direttamente alla lingua
obiettivo e non alla lingua materna, preferendo docenti madrelingua, è anche questo tipico degli approcci
induttivi e degli audio-orali. Il metodo comunicativo ha come obbiettivo principale sia lo sviluppo della
competenza comunicativa ossia di non interpretare più lo sviluppo della correttezza grammaticale come
unico obbiettivo della glottodidattica; infatti, l’atteggiamento verso l’errore è più bonaria, perchè l’errore
non va punito o analizzato o sanzionato e va rinforzato - o meglio vanno rinforzate le strutture che ha portato
a quell’errore - perché spia del processo di apprendimento dell’apprendente ma se l’efficacia pragmatica
della comunicazione linguistica è salva, l’errore viene lasciato lì. Al centro c’è la comunicazione e si tende a
non interrompere la comunicazione. L’errore viene visto come una forma per cogliere incertezze, le
approssimazioni, le inferenze e per capire a che punto si trova nel viaggio dalla L1 alla lingua target. Al
centro del processo di apprendimento ci sono i bisogni del discente, infatti, all’interno di un corso di
stampo comunicativo l’insegnante doveva essere in grado di proporre input linguistici diversificati in
base alle esigenze degli apprendenti. Si osservi come, di conseguenza, la figura del docente si trasformi
passando da magister a promotore ed organizzatore di attività linguistiche. Usano come materiale
didattico i realia, cioè input presi dalla vita quotidiana.
Il comportamentismo deriva dagli studi sul condizionamento dei comportamenti degli animali di Pavlov,
poiché all’epoca si era pensato di considerare l’apprendimento negli esseri umani simile a quello degli
animali. La teoria comportamentista afferma che l’apprendimento ha luogo con una risposta attiva ad uno
stimolo e la connessione tra stimolo e risposta è condizionata dal rinforzo immediato. Il maggior esponente
di tale teoria è Skinner, il quale sostiene che anche per il linguaggio è necessario creare una sorta di
ingranaggio di stimoli e risposte, che assicurano la contrazione e il consolidamento di abitudini linguistiche,
senza far riferimento a nessuno dei processi cognitivi e mentali dell’apprendente. Al fine di determinare un
comportamento linguistico corretto, devono dunque realizzarsi due condizioni: ripetizione e il rinforzo
positivo. Nella visione comportamentista, l’indagine deve essere condotta sul comportamento linguistico
direttamente osservabile, il quale si manifesta come catena di stimoli e reazioni, senza nessuna
considerazione dei processi cognitivi e mentali. L’insegnante che segue la prospettiva comportamentali
attribuisce molta importanza alle procedure di imitazione e memorizzazione (memoria a lungo termine non
dichiarativa procedurale), per cui oltre a far ascoltare e ripetere la lingua orale, l’insegnante adotta una ampia
gamma di esercizi, tesi a creare una catena di montaggio in cui sia praticamente impossibile commettere
errori; infine, senza dare spiegazioni, presenta le forme strutturali con esercizi secondo un meccanismo
stimolo-risposta, seguito dal rinforzo, definiti ‘pattern pratices o drills’. Tali esercizi strutturali consentono in
effetti una graduale contrazione di abitudini senso-motorie e creano un condizionamento che permette di
consolidare automatismi.

Il modello sulla struttura del linguaggio elaborato da Noam Chomsky, fortemente legato alla natura dei
processi cognitivi, rappresenta il tentativo di superare i limiti delle concezioni precedenti, offrendo una
rivisitazione della teoria grammaticale di Port Royale e dell’analisi in costituenti immediati della teoria
strutturalista. La prospettiva generativo-trasformazionale (Chomsky) presenta come assunto centrale il
fatto che il bambino interiorizza regole di grande astrattezza e complessità in modo naturale e spontaneo e
che è in grado di produrre enunciati mai ascoltati prima. Il fatto che il bambino sviluppi la sua capacità di
capire e produrre una lingua a cui è esposto, consente di ipotizzare che gli esseri umani siano dotati di una
capacità innata e specie-specifica, cioè che sia presenta nell’uomo un programma interno per l’acquisizione
linguistica universale detto LAD (language acquisition device); di conseguenza, l’esistenza stessa di questo
dispositivo presuppone che vi siano alcuni elementi costitutivi di ogni grammatica di ogni lingua, che sono
universalmente condivisi e ciò che rende universale la grammatica è il fatto che la conoscenza della lingua
sia costituita da un numero definito di regole. Lo scopo della grammatica è, dunque, descrivere il numero
finito di regole che compongono il sistema linguistico, al fine di produrre ogni frase possibile . La
competenza dovrebbe precedere l’escuzione. L’assunto del LAD come dispositivo innato implica che
l’acquisizione sia un processo che si sviluppa nei primi anni di vita e che, per attivarlo, sia sufficiente
l’esposizione alla lingua, di conseguenza il linguaggio umano non emerge come risultato degli stimoli
ricevuti dall’esterno, come indicava la teoria comportamentista, bensì si configura come la manifestazione di
una capacità innata della mente umana. La rapidità ccon cui i bambini scoprono le regole intrinseche al
sistema linguistico e la loro capacità di farne un uso creativo fanno presupporre che essi siano dotati fin dalla
nascita di una potenziale conoscenza delle regole che governano il sistema. Di qui deriva il principio per cui
la grammatica debba rendere un modo esplicito le regole che il parlante possiede tacitamente, così da
permettere al parlante di disambiguare frasi sintatticamente ambigue.

Il cognitivismo conferisce importanza primaria alla attività mentale, invece la psicologia comportamentista
concepisce l’apprendimento come un processo di acquisizione di nuovi comportamenti attraverso il
condizionamento e il rinforzo. Inoltre, nella concezione cognitivista prevale l’importanza dell’attività della
mente nell’acquisizione linguistica, di conseguenza è l’individuo e non l’ambiente che lo circonda a guidare
l’apprendimento nella teoria cognitiva. La mente è una forza attiva e non una massa plasmata da forze
esterne, cioè è la mente che elabora l’informazione, non gli stimoli esterni e il rinforzo che determinano quali
risposte saranno apprese; ma affinché ciò avvenga l’informazione deve risultare significativa e rilevante. È
chiara l’affinità tra la psicologia cognitiva e la linguistica generativo-trasformazionale, poiché entrambe
concepiscono la mente come una manifestazione della capacità innata della mente. L’insegnante cognitivista
ritiene dunque che ogni individuo sia dotato di una sorta di programma interno, solo marginalmente
condizionato dal modo e dai tempi dell’insegnamento. È molto interessante a questo proposito riflettere
sull’evoluzione del processo di apprendimento, e soprattutto sugli errori che, per lo studioso e per
l’insegnante, sono una spia dell’evoluzione di un sistema linguistico in mutamento. Inoltre, l’insegnante
cognitivista pensa che non sia possibile in realtà insegnare nulla, ma che si possono creare le condizioni in
cui il linguaggio possa essere risvegliato nella mente.

La prospettiva lessico-funzionale Una particolare convergenza di interessi alla fine degli anni Sessanta ha
spostato l’attenzione dal linguaggio come organo di cui i parlanti sono geneticamente dotati allo studio del
linguaggio in cui la grammatica è parte costitutiva di un complesso di sistemi che sono alla base
dell’organizzazione sociale. [si basa sulla semantica, la quale assume un ruolo importante, poiché è anche il
costituente più difficile da acquisire dato che dipende moltissimo dal contesto e può cambiare. L’aspetto
della pronuncia è l’ultima cosa che si deve apprendere]. Vi partecipano numerosi studiosi uno di stampo
americano e l’altro di stampo britannico. Nel primo troviamo:

 Austin che distingue fra:

1. L’aspetto locutivo, ossia la produzione;


2. L’aspetto illocutivo, la forza o la tensione della proposizione;
3. L’aspetto perlocutivo, il fine o l’effetto della proposizione stessa.
 Hymes elabora il concetto di competenza comunicativa per indicare un comportamento «governato
da regole» di natura psicologica, sociale e culturale (capire per farsi capire)
 Givon distingue tra due tipi di comunicazione: il linguaggio dei bambini (prevalgono le modalità
pre-sintattiche) e linguaggio degli adulti (prevalgono le ragioni sintattiche). Goldberg si oppone alla
teoria di Givon e sostiene che la flessibilità nell’acquisizione della grammatica nelle fasi iniziali è
solo apparente.
Passando alla scuola britannica una posizione di particolare importanza è occupata dalla linguistica dei
corpore, filone di ricerca sviluppato a partire dagli anni Ottanta del Novecento, che è maturato sulla base di
studi di orientamento semantico.
 Malinowski comprese che era impossibile capire parole ed enunciati delle persone (esperimento in
Nuova Guinea) senza prendere in considerazione: i partecipanti, il contesto e l’evento in cui quelle
parole venivano usate che lui definisce contesto di situazione. Più tardi si convinse che la funzione
pragmatica è primaria per tutte le lingue e arrivò alla conclusione che, per capire il significato delle
parole, fosse necessario capire il ruolo che ricoprono nello svolgimento della comunicazione.
 Firth definisce la situazione in base ai ruoli sociali degli interlocutori.
 Halliday, allievo di Firth, sostiene che la migliore spiegazione dell’organizzazione interna di una
lingua naturale si manifesta nelle funzioni sociali che una lingua svolge, ma soprattutto che è
impossibile scindere il lessico dalla grammatica, perché «grammatica e lessico sono la stessa cosa
vista da osservatori diversi, siamo difronte a un fenomeno unico e non a due diversi».
 Sinclair rifiuta il principio secondo cui la grammatica spiega le regole generali della lingua, mentre il
lessico si occupa del significato dettagliato delle singole parole o locuzioni: I grammatici ritengono
che la grammatica spieghi le potenti regole generali, mentre il lessico si occupi esclusivamente di
parte isolate e locuzioni, tutta vita il concerto di “grammatica lessicale” si è fatto strada nelle
grammatiche più avanzate e le ha rese un tantino più sensibili al lessico. Dunque, la descrizione di
una lingua assume criteri che non separano il lessico comune e lessico grammaticale come accade
solitamente, anche se la linea di confine tra i due tipi è sottile e difficile da tracciare.

Nell’insegnamento della L2 il termine sillabo indica l’insieme del materiale linguistico in ordine non
progressivo cui l’apprendente è esposto in un corso di lingua e che deve imparare ad usare in diverse attività
comunicative: il docente o l’autore di un libro di testo seleziona gli item linguistici e li organizza in attività e
compiti che l’apprendente dovrà affrontare. Sillabo è una scelta di contenuti linguistici e culturali, sulla base
di obiettivi specifici di apprendimento linguistico. Il metodo nozionale funzionale fa parte degli approcci
comunicativi. È stato elaborato da Wilkins, il quale base il suo metodo sull’idea che qualsiasi tipologia di
lingua sia composta da due grandi categorie universali: le categorie semantico-grammaticali (tempo, di
quantità, di spazio, i diversi campi semantici, i casi e la deissi) e la categoria della funzione comunicativa,
dove con il termine di ‘funzione’ si intende lo scopo che si vuole raggiungere con un enunciato (esprimere
una modalità, una valutazione, una persuasione, un’argomentazione, un’emozione e una relazione). Secondo
Wilkins, la lingua andrebbe appresa sulla base delle funzioni comunicative, poichè io posso conoscere le
regole di una lingua ma non saperle usare nel contesto più adeguato, cioè, posso sapere effettivamente come
si compone una frase ma quella mia frase non raggiungerà lo scopo che mi sono prefissato perché non è
adata al contesto. La categoria della funzione comunicativa si basano sulla teoria degli atti illocutori di
Austin, il quale distingue l’enunciazione in:
- locuzione
- illocuzione
- perlocuzione

CAPITOLO 6
Fare grammatica per l’italiano come L1
La questione sul ruolo che la grammatica dovrebbe avere tra i banchi di scuola viene sollevata in Italia da
Raffaele Simone e Giorgio Raimondo Cardona già nel 1971, quando i due studiosi conducono un’analisi su
alcuni testi di grammatica, pubblicati tra il 1966 e il 1968, in uso nelle scuole italiane. I due accademici
denunciavano la difficoltà nel procedere a un profondo rinnovamento dei contenuti, a causa della mancanza
di un’adeguata grammatica di riferimetno dell’italiano contemporaneo. L’inclusione, nella scuola media,
delle classi popolari aveva peraltro fatto sì che si riproponessero problemi derivanti dal plurilinguismo della
società italiana, ovvero l’esistenza dei dialetti e delle varietà popolari regionali dell’italiano. A ciò si
aggiunga la presa di coscienza dell’incapacità della grammatica tradizionale ad assolvere il compito primario
di ogni educazioni linguistica, che è quello di educare a usare correttamente e fluentemente la lingua nelle
diverse situazioni, con i dovuti adattamenti in termini di scelta di varietà e di registro.
Il vecchio modo di fare grammatica viene ulteriormente messo in discussione attraverso la stesura e la
pubblicazione delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, che videro la luce nel 1975 come
testo collettivo preparato dai soci del Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica. Le
dieci tesi avevano lo scopo di superare l’idea di grammatica come materia a sé stante, per passare a una più
globale prospettiva di educazione linguistica, intesa come educazione trasversale alle discipline che fosse
attenta al rapporto tra sviluppo delle capacità linguistiche nel loro insieme e sviluppo fisoco, affettivo,
sociale e intellettuale dell’individuo. Non si stabiliscono nozioni da apprendere, ma si punta allo sviluppo
delle abilità di base da modulare in relazione al contesto comunicativo: parlare, scrivere e ascoltare. Secondo
questa nuova impostazione, ognuna di queste abilità va stimolata attraverso la pratica e la parallela attività di
riflessione sulle regole implicite della lingua.
Il dibattitto degli anni anni Settanta sul ruolo della grammatica ha inevitabilmente portato con sè un
cambiamento di rotta sul piano della creazione di nuove grammatiche scolastiche, di cui erano autori alcuni
dei più noti accademici italiani. Tra i pionieri di questa schiera:
 Il linguistica Raffaele Simone con il suo Libro d’italiano, che ha il merito di portare come oggetto di
analisi grammaticale non solo l’italiano scritto, ma anche quello orale; di conseguenza il suo libro si
configura come un “antigrammatica” dove la lingua dell’uso è posta al centro del discorso grammatica.
 Il linguistica Serianni con Prima lezione di grammatica, che ha il merito di segnare un passaggio da una
prospettiva di analisi formale e tassonomica della grammatica ad una prospettiva funzionale che punta a
scegliere, descrivere e valutare le strutture della lingua italiana come adeguate o non adeguate alla luce
del loro funzionamento all’interno del testo.
 Lo studioso Fogliato con Strumenti per l’italiano, che spicca per l’originalità dell’impostazione e per
integrazione tra nome e uso. Si tratta di un testo in cui si rivolge gran parte dell’attenzione agli aspetti
più funzionali della lingua e alla testualità e che considera in modo unitario lessico e morfologia, dal
momento che riguardano la stessa entità, seppure da punti di vista differenti.
Negli ultimi trent’anni finiscono sotto accusa anche i metodi con cui nella scuola italiana vengono
organizzate e gestite le ore in cui si fa grammatica all’interno delle ore di italiano: l’analisi grammaticale,
logica e del periodo. Riguardo l’analisi logica, Sabatini ne nega funzionalità, poichè l’interpretazione e
l’incasellamento dei complementi finisce inevitabilmente con l’essere approssimativa e controversa; inoltre,
questo tipo di analisi non spiega come è costruita la frase, le relazioni tra gli elementi che la compongono nè
insegna a leggere e scrivere testi scritti e orali. Le stesse criticità si presenta nell’analisi del periodo , dove lo
studente deve individuare il grado di relazione e la funzione delle frasi all’interno del periodo con
l’obbiettivo di rendere lo scolaro consapevole del fatto che l’ordine delle frasi all’interno di un periodo può
determinare notevoli variazioni di significato. L’analisi grammaticale mira a far riconoscere e classificare al
discendente le parole che compongono la lingua, ma saper riconoscere e nominare correttamente i tempi e i
modi del paradigma verbale dell’italiano non garantisce l’uso corretto degli elementi nella produzione.
Quindi le critiche che i linguisti imputano al modello tradizionale per l’insegnamento della grammatica
dell’italiano sono soprattutto relative all’assenza di una adeguata considerazione per il lessico, la pragmatica
e i fattori sociolinguistici in un paese linguisticamente così diversificato e stratificato come è l’Italia. Da
questo latente malcontento e dalla reazione all’insieme di pratiche grammaticali tradizionali muovono i primi
passi il modello grammatica valenziale e una proposta di metodo per sollecitare la consapevolezza
grammaticale proposta da Maria Giuseppa Lo Duca.

Quello della grammatica valenziale è un modello di analisi elaborato dal linguistica francese Lucien Tesnière
nel suo volume Éléments de syntaxe structurale. In Italia, il modello è stato promosso da linguistici come
Colletti, De Santis, Jezek, Lo Duca, Prandi e Sabatini, quest’ultimo tra i più attivi nella diffusione in contesto
scolastico di questo modo di fare grammatica. La grammatica valenziale trae il suo nome dal lessico della
chimica, perchè vede nel verbo il “motore” della frase, ovvero l’elemento fondamentale, portatore di
significato a cui sono connessi, gli “argomenti”, cioè le parti che insieme al verbo sono necessarie per
formare una frase minima di senso compiuto. Attraverso queste relazioni di dipendenza è possibile
classificare in modo intuitivo la diversità dei legami sintattici tra i vari costituenti di una frase e riflettere
sulla polisemia dei verbi; ma soprattutto il modello valenziale si propone di guardare alla struttura della frase
come si forma nella nostra mente, riproponendone i rapporti e le relazioni di dipendenza. La valenza è la
proprietà che il verbo ha, in base al proprio significato, di richiamare alcuni elementi strettaemnte necessari
con i quali può costituire una frase. Sulla base della valenza, i verbi si dividono in:
a) Zerovalenti
b) Monovalenti
c) Bivalenti
d) Trivalenti
e) Tetravalenti
Gli argomenti sono gli elementi strettamenti necessari per saturare la valenza del verbo e possono essere: un
sintagma nominale, un sintagma preposizionale, un sintagma avverbiale e una struttura frasele.
I circostanti sono elementi aggiuntivi di vario tipo, esterni al nucleo, ma legati ai singoli elementi del nucleo.
I cirostanti possono essere omessi senza per questo rendere la frase agrammaticale.
Le espansioni sono invece gli elementi che nella frase si affiancano al nucleo e ai suoi circostanti, non
collegandosi a essi con specifici legami sintattivi ma solo mediante congruenza dei significati che veicolano.
Rispetto all’analisi logica e all’analisi del periodo, questo modello vuole favorire un approccio di tipo
euristico, perchè tende a far riflettere metalinguisticamente a partire dalla lingua e dal suo significato. Non si
applicano regole imparate a memoria, ma si costruisce attivamente una competenza attraverso schemi e
rappresentazioni con immagini. Il verbo. Così, diventa un’ancora sicura, da cui partire per pianficiare una
riflessione metalinguistica.

La proposta di un radicale cambiamento del modo di affrontare l’ora di grammatica in classe viene da Lo
Duca, tra le poche accademiche, in forza all’università, a poter vantare anni di esperienza nella scuola. Si
tratta di una alternativa a quel modello di grammatica tradizionale che classifica, denomina e incastra
fenomeni linguistici dentro caselle prestabilite. Secondo la studiosa, inoltre, uno dei principali ostacoli che la
disciplina presenta è rintracciabile nel fatto che a uno stesso segmento di lingua vengano affibiate definizioni
diverse: complemento, argomento, valenza ... questa mancanza di un metalinguaggio condiviso e
comprensibile determina però anche la perdita della stabilità del nome e con essa la sicurezza, da parte degli
apprendenti, della riconoscibilità dell’elemento in questione. Il “fare grammatica” che Lo Duca propone
significa attuare percorsi di scoperta grammaticale su cui condurre gli apprendenti così che imparino a
ritrovare quella conoscenza linguistica che hanno già acquisita e che pertanto è già all’opera nella loro testa.
Se nei modelli tradizionali agli apprendenti è richiesto lo sforzo di riconoscere all’interno di una frase una
categoria linguistica e denominarla, Lo Duca ribalta questa sequenza, perchè sono gli apprendenti a operare
osservazioni e dibattiti sull’oggetto-lingua, analogicamente a quanto si fa o si dovrebbe fare in altri campi
dello scibile umano. In questo senso, l’approccio alla grammatica che propone Lo Duca si presenta come un
compromesso tra grammatica implicita ed esplicita. Una grammatica che nasce implicita, ma occorre che
diventi esplicita, non perchè sia bene aumentare il numero di nozioni e costruzioni note, piuttosto per
ridisegnare continuamente i confini della grammatica della propria lingua in relazione alle diverse situazioni
comunicative e per cogliere corrispondenze sistematiche e relazioni non casuali tra gli elementi della lingua e
tra questi e il contesto extralinguistico. L’insegnante pone una domanda alla classe: qual è il valore
semantico della particella “ma”? Gli apprendenti risponderanno ad una prima battuta che “il ma è quella
particella disgiuntiva che crea una sorta di opposizione tra gli elementi di una frase”. Il docente potrà allora
formulare una prima domanda sperimentale da verificare con il metodo scientifico: “è vero che ‘ma’ è una
particella che mette in opposizione gli elementi di una frase?”. A partire da questa domanda, si procede con
la raccolta dei dati e la loro analisi. Se i dati sono autentici e il più possibile diversificati, immediatamente la
classe si renderà conto dell’eterogeneità dei casi che la lingua offre e, di volta in volta, arriverà a formulare
nuove ipotesi per arrivare a conclusioni, molto più complesse e al contempo più veritiere. La classe noterà
quindi che una frase può iniziare con “ma”, che il “ma”, a differenza di “o”, non può essere ripetuto più
volte, ma può presentarsi solo tra due elementi in opposizione.
Per concludere, la vera impostazione euristica 1 guidata per l’insegnamento della grammatica potrebbe essere
quella che, a partire da dati autentici, tratti da corpora, porti a una ridefinizioni delle categorie sulla base del
singificato, ma anche alla luce del contesto e della pragmatica. Nella classe di L1, per esempio, questo
potrebbe materializzarsi attraverso l’integrazione del DDL e del modello operativo proposta da Lo Duca.
Fare rflessione linguistica attivamente significherà allora prendere consapevolezza delle infinite potenzialità
che la lingua offre e delle più piccole, ma spesso sostanziali, sfumature che ci mette a disposizione a seconda
di cosa vogliamo “fare” con essa.

CAPITOLO 7
Fare gramamtica per l’italiano come L2
La produzione di grammatiche di italiano per stranieri, dal XX secolo in poi, è così vasta da non poter essere
qui affrontata in modo esauriente. Le gramamtiche di consultazione o di riferimento includono spesso opere
che sono il risultato di traduzioni e adattamenti di grammatiche dell’italiano, come è il caso della grammatica
di Battaglia, che sulla scorta della sua grammatica italiana per italiani, ha pubblicato quella Para estudiantes
de habla española, oppure testi come la Gramatica italiana, Italiana comuna si limba literara, traduzione in
rumeno della grammatica di Serianni ad opera Pirvu. In tutte queste opere, l’organizzazione dei contenuti è
coerente con l’obbiettivo di presentare il meccanismo del sistema linguistico composto di regole, strutture e
schemi utili per fornire, a chi le consulta, una rappresentazione esauriente della conoscenza esplicita della
lingua italiana, ma se ci chiediamo a chi queste grammatiche siano effettivamente utili, appare evidente che
esse costituiscono uno strumento di consultazione efficace per chi la lingua la sa già, ossia per apprendenti
che già possiedono una buona conoscenza almeno implicita dell’italiano. All’interno di queste opere, infatti,
l’insegnante potrà trovare la descrizione più confacente al fenomeno specifico e l’apprendente più
consapevole potrà sviluppare pienamente la sua conoscenza esplicita del funzionamento dell’italiano.
Qual è il modo di fare grammatica per sollecitare la conoscenza della grammatica italiana da parte
dell’apprendente? E quali sono gli approcci possibili per sviluppare la conoscenza della grammatica? per
dare risposta a questa domanda, piuttosto che analizzare come la grammatica è incorporata nei materiali
didattici, ci concentreremo sul diverso modo di fare grammatica proposto da due grandi protagonisti della
didattica dell’italiano per stranieri di epoche contigue, che, assumendo la prospettiva dei parlanti di altri
lingue, hanno dato un contributo significativo alla didattica dell’italiano per stranieri degli ultimi
quarant’anni: Katerin Katerinov e Christopher Humphris. Il primo Katerin Katerinov, sin dai primi anni
Settanta, copre un ruolo di primo piano nel processo di rinnovamento della didattica dell’italiano presso
l’Università per Stranieri di Perugia e nel mondo; il secondo, Christopher Humphris, occupa un ruolo di
protagonista nella formazione degli insegnanti di italiano a stranieri al di fuori dell’ambiente universitario.
1
Relativo all'ipotesi di lavoro assunta come guida nel corso di una ricerca scientifica e alla metodologia che vi è connessa, spec. diretta alla scoperta di
nuovi risultati.
L’opera di innovazione di Katerin Katerinov si sviluppa in un momento di forte disorientamente
metodologico nella didattica delle lingue. Negli anni Settanta, ossia nella decade in cui Katerinov diventa il
promotore della didattica dell’italiano per parlanti di altre lingue, era entrata in crisi l’interesse per l’analisi
contrastiva, come base su cui impostare l’insegnamento delle lingue viene meno. Le ragioni sono
principalmente due:
- la prima è legata al fatto che, sebben le basi teoriche dell’analisi contrastiva siano messe in discussione, i
nuovi modelli descrittivi e le nuove teorie non hanno ancora raggiunto un assetto stabile.
- la seconda è legata al fatto che, dal punto di vista psicolinguistico e pedagogico, si affermano gli studi che
mettono in evidenza l’esistenza di una varietà di apprendimento definito da Selinker “interlingua”, un
sistema linguistico evolutivo che l’apprendente sviluppa con caratteristiche che l’analisi contrastiva non era
in grado di spiegare.
Quindi Katerinov inizia la sua opera in un periodo in cui si apre la rivolta nell’ambito della linguistica e della
psicologia nei confronti delle teorie che avevano dominato ed erano in continuo mutamento; infatti, tra gli
insegnanti di lingue si diffonde un atteggiamento di rifiuto totale dei metodi di insegnamento in uso, tanto
del vecchio grammaticale-traduttivo, quanto di quello audio-orale. Nei primi anni Settanta, in Italia, si era
costituito il movimento LEND (lingua e nuova didattica), il cui obbiettivo era di delineare un metodo
alternativo tanto a quello grammaticale, spesso ridotto a esercitazioni di traduzione parola per parola e a
spiegazioni della descrizioni delle regole della lingua oggetto di apprendimento in italiano, quanto al metodo
audio-orale, a cui è legata, peraltro, l’installazione enlle scuole e nelle università del lavoratorio linguistico
per le esercitazioni di tipo ripetititvo e automatizzante del metodo audio-orale, che assicurano il controllo
degli aspetti manipolativi, ma non permettono di sviluppare quelli espressivi. È proprio nell’ambito del
movimento LEND, impegnato nella formazione della coscienza degli insegnanti, che nasce il metodo
situazionale nella versione italiana, che segna la rottura con il passato e segnala il passaggio verso le
tendenza più attuali della glottodidattica. Katerinov è consapevole dei cambiamenti della situazione
linguistica italiana, e recepisce e accoglie rapidamente il criterio “situazioanle”, in base al quale le frasi
modello e le strutture grammaticali possono essere proposte in contesti che riflettono situazioni comunicative
reali. Assieme a Boriosi, Katerinov pubblica La lingua italiana per stranieri: con le 3000 parole più usate
nell’italiano di oggi (regole essenziali, esercizi e esempi d’autore), che Vedovelli chiama “libro rosso”. Il
libro presenta la lingua italiana in contesti di situazione che aiutano la comprensione del messaggio, ma
prevede anche una fase di osservazione dei fenomeni grammaticali proposti. Il metodo adottato risponde
all’esigenza di guardare alla lingua nella sua globalità, intesa non come ragionamento astratto, ma come
analisi nelle diverse situazioni comunicative. Il suo modo di fare grammatica si distacca sensibilmente
dall’impostazione dei manuali di italiano destinati agli italiani, ed è improntato a criteri glottodidattici
fondati su basi scientifiche.
Christopher Humphris entra a far parte del radicale cambiamento nella didattica delle lingue, il cui anno zero
risale al convegno tenutosi alla Fondazione “Cini” a Venezia sul tema “Communication and Language
Teaching” del 1978. In questo convegno molte delle relazioni avevano messo in evidenza il fatto che, se
l’obbiettivo dell’acquisizione e apprendimento delle lingue era di sviluppare la capacità di usare la lingua per
i diversi scopi per cui noi la usiamo normalmente, si doveva cambiare rotta nel modo di definire gli
obbiettivi sul piano delle operazioni e del comportamento, ossia del saper fare in lingua. È bene qui mettere
in chiaro il senso marcato del termine “comunicazione” in relazione all’insegnamento linguistico a cui era
dedicato il convegno, posto che la parola in sè è generica ed è largamento condivisa nella glottodidattica,
visto che il fine ultimo dell’insegnamento, nella grande varietà dei metodi che si sono venuti via via
succedendo, rimane pur sempre la comunicazione nella lingua obbiettivo. Accettare questa prospettiva
significava abbandonare il modo di definire gli obbiettivi didattici in termini di regole grammaticali o di
strutture e puntare, invece, sulla messa a fuoco dei sigiìnificati che esprimiamo quando usiamo la lingua per i
vari scopi. Questa impostazione semantica del “cosa fare con le parole”, fondata sulla consapevolezza della
mancanza di una corrispondenza biunivoca tra frasi grammaticali e funzioni comunicative, implicava la
necessità di specificare, per ogni lingua, il valore pragmatico che le frasi possono acquisire nell’uso
linguistico.
Humphris è pronto a cambiare rotta nel modo di insegnare, e coglie le implicazioni che la proposta avanzata
da Wilkins, in Notional syllabuses, comportava adottare un approccio comunicativo significava compiere
concretamente una rivouzione programmatica, in base alla quale gli obbiettivi dell’apprendimento delle
lingue dovevano essere specificati non soltanto in termini di strutture grammaticali, ma anche di funzioni
comunicative indispensabili per sviluppare una effettiva capacità d’uso della lingua. L’adesione di Humphris
a questa rivoluzione, tesa a improntare la didattica dell’italiano a parlanti di altre lingue, sulla base di questi
nuovi principi, è stata indubbiamente una operazione temeraria, perchè si confrontava con due ordini di
difficoltà. La prima è intrinseca alla lingua italiana, la cui complessità morfologica e sintattica richiede
necessariamente in sede didattica di adottare criteri ben calibrati. La seconda consisteva nel fatto che in
quegli anni non disponevamo ancora di grammatiche di riferimento in grado di rendere conto in modo
sistematico ed esaustivo dei vari aspetti semantici della lingua italiana a livello del discorso.
La cosa principale della visione di Humphris è il ruolo che assegna all’insegnante e all’apprendente: il
docente ha per Humphris il ruolo di grammatica pedagogica “vivente”, l’apprendente quello di ricercatore.
Per quanto riguarda la figura dell’insegnante che Humphris immagina, essa rispecchia quella che Corder
aveva descritto con queste parole: L’insegnante può presentare in toto o parzialmente i vari aspetti della
grammatica senza l’aiuto di materiale testuale o registrato. L’insegnante può fornire i dati o gli esempi
oralmente o in forma scritta. La parte più difficile per l’insegnante è fornire una quantità adeguata di dati ben
contestualizzati. Un insegnante ben qualificato è dotato di energia e inventiva quindi può essere una
grammatica pedagogica “vivente”. Per quanto riguarda l’apprendente, ecco come Humphris lo definisce: Ha
la potenzialità di diventare un ricercatore competente, capace cioè di affrontare un terreno complesso,
individuare diversi esempi di un fenomeno degno di studio, ipotizzare una “regola” riguardante la sua
struttura o funzione.

CAPITOLO 8
Apprendere la grammatica attraverso il data-driven learning
Il data-driven learning (traducibile in italiano con “apprendimento guidato dai dati”) è un approccio
pedagogico basato sull’uso dei corpora, nato per l’apprendimento delle lingue seconde, e in particolare
dell’inglese accademico, ma integrabile in diversi contesti pedagogici e per obbiettivi di apprendimento vari,
anche legati alla lingua materna. In particolare, vedremo in che modo sia possibile, attraverso il DDL,
condurre l’apprendente in un percorso di scoperta guidata della lingua, così come in attività classiche come il
cloze e l’abbinamento, ripensate in chiave DDL e caratterizzate da un input arricchito sul piano sia
qualitativo che quantittivo.
Nel 1960, Randoph Quirk, uno dei massimi grammaticografi della lingua inglese, nonchè autore, con altri,
della già citata A Comprehensive Grammar of the English Language, sostiene che la mole di materiali
pedagogici sviluppati fino a quel momento, ai fini dell’insegnamento della lingua inglese, siano in buona
parte inadeguati. Questo perchè risultano scarsamente aderenti agli usi linguistici reali, ovvero a quella
varietà e ricchezza linguistica che l’apprendente si troverà di fronte, una volta che avrà fatto un passo al di
fuori del contesto di insegnamento formale.
Gli anni Sessanta segnano, di fatto, l’avvio di una intensa stagione di costruzione di corpora, grazie non
soltanto allo sviluppo tecnologico che consente la gestione informatica di una crescente mole di dati, ma
anche in virtù di un’esigenza di natura specificatamente pedagogica, come messo in luce da Quirk,
caratterizzata da una serie di presupposti teorico-linguistici che risultano ineludibili per la glottodidattica.
Innanzitutto, il riconoscimento delle notevoli varietà che si riscontrano negli usi linguistici reali e degli
inevitabili limiti che avranno dizionari, manuali e risorse di riferimento nel rendere conto di tale
varietà. La stessa descrizione di una lingua, presentata all’interno di una grammatica descrittiva, si baserà su
delle scelte, sia dal punto di vista delle modalità di presentazione dei contenuti, sia dal punto di vista della
selezione degli esempi che accompagneranno la descrizione e la definizione di una determinata proprietà
della lingua. Benchè valide risorse di riferimento e per la consultazione possono, talvolta, non riuscire a
risolvere un dubbio linguistico e, in questi casi, difficilmente potranno costituire una fonte per attività di
apprendimento. Il DDL riesce a unire potenza descrittiva, presupposti teorici ed efficacia pedagogica
attraverso una serie di modalità concrete, in grado di permettere l’intereazione, più o meno mediata
dall’insegnante, tra l’apprendente e la lingua presentata nella varietà e, talvolta, problematicità dei suoi usi.

I corpora consistono in “collezioni di dati linguistici autentici, adatti al trattamento elettronico e campionati
in modo da essere rappresentativi di una lingua o di una varietà linguistica”. Nonostante la presenza di
alcune oscillazioni della terminologia all’interno della letteratura sul DDL, i molteplici usi pedagogici dei
corpora vengono generalemente suddivisi in usi diretti e usi indiretti:
 Gli usi diretti fanno riferimenti ai casi in cui l’interazione tra i dati tratti da un corpus e l’apprendente è
immediata e consapevole. Si tratta dei casi in cui i dati del corpus sono visibili all’apprendente, che
potrà interagire con essi in una molteplicità di forme. Da un lato, individuiamo la modalità basata su
computer, in cui l’apprendente esplora un corpus attraverso un software d’interrogazione; dall’altro lato
individuiamo la modalità basata su carta, in cui l’apprende esplora, sempre in maniera diretta, visibile e
consapevole, i dati di un corpus attraverso materiali pedagogici preliminarmente allestiti dall’insegnante
e stampati su carta. Tutti i casi in cui i dati tratti da un corpus vengono usati in un contesto pedagogico,
nella modalità diretta appena descritta, rinentrano nel dominio del DDL.
 Gli usi indiretti dei corpora per scopi pedagogici fanno invece riferimento ai casi in cui i dati non sono
esplicitamente e immediatamente visibili agli apprendenti. Si tratta dei casi in cui i corpora vengono
usati per la definizione di sillabi e/o per lo sviluppo di curricula, per la progettazione e realizzazione di
opere lessicografiche e grammaticografiche rivolte ad apprendenti, oppure per lo sviluppo di strumenti
per la valutazione delle competenze linguistiche.
Inoltre, sebbene l’approccio nasce principalmente in un contesto L2, sviluppi recenti hanno messo in luce le
sue potenzialità anche in contesti di apprendimento L1. Sul piano, invece, dell’efficacia dell’approccio è
stato possibile osservare che cumulativamente le evidenze empiriche indicano il DDL come un approccio in
grado di produrre effetti positivi sull’apprendimento di una lingua, soprattutto quando l’esposizione
all’approccio supera le dieci sessioni, nei casi in cui il livello di competenza degli apprendenti è medio-alto,
e quando l’obbiettivo di apprendimento rientra nella sfera del lessico. Tra le spinte motrici di tale iniziativa
troviamo una condivisa esigenza di integrare una “cultura dei corpora” all’interno dei percorsi di formazione
progettati per docenti di lingua. La diffusione di una tale “cultura” tra i docenti, nel senso di condivisione di
conoscenze pratiche, permetterebbe agli insegnanti di scoprire le potenzialità dei corpora e di instaurare un
dialogo pertenente e orizzontale tra docenti e ricercatori, mirato alla realizzazione di attività e materiali
pedagogici sempre più efficaci e funzionali ai bisogni degli apprendenti.

Un esempio di attività DDL pensate per l’apprendimento dell’italiano L2 viene da Tim Johns, colui che
coniò la locuzione stessa di “data-driver learning”. Tim Johns raccoglieva i dubbi linguistici degli
apprendenti per avviare un percorso di ricerca delle risposte attraverso l’esplorazione di uno o più corpora. Il
DDL viene spesso impiegato per favorire l’apprendimento delle collocazioni. Per collocazione intendiamo
“la regolare co-occorenza di due o più parole, di solito una vicina all’altra, in un enunciato o in enunciati
prossimi”. È possibile pensare a un’attività DDL di scoperta guidata utilizzando SKELL - Sketch Engine for
Language Learnign - un sistema di interrogazione e di esplorazione di un corpus appositamente progettato
per apprendenti. Nella sua sezione italiana, il corpus in questione contiene circa 320 milioni di parole
grafiche, derivanti da diverse tipologie testuali. Cercando ‘madornale’ all’interno dell’opzione di ricerca
‘esempi’, appariranno 40 esempi di occorrenze di ‘madornale’, presentate all’interno di una concordanza.
L’apprendente noterà che ‘madornale’ sembrerebbe co-occorrere solo con errore. Questa funzione permette
di osservare la combinalità di una parola con determinate parti del discorso. Nel nostro caso, trattandosi di un
aggettivo, l’unica parte del discorso che troveremo sarà quella del sostantivo; e vedremo che l’unico
sostantivo che si combina con ‘madornale’, all’interno di un corpus di 320 millioni di parole grafiche è
errore. Questo tipo di attività sfrutta il principio dell’input enhancement sul piano qualitativo e quantitativo.
Sul piano quantitativo in quanto l’apprendente ha l’opportunità di interagire in modo diretto con una
notevole quantità di esempi che sciolgono un dubbio, grazie ai contenuti del corpus. Sul piano qualitativo sia
perché gli esempi sono sempre tratti da testi che documentano l’uso autentico della lingua in una molteplicità
di contesti comunicativi, sia perché la parola chiave è evidenziata in rosso. Grazie a questo l’apprendente si
trova nelle condizioni ideali per notare delle regolarità che accomunano i diversi esempi disponibili. E sarà
proprio grazie a questo che l’apprendente sarà in grado di sviluppare una consapevolezza relativa all’unità
linguistica di interesse e un’attenzione rispetto alla regolarità di una lingua, così come sostenuto nella
noticing hypothesis. Nella noticing hyphotesis si afferma che l’attività di notare esplicitamente una proprietà
della lingua costituisce una pre-condizione affinchè quella proprietà sia interiorizzata, e dunque appresa . Il
fatto che all’apprendere venga richiesto di trovare delle analogie tra i unmerosi esempi forniti, per poi
inferire una regola sulla base di un processo di generalizzazione a partire dai dati del corpus, può essere
considerato come un compito caratterizzato da un certo grado di carico cognitivo. Sarà proprio tale carico
cognitivo a rendere l’esito del percorso di scoperta guidata più memorabile.

L’esplorazione di un corpus avente la finalità di condurre l’apprendente a scoprire le regolarità di una lingua,
per poi, sulla base di esse, inferire le regole d’uso su cui la lingua si basa, può essere più o meno guidata
dall’insegnante. Il grado di supporto da parte dell’insegnante è definibile sulla base di tre parametri
fondamentali che interagiscono, in qualche misura, tra loro:

- il livello di competenza dell’apprendente

- la familiarità dell’apprendente con l’esplorazione di corpora

- le caratteristiche del corpus esplorato

Un apprendente di livello iniziale e che, magari, non ha mai lavorato ocn un corpus, potrà beneficiare di una
guida da parte dell’insegnante, ovvero di un’attività di scaffolding. Il volume Reading Concordance di John
Sinclair costituisce uno dei primi esempi di raccolta sistematica di attività DDL, di scoperta guidata e di
come lo scaffolding strutturi il percorso di scoperta guidata, attraverso la formulazione di domande-guida
situate all’interno di una sequenzialità opportunamente definita.

I dati contenuti in un corpus sono utilizzabili non soltanto per sviluppare percorsi di scoperta guidata, in
grado di consentire all’apprendente di scoprire induttivamente la grammatica di una lingua, ma anche per
creare esercizi sulla base di format molto noti quali il cloze e l’abbinamento. Le due attività sono state
costruite sulla base del Perugia Corpus, un corpus di riferimento della lingua italiana contenente dieci generi
testuali diversi, distribuiti tra canale parlato e canale scritto.

Il cloze è un esercizio o un test di valutazione linguistica formato da una porzione di testo dalla quale
sono state rimosse alcune parole. Essenzialmente si richiede ai partecipanti di inserire le parole
mancanti o, eventualmente, i sinonimi appropriati

l’abbinamento, noto anche con il termine di ‘matching’, consiste nell’abbinare in modo appropriato
gli elementi di due insiemi distinti.
In definitiva, l’arricchimento dell’input che avviene nei casi di esercizi di cloze e di abbinamento, basati su
concordanze, permette all’apprendente di esporsi a opportunità qualitativamente e quantitative più
significative, pregnanti e salienti, per poter inferire, sulla base delle regolarità presenti e osservabili
all’interno di tale materiale linguistico, le regole di una lingua.

Gli obbiettivi di apprendimento del DDL possono essere molteplici. In ciascuno di essi, il DDL riflette le tre
dimensioni della grammatica in maniera particolarmente evidente. Riflette, infatti, la dimensione teorica
della grammmatica, perchè pone al centro dell’apprendimeto grammaticale la rilevanza degli usi linguistici
autentici, in linea con gli approcci teorici usage-based e costruzionisti, che vedono nella capacità di
individuare pattern, il fulcro dei processi di apprendimento. Riflette, poi, la dimensione descrittiva della
grammatica, perchè è esso stesso fondato sul presupposto secondo cui, per conoscere la lingua, è necessario
osservarne gli usi, e provare a descriverli attraverso strumenti adeguati, come ad esempio i corpora. Infine, il
DDL riflette la dimensione pedagogico per l’apprendimento della L2 o LS, basato sui precisi presupposti di
natura teorica e descrittiva.

CAPITOLO 9
La presentazione della grammatica in una lingua non vocale e non scritta
Nel corso degli ultimi quarant’anni, sono stati condotti e pubblicati numerosissimi studi e contributi di
ricerca sulla LIS. Queste ricerche e le rispettive pubblicazioni che hanno prodotto, hanno seguito le tendenze
del momento e adottato prospettive e modelli linguistici molto diversi tra loro. Due sono stati gli
orientamenti da cui la ricerca linguistica sulla lingua dei segni si è mossa:
1. Il primo si fonda sul principio che non sia opportuno assumere, per le lingue dei segni, categorie
grammaticali mutuate dallo studio delle lingue vocali, senza una adeguata riflessione sulla loro specificità
2. Il secondo, basandosi sul principio che le lingue segnate sono in tutto e per tutto paragonabili alle lingue
naturali, legittima l’applicazione delle categorie della linguistica sviluppate per le lingue parlate.
Da una parte, quindi, troviamo le ricerche di studiosi che hanno adottato una prospettiva in cui molta
importanza assumono gli aspetti iconici, le peculiarità idiosincratiche e le componente dialogica e interattiva
delle lingue dei segni, usando termini e modalità di analisi inediti e ad hoc; dall’altra parte, quelle di coloro
che hanno descritto la LIS partendo da un modello linguistico di stampo generativo, dando rilevanza,
soprattutto, agli elementi che in questo modello sono considerati universali e in particolar modo alla sintassi,
e che propongono a partire da informanti sordi nativi un modello di lingua dei segni ideale.
Il concetto stesso di grammatica nella ricerca sulla LIS è stato al centro di un lungo dibattito. Per molto
tempo la parola ‘grammatica’ è stata accuratamente evitata da coloro che volevano discostarsi dai
condizionamenti che provenfono dalle lingue vocali. Come se il termine stesso fosse troppo intriso di
connotazioni prescrittive per poter essere applicato alla LIS, una lingua non ancora del tutto normalizzata.
Nel corso di quarant’anni, però, molte cose sono cambiate. Due sono stati gli eventi che hanno avuto forti
ripercussioni sulla LIS come sistema linguistico e che hanno condotto, sempre più, gli utenti di questa lingua
verso la ricerca di una norma:
1. Il risveglio di un interesse linguistico, scientifico e didattico nei confronti della LIS che ha contribuito alla
diffusione di numerosi corsi di lingua dei segni sul territorio nazionale e conseguentemente di occasioni di
riflessione
2. L’avvanzamento tecnologico, che ha fornito ai segnanti gli strumenti per potersi videoregistrare e la
possibilità di comunicare a distanza attraverso videochiamate.
Entrambe queste circostanze hanno di fatto segnato il passaggio della LIS da “lingua privata”, usata solo
nell’ambito della socializzazione primaria a lingua destinata a un pubblico diversificato, che la usa, anche a
distanza, in contesti diversi.
All’inizio degli anni ‘90, i concetti derivanti dal modello teorico di impianto strutturalista erano ampiamente
adottati per la descrizione della LIS, con tutte le sue dicotomie. È in questo decennio che vengono pubblicati
i primi dizionari, le prime descrizioni della lingua, i primi atti di convegno ... intanto si faceva strada tra gli
orientamenti teorici quello funzionalista e quello generativo-trasformazionale, quest’ultimo proprone
un’interpretazione nuova delle dicotomie e del rapporto tra i suoni e il senso delle frasi: secondo questa
teoria ogni tentativo di saldarli l’uno all’altro senza mediazioni è destinata al fallimento. La mediazione è
offerta, per i generativisti, dalla sintassi perchè ogni frase ha due strutture sintattiche diverse:
Una struttura profonda, che riceve un’interpretazione sintattica ed è portatrice del significato
Una struttura superficiale, che è dotatat di una realizzazione fonetica
La struttura profonda e la struttura superficiale sono collegate da operazioni matematiche particolari: le
trasformazioni. Anche questo filone di ricerca è piuttosto prolifico e propone la descrizione di fenomeni della
LIS, per lo più legati all’aspetto della sintassi.
Di recente pubblicazione, il volume Descrivere la lingua dei segni italiani. Una prospettiva cognitiva e
sociosemiotica propone un ulteriore cambiamento di prospettiva teorica nel campo della descrizione della
LIS. La prospettiva pone al centro del modello teorico il significato e lo scopo comunicativo e mette in
evidenza le strategie di rappresentazione simbolica. Il fine è dimostrare come le proprietà semiotiche della
LIS siano in realtà simili a quelle delle lingue parlate e anzi permettano di arrivare a una migliore
conoscenza anche di queste ultime, guardano in particolare alla multimodalità del linguaggio umano.

Ad oggi non esiste una grammatica descrittiva della LIS che possa essere considerata completa ed esaustiva.
Sono invece stati tanti i lavori di ricerca su vari aspetti della lingua, che a partire dagli anni ‘80 hanno visto
la luce, contribuendo, tassello dopo tassello, a descrivere buona parte del funzionamento di questa lingua.
Uno dei problemi che emerge da queste numerose descrizioni, mai veramente sistematizzate, riguarda la
difficoltà di ricorrere a un metalinguaggio di riferimento condiviso.
Le pubblicazioni che riguardano la descrizione del funzionamento della lingua dei segni e il suo
insegnamento, dagli anni ‘80 ad oggi, hanno seguito gli orientamenti linguistici degli ultimi quarant’anni e
hanno riflesso i cambiamenti della visione del concetto di grammatica che si sono rincorsi in Italia
nell’ultimo mezzo secolo.
Tutti questi contributi, al di là del loro vario orientamento teorico, hanno avuto il merito di mostrare al
mondo della linguistica che non esistono solo le lingue parlate o scritte, ma anche le lingue dei segni, e che la
ricerca su queste lingue può insegnare tanto su cosa è il linguaggio e sulle grandiose capacità degli essere
umani di esprimersi usando il corpo intero. Le recenti descrizione della LIS sono volte a mettere in relazione
la continuità e le analogie tra azione, gesto e segno, recuperando la dimensione del corpo nella costruzione e
nella concettualizzazione del linguaggio. In sostanza si dimsotra come gesti e segni abbiano origine dalle
azioni della vita quotidiana e dalle interaizoni degli esseri umani fra loro e con l’ambiente che li circonda e
come sia l’acquisizione che l’apprendimento del linguaggio in generale sia collegato alla misura che
ciascuno di noi prende con il mondo che ci cirdonda a partire dal proprio corpo e dalle proprie esperienza.
Se consideriamo il concetto di grammatica come l’insieme delle convenzioni di una lingua, per descrivere le
convenzioni della LIS, non sarà utile scomporre la lingua in fonemi, morfemi, sintagmi, proposizione,
periodi e nemmeno in nome e verbo; ma piuttosto sarà utile partire dall’unità di senso, ovvero dal significato
del segno per risalire al sistema che goverena certe scelte. A titolo esemplificativo e per dare un’idea di
quanto possa essere complessa la descrizione di una lingua segnata, riportiamo la proposta di classificazione
delle unità che compongono un segno. Il significato è il cuore della descrizione della LIS e questo accade
perchè la LIS, pur mantenendo il principio di composizionalità del segno linguistico, ha in sè la possibilità di
veicolare più significati contemporaneamente. Un segno è un’unità di senso che può essere composta al suo
interno e in modo simultaneo da unità lessicali, deittiche e di trasferimento, cioè può contemporanemante
dire, indicare e mostrare un referente.

Prospettiva pedagogica
È complesso definire cosa è grammatica e cosa non lo è all’intento del LIS, proprio perché questa lingua
coesiste con l’italiano, non solo nel territorio in cui si muove ma anche nella testa di chi la usa e il confronto
con l’italiano è costante e multilivello. Infatti, tutti i segnanti sono bilingui, tutti conoscono anche la lingua
vocale e ognuno interpreta, organizza e fa congetture sui meccanismi che ne regolano il funzionamento.

La prima traccia scritta di un’esperienza didattica collegata alla LIS la troviamo nel rapporto tecnico dal
titolo La lingua italiana dei segni insegnamento e interpretariato. Relazione finale al corso per tecnici e
interpreti della lingua italiana dei segni di Bove e Volterra. Il documenta si presenta ocme un resoconto
degli argomenti trattati durante corsi a tre livelli di competenza della LIS. Vengono riportate in forma
discorsiva le strutture linguistiche affrontate durante i corsi di base, intermedi e avanzati e le attività proposte
in classe. Inevitabilmente, questa esperienza e questo documento segnano l’inizio una riflessione che
riguarda il metodo, l’approccio e le tecniche utili a insegnare la LIS e la ricerca di un linguaggio tecnico da
usare per definire i fenomeni che sono propri di questa lingua.

Proprio in questi anni iniziano i lavori che porteranno alla compilazione del Metodo VISTA del 1997, il più
longevo e per molti anni anche l’unico corso di lingua dei segni italiana, che nasce come adattamento del
corso Signing Naturally, pubblicato per l’insegnamento dell’American sign language. Siamo nel momento di
maggiore diffusione dell’approccio comunicativo e delle prime ricerche nel campo dell’acquisizione delle
lingue seconde, e gli autori dichiarano di aderire a una impostazione teorica di tipo nozionale-funzionale. La
grammatica è inglobata nelle attività che il testo propone e quindi viene esplicitata a posteriori. Nella
VISTA, infatti, i tre livelli sono suddivisi in unità didattiche, che mirano a seguire una impostazione di tipo
comunicativo. Riportiamo di seguito, a titolo esemplificativo, le prime cinque unità del primo livello:

1. Come presentarsi

2. Scambi di informazioni personal

3. Descrizione dell’ambiente

4. Parlare di dove abiti

5. Parlare della famiglia

La dimensione “funzionale” nel VISTA sembra essere stata recepita, mentre non è stata colta la dimenzione
“nozionale”, che poteva sicuramente offrire una chiave per interpretare le categorie di spazio e tempo in LIS.
Le funzioni comunicative sono poste in evidenza e scandiscono la progressione dei capitoli, ma al contrario,
le nozioni di tempo, spazio, quantità e deissi non vengono trattate. Lo schema in cui sono organizzati i
contenuti è identico nei tre volumi del corso e procede in cinque punti:

A) Pratica di conversazione

B) Note grammaticali

C) Esercitazioni di grammatica

D) Esercizi di comprensione

E) Note culturali/linguistiche

Vediamo come è affrontato il discorso sulla grammatica nell’ambito dei corsi di lingua dei segni italiana.
Generalmente questi corsi prevedono 110 ore di lezioni di lingua e circa 20 ore di lezioni di teoria per
annualità. Ogni corso prevede, nell’ambito delle 20 ore di teoria, moduli di area socio-psico-pedagogica e un
modulo di 10 ore che affronti le questioni teoriche legate alle descrizione della LIS e alla sua evoluzione
nello spazio e nel tempo. Un primo dato interessante è quello per cui nei corsi LIS il discorso grammaticale e
la descrizione delle caratteristiche della lingua sono affrontati in un modulo a parte, spesso in lingua italiana
non in lingua dei segni. Durante queste ore di “teoria” gli apprendenti colgono spesso l’occasione per porre
domande sul funzionamento della LIS, che riguardano tutti i livelli di analisi. Il processo a cui gli
apprendenti sono implicitamente indotti nel corso delle lezioni è quello di “tuffarsi nella lingua” e di
esercitarla quanto più possibile.

Riportiamo qui un esempio che riguarda l’ambiguità tra la flessione di un verbo nel tempo e nell’aspetto. Il
problema si pone quando il docente presenta la postposizione di un segno che viene tradotto in italiano come
FATTO dopo un segno che indica un’azione (MANGIARE, STUDIARE). L’apprendente italofono alle
prime armi di solito associa questo fenomeno al participio passato pensando che il segno FATTO traduca il
morfema -ato/-ito della lingua italiana. Capita perciò che una frase come IO MANGIARE + FATTO venga
interpretata come “IO MANGIAVO” attribuendo a quel FATTO il valore di marca temporale del passato e
NON il valore aspettuale di perfettivo (azione conclusa). Nella LIS però la categoria di tempo grammaticale
non si manifesta mai attraverso la flessione del segno. Per esempre il tempo occorre aggiungere utilizzare
segno con valore “avverbiale”, collocandoli prima o dopo il verbo per dare indicazioni cronologiche
sull’azione/evento di cui si sta riferendo.

Le lingue seguono percorsi che non sono determinati da altri se non dalla comunità che le usa; un esercito di
segnanti che non applica regole grammaticali in modo astratto, ma che nel flettere un segno segue logiche
che si basano sulle possibilità articolatorie del segno, sull’economia, sulle caratteristiche concrete o astratte
del referente, sulla situazione comunicativa e sullo scopo dell’enunciazione. E allora la riflessione deve poter
essere funzionale all’apprendente e deve condurre a una forma di conoscenza spendibile nella pratica.
L’assenza di riflessioni metalinguistiche fa sì che gli apprendenti costruiscano da soli le ipotesi sul
funzionamento della linuga e che, quelle stesse ipotesi, siano costantemente e individualmente messe in
discussione e/o sconfessate. Lo scollamente tra teoria e pratica, tra docente che usa LIS e docente che usa
l’italiano, non fa che complicare. Sarebbe invece meglio che il docente di lingua prevedesse la riflessione sul
problema linguistico quando sollecitato degli apprendenti, alimentando il dibattito a partire dai dati
linguistici il più possibile autentici e contestualizzati.

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