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Problemi e pratiche della traduzione

Che cos’è la traduzione? Problematicità di un quesito.

A voler riprendere una definizione quanto più possibile neutrale, si potrebbe citare quella fornita
dall’European Translation Platform nel 1998, secondo cui la traduzione sarebbe la trasposizione di un
messaggio scritto in una lingua di partenza in un messaggio scritto nella lingua d’arrivo.

I più illustri studiosi della materia si sono più volte scontrati con l’impossibilità di fornire una risposta
pienamente soddisfacente al nostro quesito di partenza («Che cos’è il tradurre / che cos’è la traduzione?»).

Tra questi, citiamo il tedesco Friedmar Apel che, già negli anni ’90, scriveva di quanto la traduzione – per
pratica millenaria che fosse – sfuggisse di fatto a ogni etichetta definitoria “stabile” o conclusiva. Ed è questa
una posizione steineriana, cioè riconducibile appunto al quadro teorico – di matrice anche latamente
mistico-trascendentalista – tracciato da Georges Steiner, tra i più illustri studiosi della disciplina e della
pratica del tradurre.

Che cos’è la traduzione? Una definizione «pragmatica».

non dovremmo chiederci “Che cos’è la traduzione”, ma invece osservare, descrivere e problematizzare il
processo stesso della traduzione, tentando così di dare una nostra risposta alla domanda-problema: “Come
tradurre, in che modo tradurre”?

Non è allora possibile considerare il tradurre come un’operazione unicamente linguistica. Essa trasborda
naturalmente nei campi della sociolinguistica, della sociosemantica e, come vedremo, dell’antropologia.

Che cos’è la traduzione? Per una storia delle definizioni.

Con la svolta degli anni Cinquanta del secolo scorso, abbiamo visto affermarsi una serie abbondantissima di
contributi critici, fatti, pensati e studiati per dare una risposta “univoca” e quanto più possibile “scientifica”
al “problema” della traduzione. Un approccio per così dire rigidamente positivista che è stato da ultimo, con
il cultural turn degli anni Ottanta, messo profondamente in discussione – e che ha visto piuttosto
l’affermarsi di teorie “etiche” e “ermeneutiche” della traduzione.

È chiaro però che, da un punto di vista per dir così “pratico”, alcuni degli assunti e degli strumenti messi in
opera da quei “traduttologi” di primo pelo, fervidamente animati dal proposito di far quadrare il cerchio, e
di riportare la traduzione a pratica matematica, possono ancora essere considerati validi, parzialmente
utilizzabili o riutilizzabili – certo, sempre tenendo ben in mente quest’utile correttivo: che la traduzione non
è una scienza, ma appunto una pratica creativa, suscettibile d’essere “scossa” da variazioni profondamente
soggettive.

Ad ogni modo, con la svolta degli anni Cinquanta, sulla scorta della linguistica saussuriana, e degli studi di
semiotica, cominciano a comparire termini e strutture che ben riassumono, in formula, l’essenza del
tradurre: che cos’è il tradurre, dunque?

• In molte opere di “traduttologia”, lo schema base a cui riportare ogni complessa operazione di traduzione
sarebbe il seguente:

LD  LA

• Dove con LD si indica la cosiddetta langue de départ, la source language, la langue source, la lingua
d’origine; con LA si indica invece la langue d’arrivée, la target languague o langue cible. Dunque la “lingua
d’arrivo”.

• La freccia tra le due simboleggia appunto quel transfert che la traduzione stessa costituisce, e che va a
confermare l’etimologia stessa del termine (per cui tradurre deriverebbe appunto da trans + duco =
condurre dall’altro lato, dall’altra parte; un’idea di attraversamento, movimento, trasporto, che compare già
in epoca latina, e che poi si assesterà pienamente nel tardo latino umanistico dei Bruni e Dolet).

Una simile formula è stata più volte riadattata, riscritta, rimaneggiata, e le terminologie che si sono via via
adottate per indicare la lingua d’origine da un lato, e la lingua d’arrivo dall’altro, costituiscono davvero
“legione” e sono difficili a riassumersi.

Si è visto di come i translation studies abbandonino l’orientamento scientista, formalista, positivista, che
ancora animava i primissimi tentativi, condotti nel solco della linguistica teorica e delle scienze
dell’informazione. Si è visto di come, in epoca attuale, i teorici prendano sempre più le distanze, invece, dai
tentativi di riportare il tradurre e la traduzione a “cifra” unica, se proprio dovessimo dare una definizione del
“tradurre”, non potremmo non considerarne l’essenza duplice. Il fatto cioè che con uno stesso termine, di
“traduzione”, si intende a un tempo un processo e un prodotto.

I più recenti studi di traduttologia danno cioè per acquisiti almeno due elementi fondamentali:

- Che la traduzione non riguardi unicamente la lingua, ma invece anche e soprattutto la cultura

- E che, conseguentemente, la traduzione non possa essere pensata nei termini di un semplice
rispecchiamento, di una banale trasposizione di segni linguistici da A a B, da langue source e langue cible:
essa è piuttosto operazione densa, complessa, entro cui rientrano tutta una serie di fattori determinanti per
lo più contingenti (relativi alla posizione, all’orizzonte interpretativo adottato dal sujet traduisant, così come
alla natura e alle qualità materiali del testo, del suo codice, del suo genere, e allo scopo stesso che l’atto del
tradurre si prefigge, producendo un testo d’arrivo, un target text). In questo modo, come si è visto andando
a studiare gli ultimi grandi protagonisti della traduttologia francese, l’atto traduttivo viene a essere
riavvalorato come operazione complessa, di natura innanzitutto ermeneutica, e solo in un secondo
momento tecnicopratica; e il testo tradotto, il prodotto che è figlio di quella stessa operazione, viene
finalmente a essere svincolato dalla sua posizione di tradizionale secondarietà.

La definizione di traduzione trova dunque un nuovo “centro”: e a quest’operazione di “ricalibramento”


hanno collaborato, nel tempo, diversi fattori. Innanzitutto i nuovi orientamenti decostruttivisti e ermeneutici
degli studi umanistici, le teorie di Derrida e De Man avendo per altro messo in discussione molti dei concetti
tradizionalmente assunti per buoni dalla traduttologia.

Allo spostamento in senso “socio-antropologico” hanno poi generalmente contribuito gli studi di letteratura
comparata, e la nuova importanza che hanno assunto in quest’ambito i postcolonial studies. Attraverso
studiosi come la Spivak, sono state introdotte problematiche fino a quel momento assenti nell’orizzonte dei
Translation studies: studiare la traduzione vuol dire anche, al giorno d’oggi, indagare il nesso tra culture
dominanti e dominate, tra traduzione e colonialismo o tra traduzione e genere.

Al novero delle imprese “definitorie” della traduzione, andrà senz’altro aggiunto – e menzionato ancora – il
seminale contributo di Jakobson, che negli anni ’50, nel noto articolo intitolato On Linguistic Aspects of
Translation (1959) individuava tre tipi di traduzione, ancor oggi riconosciuti come i modi centrali del
tradurre: la traduzione intralinguistica, la traduzione interlinguistica o traduzione vera e propria, e la
traduzione intersemiotica o trasmutazione. La traduzione è interlinguistica quando opera su testi
appartenenti a due sistemi linguistici diversi.

La tripartizione di Jakobson è diventata un punto di riferimento forte e significativo per le teorizzazioni


successive.

In un suo saggio ben più recente, Dire quasi la stessa cosa (2003), Eco si soffermerà d’altronde più
lungamente sul concetto di traduzione, tentando di ricavarne una definizione che sia in qualche modo
comprensiva dei molteplici aspetti sotto cui ricade quest’operazione (a un tempo linguistica, semiotica,
interpretativa). Si ritorna con Eco, invece, a riaffermare la natura essenzialmente processuale
dell’operazione traduttiva, descritta e definita in termini di negoziazione (non solo tra lingue, ma
principalmente tra culture). Traduzione, quindi, come pratica che mette al centro non semplicemente il
sistema linguistico, ma l’intero sistema culturale.

Riprenderemo il discorso sulla natura «culturale» del tradurre nella sezione dedicata ai casi di adattamento
(tra i procedimenti considerati «leciti» in ogni operazione traduttiva); ci basti concludere questa panoramica
di «definizioni» citando i più recenti contributi della traduttologia, ancora alle prese con il difficile problema
di stabilizzare l’identità di un processo – il tradurre – che è anche, nello stesso tempo, prodotto – la
traduzione. Alcuni dei problemi definitori inerenti all’operazione traduttiva verrebbero appunto da questa
natura bifida, duale, della traduzione stessa: essa è insieme: • Processo: cioè insieme di tutte quelle
operazioni che si compiono sul testo di partenza per arrivare al testo tradotto (dalla langue source alla
langue cible; o meglio, a questo punto, dalla langue-culture source alla langue-culture cible); • Prodotto:
cioè testo tradotto nella sua materialità e in relazione al suo contesto.

Dunque la funzione degli studi traduttologici non si esaurirebbe nel considerare la traduzione come
«produzione di un testo secondo», semplice passaggio di un testo da una LD a una LA: occorre invece, come
abbiamo dimostrando citando Eco, citando i primi teorici della traduzione come «passaggio di cultura»,
considerare l’insieme delle operazioni che a questo prodotto permettono di delinearsi. In altri termini, la
traduzione è da ultimo considerata come un atto culturale complesso, di cui è bene considerare di volta in
volta premesse, determinazioni, processi e risultati.

• Secondo questa impostazione, che ha preso piede almeno a partire dagli anni Novanta, i translation
studies servirebbero dunque non tanto a produrre una definizione netta e stabile dell’operazione traduttiva
e del prodotto che ne consegue; quanto più che altro a ricalibrare lo statuto stesso di questo prodotto, un
testo che non viene più pensato come inevitabilmente «secondo», nella sua dipendenza dall’originale, ma
invece come testo in sé autonomo, textetraduction (per dirla con Meschonnic) dotato di una propria
autonomia estetica e culturale, in grado di divenire modello per la cultura d’arrivo.

• Secondo teorici come Katharina Reiss e Hans J. Vermeer, l’opera di traduzione sarebbe dunque
tendenzialmente indipendente dal testo originale: essa è invece, per questi teorici – capofila della
cosiddetta Skopostheorie – un atto linguistico-comunicativo complesso, dotato di una propria fisionomia
autoriale e inserito, politicamente e culturalmente, nella realtà oggettiva e determinata dallo scopo. Skopos
è parola greca che indica appunto la «finalità»: è uno dei concetti chiave sviluppati, a partire dagli anni ‘70,
dal tedesco Hans Vermeer, in linea con una teoria «azionale» della traduzione che si interessa non più
unicamente al «testo-fonte», ma invece ai rapporti complessi che si instaurano a livello pragmatico tra
questo e il testo d’arrivo. Secondo questi teorici, la traduzione è fondamentalmente un’azione guidata da
uno scopo, e le strategie di traduzione varieranno a seconda dello «scopo» assegnato di volta in volta al
testo d’arrivo (dalla sua committenza, dalle sue condizioni di produzione).

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