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L’arte dei dragomanni.

Laboratorio di traduzione
dall’inglese – D. Borgogni, I.
Rizzato, N. Sanità
Lingua Inglese
Università di Torino
17 pag.

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L’arte dei dragomanni.
Laboratorio di traduzione
dall’inglese – D. Borgogni, I.
Rizzato, N- Sanità
LA TRADUZIONE
Tradizionalmente la traduzione è stata considerata un semplice trasferimento da una
lingua a un’altra, ossia un processo linguistico e impersonale volto a ottenere
un’equivalenza semantica tra due testi diversi. In realtà, la traduzione è un problema
pratico ed è il punto in cui convergono le lingue, le letterature, le culture, in cui il passato e
il presente, il lontano e il vicino si toccano: dunque, essa è il luogo in cui si creano le
tradizioni, poiché il confronto con l’altro permette di ricostruire la genealogia della nostra
cultura, della nostra tradizione. Inoltre, esse nelle varie epoche rinnovano, ampliano ed
arricchiscono sia la lingua sia la letteratura (la cultura latina si basa sulla traduzione dei
testi in greci, mentre quella tedesca sulla traduzione della Bibbia e dei testi classici). A
riguardo Itamar Even-Zohar, che ha introdotto il concetto di polisistema letterario come
l’insieme complessivo dei testi letterari di una data cultura, dice che la traduzione
all’interno del polisistema può avere una funzione innovativa o di mantenimento,
introducendo nuovi elementi o rafforzando quelli precedenti: infatti, è così che è avvenuto
il passaggio dal latino alle lingue volgari.
Se la pratica traduttiva parte da un’esigenza pratica, la teoria, invece, nasce come
riflessione in seguito all’esperienza personale dei traduttori, che inizialmente vedono la
traduzione come un esercizio per raffinare lo stile e il linguaggio, ma, in seguito, sentono la
necessità di trovare un metodo di traduzione.
È necessario ricordare che la proprietà letteraria, la lingua materna, i concetti di fedeltà e
infedeltà, il testo e l’atto stesso del tradurre hanno avuto accezioni molto diverse nel corso
dei secoli: perciò, diventa necessario conoscere non solo la storia della lingua, della cultura
e della letteratura, ma anche quella della traduzione. Inoltre, è anche fondamentale essere

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consapevoli del fatto che la traduzione non è solo una questione linguistica, sintattica,
morfologica e grammaticale, dal momento che essa viene influenzata anche da aspetti
ideologici politico-sociali e culturali. Ciò potrebbe comportare una manipolazione del testo
da tradurre, cosicchè la traduzione diventa, come dice André Lefevere una vera e propria
riscrittura che dà origine a un testo originale. Così, il traduttore è da una parte schiavo del
testo originale, dall’altra oppresso su come e cosa tradurre in base alle pressioni
ideologiche e politiche dei vari centri di potere. Perciò, la traduzione non può essere
considerata un mero atto linguistico meccanico e neutrale, bensì una pratica condizionata
da vari fattori esterni alla semplice dinamica linguistica.

L’ANTICHITÀ CLASSICA
La prima riflessione sulla traduzione si deve alla civiltà romana, la quale attinge alla
letteratura e alla cultura greca. I Romani non traducono solo per scopi pratici e senza
finalità estetiche, bensì considerando la traduzione un importante strumento di
accoglienza, di trasformazione e assimilazione del modello ellenico. Importante è la
riflessione di Cicerone riguardo la traduzione dal greco al latino: egli ritiene che non si
debba tradurre parola per parola, interpretando il testo, dal momento che il latino è una
lingua diversa da quella greca, bensì che si debba, invece, mantenere il senso del testo
originale, rispettandone la funzione originaria. Ad esempio, nel momento in cui traduce
Demostene ed Eschine, due oratori greci, egli fa sì che i loro testi giungano al pubblico
latino come orazioni persuasive, dilettanti e commoventi, proprio come le originali greche.

IL MEDIOEVO E LA BIBBIA
La prima traduzione della Bibbia viene commissionata da Tolomeo II nel III secolo a.C. per
far fronte alle esigenze della comunità ebraica di lingua greca, che, sempre più numerosa,
si stanzia ad Alessandria. Essa, però, considera non considera ufficiale quest’opera, poiché
ufficiale è solo quella originale. La comunità cristiana, invece, la vede come un equivalente
perfetto dell’originale e la prende a modello come testo ufficiale.
Secondo Filone di Alessandria (I secolo d.C.) la versione tolemaica della Bibbia (definita
Bibbia dei Settanta) è garantita dall’ispirazione divina dei traduttori. Questo è un tema che
viene ripreso in seguito da Lutero, il quale ritiene che per tradurre non basti solo una
buona conoscenza della lingua, ma che occorrano anche la grazia ispiratrice di Dio e l’aiuto
dei teologi. Inoltre, per Filone, dal momento che i testi sacri sono uno strumento nelle

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mani di Dio, allora essi devono essere tradotti letteralmente per evitare errori. Le cose,
però cambiano quando Damaso I chiede a Gerolamo di tradurre dal greco il Nuovo
Testamento. Gerolamo distingue due tipi di traduzione, uno a senso e uno letterale: egli
dice di usare il primo per i testi profani e il secondo, invece, per quelli sacri.
Andando avanti col periodo medievale si passerà a tradurre maggiormente dal latino al
volgare che non dal greco al latino e a farsi garante della corretta traduzione delle Sacre
Scritture è la Chiesa, la quale cerca di cristianizzare tramite la traduzione. Durante il
Medioevo, però, vengono tradotti anche i testi in arabo e la prima scuola di traduzione
nasce in Spagna, al fine di tradurre dall’ebraico e dal greco in latino.

IL RINASCIMENTO
Col Rinascimento viene ripreso il pensiero di Cicerone, mentre si rompe con quelli
medievale, cosicchè si apre la strada alla traduzione come bene di consumo ante litteram.
In questo periodo nascono i primi dizionari bilingui e poliglotti e nel 1535 viene fondata la
prima scuola per interpreti; nel ‘600, invece, viene creata da Pietro il Grande la prima
associazione di traduttori.

La rottura col Medioevo è dovuta a diversi fattori:


- L’Umanesimo che implica un forte impulso a tradurre dal greco e dal latino:
- La stampa, che moltiplica il numero dei lettori e fa aumentare, di conseguenza, la
necessità di traduzioni;
- Il consolidamento delle lingue nazionali, riconosciute come nobili e degne per la
letteratura e per il linguaggio giuridico, diplomatico e filosofico;
- I nuovi criteri filologici ed ermeneutici, per cui l’approccio al testo diventa attivo, con
lo scopo di penetrare in profondità nel testo stesso, al fine di recuperarne il
significato originario ed esprimere il contenuto con eleganza stilistica adeguata;
- La crescente attenzione ai processi traduttivi;
- La Riforma Protestante, per cui la traduzione nelle lingue nazionali deve avvenire in
modo letterale, ma deve rendere lo spirito profondo del testo in modo intelligibile,
riflettendo la lingua della gente comune.
Leonardo Bruni enuncia alcuni princìpi fondamentali della traduzione, come ad esempio la
buona padronanza della lingua di partenza e di quella di arrivo da parte del traduttore, il
quale deve comprendere la forza e il significato delle parole e prendere come esempio i

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migliori scrittori, al fine di esprimersi con un linguaggio efficace sul piano comunicativo.
Inoltre, per Bruni è fondamentale anche che non vadano perse le qualità sonore e ritmiche
del testo di partenza, riproducendo lo stile dell’autore tramite l’imitazione degli espedienti
retorici e semantici del suo testo.
Le riflessioni di Lutero sulla traduzione sono importanti dal momento che per la prima
volta l’atto traduttivo assume importanza nella vita della collettività, portando il germe
dell’identità linguistica e nazionale tedesca. Dunque, quella di Lutero è una concezione
democratica, per cui il traduttore deve rendere il testo accessibile a tutti: perciò, Lutero,
dovendo trasmettere il messaggio divino anche ai ceti più umili, decide di rimanere fedele
all’originale, andando contro le necessità di divulgazione e contrasto. Infatti, Lutero traduce
alla lettera, senza andare incontro alla comprensibilità del testo.

IL CLASSICISMO
Nel XVII secolo d.C. il dibattito sulla traduzione si arricchisce di nuovi elementi in
concomitanza con la supremazia culturale della Francia, dove nasce una nuova pratica
traduttiva, detta “bella infedele”, che si basa sul fatto che da un lato la cultura, le
conoscenze e il gusto dell’epoca vengono considerati i migliori, mentre dall’altro si ha
ancora la concezione medievale che il greco e il latino siano ancora modelli linguistici
perfetti. Dunque, la bella infedele si pone l’obbiettivo di arricchire la lingua di arrivo e, allo
stesso tempo, di raffinare l’originale dal punto di vista stilistico.
In Inghilterra, invece, al contrario della Francia, si dice no a barocche imitazioni
dell’originale assimilate al gusto e alle mode continentali, preferendo di gran lunga
versioni più tradizionali e rispettose della forma dell’originale.
Dryden propone tre modalità di traduzione:
- La metafrasi, ossia una versione molto letterale;
- La parafrasi, ossia una traduzione a senso, che tiene conto delle intenzioni
dell’autore e che amplifica il testo ove necessario, ma senza modificarlo
arbitrariamente;
- L’imitazione, che si ispira liberamente all’originale.

IL ROMANTICISMO
Nel periodo romantico in Germania la traduzione viene concepita come evento fondante
dell’identità nazionale. Essa viene considerata uno strumento per ampliare le possibilità

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della propria lingua e cultura, assumendo un significato collettivo, di rilevanza nazionale e
di matrice popolare.
Goethe descrive tre modi di affrontare la traduzione, i quali corrispondono a tre epoche
diverse: il primo consiste in una traduzione interlineare, che avvicina la materia alla cultura
d’arrivo: il secondo, invece, consiste nell’appropriarsi dell’estraneo per riprodurlo nella
lingua d’arrivo; infine, il terzo, consiste nel rendere la traduzione identica all’originale, in
modo che ne faciliti la comprensione. Inoltre, egli pone il testi di partenza su un piano di
superiorità rispetto a quello di arrivo.
Schleiermacher considera la comunicazione umana difficile, poiché anche parlando e
scrivendo nella propria lingua si compie un atto di traduzione del pensiero in verbo. Per
quanto riguarda, invece, la traduzione interlinguistica, egli propone la distinzione tra
tradurre e interpretare: il traduttore è associato alla forma scritta, mentre l’interprete a
quella orale. inoltre, Schleiermacher ha anche teorizzato l’assenza di corrispondenze
biunivoche perfette tra i vocaboli di due lingue diverse, cosicchè la traduzione non può
essere un’operazione meccanica, bensì un’attività che solo chi conosce entrambe le lingue
può compiere con efficacia, ed individua il rapporto tra lingua e parlante, per cui la prima
influenza il secondo e la sua visione del mondo. Infine, egli cerca di porre l’autore e il
lettore contemporaneo in rapporto simile a quello che esisteva tra l’autore stesso e il suo
pubblico originario, ipotizzando il concetto di attualizzazione.
Wilhelm von Humboldt dichiara che nessuna parola è completamente uguale a una di
un’altra lingua, poiché ogni lingua esprime i concetti in maniera diversa da un’altra. Ciò,
però, non significa che tradurre sia impossibile, poiché tutte le lingue hanno la possibilità
di esprimere tutto. Inoltre, la traduzione arricchisce sul piano linguistico e letterario,
aumentando le proprie capacità espressive e accogliendo nuove opere, poiché entra in
contatto con altre culture: a tal fine la traduzione dev’essere fedele al testo d’origine, nei
confronti del quale l’autore, che deve scrivere come scriverebbe nella propria lingua,
dev’essere devoto e rispettoso. Humboldt insiste molto sull’originale, perché questo,
essendo unico e irraggiungibile, contiene il vero spirito: infatti, le traduzioni sono
molteplici e diverse tra loro, poiché non sono solo il prodotto di un’epoca odi una società,
ma anche della singola interpretazione da parte di un traduttore.

IL NOVECENTO
Traducibilità ed estraneità

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Bohumil Mathesius ritiene che il testo tradotto sia una creazione letteraria personale e
originale, per cui è doveroso violare il testo, sopprimendo, aggiungendo, integrando o,
comunque, rielaborando l’originale.
Benedetto Croce sostiene l’impossibilità del tradurre non tanto per le differenze
linguistiche quanto perché ogni espressione è unica e irripetibile.
Malinowski pensa che la traduzione sia sul piano linguistico sia su quello psicologico porti
il lettore in un altro mondo, avvertendo ka differenza del testo che legge. Questa idea
viene ripresa da Walter Benjamin, il quale dice che un’opera d’arte non ha destinatario e,
pertanto, non ha senso riferirsi a un pubblico particolare: ipotizzare un lettore ideale è
addirittura nocivo. Egli ritiene, inoltre, che sia impossibile definire il concetto di esattezza,
poiché questo contraddice quello di riproduzione reale, che non può mai essere
obbiettivo. Per Benjamin è fondamentale che tramite la traduzione i lettori facciano
esperienza di sé mentre esperiscono l’altro.
José Ortega y Gasset parte dal presupposto che l’uomo aspira all’utopia, alla perfezione,
alla realizzazione di opere irrealizzabili: tra quest’ultime vi è la traduzione, che, secondo
Ortega, si adatta alle norme linguistiche. Perciò, originale e traduzione non coincidono mai
e tradurre rimane un’impresa impossibile: così, la traduzione non sarà mai un doppione
dell’originale, bensì un genere a sé stante, con regole e finalità proprie, e un testo avrà
molteplici traduzioni, ciascuna delle quali sottolinea aspetti differenti.

Scienza della traduzione verso Arte della traduzione


Roman Jakobson identifica tre forme di traduzione: quella endolinguistica, quella
interlinguistica e quella intersemiotica. La prima consiste nell’interpretare dei segni
linguistici per mezzo di altri segni della stessa lingua, la seconda nell’interpretazione dei
segni linguistici per mezzo di un’altra lingua e la terza nell’interpretazione dei segni
linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici. Nel primo caso rientra la scrittura,
nel secondo l’interpretazione e nel terzo la ricodifica attraverso un sistema diverso di segni.
Per quanto riguarda la traduzione interlinguistica, in tal caso non c’è un’equivalenza
assoluta fra le unità codificate, poiché termini per lo più equivalenti nell’uso recano con sé
messaggi diversi all’interno di ciascuno codice linguistico: le lingue infatti, differiscono per
ciò che devono esprimere e non per ciò che possono esprimere.
Se generalmente tradurre un testo è difficile, la traduzione diventa ancor più complessa nel
caso delle barzellette, dei giochi di parole e nel linguaggio onirico o poetico, poiché è

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impossibile trovare una corrispondenza nel sistema normativo dell’altra lingua. Inoltre, ciò
che è praticabile per tradurre i vari generi letterari non lo è per la poesia, in cui il valore
grammaticale e fonico delle parole è un elemento portante del messaggio trasmesso, in
cui forma, contenuto e comunicazione sono intrecciati in modo indissolubile.
Eugene Nida è il primo che imposta la riflessione sulla traduzione dei testi sacri secondo
criteri laico, poiché la sua idea è quella di un’equivalenza dinamica che si fonda su un
continuo adeguamento degli elementi linguistici in traduzione a seconda del contesto
semantico in cui si trovano e dell’effetto globale che il testo deve sortire sui lettori.
Dunque, egli vede la traduzione come una ricerca di corrispondenze pragmatiche.
Con l’impronta formalista e strutturalista la traduzione diventa un insieme di
corrispondenze regolate da norme meccaniche e da princìpi matematici.
Steiner propone due teorie, una sulla traduzione e una sulla comunicazione e il linguaggio
in generale. Egli ritiene che la traduzione non sia solo funzionale a comunicare un certo
significato, poiché il linguaggio influenza il mondo delle persone che lo parlano ed è
individualistico, nel momento in cui sfugge ai princìpi linguistici universali. Perciò, per
Steiner la traduzione è un’interpretazione simpatetica, violenta, sfruttatrice e ristoratrice del
testo straniero. Egli individua quattro momenti traduttivi: il primo è caratterizzato dalla
fiducia nella serietà e nella validità del testo da tradurre; la seconda consiste
nell’aggressività verso il testo, che serve a portare a casa i tesori presenti in ciò che si
traduce; la terza è quella dell’incorporazione, della trasformazione e della naturalizzazione
nella lingua e nella cultura di arrivo del materiale appreso; la quarta è quella in cui il testo
tradotto viene messo in luce. Inoltre, se la traduzione è inferiore rispetto all’originale, essa
mette in evidenza le virtù di quest’ultimo, mentre, se è migliore, rivela e concretizza le
potenzialità irrealizzate dall’originale. Quest’ultima fase è utile per bilanciare i due testi.

I Translation Studies e il polisistema


La teoria moderna della traduzione nasce grazie agli Translation Studies, che alla
contrapposizione tra i due principali filoni di ricerca, quello letterario e quello linguistico. Il
termine Translation Studies è stato coniato da James Holmes per denominare un nuovo

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orientamento negli studi della traduzione, che superi la rigida opposizione precedente:
infatti, gli studiosi di Translation Studies si occupano sia dell’aspetto letterario sia di quello
linguistico, aspetti che non devono escludersi a vicenda. Diventa così importante
l’approccio interdisciplinare, che porta a collaborare con diversi professionisti. Lo scopo è
quello di indagare il processo traduttivo e il modo in cui esso influisce sugli originali (testi
di partenza) e sui prodotti di attività traduttiva (testi di arrivo).
André Lefevere e altri studiosi rifiutano norme prescrittive, fisse e immutabili, sostenendo,
invece, la necessità di un processo sempre in fieri, aperto alle critiche e a nuovi sviluppi.
L’oggetto dell’indagine sono le traduzioni stesse, soggette a manipolazioni teoriche e a
norme artistiche: dunque, le traduzioni sono da considerarsi sia come prodotti sia come
produttori e agiscono da mediatori sia sul piano sincronico tra due culture sia sul piano
diacronico (temporale) tra diverse tradizioni storiche.
James Holmes individua tre aspetti che sono fondamentali per i Translation Studies:
- L’aspetto descrittivo, per descrivere i fenomeni traduttivi esistenti;
- L’aspetto teorico, per stabilire i princìpi tramite i quali spiegare i sopraddetti
fenomeni;
- L’aspetto applicativo, che consente di mettere in pratica i primi due aspetti.
Inoltre, James Holmes ritiene che il processo di traduzione preveda decisioni iniziali che
condizionano quelle successive: tali decisioni non sono né giuste né sbagliate, poiché non
solo aprono una strada, precludendone un’altra, ma anche generano nuove opzioni.
Henri Meschonnic sottolinea l’importanza del sistema socio-culturale di arrivo, ma allo
stesso tempo è consapevole che le traduzioni possono trasformare la lingua e la letteratura
di arrivo: egli, però, cerca di evitare tale trasformazione. La sua idea di traduzione anticipa
quella della scuola israeliana, di cui fa parte Itamar Even-Zohar, il quale introduce il termine
polisistema per indicare l’insieme dei sistemi letterari di una data cultura, dove vengono
considerati sistemi letterari non solo le forme elevate e canonizzate, ma anche quelle basse
e non canonizzate. Inoltre, egli riconosce alla letteratura sia una funziona primaria per la
creazione di nuovi esempi e modelli sia una funzione secondaria per il consolidamento di
esempi e modelli già esistenti.
Gli esponenti della teoria polisistemica ragionano all’opposto degli studiosi che seguono
gli Translation Studies: se quest’ultimi credono nelle capacità soggettive del traduttore di
produrre un testo equivalente che influisce sulle convenzioni letterarie e culturali di una
società, i primi, invece, partono dalle norme sociali e dalle convenzioni letterarie della

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cultura ricevente, le quali sono alla base dei presupposti estetici del traduttore e, dunque,
influenzano le successive decisioni di traduzione.

La seconda fase dei Translation Studies: manipolazione, invisibilità e scopo


La seconda fase dei Translation Studies viene influenzata dalla teoria polisistemica: Theo
Hermans, infatti, riconosce l’importanza del contributo di Even-Zohar e propugna una
visione della letteratura come sistema complesso e dinamico, per cui dovrebbe esserci
un’iterazione continua tra modelli teorici e studio dei casi pratici. Lo studio sugli aspetti
descrittivi incide sulla teoria tanto che i concetti tradizionali vengono minati alla base e la
teoria si evolve; inoltre, vengono organizzati dibattiti grazie ai quali il concetto di testo
tradotto viene ridefinito.
Alcuni studiosi Inglesi e Americani prendono le distanze dal modello polisistemico, poiché
lo ritengono troppo formalistico e restrittivo, e decidono di concentrarsi più sia sulle
istituzioni di prestigio e potere all’interno di una cultura sua sui modelli di traduzione
letteraria.
Lawrence Venuti denuncia la condizione di marginalità della traduzione: il fatto che questa
sia invisibile dipende dal concetto di scorrevolezza, poiché una traduzione scorrevole è
omologata alle convinzioni della lingua e della cultura d’arrivo, adattandosi
completamente a questa, senza considerare gli elementi eversivi e innovativi o fortemente
altri introdotti dal testo di partenza. Venuti denuncia tutto ciò, ossia l’omologazione o
l’addomesticamento, cioè la manipolazione secondo le caratteristiche della cultura d’arrivo
che si ottiene intervenendo a livello linguistico e stilistico. A questa si contrappone lo
straniamento, cioè il processo per cui viene riprodotto l’elemento di alterità proprio
dell’elemento di partenza, mettendone in risalto l’aspetto esotico e rendendo visibile la
traduzione. Tale processo, però, può compromettere la comprensibilità dell’opera.
I Translation Studies condividono molti aspetti con la Skopostheorie, che si fonda sul
concetto di skopòs, termine greco che significa obiettivo, scopo, funzione. Il massimo
esponente di questa teoria è Hans Vermeer, che mette in discussione la fedeltà alla lettera
del testo alla sua struttura semantica e formale: infatti, il traduttore deve rimanere fedele
solamente allo scopo per cui si pone in essere il testo di arrivo, verso cui è orientata la
traduzione. Così chi traduce è più libero nell’elaborare un testo d’arrivo che sia in grado di
svolgere lo scopo prefisso presso i destinatari desiderati.

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Traduzione e imperialismo
La traduzione è sempre stata fondamentale non solo dal punto di vista culturale, ma anche
da quello politico: nel III millennio a.C. i principi si dichiarano custodi-sorveglianti degli
interpreti, figure importanti alle quali ricorrono per esplorare, commerciare e fare
spedizioni. Essa implica molto più che il solo linguaggio, poiché è legata anche a sistemi
storico-politici ed economici ed ha una fortissima dimensione ideologica. Perciò, diversi
studiosi hanno iniziato a indagare sulle componenti ideologiche insite in qualsiasi atto
traduttivo, allo scopo di smascherare le dinamiche di potere da esse occultate.
Antoine Berman denuncia l’etnocentricità della traduzione, che deforma il testo,
assimilandolo alla cultura della lingua d’arrivo. Per lui la traduzione dovrebbe basarsi sul
letteralismo per segnalare l’estraneità del testo tradotto, rispettando così le differenze
culturali e linguistiche del testo originale.
Eric Cheyfitz analizza le reazioni tra traduzione e colonialismo, concentrandosi sulle
dinamiche che caratterizzano i rapporti tra i conquistatori europei e le popolazioni locali,
che rappresentano ciò che è diverso. In questo caso i coloni occidentali si servono della
traduzione per civilizzare l’altro. Questo, però, accade anche dal punto di vista religioso: la
Chiesa, infatti, impiega la traduzione per convertire i popoli sottomessi al Cristianesimo: le
conseguenze di ciò è la nascita di una lingua ibrida, dal momento che la lingua nativa
viene usata al fine di avvicinare maggiormente la popolazione locale a Dio, ma allo stesso
tempo viene considerata imperfetta, perché priva di termini fondamentali per l’espressione
di concetti religiosi cattolici. L’incontro di due lingue, però, porta ad una trasformazione
culturale della popolazione locale

Postcoloniale e traduzione
Nelle società in cui vige il multilinguismo la traduzione di un testo diventa maggiormente
problematica, poiché più culture, che hanno una diversa visione del mondo, si incontrano.
Il termine “postcoloniale” è da intendersi non tanto dal punto di vista cronologico, ma
piuttosto come una reazione a tutto ciò che il termine “coloniale” rappresenta. In questo
contesto la traduzione diventa qualcosa di transculturale, uno strumento con cui
trasportare da paese a paese non solo parole, ma anche oggetti, idee, costumi, religioni,
immagini e simboli. Così la letteratura postcoloniale o del Commonwealth fa perno sul

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problema del rapporto tra cultura d’origine e cultura d’approdo: alcuni, come Chinua
Achebe, accettano la lingua dei colonizzatori, usandola affinchè la maggior parte possano
capire le proprie opere, mentre altri, come Ngugi wa Thiong’o, la rifiutano.
Dal momento che i testi moderni fanno spesso riferimento ai testi del passato, allora ai
traduttori vengono richieste notevoli conoscenze in diversi campi di studio.

TRADURRE DALL’INGLESE
Cenni di linguistica contrastiva per la traduzione
- Grammatica: morfologia e sintassi. L’inglese è una lingua analitica di ordine SVO
(soggetto – verbo - oggetto), poiché a definire la categoria grammaticale di una
parola è l’ordine della frase. Anche nel caso dei sintagmi nominali l’ordine dei
sostantivi è fondamentale per stabilire il significato.
In inglese l’ordine SV viene modificato raramente, ad esempio quando si utilizzano
gli avverbi di frequenza, quando si hanno frasi negative o delle costruzioni
particolari, quando si vuole dare una particolare enfasi.
Per quanto riguarda le frasi queste possono essere di sette tipi in base ai loro
componenti (SV1, SVO2, SVC3, SVA4, SVOO5, SVOC6, SVOA7). Per quanto riguarda,
invece, i verbi, alcuni reggono il full infinitive preceduto dal to, altri il bare infinitive
(-ing), altri ancora reggono entrambi, ma cambiano di significato.
- Lessico. Il lessico della lingua inglese è estremamente eterogeneo e accoglie molti
termini di derivazione francese, tant’è che può essere considerata la lingua più
romanza tra quelle germaniche: tali termini francesi sono stati adottati durante il
periodo medievale. L’inglese, però, ha attinto anche dalla lingua danese, dal latino e
dalle lingue extraeuropee. Inoltre, nell’inglese la differenza tra alcuni termini non è
grammaticalizzata, bensì lessicalizzata: infatti, la ricchezza lessicale dell’inglese
dipende da tanti fattori, tra cui la possibilità di creare neologismi, composti o terze
parole, unendone due. Dunque, una caratteristica dell’inglese è che una parola può

1 Soggetto e verbo
2 Soggetto, verbo e oggetto
3 Soggetto, verbo e complemento
4 Soggetto, verbo e avverbio
5 Soggetto, verbo e doppio oggetto
6 Soggetto, verbo, oggetto e complemento
7 Soggetto, verbo, oggetto e avverbio

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avere diverse funzioni sintattiche. Vengono usati anche le abbreviazioni e gli
acronimi.
I cambiamenti lessicali all’interno dell’inglese sono dovuti a numerose ragioni, tra
cui evitare il sessismo o risolvere questioni etniche.
Alcune locuzioni inglesi corrispondono a locuzioni italiane, ma non sempre è così.
Un altro problema sono le espressioni idiomatiche

Il sintagma nominale: premodificazione a sinistra e postmodificazione


Nella visione aristotelica la proposizione di base è formata da soggetto e predicato, ma si
può anche parlare di sintagma nominale e sintagma verbale. Un sintagma è una
combinazione di più elementi e acquista significato in relazione ai sintagmi che lo
precedono e lo seguono: un sintagma nominale, ad esempio, è formato da un sostantivo,
detto testa, preceduto da altri sostantivi, attributi e aggettivi sostantivati, i quali lo
qualificano in un’unica stringa, senza interposizione di verbi o proposizioni.
Quando si traduce dall’inglese all’italiano, ciò che si trova a sinistra della testa viene
posizionato alla sua destra. Questo spostamento permette di riportare una maggior
quantità di aggettivi, forme participiali, sintagmi preposizionali, frasi relative che
permettono di esprimere in modo più esplicito rispetto alla premodificazione inglese.
Un altro fenomeno è la nominalizzazione, processo per cui una parte del discorso può
assumere la funzione di un nome. Tale processo può essere definito anche
ricategorizzazione di un verbo o di una proposizione in nome.

Il processo traduttivo
Il termine “tradotto” significa “portato al di là, dall’altra parte”. Perciò, il traduttore è un
mediatore culturale tra due lingue che “porta” il testo da una lingua all’altra e la traduzione
diventa un’attività che richiede capacità eclettiche, conoscenze culturali notevoli, molta
umiltà, ma che, allo stesso tempo, non ha regole scientifiche universalmente applicabili.
La definizione di traduzione può variare a seconda del punto di vista da cui la si guarda:
per Eugene Nida, ad esempio, la traduzione i requisiti fondamentali della traduzione sono
dare senso, riprodurre lo spirito originale con uno stile comprensibile e stimolare una
ricezione nei riceventi del testo di arrivo simile a quella dei riceventi del testo fonte. Altri
autori, però, potrebbero fornire altre caratteristiche traduttive.

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Per quanto ogni autore possa dare una definizione diversa di traduzione, in generale, però,
è bene tenere presente che la traduzione comincia con la lettura e non è mai
un’operazione meccanica, poiché sono fondamentali l’analisi linguistica e quella culturale.
Alcuni processi che possono avvenire durante la traduzione sono:
- La denominalizzazione, che consiste nel passaggio da un sintagma nominale nel
testo a fronte a un sintagma verbale nel testo d’arrivo;
- La riformulazione, che consiste nel cambiare l’ordine delle parole;
- L’adattamento o l’equivalenza culturale, che comporta la traduzione di
un’espressione idiomatica con un’altra espressione idiomatica dallo stesso
significato;
- Il metatesto, la perdita, la compensazione e l’esplicitazione: durante la traduzione si
perde il metatesto (Testo che accoglie al suo interno parti di altri testi o che vi
allude ripetutamente), ma tale perdita si pone rimedio tramite la compensazione o
l’esplicitazione. Per compensazione si intende la tecnica di recuperare caratteristiche
importanti del testo fonte. Per esplicitazione, invece, si intende il processo di
tradurre informazioni nella lingua ricevente che sono presenti solo in senso implicito
nella lingua emittente, ma che possono derivare dal contesto o dalla situazione.
Questi espedienti vengono usati nel momento in cui non ci siano equivalenti ritenuti
adatti dal traduttore nella lingua ricevente e diventa necessario trasmettere le stesse
informazioni con altri mezzi rispetto a quelli del testo originale.
- L’espansione, che viene usata quando la sinteticità o la compattezza del testo fonte
in inglese non permette una semplice ricategorizzazione e occorre aggiungere degli
elementi informativi;
- L’omissione, che consiste nell’omettere uno o più elementi, sottintendendo alcune
informazioni;
- Le note esplicative a piè di pagina;
- La ricategorizzazione, la traduzione della modalità e dell’aspetto: la
ricategorizzazione consiste nel variare le parti del discorso passando dal testo fonte
al testo d’arrivo, da categorie lessicali a categorie grammaticali o viceversa.
Bisogna ricordare anche che in inglese il tempo grammaticale non sempre coincide con
quello cronologico, poiché nel sintagma verbale inglese è importante l’aspetto de verbo,
cioè ciò che contrassegna l’atto verbale secondo la prospettiva della durata, della

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momentaneità, della ripetitività, dell’inizio o della conclusione di un processo, della
compiutezza dell’azione.

Ruolo e scelta del dizionario bilingue e monolingue


I termini sono segni in cui il rapporto tra significante e significato è biunivoco, mentre le
parole sono aperte alla polisemia e possono avere più connotazioni: più il significato è
preciso, più diminuisce il numero di oggetti cui ci si può riferire. Dunque, mentre per i testi
scientifici, che tendono all’oggettività, è sufficiente un glossario, per quelli umanistici,
invece, serve un vero e proprio dizionario, poiché essi si ammantano di varie sfumature.
Sul dizionario bilingue si trovano diverse informazioni di tipo morfo-lessicale e sintattico,
che aiutano lo studente dal punto di vista grammaticale. Prima di usare il dizionario, però,
è necessario leggere e analizzare il testo, poiché le traduzioni a prima vista sono da evitare:
infatti, è fondamentale capire il tipo di testo.

Livello paratestuale
- Titolo, sottotitolo, dediche, citazioni in esergo;
- Contesto e tradizione;
- Che cosa dice il testo;
- Come lo dice e a quale genere appartiene;
- Perché lo dice;
- Tipi di testo esistenti:
 Rappresentativo: rappresenta mimeticamente eventi e discorsi;
 Regolativo: fornisce o impone istruzioni, comportamenti …;
 Descrittivo: descrive fenomeni, persone, oggetti, eventi;
 Narrativo: descrive eventi, sottolineando relazioni, concetti,
trasformazioni …;
 Espositivo: analizza e sintetizza concetti;
 Argomentativo: persuade, dimostra una tesi, valuta problemi.

Livello lessicale-semantico
- Tipo di lessico e di registro;
- Ricorso a neologismi, idiomi, parole straniere, arcaismi, barbarismi, dialetto …;

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- Adeguatezza in base al tipo di testo di partenza e particolari caratteristiche lessicali
e morfologiche;
- Tipo di varietà lessicale;
- Aspetti semantici;
- Presenza di falsi amici o mancata corrispondenza tra le lingue;
- Uso di espressioni proverbiali o idiomatiche, che solo a volte presentano
equivalenze in italiano.

Livello sintattico
- Struttura del periodo;
- Semplificazioni delle co-referenze endoforiche, esoforiche, anaforiche e cataforiche,
dei segnali discorsivi, dei deittici, delle co-referenze grammaticali e delle co-
referenze lessicali;
- Analisi dei giuntivi, ossia congiunzioni, disgiunzioni, controgiunzioni, subordinazioni,
avverbi, altre relazioni che tengono connesse le frasi tra loro.

Livello retorico-argomentativo
- Fonetica;
- Aspetti stilistici;
- Aspetti legati al significante/significato e alla connotazione/denotazione;
- Uso di figure retoriche;
- Analisi della funzione testuale prevalente;
- Analisi del tipo di argomentazione;
- Analisi dell’atto illocutorio e dell’effetto perlocutorio del testo.

Livello intertestuale
L’intertestualità mette in rapporto il testo con altri testi con cui esistono connessioni
significative e permette di riconoscere il testo come appartenente ad un determinato
genere. Diventa, perciò, fondamentale valutare il tipo, la funzione e le implicazioni di tali
rimandi intertestuali. Una volta valutati questi elementi si può passare all’uso del
dizionario, che permette di risolvere qualunque problema linguistico.
Il termine “dizionario” non è sinonimo di “vocabolario”: infatti, mentre il dizionario è un
volume o un dischetto contenente le definizioni della lista di parole selezionate dai

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lessicografi, il vocabolario, invece, è il lessico usato da una comunità di parlanti o usato da
un parlante e depositato nella sua memoria semantica. Il vocabolario che ciascuno
controlla nella propria lingua dipende dal grado di cultura, dalla professione che esercita,
dagli sport che pratica, dagli ambienti più o meno stimolanti che frequenta. Perciò, è
importante che, quando si traduce, si faccia riferimento a questo bagaglio di conoscenze
enciclopediche e al cosiddetto vocabolario che ciascuna madrelingua possiede.
Il dizionario permette di affrontare la lingua nei suoi diversi registri, da quello colloquiale a
quello letterario, scientifico e settoriale. Inoltre, registrano anche la fraseologia, le
espressioni idiomatiche e i proverbi.
I dizionari possono essere bilingui o monolingui: i primi sono bidirezionali, anche se spesso
tendono a privilegiare o la lingua di partenza o quella d’arrivo, mentre i secondi sono utili
per conoscere le varie accezioni dei singoli vocaboli, fornendone una traduzione
endolinguistica, anziché interlinguista, che permette di evitare maggiormente errori. Ci
sono anche i dizionari pedagogici, che, improntati a princìpi glottodidattici, facilitano l’uso
comunicativo della lingua, poiché contengono informazioni culturali che supportano la
mera definizione, contestualizzando la parola di cui danno conto con articoli lessicografici
molto lunghi. Perciò, è da ricordare che ogni dizionario fa delle scelte e dev’essere molto
ben conosciuti per essere usato correttamente.
Dal momento che la definizione di una parola è il frutto di una scelta, bisogna valutare se
tale traduzione sia adatta al contesto. Per questo sono importanti i collocatori, i quali
mettono in comunicazione le due lingue. Essi segnalano le combinazioni di una o più
parole che formano un’unità sintattica e lessicale ricorrente e attribuiscono i singoli lemmi
ai diversi ambiti semantici. Aisenstadt definisce le collocazioni come delle “combinazioni di
una o più parole usate in uno dei loro significati regolari, non idiomatici, secondo alcuni
schemi strutturali e limitate nella loro commutabilità non solo dalla valenza grammaticale e
semantica, ma anche dall’uso”. Esse non sono espressioni idiomatiche, poiché non sono
cristallizzate, bensì ammettono varianti.
Un buon dizionario deve registrare le parole lemma e come si collocano i vari traducenti in
contesto. Il tutto dev’essere corredato da vari esempi contenenti le parole nei diversi
contesti d’uso. Le espressioni idiomatiche e i proverbi, in genere, sono riportati al fondo
della voce o in liste a parte; inoltre, esistono dizionari dedicati ad essi.
Le competenze del lessicografo, che per una buona traduzione deve munirsi di vari
dizionari bilingui, monolingui, settoriali, culturali, enciclopedici e fare uso di traduttori

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online, devono sempre coniugarsi con l’intuizione e le capacità dell’utente. Inoltre, è bene
non dare per scontato nulla, anche l’uso di espressioni latine, e non essere né pigri né
frettolosi.

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