La storia della traduzione comprende un’indagine delle teorie della traduzione nei diversi secoli, una risposta critica
alle traduzioni, i processi pratici della commissione e della pubblicazione di traduzioni, il ruolo e la funzione delle
traduzioni in un dato periodo storico, lo sviluppo metodologico della traduzione e l’analisi dei singoli traduttori.
Alla domanda sul perché di una storia della traduzione, possiamo semplicemente rispondere che essa è
indispensabile per la costituzione di una teoria della traduzione.
Dal momento che riteniamo che una teoria della traduzione non sia un “oggetto” autonomo che si muova
indipendentemente dalla cultura di cui fa parte, è ovvio che essendo diversi i contesti letterari, linguistici ecc. delle
culture, è bene parlare di “teorie” al plurale.
Le teorie hanno degli elementi che le accomunano e che ci permettono di trovare delle tendenze generali: quasi
tutte le teorie si collocano nel paratesto; tutte le teorie pre-scientifiche si occupano esclusivamente della traduzione
artistica, cioè della traduzione di testi letterari; tutte le teorie sono accomunate da problemi che riguardano il
metodo del tradurre.
La traduzione artistica ha lo scopo di raffinare e arricchire la lingua latina attraverso l’imitazione dei modelli greci.
Cicerone era interessato ai contenuti filosofici e formali dell’oratoria. Per ottenere tale risultato, il metodo
consisteva in una rielaborazione molto libera – secondo i criteri moderni – dove l’originale subiva un mutamento tale
da trasformare le traduzioni in opere nuove. La fedeltà come la intendiamo oggi veniva tradita completamente. Si
traduceva non per un motivo di divulgazione ma perché tale pratica era considerata un esercizio pedagogico e
retorico.
È in questo contesto che si colloca il testo Qual è il miglior oratore di Cicerone, il testo più antico di cui siamo a
conoscenza che contiene riflessioni sul tradurre in cui si celebra la traduzione libera contro quella letterale. Cicerone
ha tradotto da oratore (che traduce il senso) e non da interprete (che traduce parola per parola).
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Le traduzioni della Bibbia
La Bibbia, il testo più tradotto del mondo, per la sua vocazione a diffondere la Parola di Dio, dà l’avvio a quella
tradizione delle traduzioni che nel mondo occidentale ha dominato su tutte le altre.
San Gerolamo fu il principale autore della Vulgata, che consiste in una sua revisione delle traduzioni già esistenti del
Nuovo Testamento e in una sua traduzione integrale del Vecchio Testamento dagli originali in aramaico ed ebraico.
San Gerolamo subirà molte contestazioni a causa della Vulgata e verrà accusato di eresia per aver tradotto in
maniera diversa rispetto alle traduzioni precedenti.
Nel suo atteggiamento metodologico, San Gerolamo si appoggia ai maestri Cicerone e Orazio ma in confronto ai
retori che lo hanno preceduto egli dà più peso alla resa del significato. Quindi, San Gerolamo modifica il testo
originale laddove ritiene che abbia bisogno di chiarimenti.
Il Medioevo
Nonostante non esistano documenti teorici di grande rilievo, l’età medievale è un’epoca in cui l’attività del tradurre
è intensa e vede molti cambiamenti nella geografia linguistica. I centri più attivi di pratica e teorizzazione della
traduzione non sono più riconducibili unicamente al mondo latino con sede a Roma, ma si spostano verso il mondo
arabo e quello spagnolo.
Nel Medioevo si rifiuta l’eloquenza ciceroniana: la traduzione non viene più considerata un’arte, non predomina
tanto la bellezza del testo di arrivo quanto la fedeltà verso il testo di partenza (la Bibbia).
In questo contesto, la Chiesa ricopre un ruolo fondamentale che si pone a tutela della comprensione della Scrittura:
la lettura dei testi sacri doveva avvenire con le loro glosse tradizionali.
L’Umanesimo
Dall’Umanesimo provengono vari contributi teorici sull’argomento. La civiltà umanistica vede rinascere gli studi
letterari e recuperare i modelli estetici, retorici e giuridici della tradizione classica. Consapevole della distanza storica
che la distingue dalla tradizione classica, tale civiltà introduce strumenti filologici per l’interpretazione e la
trasposizione dei testi greci.
Il De interpretatione recta di Leonardo Bruni rappresenta forse la novità editoriale più rilevante tra quelli che si
considerano in questo libro. In Bruni vengono stabiliti, analizzati e discussi i principi fondamentali del tradurre
correttamente. A Bruni va attribuito anche il merito di aver introdotto nel vocabolario la famiglia lessicale di
traducere, cioè tradurre.
L’Umanesimo in Europa
Durante il Quattrocento, appaiono i primi trattati sulla traduzione provenienti da contesti non italiani, ma spesso,
ancora sotto l’influsso dei modelli italiani. Da questo momento in poi, le teorie più significative sorgono proprio in
questi nuovi contesti di sviluppo linguistico, letterario e culturale, come avviene in Germania.
Nelle versioni in tedesco delle Sacre Scritture di Lutero e di Erasmo, ritroviamo i principi linguistico-filologici
dell’Umanesimo.
Lutero manifesta il desiderio di rendere il testo il più possibile intelligibile e comprensibile a tutti. Tradurre, per lui, è
in linea di massima sinonimo di germanizzare ma il suo metodo non è né letterale né libero e infatti sostiene che:
“talvolta mantenere rigidamente le parole, talaltra rendere soltanto il senso”.
Non è solo sulla lingua, ma anche sulla cultura e sull’identità tedesca in generale che la traduzione biblica di Lutero
ha avuto degli effetti profondi. La sua traduzione segna l’inizio di una tradizione in cui l’atto di tradurre stesso viene a
occupare una parte rilevante dell’esistenza culturale tedesca.
Anche fuori dalla Germania si sentono le ripercussioni della Bibbia luterana: essa diventa modello per le successive
traduzioni in altre lingue europee.
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Il Seicento e il Settecento europei
Francia
Il Seicento francese vive tra l’idealizzazione dell’antico e il senso della propria superiorità. Si privilegia un tipo di
traduzione che sia agréable, élégante e che non offenda la délicatesse del francese, trasformando di conseguenza gli
originali (les belles infidèles). È palese la somiglianza con le teorie ciceroniane; infatti in quest’epoca si elegge a
modello la classicità latina.
Pierre Daniel Huet si distingue dalla traduzione dell’epoca in quanto ritiene che il traduttore debba piuttosto essere
fedele all’autore. La fedeltà deve essere tale da non omettere né aggiungere niente, facendo emergere nella sua
completezza il testo originale.
Inghilterra
In Inghilterra, una storia della teoria del tradurre è riconducibile più che altro al periodo seguente la metà del
Seicento, ed è influenzata, almeno nella prima generazione, dalle tendenze francesi delle belles infidèles.
John Dryden, poeta e traduttore dei classici, distingue tre modelli di traduzione: la metafrasi, la parafrasi e
l’imitazione. Dryden preferisce la parafrasi, che sarebbe l’unico modello a non perdere mai di vista l’autore
dell’originale.
Germania
Nella Germania tra fine Settecento e inizio Ottocento, il tradurre viene trattato come un problema ermeneutico e
filosofico-linguistico.
Goethe, von Humboldt e Schleiermacher sottolineano la traduzione come incontro fra lingue e culture, un incontro
in cui il lettore si dovrebbe sforzare di venire incontro alla diversità del testo e della lingua straniera. Dato che per la
cultura tedesca dell’epoca le traduzioni hanno il compito di importare stili e generi da imitare, sembra essere
naturale che domini un sentimento di fedeltà all’autore. Vale la pena notare che la traduzione qui viene trattata non
solo come una trasposizione di parole o di frasi, ma di culture, ognuna con una sua visione del mondo (il concetto è
fondamentale in Humboldt).
Dal 1750 in poi, divenne di gran moda l’ipotesi della reciproca influenza tra lingua e pensiero (Sapir-Whorf), da cui
consegue l’idea dell’intraducibilità. Anziché alla nascita di una corrente che ribadisca l’intraducibilità assoluta,
assistiamo semmai all’affermazione di una differenza irriducibile delle lingue come condizione necessaria della
traduzione stessa. Tale incommensurabilità può essere vissuta in modo positivo (la differenza tra le lingue esiste solo
a livello superficiale e che esse rinviino tutte a una lingua universale) o in modo negativo (punizione, condanna che ci
ha tolto per sempre la possibilità di capirci).
Il Novecento
La condizione babelica è vissuta in modo negativo da Ortega y Gasset. Secondo la “miseria del traduttore”, di cui egli
parla, tradurre è una con dizione essenzialmente utopistica. La miseria del traduttore è una sfida che può essere
superata con lo splendore (a cui si ritorna in seguito).
Mentre Ortega y Gasset affronta il problema in termini generali, Croce si occupa prevalentemente della parola
poetica. Egli rifiuta l’idea che si possa tradurre la poesia, non a causa delle differenze fra le lingue e le loro visioni del
mondo, ma perché ogni espressione è unica e assolutamente non ripetibile. Come Ortega y Gasset, Croce discute il
problema della traducibilità anche in relazione ai diversi generi testuali. Esistono diversi gradi di difficoltà e di
possibilità di traduzione: a un estremo può essere collocata la poesia come la forma più difficile, all’altro i testi
tecnico-scientifici, basati su una terminologia preventivamente stabilita.
Fra chi sostiene l’impossibilità del tradurre la poesia troviamo anche Jakobson: la poesia è intraducibile per
definizione, è possibile farne solo una trasposizione creativa.
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Ne Il compito del traduttore di Walter Benjamin, l’autore rifiuta completamente l’estetica della ricezione; l’opera
d’arte non è rivolta a chi la riceve e una traduzione non è mai rivolta ai lettori che non sono in grado di comprendere
l’originale. La trasmissione di informazione è dunque insignificante: una traduzione deve cogliere l’essenza
dell’opera, farla sopravvivere e durare nel tempo. Cogliendo l’essenza, il traduttore può liberare quella lingua che è
racchiusa e presente primordialmente in ogni lingua, che non è una lingua, non ha una grammatica, non ha parole.
Secondo Benjamin, il compito del traduttore è quello di ricostituire la lingua adamica, antecedente al crollo di
Babele. Alla traduzione viene attribuita un’enorme importanza: attraverso di essa si può raggiungere la relazione tra
le lingue che appartengono a un’unica lingua di partenza.
“Ché se alcuno pretende che una lingua non perda nulla della sua grazia in una versione, traduca Omero
letteralmente in latino […] si accorgerà subito d’aver dinanzi un mostriciattolo, e che il più eloquente dei poeti s’è
trasformato in un uomo appena capace di parlare”.
I difetti del traduttore vengono alla luce o quando egli non comprende bene ciò che deve tradurre, o quando lo
traduce in modo scorretto, o quando traspone ciò che il primo autore ha espresso in modo adeguato ed elegante sì
da renderlo inadeguato, sgraziato e disordinato.
Il buon traduttore deve conformarsi allo stile dell’autore. Questo è il criterio per riconoscere un’ottima traduzione:
se lo stile del primo testo viene mantenuto il più possibile, in modo che non vengano meno le parole rispetto ai
contenuti, né le parole stesse manchino di eleganza e di bellezza.
EPISTOLA SULL’ARTE DEL TRADURRE E SULLA INTERCESSIONE DEI SANTI – Martin Lutero
Chi vuole tradurre deve disporre di un gran numero di vocaboli per poter scegliere quando una parola non si adatta a
tutti i passi. È difficile tradurre dal latino al tedesco dato che sono lingue molto distanti; per questo Lutero si è
discostato dal testo originale pur sempre rimanendogli fedele e aderente. Il suo scopo è mediare il messaggio del
Nuovo Testamento parlando ai tedeschi da tedesco.
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NOTE E SAGGI SUL DIVAN ORIENTALE-OCCIDENTALE – Johann Wolfgang Goethe
Ci sono tre generi di traduzione: il primo ci fa conoscere l’estero dalla nostra prospettiva (prosaica); il secondo si
sforza di trasferirsi nelle situazioni del paese straniero, ma in realtà tende solo ad appropriarsi del senso a noi
estraneo e a raffigurarlo nuovamente nel proprio senso (parodistica); il terzo desidera rendere la traduzione identica
all’originale sicché l’una non sia surrogato dell’altro, bensì lo rappresenti paritariamente (l’ultimo genere possibile, in
uso ancor oggi).
Una traduzione che tende ad identificarsi con l’originale, si avvicina alla versione interlineare e facilita enormemente
la comprensione dell’originale; con ciò siamo ricondotti al testo di base e l’intero cerchio entro il quale si muove
l’approssimarsi dell’estraneo e del consueto, del noto e dell’ignoto viene in fine chiuso.
La parola è così poco il segno del concetto che il concetto senza il segno non può formarsi. La parola sorge per pura
energia dello spirito, dal nulla ma da quel momento è reale. Perciò, come potrebbe mai una parola, il cui significato
non è dato direttamente dai sensi, essere completamente uguale alla parola di un’altra lingua? Deve
necessariamente presentare differenze e, se si confrontano le più fedeli ed accurate traduzioni, ci si meraviglia di
notare diversità laddove si pensava di riscontrare solo l’uguale e l’uniforme. Si può affermare che una traduzione è
tanto più deviante quanto più faticosamente tenta d’essere fedele.
Se con la traduzione si deve acquisire per la lingua e per lo spirito della nazione ciò ch’essa non possiede o possiede
altrimenti, si deve esigere anzitutto semplice fedeltà. Tale fedeltà dev’essere indirizzata al vero carattere
dell’originale che non dev’essere tradito per le accidentalità. Ogni buona traduzione deve prendere le mosse da un
semplice e non pretenzioso amore dell’originale, dallo studio che ne segue e deve in essi ricongiungersi.
La traduzione ha raggiunto i suoi alti fini se, invece della stranezza, fa sentire l’estraneo.
Sono stati escogitati due modi di fare conoscenza delle opere in lingua straniera, nei quali vengono drasticamente
eliminate o prudentemente aggirate alcune difficoltà. Tali modi sono la parafrasi e il rifacimento: la parafrasi ritiene
che, se nella mia lingua non trovo una parola corrispondente a quella della lingua straniera, posso pur sempre
tentare, per quanto possibile, di renderne il valore mediante l’aggiunta di specificazioni limitative ed estensive,
sacrificando l’impressione, la fluidità. Il rifacimento, invece, riconosce che è impossibile, di un’opera d’arte letteraria,
produrre in un’altra lingua una copia, le cui singole parti corrispondano esattamente a quelle dell’originale, per cui,
di fronte alla diversità delle lingue, si rassegna a elaborare un’imitazione i cui effetti, per quanto possibile, sarebbero
simili a quelli dell’originale. La parafrasi viene praticata nel campo delle scienze e il rifacimento in quello delle belle
arti.
Quali vie deve allora percorrere il vero traduttore per aiutare il lettore, senza tuttavia costringerlo a uscire dalla
cerchia della lingua materna per poter capire e gustare l’autore straniero nel modo più preciso e completo possibile?
Secondo Schleiermacher, le vie sono solo due: o il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove
incontro il lettore; o lascia in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore. Imboccata una via, la si deve percorrere
fino in fondo.
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MISERIA E SPLENDORE DELLA TRADUZIONE – José Ortega y Gasset
La miseria
Secondo Ortega y Gasset, tutto ciò che l’uomo fa è utopistico e la traduzione lo è di conseguenza. Il destino
dell’uomo è essere malinconico e la ragione sta nel fatto che tutte le attività umane sono irrealizzabili. È un’utopia
credere che due vocaboli appartenenti a due lingue diverse, e che il dizionario ci indica come traduzione l’uno
dell’altro, facciano riferimento esattamente agli stessi oggetti. È naturale che le lingue, formatesi in paesaggi
differenti e in base a esperienze diverse, siano incongruenti. Tale incongruenza ricade anche su quasi tutti i loro
riflessi intellettuali ed emotivi.
I due utopismi
Il cattivo utopista, come il buon utopista, considera auspicabile correggere la realtà naturale che isola gli uomini nel
recinto delle lingue diverse, impedendo ogni comunicazione. Il cattivo utopista pensa che questo, poiché auspicabile,
è possibile, e da qui a credere che sia facile il passo è breve. Convinto di ciò, non starà troppo a pensare al problema
di come bisogna tradurre, ma comincerà il lavoro senza indugi. Ecco perché quasi tutte le traduzioni fatte finora sono
cattive.
Il buon utopista al contrario pensa che, sebbene sia auspicabile liberare gli uomini dalla distanza imposta loro dalle
lingue, è improbabile che ci si possa riuscire; e quindi ci si deve limitare a un risultato approssimativo. Questa
approssimazione può essere minore o maggiore e appare, così, davanti ai nostri sforzi un agire senza limiti in cui è
sempre possibile un miglioramento, il superamento, il perfezionamento. Tutta l’esistenza umana consiste in attività
di questo tipo.
La caratteristica essenziale del buon utopista è quella di non farsi illusioni e si impegna a essere realista. È il miglior
modo per tentare di modificare la natura.
Allora, il parlare non è soltanto dire, manifestare, ma allo stesso tempo è inesorabilmente rinunciare a dire, tacere.
La lingua è fatta soprattutto di silenzi. Da questo deriva l’enorme difficoltà della traduzione: essa consiste nel dire in
una lingua proprio ciò che questa lingua tende a tacere.
Ogni lingua impone un determinato schema di categorie, di percorsi mentali; gli schemi che hanno formato ciascuna
lingua non sono più attuali, li usiamo convenzionalmente; il nostro dire è ormai limitato a dei modi di parlare. Cosa
c’è di vivo o di morto nelle lingue che parliamo (quali categorie grammaticali caratterizzano ancora il nostro pensiero
e quali non sono più attuali)? Quando parliamo siamo umili ostaggi del passato; per questo le lingue sono
anacronistiche.
Lo splendore
Il punto decisivo rimane quello di cercare nel tradurre di allontanarci dalla nostra lingua per andare verso le altre e
non il contrario. Ai lettori di un determinato paese non piace una traduzione fatta nello stile della propria lingua,
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perché in questo senso ne hanno a sufficienza con la produzione degli autori indigeni. Quello che apprezzano è il
contrario: il portare all’estremo limite dell’intelligibile le possibilità della loro lingua affinché traspaiano in essa i modi
di parlare propri dell’autore tradotto. Così, il lettore si trova senza sforzo a fare gesti mentali che sono quelli
stranieri. Interrompe in questo modo per un po’ la fatica di essere sé stesso e si diverte a essere almeno per un
momento un’altra persona.
Il compito del traduttore è quello di redimere nella propria lingua la lingua pura che è rinchiusa in un’altra, o se è
prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione poetica, allargando i confini della propria lingua.
L’errore fondamentale del traduttore è di attenersi allo stadio contingente della propria lingua in luogo di lasciarla
smuovere dalla lingua straniera.
Le traduzioni si rivelano intraducibili per l’eccessiva fugacità con cui il significato aderisce ad esse.