Sei sulla pagina 1di 426

HERMES

COLLANA DI STUDI COMPARATISTICI E INTERCULTURALI


Diretta da Gianni PUGLISI
Intitolare una nuova Collana di studi comparatistici e intercultura-
li a HERMES significa non solo rendere omaggio ad un personaggio
tra i più affascinanti, ancorché controverso, della mitologia greca, ma
anche rilanciare una metafora letteraria, che, recuperando tutta la sto-
ria mitologica sulla discussa personalità della divinità greca, metta in
risalto il significato e il senso della prospettiva storico-critica dei
nuovi indirizzi di ricerca della comparatistica.

Dio e semidio, Hermes ha rappresentato il potere reale della tra-


sformazione, della metamorfosi. Messaggero degli dei e dio dei ladri
ha simboleggiato, senza contraddizione reale, tanto la verità, quanto
la menzogna. È la stessa personalità di Hermes ad ergerlo a simbolo
dell’equivoco, dell’oscurità disvelata, dell’ambiguità continua.
Umberto Eco ha scritto: «Nel mito di Hermes vengono negati i prin-
cipi di identità, di non contraddizione e di terzo escluso, le catene
causali si riavvolgono su se stesse a spirale, il dopo precede il prima,
il dio non conosce confini spaziali e può essere, in forme diverse, in
luoghi diversi nello stesso momento».

Una collana di studi e di ricerche, la quale punta alla registrazione


e alla diffusione di una disciplina – a lungo trascurata dalla cultura
italiana, e adesso invece al centro di vivo interesse – come la compa-
ratistica, non potrebbe ispirarsi e aspirare a migliore patrocinio di
quello di Hermes, il “messaggero degli dei”, vale a dire, colui che è
stato il più brillante mentore del potere effettivo che è in grado di
sprigionare l’attività comunicativa e trasformativa esercitata con
intelligenza e abilità, in contrasto con l’immobilismo rigido della con-
templazione metafisica.

Dalla traduttologia alla comunicazione interculturale, dall’analisi


critica dei testi letterari alla comparazione strutturale dei linguaggi
artistici più disparati, dalla ricerca semiotica alle nuove esperienze
linguistiche della multimedialità, dallo studio dei generi letterari nelle
diverse regioni del mondo all’indagine socio-antropologica delle
genesi e dei processi trasformazionali delle rispettive culture, dalla
storia delle idee alle teorie della letteratura e della critica letteraria,
fino all’estetica computazionale: Hermes, oggi, è questo, perché que-
sta è oggi la comparatistica, oltre ogni metafora mitologica e ogni
dogmatismo nostalgico sia accademico che ideologico.
Lawrence Venuti

L’INVISIBILITÀ
DEL TRADUTTORE
Una storia della traduzione

ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO

Prefazione all’edizione italiana di Lawrence Venuti I


Introduzione di Gianni Puglisi 7
Prefazione e ringraziamenti 15

Capitolo primo: INVISIBILITÀ 21


Capitolo secondo: CANONE 73
Capitolo terzo: NAZIONE 141
Capitolo quarto: DISSIDENZA 201
Capitolo quinto: MARGINE 245
Capitolo sesto: SIMPATICO 347
Capitolo settimo: RICHIAMO ALL’AZIONE 387

BIBLIOGRAFIA 395

INDICE DEI NOMI 421

5
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

Una traduzione italiana del mio libro decisamente inglese è per


me particolarmente ironica. Dopo aver lavorato come traduttore di
letteratura italiana per circa vent’anni, lasciando che i miei interes-
si e progetti fossero diretti dalle scene di lingua inglese, mi trovo
ora di fronte al panorama di una mia traduzione in italiano, una
ricezione nella lingua di quella cultura che ritengo tanto irresistibi-
le da tradurre. Nuovi lettori portano nuove letture; la traduzione
mette in gioco differenza, deviazione, decostruzione.
Si potrebbe obiettare che sono già stato tradotto in italiano a
causa del mio lungo e perpetuo coinvolgimento con la scrittura ita-
liana. Ma ho sempre vissuto questi incontri come disgiuntivi, una
separazione attrattiva, una proliferazione di felici differenze, in
definitiva: come imbarazzanti. Tali incontri rivelano inevitabil-
mente l’ibridismo e la disuguaglianza della conoscenza intercultu-
rale, che non è mai una semplice e reciproca comprensione fra
simili, ma è sempre attraversata sia da difetti della comunicazione
che da risultati estremi nell’altra lingua e cultura. Perché, o me-
glio, come potrei evitare tutto questo dal momento che sono già
naturalizzato, italoamericano (ma non veramente tradotto in italia-
no, avendo l’inglese come lingua madre)?
Il modo migliore per presentare questa traduzione ai lettori ita-
liani potrebbe essere quello di focalizzare i punti di differenza, la
divergente ricezione che hanno incontrato i concetti chiave. In-
dividuerò quelli che, in altre situazioni, hanno sollevato un dibat-
tito.
La maggiore attenzione è rivolta ai concetti di domestication
(“addomesticamento”) e foreignization (“estraniamento”), a quan-
to la traduzione assimili un testo straniero alla lingua e alla cultura
in cui viene tradotto e a quanto la traduzione segnali piuttosto le

I
differenze di quello stesso testo. “Addomesticamento” ed “estra-
niamento” sono concetti euristici, tratti dalla storia della teoria e
pratica della ricezione, destinati a promuovere la riflessione e la
ricerca. Essi possiedono una variabilità contingente tale che posso-
no essere definiti solo all’interno della specifica situazione cultura-
le in cui la traduzione viene realizzata e in cui produce i suoi effet-
ti. Questa contingenza, il livello mutevole di specificità (ricerca e
analisi) richiesti per descrivere un testo tradotto come addomesti-
cante o estraniante, obbliga tali concetti a subire un perpetuo slitta-
mento di significato che impedisce loro di divenire una vera oppo-
sizione statica o perfino binaria, come corpo/anima. La loro varia-
bilità significa che non possono essere collegati in maniera irrevo-
cabile a particolari strategie discorsive della traduzione – vale a
dire scorrevolezza vs. resistenza, trasparenza vs. opacità autoriflet-
tente – a eccezione di specifiche situazioni culturali in specifici
momenti storici. Le genealogie della traduzione in lingua inglese
che presento nel libro definiscono e utilizzano tali concetti con
tutta la specificità che la pagina consente.
Questa ricerca culturale e storica è anche valutativa. Ogni prati-
ca culturale crea valori, inclusi gli studi sulla traduzione, come
anche le teorie e le pratiche traduttive, sia tecniche che letterarie,
compresa la traduzione simultanea dei congressi e dei tribunali.
Questa dimensione generativa di valori impone alla traduzione una
riflessione etica e un programma politico, come ho appreso dai
teorici che mi hanno affascinato: Schleiermacher, Goethe, Ezra
Pound, Antoine Berman. Ho sottoposto il loro lavoro a diverse
applicazioni, alcune meritevoli di essere proposte qui nel tentativo
di distinguere il loro impatto sul mio lavoro stesso.
L’ombra di Schleiermacher ha portato alcuni lettori a identificare
la traduzione “estraniante” con quella letterale, con il calco, il tradu-
zionese, la conservazione o il trasferimento delle caratteristiche lin-
guistiche e culturali del testo straniero. Schleiermacher sostenne in
realtà queste pratiche, sebbene siano state diffuse solo in seguito,
tramite il concetto di “equivalenza formale” (1964) di Eugene Nida.
Ma c’è molto di più in gioco. Goethe e Pound mi hanno insegnato
che il traduttore può creare una differenza solo all’interno della lin-
gua e della cultura in cui traduce, e mai semplicemente nei termini
del testo e della cultura stranieri, dei suoi temi e delle sue posizioni.
A partire da qui ho definito l’estraniamento come l’utilizzo, nella

II
traduzione, di materiali linguistici e culturali non familiari o margi-
nali. Questi materiali possono essere estranei fin dall’origine – come
Berman ha dimostrato in modo convincente -, una stretta aderenza
alle strutture discorsive del testo straniero (si veda, per esempio,
Berman 1985). Ma nella maggior parte dei casi la differenza intro-
dotta dalla traduzione estraniante consiste in materiali familiari.
Questi possono essere linguistici: deviazioni dall’idioma standard
corrente (mediante usi colloquiali, ad esempio, o arcaismi). Possono
essere letterari: deviazioni dagli stili, dai generi e dai discorsi gene-
ralmente canonici o dominanti nel linguaggio in cui si traduce.
Queste costituiscono le maggiori forme di estraniamento in tradutto-
ri quali Pound, Celia e Louis Zukofsky, Paul Blackburn. Si possono
trovare esempi paragonabili nelle traduzioni inglesi di Martin
Heidegger e Banana Yoshimoto (si veda il mio lavoro più recente,
The scandals of Translation, London-New York 1998).
Questi sono esempi di traduzioni estranianti realizzate mediante
una particolare strategia traduttiva; possono essere ottenute anche
attraverso la semplice scelta di un testo straniero da tradurre, una
scelta che devii dal canone corrente della letteratura straniera in
traduzione. La scelta di Tarchetti di tradurre il gotico inglese in
Italia, là dove era stata tradotta perlopiù narrativa realistica e dove
il realismo dominava la tradizione narrativa italiana, è un esempio
di scelta estraniante. La strategia della traduzione di Tarchetti era
in realtà scorrevole e addomesticante, scritta nell’idioma standard
toscano, e il risultato fu che la sua traduzione venne scambiata per
un testo scritto originariamente in italiano. La decisione di
Blackburn di tradurre la narrativa sperimentale di Cortázar era
estraniante allo stesso modo per gli anni Sessanta, dal momento
che il realismo aveva dominato a lungo la tradizione narrativa
americana. La scelta di tradurre Yoshimoto è altrettanto estraniante
rispetto al canone del romanzo moderno giapponese tradotto in
inglese (Tanizaki, Kawabata, Mishima).
Questa linea di pensiero presuppone che ogni traduzione sia
addomesticante, nel senso che il testo straniero è sempre riscritto in
accordo all’intelligibilità e agli interessi familiari. Ma c’è sempre la
selezione e la sistemazione dei materiali familiari. L’estraneità nella
traduzione estraniante è segnalata più decisamente dall’associazio-
ne del familiare e del meno familiare sulle scene domestiche.
“Meno familiare” non deve essere ridotto a “elitario”; fa riferimen-

III
to unicamente a una minoranza definita in relazione a linguaggi,
formazioni culturali e gruppi sociali maggiori. E certamente “meno
familiare” non deve essere ridotto a “meno intelligibile”, “meno
leggibile”, “meno piacevole esteticamente”. Al contrario, la tradu-
zione estraniante tende ad essere praticata dai traduttori più inclini
alla scrittura, dai traduttori che sono poeti di diritto. Le traduzioni
estranianti in inglese hanno infatti avuto dei riconoscimenti: la ver-
sione dei Fratelli Karamazov di Richard Pevear – Larisa
Volokhonsky ha vinto nel 1990 il PEN American Center/Book-of
the Month Club Translation Award, inaugurando una nuova fase
nella traduzione inglese di Dostoevski tramite la maggiore aderenza
al russo e l’evocazione del testo polifonico di Michail Bachtin.
L’invisibilità del traduttore è destinato a un pubblico immagi-
nario composto non solo da esperti di traduzione e generalmente
da lettori di traduzioni, ma anche da traduttori. Il mio fine è quello
di espandere la sfera di possibilità stilistiche e discorsive scelte
attualmente dai traduttori letterari in lingua inglese, e di richiamare
l’attenzione su alcune traduzioni (in inglese e in altre lingue) in cui
l’espansione fosse già evidente, esempi straordinari in cui i tradut-
tori guardarono alle loro tradizioni letterarie come a un repertorio
di pratiche utili per accogliere altre lingue e altre culture. Le aspi-
razioni che hanno sempre motivato le mie riflessioni sulla tradu-
zione sono necessariamente utopiche quanto ideologiche: cambia-
re non solo le pratiche della traduzione, ma anche i percorsi di let-
tura, aumentare la consapevolezza delle differenze culturali incon-
trate nella traduzione difendendo la scompaginazione creativa dei
materiali culturali domestici.
Queste idee non sono nuove alla cultura italiana, certamente
non nel XX secolo, quando traduttori quali Montale, Pavese,
Vittorini, Pivano, Wilcock, Tabucchi e Capriolo hanno stabilito
fertili legami con numerosi autori stranieri, movimenti e storie. Ma
le idee cambiano in maniera significativa quando attraversano i
confini, ispirando riformulazioni inventive e applicazioni che si
adattano alla situazione locale. Quale vita futura potrà avere questo
libro in italiano? Questa domanda rimane per me l’interrogativo
nello stesso tempo più intrigante e più profondo.
Lawrence Venuti
New York City
Luglio 1999

IV
INTRODUZIONE

«Il traduttore è il maestro segreto della differenza delle lingue»:


con questa fulminate definizione Maurice Blanchot scolpisce in
modo lapidario, ruolo e destino di un’attività intellettuale, che,
invece, ha avuto e continua ad avere vita difficile e contrastata –
talora anche controversa – negli statuti culturali e nelle tradizioni
normative dei diversi Paesi del mondo e in particolare – cosa sin-
golare – nel sistema culturale e giuridico anglosassone.
L’industria culturale, in particolare europea, ha dato al mercato
della traduzione un impulso notevole, anche se spesso non ha
saputo distinguere con acribia – ma le interessava davvero farlo? –
il momento commerciale dal momento culturale. A tal fine va subi-
to messa in evidenza la significativa differenza che c’è tra tradu-
zione scientifica e traduzione letteraria e contestualmente va subito
segnalata l’articolazione specialistica dell’interpretariato e della
traduzione simultanea, soprattutto a fine di businness, che oggi
sempre più caratterizza la domanda del mercato, dell’impresa e
dell’industria nel settore delle lingue straniere.
Lingua-strumento versus lingua-conoscenza: si potrebbe riassu-
mere così il senso del dibattito contemporaneo intorno alla neces-
sità di apprendimento e di diffusione della cultura linguistica stra-
niera nei diversi Paesi del mondo. La prima si caratterizza in chia-
ve meramente strumentale, senza alcun riferimento al dato cultura-
le di base e di contesto e si rivolge ad una funzione operativa di
scambio e di comunicazione “usa e getta”: essa è spesso legata ad
una specializzazione molto mirata (si pensi alla medicina, al com-
mercio e ai mercati finanziari, alla ricerca tecnologica, allo scam-
bio d’informazione nel settore giudiziario e della sicurezza) anche
se non esclude un supporto di base più ampio e più solido, però
non lo richiede e spesso non lo auspica.

7
Ritorna il tema blanchotiano della differenza. Come ricorda
Venuti, con il quale sicuramente condivido una profonda convin-
zione blanchotiana, è stato Maurice Blanchot a capovolgere il rap-
porto gerarchico originale/traduzione: rompere la monumentalità
dell’opera, senza infrangerne l’unità del messaggio, è possibile
solo nella misura in cui la versione dell’opera in un altro codice, in
un’altra lingua – ma vale per qualsiasi altro codice, seppur con le
dovute attenzioni – non è una copia, ma un’immagine, è l’“altro”
da essa, che ne mette in risalto l’identità, attraverso l’evidenza
dell’ alterità derivata. L’altro può così catturare, cogliere, attraver-
so la differenza, anche quell’autentico che sta nell’originale e che
la sua monumentalità, fissandone i caratteri, finirebbe con il can-
cellare o anche solo con l’occultare, forse per sempre. «L’opera –
ha scritto in maniera epigrafica Blanchot – è Orfeo, ma è anche la
potenza avversa che la dilania e che fa a pezzi Orfeo». Solo se la
lacera la traduzione riesce a ri-crearla. È questa la nemesi di
Venuti. E anche la nostra.

Roma, marzo 1999 Gianni Puglisi

13
sembra ‘naturale’, vale a dire non tradotto». L’opera, cioè, in quel-
la prospettiva normativa e in quella cultura, è tale se rimane del-
l’autore originario, il traduttore è solo uno “strumento” linguistico
e culturale “anonimo”, che consente ad una certa creazione lettera-
ria – o anche tecnico-scientifica, anche se la questione in tal caso è
leggermente diversa – la penetrazione e la diffusione in un sistema
culturale altro rispetto a quello d’origine, e basta. Naturalmente
deve essere messa in risalto la circostanza che il non tradurre quasi
nulla dalle altre lingue e culture è una peculiarità del mondo
angloamericano, forse per una presunzione di egemonia linguistica
e di sostanziale imperialismo culturale e, in qualche modo, edito-
riale.
È questa una prospettiva assolutamente inaccettabile, come
spiega lo stesso Venuti, il quale sostiene e difende a spada tratta la
visibilità del traduttore, non già nel senso, o non solo nel senso
giuridico-professionale (nei Paesi anglofoni irrinunciabilmente
necessario), bensì, nel senso ermeneutico-critico. La querelle sulla
traducibilità o non traducibilità dell’opera d’arte, in verità, ha
molto impegnato il dibattito critico ed estetico dall’Ottocento ai
giorni nostri, per non essere in questo momento affiorata alla
mente di ogni studioso di estetica o di ermeneutica che si rispetti;
qui la questione è però ancora un’altra, va anche oltre e si pone
tutta sul versante della traducibilità visibile dell’opera letteraria,
alla quale Venuti crede fermamente e che ha scelto di portare avan-
ti in modo paradossale, ma forte.
Vorrei dire, anzi, che egli va oltre e, con grande finezza cultura-
le, chiude il suo libro ribaltando completamente la tesi con la quale
lo inizia, auspicando un atteggiamento maggiormente sospettoso
nei confronti della traduzione, di quello, anch’esso formalistica-
mente sospettoso, della cultura anglosassone d’impronta vetero-
vittoriana: «L’atteggiamento sospettoso che incoraggio – afferma a
chiusura del libro – presuppone una fede utopistica nel potere
della traduzione di creare una differenza, non solo in patria con la
comparsa di nuove forme culturali, ma anche all’estero, con la
comparsa di nuove relazioni culturali. Riconoscere l’invisibilità
del traduttore – naturalmente inteso in quest’ultima maniera – è
allo stesso tempo criticare la situazione corrente e sperare in un
futuro più ospitale per quelle differenze che il traduttore deve
mediare».

12
La seconda, invece, la lingua-conoscenza, si fonda su una strut-
tura morfologico-genetica radicalmente diversa, tanto per il profilo
formativo, quanto per il profilo professionale. È la lingua dei lette-
rati, è la lingua dei consessi scientifici internazionali, è la lingua,
in buona sostanza, anche delle grandi conventions culturali e
scientifiche, dove l’indeterminatezza dei fini immediati è fonte e
motivo di una maggiore e migliore padronanza degli strumenti di
comunicazione. È la lingua dei traduttori e della comunicazione
letteraria, nell’accezione anglosassone del termine literature, cioè
riferita in modo lato non solo alla produzione strettamente di opere
di letteratura, ma anche alla produzione di opere di filosofia, di
economia, di psicologia, di sociologia o di diritto, in una parola, di
humanities.
Se la lingua-strumento non presenta molti problemi e si offre
talora anche con facilità all’apprendimento rapido, la lingua-cono-
scenza apre, a monte e a valle, un ricco e profondo dibattito sia sui
percorsi formativi per il suo apprendimento, sia sui fini e sulle
possibili utilizzazioni che quanti ad essa si dedicano ne possono
fare.
È all’interno di quest’ultima prospettiva che si colloca la que-
stione delle traduzioni letterarie e di quella scienza, che a tale atti-
vità intellettuale si collega, che è la traduttologia. La teoria della
traduzione è una disciplina – o solo un’area tematica? – relativa-
mente giovane nel panorama culturale e accademico italiano,
anche se, tanto nella dimensione teorica, quanto nella attualità del-
l’esperienza pratica, è stata da lungo tempo trasversalmente fre-
quentata da filosofi, letterati, giuristi ed esperti di scienze bibliche
e religiose. Eppure il suo statuto accademico è stato definito solo
molto di recente – la disciplina Teorie e storia della traduzione è
stata inserita da poco nel settore scientifico-disciplinare delle
Letterature comparate – e il suo profilo professionale è scarsamen-
te definito e vagamente tipizzato nel sistema delle attività libero-
professionali del nostro Paese, anche se da anni esistono strutture
formative altamente qualificate a livello universitario – sia all’in-
terno di Università pubbliche, sia all’interno di Scuole Superiori,
la più antica delle quali è la Scuola Superiore Interpreti e
Traduttori di Milano, fondata da Silvio Baridon e Carlo Bo – fina-
lizzate all’interpretariato e alla traduzione. L’aspetto più significa-
tivo è comunque quello derivante dall’attività libera che studiosi o

8
esperti svolgono per conto delle case editrici, per quanto riguarda
in particolare i settori delle scienze umane e della letteratura, e dei
sistemi di comunicazione interni alle grandi aziende pubbliche e
private, collegati con i mercati e la competizione internazionale.
La ricerca scientifica nel campo degli studi di traduttologia è
tanto più ricca, quanto più sono stati e sono stimolati e attenti gli
studiosi delle diverse aree disciplinari che trasversalmente si inte-
ressano a questi temi e a questi problemi, pur senza un coordina-
mento sistematico di progetti o iniziative del settore; negli ultimi
anni l’interesse scientifico e gli studi finalizzati alla traduzione e
alla traduttologia sono in crescita e i collegamenti internazionali
della ricerca vanno stimolando il sorgere di iniziative e di centri
più mirati e più propri.
In questo panorama il libro di Lawrence Venuti giunge con raro
tempismo, sia per la celerità con la quale viene presentato alla cul-
tura italiana, sia per l’impianto editoriale e teleologico che lo
sostiene. Lo studioso americano, infatti, prende le mosse dalla
realtà e dalla situazione dell’attività di traduzione e di traduttore
nel mondo e nel sistema culturale ed editoriale anglosassone, per
raggiungere due obiettivi: il primo è quello di fare una storia, sicu-
ramente atipica, della traduzione e della traduttologia, il secondo è
quello di aprire un dibattito culturale – non oserei chiamarlo tout
court teorico, secondo l’accezione europea – sul senso e sul signi-
ficato della traduzione e della relativa attività del traduttore.
La singolarità più marcata è data dalla contraddittorietà som-
mersa tra il fascino che sprigiona il titolo dell’opera L’invisibilità
del traduttore e lo scopo effettivo che essa vuole raggiungere:«Il
progetto di questo libro – si legge testualmente – è quello di com-
battere l’invisibilità del traduttore mediante la storia della tradu-
zione in lingua inglese contemporanea e, allo stesso tempo, in
opposizione a essa». In verità, il libro ha due obiettivi complemen-
tari, anche se appaiono fortemente divaricati. Il primo obiettivo,
che resta, a mio avviso, quello principale, anche se il sottotitolo
dell’opera (Per una storia della traduzione) farebbe pensare diver-
samente – è quello di aprire una discussione sulla traduzione, in
quanto prospettiva ermeneutico-culturale di riproposizione di un
progetto di diffusione e globalizzazione dei saperi, e quindi delle
diverse loro forme espressive, in un mondo in cui la dimensione
interculturale e quella transculturale sono diventate la griglia esi-

9
stenziale, nella quale ogni riflessione che vuole essere davvero
incisiva e non-provinciale si deve collocare. «Ogni passo del pro-
cesso di traduzione – sostiene Venuti -, dalla selezione dei testi
stranieri alla realizzazione di strategie di traduzione, alla curatela,
alla revisione e alla lettura delle traduzioni, è mediato dai diversi
valori culturali, che circolano nella lingua d’arrivo…[Il traduttore]
può sottomettersi od opporre resistenza ai valori dominanti della
lingua d’arrivo, […] la sottomissione presuppone una strategia di
assimilazione all’opera nel processo di traduzione, individuando
l’identico in un altro culturale […] la resistenza presuppone un’i-
deologia di autonomia, individuando l’estraneo in un altro cultura-
le, perseguendo la differenza culturale …».
Il secondo obiettivo dello studio di Venuti è proprio un “abboz-
zo” di storia della traduzione da un’angolazione molto particolare
e specifica: Venuti, cioè, mette in discussione la stessa disponibi-
lità culturale del mondo anglosassone ad accettare un’impostazio-
ne strategica della diffusione della scienza, della cultura e quanto
ad esse collegato, che discenda da una politica culturale ed edito-
riale delle traduzioni. Ciò ha portato, ad avviso dell’Autore, ad una
discriminazione sia del traduttore in quanto tale, sia della “profes-
sione” del traduttore nella cultura angloamericana, al punto da dare
come uno degli obiettivi del libro quello di «intervenire contro il
ruolo e l’attività del traduttore nella cultura angloamericana con-
temporanea offrendo una serie di genealogie che tracciano la storia
del presente»; e aggiunge, quasi che temesse di essere stato poco
chiaro:«Il fine è di rendere il traduttore più visibile in modo che
resista e cambi le condizioni in base alle quali la traduzione viene
teorizzata e praticata oggigiorno, specialmente nei paesi di lingua
inglese». Una storia della traduzione, dunque, mirata e, direi, stru-
mentale, che serve molto di più per aprire e combattere una batta-
glia culturale oltreoceano oggi, che non per dare al lettore, in qual-
che modo estraneo a questa prospettiva, un quadro esauriente e
diacronico dell’evoluzione epistemologica e interculturale di que-
sta scienza.
Naturalmente questo tipo di problemi non è né estraneo, né
ignoto a Venuti, il quale, anzi se ne fa pure, in qualche modo, cari-
co, quando afferma che «gli effetti violenti della traduzione si sen-
tono sia in patria che all’estero. Da un lato – continua -, la tradu-
zione detiene un potere enorme nella costruzione di identità nazio-

10
nali per le culture straniere, e quindi compare potenzialmente nella
discriminazione etnica, nei confronti geopolitici, nel colonialismo,
nel terrorismo, nelle guerre. Dall’altro lato, la traduzione include il
testo straniero nella conservazione o revisione dei canoni letterari
della cultura d’arrivo, inserendo nella poesia e nella narrativa, per
esempio, vari discorsi poetici e narrativi, che sono in competizione
per il predominio culturale nella lingua d’arrivo». Ma tant’è, e pur
con tanta e tale coscienza, egli ha portato avanti il suo discorso con
rigore e inflessibilità, secondo i suoi parametri, fondamentalmente
rivolti ad un auspicato revisionismo della impostazione angloame-
ricana della cultura delle traduzioni. Gli stessi personaggi che egli
tocca nella sua singolare carrellata storica sono legati ciascuno ad
una differente questione teorica, che lo interessa, da Dryden a
Nott, da Francis Newman a Erza Pound, da Zukofsky a Blackburn,
da Goethe a Blanchot, fino ai due italiani di cui si occupa Iginio
Ugo Tarchetti e Milo De Angelis, ciascuno di loro, e degli altri
evocati, “funzionale” ad un’idea, ad una provocazione, ad una sug-
gestione.
La suggestione più forte e più interessante – anche perché rie-
sce ad essere la provocazione più stimolante – è la questione del-
l’invisibilità del traduttore, che, fra l’altro, dà il titolo a tutta l’ope-
ra. L’invisibilità del traduttore, infatti, che nella tradizione cultura-
le europea potrebbe essere intesa come una qualità dell’opera,
un’interpretazione autentica di essa nella cultura d’arrivo, una let-
tura delicata e insieme profonda del testo originale da parte di un
mediatore linguistico esperto e sensibile, nella lezione venutiana
diventa invece una pesante ipoteca culturale e, per alcuni aspetti
strettamente legati al mercato e al sistema giuridico angloamerica-
no, professionale.
L’invisibilità, nel sistema angloamericano equivale, infatti, alla
negazione dell’attività creativa ed ermeneutica e anche alla nega-
zione del ruolo giuridico e professionale del traduttore: «Un testo
tradotto, che sia prosa o poesia, […] viene giudicato accettabile
dalla maggior parte degli editori, dei recensori e dei lettori […qua-
lora] abbia l’apparenza di non essere, di fatto, una traduzione,
bensì ‘l’originale’.[…] Più la traduzione è scorrevole, più il tradut-
tore è invisibile», in altri termini, spiega Venuti in America, in
Gran Bretagna, e in genere nei Paesi anglofoni, «il traduttore lavo-
ra per rendere il proprio lavoro ‘invisibile’ […] il testo tradotto

11
PREFAZIONE E RINGRAZIAMENTI

L’invisibilità del traduttore nasce dal mio lavoro, a partire dagli


ultimi anni Settanta, di traduttore professionista. Tutti gli elementi
autobiografici sono tuttavia inclusi all’interno della storia effettiva
della traduzione in lingua inglese dal XVII secolo al presente. Il
mio progetto è quello di rintracciare le origini della situazione in
cui lavora oggi ogni traduttore anglofono, sebbene – da un opposto
punto di vista – con il fine specifico di localizzare le alternative e
di cambiare tale situazione. Le narrazioni storiche qui presentate
attraversano interi secoli e letterature nazionali ma, per quanto
basate su ricerche dettagliate, sono tanto necessariamente selettive
nell’articolazione di momenti e controversie particolari, quanto
apertamente polemiche nello studio del passato, al fine di mettere
in questione la posizione marginale della traduzione all’interno
della cultura angloamericana contemporanea. Ho pensato al pub-
blico di lettori di questo libro come a un pubblico diversificato,
che includa teorici della traduzione, teorici della letteratura e criti-
ci, specialisti di determinati periodi storici di diverse letterature (in
lingua inglese e in di altre lingue), recensori di traduzioni su rivi-
ste, editori, fondazioni private e associazioni statali. Ma più di
tutti, vorrei parlare ai traduttori e ai lettori di traduzioni, professio-
nisti o meno, concentrando la loro attenzione sui diversi modi in
cui le traduzioni vengono scritte e lette, e stimolandoli a pensarne
di nuovi.
Un progetto dominato da un’intenzione e un fine di tale tipo
dovrà necessariamente fare assegnamento sulla collaborazione di
molte persone, esperti di differenti ambiti letterari e critici. Il com-
pilare qui la lista di quelli che nei numerosi anni precedenti hanno
letto, discusso, criticato o altrimenti incoraggiato il mio lavoro rap-

15
presenta un piacere particolare che mi fa capire quanto, ancora una
volta, sia stato fortunato: Antoine Berman, Charles Bernstein,
Shelly Brivic, Ann Caesar, Steve Cole, Tim Corrigan, Pellegrino
D’Acierno, Guy Davenport, Deirdre David, Milo De Angelis,
Rachel Blau DuPlessis, George Economou, Jonathan Galassi,
Dana Gioia, Barbara Harlow, Peter Hitchcock, Susan Howe,
Suzanne Jill Levine, Philip Lewis, Harry Mathews, Jeremy Maule,
Sally Mitchell, Daniel O’Hara, Toby Olson, Douglas Robinson,
Stephen Sartarelli, Richard Sieburth, Alan Singer, Niger Smith,
Susan Stewart, Robert Storey, Evelyn Tribble, William Van Wert,
Justin Vitiello, William Weaver, Sue Wells e John Zilcosky. Altre
persone mi hanno aiutato nel reperire informazioni utili e talvolta
essenziali: Raymond Bentman, Sara Goldin Blackburn, Robert E.
Brown, Emile Capouya, Cid Corman, Rob Fitterman, Peter
Glassgold, Robert Kelly, Alfred MacAdam, Julie Scott Meisami,
M.L. Rosenthal, Susanne Stak, Suzanna Tamminen, Peter Tasch,
Maurice Valency ed Eliot Weinberger. Naturalmente nessuno di
loro può essere ritenuto responsabile per il modo in cui ho utilizza-
to infine i loro contributi.
Voglio inoltre ringraziare, per l’opportunità fornitami di condi-
videre questo lavoro con un pubblico ogni volta diverso, negli
Stati Uniti d’America e altrove, Carrie Asman, Joanna Bankier,
Susan Bassnett, Cedric Brown, Craig Eisendrath, Ed Foster,
Richard Alan Francis, Seth Frechie e Andrew Mossin, Theo
Hermans, Paul Hernadi, Robert Holub, Sydney Lévy, Gregory
Lucente, Carol Maier, Marie-José Minassian, Anu Needham,
Yopie Prins, Marilyn Gaddis Rose, Sherry Simon, William Tropia
e Immanuel Wallerstein. Sono molto riconoscente agli addetti delle
biblioteche in cui si è svolta gran parte delle ricerche: British
Library; Archive for New Poetry, Mandeville Department of
Special Collections, University of California, San Diego; Rare
Books and Manuscripts, Butler Library, Columbia University;
Library Company, Philadelphia; Nottingham City Archive; Inter-
Library Loan Department, Paley Library, Temple University, e la
Collection of American Literature, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library, Yale University. Sono particolarmente grato a
Bett Miller, dell’Archive for New Poetry, che con un lavoro straor-
dinario mi ha aiutato nel reperire di copie di numerosi documenti
della Paul Blackburn Collection, e ad Adrian Henstock del

16
Nottingham City Archive, che mi ha permesso di consultare l’an-
tologia di Lucy Hutchinson. Philip Cronenwett, responsabile delle
Special Collections presso la Dartmouth College Library, ha gen-
tilmente risposto alle mie domande riguardo le carte di Ramon
Guthrie.
Numerose persone e istituzioni mi hanno accordato il permesso
di trarre citazioni dai seguenti materiali protetti dal diritto d’auto-
re:
da Mary Barnard, Sappho: A New Translation, © 1958 The
Regents of the University of California, nuovo © 1984 Mary
Barnard; e da Assault on Mount Helicon: A Literary Memoir, ©
1984 Mary Barnard;
dalla corrispondenza, da traduzioni e scritti non romanzeschi di
Paul Blackburn, copyright © 1995 Joan Miller-Cohn. Da The col-
lected Poems of Paul Blackburn, © 1985 Joan Blackburn.
Ristampati su concessione di Persea Books, Inc.;
dagli scritti degli impiegati della Macmillan: la lettera del cura-
tore Emile Capouya a John Ciardi, la lettera di Capouya a Ramon
Guthrie, il resoconto di Guthrie sull’Anthology of Troubadour
Poetry di Paul Blackburn. Ristampati su concessione di Macmillan
College Publishing Company, New York 1958. Tutti i diritti riser-
vati;
da End of the Game and Other Stories di Julio Cortázar, tradotti
da Paul Blackburn, © 1967 Random House, Inc. Ristampati con il
permesso di Pantheon Books, sezione di Random House, Inc.;
dalla “Translator’s Preface” di Robert Fagles, tratta da Homer:
The Iliad, tradotto da Robert Fagles, diritti di traduzione © 1990
Robert Fagles. Introduzione e note © 1990 Bernard Knox.
Utilizzato su concessione di Viking Penguin, sezione di Penguin
Books USA, Inc.;
da Poems from the Greek Anthology, tradotto da Dudley Fitts,
© 1938, 1941, 1956 New Directions Publishing Corporation;
dal saggio di Dudley Fitts, The Poetic Nuance, ristampato su
concessione da On Translation, a cura di Reuben A. Brower,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, © 1959
President and Fellows of Harvard College;
dalle poesie e traduzioni di Ramon Guthrie, utilizzate su con-
cessione del Dartmouth College;
la poesia di Eugenio Montale, “Mottetti VI”, è ripubblicata su

17
concessione di Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, © 1984
Arnoldo Mondadori Editore Spa, Milano;
dall’opera di Ezra Pound: The ABC of Reading, tutti i diritti
riservati; Literary Essays, ©1918, 1920, 1935 Ezra Pound; The
Letters of Ezra Pound 1907-1941, © 1950 Ezra Pound; Selected
Poems, ©1920, 1934, 1937 Ezra Pound; The Spirit of Romance, ©
1968 Ezra Pound; Translations, © 1954, 1963 Ezra Pound.
Utilizzati su concessione di New Directions Publishing
Corporation e Faber & Faber Ltd. Materiali anteriori inediti di
Ezra Pound, © 1983 e 1995 Trustees di Ezra Pound Literary
Property Trust; utilizzati su concessione degli agenti New
Directions Publishing Corporation e Faber & Faber Ltd.
Le tabelle “La pubblicazione di traduzioni nel mondo: da una
selezione di lingue straniere, 1982-1984” e “Esportazioni di libri
dagli Stati Uniti ai maggiori paesi, 1990” (ripubblicate come tabel-
le 1 e 2), sono tratte dalla pubblicazione del 5 luglio 1991 del
Publishers Weekly, edito da Cahners Publishing Company, sezione
di Reed Publishing USA, © 1991 Reed Publishing USA. L’elenco
dei bestseller è tratto da The New York Times Book Review del 9
luglio 1967, © 1967 The New York Times Company. Ripubblicato
su concessione. I brani tratti dal contratto da me stipulato con
Farrar, Straus & Giroux per la traduzione di Delirium di Barbara
Alberti sono utilizzati su concessione di Farrar, Straus & Giroux,
Inc.
Un ringraziamento va alle seguenti riviste, su cui alcuni di que-
sti materiali sono apparsi in una versione precedente: Criticism;
Journal of Medieval and Renaissance Studies; SubStance;
Talisman: A Journal of Contemporary Poetry and Poetics; Textual
Practice; To: Journal of Poetry, Prose, and the Visual Arts, e TTR
Traduction, Terminologie, Rédaction: Études sur le texte et ses
transformations. Una versione precedente del quarto capitolo è
apparsa nella mia antologia, Rethinking Translation: Discourse,
Subjectivity, Ideology (Routledge, 1992). Il mio lavoro è stato
sostenuto in parte da un congedo di studio e ricerca, da una borsa
di ricerca estiva e da una sovvenzione della Temple University.
Ringrazio Nadia Kravchenko per aver abilmente preparato il datti-
loscritto e la versione su computer, e Don Hartman per l’assistenza
durante i processi di produzione.
I grafici che illustrano i diversi percorsi della traduzione edito-

18
riale (grafici 1 e 2) sono stati preparati da Chris Behnam del Key
Computer Services di New York.
«Come la sposa di ogni uomo non si sottrae a una teoria del tra-
durre» (Milo De Angelis), sono costretto a un’espressione inade-
guata della mia gratitudine per Lindsay Davies, che molto mi ha
insegnato sull’inglese, e molto sull’elemento straniero nella tradu-
zione.
L.V.
New York, gennaio 1994

19
Capitolo primo
INVISIBILITÀ

Vedo la traduzione come il tentativo di produrre un testo così trasparente da


non sembrare tradotto. Una buona traduzione è come una lastra di vetro. Si
nota che c’è solamente quando ci sono delle imperfezioni: graffi, bolle.
L’ideale è che non ce ne siano affatto. Non dovrebbe mai richiamare l’atten-
zione su di sé.
Norman Shapiro

I
“Invisibilità” è il termine che impiegherò per descrivere la situa-
zione e l’attività del traduttore nella cultura angloamericana contem-
poranea. L’invisibilità si riferisce a due fenomeni che si determinano
reciprocamente: uno è un effetto illusionistico del discorso, della
manipolazione dell’inglese propria del traduttore; l’altro è una prati-
ca di lettura e valutazione della traduzione che ha prevalso a lungo
nel Regno Unito e negli Stati Uniti, tra le altre culture, di lingua
inglese o meno. Un testo tradotto, che sia prosa o poesia, di finzione
o meno, viene giudicato accettabile dalla maggior parte degli editori,
dei recensori e dei lettori quando si legge scorrevolmente, quando
l’assenza di qualunque peculiarità linguistica e stilistica fa in modo
che sembri trasparente, che rifletta la personalità dello scrittore stra-
niero o la sua intenzione o il significato essenziale del testo stranie-
ro: in altre parole, quando abbia l’apparenza di non essere, di fatto,
una traduzione, bensì l’“originale”. L’illusione di trasparenza è un
effetto del discorso scorrevole, dello sforzo del traduttore di assicu-
rare una facile leggibilità aderendo all’uso corrente, mantenendo una
sintassi continua, fissando un significato preciso. È sorprendente

21
notare come questo effetto illusorio celi le numerose condizioni che
determinano la traduzione, a partire dal cruciale intervento del tra-
duttore sul testo straniero. Più la traduzione è scorrevole più il tra-
duttore è invisibile e, presumibilmente, tanto più lo scrittore o il
significato del testo straniero saranno visibili.
Il predominio della scorrevolezza nella traduzione in lingua
inglese si rivela da una campionatura di recensioni apparse su
giornali e periodici. In quelle rare occasioni in cui i recensori si
riferiscono alla traduzione, i loro brevi commenti sono general-
mente rivolti allo stile, trascurando l’analisi di altri possibili aspetti
della traduzione quali l’accuratezza, il pubblico che si propone di
raggiungere, il suo valore economico all’interno del corrente mer-
cato editoriale, il rapporto con le tendenze letterarie dell’inglese, il
modo in cui quella traduzione si colloca nella carriera del tradutto-
re. E negli ultimi cinquant’anni i commenti sono stati sorprenden-
temente concordi nell’elogiare il discorso scorrevole e nel condan-
nare le deviazioni da questo modello, anche considerando la serie
più diversificata di testi stranieri.
Prendiamo ad esempio la narrativa, il genere più tradotto in
tutto il mondo. Limitiamo il nostro ambito agli scrittori europei e
latinoamericani, i più tradotti in inglese, e scegliamo degli esempi
da diversi tipi di narrativa: romanzi e racconti brevi, realistici e
fantastici, lirici e filosofici, psicologici e politici. Ecco una possi-
bile lista: Lo straniero (1946) di Albert Camus, Bonjour Tristesse
(1955) di Françoise Sagan, Termine di un viaggio di servizio
(1965) di Heinrich Böll, le Cosmicomiche (1968) di Italo Calvino,
Cent’anni di solitudine (1970) di Gabriel García Márquez, Il libro
del riso e dell’oblio (1980) di Milan Kundera, Elogio della matri-
gna (1990) di Mario Vargas Llosa, I Samurai (1991) di Julia
Kristeva, Quattro novelle sulle apparenze (1992) di Gianni Celati,
Una bambola russa (1992) di Adolfo Bioy Casares. Alcune di que-
ste opere, tradotte in inglese, hanno ottenuto un considerevole suc-
cesso commerciale e di critica, altre hanno avuto un grande slancio
iniziale per poi sprofondare nell’oblio, altre ancora sono passate
destando poca o nessuna attenzione. Ma tutte, nelle recensioni,
sono state giudicate secondo lo stesso criterio: la scorrevolezza. La
scelta di estratti che segue proviene da diversi periodici britannici
e americani, sia letterari che ad alta tiratura, e alcuni sono stati
scritti da critici, romanzieri e recensori celebri:

22
La traduzione di Stuart Gilbert sembra un lavoro assolutamente
splendido. Non è semplice, traducendo dal francese, rendere le
qualità di nitidezza o acutezza, ma la prosa di Gilbert è sempre
naturale, brillante e incisiva.
(Wilson 1946, p. 100)

Lo stile è elegante, la prosa squisita e la traduzione eccellente.


(New Republic 1955, p. 46)

In Termine di un viaggio di servizio, racconto tradotto da Leila


Vennewitz in modo aggraziato ma non sempre impeccabile,
Böll prosegue la sua austera e, a volte, implacabile esplorazione
della coscienza, dei valori e dei difetti dei suoi compatrioti.
(Potoker 1965, p. 42)

La traduzione è piacevolmente scorrevole: due capitoli sono già


apparsi sulla rivista Playboy.
(Times Literary Supplement 1969, p. 180)

La traduzione di Rabassa è un trionfo di slancio pregno e scor-


revole, tutta eleganza e sensato virtuosismo.
(West 1970, p. 4)

I suoi primi quattro libri pubblicati in inglese non parlavano


con la sbalorditiva esattezza lirica di questo (il traduttore invisi-
bile è Michael Henry Heim).
(Michener 1980, p. 108)

La traduzione fatta da Helen Lane del titolo di questo libro – In


Praise of the Stepmother – rende in modo fedele quello di
Mario Vargas Llosa – Elogio de la Madrasta – ma non è pro-
prio idiomatica.
(Burgess 1990, p. 11)

I Samurai, un roman à clef trasparente, tradotto scorrevolmente


da Barbara Bray, è la cronaca dei giorni di splendore intellet-
tuale della Kristeva, e di Parigi.
(Steiner 1992, p. 9)

23
Nella traduzione di Stuart Hood, che scorre in maniera incisiva
malgrado il suo accento britannico in qualche occasione scon-
certante, il sottile senso del linguaggio di Celati è reso con pre-
cisione.
(Dickstein 1992, p. 18)

Spesso inespressiva, in qualche caso trascurata o imprecisa,


mostra tutti i segni di un lavoro affrettato e di una revisione ina-
deguata. [...] In questo caso l’originale spagnolo è di dieci paro-
le più breve e incomparabilmente più elegante.
(Balderston 1992, p. 15)

Il lessico critico del giornalismo letterario nel periodo successi-


vo alla Seconda Guerra Mondiale è denso di una quantità di termi-
ni che indicano la presenza o l’assenza di un discorso scorrevole
della traduzione: «incisiva», «elegante», «che scorre», «in modo
aggraziato», «inespressiva». Vi è anche un gruppo di neologismi
peggiorativi finalizzati a criticare le traduzioni prive di scorrevo-
lezza, ma impiegati anche, più in generale, con il significato di
prosa mal scritta: translatese, translationese, translatorese, [in ita-
liano: “traduzionese”, “traduttese”, “traduttorese”]. In inglese la
traduzione scorrevole viene raccomandata per una serie estrema-
mente ampia di testi stranieri: contemporanei e arcaici, religiosi e
scientifici, di finzione o meno.

In una versione dall’ebraico non è sempre facile discernere il


traduzionese, dal momento che la Versione Autorizzata ha reso
familiari i suoi idiomi.
(Times Literary Supplement 1961, p. IV)

Si è tentato di impiegare un inglese moderno che fosse vivace


senza essere gergale. Ci si è sforzati soprattutto di evitare quel
tipo di “traduzionese” sconsiderato che così spesso in passato
ha conferito alla letteratura russa tradotta uno stile proprio, in
qualche modo “fiacco”, che ha pochissima relazione con qual-
siasi aspetto dell’originale russo.
(Hingley 1964, p. X)

Egli è solennemente reverenziale e, per conferire alla cosa un

24
sapore autenticamente classico, l’ha stesa nel tiepido traduttese
di una delle sue rese meno incalzanti.
(Corke 1967, p. 761)

Esiste anche una variante riconoscibile di inglese pidgin1 cono-


sciuta come “traduzionese” (“trans-jargonisation”2 è invece il
termine americano per una sua forma particolare).
(Times Literary Supplement 1967, p. 399)

Rigidità paralizzante («I am concerned to determine») e il tonfo


sordo del traduzionese («Here is the place to mention
Pirandello finally») spesso sono il prezzo che siamo più o meno
disposti a pagare per accedere a grandi pensieri.
(Brady 1977, p. 201)

Tale rassegna di estratti indica quali caratteristiche discorsive


producano o meno la scorrevolezza in una traduzione in lingua
inglese. Una traduzione scorrevole è scritta in un inglese corrente
(«moderno») e non arcaico, ampiamente usato e non specializzato
(jargonisation), standard e non colloquiale («gergale»). Le parole
straniere (pidgin) vengono evitate, così come gli anglismi in tradu-
zioni americane e gli americanismi in traduzioni britanniche. La
scorrevolezza dipende anche dalla sintassi che, non essendo troppo
«fedele» al testo straniero, risulta «non proprio idiomatica» e si
manifesta in maniera continua e agevole (non è «fiacca») così da
assicurare l’«esattezza» semantica con una certa definizione ritmi-
ca e un senso di fermezza (e non un «tonfo sordo»). Una traduzio-
ne scorrevole è immediatamente riconoscibile e intelligibile,
«familiarizzata», addomesticata3, e non «sconcertante[mente]»
1 Il Pidgin English è l’inglese corrotto, usato come forma alterata fra

interlocutori non nativi di un paese anglofono, ad esempio fra europei e cine-


si. Il termine proviene infatti da una corruzione cinese della parola business
[N.d.T.].
2 Trans-jargonisation è un neologismo composto della parola jargon che

indica il gergo, la lingua parlata in modo incomprensibile [N.d.T.].


3 Rendiamo con “addomesticata, addomesticante” il termine inglese usato

da Venuti “domesticated, domesticating translation” di cui l’autore si serve


facendo riferimento a una delle due possibili forme di traduzione teorizzate
da Schleiermacher (cfr. più avanti, pp. 44 sgg.). Utilizziamo qui il termine

25
straniera, in grado di offrire al lettore libero «accesso a grandi pen-
sieri», a ciò che è «presente nell’originale». Sotto il regime della
traduzione scorrevole, il traduttore lavora per rendere il proprio
lavoro “invisibile”, producendo l’effetto illusorio della trasparenza
che nel contempo maschera la propria condizione di illusione: il
testo tradotto sembra “naturale”, vale a dire non tradotto.
Il predominio della trasparenza nella traduzione in lingua ingle-
se riflette tendenze di altre forme culturali che le sono paragonabi-
li, incluse forme diverse di scrittura. L’enorme potere economico e
politico acquisito dalla ricerca scientifica durante il XX secolo, le
innovazioni del periodo postbellico nelle avanzate tecnologie di
comunicazione per espandere le industrie della pubblicità e del-
l’intrattenimento e sostenere il ciclo economico di produzione di
materie prime e di scambio: tutti questi sviluppi hanno influenzato
ogni mezzo espressivo, sia stampato che elettronico, valorizzando
un uso semplicemente strumentale tanto del linguaggio che di altri
mezzi di rappresentazione, ed enfatizzando in tal modo l’intelligi-
bilità immediata e l’apparenza di realtà 4. Il poeta americano
Charles Bernstein, che lavorò per molti anni come “scrittore com-
merciale” usando vari tipi di prosa non di finzione – medica,
scientifica, tecnica – ha osservato come il predominio della traspa-
renza nella scrittura contemporanea sia rafforzato dal suo valore
economico, che stabilisce i “limiti” accettabili per la deviazione:

il fatto che la schiacciante primazia dell’impiego di scrittore a


paga fissa coinvolga l’utilizzo di stili piani e autorevoli, se non
esplicitamente pubblicitari; che coinvolga, vale a dire, una
scrittura densa di preclusioni, è una misura di come non sia
“addomesticare” volendo quindi conservare il valore etimologico intrinseco,
quella radice latina “domus” che ben si lega al concetto della traduzione
etnocentrica che, come afferma Schleiermacher, «vuole portare l’autore stra-
niero a casa» [N.d.T.].
4 Questi sviluppi culturali e sociali sono stati descritti da vari studiosi. La

mia conoscenza di tali fenomeni si basa soprattutto sui testi di Mandel 1975,
McLuhan 1964, Horkheimer e Adorno 1972, Baudrillard 1983. Le concezioni
strumentali del linguaggio non appartengono certamente solo al periodo suc-
cessivo alla Seconda Guerra Mondiale: risalgono all’antichità dell’Occidente
e hanno influenzato le teorie della traduzione almeno fin dai tempi di
Agostino (Robinson 1991, pp. 50-54).

26
semplicemente una questione di scelta stilistica ma di dominio
sociale: non siamo liberi di scegliere il linguaggio del posto di
lavoro o della famiglia in cui siamo nati, anche se siamo liberi,
entro certi limiti, di ribellarci a esso.
(Bernstein 1986, p. 225)

L’autorevolezza degli «stili piani» nella scrittura di lingua


inglese è stata raggiunta gradualmente nell’arco di vari secoli, in
quello che Bernstein definisce come «il movimento storico verso
l’uniformità della sillabazione e della grammatica mediante un’i-
deologia che ha prediletto i passaggi agevoli e privi di idiosincra-
sie, l’eliminazione delle asperità eccetera: vale a dire qualsiasi
cosa che potesse concentrare l’attenzione sul linguaggio in sé»
(Bernstein 1986, p. 27). Nella letteratura angloamericana contem-
poranea, tale movimento ha fatto del realismo la forma narrativa
prevalente, e del verso libero la forma predominante in poesia:

in contrasto, per esempio, con l’opera di Sterne, in cui l’aspetto


e la struttura – l’opacità – del testo sono onnipresenti, si è svi-
luppata in certi romanzi una prosa neutra e trasparente in cui le
parole sembrano concepite perché vi si guardi attraverso, verso
il mondo dipinto al di là della pagina. Allo stesso modo, in
metà dell’attuale poesia di strada si nota l’eliminazione di ritmo
e allitterazione manifesti, mentre le forme metriche vengono
mantenute principalmente per la loro capacità di ufficializzarla
come “poesia”.
(Ibidem)

In considerazione di queste tendenze culturali, sembra inevita-


bile che la trasparenza sia divenuta un discorso autorevole cui far
riferimento per la traduzione, sia che il testo straniero fosse lettera-
rio sia che fosse scientifico o tecnico. Il traduttore britannico J.M.
Cohen si accorse di questo sviluppo già nel 1962, quando osservò
che «i traduttori del XX secolo, influenzati dall’insegnamento
della scienza e dall’importanza crescente dell’esattezza [...] si sono
in generale concentrati sul significato della prosa e sull’interpreta-
zione, trascurando l’imitazione della forma e dello stile» (Cohen
1962, p. 35). Cohen notò anche il coinvolgimento del processo di
addomesticamento, con «il rischio di ridurre lo stile individuale

27
degli autori e i trabocchetti tipici di una lingua nazionale a una
prosa piatta e uniforme», ma riteneva che questo “pericolo” venis-
se evitato dalle “migliori” traduzioni (ivi, p. 33). Non si accorse,
tuttavia, che il criterio in base al quale veniva giudicato ciò che era
“migliore” era ancora radicalmente inglese. Tradurre secondo il
«significato della prosa e l’interpretazione», praticare la traduzione
come semplice comunicazione vuol dire riscrivere il testo straniero
secondo valori della lingua inglese, fra cui la trasparenza, ma ciò
eclissa totalmente il lavoro di addomesticamento del traduttore,
perfino agli occhi dello stesso traduttore.
L’invisibilità del traduttore è determinata, in parte, anche dal
concetto individualistico di paternità letteraria che continua a pre-
valere nella cultura angloamericana. Secondo tale concezione l’au-
tore esprime liberamente i suoi pensieri e sentimenti nella scrittu-
ra, che è quindi considerata un’auto-rappresentazione originale e
trasparente, non mediata da determinanti transindividuali (lingui-
stiche, culturali o sociali) che potrebbero complicare l’originalità
dell’autore. Questa visione della paternità letteraria determina due
implicazioni svantaggiose per il traduttore. Da un lato, la traduzio-
ne viene definita come una rappresentazione di second’ordine: sol-
tanto il testo straniero può essere originale, una copia autentica
fedele alla personalità o all’intenzione dell’autore, mentre la tradu-
zione è derivativa, artificiale, potenzialmente una falsa copia.
D’altro lato, alla traduzione si richiede che cancelli questa condi-
zione di second’ordine tramite il discorso trasparente, producendo
una illusione di presenza dell’autore tale per cui il testo tradotto
può essere preso per l’originale. Ma il concetto individualistico
della paternità letteraria, oltre a svalutare la traduzione, è talmente
penetrante da modellare l’autopercezione dei traduttori, inducen-
done alcuni a psicologizzare il loro rapporto con il testo straniero
come in un processo di identificazione con l’autore. L’americano
Willard Trask (1900-1980), uno dei maggiori traduttori del XX
secolo per la quantità e l’importanza culturale del lavoro svolto,
tracciò una distinzione netta tra atto di creazione d’autore e atto di
traduzione. Quando, in una delle ultime interviste, gli venne
domandato se «l’impulso» a tradurre «è lo stesso che prova chi
vuole scrivere un romanzo» (domanda chiaramente individualisti-
ca per il riferimento a un “impulso” d’autore), Trask rispose:

28
No, non direi, perché una volta ho provato a scrivere un roman-
zo. Quando scrivi un romanzo, [...] ovviamente scrivi di perso-
ne o luoghi, di una cosa o di un’altra, ma ciò che stai facendo,
essenzialmente, è esprimere te stesso. Invece, quando traduci
non stai esprimendo te stesso. In realtà stai compiendo un’esi-
bizione tecnica. [...] Ho capito che il traduttore e l’attore devo-
no possedere lo stesso tipo di talento. Entrambi prendono qual-
cosa che appartiene a qualcun altro e lo rifilano come qualcosa
di proprio. Penso che sia indispensabile possedere tale capacità.
Perciò, oltre all’esibizione tecnica, la traduzione implica un
allenamento psicologico: qualcosa come l’essere su un palco-
scenico. Tradurre è fare qualcosa di completamente diverso da
quella che ritengo scrittura poetica creativa.
(Honig 1985, pp. 13-14)

Nell’analogia di Trask i traduttori simulano gli autori e le tradu-


zioni passano per testi originali. I traduttori sono ben consapevoli
che qualunque senso della presenza d’autore in una traduzione è
un’illusione, un effetto del discorso trasparente, paragonabile a
«un’esibizione»; essi affermano tuttavia di condividere un rappor-
to «psicologico» con l’autore, nel quale reprimono la propria «per-
sonalità». «Credo di considerare me stesso in una sorta di collabo-
razione con l’autore», afferma il traduttore americano Norman
Shapiro; «sicuramente il mio io e la mia personalità sono coinvolti
nella traduzione, eppure devo cercare di rimanere fedele al testo
originale in modo che la mia personalità non appaia» (Kratz 1986,
p. 27).
L’invisibilità del traduttore è, dunque, un bizzarro autoannulla-
mento, un modo di concepire e praticare la traduzione che indub-
biamente rafforza la sua condizione di marginalità nella cultura
angloamericana. Infatti, sebbene gli ultimi vent’anni abbiano visto
l’istituzione di centri e programmi di traduzione nelle università
britanniche e americane, come anche la fondazione di commissio-
ni, associazioni e premi per la traduzione all’interno di organizza-
zioni letterarie quali la Società degli Autori a Londra e il Centro
Americano PEN a New York, resta il fatto che i traduttori ricevono
un riconoscimento esiguo per il loro lavoro, compresi i traduttori
che lavorano con quel tipo di scrittura che produce pubblicità (per-
ché vincitrice di premi, controversa, censurata). In una recensione

29
la citazione tipica del traduttore prende la forma di un breve inciso
nel quale, molto spesso, viene giudicata la trasparenza della tradu-
zione. Tuttavia, questo non sempre accade. Ronald Christ ha
descritto la pratica predominante: «Molti giornali, come il Los
Angeles Times, non elencano neppure i traduttori nelle note alle
recensioni, i recensori spesso non dicono che un libro è una tradu-
zione (mentre citano il testo come se fosse scritto in inglese), e
quasi tutti gli editori escludono i traduttori dalle copertine dei libri
e dalle inserzioni pubblicitarie» (Christ 1984, p. 8). Anche quando
il recensore stesso è uno scrittore, un romanziere, o magari un
poeta, il fatto che il testo recensito sia una traduzione può venire
trascurato. Nel 1981 il romanziere americano John Updike recensì
per The New Yorker due romanzi stranieri, Se una notte d’inverno
un viaggiatore di Italo Calvino, e L’incontro di Telgte di Günter
Grass, ma nel lungo saggio fece solo un minimo accenno ai tradut-
tori. I loro nomi apparivano tra parentesi, dopo la prima citazione
dei titoli in inglese. I recensori, da cui ci si aspetta che possiedano
del linguaggio una percezione da scrittori, raramente sono inclini a
considerare la traduzione come scrittura.
Nella cultura americana il ruolo secondario del traduttore è
ulteriormente registrato e mantenuto nello stato legale, ambiguo e
sfavorevole, della traduzione, sia per quanto riguarda la legge sul
diritto d’autore (copyright) sia per gli attuali accordi contrattuali
veri e propri. La legge, sia britannica che americana, definisce la
traduzione come un “adattamento” o “lavoro derivativo” basato su
“un’opera originale d’autore”, il cui diritto d’autore, incluso il
diritto esclusivo “di preparare opere derivate” o “adattamenti”, è
conferito all’“autore”5. Il traduttore è dunque subordinato all’auto-
re che controlla in modo decisivo la pubblicazione della traduzione
durante il periodo in cui il testo “originale” è tutelato dal diritto
d’autore, vale a dire per tutta la vita dell’autore più altri cin-
quant’anni dalla sua morte. Tuttavia, dal momento che la paternità
letteraria è qui definita come la creazione di una forma o mezzo
d’espressione, non di un’idea, come originalità di linguaggio, e
non di pensiero, la legge britannica e quella americana permettono
che le traduzioni vengano tutelate dal diritto d’autore a nome del
5 Copyright, Designs and Patents Act 1988 (c. 48), sezioni 1 (1)(a), 16

(1)(e), 21 (3)(a)(i) ; 17 US Code, sezioni 101, 102, 106, 201 (a) (1976).

30
traduttore, riconoscendo quindi che il traduttore impieghi un’altra
lingua per il testo straniero, e lasciando così spazio all’interpreta-
zione come atto di creazione di un’opera originale (Skone James et
al. 1991; Stracher 1991). Secondo la legge sul diritto d’autore il
traduttore è, e al tempo stesso non è, un autore6.
La paternità letteraria del traduttore non riceve mai un pieno
riconoscimento legale a causa della priorità accordata allo scrittore
straniero nel controllo della traduzione, fino al punto di compro-
mettere i diritti del traduttore quale cittadino britannico o america-
no. Sottoscrivendo un trattato internazionale sul diritto d’autore
come la Convenzione di Berna per la Protezione delle Opere
Letterarie e Artistiche, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno
accettato di considerare i cittadini di altri paesi membri della con-
venzione come loro cittadini, limitatamente al diritto d’autore
(Scarles 1980, pp. 8-11). Dunque, le leggi britanniche e americane
sostengono che una traduzione in lingua inglese di un testo stranie-
ro possa essere pubblicata solo in base all’accordo con l’autore che
detiene il diritto d’autore per quel testo: vale a dire lo scrittore stra-
niero o, a seconda del caso, un agente o un editore straniero. Al
traduttore può essere concesso il privilegio di stipulare un contrat-
to per il diritto d’autore della traduzione, ma è escluso dalla prote-
zione legale di cui godono gli autori quali cittadini della Gran
Bretagna o degli Stati Uniti, a favore di un altro autore: il cittadino
straniero. L’ambigua definizione legale della traduzione, sia origi-
nale che derivata, rivela un limite per la cittadinanza del traduttore,
tanto quanto la legge attuale sul diritto d’autore rivela l’incapacità
di pensare la traduzione al di là dei confini nazionali, nonostante
l’esistenza di trattati internazionali. La Convenzione di Berna
(Parigi 1971) conferisce al traduttore un diritto d’autore che al
tempo stesso gli nega: «Traduzioni, adattamenti, arrangiamenti di
musica e altre derivazioni di un’opera letteraria o artistica verran-
no protetti come opere originali senza pregiudizio per il diritto
d’autore dell’opera originale» in possesso dell’«autore» straniero,
il quale «godrà del diritto esclusivo di creare e di autorizzare la tra-
duzione»7. La legge sul diritto d’autore non definisce uno spazio

6 L’ambiguo stato legale della traduzione viene discusso da Derrida


1985a, pp. 196-200 e Simon 1989.
7 Articoli 2 (3), 8. La proposta dell’UNESCO sulla Protezione Legale dei

31
per la paternità letteraria del traduttore che sia equo ai diritti d’au-
tore, o che in qualche modo li limiti. Eppure riconosce l’esistenza
di un fondamento concreto per giustificare tale restrizione.
I contratti di traduzione, a partire dal periodo postbellico sono,
in effetti, ampiamente mutati, in parte a causa delle ambiguità che
presenta la legge sul diritto d’autore, ma anche a causa di altri fat-
tori come il cambiamento dei mercati librari, il particolare livello
di perizia raggiunto dai traduttori e le difficoltà incontrate da spe-
cifici progetti di traduzione. Le tendenze generali che possono tut-
tavia essere rintracciate nel corso di vari decenni rivelano alcuni
editori che hanno escluso il traduttore da qualsiasi diritto sulla tra-
duzione. I contratti britannici standard richiedono al traduttore che
egli ceda completamente il diritto d’autore all’editore. Negli Stati
Uniti la definizione contrattuale più comune del testo tradotto non
è stata fino a oggi “opera originale d’autore”, bensì “lavoro a cotti-
mo” (work-for-hire), che rientra in una categoria della legge ameri-
cana sul diritto d’autore per cui «il datore di lavoro o la persona
per la quale è stato approntato il lavoro viene considerato l’autore
[...] e che, a meno che le parti non si siano espressamente accorda-
te diversamente con un documento scritto firmato da entrambe,
detiene tutti i diritti contemplati dal diritto d’autore»8. I contratti di
lavoro a cottimo alienano il traduttore dal prodotto del suo lavoro
in maniera straordinariamente definitiva. Ecco la clausola attinente
nel contratto standard per i traduttori della Columbia University
Press:

Lei e noi ci accordiamo che l’opera che Lei preparerà è stata


ordinata e commissionata espressamente da noi, ed è un lavoro
a cottimo, secondo le modalità con cui tale termine è impiegato
e definito nel Copyright Act. Di conseguenza, noi saremo con-
Traduttori e della Traduzione e sui Mezzi Pratici per migliorare lo status dei
traduttori (approvata dalla Conferenza Generale di Nairobi il 22 novembre
1976) segue il testo della Convenzione di Berna: «Gli stati membri dovrebbe-
ro accordare ai traduttori, nel rispetto delle loro traduzioni, la protezione
accordata agli autori secondo le clausole delle convenzioni internazionali del
diritto d’autore di cui fanno parte e/o secondo le loro leggi nazionali, ma
senza pregiudicare i diritti degli autori delle opere originali tradotte» (articolo
II.3).
8 17 US Code, sezioni 101, 201 (6).

32
siderati il solo ed esclusivo proprietario, in tutto il mondo e per
sempre, di tutti i diritti esistenti a questo riguardo, liberi da pre-
tese da parte Sua o di chiunque avanzi pretese tramite Lei o in
Sua vece.

Questo contratto di lavoro a cottimo simboleggia l’ambiguità


dello status legale del traduttore poiché include un’altra clausola
che riconosce implicitamente il traduttore come autore, creatore di
un’opera “originale”: «Lei garantisce che il Suo lavoro sarà origi-
nale e che non lederà il diritto d’autore o violerà alcun diritto di
chiunque, persona o parte che sia».
I contratti che richiedono al traduttore di cedere il diritto d’au-
tore, o che definiscono le traduzioni come opere a cottimo, opera-
no senza dubbio uno sfruttamento sul piano della divisione dei
guadagni. Tali traduzioni vengono pagate con un compenso fisso
calcolato per ogni migliaio di parole inglesi, senza tenere conto del
potenziale ricavato dalla vendita dei libri e dai diritti sussidiari
(come, ad esempio, la pubblicazione su un periodico, la licenza
accordata a un editore di tascabili economici o l’opzione di una
casa cinematografica). Un esempio reale chiarirà in che modo que-
sto accordo sfrutta i traduttori. Il 12 maggio 1965 il traduttore
americano Paul Blackburn accettò un accordo con la Pantheon per
un lavoro a cottimo, in base al quale riceveva «15 $ ogni mille
parole» per la sua traduzione di Ultimo round, una raccolta di rac-
conti brevi dello scrittore argentino Julio Cortázar9. Blackburn
ricevette un totale di 1200 $ per una traduzione in lingua inglese di
lunghezza pari, una volta stampato il volume, a 277 pagine;
Cortázar ricevette 2000 $ di anticipo per i diritti d’autore, pari al
7,5 percento del prezzo di listino per le prime 5000 copie. Il “livel-
9 Questo resoconto del progetto di Blackburn su Cortázar è desunto da

documenti della Paul Blackburn Collection, Archive for New Poetry,


Mandeville Department of Special Collections, University of California, San
Diego: lettera a John Dimoff, National Translation Center, università del
Texas, Austin, 6 maggio 1965; contratto con la Pantheon Books per la tradu-
zione di Ultimo round e altri scritti politici, 4 giugno 1965; revisione del
contratto con la Pantheon Books, 12 maggio 1966; lettera a Claudio
Campuzano, Inter-American Foundation for the Arts, 9 giugno 1966. Le
informazioni riguardo il “livello di povertà” sono desunte, per gli anni perti-
nenti, dallo Statistical Abstract of the United States.

33
lo di povertà” stabilito dal governo federale nel 1965 era rappre-
sentato da un reddito annuale di 1894 $ (per un uomo). Il reddito
di Blackburn era generalmente di 8000 $, ma per completare la tra-
duzione fu costretto a ridurre il suo lavoro editoriale e a cercare di
ottenere una sovvenzione da enti artistici o fondazioni private,
senza riuscirci. Infine richiese una proroga della data di consegna
da un anno circa a sedici mesi (la data del contratto, 1° giugno
1966, venne più tardi cambiata in 1° ottobre 1966).
La difficile situazione di Blackburn è stata affrontata dalla
maggior parte dei traduttori indipendenti di lingua inglese durante
tutto il periodo postbellico: tariffe al di sotto del livello di sussi-
stenza li hanno costretti a tradurre sporadicamente, facendo intanto
altri lavori (di solito i redattori, gli scrittori o gli insegnanti), oppu-
re a intraprendere contemporaneamente molteplici progetti di tra-
duzione, il numero dei quali era condizionato dal mercato librario
e dai puri limiti fisici. Nel 1969 la tariffa per le traduzioni come
lavoro a cottimo aumentò di 20 $ ogni mille parole, dando al pro-
getto di Blackburn su Cortázar il valore di 1600 $, mentre il livello
di povertà venne stabilito a 1974 $; nel 1979 il compenso corrente
era di 30 $, e Blackburn ne avrebbe ricavati 2400, mentre il livello
di povertà veniva fissato a 368910. Secondo un’indagine condotta
nel 1990 dal PEN American Center, e limitato alle risposte di
diciannove editori, il 75 percento delle traduzioni analizzate venne
appaltato come lavoro a cottimo, con tariffe che andavano dai 40
ai 90 $ ogni mille parole (Keeley 1990, pp. 10-12; A Handbook for
Literary Translators 1991, pp. 5-6). Una stima recente fissa il
compenso per la traduzione di un romanzo di trecento pagine fra i
3000 e i 6000 $ (Marcus 1990, pp. 13-14; cfr. Gardam 1990). Nel
1989 il livello di povertà è stato fissato a 5936 $ per gli individui
al di sotto dei 65 anni. Dal momento che questa situazione econo-
mica induce i traduttori indipendenti a produrre numerose tradu-
zioni all’anno, limita inevitabilmente l’inventiva letteraria e la
riflessione critica sul progetto editoriale, mentre mette i traduttori

10 Il compenso per le traduzioni del 1969 è tratto dal “manifesto” che con-

clude la pubblicazione di quella pietra miliare che fu la conferenza PEN tenutasi


nel 1970 (The World of Translation 1971, p. 377). La tariffa del 1979 è desunta
dal mio contratto per un lavoro a cottimo con la Farrar, Strauss & Giroux, per la
traduzione del romanzo di Barbara Alberti, Delirium, 29 maggio 1979.

34
l’uno contro l’altro – spesso inconsapevolmente – nella competi-
zione per i progetti e per la negoziazione delle tariffe.
A partire dagli anni Ottanta i contratti mostrano un crescente
riconoscimento del ruolo cruciale del traduttore nella produzione
della traduzione, citandolo come “l’autore” o “il traduttore” e sotto-
ponendo il testo al diritto d’autore a suo nome. Questa ridefinizione
è andata di pari passo con un miglioramento dei termini finanziari,
visto che i traduttori esperti hanno iniziato a ricevere un anticipo
sui diritti d’autore, generalmente consistente in una percentuale sul
prezzo di copertina o sui proventi netti, insieme anche a una parte
dei diritti sussidiari di vendita. Un’indagine fatta dal PEN nel 1990
indicava che i diritti d’autore dei traduttori erano compresi «tra il 2
e il 5 percento per le edizioni rilegate e tra l’1,5 e il 2,5 percento per
le edizioni economiche» (Handbook 1991, p. 5). Ma è evidente che
si tratta di aumenti minimi: se da un lato segnalano una crescente
consapevolezza della paternità letteraria del traduttore, non costitui-
scono dall’altro un mutamento significativo dell’aspetto economi-
co, restando ancora difficile per un traduttore indipendente riuscire
a mantenersi con la sola traduzione. La prima tiratura abituale per
una traduzione letteraria pubblicata da una casa editrice è approssi-
mativamente di 5000 copie (di meno per una casa editrice universi-
taria) così che, anche se si tende a forme contrattuali che prevedono
il diritto d’autore, è improbabile che il traduttore veda altri guada-
gni oltre all’anticipo. Pochissime traduzioni diventano dei bestsel-
ler; pochissime godono del privilegio di essere ristampate, sia in
edizione rilegata che in economica. Ma forse è ancora più impor-
tante dire che sono pochissime le traduzioni pubblicate in inglese.
Come indicano i grafici 1 e 2, se dagli anni Cinquanta la produ-
zione americana e britannica di libri è quadruplicata, il numero di
traduzioni è rimasto all’incirca tra il 2 e il 4 percento del totale,
nonostante un’impennata notevole durante i primi anni Sessanta,
quando il numero delle traduzioni variava tra il 4 e il 7 percento
del totale 11. Nel 1990 gli editori britannici hanno pubblicato

11 Le statistiche britanniche sono estratte da Whitaker’s Almanack, quelle

americane da Publishers Weekly. Ho consultato anche i dati dello United


Nations Statistical Yearbook, UNESCO Basic Facts and Figures, UNESCO
Statistical Yearbook, e An International Survey of Book Production during
the Last Decades, 1982.

35
libri
traduzioni

Grafico 1: Editoria britannica: totale dei libri pubblicati vs. libri tradotti

libri
traduzioni

Grafico 2: Editoria americana: totale dei libri pubblicati vs. libri tradotti

36
63.980 libri, dei quali 1625 erano traduzioni (2,4 percento), mentre
gli editori americani hanno pubblicato 46.743 libri, incluse 1380
traduzioni (2,96 percento). Le pratiche editoriali degli altri paesi
sono andate, in generale, nella direzione opposta. Anche l’editoria
dell’Europa occidentale è fiorita negli ultimi decenni, ma le tradu-
zioni hanno sempre costituito una percentuale significativa del
totale della produzione libraria, e tale percentuale è stata costante-
mente dominata dalla traduzione dalla lingua inglese. In Francia la
percentuale delle traduzioni è variata dall’8 al 12 percento del tota-
le. Nel 1985 gli editori francesi pubblicarono 29.068 libri, dei
quali 2867 erano traduzioni (9,9 percento) e, di questi, 2051 dal-
l’inglese (Frémy 1992). In Italia l’incidenza della traduzione è
stata più alta. Nel 1989 gli editori italiani hanno pubblicato 33.893
libri, dei quali 8602 erano traduzioni (25,4 percento), più della
metà dall’inglese (Lottman 1991, p. 5). L’industria editoriale tede-
sca è in qualche modo più ampia di quella britannica e americana,
e anche qui la percentuale di traduzioni è notevolmente più eleva-
ta. Nel 1990 gli editori tedeschi hanno pubblicato 61.015 libri, dei
quali 8716 erano traduzioni (14,4 percento), incluse circa 5650 tra-
duzioni dall’inglese (Flad 1992, p. 40). A partire dalla Seconda
Guerra Mondiale, l’inglese è stata la lingua più tradotta in tutto il
mondo, mentre non è stato tradotto molto in inglese, considerato il
numero di libri in lingua inglese pubblicato ogni anno (la Tabella 1
fornisce i dati più recenti).
Questi modelli di traduzione indicano uno squilibrio commer-
ciale con importanti conseguenze culturali. Gli editori britannici e
americani si recano ogni anno alle fiere internazionali come
l’American Booksellers Convention e la Mostra del Libro di
Francoforte, dove vendono i diritti di traduzione di molti loro libri,
inclusi i bestseller mondiali, ma raramente ne acquistano per la
pubblicazione di traduzioni inglesi di libri stranieri. Gli editori bri-
tannici e americani hanno dedicato una grande attenzione all’ac-
quisto di bestseller e la formazione di consociate multinazionali
dell’editoria ha apportato un maggiore capitale a sostegno di que-
sta politica editoriale (l’anticipo per un libro che si prevede diven-
terà un bestseller è, oggi, nell’ordine di milioni di dollari), mentre
è stato limitato il numero di libri considerati finanziariamente
rischiosi, come le traduzioni (Whiteside 1981; Feldman 1986).
L’agente letterario londinese Paul Marsh conferma questa tendenza

37
incoraggiando gli editori a concentrarsi sulla vendita, invece che
sull’acquisto, dei diritti di traduzione: «Qualsiasi libro che abbia
all’attivo, a un primo stadio del processo, quattro o cinque vendite
di diritti di traduzione rappresenta una buona possibilità di arrivare
a 9 o 10 alla fine del processo stesso» (Marsh 1991, p. 27). Marsh
aggiunge che «la maggior parte degli accordi commerciali per i
diritti di traduzione viene stipulata per un utile modesto» (ibidem),
ma bisogna tener conto che gli editori britannici e americani rice-
vono d’abitudine cospicui anticipi per questi accordi, anche quan-
do un editore o un agente straniero tentano di imporsi affinché
considerino anche altri tipi di entrate (come, ad esempio, i diritti
d’autore). Antonella Antonelli, che lavora a Milano, è uno di questi
agenti: la cifra da lei citata come un investimento italiano impru-
dente su un libro di lingua inglese – «Se paghi 200.000 $ d’antici-
po, non riesci a rifarti della cifra in Italia» – indica in effetti quanto
possano essere proficui i diritti di traduzione per gli editori coin-

Tabella 1. La pubblicazione di traduzioni nel mondo: da una selezione


di lingue straniere, 1982-1984

1982 1983 1984

Inglese 22208 24468 22724


Francese 6205 6084 4422
Tedesco 4501 4818 5311
Russo 6238 6370 6230
Italiano 1433 1645 1544
Lingue scandinavea 1957 2176 2192
Spagnolo 715 847 839
Lingue classiche, Greco, Latino 839 1116 1035
Ungherese 703 665 679
Arabo 298 322 536
Giapponese 208 222 204
Cinese 159 148 163

Totali mondiali 52.198 55.618 52.405


a Svedese, Danese, Norvegese, Islandese.

Fonte: Grannis 1991, p. 24.

38
volti, sia stranieri che britannici o americani (Lottman 1991, p. 6).
La vendita di libri di lingua inglese all’estero è stata anch’essa pro-
ficua: nel 1990 l’esportazione di libri americani equivaleva a 1,43
bilioni di dollari, con un rapporto tra esportazione e importazione
di 61 a 39.
Le conseguenze di questo squilibrio commerciale sono varie e
di vasta portata. Traducendo d’abitudine grandi quantità di libri di
lingua inglese dei generi più svariati, gli editori stranieri hanno
sfruttato la spinta verso l’egemonia americana politica ed econo-
mica a diffusione mondiale del periodo postbellico, sostenendo
attivamente l’espansione internazionale della cultura angloameri-
cana. Questa tendenza è stata rafforzata dall’esportazione di libri
in lingua inglese: la serie di paesi stranieri che riceve tali libri e le
varie categorie in cui questi sono inseriti dimostrano non solo la
portata mondiale dell’inglese, ma anche la profondità della sua
presenza nelle culture straniere, circolando nelle scuole, nelle
biblioteche, nelle librerie, condizionando diverse aree, discipline e
rappresentanze: accademiche e religiose, letterarie e tecniche, d’é-
lite e popolari, adulte e giovanili (cfr. Tabella 2). L’editoria britan-
nica e americana, a sua volta, ha raccolto i benefici finanziari deri-
vati dall’aver imposto con successo i valori culturali angloameri-
cani a un vasto pubblico di lettori stranieri producendo, al tempo
stesso, culture aggressivamente monolingui nel Regno Unito e
negli Stati Uniti, non ricettive nei confronti dell’elemento stranie-
ro, abituate a traduzioni scorrevoli che invisibilmente iscrivono i
valori della lingua inglese nei testi stranieri e forniscono ai lettori
l’esperienza narcisistica di riconoscere la propria cultura in un’al-
terità culturale. La prevalenza della traduzione addomesticante e
scorrevole ha favorito tali sviluppi grazie al suo valore economico:
favorita da redattori, editori e recensori, la scorrevolezza sfocia in
traduzioni che sono facilmente leggibili e che diventano quindi un
ottimo bene di consumo per il mercato librario, favorendo la loro
accessibilità e garantendo la marginalizzazione di quei testi stra-
nieri e quelle traduzioni in lingua inglese che oppongono maggiore
resistenza a una facile leggibilità.
L’invisibilità del traduttore può essere ora vista come una misti-
ficazione di proporzioni preoccupanti, un occultamento di straordi-
nario successo della molteplicità di cause scatenanti e di effetti
della traduzione in lingua inglese, della molteplicità di gerarchie e

39
Tabella 2. Esportazioni di libri dagli Stati Uniti ai maggiori paesi mon-
diali, 1990: esportazioni valutate a partire da 2.500 $

Paesi ($) Tipo di libri ($)

Canada 664.448 Dizionari 4.659


Gran Bretagna 171.391 Enciclopedie 39.369
Australia 106.274 Atlanti 6.725
Giappone 87.562 Libri di testo 128.431
Germania dell’Ovest 42.244 Bibbia e libri religiosi 55.341
Olanda 33.715 Tecnici, scientifici,
Messico 32.337 professionali 322.647
Singapore 31.321 Arte e pittura 12.242
Francia 20.144 Musica 17.502
India 17.576 Libri per bambini, per
Taiwan 15.304 colorare e disegnare 12.875
Hong Kong 12.853 Altri libri rilegati 42.194
Brasile 12.451 Tascabili economici 49.956
Sudafrica 11.378 Altri 736.063
Filippine 10.560
Svizzera 9854 Totale 1.428.004
Italia 9799
Spagna 9687
Nuova Zelanda 9600
Corea del Sud 8245
Irlanda 7946
Svezia 6597
Argentina 5746
Finlandia 5095
Venezuela 4772
Israele 4321
Danimarca 4012
Malesia 3998
Portogallo 3881

Totale 1.428.003

Fonte: Grannis 1991, pp. 21-22

di esclusioni in cui viene implicata. Illusionismo prodotto da un


metodo di traduzione scorrevole, l’invisibilità del traduttore mette
in atto e maschera contemporaneamente un insidioso addomestica-

40
mento dei testi stranieri, riscrivendoli nel discorso trasparente che,
prevalendo in inglese, seleziona proprio quei testi stranieri più
riconducibili alla traduzione scorrevole. Così come l’effetto della
trasparenza cancella il lavoro di traduzione, allo stesso modo con-
tribuisce alla marginalità culturale e allo sfruttamento economico
che i traduttori di lingua inglese hanno a lungo sopportato a causa
del loro status raramente riconosciuto; sono scrittori mal retribuiti
la cui opera resta, tuttavia, indispensabile per il predominio globa-
le della cultura angloamericana e della lingua inglese. Dietro l’in-
visibilità del traduttore si nasconde uno squilibrio commerciale
che assicura questo predominio ma che impoverisce anche, nella
lingua inglese, il capitale culturale dei valori stranieri limitando il
numero dei testi stranieri tradotti e sottomettendoli a una revisione
addomesticante. L’invisibilità del traduttore è sintomatica dell’au-
tocompiacimento presente nei rapporti angloamericani con le alte-
rità culturali, autocompiacimento che può essere descritto – senza
peccare di esagerazione – come imperialistico all’estero e xenofo-
bo in patria.
Il concetto di “invisibilità” del traduttore rappresenta già una
critica culturale, una diagnosi in opposizione alla situazione cultu-
rale che rappresenta. Si tratta, in parte, di una rappresentazione dal
basso, dalla posizione del traduttore contemporaneo di lingua
inglese, anche se questi è stato indotto a mettere in discussione le
condizioni del proprio lavoro a partire da vari sviluppi, culturali e
sociali, nazionali e stranieri. Il fine di questo libro è di rendere il
traduttore più visibile in modo che opponga resistenza e cambi le
condizioni in base alle quali la traduzione viene teorizzata e prati-
cata oggigiorno, specialmente nei paesi di lingua inglese. Il primo
passo consisterà dunque nel presentare una base teorica da cui
poter leggere le traduzioni come tali, come testi di diritto, avendo
modo di demistificare la trasparenza, vista come un effetto discor-
sivo tra gli altri.

II
La traduzione è un processo per il quale la catena dei signifi-
canti che costituisce il testo della lingua di partenza viene sostitui-
ta da una catena di significanti nella lingua d’arrivo, che il tradut-

41
tore fornisce in forza di un’interpretazione. Dal momento che il
significato è un effetto dei rapporti e delle differenze tra signifi-
canti lungo una catena potenzialmente infinita (polisemica, interte-
stuale e soggetta a collegamenti infiniti), è sempre differenziale e
differito, mai presente come unità originale (Derrida 1982). Testo
straniero e traduzione sono entrambi derivativi: entrambi sono
costituiti da diversi materiali linguistici e culturali che non scaturi-
scono né dallo scrittore straniero né dal traduttore e che destabiliz-
zano il lavoro di resa del significato, andando al di là delle loro
intenzioni ed, eventualmente, entrando in conflitto con esse. Il
risultato vede il testo straniero come il luogo di molte e diverse
possibilità semantiche fissate solo provvisoriamente in ogni singo-
la traduzione, sulla base di presupposti culturali e di scelte inter-
pretative variabili a seconda di specifiche situazioni sociali e di
periodi storici diversi. Il significato è un rapporto plurale e contin-
gente, non un’essenza unica e immutabile, quindi una traduzione
non può essere giudicata secondo concetti matematici di equiva-
lenza semantica o di corrispondenza univoca. I richiami al testo
straniero non possono, in ultima analisi, consentire di decidere, in
assenza dell’errore linguistico, tra traduzioni diverse che siano in
competizione, in quanto i canoni di accuratezza per la traduzione e
concetti quali “fedeltà” e “libertà” sono categorie storicamente
determinate. Anche il concetto di “errore linguistico” è soggetto a
variazioni, dal momento che traduzioni erronee, soprattutto di testi
letterari, possono essere non solo intelligibili ma anche significati-
ve nella cultura della lingua d’arrivo. La vitalità di una traduzione
è determinata dalla sua relazione con le condizioni sociali e cultu-
rali in cui viene prodotta e letta.
Questa relazione indica la violenza che risiede proprio nel fine
e nell’attività stessa della traduzione: la ricostituzione del testo
straniero secondo i valori, le convinzioni e le rappresentazioni
preesistenti nella lingua d’arrivo, sempre configurati in gerarchie
di predominio e marginalità, sempre nell’intenzione di determinare
la produzione, la circolazione e la ricezione dei testi. La traduzione
è la sostituzione violenta della differenza culturale e linguistica di
un testo straniero con un altro testo intelligibile per il lettore della
lingua d’arrivo. La differenza non può mai essere completamente
rimossa, naturalmente, ma subisce necessariamente una riduzione
e un’esclusione di possibilità, che comportano la conquista in

42
eccesso di altre possibilità specifiche della lingua di traduzione.
Qualunque differenza la traduzione convogli, su di essa si imprime
la cultura della lingua d’arrivo, assimilata alle sue posizioni di
intelligibilità, ai suoi canoni e alle sue interdizioni, ai suoi codici e
alle sue ideologie. Il fine della traduzione è quello di ricondurre
un’alterità culturale a ciò che è omologo, riconoscibile, addirittura
familiare; e tale fine rischia sempre un addomesticamento del testo
straniero di vaste proporzioni, spesso all’interno di progetti alta-
mente consapevoli, in cui la traduzione viene asservita all’appro-
priazione di culture straniere per progetti nazionali di carattere cul-
turale, politico ed economico. La traduzione può essere considera-
ta come la comunicazione di un testo straniero, pur essendo sem-
pre una comunicazione limitata dal fatto che si rivolge a un pubbli-
co specifico di lettori.
Gli effetti violenti della traduzione si sentono sia in patria che
all’estero. Da un lato, la traduzione detiene un potere enorme nella
costruzione di identità nazionali per le culture straniere, e quindi
compare potenzialmente nella discriminazione etnica, nei confron-
ti geopolitici, nel colonialismo, nel terrorismo, nelle guerre.
Dall’altro lato, la traduzione include il testo straniero nella conser-
vazione o revisione dei canoni letterari della cultura d’arrivo, inse-
rendo nella poesia e nella narrativa, per esempio, vari discorsi poe-
tici e narrativi che sono in competizione per il predominio cultura-
le nella lingua d’arrivo. La traduzione inserisce il testo straniero
anche nella conservazione o nella revisione dei paradigmi concet-
tuali dominanti, delle metodologie di ricerca e delle pratiche clini-
che delle discipline e delle professioni della lingua d’arrivo, che si
tratti di fisica o architettura, filosofia o psichiatria, sociologia o
legge. Sono questi effetti e affiliazioni sociali (scritti nella materia-
lità del testo tradotto, nella sua strategia discorsiva e nella sua
varietà allusiva per il lettore della lingua d’arrivo, ma anche nella
stessa scelta di tradurlo e nei modi in cui viene pubblicato, recensi-
to e insegnato), sono tutte queste condizioni che permettono alla
traduzione di essere considerata una pratica politica culturale, dal
momento che costruisce oppure critica delle identità di stampo
ideologico per le culture straniere, afferma o trasgredisce i valori
discorsivi e i limiti istituzionali della cultura della lingua d’arrivo.
La violenza causata dalla traduzione è in parte inevitabile, inerente
al processo di traduzione, e in parte potenziale, potendo affiorare

43
in qualsiasi momento della produzione e ricezione del testo tradot-
to, e variando in relazione a specifiche formazioni culturali e
sociali nei diversi momenti storici.
La domanda più urgente che affronta il traduttore consapevole
di tutto ciò è: che fare? Perché e come tradurre? Sebbene io abbia
delineato la traduzione quale luogo di molte determinazioni ed
effetti – linguistici, culturali, economici e ideologici – voglio
anche affermare che il traduttore letterario indipendente esercita
sempre una scelta riguardo al grado e alla direzione della violenza
in atto in ogni traduzione. Questa scelta è stata variamente formu-
lata, nel passato come nel presente, ma forse mai in modo tanto
deciso come nell’elaborazione del filosofo e teologo tedesco
Friedrich Schleiermacher. In una conferenza del 1813 sui diversi
metodi di traduzione, Schleiermacher affermò: «Ce ne sono soltan-
to due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e
gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il let-
tore e gli muove incontro lo scrittore» (Nergaard 1993, p. 153).
Ammettendo (con riserve quali «il più possibile») che la traduzio-
ne non può mai essere completamente adeguata al testo straniero,
Schleiermacher concedeva al traduttore di scegliere tra il metodo
addomesticante (domesticating), una riduzione etnocentrica del
testo straniero ai valori culturali della lingua d’arrivo, concepita
per portare l’autore a casa, e il metodo estraniante12 (foreignizing),
una pressione etnodeviante esercitata su quei valori per registrare
la differenza linguistica e culturale del testo straniero, con il risul-
tato di inviare il lettore all’estero.
Schleiermacher chiariva che la sua scelta era per una traduzione
estraniante, e ciò indusse il traduttore francese e teorico della tra-
duzione Antoine Berman a trattare l’argomentazione di
Schleiermacher come un’etica della traduzione, tesa a fare del
testo tradotto un luogo in cui si manifesta l’alterità culturale: seb-
bene, naturalmente, si tratti di un’alterità che non può mai manife-
starsi nei suoi stessi termini, ma solo in quelli della lingua d’arri-
12Impieghiamo da qui in avanti il termine “estraniante” per indicare il
tipo di traduzione “foreignizing” che Venuti oppone a quella “domestica-
ting”, addomesticante, per evidenziare l’elemento forestiero, straniero, stra-
niante, in una strategia traduttiva che, come afferma Schleiermacher, vuole
«inviare il lettore all’estero» [N.d.T.].

44
vo, e dunque sempre già codificata (Berman 1985, pp. 87-91)13.
L’elemento “straniero” in una traduzione estraniante non è la rap-
presentazione trasparente di un’essenza che risiede nel testo stra-
niero e che ha valore di per sé, ma una costruzione strategica il cui
valore è contingente alla situazione esistente nella lingua d’arrivo
contemporanea. La traduzione estraniante indica la differenza del
testo straniero, ma può farlo solo infrangendo i codici culturali
prevalenti nella lingua d’arrivo. Nel suo sforzo di essere corretto
rispetto al testo straniero, questo metodo di traduzione deve appa-
rire scorretto alla cultura d’arrivo, familiare, deviando in maniera
tale dalle norme originali da poter mettere in scena un’esperienza
di lettura alienata (scegliendo per esempio di tradurre un testo stra-
niero escluso dal canone letterario nazionale oppure impiegando
un discorso marginale per tradurlo).
Vorrei suggerire che per quanto la traduzione estraniante cerchi
di frenare la violenza etnocentrica della traduzione, è decisamente
auspicabile oggi un intervento culturale strategico sullo stato attua-
le degli scambi mondiali che si opponga all’egemonia delle nazio-
ni di lingua inglese e agli scambi culturali sbilanciati con cui que-
ste affrontano le alterità del mondo. La traduzione inglese estra-
niante può costituire una forma di resistenza contro etnocentrismo
e razzismo, narcisismo culturale e imperialismo, nell’interesse di
relazioni geopolitiche democratiche. In quanto teoria e pratica
della traduzione, tuttavia, il metodo estraniante è specifico di certi
paesi europei in particolari momenti storici: formulato per la prima
volta nella cultura tedesca durante il Classicismo e il
Romanticismo, è stato recentemente ripreso nel panorama cultura-
le francese caratterizzato dagli sviluppi postmoderni in filosofia,
critica letteraria, psicoanalisi e teoria sociale, sviluppi conosciuti
sotto il nome di “poststrutturalismo”14. La cultura angloamericana,
di contro, è stata a lungo dominata da teorie addomesticanti che

13 La teoria di Schleiermacher, nonostante l’attenzione alla traduzione

estraniante, è complicata dal suo desiderio che la traduzione tedesca servisse


il programma culturale nazionalista: cfr. cap. 3, pp. 101-116.
14 Per l’impatto del poststrutturalismo sulla teoria e pratica della traduzio-

ne, si veda, per esempio, Graham 1985, Benjamin 1989, Niranjana 1992,
Venuti 1992 e Gentzler 1993. Nel terzo capitolo si trovano riferimenti a que-
sto movimento.

45
preferiscono la traduzione scorrevole. Producendo l’illusione della
trasparenza, la traduzione scorrevole si maschera come autentica
equivalenza semantica, quando in realtà essa inserisce nel testo
straniero un’interpretazione parziale, parziale relativamente ai
valori della lingua inglese, riducendo, se non addirittura escluden-
do, quella stessa differenza che la traduzione è chiamata a trasmet-
tere. Questa violenza etnocentrica è evidente nelle teorie della tra-
duzione avanzate dal prolifico e influente Eugene Nida, consulente
per la traduzione dell’American Bible Society: qui la trasparenza è
posta al servizio dell’umanesimo cristiano.
Consideriamo il concetto di Nida di «equivalenza funzionale» o
«equivalenza dinamica» della traduzione, formulato per la prima
volta nel 1964 e in seguito riaffermato e sviluppato in numerosi
libri e articoli durante gli ultimi trent’anni. «Una traduzione di
equivalenza dinamica tende alla totale naturalezza di espressione –
afferma Nida – e cerca di creare una relazione tra il ricevente e le
modalità prevalenti di comportamento nel contesto della sua stessa
cultura» (Nida 1964, p. 159). La «naturalezza di espressione»
segnala l’importanza di una strategia della scorrevolezza nell’ambi-
to di questa teoria della traduzione, e nell’opera di Nida è evidente
che la scorrevolezza implica l’addomesticamento. In una delle sue
affermazioni leggiamo: «Il traduttore deve essere quella persona in
grado di svelare le differenze linguistiche e culturali in modo che la
gente possa vedere chiaramente la pertinenza del messaggio origi-
nale» (Nida e de Waard 1986, p. 14). Si tratta, naturalmente, di una
pertinenza alla cultura della lingua d’arrivo, qualcosa di cui gli
scrittori stranieri in genere non si preoccupano quando scrivono i
loro libri, dunque quella stessa pertinenza può essere stabilita nel
processo di traduzione solamente sostituendo le peculiarità della
lingua di partenza che non sono riconoscibili nella lingua d’arrivo.
Quando Nida afferma che «uno stile semplice e naturale nel tradur-
re, nonostante sia estremamente difficile da realizzare [...] è comun-
que essenziale per provocare nei riceventi finali una risposta simile
a quella suscitata nei riceventi originali» (Nida 1964, p. 163), egli
in effetti impone, nell’inglese, la valorizzazione del discorso traspa-
rente a discapito di tutte le altre culture straniere, dissimulando
quella disgiunzione basilare tra i testi in lingua di partenza e quelli
in lingua d’arrivo che mette in discussione la possibilità stessa di
trovare una corrispondenza fra risposte “simili”.

46
Come altri teorici della tradizione angloamericana, Nida ha tut-
tavia sostenuto che l’equivalenza dinamica è conforme al concetto
di accuratezza. La traduzione equivalente in senso dinamico non
impiega in modo indiscriminato «qualsiasi cosa possa avere un
impatto e un richiamo particolari sui riceventi»; piuttosto, «signifi-
ca comprendere completamente non solo il significato del testo di
partenza, ma anche il modo in cui è probabile che i ricettori desi-
gnati di un testo lo comprendano nella lingua ricevente» (Nida e
de Waard 1986, pp. VII-VIII; 9). Secondo Nida l’accuratezza della
traduzione dipende dalla capacità di generare un effetto equivalen-
te nella cultura della lingua d’arrivo: «I riceventi di una traduzione
dovrebbero comprendere il testo tradotto fino al punto di poter
capire il modo in cui i riceventi originali devono aver compreso il
testo originale» (ivi, p. 36). La traduzione equivalente in senso
dinamico è una “comunicazione interlinguistica” che supera le dif-
ferenze linguistiche e culturali che le si oppongono (ivi, p. 11).
Eppure la comprensione del testo e della cultura stranieri che que-
sto tipo di traduzione rende possibile risponde fondamentalmente
ai valori culturali della lingua d’arrivo, celando l’addomesticamen-
to della trasparenza evocata da una strategia di scorrevolezza. La
comunicazione è, qui, avviata e controllata dalla cultura della lin-
gua d’arrivo e consiste, in effetti, in un’interpretazione interessata,
apparendo dunque più come l’appropriazione di un testo straniero
per scopi nazionali che uno scambio d’informazioni. La teoria
della traduzione di Nida come comunicazione non prende in ade-
guata considerazione la violenza etnocentrica relativa a qualsiasi
processo di traduzione, ma soprattutto a quello guidato dall’equi-
valenza dinamica.
La difesa di Nida della traduzione addomesticante si basa espli-
citamente sul concetto trascendente di umanità intesa come essen-
za che rimane immutata nel tempo e nello spazio. «Come hanno
scoperto linguisti e antropologi – afferma Nida – ciò che unisce il
genere umano è più vasto di ciò che lo divide, quindi esiste, anche
nei casi di lingue e culture molto diverse, una base per la comuni-
cazione» (Nida 1964, p. 2). L’umanesimo di Nida può sembrare
democratico nel suo richiamo a «ciò che unisce il genere umano»
ma questa asserzione viene contraddetta dai valori più esclusivisti-
ci che informano la sua teoria della traduzione, in particolare l’e-
vangelismo cristiano e la ricerca di un’élite culturale. Fin dall’ini-

47
zio della sua carriera, il lavoro di Nida è stato motivato dalle esi-
genze di traduzione della Bibbia: non solo i problemi incontrati
nella storia della traduzione della Bibbia gli sono spesso serviti da
esempio per le affermazioni teoriche, ma anche i suoi studi di lin-
guistica e antropologia sono stati indirizzati in primo luogo a tra-
duttori della Bibbia e a missionari. Il concetto di Nida di equiva-
lenza dinamica, in effetti, lega il traduttore al missionario.
Affermando, in Customs and Cultures: Anthropology for Christian
Missions (1954), che «un esame attento del lavoro missionario ben
fatto rivela inevitabilmente la corrispettiva efficacia del modo in
cui i missionari erano capaci di identificarsi con la gente – “essere
qualunque cosa per ogni uomo” – e di comunicare il loro messag-
gio in termini significativi per la vita della gente» (Nida 1975, p.
250), egli ripeteva ciò che aveva affermato in precedenza, riguardo
al traduttore della Bibbia, in God’s Word in Man’s Language
(1952): «Il compito del vero traduttore è quello dell’identificazio-
ne. In quanto servo cristiano deve identificarsi con Cristo; in quan-
to traduttore deve identificarsi con il Verbo; in quanto missionario
deve identificarsi con la gente» (Nida 1952, p. 117). Sia il missio-
nario che il traduttore devono trovare l’equivalente dinamico nella
lingua d’arrivo per determinare l’attinenza della Bibbia con la cul-
tura d’arrivo. Ma Nida concede che venga determinato un solo tipo
di attinenza. Se da una parte disapprova «la tendenza a promuove-
re, attraverso la traduzione della Bibbia, la causa di un particolare
punto di vista teologico, che sia deistico, razionalistico, battesima-
le, millenaristico o carismatico» (Nida e de Waard 1986, p. 33), è
vero dall’altra che egli stesso ha promosso la ricezione del testo
incentrata sul dogma cristiano. Sebbene offra inoltre un resoconto
sfumato di come «le diversità nel bagaglio culturale dei riceventi»
possano modellare la traduzione della Bibbia, insiste nell’afferma-
re che «le traduzioni approntate principalmente per le minoranze
devono, in generale, impiegare forme linguistiche estremamente
restrittive, ma devono impiegare anche una grammatica di livello
inferiore alla media o un vocabolario popolare» (ivi, p. 14). Il con-
cetto di equivalenza dinamica formulato da Nida per la traduzione
della Bibbia va di pari passo con uno zelo evangelico che tenta di
imporre ai lettori di lingua inglese uno specifico idioma inglese
così come un’interpretazione chiaramente cristiana della Bibbia.
Quando il traduttore di Nida, per comunicare il testo straniero, si

48
identifica con il lettore della lingua d’arrivo contemporaneamente
esclude altre rappresentanze culturali della stessa lingua d’arrivo.
Difendere la traduzione estraniante in opposizione alla tradizio-
ne angloamericana dell’addomesticamento non vuol dire sbaraz-
zarsi degli argomenti politico-culturali di discussione: tale difesa
sarebbe di per sé un argomento. Si tratta piuttosto di sviluppare
una teoria e una pratica della traduzione che resistano ai valori cul-
turali predominanti nella lingua d’arrivo in modo da rendere signi-
ficativa la differenza linguistica e culturale del testo straniero.
L’idea di “fedeltà abusiva” di Philip Lewis può risultare utile in
una teorizzazione di questo tipo: riconosce la relazione equivoca,
abusiva tra traduzione e testo straniero e traccia una strategia di
scorrevolezza per riprodurre nella traduzione tutte quelle caratteri-
stiche del testo straniero che mal si adeguano o resistono ai valori
culturali predominanti nella lingua di partenza. La fedeltà abusiva
guida l’attenzione del traduttore lontano dal significato concettuale
e verso il gioco dei significanti su cui è fondato, verso le strutture
fonologiche, sintattiche e discorsive che risultano da una «tradu-
zione che tiene in grande considerazione lo sperimentalismo, cor-
rompe l’uso comune, cerca di eguagliare la polivalenza, la plurivo-
cità o l’enfasi espressiva dell’originale producendo le proprie»
(Lewis 1985, p. 41). Una simile strategia di traduzione può essere
meglio definita come resistenza, non solo perché evita la scorrevo-
lezza, ma perché sfida la cultura della lingua d’arrivo fino a mette-
re in atto la propria violenza etnocentrica sul testo straniero.
Il concetto di pratica estraniante può alterare nella traduzione sia
le modalità della lettura che quelle della produzione, dal momento
che assume un’idea di soggettività umana molto diversa dai presup-
posti umanistici che sono alla base del processo addomesticante.
Né lo scrittore straniero né il traduttore vengono concepiti come
origine trascendente del testo nell’atto di esprimere liberamente
un’idea sulla natura umana o di comunicarla in un linguaggio tra-
sparente per un lettore appartenente a una diversa cultura. La sog-
gettività è costituita invece da determinazioni sociali e culturali non
solo diversificate ma perfino conflittuali, che mediano ogni uso del
linguaggio e che variano a seconda della formazione culturale e del
momento storico. L’azione umana è intenzionale ma determinata,
misurata in senso autoriflessivo in contrasto alle regole e alle risor-
se sociali, la cui eterogeneità permette la possibilità di un cambia-

49
mento tramite ogni azione autoriflessiva (Giddens 1979, cap. 2). La
produzione testuale può essere avviata e guidata dall’agente, ma
mette in opera vari materiali linguistici e culturali che rendono il
testo discontinuo, nonostante qualsiasi apparenza di unità, dando
luogo a un inconscio, a un insieme di condizioni non riconoscibili
che sono di natura sia personale che sociale, sia psicologica che
ideologica. Il traduttore consulta in tal modo una gran quantità di
materiali culturali della lingua d’arrivo, spaziando da vocabolari e
grammatiche a testi, strategie discorsive e traduzioni, fino a valori,
paradigmi e ideologie tanto canonici quanto marginali. Per quanto
la consultazione da parte del traduttore di questi materiali sia fina-
lizzata a riprodurre il testo della lingua di partenza, inevitabilmente
tale consultazione tende a ridurre e integrare l’azione della tradu-
zione, perfino quando il traduttore rivolge la sua attenzione anche
verso materiali culturali della lingua di partenza. L’essenziale etero-
geneità di questi ultimi porta a delle discontinuità – tra il testo in
lingua di partenza e la traduzione, e all’interno della traduzione
stessa – sintomatiche della violenza etnocentrica della traduzione.
Un approccio umanistico alla lettura delle traduzioni può elidere
tali discontinuità individuando un’unità semantica adeguata al testo
straniero, che dia estrema importanza all’intelligibilità, alla comu-
nicazione trasparente e al valore d’impiego della traduzione nella
cultura della lingua d’arrivo. Una lettura sintomatica, per contro,
colloca le discontinuità a livello dello stile, della sintassi o del
discorso, rivelando la traduzione come una riscrittura violenta del
testo straniero, un intervento strategico nella cultura della lingua
d’arrivo, dipendente dai valori propri di quella cultura ma allo stes-
so tempo “abusiva” nei loro confronti.
Le traduzioni dei testi di Freud per la Standard Edition of the
Complete Psychological Works of Sigmund Freud possono costi-
tuire un esempio di tale lettura sintomatica, anche se queste stesse
traduzioni acquistarono un’autorevolezza talmente inattaccabile da
dover attendere le critiche di Bruno Bettelheim perché fosse possi-
bile rendersi conto delle discontinuità presenti in esse. L’osser-
vazione formulata da Bettelheim consiste nel fatto che le traduzio-
ni delle opere di Freud fanno sì che «gli appelli di Freud alla
nostra comune umanità, [...] appaiano a quanti li leggono in ingle-
se come una serie di interventi astratti, impersonali, tutti teorici,
eruditi e meccanici – insomma “scientifici” – sullo strano e com-

50
plicato funzionamento della nostra mente» (Bettelheim 1983, p.
19). Bettelheim sembra presumere che sia necessario un esame
attento del tedesco usato da Freud per scoprire la strategia scienti-
fica del traduttore, ma la sua posizione potrebbe essere facilmente
sostenuta da una semplice lettura approfondita del testo inglese.
Bettelheim argomenta, infatti, che nella traduzione inglese della
Psicopatologia della vita quotidiana (trad. inglese 1960), il termi-
ne “parapraxis” riveli lo scientismo della traduzione perché impie-
gato per rendere un vocabolo tedesco piuttosto semplice,
Fehlleistungen, che lo stesso Bettehleim suggerisce di tradurre in
inglese con «faulty achievement» («atti mancati») (Bettelheim
1983, p. 108). Tuttavia, la strategia del traduttore può essere intra-
vista anche attraverso alcune peculiarità di stile del testo tradotto:

I now return to the forgetting of names. So far we have not


exhaustively considered either the case-material or the motives
behind it. As this is exactly the kind of parapraxis that I can
from time to time observe abundantly in myself, I am at no loss
for examples. The mild attacks of migraine from which I still
suffer usually announce themselves hours in advance by my
forgetting names, and at the height of these attacks, during
which I am not forced to abandon my work, it frequently hap-
pens that all proper names go out of my head15.

Lo stile di gran parte di questo brano è talmente semplice e


comune («dimenticanza»), addirittura colloquiale («ho spesso
amnesia»), che «parapraxis» rappresenta una differenza cospicua,
una tale incoerenza nella scelta semantica da mettere in mostra il
processo di traduzione. L’incoerenza è sottolineata non solo dal
grande sostegno trovato da Freud nell’aneddotica, negli esempi

15 Freud 1960, p. 21: «Mi rivolgo ora di nuovo alla dimenticanza di nomi,

non avendone finora considerato esaurientemente né la casistica né i motivi.


Gli esempi non mi mancano, poiché di quando in quando io sono in grado di
osservare abbondantemente su me stesso proprio questo tipo di atto mancato.
Le lievi emicranie di cui ancora soffro sogliono preannunciarsi, ore prima,
con dimenticanze di nomi, e al culmine dell’indisposizione, che tuttavia non
mi obbliga a interrompere il lavoro, ho spesso amnesia di tutti i nomi propri»
(Freud 1901, trad. it. 1970, p. 74). [N.d.T.]

51
tratti «dal quotidiano» – alcuni, come sopra, estrapolati dall’espe-
rienza personale –, ma anche dalla nota da lui aggiunta a un’edi-
zione successiva del testo tedesco e inclusa nella traduzione ingle-
se: «Il presente scritto ha carattere divulgativo; intende soltanto
spianare, mediante una raccolta di esempi, la via alla necessaria
ammissione di processi psichici inconsci eppure reali ed evita tutte
le considerazioni teoriche circa la natura di questo inconscio»
(Freud 1901, trad. it. 1970, p. 291). Lo stesso James Strachey
richiamava inavvertitamente l’attenzione sull’incoerenza di stile
nella sua prefazione alla traduzione di Alan Tyson, in cui sentiva la
necessità di fornire un fondamento logico all’uso del termine
“parapraxis”: «In tedesco “Fehlleistung”, “funzione imperfetta”. È
un fatto curioso che prima che Freud scrivesse questo libro sembra
che il concetto generale non esistesse in psicologia, e in inglese si
è dovuto inventare una nuova parola per definirlo» (Freud 1960, p.
VIII). Naturalmente si può obiettare (a Bettelheim) che la mesco-
lanza di termini scientifici specialistici e di linguaggio comune è
una caratteristica del tedesco di Freud, e perciò obiettare (a me)
che la traduzione inglese in se stessa non può essere la base per
una valutazione della strategia del traduttore. Tuttavia, sebbene mi
trovi sostanzialmente d’accordo con il primo punto, il secondo si
fa più debole quando ci rendiamo conto che anche un confronto tra
differenti versioni inglesi dei termini centrali freudiani dimostra
facilmente l’incoerenza di stile che ho rintracciato nel brano tra-
dotto: “id” contro “unconscious”; “cathexis” contro “charge” o
“energy”; “libidinal” contro “sexual”.
Bettelheim indica alcune delle determinazioni che hanno
modellato la strategia di traduzione scientifica della Standard
Edition. Una considerazione importante riguarda la corrente intel-
lettuale che ha dominato la psicologia e la filosofia angloamerica-
ne fin dal XVIII secolo: «In teoria, a molti degli argomenti elabo-
rati da Freud ci si può accostare sia in una prospettiva ermeneuti-
co-spirituale sia in una prospettiva positivistico-pragmatica. Di
fronte a un’alternativa del genere, il traduttore inglese si deciderà
quasi sempre per la seconda soluzione, dal momento che la tradi-
zione filosofica inglese è in gran parte di marca positivista»
(Bettelheim 1983, p. 64). Ma ci sono anche le istituzioni sociali al
cui interno si trincerò questa tradizione e contro le quali la psicoa-
nalisi dovette lottare per essere accettata nel periodo successivo

52
alla Seconda Guerra Mondiale. Come afferma concisamente
Bettelheim, «la ricerca e l’insegnamento [della psicologia] nelle
università americane seguono un orientamento comportamentisti-
co, cognitivistico o fisiologico, e si occupano in modo pressoché
esclusivo di ciò che può essere osservato e misurato dall’esterno»
(ivi, p. 37). Per la psicoanalisi ciò significava che la sua assimila-
zione da parte della cultura angloamericana comportava una ridefi-
nizione, in base alla quale «venne intesa negli Stati Uniti come
un’attività da riservare ai medici» (ivi, p. 53), «una branca della
medicina» (ivi, p. 55). Tale ridefinizione venne introdotta in molte
pratiche sociali, in cui erano incluse non solo la legislazione di
commissioni statali e la certificazione della professione psicoanali-
tica, ma anche la traduzione scientifica della Standard Edition:

Se Freud sembra più astruso e dogmatico nella versione inglese


di quanto non sia nell’originale tedesco, se sembra parlare più
di concetti astratti che del lettore stesso, più della mente che
dell’anima umana, è probabile che la spiegazione di ciò non sia
tanto da cercare nella malizia o nella negligenza dei traduttori,
quanto nel dichiarato desiderio preciso di accostarsi a Freud
attraverso la griglia della medicina.
(ivi, p. 52)

Il metodo addomesticante utilizzato nelle traduzioni della


Standard Edition cercava di assimilare l’opera di Freud al predo-
minio positivistico presente nella cultura angloamericana in modo
da facilitare l’istituzionalizzazione della psicoanalisi nell’ambito
della professione medica e della psicologia accademica.
Il libro di Bettelheim è scritto senza dubbio in chiave molto cri-
tica ma, volendo comprendere il complesso significato – come tra-
duzione – della Standard Edition, dovremo evitare (o forse ripen-
sare) il suo giudizio negativo. Bettelheim considera il lavoro di
Strachey e dei suoi collaboratori uno stravolgimento e un tradi-
mento dell’«umanesimo essenziale» di Freud, secondo un punto di
vista che tende alla valorizzazione dell’idea di soggetto trascen-
dente sia in Bettelheim che in Freud. Il giudizio di Bettelheim sul
progetto psicanalitico è affermato dalla sua versione umanistica
dell’“ego”, “id” e “superego” della Standard Edition : «Un ragio-
nevole dominio dell’Es e del Super-Io da parte dell’Io – è questa la

53
meta che Freud ha indicato a tutti noi» (Bettelheim 1983, p. 134).
Quest’idea del predominio dell’ego concepisce il soggetto come
una fonte potenzialmente coerente della propria conoscenza e delle
proprie azioni, non divisa eternamente da determinazioni psicolo-
giche (“id”) e sociali (“superego”) sulle quali non ha alcun control-
lo, o ne ha uno molto limitato. Lo stesso presupposto può essere
colto spesso nella versione tedesca dell’opera di Freud: non solo
nell’enfasi posta sulla correzione sociale, per esempio, come acca-
de con il concetto di “principio di realtà”, ma anche nell’uso ripe-
tuto della propria esperienza per l’analisi; entrambe rappresentano
il soggetto nel risanamento dalla scissione determinata nella sua
coscienza. Tuttavia, per quanto i diversi modelli psichici di Freud
teorizzassero le onnipresenti e contraddittorie determinazioni della
coscienza, l’effetto del suo lavoro fu quello di decentrare il sogget-
to, di rimuoverlo da un dominio trascendente di libertà e unità per
considerarlo come il prodotto determinato dalle forze psichiche e
familiari al di là del suo controllo cosciente. Questi concetti con-
flittuali di soggetto sono alla base di vari aspetti del progetto di
Freud: da un lato, il soggetto trascendente induce a una definizione
della psicoanalisi come essenzialmente terapeutica, ciò che
Bettelheim chiama un «viaggio alla scoperta di noi stessi, pur dif-
ficile e non privo di pericoli, [che] può portarci a divenire più
umani, più pienamente umani, evitandoci di rimanere più a lungo
inconsapevoli vittime delle oscure forze che si agitano in noi» (ivi,
p. 18); dall’altro lato, il soggetto determinato induce alla definizio-
ne della psicoanalisi come principalmente ermeneutica, come un
apparato teoretico dotato di rigore scientifico sufficiente per ana-
lizzare le forze mutevoli, ma sempre attive, che costituiscono e
dividono la soggettività umana. I testi di Freud sono, dunque,
caratterizzati da una discontinuità fondamentale che viene “risolta”
nella rappresentazione umanistica di Bettelheim della psicoanalisi
come terapia compassionevole, ma che viene inasprita dalla strate-
gia scientista delle traduzioni inglesi e delle loro rappresentazioni
di Freud come medico generico che analizza freddamente16. Lo

16La stessa contraddizione appare nelle riflessioni di Freud sul dilemma


terapeutico/ermeneutico della psicoanalisi in Al di là del principio del piacere
(1920): «Venticinque anni di lavoro intenso hanno fatto sì che i fini immedia-
ti della tecnica psicoanalitica siano oggi completamente diversi da quelli ini-

54
stile incoerente della Standard Edition, nel riflettere la ridefinizio-
ne positivistica della psicoanalisi fornita dalle istituzioni angloa-
mericane, mostra una lettura diversa e alternativa di Freud che
mette in risalto le contraddizioni del suo progetto.
Si può dunque affermare che l’incoerenza di stile delle tradu-
zioni inglesi non meriti, in effetti, di essere giudicata erronea; al
contrario, essa svela scelte interpretative determinate da una vasta
gamma di istituzioni sociali e di movimenti culturali, di alcuni dei
quali (come l’istituzionalizzazione specifica della psicoanalisi) i
ziali. Dapprima il medico analista non poteva proporsi altro scopo se non
quello di scoprire i contenuti inconsci ignoti al malato per raccoglierli e
comunicarglieli al momento giusto. La psicoanalisi era soprattutto un’arte
dell’interpretazione. Poiché con ciò non veniva risolto il problema terapeuti-
co, ben presto la psicoanalisi si propose uno scopo ulteriore: obbligare il
malato a confermare la costruzione dell’analista con i suoi stessi ricordi. In
questo tentativo l’accento principale cadde sulle resistenze del malato; ora
l’abilità del medico consisteva nel mettere allo scoperto, il più presto possibi-
le, queste resistenze, nell’indicarle al malato e, avvalendosi della propria per-
sonale esperienza, nell’indurlo ad abbandonarle (a questo punto entrava in
scena la suggestione, sotto forma di “traslazione”)» (Freud 1920, trad. it.
1977, p. 204).
Sebbene Freud intenda tracciare una distinzione netta nello sviluppo della
psicoanalisi tra una prima fase ermeneutica e una successiva, terapeutica, la
sua esposizione offusca, in realtà, tale distinzione: entrambe le fasi richiedo-
no un’attenzione primaria all’interpretazione dei “contenuti inconsci” oppure
delle “resistenze del malato” che, richiedendo una messa “allo scoperto”,
sono ugualmente “inconsce”; in entrambi i casi si può dire che “la costruzio-
ne dell’analista” venga prima di tutto. Ciò che è cambiato non sono tanto “i
fini immediati della tecnica psicoanalitica”, quanto il suo apparato teorico:
nel frattempo si è visto lo sviluppo di un nuovo concetto interpretativo: la
“traslazione”. Inoltre, la caratterizzazione di Freud della psicoanalisi come
essenzialmente terapeutica si ritrova in un testo successivo, uno dei suoi più
teorici e speculativi. Il concetto di psicoanalisi di Bettelheim, origine del suo
rifiuto della Standard Edition, appiana le discontinuità presenti nei testi e nel
progetto di Freud ricorrendo a uno schema di sviluppo (come nello stesso
Freud): «Le traduzioni inglesi sono perfettamente adeguate alle prime fasi del
pensiero di Freud, che negli anni giovanili aveva come punto di riferimento
la scienza e la medicina, ma non al Freud più maturo, orientato verso una
concezione umanistica e interessato piuttosto a problemi di ampia portata
culturale e umana, nonché all’anima in tutti i suoi aspetti» (Bettelheim 1983,
p. 52).

55
traduttori erano a conoscenza, mentre di altri (come il dominio del
positivismo e le discontinuità nei testi di Freud) o lo erano vaga-
mente o ne rimanevano assolutamente inconsapevoli durante il
processo di traduzione. Il fatto che tali incoerenze siano rimaste
così a lungo inosservate è forse dovuto a due fattori reciprocamen-
te determinanti: lo status privilegiato accordato alla Standard
Edition dai lettori di lingua inglese e il trincerarsi dell’establish-
ment psicoanalitico angloamericano in una lettura positivistica di
Freud. Diviene in tal modo necessario, per percepire l’incoerenza
di stile delle traduzioni, un approccio critico diverso, con una serie
di differenti presupposti: l’umanesimo particolare di Bettelheim, o
il mio stesso tentativo di fondare una lettura sintomatica dei testi
tradotti su un metodo di traduzione estraniante che presuppone una
determinata idea di soggettività. Si può dire che questo tipo di let-
tura renda estraniante una traduzione addomesticante mostrando i
punti in cui è discontinua: la dipendenza di una traduzione dai
valori dominanti nella cultura della lingua d’arrivo diventa estre-
mamente visibile proprio lì dove se ne allontana. Questa lettura,
tuttavia, svela anche l’implicito movimento addomesticante di
ogni traduzione estraniante mostrando i punti in cui la costruzione
dell’elemento straniero dipende da materiali culturali appartenenti
alla lingua d’arrivo.
La lettura sintomatica può essere quindi utile a demistificare
l’illusione di trasparenza nella traduzione contemporanea in lingua
inglese. In alcune traduzioni le discontinuità risultano subito evi-
denti e disturbano involontariamente la scorrevolezza della lingua,
rivelando l’inserimento della cultura d’arrivo; altre traduzioni sono
fornite di prefazioni in cui si anticipa la strategia del traduttore e si
avverte il lettore della presenza di rilevanti peculiarità stilistiche.
Un esempio ci è fornito a questo proposito dalla versione della
Vita dei Cesari di Svetonio realizzata da Robert Graves. La prefa-
zione di Graves offre un sincero resoconto del suo metodo di tra-
duzione addomesticante:

Per i lettori inglesi le frasi di Svetonio, e a volte interi periodi,


devono essere completamente capovolti. Lì dove i suoi riferi-
menti sono incomprensibili a chiunque non abbia una buona
conoscenza della scena romana ho introdotto nel testo qualche
parola di spiegazione che normalmente sarebbe dovuta apparire

56
in nota. Le date dell’epoca pagana sono state trasformate ovun-
que in date dell’epoca cristiana; sono stati usati i nomi moderni
delle città ogni volta che potevano risultare più familiari al let-
tore comune rispetto a quelli classici; infine le somme di sester-
zi sono state ridotte a monete d’oro, con un rapporto di 100 per
ogni moneta d’oro (da 20 denari), simile a una sovrana inglese.
(Graves 1957, p. 8)

La vigorosa revisione del testo straniero operata da Graves


tende ad assimilare la cultura della lingua di partenza (la Roma
imperiale) a quella della lingua d’arrivo (il Regno Unito nel 1957).
Il lavoro di assimilazione dipende non solo dalla sua profonda
conoscenza di Svetonio e della cultura romana all’epoca dell’Im-
pero (come, ad esempio, il sistema monetario), ma anche dalla
conoscenza della cultura britannica contemporanea nella sua mani-
festazione delle forme sintattiche inglesi e in quella che egli ritiene
debba essere la funzione della traduzione. La sua “versione”, come
scriveva nella prefazione, non era intesa a servire da “bignamino
scolastico” ma ad essere leggibile: «Una resa letterale sarebbe
stata quasi illeggibile» (ivi, p. 8) perché troppo prossima al testo
latino o perfino all’ordine in cui comparivano le parole originali.
Graves cercò di rendere la sua traduzione estremamente scor-
revole ed è importante notare che questa scelta era tanto intenzio-
nale quanto culturalmente specifica, determinata dai valori della
lingua inglese contemporanea, non essendo inoltre, in nessun
modo, una scelta assoluta o fondamentale cui Graves avesse dato
origine. Al contrario, l’intero processo di traduzione, a cominciare
proprio dalla scelta del testo, inclusi sia gli apporti testuali di
Graves che la decisione di pubblicare la traduzione in edizione
economica, fu condizionato da fattori quali il declinare dello stu-
dio delle lingue classiche tra i lettori colti, l’assenza sul mercato
di un’altra traduzione e la notevole popolarità di cui godevano i
romanzi che lo stesso Graves aveva scritto rifacendosi a storici
romani come Svetonio: Io, Claudio e Il divo Claudio, entrambi
costantemente ripubblicati a partire dal 1934. La versione di
Graves de Le vite dei Cesari apparve nell’edizione dei “Penguin
Classics”, una sigla editoriale del mercato di massa ideata per stu-
denti e lettori generici.
Come ha osservato J.M. Cohen, le traduzioni dei Penguin

57
Classics facevano da battistrada nel loro impiego del discorso tra-
sparente, dell’“uniformità della prosa piana”, in larga misura come
risposta a certe condizioni sociali e culturali:

Il traduttore [...] mira a rendere tutto chiaro, ma senza l’uso


delle note, dal momento che le condizioni di lettura sono cam-
biate radicalmente e i giovani di oggi leggono in ambienti
molto meno confortevoli rispetto ai loro padri o nonni. Essi
devono perciò fare i conti con un flusso irresistibile di narrati-
va. Ben poco si può esigere da loro, se non l’attenzione.
Conoscenza, termini di paragone, bagaglio culturale classico:
tutto questo deve essere fornito dal traduttore attraverso la sua
scelta dei vocaboli o nella più breve delle introduzioni.
(Cohen 1962, p. 33)

La versione di Svetonio fatta da Graves riflette la marginalità


culturale della formazione classica nel periodo successivo alla
Seconda Guerra Mondiale e la crescita di un mercato di massa per
una letteratura in edizione economica, inclusi quei romanzi storici
di successo con i quali si guadagnò da vivere a lungo. La sua tra-
duzione fu talmente efficace nel rispondere a questa situazione da
diventare anch’essa un bestseller, ristampato cinque volte nei dieci
anni successivi alla pubblicazione. Come scrisse Graves in un sag-
gio intitolato Moral Principles in Translation, il lettore “ordinario”
di un testo classico (fornendo l’esempio di Diodoro) «vuole solo
un’informazione fattuale, disposta in buon ordine perché sia facile
afferrarla con uno sguardo frettoloso» (Graves 1965, p. 51).
Nonostante Apuleio scrivesse in «un latino nordafricano molto ela-
borato», Graves lo tradusse «con la prosa più semplice possibile a
favore di un pubblico generico». Nel rendere il testo straniero
“semplice” Graves utilizza un metodo di traduzione radicalmente
addomesticante: esso richiede non solo l’inserimento di frasi espli-
cative, ma anche l’iscrizione nel testo straniero di valori anacroni-
stici ed etnocentrici. Nella prefazione al suo Svetonio, Graves
chiariva di aver intenzionalmente modernizzato e anglicizzato il
latino. A un certo punto egli considerò l’idea di aggiungere un sag-
gio introduttivo che segnalasse la differenza culturale e storica del
testo descrivendo i conflitti politici centrali nella tarda Roma
repubblicana, ma infine lo omise. Affermando che «la maggior

58
parte dei lettori preferirà forse immergersi direttamente nella storia
e coglierne le fila man mano che procede nella lettura» (Graves
1957, p. 8), Graves permetteva alla sua prosa scorrevole di diven-
tare trasparente e di occultare in tal modo l’operazione addomesti-
cante della traduzione.
Quest’operazione può essere intravista nelle discontinuità tra il
discorso della traduzione di Graves e il particolare metodo di nar-
razione storico-biografica di Svetonio. La lettura di Svetonio fatta
da Graves, come accennava nella sua prefazione, era decisamente
conforme alla ricezione accademica contemporanea del testo lati-
no. Come ha evidenziato il classicista Michael Grant, Svetonio

raccoglie e inserisce generosamente informazioni sia a favore


che contro [i governanti romani], di solito senza aggiungere un
giudizio personale nell’una o nell’altra direzione, e soprattutto
senza introdurre i moralismi che così di frequente hanno carat-
terizzato la storia e la biografia greca e romana. In qualche
occasione vengono prese in considerazione delle affermazioni
contraddittorie. In generale, tuttavia, la presentazione è fredda-
mente indiscriminata. [...] raramente è permessa l’intrusione
dell’opinione dell’autore, e in realtà egli stesso, nel raccogliere
tutto questo curioso e affascinante materiale, sembra non cerca-
re affatto di formulare un giudizio sulle personalità che descri-
ve o di ricostruire le loro caratteristiche in un racconto coeren-
te. Egli ritiene forse che le persone abbiano le stesse caratteri-
stiche: possiedono elementi discordanti che non ammontano a
nessuna armoniosa unità.
(Grant 1980, p. 8)

Il resoconto di Grant suggerisce che il testo latino non offre al


lettore una posizione coerente di soggettività da ricoprire, renden-
dolo incapace di identificarsi con l’autore («raramente è permessa
l’intrusione dell’opinione dell’autore») o con i personaggi (delle
«personalità» non viene dato «un racconto coerente»). Il risultato è
che la narrazione di Svetonio sembra possedere un «grado relativa-
mente alto di oggettività», pur contenendo brani che suscitano
considerevoli dubbi, soprattutto dal momento che «il suo stile
curiosamente sconnesso e frammentario può condurre a un’oscu-
rità di significato» (ivi, pp. 7-8). La traduzione scorrevole di

59
Graves appiana queste caratteristiche del testo latino assicurando
l’intelligibilità, costruendo una posizione più coerente dalla quale
poter giudicare i Cesari e facendo apparire vero, giusto e ovvio
ogni giudizio.
Prendiamo il brano seguente dalla vita di Giulio Cesare:

Stipendia prima in Asia fecit Marci Thermi praetoris contuber-


nio; a quo ad accersendam classem in Bithyniam missus, dese-
dit apud Nicomeden, non sine rumorem prostratae regi pudici-
tiae; quem rumorem auxit intra paucos rursus dies repetita
Bithynia per causam exigendae pecuniae, quae deberetur cui-
dam libertino clienti suo. Reliqua militia secundiore fama fuit
et a Thermo in expugnatione Mytilenarum corona civica dona-
tus est17.
(1-2)

Caesar first saw military service in Asia, where he went as


aide-de-camp to Marcus Thermus, the provincial governor.
When Thermus sent Caesar to raise a fleet in Bithynia, he
wasted so much time at King Nicomedes’ court that a homo-
sexual relationship between them was suspected, and suspicion
gave place to scandal when, soon after his return to headquar-
ters, he revisited Bithynia: ostensibly collecting a debt incurred
there by one of his freedmen. However, Caesar’s reputation
improved later in the campaign, when Thermus awarded him
the civic crown of oak leaves, at the storming of Mytilene, for
saving a fellow soldier’s life.
(Graves 1957, p. 10)

Entrambi i brani si fondano su un’allusione piuttosto che su un

17
«Militò da prima in Asia, camerata del pretore Marco Termo. Mandato
da questo in Bitinia per richiamare la flotta, dimorò presso Nicomede, al qual
re, come si vociferò, prostituì la propria pudicizia; e a tal voce egli diede
nuovo argomento col ritornare pochi giorni dopo in Bitinia col pretesto di
dover riscuotere denari dovuti a un liberto suo cliente. Miglior fama ebbe
durante il rimanente servizio militare, e nell’espugnazione di Mitilene fu da
Termo decorato con la corona civica» (Svetonio 1951, pp. 4-5, vol. I)
[N.d.T.].

60
giudizio esplicito, su una dubbia diceria piuttosto che su una prova
attendibile («rumorem», «suspicion»). Eppure il testo inglese pre-
senta varie aggiunte che forniscono una maggiore certezza rispetto
ai motivi e alle azioni di Cesare e al giudizio di Svetonio stesso: la
traduzione non è semplicemente sfavorevole a Cesare, ma rivela la
presenza di un’omofobia. Questo appare in primo luogo da una
certa incoerenza di stile: l’utilizzo da parte di Graves di «homo-
sexual relationship» per rendere «prostratae regi pudicitiae» («pro-
stituì la propria pudicizia») è un anacronismo: un termine scientifi-
co del tardo XIX secolo che diagnostica l’attività sessuale con
esponenti dello stesso sesso come patologica, e di conseguenza
inadeguato a una cultura antica in cui gli atti sessuali non erano
classificati in base al sesso di chi vi prendeva parte (Oxford
English Dictionary: OED; Wiseman 1985, pp. 10-14). Graves
induce dunque il lettore a credere che vi fu in realtà una relazione
tra loro: non solo accresce l’insinuazione traducendo con «suspi-
cion gave place to scandal» l’originale «rumorem auxit» («si voci-
ferò»), ma inserisce il subdolo «ostensibly» del tutto assente nel
testo latino. La versione di Graves stabilisce implicitamente un’e-
quazione tra omosessualità e perversione, ma trattandosi di una
relazione con un monarca straniero ci sono anche delle implicazio-
ni politiche, vale a dire l’insinuazione di una collusione fedifraga
che l’ambizioso Cesare avrebbe tenuto celata e che in seguito
avrebbe potuto sfruttare per tentare di raggiungere il potere: nel
brano immediatamente precedente a questo il dittatore Silla aveva
associato Cesare al suo acerrimo nemico Mario. Poiché questo
passo è così carico di accuse orrende, anche la forza conclusiva di
«however», che promette una riabilitazione dell’immagine di
Cesare, è infine sovvertita dal possibile suggerimento di un’altra
relazione sessuale presente nell’espressione «saving a fellow sol-
dier’s life»18.
Più avanti Svetonio tratta della reputazione sessuale di Cesare,
e anche qui la versione di Graves è caratterizzata dal pregiudizio
dell’omofobia:

18 Il testo originale parla solo dell’attribuzione di una «corona civica» che


veniva infatti concessa come decorazione militare a chi in battaglia salvava la
vita a un cittadino romano [N.d.T.].

61
Pudicitiae eius famam nihil quidem praeter Nicomedis contu-
bernium laesit19.
(49)

The only specific charge of unnatural practices ever brought


against him was that he had been King Nicomedes’ catamite.
(Graves 1957, p. 30)

Lì dove il testo latino si riferisce in modo piuttosto generico e


vago alla sessualità di Cesare, Graves sceglie parole inglesi che
stigmatizzano gli atti omosessuali come perversi: la questione sol-
levata sulla «pudicitiae eius famam» («la fama della sua pudici-
zia») diventa lo «specific charge of unnatural practices», mentre
«contubernium» (“il dividere la stessa tenda”, “cameratismo”,
“intimità”) fa di Cesare un «catamite», termine abusato all’inizio
del periodo moderno per indicare quei ragazzi che erano oggetto
sessuale degli uomini (OED). In quanto arcaismo, «catamite»
devia dal lessico dell’inglese moderno impiegato per questo e altri
Penguin Classics: una deviazione che è sintomatica del processo di
addomesticamento in atto nella versione di Graves. La sua prosa è
talmente lucida e flessibile che tali sintomi potrebbero passare
inosservati, autorizzando la traduzione a fornire un’interpretazione
nello stesso momento in cui presenta tale interpretazione come
autorevole, in quanto viene emessa dal ruolo dell’autore che tra-
scende le differenze culturali e linguistiche per rivolgersi al lettore
inglese. L’interpretazione di Graves, tuttavia, assimila un antico
testo latino a valori britannici contemporanei. Egli incrina il mito
di Cesare stabilendo un’equivalenza tra la dittatura romana e la
perversione sessuale, e riflettendo in tal modo quella paura dell’o-
mosessualità tipica del periodo postbellico che legava l’omoses-
sualità al timore del governo totalitario, del comunismo e della
sovversione politica attraverso lo spionaggio. «Durante la Guerra
Fredda – osserva Alan Sinfield – nei 15 anni che seguirono al
1939, le persecuzioni per “reati” omosessuali si quintuplicarono»,
mentre «il tradimento omosessuale comunista era oggetto di una

19
«Nulla offese la fama della sua pudicizia tranne l’intima familiarità
avuta con Nicomede» (Svetonio 1951, p. 45) [N.d.T.].

62
caccia alle streghe che veniva perpetrata fin quasi al cuore dell’e-
stablishment dell’alta cultura» (Sinfield 1989, pp. 66 e 299).
Svetonio tradotto scorrevolmente da Graves prendeva parte a que-
sta situazione nazionale, non solo stigmatizzando la sessualità di
Cesare ma anche presentando tale stigmatizzazione come fatto sto-
rico. Se nella prefazione Graves osservava che Svetonio «sembra
degno di fiducia» suggeriva anche, involontariamente, che questo
storico romano condivideva i valori politici e sessuali attualmente
dominanti in Gran Bretagna: «essendo il suo unico pregiudizio a
favore di un governo deciso ma mite, con un’attenzione alla
decenza umana» (Graves 1957, p. 7).
Le traduzioni estranianti che non sono trasparenti, che evitano
la scorrevolezza a favore di una mescolanza di discorsi più etero-
genea, sono altrettanto parziali nella loro interpretazione del testo
straniero ma tendono a sfoggiare la propria parzialità, invece di
occultarla. Mentre lo Svetonio di Graves si concentra sul significa-
to, creando un’illusione di trasparenza in cui le differenze lingui-
stiche e culturali vengono addomesticate, le traduzioni di Ezra
Pound spesso si concentrano sul significante, creando un’opacità
che richiama l’attenzione su di sé e differenzia la traduzione sia
dal testo straniero che dai valori prevalenti nella cultura della lin-
gua d’arrivo.
Nell’opera di Pound, la pratica estraniante prende a volte le
sembianze dell’arcaismo. La sua versione di The Seafarer (Il noc-
chiero) (1912) si allontana dall’inglese moderno per aderire mag-
giormente al testo anglosassone, imitandone le parole composte,
l’allitterazione e il metro accentuativo, ricorrendo perfino al calco
per rese che echeggiano la fonologia anglosassone: «bitre breost-
ceare»/«bitter breast-cares»; «merewerges»/«mere-weary»; «corna
caldast»/«corn of the coldest»; «floodwegas»/«floodways»; «hægl
scurum fleag»/«hail-scur flew»; «mæw singende fore medodrin-
ce»/«the mews singing all my mead-drink». Ma l’allontanamento
di Pound dall’inglese moderno include anche il ricorso ad arcaismi
attinti da periodi successivi della letteratura inglese:

ne ænig hleomæga
feasceaftig fero frefranmeahte.
Fordon him gelyfeo lyt, se de ah lifes wyn
gebiden in burgum, bealosida hwon,

63
wlonc ond wingal, hu ic werig oft
in brimlade bidan sceolde20.
(Krapp e Dobbie 1936, p. 144)

Not any protector


May make merry man faring needy.
This he littles believes, who aye in winsome life
Abides ’mid burghers some heavy business,
Wealthy and wine-flushed, how I weary oft
Must bide above brine21.
(Pound 1954, p. 207)

La parola «aye» (“vive”), che appartiene all’inglese medievale,


appare più tardi in idiomi scozzesi e settentrionali, mentre «bur-
ghers» (“borghesi”) emerge per la prima volta nel periodo elisabet-
tiano (OED). «Mid» (per “amid”, “tra”) e «bide» (“vegliare, aspet-
tare”) sono espressioni poetiche usate da scrittori del XIX secolo
quali Scott, Dickens, Tennyson, Arnold e Morris. Il lessico di
Pound favorisce infatti gli arcaismi divenuti di uso poetico:
«brine», «o’er», «pinion», «laud», «ado».
Tali caratteristiche testuali indicano che la traduzione può esse-
re estraniante solo utilizzando materiali e questioni nazionali, spe-
cifici della lingua d’arrivo, ma anche, come in questo caso, anacro-
nistici, specifici di periodi più tardi. Il nocchiero di Pound si nutre
della sua conoscenza della letteratura inglese fin dagli albori, ma
anche della sua poetica modernista, della preferenza, in particolar
modo nei Cantos, di un verso ellittico e frammentario in cui la
20The Seafarer appartiene alle origini della poesia inglese e consiste in
un’elegia drammatica scritta in anglosassone e contenuta nel Libro di Exeter
(Exeter’s Book). Forniamo qui di seguito la traduzione italiana di Roberto
Sanesi al fine di agevolare il lettore nel confronto con la traduzione di Pound:
«Nessun compagno.../ vicino a me poteva confortare/ l’anima desolata.
Veramente/ colui che vive in città una felice vita,/ colui che raramente ha sof-
ferto un dolore, orgoglioso/ e riscaldato dal vino, veramente/ è raro che com-
prenda quante volte/ io mi dovessi trattenere affranto sulle vie del mare»
(Sanesi 1966, p. 115) [N.d.T.].
21 «Non v’è patrono che possa/ Rallegrare chi naviga inope./ Non crederà

chi vive comodo/ Tra opulenti borghesi/ Pasciuti e rubicondi/ Alle mie lunghe
veglie amare» (Pound 19774, pp. 231-233) [N.d.T.].

64
soggettività è scissa e determinata, presentata come sede di un
discorso culturale eterogeneo (Easthope 1983, cap. 9). Le peculia-
rità della traduzione di Pound – la sintassi aspra, l’allitterazione
riverberante, l’arcaismo densamente allusivo – rallentano il movi-
mento monologante, resistendo all’assimilazione, per quanto
momentanea, a un soggetto coerente (sia questi “l’autore” o “il
nocchiero”), e ponendo in primo piano i vari idiomi inglesi e
discorsi letterari che vengono elisi dall’illusione di una voce par-
lante. Questa strategia di traduzione si configura dunque come
estraniante per la resistenza che oppone ai valori predominanti
nella cultura angloamericana contemporanea: il canone della scor-
revolezza nella traduzione, il predominio del discorso trasparente,
l’effetto individualistico della presenza dell’autore.
E tuttavia, ancora una volta, la traduzione di Pound imprime il
segno del proprio individualismo modernista nella stesura del testo
anglosassone. Come ha osservato la medievalista Christine Fell,
questo testo contiene «due tradizioni, quella eroica, se possiamo
così definirla, della preoccupazione per la sopravvivenza dell’ono-
re dopo la morte, e quella della speranza cristiana per la sicurezza
del raggiungimento del Paradiso» (Fell 1991, p. 176). In qualun-
que modo questi valori ambivalenti siano confluiti nel testo, da
qualche versione orale originaria o tramite una trascrizione mona-
stica successiva, essi proiettano due idee della soggettività in con-
traddizione fra loro: una individualistica (il nocchiero come perso-
na alienata dalla sala in cui si beve l’idromele e dalla città) e una
collettiva (il nocchiero come anima all’interno di una gerarchia
metafisica composta da altre anime e dominata da Dio). La tradu-
zione di Pound risolve tale contraddizione omettendo completa-
mente i riferimenti cristiani e dando risalto alla vena eroica del
testo anglosassone, facendo sì che la «mind’s lust», la «mente
vogliosa» (Pound 1977, p. 233) del marinaio «seek out foreign
fastness», «cerchi sicuri lidi stranieri» (ibidem) come esempio di
«daring ado/ So that all men shall honour him after» (le sue
gesta.../ Affinché poi tutti l’onorino) (ivi, p. 235). Come afferma
Susan Bassnett, la traduzione di Pound rappresenta «la sofferenza
di un grande personaggio piuttosto che la sofferenza comune di
ogni uomo [...] un esule colpito dal dolore, spezzato ma mai piega-
to» (Bassnett 1980, p. 87). La strategia della traduzione arcaizzan-
te interferisce con l’illusione individualistica della trasparenza, ma

65
le revisioni intensificano il tema dell’individualismo eroico con le
ricorrenti allusioni maligne al «burgher» che con compiacenza per-
segue i suoi interessi commerciali e «knows not/ [...] what some
perform/ Where wandering them widest draweth» (Pound 1954, p.
208), «[il] borghese non sa/ [...] Di cosa è capace/ Il ramingo
attratto oltre lo spazio» (Pound 1977, p. 233). Le revisioni sono
sintomatiche della problematica della cultura d’arrivo che anima la
traduzione estraniante di Pound: la peculiare contraddizione ideo-
logica che contraddistingue gli esperimenti letterari modernisti, in
cui lo sviluppo di strategie testuali che decentrano il soggetto tra-
scendente coincide con un recupero di esso attraverso alcune tema-
tiche individualistiche, ad esempio la “personalità forte”. In fin dei
conti, questa contraddizione costituisce una risposta alla crisi della
soggettività umana che i modernisti percepivano all’interno di svi-
luppi sociali quali il capitalismo di monopolio e, in particolare, la
creazione di una forza lavoro di massa e la standardizzazione del
processo lavorativo (Jameson 1979, pp. 110-114).
Gli esempi tratti da Graves e Pound mostrano che lo scopo di
una lettura sintomatica non è accertare la “libertà” o la “fedeltà” di
una traduzione, ma piuttosto scoprire i canoni di accuratezza attra-
verso i quali viene prodotta e giudicata. La fedeltà non può essere
costruita come mera equivalenza semantica: da un lato, il testo
straniero è suscettibile di molte interpretazioni diverse, anche a
livello del singolo vocabolo; dall’altro, le scelte interpretative del
traduttore rispondono alla situazione culturale della lingua d’arrivo
e quindi vanno sempre al di là del testo. Ciò non vuol dire che la
traduzione sia bandita eternamente dal regno della libertà o dell’er-
rore, ma che i canoni di accuratezza sono culturalmente specifici e
storicamente variabili. Sebbene Graves abbia fatto, per sua stessa
ammissione, una traduzione libera, questa è stata giudicata fedele e
la sua versione è stata riconosciuta da vari specialisti accademici,
fra cui Grant, come traduzione inglese standard. Nel 1979 Grant
curò una nuova edizione della traduzione di Graves definendola,
se non «precisa», esatta:

[La traduzione di Graves] trasmette le attitudini peculiari e il


personaggio di Svetonio meglio di ogni altra traduzione. Perché,
allora, mi è stato chiesto di farne una “riedizione”? Perché
Robert Graves (il quale si asteneva esplicitamente dall’avere

66
alcuna considerazione per gli studenti) non intendeva produrre
una traduzione precisa, introducendo, come egli stesso sottoli-
nea, frasi esplicative, omettendo quei brani che non sembrano
facilitare la comprensione, o «capovolgendo frasi e, a volte, per-
fino periodi interi». [...] Quello che ho tentato di fare, dunque,
consiste nell’apporto di correzioni tali da inserire la sua versione
nella sfera di quella che viene oggi generalmente considerata
una “traduzione” dai lettori dei Penguin Classics, senza, mi
auguro, nulla detrarre al suo stile eccellente e inimitabile.
(Grant 1980, pp. 8-9)

Nei ventidue anni che separavano la versione iniziale di Graves


dall’edizione riveduta, i canoni di accuratezza erano stati sottoposti
a un cambiamento tale da richiedere alla traduzione di essere sia
scorrevole che esatta, di assicurare «una lettura vivida e coinvol-
gente» (ivi, p. 8), ma anche di essere più aderente al testo straniero.
I brani citati in precedenza dalla vita di Cesare venivano evidente-
mente ancora considerati accurati nel 1979, dal momento che Grant
vi apportò una sola variante: «catamite» venne sostituito con «bed-
fellow» (ivi, p. 32). Questo cambiamento ha avvicinato l’inglese al
latino («contubernium»), ma ha anche migliorato la scorrevolezza
della prosa di Graves sostituendo un arcaismo con un termine con-
temporaneo dall’uso più familiare. La revisione era ovviamente
troppo ininfluente per minimizzare l’omofobia dei brani.
Anche la versione di Pound de Il nocchiero non può essere
messa semplicemente in discussione come troppo libera perché
permeata della ricezione erudita del testo anglosassone. Come ha
indicato Susan Bassnett, l’omissione dei riferimenti cristiani,
incluso l’epilogo omiletico (XI, 103-124), non costituisce tanto
una deviazione dal testo conservato nell’Exeter Book, quanto un
emendamento che risponde a una questione fondamentale del
sapere storico: «Bisognerebbe percepire il messaggio cristiano
quale caratteristica integrale della poesia oppure gli elementi cri-
stiani sono aggiunte che sussistono scomodamente su fondamenta
pagane?» (Bassnett 1980, p. 96). In English Literature from the
Beginning to the Norman Conquest, per esempio, Stopford Brooke
affermava che se pure «corrisponde a verità che Il nocchiero si
conclude con un’aggiunta cristiana, la qualità puramente omiletica
della sua versificazione ha fatto sì che persone competenti rinun-

67
ciassero a considerarla parte del componimento originale» (Brooke
1898, p. 153). La traduzione di Pound può essere considerata accu-
rata secondo i criteri accademici dell’inizio del XX secolo: è una
traduzione e allo stesso tempo un’edizione plausibile del testo
anglosassone. Il suo allontanamento dall’Exeter Book presuppone-
va una situazione culturale in cui l’anglosassone era ancora molto
studiato dai lettori, dai quali ci si poteva quindi aspettare che
apprezzassero il lavoro di ricostruzione storica implicito nella sua
versione del componimento.
La lettura sintomatica è un approccio storicistico allo studio
delle traduzioni che mira a collocare i canoni di accuratezza negli
specifici momenti culturali corrispondenti. Categorie critiche come
quelle di “scorrevolezza”, “resistenza”, traduzione “addomestican-
te” ed “estraniante” possono essere definite soltanto facendo riferi-
mento alla formazione del discorso culturale in cui viene prodotta
la traduzione e in cui alcune teorie e pratiche di traduzione vengo-
no valutate meglio di altre. Al tempo stesso, tuttavia, applicare
queste categorie critiche allo studio delle traduzioni è anacronisti-
co: esse sono fondamentalmente determinate dal contesto politico
culturale del presente, in opposizione al predominio contempora-
neo del discorso trasparente, al privilegio di cui gode un metodo di
scorrevolezza addomesticante che maschera sia il lavoro del tra-
duttore che i rapporti asimmetrici – culturali, economici e politici
– tra le nazioni di lingua inglese e gli altri di tutto il mondo.
Sebbene una teoria e una pratica umanistica della traduzione siano
altrettanto anacronistiche, inserendo nel testo straniero valori cor-
renti della cultura d’arrivo, sono anche destoricizzanti: le diverse
condizioni dei testi tradotti e della loro ricezione vengono celate
dai concetti di soggettività trascendente e di comunicazione traspa-
rente. Di contro, una lettura sintomatica è storicizzante: essa pre-
suppone un concetto di soggettività determinata che svela sia la
violenza etnocentrica dell’atto del tradurre che la natura interessata
del proprio approccio storicista.

III
Il progetto di questo libro è quello di combattere l’invisibilità
del traduttore mediante la storia della traduzione in lingua inglese

68
contemporanea e, allo stesso tempo, in opposizione a essa. Per
quanto si tratti di una storia culturale con un ordine del giorno
politico dichiarato, essa segue il metodo genealogico sviluppato da
Nietzsche e Foucault mediante il superamento di due principi che
governano gran parte della storiografia convenzionale: teleologia e
oggettività. La genealogia è una forma di rappresentazione storica
che traccia non una progressione continua da un’origine unitaria,
uno sviluppo inevitabile in cui il passato determina il significato
del presente, bensì una successione discontinua di divisione e
gerarchia, dominio ed esclusione, che destabilizza l’apparente
unità del presente costituendo un passato con significati plurimi ed
eterogenei. In un’analisi genealogica, scrive Foucault, «là dove le
cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’identità ancora
preservata della loro origine, – ma la discordia delle altre cose, il
disparato» (Foucault 1977, p. 32). La possibilità di recuperare que-
sti significati “altri” distrugge la pretesa di oggettività della storio-
grafia convenzionale: la sua enfasi teleologica tradisce una compli-
cità con il perdurare nel presente del predominio e dell’esclusione
passati. In questo modo la storia si mostra come una pratica di
politica culturale, come una rappresentazione parziale (ossia, selet-
tiva e al tempo stesso valutativa) del passato che interviene attiva-
mente nel presente, anche se gli interessi alla base di questo inter-
vento non sempre vengono resi espliciti o forse restano inconsci.
Per Foucault un’analisi genealogica è insostituibile, in quanto
svela la natura interessata della rappresentazione storica e prende
posizione nei confronti dei conflitti politici della sua situazione.
Un’analisi di questo tipo, individuando ciò che è stato dominato o
escluso nel passato e represso dalla storiografia convenzionale,
non solo può sfidare le condizioni sociali e culturali in cui viene
eseguita, ma può anche proporre di stabilire condizioni diverse per
il futuro. La storia, alla luce di un’analisi genealogica, suggerisce
Foucault, «deve essere la conoscenza differenziale delle energie e
dei cedimenti, delle sommità e dei crolli, dei veleni e degli antido-
ti. Deve essere la scienza dei rimedi» (ivi, p. 45). Costruendo una
rappresentazione differenziale del passato, la genealogia da un lato
si misura sui conflitti culturali e sociali contemporanei, dall’altro
elabora soluzioni che proiettano immagini utopiche.
L’invisibilità del traduttore interviene contro il ruolo e l’attività
del traduttore nella cultura angloamericana contemporanea offren-

69
do una serie di genealogie che tracciano la storia del presente. Il
libro delinea la nascita del discorso trasparente nella traduzione in
lingua inglese dal XVIII secolo in poi, mentre setaccia il passato
alla ricerca di scappatoie, teorie e pratiche alternative nella cultura
britannica, in quella americana e in quelle di altre lingue, tedesco,
francese e italiano22. I capitoli forniscono un’argomentazione orga-
nizzata secondo un ordine cronologico che mostra come le origini
della traduzione scorrevole si trovino in varie situazioni di domi-
nio e di esclusione culturale, ma anche come la traduzione possa
presentare una serie più democratica di questioni in cui le teorie e
le pratiche escluse vengano recuperate e la scorrevolezza predomi-
nante venga ripensata. I recuperi e le revisioni che costituiscono
questa trattazione si basano su un’ampia ricerca d’archivio che ha
portato alla luce traduzioni dimenticate o trascurate, stabilendo una
tradizione alternativa che in qualche modo si sovrappone, ma
soprattutto si differenzia, dal canone contemporaneo della lettera-
tura britannica e americana.
Questo libro è motivato da un forte impulso a documentare la
storia della traduzione in lingua inglese, a riscoprire i traduttori e
le traduzioni, troppo a lungo relegati nell’oscurità, a ricostruire il
percorso della loro pubblicazione e ricezione, e ad articolare con-
troversie significative. L’impulso documentario è funzionale allo
scetticismo delle letture sintomatiche che analizzano il processo di
addomesticamento presente nei testi tradotti, sia canonici che mar-
ginali, rivalutando la loro utilità nella cultura angloamericana con-
temporanea. Le narrazioni storiche di ciascun capitolo, basate su
una diagnosi della teoria e pratica della traduzione contemporanea,
trattano questioni chiave. Quali valori nazionali il discorso traspa-
rente ha iscritto e al tempo stesso mascherato nei testi stranieri
durante il suo lungo predominio? In che modo la trasparenza ha
dato forma al canone inglese delle letterature straniere e alle iden-
tità culturali delle nazioni anglofone? Perché la trasparenza ha pre-
valso su altre strategie di traduzione in inglese, quali l’arcaismo

22 Sebbene il discorso trasparente emerga nella traduzione inglese in

maniera più decisiva durante il XVII secolo, esso ha rappresentato una carat-
teristica dominante della teoria e pratica della traduzione occidentale sin dal-
l’antichità. Questo argomento è stato trattato secondo varie prospettive da
Berman 1985, Rener 1989 e Robinson 1991.

70
vittoriano (Francis Newman, William Morris) e gli esperimenti
modernisti sui discorsi eterogenei (Pound, Celia e Louis Zukofsky,
Paul Blackburn)? Che cosa accadrebbe se un traduttore provasse a
dare una nuova direzione al processo di addomesticamento sce-
gliendo dei testi stranieri che deviassero dal discorso trasparente e
traducendoli in modo da segnalare le loro differenze linguistiche e
culturali? Un tentativo simile determinerebbe scambi culturali più
democratici? Potrebbe cambiare i valori nazionali? Oppure equi-
varrebbe a un’emarginazione dalla cultura angloamericana?
L’accento principale dell’intero libro è posto sulla traduzione
“letteraria” intesa in senso lato (poesia e narrativa in primo luogo,
ma anche biografia, storia e filosofia, tra gli altri generi e discipli-
ne delle scienze umane) e in opposizione alla traduzione “tecnica”
(scientifica, legale, diplomatica, commerciale). Questa scelta non è
dovuta al fatto che i traduttori letterari siano oggi più invisibili o
maggiormente sfruttati dei loro corrispettivi tecnici ai quali, sia
che si tratti di traduttori autonomi che di impiegati in agenzie di
traduzione, non è permesso firmare il proprio lavoro o veder rico-
nosciuta la paternità letteraria, né tanto meno ricevere i diritti d’au-
tore (Fischbach 1992, p. 3). Viene piuttosto messa in rilievo la tra-
duzione letteraria perché ha determinato a lungo il modello appli-
cato alla traduzione tecnica (per esempio, la scorrevolezza) e, cosa
ancora più importante ai fini di questo lavoro, è stata la sede in cui
tradizionalmente sono emerse teorie e pratiche innovative. Come
già Schleiermacher aveva intuito molto tempo fa, la scelta di addo-
mesticare o straniare un’opera straniera è stata concessa solo ai tra-
duttori di testi letterari, non ai traduttori di testi dai contenuti tecni-
ci. La traduzione tecnica è fondamentalmente vincolata dalle esi-
genze della comunicazione: durante il periodo postbellico ha
sostenuto la ricerca scientifica, la negoziazione geopolitica e lo
scambio economico, soprattutto quando le società multinazionali
hanno cercato di espandere i mercati stranieri richiedendo perciò
traduzioni sempre più scorrevoli e facilmente intelligibili di trattati
internazionali, contratti legali, informazioni tecniche e manuali
d’istruzione (Levy 1991, p. 5). Nonostante il fatto che la traduzio-
ne tecnica, a livello di mero volume e di valore finanziario, ecceda
di molto la traduzione di testi letterari (una valutazione recente ha
stimato in dieci bilioni di dollari il valore dell’industria della tra-
duzione governativa e societaria), la traduzione letteraria rimane

71
una pratica discorsiva in cui il traduttore, vincolato principalmente
dalla situazione contemporanea presente nella cultura della lingua
d’arrivo, può realizzare la sua sperimentazione mediante la scelta
dei testi stranieri e lo sviluppo di metodi di traduzione.
Il fine ultimo di questo libro è quello di costringere i traduttori
e i loro lettori a riflettere sulla violenza etnocentrica della traduzio-
ne e di conseguenza stimolarli a scrivere e leggere i testi tradotti
secondo modalità che cerchino di riconoscere la differenza lingui-
stica e culturale dei testi stranieri. Ciò che sto difendendo non è
una valorizzazione indiscriminata di ogni cultura straniera o di un
concetto metafisico dell’identità straniera come valore essenziale;
in realtà il testo viene privilegiato dalla traduzione estraniante solo
fin dove rende possibile un’azione di disturbo nei confronti dei
codici culturali della lingua d’arrivo, in modo tale che il suo valo-
re, a seconda della situazione culturale in cui viene tradotto, sia
sempre strategico. La questione consiste piuttosto nell’elaborare i
mezzi teorici, critici e testuali attraverso i quali la traduzione può
essere studiata e praticata come locus della differenza, e non del-
l’omogeneità come accade oggi in gran parte dei casi.

72
Capitolo secondo
CANONE

Words in One Language Elegantly us’d


Will hardly in another be excus’d,
And some that Rome admir’d in Caesars Time
May neither suit Our Genius nor our Clime.
The Genuine Sence, intelligibly Told,
Shews a Translator both Discreet and Bold.
Conte di Roscommon

La scorrevolezza si afferma nelle traduzioni inglesi all’inizio


dell’era moderna come una caratteristica della cultura letteraria
aristocratica dell’Inghilterra del XVII secolo. In seguito, per oltre
due secoli sarà giudicata in base a ragioni diverse, culturali e
sociali, a seconda dell’alterna fortuna delle classi dominanti. Allo
stesso tempo, l’illusione della trasparenza prodotta dalla traduzio-
ne scorrevole opera un completo addomesticamento che maschera
le molteplici condizioni del testo tradotto e lo allontana con forza
dai valori culturali della cultura di partenza come anche da quelli
della cultura di arrivo, eliminando tutte le strategie traduttive che
resistevano al discorso della trasparenza ed escludendo qualsiasi
riflessione sulle alternative culturali e sociali che non favorisse le
élite della società inglese. Il predominio del principio della scorre-
volezza nelle traduzioni in lingua inglese porta ancora oggi a
dimenticare queste condizioni ed esclusioni, che devono essere
essere rianalizzate al fine di poter intervenire contro il suo predo-
minio attuale. Lo studio genealogico che segue mira a tracciare
l’emergere della scorrevolezza come canone della traduzione
inglese, mostrando in quale modo abbia raggiunto il suo status

73
canonico, esaminando l’esclusione come una sua conseguenza sul
canone delle letterature straniere tradotte in inglese e riconsideran-
do i valori sociali e culturali che essa esclude in patria.

I
Nel 1656 sir John Denham pubblicò una traduzione dal lungo
titolo, The Destruction of Troy, An Essay upon the Second Book of
Vergils Æneis. Written in the year, 1636 (La distruzione di Troia.
Saggio sul secondo libro dell’Eneide di Virgilio. Scritto nell’anno
1636). La copertina è una delle cose del libro che più attira l’atten-
zione: vi si omette qualsiasi segno della presenza dell’autore per
far risaltare invece il divario fra la data di composizione e quella di
pubblicazione. Molte traduzioni di testi classici degli inizi del
XVII secolo venivano pubblicate con la firma, se non del nome
completo (John Ashmore, John Ogilby, Robert Stapylton, John
Vicars) perlomeno delle iniziali e di qualche riferimento alla loro
posizione sociale (“Sir T.H.”, “W.L., Gent.”). L’omissione del
nome da parte di Denham può essere considerata lo schermirsi da
parte di un «cortese dilettante» che si presenta come qualcuno che
non prende seriamente la sua carriera di letterato e che non vuole
affermare alcun concetto individualistico di paternità letteraria (la
copertina presenta la traduzione come nient’altro che un “saggio”),
volendo con ciò sottintendere che il suo testo fosse il frutto delle
ore oziose non spese al servizio della corona, in impegni politici o
militari1. Il frontespizio presentava il testo di Denham come un
gesto tipicamente aristocratico della traduzione letteraria, caratteri-
stico della cultura di corte del periodo Tudor e Stuart, evidente
anche dall’indicazione editoriale, For Humphrey Moseley, uno
degli editori più attivi nel campo della letteratura aristocratica del
XVII secolo, nonché un fedele realista che manifestava pubblica-
mente le sue idee politiche nelle prefazioni alle sue pubblicazioni.
Una volta individuato il contesto sociale dell’opera di Denham, il
divario temporale indicato dalle date sulla copertina acquista signi-
ficato se si pensa alle sue attività in difesa della causa realista, sia

1 Per l’idea di Denham e Wroth come «cortesi dilettanti» (courtly ama-

teurs) faccio riferimento a Helgerson 1983.

74
per quanto riguarda il governo e l’esercito reale durante le guerre
civili, sia per ciò che concerne l’esilio della famiglia reale e della
corte nel corso dell’Interregno. Forse l’omissione del nome potreb-
be anche essere considerata come un tentativo di nascondere la sua
identità, precauzione presa dagli scrittori realisti che ritenevano le
loro opere troppo critiche nei riguardi del Commonwealth (Potter
1989, pp. 23-24).
La notazione «Scritto nel 1636» rivela un legame tra la tradu-
zione di Denham e gli anni in cui la poesia e il dramma di corte
costituivano le tendenze letterarie predominanti in Inghilterra,
quando l’esperimento assolutista di Carlo I raggiunse il suo apice e
quando Denham stesso, figlio ventenne del barone dell’Exchequer,
si stava preparando per la carriera legale al Lincoln Inn, dilettan-
dosi in passatempi letterari come la traduzione dell’Eneide. La
distruzione di Troia fu rivista e pubblicata da Denham molto più
tardi, nel 1656, subito dopo il ritorno da un lungo esilio in Francia
insieme alla corte di Carlo I e dopo essere stato arrestato nella
campagna del Commonwealth, destinata a sopprimere focolai rea-
listi, perché sospettato di complotto militare. Questo accadeva
appena un anno dopo la seconda edizione del testo per il quale egli
è ricordato oggi, Cooper’s Hill (La collina di Cooper) (1642), poe-
metto topografico che offre una rievocazione politicamente ten-
denziosa della storia inglese alla vigilia delle guerre civili
(O’Hehir 1968; Underdown 1960). In questo contesto la traduzio-
ne di Denham assume il ruolo di un’operazione politica e cultura-
le: «Scritto nel 1636», il testo tradotto funziona in parte come
sguardo nostalgico su un passato meno travagliato per l’egemonia
dei reali e in parte come mossa culturale strategica nel presente,
quando Denham decide di sviluppare un’estetica realista della tra-
duzione valida per allora e per il futuro, una volta riconquistata
l’egemonia. «La speranza di rendere [Virgilio] migliore – sostiene
Denham nella sua prefazione – è l’unico fine di questo saggio che
vuole divulgare un nuovo modo di tradurre questo autore fra colo-
ro che la giovinezza, l’agio e una sorte migliore rendono adatti a
tale impresa» (Denham 1656, p. A2V). Denham vedeva nel suo
pubblico la generazione futura dell’aristocrazia inglese che, diver-
samente da lui, avrebbe avuto una «sorte migliore» sfuggendo alle
avversità causate dalle guerre civili.
L’affiliazione aristocratica sarebbe stata percepita anche dai let-

75
tori a lui contemporanei, provenienti da classi diverse e di varie
tendenze politiche. La traduzione fu citata in «An Advertisement
of Books newly published» («Annuncio dei libri di nuova pubbli-
cazione») che apparse in Mercurius Politicus, il più diffuso setti-
manale autorizzato dal Parlamento per presentare un rapporto pro-
pagandistico sugli eventi contemporanei (Frank 1961, pp. 205-
210, 223-226). L’annuncio rivelava l’identità del traduttore e usava
il titolo di «Esquire», che indicava non solo la sua condizione di
gentiluomo, ma anche la sua istruzione giuridica: «The
Destruction of Troy; an Essay upon the Second Book of Virgils
Æneis. Written by JOHN DENHAM, Esquire» (Mercurius
Politicus, p. 6921).
La funzione sociale della traduzione di Denham diviene chiara
quando si considera la sua prefazione all’interno del più ampio
contesto della teoria e della pratica della traduzione nel XVII seco-
lo. La prima cosa da osservare è che nel 1656 il «modo di tradur-
re» di Denham non era assolutamente «nuovo». Egli seguiva la
massima dell’Ars Poetica di Orazio secondo la quale il poeta
dovrebbe evitare una resa parola per parola: «Perché, essendo un
poeta, devi inventare, creare/ Non badare, come se traducessi
fedelmente,/a rendere parola per parola», come riecheggia nel
1605 Ben Jonson riportando il verso oraziano quasi alla lettera
(Jonson 1968, p. 287). Ma mentre Orazio considera la traduzione
una delle attività del poeta, Denham considera la poesia l’obiettivo
della traduzione, soprattutto nella traduzione della poesia:
«Ritengo sia un volgare errore, nel tradurre i poeti, credere di esse-
re un Fides Interpres» scrisse, poiché il discorso poetico richiede
una maggiore capacità di catturarne lo «spirito» di quanto la stretta
aderenza al testo straniero potrebbe permettere (Denham 1656, pp.
A2v-A3r). Il termine di Denham «fides interpres» si riferisce a tra-
duzioni della poesia classica che miravano alla stessa aderenza
testuale, fatte non da poeti ma da studiosi eruditi, tra cui i poeti
dotti (Orazio tradotto da Jonson), e da insegnanti che traducevano
per produrre testi scolastici. John Brinsley descriveva la sua stessa
versione in prosa delle egloghe di Virgilio fatta nel 1633 nei
seguenti termini:

Tradotte grammaticalmente e inoltre secondo le proprietà della


nostra lingua inglese, per quanto lo consentano la grammatica e

76
il verso. Scritte principalmente per il bene degli alunni, e per
essere usate secondo le indicazioni fornite nella Prefazione al
povero insegnante.

L’attacco di Denham contro questo metodo è espresso chiara-


mente in termini di classe: «Ritengo sia un volgare errore».
Eppure, raccomandando una maggiore libertà contro l’atteggia-
mento dei grammatici, Denham difendeva un metodo classico di
traduzione che era riemerso in Inghilterra qualche decina di anni
prima che egli pubblicasse la sua versione di Virgilio (Amos
1920). Thomas Phaer, le cui traduzioni dell’Eneide risalgono al
1558, asseriva che egli «seguiva i dettami di Orazio, che insegna il
dovere del buon interprete, Qui quae desperat nitescere possit,
relinquit, a causa del quale, piuttosto, ho talvolta omesso, talvolta
alterato» (Phaer 1620, p. V2r). Un metodo di traduzione più libero
veniva difeso con maggior frequenza a partire dal 1620, in partico-
lare nei circoli aristocratici e di corte. Sir Thomas Hawkins, un
cattolico nominato cavaliere da Giacomo I e le cui traduzioni di
trattati di gesuiti erano dedicate alla regina Maria Enrichetta, scris-
se nella sua prefazione a una scelta di odi oraziane di non essersi
affatto pentito di non aver imitato il metro classico:

molti (senza dubbio) diranno che ho abbandonato Orazio, la


dolcezza della sua lirica, e storpiato la sua musa enfatica: che
vi è ovunque un generale allontanamento dalla sua originale
armonia. Ad essi rispondo che in questa traduzione ho cercato
piuttosto il suo spirito che le quantità, e neppure ho trascurato
la musicalità del verso.
(Hawkins 1625, p. Ar-Av; DNB)

In una versione del 1628 delle Egloghe di Virgilio che impone-


va un’estetica cortigiana al testo latino, “W.L., Gent.” si sentiva
obbligato a giustificare il suo allontanamento con una simile moti-
vazione:

Sono certo che alcuni lettori, che vi si imbatteranno in questo


periodo di sofisticheria linguistica, mi rimprovereranno di non
aver reso parola per parola e verso per verso quelli dell’autore
[…] Ho fatto uso della libertà del traduttore, non legandomi ad

77
una costruzione grammaticale, ma rompendo il guscio in tanti
pezzi: sono stato attento soltanto nel preservare l’interno integro
e protetto dalla violenza di un’interpretazione errata o deviata.
(Latham 1628, p. 6r; Patterson 1987, pp. 164-168)

Fin dal 1616 Barten Holyday, che divenne cappellano di Carlo I


e fu insignito del titolo di dottore in teologia all’ordine del re, pre-
sentò la sua traduzione di Persio dichiarando: «Non mi sono legato
alla lettera come a una credenza: ma con l’antica libertà di un tra-
duttore ho fatto uso in modo moderato della parafrasi laddove l’o-
scurità del testo più lo richiedeva» (Holyday 1635, pp. A5r-A5v;
DNB). Holyday argomentava la sua opposizione ai grammatici, cui
più tardi si sarebbe unito anche Denham, tramite un latinismo che
definiva la traduzione letterale «a ferularie superstition», un credo
trasmesso col bastone (ferula), ossia con la disciplina scolastica:
un gioco di parole ideato per un grammatico.
Nel 1620 Sir Thomas Wroth, un membro della gentry dei
Somerset che ostentava i suoi passatempi letterari di cortigiano
dilettante (intitolò i suoi epigrammi The Abortive of an Idle Houre;
Aborto di un’ora oziosa), anticipò Denham in molti aspetti (DNB).
Anche Wroth scelse di tradurre il secondo libro dell’Eneide e di
intitolarlo La distruzione di Troia, chiarendo inoltre la sua
“libertà” di traduttore in una «Richiesta al lettore»:

Non emettete il vostro verdetto decisivo in maniera troppo


avventata, anche se ritenete che mi sia allontanato (cosciente-
mente) dai limiti visibili, ma prendete nota deliberatamente del
fatto che non mi sono allontanato dal fine e dall’intento dell’au-
tore, giustificato dai migliori commentari: e così vi lascio a leg-
gere, comprendere e crescere.
(Wroth 1620, p. A2v)

Il metodo ben più libero di Wroth si basa in definitiva su una


giustificazione erudita (“Commentari”) memore del neoclassici-
smo di Jonson. E infatti il commiato di Wroth al lettore («a legge-
re, comprendere e crescere») riecheggia l’esortazione con cui
Jonson apriva i suoi Epigrammi (1616): «Ti prego fai attenzione,
hai preso il mio libro in mano,/ di leggerlo bene: vale a dire di
capirlo» (Jonson 1968, p. 4). Nel 1634 Robert Stapylton, un nobile

78
in regolare servizio presso la camera privata del principe di Wales,
pubblicò una versione del quarto libro dell’Eneide in cui anticipa-
va Denham sia nel mettere in discussione qualsiasi traduzione ade-
rente alla poesia, sia nell’assegnare al metodo libero la stessa affi-
liazione di classe:

È vero che la saggezza distillata in una lingua non può essere


trasferita in un’altra senza perdere il suo spirito, eppure io credo
che sia possibile conservare tale grazia come la più nobile delle
qualità che favorirà questa traduzione, tratta da un originale, che
fu talvolta il favorito del più grande imperatore romano.
(Stapylton 1634, p. A4v; DNB)

Denham consolidò l’uso del metodo di traduzione neoclassico


che si era già diffuso da qualche decina di anni nella cultura lette-
raria aristocratica. Ciò poteva sembrare «nuovo» a lui, non perché
non avesse avuto altri sostenitori in precedenza, ma proprio perché
li aveva avuti: era la ripresa moderna di un’antica pratica culturale,
che faceva della traduzione di Denham una «Copia», simulacro del
vero «Originale» di Virgilio, e che si fondava sulla teoria di
Platone della traduzione come copia della copia della verità: «La
mia principale attenzione è stata quella di seguirlo, come la sua era
quella di seguire la Natura in tutte le sue proporzioni» (Denham
1656, p. A3v). Ma la percezione che Denham aveva della propria
modernità era più politica che filosofica, legata a una specifica
classe e nazione. Ritornato dall’esilio in Francia, deve aver ritenu-
to che il suo metodo fosse «nuovo» nel senso di straniero, nella
fattispecie francese. La traduzione francese negli anni Quaranta
del XVII secolo era caratterizzata da teorie e pratiche che difende-
vano la traduzione libera dei testi classici e Denham, tra gli altri
scrittori realisti esuli quali Abraham Cowley e Sir Richard
Fanshawe, era senza dubbio a conoscenza dell’opera del suo prin-
cipale teorico francese, Nicolas Perrot D’Ablancourt, prolifico tra-
duttore dal greco e dal latino2. La libertà usata da D’Ablancourt

2 Per le attività culturali degli scrittori realisti in esilio si veda Hardacre


1953. Steiner 1975, pp. 13-25, tratta dell’influenza francese sulle loro tradu-
zioni. Zuber 1968 mostra l’importanza di D’Ablancourt per la tradizione
della traduzione in Francia.

79
nei confronti di Tacito fissò lo standard. Nella Prefazione alla pro-
pria versione degli Annali, scrisse:

le differenze tra le lingue sono grandi, sia per la costruzione e


la forma dei periodi che per le figure e gli altri ornamenti, per
cui bisogna sempre cambiare l’aria e l’aspetto, se non si vuol
creare un corpo mostruoso, come quello delle traduzioni ordi-
narie, che sono o morte e languenti, o confuse e contorte, senza
alcun ordine né piacevolezza.
(D’Ablancourt 1640)

Si confronti la Prefazione di Denham: «La poesia possiede uno


spirito talmente raffinato che, nel riversarla da una lingua all’al-
tra, esso svanirà totalmente e, se nella trasformazione non le si
aggiungerà un nuovo spirito, non rimarrà altro che un Caput mor-
tuum» (Denham 1656, p. A3r). Denham riprendeva la metafora
del corpo e dell’anima usata da D’Ablancourt nonostante, seguen-
do l’esempio di Stapylton («la saggezza distillata in una lingua
non può essere trasferita in un’altra senza perdere il suo spirito»),
immaginasse la traduzione in termini alchemici, come una distil-
lazione il cui residuo definiva come caput mortuum (OED;
Hermans 1985, p. 122). L’immagine alchemica indicava che la
traduzione libera compiva una radicale trasformazione, in cui ciò
che «nasceva come straniero» poteva ora essere «considerato
come nativo» o, nel caso specifico, inglese (Stapylton 1634, p.
A2r).
Il «nuovo spirito» che viene «aggiunto» tramite questo metodo
di traduzione implica un processo di addomesticamento in cui il
testo straniero viene segnato da valori specifici appartenenti alla
cultura della lingua d’arrivo. D’Ablancourt, nel suo discorso, defi-
nisce questo un «cambiare l’aria e l’aspetto». Dunque il discorso
ellittico e discontinuo di Tacito deve essere tradotto

senza offendere la delicatezza della nostra lingua e l’esattezza


del ragionamento. […] Spesso si è costretti ad aggiungere qual-
cosa per chiarirlo; talvolta è necessario toglierne una parte per
dar vita a tutto il resto.
(D’Ablancourt 1640)

80
Henry Rider utilizzò la metafora del vestiario nella prefazione
alla sua traduzione di Orazio del 1638:

Le traduzioni degli autori da una lingua all’altra sono come


vecchi abiti che vengono riutilizzati secondo nuove mode e nei
quali, sebbene la stoffa sia sempre la stessa, la decorazione e le
guarnizioni si sono rovinate, e nella cucitura qualcosa si
aggiunge qua e qualche altra se ne taglia via là.
(Rider 1638, p. A3r)

Nella sua formulazione anche Denham usò una metafora simile


facendo riferimento allo stesso autore classico con cui
D’Ablancourt apriva la strada al metodo libero:

Il discorso è l’abito dei nostri pensieri, come lo sono certi orna-


menti e modi di parlare, che variano nel tempo […] e questo
penso intenda Tacito con quello che ha chiamato Sermonem tem-
poris istius auribus accomodatum […] e perciò, se Virgilio deve
parlare inglese, sarebbe opportuno che parlasse non solo come un
uomo di questa nazione, ma come un uomo di questa epoca.
(Denham 1656, p. A3r)

La difesa di Denham della traduzione libera era carica di un


tale nazionalismo che, seppure espresso tramite un cortese diniego,
alla fine lo condusse al rifiuto contraddittorio di qualsiasi paralleli-
smo metodologico e della possibilità di influenze sia straniere che
inglesi:

se questo travestimento di cui l’ho ricoperto (vorrei potergli


dare un nome migliore) non si adatta in maniera semplice e
naturale a una persona così solenne, può renderlo comunque
migliore di quell’abito da buffone con il quale lo hanno presen-
tato i francesi e gli italiani.
(ibidem)

Denham cercava di distinguere la sua traduzione dalle versio-


ni burlesche dell’Eneide che erano di moda nell’Europa conti-
nentale, quali il Virgile Travesti (Virgilio travestito, 1648-1649)
di Paul Scarron e l’Eneide Travestita (1633) di Giovanni Battista

81
Lalli (Scarron 1988, p. 10). Come altri traduttori legati alla corte
in esilio di Carlo I, Dehnam seguiva un’altra moda francese nelle
traduzioni, benché legata a una monarchia il cui esperimento
assolutista si era dimostrato molto più efficace: la versione di
D’Ablancourt degli Annali era infatti dedicata al potente ministro
reale, il cardinale Richelieu. La traduzione di Virgilio fatta da
Denham riflette infatti la forte somiglianza tra i metodi di tradu-
zione inglesi e francesi di quel periodo. Ma il profondo naziona-
lismo di questo metodo tentava di nascondere le proprie origini
che risalivano a un differente contesto nazionale e culturale. Nel
caso di Denham la contraddizione consisteva nel fatto che il
metodo rispondeva in modo specifico a un problema inglese: il
bisogno di una «nuova» pratica culturale che permettesse al seg-
mento sconfitto dei realisti appartenenti all’aristocrazia di Carlo I
di riguadagnare la propria egemonia nella cultura inglese. Nei
suoi versi celebrativi “To Sir Richard Fanshawe upon his
Translation of Pastor Fido” (“A sir Richard Fanshawe per la sua
traduzione del Pastor Fido”) (1648), Denham definisce la tradu-
zione libera «un modo nuovo e più nobile» (Steiner 1975, p. 63).
Dato il forte significato politico di questo metodo, era importante
per Denham tradurre un’opera appartenente al genere epico che
avesse per tema la nobiltà e, di conseguenza, rifiutare le parodie
francesi che svilivano il tema aristocratico di Virgilio trattando i
personaggi appartenenti agli strati sociali inferiori con i toni del-
l’epica.
L’intenzione di Denham di inserire la traduzione all’interno
della politica culturale monarchica nel proprio paese è visibile sia
nella scelta del testo da tradurre che nelle strategie discorsive adot-
tate nella sua versione. La scelta di tradurre l’Eneide di Virgilio
nell’Inghilterra degli inizi dell’era moderna richiamava la leggen-
da di Geoffrey di Monmouth secondo cui Bruto, discendente di
Enea, fondò la Britannia e divenne il primo di una dinastia di
monarchi britannici. Sebbene questa leggenda, come quelle del
ciclo arturiano, stesse perdendo di credibilità tra gli storici e gli
antichisti, il tema di Troia continuava a rappresentare un efficace
sostegno culturale del nazionalismo e fu ripetutamente rivisitato da
diversi e spesso opposti punti di vista ideologici in un’ampia serie
di testi, da Britannia (1586) di Willian Camden a Speeches at
Prince Henry’s Barriers (1609) di Jonson, a Life of Merlin (1641)

82
di Thomas Heywood3. Ai primi re della dinastia Stuart fu spesso
attribuita una discendenza dalla genealogia dei troiani. Anthony
Munday, collaborando da Londra allo sviluppo della monarchia
con The Triumphs of Re-united Britannia (1605), parlava di
Giacomo I come del «nostro secondo Bruto”; Heywood definì la
sua narrazione come «una storia cronografica di tutti i re ed eventi
di questo regno, da Bruto al nostro sovrano re Carlo» (Parsons
1929, pp. 403 e 407). Nel dibattito politico durante l’Interregno, la
genealogia troiana poteva essere usata per giustificare sia il gover-
no rappresentativo che la monarchia assoluta. Nel 1655 il parla-
mentare polemista William Prynne interpretò il significato della
leggenda come «1) Una guerra per liberarsi dalla schiavitù e ritro-
vare la libertà pubblica. 2) Un sorta di Consiglio Parlamentare
Generale convocato da Bruto» mentre, in un commentario giuridi-
co pubblicato nel 1663, Edward Waterhouse sosteneva che Bruto,
«acconsentendo a ricompensare il valore e la fedeltà dei suoi com-
pagni», istituì delle leggi che «modificavano sia il suo privilegio
reale che la loro sicurezza civile nella vita, nei beni e nelle leggi,
in quanto membri della comunità» (Jones 1944, pp. 401 e 403).
L’appropriazione da parte di Denham della leggenda di Bruto
in Cooper’s Hill diviene più significativa se si tiene conto del suo
fervore patriottico, ma dimostra anche la sua consapevolezza della
genealogia di Troia come una leggenda che, seppure messa sempre
più in dubbio, aveva ancora una funzione nelle battaglie culturali e
politiche e, fosse anche contraddittoriamente, era vera. Riflettendo
sulla vista di Londra e dintorni, Denham scriveva in un passaggio
che «La grande madre degli Dei», Cybele,

cannot boast
Amongst that numerous, and Celestial hoast,
More Hero’s that can Windsor, nor doth Fames
Immortall booke record more noble names.
Not to look back so far, to whom this Ile
Owes the first Glory of so brave a pile,
Whether to Caesar, Albanact, or Brute,
3 La leggenda di Bruto nella storiografia inglese è stata studiata da
Parsons 1929, Brinkley 1967, Jones 1944 e MacDougall 1982. Bush 1962
offre un utile compendio delle questioni.

83
The Brittish Arthur, or the Danish Knute,
(Though this of old no lesse contest did move,
Than when for Homers birth seven Cities strove)
[...]
But whosoere it was, Nature design’d
First a brave place, and then as brave a minde.
(Denham 1969, p. 67)

Il riferimento alla “gara” («contest») nel commento tra parente-


si sembrerebbe, a una prima lettura, mettere in discussione la cre-
dibilità delle genealogie eroiche dei re inglesi, sia storiche che let-
terarie: la «gara» farebbe riferimento alla «controversia» o «dibat-
tito» storiografico. Ma il distico sposta rapidamente la questione
dalla credibilità all’efficacia sociale: anche se di autenticità discu-
tibile, le genealogie poetiche («Homers birth») sono parte essen-
ziale della nostra cultura e possono motivare il conflitto politico e
militare. Nel caso inglese, comunque, le genealogie eroiche vengo-
no convalidate metafisicamente, dalla «Nature design’d». Per
Denham la leggenda di Bruto costituiva una mossa strategica
all’interno di un’operazione ideologica: poesia al servizio di una
specifica prassi politica. Ma, come molti suoi contemporanei,
nascose con abilità queste condizioni materiali richiamandosi
opportunamente alla legge naturale che sosteneva un’idea di supe-
riorità razziale.
La scelta di Denham per l’Eneide era indissolubilmente legata
alle inclinazioni nazionalistiche del suo metodo traduttivo addo-
mesticante. Inoltre, in linea con le ricorrenti genealogie troiane dei
re inglesi, la scelta del brano che intitolò La distruzione di Troia
gli permetteva di rappresentare più direttamente la sconfitta del
governo di Carlo I e il suo sostegno alla monarchia inglese. Il pro-
getto politico di Denham può essere riconosciuto, in primo luogo,
nella decisione di pubblicare il secondo libro dell’Eneide. Nel
1636 compose una versione del secondo e sesto libro dell’Eneide
mentre, nel 1668, rivide e pubblicò parte del quarto libro con il
titolo The Passion of Dido for Aeneas (La passione di Didone per
Enea). Nel 1656 decise di far uscire la parte dell’opera il cui
“tema”, la caduta di Troia, conferiva al testo una maggiore attua-
lità. L’attualità e la risonanza della sua versione sono ancora più
evidenti quando la si confronta con il testo latino e con le versioni

84
inglesi precedenti. Il secondo libro era già stato affrontato in diver-
se traduzioni complete dell’Eneide ed era stato estrapolato due
volte dai precedenti traduttori, Henry Howard Conte di Surrey e
Sir Thomas Wroth, i quali avevano entrambi presentato l’intero
libro (circa ottocento versi del testo latino), mentre invece Denham
ne aveva pubblicato una versione abbreviata (circa 550 versi) che
terminava, nel momento più intenso, con la morte di Priamo.

Heac finis Priami fatorum, hic exitus illum


sorte tulit Troiam incensam et prolapsa uidentem
Pergama, tot quodam populis terrisque superbum
regnatorem Asiae. Iacet ingens litore truncus,
auulsumque umeris caput et sine nomine corpus.
(Virgilio II, 554-558)4

Thus fell the King, who yet surviv’d the State,


With such a signal and peculiar Fate.
Under so vast a ruine not a Grave,
Nor in such flames a funeral fire to have:
He, whom such Titles swell’d, such Power made proud
To whom the Scepters of all Asia bow’d,
On the cold earth lies th’unregarded King,
A headless Carcass, and a nameless Thing.
(Denham 1656, II, 542-549)

Eliminando i nomi dei personaggi e dei luoghi del testo latino


(«Priami», «Troiam», e «Pergama», la rocca di Troia) e facendo
riferimento unicamente al «re», Denham generalizza il senso del
passaggio, trasformando la «carcassa senza testa» («headless car-
cass») di Priamo in quella del discendente britannico, invitando il
lettore contemporaneo inglese a ricordare, almeno per un momen-
to, le guerre civili, benché da un punto di vista decisamente reali-
sta. La traduzione di Denham condivideva la stessa spinta verso
l’allegoria politica che caratterizzava non soltanto le varie revisio-

4 «Così si concluse il destino di Priamo, questa morte fatale/ lo rapì men-


tre vedeva Troia in fiamme e Pergamo/ crollata, egli un tempo superbo sovra-
no di tanti/ popoli e terre d’Asia. Giace grande sul lido/ un tronco, il capo
spiccato dal busto, e un corpo senza nome» (Virgilio 19944, vol. I) [N.d.T.].

85
ni di La collina di Cooper ma anche, in generale, le opere realiste
degli anni della sconfitta di Carlo, inclusa la traduzione di
Fanshawe del Pastor Fido (1647) di Guarini e la traduzione di
Christopher Wase dell’Electra (1649) di Sofocle5.
L’unico nome di luogo che Denham include nella sua versione
della morte di Priamo, «Asia», può considerarsi come un’allusione
all’interesse della corte di Carlo per la cultura orientale. Denham
stesso aveva contribuito a questa voga con The Sophy (1642),
dramma ambientato in Persia e destinato a essere rappresentato a
corte. Ma l’allusività della traduzione è più specifica. «The
Scepters of all Asia bow’d» si riferisce alle mascherate di corte
dove il re e la regina mettevano in scena la conquista morale dei
sovrani stranieri convertendo le loro nazioni all’amore platonico.
In Tempe Restor’d (1632) di Aurelian Townshend, la coppia reale
presiede alla riforma del regno dei sensi di Circe, rappresentato
con «tutte quelle rappresentazioni burlesche che mettono in scena
Indiani e Barbari, che sono per natura bestiali, e altri che lo sono
per volontà, ma trasformati a metà in bestie» (Townshend 1983, p.
97).
Ancora più sorprendente è la curiosa aggiunta di Denham al
testo latino: «Thus fell the King, who yet survived the State,/ With
such a signal and peculiar Fate» («Così morì il re, sebbene egli (e
la monarchia) sopravvisse alla Repubblica, destino unico e straor-
dinario»). L’assenza nel testo virgiliano di qualsiasi riferimento
alla vita del re oltre la morte rivela la speranza di Denham per la
sopravvivenza della monarchia degli Stuart anche dopo il regici-
dio. Benché Carlo I fosse stato giustiziato, la monarchia «soprav-
visse allo Stato» istituito dal Parlamento, inizialmente come
Commonwealth governato dal Consiglio di Stato, più tardi ridefi-
nito come organo consultivo del Lord protettore; questa era una
forma di sopravvivenza «cospicua e peculiare» per il re in quanto
si concretizzava come corte in esilio da un lato e cospirazione rea-

5
L’allegoria storica in La collina di Cooper è stata chiarita da Wasserman
1959, cap. III, in part. alle pp. 72-76, e da O’Hehir 1969, pp. 227-256. Per il
significato ideologico delle traduzioni di Fanshawe e di Wase, si veda Potter
1989, pp. 52-53 e 89-90, e Patterson 1984, pp.172-176. Hager 1982 si è sof-
fermato sulla spinta addomesticante, nella traduzione di Denham, nel passag-
gio di Laocoonte.

86
lista in patria: in altre parole, quindi, il re continuava a vivere ma
non nel suo regno. Nel clima politico della metà del XVII secolo,
con l’insorgere delle misure repressive del Protettorato contro l’in-
surrezione realista, sarebbe stato difficile per un monarchico sim-
patizzante non vedere alcuna connessione tra la decapitazione di
Priamo e quella di Carlo. Ma in questo clima sarebbe stato anche
necessario per uno scrittore realista come Denham usare un modo
di esprimersi indiretto come con un’allusiva traduzione anonima.
La traduzione fu particolarmente utile alla politica culturale reali-
sta, scrive Lois Potter, perché vista come «trascendenza, la totalità
appianante che rimuove la controversia e il conflitto» (Potter 1989,
pp. 52-53). Nella traduzione di Denham la monarchia «sopravvvis-
se» alla sua distruzione.
La volontà di Denham affinché la sua traduzione servisse la
causa realista è confermata dal confronto con i suoi predecessori
che evidenzia i sottili cambiamenti da lui introdotti per avvicinare
il testo latino alle sue concezioni politiche:

Of Priamus this was the fatal fine,


The wofull end that was alotted him.
When he had seen his palace all on flame,
With the ruine of his Troyan turrets eke,
That royal prince of Asie, which of late
Reigned over so many peoples and realmes,
Like a great stock now lieth on the shore:
His hed and shoulders parted ben in twaine:
A body now without renome, and fame
(Howard 1557, CIIV)

See here King Priams end of all the troubles he had knowne,
Behold the period of his days, which fortune did impone.
When he had seene his Citie raz’d, his Pallace, Temples fir’d,
And he who to th’Imperiall rule of Asia had aspir’d,
Proud of his Territories, and his people heeretofore,
Was then vnto to sea side brought, and headlesse in his gore:
Without respect his body lay in publike view of all.
(Wroth 1620, E3r)

87
This was King Priams end, this his hard fate,
to live to see Troy fir’d, quite ruinate:
Even he, who once was Asia’s Keisar great,
Mightiest in men, and spacious regall seat:
A despicable trunk (now) dead on ground,
His head cut off, his carcasse no name found.
(Vicars 1632, 48)

So finish’d Priams Fates, and thus he dy’d,


Seeing Troy burn, whose proud commands did sway
So many powerful Realms in Asia;
Now on the strand his sacred body lyes
Headless, without a Name or Obsequies.
(Ogilby 1654, 217, 219)6

Le libertà prese da Denham nei riguardi del testo latino supera-


no di gran lunga quelle dei suoi precedessori. La sua aggiunta del
«Destino cospicuo e peculiare» acquista in questo confronto una
maggiore rilevanza storica, così come le omissioni dei riferimenti
locali, incluso il latino «litore» (1557), una parola che situa la
caduta di Priamo vicino al mare e che viene ripresa dalla maggior
parte dei traduttori («shore», «sea side», «strand»). Non solo
Denham nella sua traduzione sposta il luogo della morte all’inter-
no, ma opera un continuo lavoro di addomesticamento dei termini
architettonici, facendo somigliare le strutture troiane ai palazzi
reali inglesi. Si consideri questo passaggio in cui i greci irrompono
con la forza nel palazzo di Priamo:

Automedon
And Periphas who drove the winged steeds,
Enter the Court; whom all the youth succeeds
Of Scyros Isle, who flaming firebrands flung
Up to the roof, Pyrrhus himself among
The foremost with an Axe an entrance hews

6
La versione di questo brano fatta da Ogilby condivide con Denham l’at-
teggiamento realista nel riferirsi al «sacred body» del re e all’assenza di
«obsequies». Per l’atteggiamento politico del Virgilio di Ogilby si veda
Patterson 1987, pp. 169-185.

88
Through beams of solid Oak, then freely views
The Chambers, Galleries, and Rooms of State,
Where Priam and the ancient Monarchs sate.
At the first Gate an Armed Guard appears;
But th’Inner Court with horror, noise and tears
Confus’dly fill’d, the womens shrieks and cries
The Arched Vaults re-echo to the skies;
Sad Matrons wandring through the spacious Rooms
Embrace and kiss the Posts: Then Pyrrhus comes
Full of his Father, neither Men nor Walls
His force sustain, the torn Port-cullis falls,
Then from the hinge, their strokes the Gates divorce:
[…]
Then they the secret Cabinets invade,
(Denham 1656, II, 453-480, 491)7
7 «Una ingens Periphas et equorum agitator Achillis,/armiger Automedon,
una omnis Scyria pubes/succedunt tecto et flammas ad culmina iactant./Ipse inter
primos correpta dura bipenni/limina perrumpit postisque a cardine vellit/aeratos;
iamque excisa trabe firma cavavit/ robora et ingentem lato dedit ore fenestram./
Apparet domus intus et atria longa patescunt,/apparent Priami et veterum pene-
tralia regum/armatosque vident stantis in limine primo./At domus interior gemitu
miseroque tumultu/miscetur penitusque cavae plangoribus aedes/femineis ulu-
lant; ferit aurea sidera clamor./Tum pavidae tectis matres ingentibus errant/
amplexaeque tenent postes atque oscula figunt./Instat vi patria Pyrrhus, nec clau-
stra neque ipsi/custodes sufferre valent; labat ariete crebro/ianua et emoti pro-
cumbunt cardine postes; [...] Quinquaginta illi thalami, [...] procubuere».
«Con lui il gigantesco Perifante e l’auriga dei cavalli/ di Achille, l’armi-
gero Automedonte; con lui tutti i giovani/ sciri premono alla reggia e lancia-
no fiamme ai tetti./ Egli tra i primi, afferrata una scure, fracassa/ la dura porta
e svelle dai cardini i battenti/ coperti di bronzo; e già troncata la trave/ scava
il legno robusto e produce un vasto squarcio/ di larga apertura. Appare l’in-
terno della casa,/ e si schiudono i lunghi atrii; appaiono le stanze segrete/ di
Priamo e degli antichi re, e vedono gli armati sul limite/ della soglia.
L’interno del palazzo risuona di gemiti/ e d’un misero tumulto; le ampie stan-
ze remote/ ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle./ Le
donne atterrite errano per le vaste sale,/ tengono abbracciati gli stipiti e v’im-
primono dei baci./ Pirro incalza con la violenza del padre, né le sbarre/ né le
sentinelle riescono a resistere; la porta vacilla/ ai fitti colpi d’ariete, e i bat-
tenti crollano schiantati/ dai cardini. [...] Le cinquanta stanze nuziali [...] crol-
larono» (Virgilio 1994, II, 476-493; 503-505) [N.d.T.].

89
Con le parole «Chambers, Galleries, and Rooms of State»,
«Inner Court», «Arched Vault» e «secret Cabinet» Denham rende i
vari termini originali appartenenti a un latino molto meno preciso e
chiaramente riferito a una diversa architettura: «domus intus»,
«domus interior» («l’interno della casa», «l’interno del palazzo»),
«atria longa» («i lunghi atrii»), «penetralia» («le stanze segrete»),
«cavae» («stanze remote»), «thalami» («stanze nuziali») (Denham,
1656, II, 484-7, 503). Nonostante le interpretazioni dei suoi prede-
cessori mostrassero anch’esse un certo grado di addomesticamento,
non arrivavano al suo estremismo: «the house, the court, and secret
chambers eke», «the palace within», «the hollow halles» (Howard
1557, CIV); «the roomes, and all that was within», «the spacious
pallace» (Wroth 1620, Er); «the rooms within, great halls and par-
lours faire», «the rooms within» (Vicars 1632, p. 45); «the house
within», «long halls», «Priams bed-chamber», «arched Siellings»
(Ogilby 1654, p. 215). Denham è inoltre il solo a usare «Port-cul-
lis» per il latino «postes» («gli stipiti»), rifiutando i termini scelti
dai predecessori, quali «pillars», «gates» e «posts», in favore di una
parola che rievocasse la struttura architettonica più direttamente
associata all’idea di aristocrazia e monarchia: il castello. Il lessico
architettonico di Denham fa in modo che la descrizione dell’attacco
greco evochi altri castelli messi sotto assedio in epoca più recente,
come quello di Windsor preso d’assalto dall’esercito parlamentare,
o forse quello di Farnham, dove nel 1642 Denham fu costretto alla
resa della guarnigione da lui comandata. La traduzione addomesti-
cante di Denham descrive la distruzione di Troia in modo da farvi
risuonare alcuni momenti della storia inglese, quelli in cui la legge
aristocratica era ancora dominante (il passato medievale) o associa-
ta, seppure debolmente, alla monarchia (l’esperimento assolutista
degli anni Trenta del XVII secolo), o definitivamente sconfitta ed
esiliata (le guerre civili dell’Interregno).
Anche altri elementi dimostrano che la decisione di Denham di
tradurre il secondo libro dell’Eneide era rivolta all’esiliato seg-
mento realista dell’aristocrazia di Carlo I. Scegliendo tale libro
egli si situava all’interno di una discendenza di traduttori aristocra-
tici che risaliva a Surrey, un cortese dilettante la cui attività lettera-
ria fu strumentale per lo sviluppo della cultura di corte nelle
monarchie Tudor e Stuart. A partire dalla Miscellany (1557) di
Tottel, Surrey venne riconosciuto come importante innovatore del

90
sonetto e della lirica d’amore, ma il suo lavoro di traduttore posse-
deva un valore culturale ulteriore, destinato a sopravvivere grazie a
Denham: la sua traduzione dell’opera virgiliana si dimostrò infatti
un testo chiave per l’emergere del verso libero come maggiore
forma poetica del periodo. Seguendo l’esempio di Surrey, Denham
creava con il secondo libro un metodo di traduzione poetica che si
sarebbe dimostrato ugualmente significativo, in senso culturale,
per la sua classe sociale. Il fine che perseguiva non era solamente
quello di riformulare il metodo della traduzione libera praticata
nell’ambiente culturale aristocratico di Carlo I nel periodo culmi-
nante – gli anni Venti e Trenta del XVII secolo – ma di escogitare
per la traduzione una strategia discorsiva che ristabilisse il domi-
nio culturale della sua classe: quella che possiamo definire la stra-
tegia della scorrevolezza.
La traduzione poetica libera richiede la messa a punto di una
strategia della scorrevolezza in cui la linearità della sintassi, l’uni-
vocità del significato e la variazione metrica producano l’effetto
illusionistico della trasparenza: la traduzione non sembra in realtà
una traduzione ma un testo scritto originariamente in inglese8.
Nella prefazione alla sua traduzione dell’Eneide del 1632 John
Vicars descriveva il metodo adottato: «il modo in cui ho puntato a
questi tre obiettivi: chiarezza dell’argomento, fedeltà all’autore e
facilità o scorrevolezza nel ricrearli per il lettore» (Vicars 1632, p.
A3r). Nel testo di Denham leggiamo che la traduzione dovrebbe
«adattarsi» al testo straniero «in maniera semplice e naturale».
Non è possibile raggiungere tale scorrevolezza tramite una tradu-
zione precisa o «letterale» che impedisca l’effetto della trasparenza
facendo sembrare straniera la lingua del traduttore: «chiunque tenti
una traduzione letterale», scrive Denham,

avrà la sfortuna di quel giovane traduttore che, perdendo la pro-


pria lingua all’estero, non ha potuto riportare in patria niente
che la sostituisse: così che la grazia del latino si perderà nella
sua trasformazione in inglese, e la grazia dell’inglese nella sua
trasformazione in latino. (Denham 1656, p. A3r)

8 Mi sono basato per questo argomento sullo studio del discorso traspa-
rente in poesia, e del suo sviluppo a partire dall’inizio dell’era moderna, fatto
da Easthope 1983, cap. 7.

91
Dal confronto delle due versioni del secondo libro dell’Eneide
fatte da Denham emerge chiaramente la predilezione del suo modo
di tradurre per la scorrevolezza. La versione del 1636 è conservata
nell’antologia di Lucy Hutchinson, moglie del colonello parlamen-
tare John Hutchinson, con cui Denham frequentò il Lincoln Inn tra
il 1636 e il 1638 (O’Hehir 1968, pp. 12-13). Il libro contiene la
traduzione di Denham dell’Eneide dal secondo al sesto libro (le
versioni complete del quarto e sesto libro, e quelle parziali del
secondo e del terzo). Il secondo libro è rimasto visibilmente allo
stato di bozza: non solo vi è omessa un’ampia parte del testo latino
ma alcuni passaggi sono tradotti solo parzialmente, tralasciando
alcune delle parole latine originali. Si nota inoltre la tendenza a
seguire, in alcuni casi strettamente, l’ordine latino delle parole.
L’esempio più comune è il verso citato da Theodore Banks: «timeo
Danaos et dona ferentes»9 che Denham rende parola per parola
con «The Grecians most when bringing gift I feare» (Denham
1969, 43-44). La sintassi ingarbugliata e la forte ricerca di esattez-
za metrica rendono il verso non agevole alla lettura, privo di «gra-
zia». Nella versione del 1656 Denham tradusse questo verso più
liberamente e si sforzò di renderlo con maggiore scorrevolezza,
seguendo un ordine delle parole chiaramente inglese e usando
delle variazioni metriche che ne appianassero il ritmo: «Their
swords less danger carry than their gifts» (Denham 1656, 1, 48).
La strategia della scorrevolezza di Denham si evidenzia ancor
più nel modo di affrontare la forma del verso, il distico eroico.
Nella versione riveduta egli migliora sia la coerenza che la conti-
nuità dei distici, evitando le irregolarità metriche e le costruzioni
intricate, posizionando la cesura in modo da rinforzare le connes-
sioni sintattiche, usando l’enjambement e la chiusura in modo da
subordinare il ritmo al significato, il suono al senso:

1636
While all intent with heedfull silence stand
Æneas spake O queene by your command
My countries fate our dangers & our feares
While I repeate I must repeate my feares

9
«Ho timore dei danai anche se recano doni» (Virgilio 1994, II, v. 49)
[N.d.T.].

92
1656
While all with silence & attention wait,
Thus speaks Æneas from the bed of State:
Madam, when you command us to review
Our Fate, you make our old wounds bleed anew
(II, 1-4)10

1636
We gave them gon & to Micenas sayld
From her long sorrow Troy herselfe unvaild
The ports throwne open all with ioy resort
To see ye Dorick tents ye vacant port

1656
We gave them gone, and to Mycenae sail’d,
And Troy reviv’d, her mourning face unvail’d;
All through th’unguarded Gates with joy resort
To see the slighted Camp, the vacant Port;
(II, 26-29)11

1636
Guilt lent him rage & first possesst
The credulous rout with vaine reports nor ceast
But into his designes ye prophett drew
But why doe I these thanklesse truths persue

10 «Conticuere omnes intentique ora tenebant./ Inde toro pater Aeneas sic

orsus ab alto:/ “Infandum, regina, iubes renovare dolorem,/ Troianas ut opes


et lamentabile regnum/ eruerint Danai»; «Tacquero tutti e tenevano attento lo
sguardo./ Allora dall’alto giaciglio il padre Enea cominciò:/ “Mi chiedi, o
regina, di rinnovare un dolore indicibile,/ il modo tenuto dai danai nel
distruggere la potenza troiana/ e il regno sventurato» (ivi, 1-5) [N.d.T.].
11 «Nos abiisse rati et vento petiisse Mycenas./ Ergo omnis longo solvit se

Teucria luctu./ Panduntur portae; iuvat ire et Dorica castra/ desertosque vide-
re locos litusque relictum»; «Pensammo che fossero partiti con il vento diretti
a Micene./ Allora tutta la Teucria si scioglie da un lungo dolore./ Si aprono le
porte; piace l’andare, e il dorico/ campo e i luoghi deserti vedere e la libera
spiaggia» (ivi, II, 25-28) [N.d.T.].

93
1656
Old guilt fresh malice gives; The peoples ears
He fills with rumors, and their hearts with fears,
And them the Profet to his party drew.
But why do I these thankless truths pursue;
(II, 95-98)12

1636
While Laocoon on Neptunes sacred day
By lot designed a mighty bull did slay
Twixt Tenedos & Troy the seas smooth face
Two serpents with their horrid folds embrace
Above the deepe they rayse their scaly crests
And stem ye flood with their erected brests
Then making towards the shore their tayles they wind
In circling curles to strike ye waves behind

1656
Laocoon, Neptunes Priest, upon the day
Devoted to that God, a Bull did slay,
When two prodigious serpents were descride,
Whose circling stroaks the Sea smooth face divide;
Above the deep they raise their scaly Crests,
And stem the floud with their erected brests,
Their winding tails advance and steer their course,
And ’gainst the shore the breaking Billow force.
(II, 196-203)13
12 «Hinc mihi prima mali labes, hinc semper Ulixes/ criminibus terrere

novis, hinc spargere voces/ in volgum ambiguas et quaerere conscius arma./


Nec requievit enim, donec Calchante ministro.../ Sed quid ego haec autem
nequiquam ingrata revolvo quidve moror?»; «Di qui il principio della mia
rovina, di qui sempre/ Ulisse ad atterrirmi con nuove calunnie, a spargere/
ambigue voci tra il popolo, e cercare sagace i mezzi d’offesa./ E non s’ac-
quietò, finché per opera di Calcante.../ Ma perché ritorno invano a narrare
ingrate vicende?» (ivi, II, 97-102) [N.d.T.].
13 «Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos,/ sollemnis taurum ingentem

mactabat ad aras./ Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta/ (horresco
referens) immensis orbibus angues/ incumbunt pelago pariterque ad litora
tendunt;/ pectora quorum inter fluctus arrecta iubaeque/ sanguineae superant

94
La strategia della scorrevolezza rende la lettura della versione
di Denham del 1656 «semplice e naturale», in modo da produrre
l’illusione che Virgilio avesse scritto in inglese o che Denham
fosse riuscito a «renderlo migliore» rendendo accessibile, nel
modo più trasparente possibile, l’intenzione dell’autore straniero o
il significato essenziale del testo originale. In realtà Denham ren-
deva accessibile non tanto Virgilio, quanto la sua traduzione di
Virgilio e il significato del tutto particolare che questa acquistava
in inglese. Le revisioni successive forniscono ulteriori dimostra-
zioni di quest’opera di addomesticamento. Nella versione del 1636
tradusse infatti «Teucri» (I, 251) e «urbs» (I, 363) con «Trojans» e
«Asias empresse», mentre nella versione del 1656 usò solo «The
City» (II, 243, 351), suggerendo allo stesso tempo Troia e Londra.
E se la versione del 1636 traduceva «sedes Priami» (I, 437) con
«Priams pallace» e «domus interior» (I, 486) con «roome», la ver-
sione del 1656 usava «the Court» e «th’Inner Court», sia qui che in
altre ricorrenze (II, 425, 438, 465, 473). Anche «Apollinis infula»
(I, 430), la benda per la testa indossata dai sacerdoti romani, viene
contestualizzata in maniera più forte e trasformata in un riferimen-
to all’episcopato: nel 1636 Denham rese la frase con «Apollos
mitre» e nel 1656 semplicemente con «consecrated Mitre» (I,
416). La maggiore scorrevolezza della revisione di Denham può
aver fatto sembrare la sua traduzione «migliore», ma questo effetto
nasconde in realtà una riscrittura del testo latino che viene così
arricchito di sottili allusioni alle istituzioni e agli ambienti inglesi,
rafforzando l’analogia storica tra la caduta di Troia e la sconfitta
del partito realista.
La scorrevolezza presuppone una concezione teorica del lin-
guaggio come comunicazione che, nella pratica, si manifesta
accentuando l’immediata intelligibilità e annullando la polisemia o
qualunque gioco del significante che comprometta la coerenza del
undas, pars cetera pontum/ pone legit sinuatque immensa volumine terga»;
«Laocoonte, sacerdote tratto a sorte a Nettuno,/ immolava un grande toro
presso le are solenni./ Ma ecco da Tenedo in coppia per le profonde acque
tranquille/ – inorridisco a raccontarlo – due serpenti con immense volute/
incombono sul mare, e parimenti si dirigono alla riva;/ i petti erti tra i flutti e
le creste sanguigne/ sovrastano le onde; tutta l’altra parte/ sfiora il mare da
tergo e incurva in spire gli enormi dorsi; scroscia il gorgo schiumante» (ivi,
II, 201-208) [N.d.T.].

95
significato. La lingua viene concepita come un medium trasparente
dell’espressione personale, un individualismo che porta a presenta-
re la traduzione come recupero del significato inteso dall’autore
straniero, secondo quanto sostiene Denham nella prefazione: «Il
discorso è l’abito dei nostri pensieri» (Denham 1656, p. A3r). È
utile a questo punto ricordare la metafora ricorrente nelle prefazio-
ni dei traduttori: l’analogia tra la traduzione e l’abito con cui l’au-
tore straniero viene vestito, o il testo tradotto come corpo vivifica-
to dall’anima dell’autore straniero. L’ipotesi è che il significato sia
un’entità universale senza tempo, facilmente trasferibile nelle lin-
gue e nelle culture nonostante il cambiamento dei significanti, la
costruzione di un contesto semantico diverso a partire da differenti
discorsi culturali e l’inserimento di codici e valori della lingua di
arrivo in ogni interpretazione del testo straniero. «W.L., Gent.»
notava che le sue versioni delle egloghe virgiliane implicavano
una violenza nei confronti dei testi stranieri, cui aveva rotto «il
guscio in tanti pezzi», pur rimanendo allo stesso tempo «attento a
preservare l’interno integro e protetto dalla violenza di un’interpre-
tazione errata o deviata». Alcuni traduttori diedero più di una spie-
gazione al fatto che selezionavano i testi da diversi «Commentari»
(Wroth 1620) per giustificare la loro strategia traduttiva. Ma nes-
suno di loro fu abbastanza cosciente dell’addomesticamento attua-
to con la traduzione libera per poter mettere in luce l’effetto della
trasparenza e sospettare che il testo tradotto fosse irrimediabilmen-
te parziale nella sua interpretazione. Denham ammise che stava
presentando un Virgilio naturalizzato inglese, ma allo stesso tempo
affermava: «Non ho esercitato una violenza talmente diffusa al suo
significato da farlo sembrare mio e non suo» (Denham 1656, A4r).
La scorrevolezza può essere vista come una strategia discorsiva
adattata a livello teorico alla traduzione addomesticante, capace
non solo di apportare la violenza etnocentrica dell’addomestica-
mento, ma anche di concepire tale violenza attraverso la creazione
dell’effetto della trasparenza, l’illusione che quella non sia una tra-
duzione ma il testo straniero vero e proprio, i pensieri originali
dell’autore, «in cui ci siano quella grazia e quella felicità, tipiche
di ogni lingua, che danno vita e energia alle parole» (Denham
1656, A3r). La trasparenza è il risultato del mascheramento delle
condizioni culturali e sociali della traduzione, vale a dire delle
concezioni estetiche, di classe e nazionali legate alla teoria e alla

96
pratica traduttiva di Denham. È questo che rende la traduzione
libera di Denham particolarmente efficace nel suo tentativo di
reinstaurare il predominio della cultura aristocratica: l’effetto della
trasparenza è molto potente nell’addomesticare le forme culturali
perché le presenta come vere, giuste, belle e naturali. Il grande
successo di Denham, sia nelle traduzioni che nelle poesie, fu quel-
lo di far apparire naturale il distico eroico ai suoi successori, svi-
luppando così una forma che avrebbe dominato nella poesia ingle-
se e nella traduzione poetica per più di un secolo.
Scrittori più tardi quali John Dryden e Samuel Johnson rico-
nobbero come apporto veramente «nuovo» di Denham il suo raffi-
namento stilistico del verso. Citavano volentieri i suoi versi sul
Tamigi presenti in La collina di Cooper e ne commentavano la
bellezza richiamandosi alla loro scorrevolezza prosodica, quella
che Dryden chiamò, nella sua «Dedica dell’Eneide» (1697), la loro
«dolcezza» (Dryden 1958, p. 1047). Inoltre, sia Dryden che
Johnson vedevano Denham come un innovatore della traduzione e
ricordavano con piacere le sue parole in lode del Pastor Fido di
Fanshawe, scegliendo i versi in cui Denham difendeva la traduzio-
ne libera:

That servile path, thou nobly do’st decline,


Of tracing word by word and Line by Line;
A new and nobler way thou do’st pursue,
To make Translations, and Translators too:
They but preserve the Ashes, thou the Flame,
True to his Sence, but truer to his Fame.
(Denham 1969, II, 15-16, 21-24)

Dryden si unì a Denham nel rifiuto della «traduzione servile e


letterale» perché, come notò nella sua prefazione alle Epistole di
Ovidio (1680), tale traduzione non è scorrevole: «molto spesso è
priva di chiarezza o di eleganza» (Dryden 1956, p.116).
Inoltre Dryden si univa a Denham, cosa ancora più importante,
nel considerare il distico come il veicolo più appropriato per la tra-
sparenza del discorso. Nella prefazione a The Rival Ladies (1664)
Dryden sostenne che Cooper’s Hill «per la maestà di stile è e sarà
sempre il modello perfetto della buona scrittura», proseguendo poi
con l’affermare che la rima non necessariamente inserisce una nota

97
di artificialità a impedire la trasparenza (Dryden 1962, p. 7).
Qualsiasi uso palesemente artificiale della rima mostra piuttosto la
mancanza di stile dello scrittore:

In base a questi soli motivi loro affermano che la rima sia inna-
turale: quando il poeta seleziona male le parole o quando le fa
rimare in un modo talmente innaturale da non poter somigliare
al discorso comune di nessun uomo. Ma quando viene disposta
con giudizio, in modo tale che la prima parola del verso sembri
generare la seconda, e quindi la successiva […] bisogna allora
ammettere che la rima possiede tutti i vantaggi della prosa,
oltre ai propri […] Laddove il poeta comunemente confina il
suo significato al distico, deve risolvere invece quel significato
entro certe parole in modo che la rima le segua naturalmente,
piuttosto che esse seguano la rima.
(Dryden 1962, p. 8)

L’opera di Denham venne canonizzata dagli scrittori successivi


perché l’uso particolare del distico rendeva la sua poesia e le sue
traduzioni leggibili in modo «semplice e naturale», facendole
apparire «maestose», per usare una metafora reale, o «più esatte»,
più accurate e fedeli come traduzioni, ma solo perché l’illusione
della trasparenza nascondeva il processo con cui il testo straniero
veniva addomesticato alla situazione culturale e sociale inglese.
L’influenza del distico eroico a partire dal tardo Seicento è stata
spesso giustificata in termini politici, essendo ritenuto una forma
culturale il cui forte senso di opposizione e di chiusura rifletteva il
conservatorismo politico in favore della restaurazione monarchica
e del dominio aristocratico, nonostante le continue divisioni di
classe emerse con le guerre civili avessero frammentato l’aristo-
crazia in fazioni, più o meno solidali con le pratiche sociali bor-
ghesi. Robin Grove è particolarmente attento alle implicazioni
sociali della “corrente” raziocinante inseguita dagli scrittori che
sostenevano il distico eroico. L’«urbanità dello stile», osserva,

incorpora il lettore in una classe ricettiva ai valori dell’urbanità.


[…] la letteratura si presenta come un atto sociale, anche se la
“società” che evoca attorno a sé è un immaginario sempre più
specializzato e stratificato: un immaginario che in realtà si lega

98
ai fatti storici (purché non siano semplicemente uniti insieme)
ma per i cui fini le idee di senso, semplicità e naturalità (cfr. An
Essay on Criticism, pp. 68-140) contenevano un ricco deposito
sedimentato di significati e aspirazioni per lo più nascosti alla
vista.
(Grove 1984, p. 54)14

Il fatto che per noi oggi nessuna forma rappresenti meglio del
distico l’uso artificiale del linguaggio testimonia non solo quanto
l’effetto della trasparenza fosse profondamente radicato nella cul-
tura letteraria aristocratica, ma anche quanti significati potrebbero
essere in ciò nascosti.
E, in particolare, fu proprio Dryden a ritenere la traduzione di
Denham così importante per lo sviluppo di questo discorso cultu-
rale. Nella sua «Dedica dell’Eneide» affermò: «Il massimo delle
mie ambizioni è di poter essere considerato al pari» dei traduttori
dell’epoca di Carlo I, quali «Sir John Denham, Mr. Waller, and
Mr. Cowley» (Dryden 1958, p. 1051). Egli ammirava la versione
di Denham del secondo libro al punto da inserirne ben ottanta versi
nella propria traduzione dell’Eneide. Ne abbiamo un tipico esem-
pio nella resa della descrizione della morte di Priamo in cui, come
Dryden conferma nelle note, viene ripetuto il climax di Denham:

Thus Priam fell: and shar’d one common Fate


With Troy in Ashes, and his ruin’d State:
He, who the Scepter of all Asia sway’d,
Whom monarchs like the domestick Slaves obey’d.
On the bleak Shoar now lies th’abandon’d King,
A headless Carcass, and a nameless thing.
(Dryden 1958, II, 758-763)

Nel saggio introduttivo Dryden chiarisce la sua difesa del meto-

14 Indagini storiche sul distico eroico che pongono particolare attenzione

alla sua funzione politica sono, ad esempio, quelle di Caudwell 1973, pp. 99
e 135, Korshin 1973 e Easthope 1983, p. 11. John Milton deve aver inaugura-
to la prima lettura politica del distico eroico quando, nella prefazione al
Paradiso perduto (1667) opponeva l’«antica libertà» del verso libero alla
«noiosa e moderna schiavitù del rimare».

99
do della traduzione libera tratto da Denham, sostenendolo anch’e-
gli con dichiarazioni di tipo nazionalistico: «Ammetto molto sem-
plicemente che questa traduzione inglese ha molto più dello spirito
virgiliano in sé di quanto non ne abbia la francese o l’italiana»
(ivi, p. 1051); ma confessa allo stesso tempo, in chiusura, la somi-
glianza con i modelli francesi:

Mi permetto di dire, e spero a buon diritto come il traduttore


francese, che prendendo tutto il materiale di questo autore
straordinario mi sono sforzato di far parlare Virgilio come un
inglese, come avrebbe fatto egli stesso se fosse nato in
Inghilterra nella nostra epoca. Ammetto, con Segrais, di non
aver avuto in questo tentativo il successo che avrei desiderato:
ma non resterò del tutto privo di lode se in qualche maniera mi
sarà stato concesso di imitare la chiarezza, la purezza, la sem-
plicità e la magnificenza del suo stile.
(ivi, p. 1055)

Come nel caso di Denham, l’addomesticamento è diffuso nella


traduzione di Dryden al punto da far apparire la scorrevolezza
come una caratteristica della poesia virgiliana piuttosto che una
strategia discorsiva effettuata dal traduttore per far sembrare il
distico eroico trasparente, indistinguibile dalla «chiarezza, purez-
za, semplicità e magnificenza del suo stile». Inoltre Dryden, molto
più esplicitamente di Denham, collega la sua traduzione addome-
sticante e scorrevole alla cultura aristocratica. Illustra dunque i
motivi per cui ha evitato l’uso di una terminologia specialistica
nella sua versione dell’Eneide — «the proper terms of Navigation,
Land-Service, or […] the Cant of any Profession» — sostenendo
che

Virgilio ha evitato queste qualità perché non apparteneva ai


marinai, ai soldati, agli astronomi, ai giardinieri, ai contadini
ecc., ma a tutti in generale e in particolare agli uomini e alle
donne del maggior rango: quelli che hanno ricevuto un’educa-
zione superiore e tale da non conoscere il gergo dei mestieri. In
questi casi è abbastanza per un poeta scrivere in modo suffi-
cientemente chiaro da poter essere compreso dai suoi lettori.
(ivi, p. 1061)

100
L’osservazione di Dryden ci ricorda che il metodo della tradu-
zione libera si modellò sulla poesia, che Denham usava la tradu-
zione per distinguere l’élite letteraria da «coloro i quali avevano a
che fare con questioni di fatto o di fede» (Dehnam 1656, p. A3r), e
che questa valorizzazione dell’elemento letterario contribuì a dissi-
mulare le condizioni culturali e sociali della traduzione, incluse
quelle di Dryden. Infatti, come ha mostrato Steven Zwicker,
Dryden voleva che anche il suo Virgilio intervenisse in battaglie
politiche specifiche: «Siamo di fronte a una riflessione sul linguag-
gio e sulla cultura della poesia virgiliana, ma anche a un insieme di
considerazioni sulla conseguenze politiche inglesi nella fase suc-
cessiva alla grande Rivoluzione – afferma Zwicker – un periodo in
cui il regno di Guglielmo III non possedeva la saldezza che assun-
se più tardi, un periodo in cui la restaurazione degli Stuart poteva
ancora essere proposta, e non come pura fantasia» (Zwicker 1984,
p. 177). Il trionfo del distico eroico nel discorso poetico della fine
del XVII secolo dipende in parte dal trionfo del metodo traduttivo
neoclassico nella cultura letteraria aristocratica, un metodo il cui
più grande successo è consistito forse nella destrezza con cui ha
mascherato l’interesse politico che serviva.

II

Seguendo le orme di Dryden, dall’Omero (1715-1726) in diver-


si volumi di Pope fino al sistematico Essay on the Principle of
Translation (Saggio sulla teoria della traduzione, 1791) di
Alexander Tytler, l’addomesticamento dominò ogni genere di teo-
ria e pratica della traduzione in lingua inglese, sia in prosa che in
poesia; collegata a diverse tendenze sociali, fu creata per sostenere
mutevoli funzioni culturali e politiche. L’Omero di Pope contribuì
alla prosecuzione del processo di affinamento del discorso poetico
trasparente nel distico eroico, sempre come elitarismo letterario di
classi egemoniche che dipendeva non tanto dal mecenatismo di
corte quanto dagli editori e dalle loro liste di sottoscrizione, in
aumento sia tra borghesi che tra aristocratici. Sottoscrivere la tra-
duzione di Pope divenne una moda: oltre il 40 percento dei nomi
della lista per l’Iliade di Pope erano nobili, e i deputati includeva-

101
no sia Tories che Whigs15. La traduzione scorrevole rimaneva
associata all’élite culturale britannica mentre la sua autorità era
così forte da potersi opporre alle linee di partito. Pope descrisse
questo tipo privilegiato di discorso nella sua prefazione:

Non resta che parlare della versificazione. Omero (come è stato


detto) consacra perpetuamente il suono al senso, e lo varia in
ogni nuovo argomento. Questa è in verità una delle più squisite
bellezze della poesia, che hanno raggiunto in pochi: a questo
riguardo conosco soltanto l’eminenza di Omero in greco e di
Virgilio in latino. Sono consapevole del fatto che ciò può a
volte accadere per caso, quando uno scrittore è appassionato e
completamente in possesso della propria immagine: potrebbe
comunque essere ragionevolmente credibile che questi abbiano
raggiunto tale eminenza deliberatamente, come appare evidente
nei loro versi dalla superiorità rispetto a tutti gli altri. Pochi
scrittori hanno un orecchio tale da poterlo giudicare, ma coloro
che ne sono dotati si accorgeranno che ho fatto ogni sforzo pos-
sibile per raggiungere questa bellezza.
(Pope 1967, pp. 20-21)

Pope mostra la zona di silenzio della traduzione addomestican-


te che confondeva, sotto l’illusione della trasparenza, l’interpreta-
zione/traduzione con il testo straniero, o persino con l’intenzione
dello scrittore straniero, canonizzando i classici sulla base dei con-
cetti illuministici del discorso poetico: l’abilità metrica designata a
ridurre il significante a un significato coerente, «che consacra per-
petuamente il suono al senso». La scorrevolezza dell’Omero di
Pope pose lo standard per le traduzioni in versi della poesia classi-
ca, così che, nota Penelope Wilson,

troviamo che i poeti antichi emergono dallo scontro con il


decoro in gruppi più o meno indifferenziati, caratterizzati dalla
rima armoniosa, oppure dal verso libero e dallo stile elegante.
15 Le liste di sottoscrizione per l’Omero di Pope sono descritte da Rogers
1978, Hodgart 1978 e Speck 1982. Hodgart osserva che la lista per l’Iliade
«rivela una decisa tendenza Tory-giacobita» (Hodgart 1978, p. 31).

102
Essi sono generalmente giudicati dai critici, in maniera corri-
spondente, con vaghi elogi quali «non meno fedele che elegan-
te»; e quando sono condannati, lo sono più spesso sul campo
stilistico che su quello della precisione.
(Wilson 1982, p. 80)

Nel XVIII secolo l’eleganza stilistica nella traduzione può già


essere vista come sintomatica dell’addomesticamento, poiché por-
tava il testo antico in linea con gli standard letterari che dominava-
no nella Gran Bretagna di Hannover. In quel momento cruciale
della sua ascesa culturale la traduzione addomesticante fu portata a
volte a estremi che appaiono allo stesso tempo curiosamente comi-
ci e piuttosto familiari nella loro logica; pratiche che un traduttore
potrebbe utilizzare ancora oggi nel permanente predominio della
scorrevolezza. William Guthrie, per esempio, nella prefazione alla
sua versione di The Orations of Marcus Tullius Cicero (1741),
affermava che «soltanto il modus vivendi può comunicare lo spiri-
to dell’originale», rendendo sufficiente che il traduttore si assuma

l’impegno a essere il più pratico possibile nello studio del


modus vivendi che si avvicini maggiormente a quello che, pos-
siamo supporre, il suo autore vorrebbe perseguire se vivesse
oggi, e nel quale risplenderebbe.
(Steiner 1975, p. 98)

Per questa ragione Guthrie fece del suo Cicerone un membro


del Parlamento, «dove – afferma – grazie a una costante attenzione
perseguita per molti anni, tentai di impossessarmi del linguaggio
più proprio a questa traduzione» (ivi, p. 99). La traduzione di
Guthrie naturalizzava il testo latino nel discorso trasparente che
aveva praticato in quanto corrispondente dei dibattiti parlamentari
per il Gentleman’s Magazine.
È importante non considerare queste istanze dell’addomestica-
mento come traduzioni semplicemente imprecise. I canoni della
precisione e della fedeltà sono sempre definiti localmente, e sono
specifici di diverse formazioni culturali e di vari momenti storici.
Sia Denham che Dryden riconoscevano che nel processo della tra-
duzione avviene una proporzione tra perdita e guadagno che la
situa in un rapporto equivoco nei confronti del testo straniero, mai

103
abbastanza fedele, sempre un po’ libera, priva di un’identità stabi-
le, sempre in bilico fra una perdita e un’aggiunta. Tuttavia
anch’essi vedevano il loro metodo addomesticante come la via più
efficace per controllare questo rapporto equivoco e per produrre
versioni adeguate al testo latino. Di conseguenza castigarono sia i
metodi che aderivano troppo rigorosamente alle caratteristiche del
testo della lingua di partenza, sia quelli che se ne allontanavano
irresponsabilmente, in un modo che erano poco propensi ad auto-
rizzare e che non aderiva sufficientemente al canone della scorre-
volezza nella traduzione. Dryden «pensava che fosse opportuno
porsi tra i due estremi, quello della parafrasi e quello della tradu-
zione letterale» (Dryden 1958, p. 1055), cioè tra la tendenza a
riprodurre principalmente i significati del testo latino, solitamente
a spese delle sue caratteristiche fonologiche e sintattiche, e quella
di renderlo parola per parola rispettando la sintassi e la pausa del
verso. Egli distinse il suo metodo dalle «imitazioni» di Pindaro
fatte da Abraham Cowley, traduzioni parziali che sottoponevano a
revisione il testo straniero e, in effetti, se ne allontanavano. Dryden
aveva l’impressione che Denham «avesse consigliato più libertà di
quella che si era preso lui stesso» (Dryden 1956, p. 117), lasciando
che le sue effettive libertà – il commento al testo latino e il lessico
addomesticato – passassero inosservate, come ricercatezze al di là
dell’attenzione, naturalizzate dalla grandezza di stile. La violenza
etnocentrica rappresentata dalla traduzione addomesticante si basa-
va su una doppia fedeltà, al testo della lingua di partenza così
come alla cultura della lingua d’arrivo, e in particolare alla sua
valorizzazione del discorso trasparente. Ma tale atteggiamento era
chiaramente impossibile e intenzionalmente ambiguo, accompa-
gnato com’era dalla spiegazione che l’acquisto in intelligibilità e
forza culturale nazionale potesse superare d’importanza la perdita
sopportata dal testo e dalla cultura stranieri.
Questa tendenza della traduzione in lingua inglese viene portata
nuovamente all’estremo alla fine del secolo, nell’Essay on the
Principles of Translations (1791) di Alexander Fraser Tytler.
L’autorevole trattato di Tytler è un documento chiave nella cano-
nizzazione della scorrevolezza, un riassunto dei «princìpi», delle
«leggi» e dei «precetti» che offre una sovrabbondanza di esempi
illustrativi. Il suo decisivo consolidamento delle precedenti dichia-
razioni, sia francesi che inglesi, costituiva un raffinamento teorico,

104
visibile nella precisione delle distinzioni e nella sofisticatezza filo-
sofica delle affermazioni: l’addomesticamento veniva ora racco-
mandato sulla base della generale natura umana che viene ripetuta-
mente contraddetta dall’individualismo estetico.
Per Tytler il fine della traduzione consiste nella produzione di
un effetto equivalente che trascende le differenze linguistiche e
culturali:

Descriverei come buona traduzione Quella in cui il valore del-


l’opera originale viene totalmente trasferito in un’altra lingua
al punto che questa viene distintamente percepita e fortemente
recepita da una persona originaria del paese di quella lingua
nello stesso modo in cui la percepiscono coloro che parlano la
lingua dell’opera originale.
(Tytler 1978, p. 15)

Il «valore» del testo straniero, e «i pregi e i difetti» dei tentativi


di riprodurlo nella traduzione sono accessibili a tutti, perché,

fino a che la ragione e il buon senso forniscono un criterio, l’o-


pinione dei lettori intelligenti sarà probabilmente uniforme. Ma
non si può negare che in molti degli esempi addotti in questo
saggio l’appello non è tanto ai canoni prestabiliti dalla critica,
quanto al gusto individuale; non sorprenderà se in tali esempi
avrà luogo una diversità di opinione: e avendo l’autore esercita-
to con grande libertà il suo giudizio su questi punti, non potreb-
be certo essere lui a biasimare gli altri perché utilizzano la stessa
libertà per dissentire dalle sue opinioni. Il vantaggio principale
che deve derivare da tali discussioni sul problema del gusto non
nasce da una qualsiasi certezza che possiamo ottenere della retti-
tudine delle nostre decisioni critiche, quanto dall’esercizio pia-
cevole e utile che esse danno ai più elevati poteri della mente,
quelli che più ci distinguono dagli animali inferiori.
(ivi, pp. VII-VIII)

Tytler ritiene possibile sia tradurre con successo che giudicare


le traduzioni, supponendo che le differenze linguistiche e culturali
non esistono a un livello fondamentale, e invocando piuttosto «una
ragione e un buon senso» universali che distinguono quella sfera

105
pubblica di consenso culturale (i «lettori») che si estende alle spe-
cie e agli esseri umani «intelligenti»16. Successivamente restrin-
gerà tuttavia questa sfera, prima escludendo il consenso («canoni
prestabiliti dalla critica»), poi appellandosi alla «libertà» del
«gusto individuale». L’approccio di «senso comune» alla traduzio-
ne formulato da Tytler, basato su un umanesimo liberale affermato
con un atto democratico effimero (una sfera pubblica di dibattito),
cade tuttavia in definitiva in un’estetica individualista con conse-
guenze scettiche: «Nelle questioni in cui l’ultima parola è del
gusto, è quasi impossibile essere sicuri della solidità delle nostre
opinioni quando il criterio della verità è tanto incerto» (ivi, p. 11).
La spinta verso l’individualismo è così potente nel trattato di
Tytler, per quanto possano sembrare «incerti» i contorni della sog-
gettività, che egli non mostra mai il benché minimo scetticismo nei
confronti del giudizio estetico e costruisce infatti un concetto di
«gusto corretto» basato su «una sensazione squisita». Tutte le scel-
te del traduttore dovrebbero essere governate da questa, perfino al
punto di violare le «leggi» della buona traduzione. Queste ultime
includono, per prima cosa, «che la traduzione fornisca una ripro-
duzione completa delle idee dell’opera originale», e per seconda
«che lo stile e il modo di scrivere abbiano lo stesso carattere del-
l’originale» (Tytler 1978, p. 16). L’«uomo dal sentimento squisi-
to», può comunque godere della «libertà» di «estendere o tagliare
le idee dell’originale», così come del «privilegio» di «correggere
quelle che gli appaiono come espressioni imprecise e trascurate
dell’originale, e la cui imprecisione sembra materialmente intacca-
re il senso» (ivi, p. 54). Certamente ciò che è «corretto» è sempre
un valore nazionale che include l’effetto discorsivo che domina la
cultura inglese di quel periodo, la scorrevolezza. Di qui, la terza e
ultima «legge» di Tytler: «La traduzione deve possedere tutta la
naturalezza della composizione originale» (ivi, p. 15).
I buoni traduttori rendono effettive le strategie scorrevoli: evita-
no la frammentazione sintattica, la polisemia («che è, in fondo,
sempre un difetto del componimento») (Tytler 1978, p. 28), i
cambi improvvisi nel registro discorsivo. Tytler loda Henry Steuart
“Egr.”, «l’ingegnoso traduttore di Sallustio», per la sua «resa di un
16 Per l’emergere e la funzione della “sfera pubblica” nel XVIII secolo, si

vedano Habermas 1989, Hohendhal 1982, e Eagleton 1984.

106
autore difficilissimo in una lingua facile, pura, corretta e molto
eloquente»; Steuart riconosceva infatti «l’inutilità di ogni tentativo
di imitare il modo sconnesso e sentenzioso» del testo latino (ivi,
pp. 188-189). Del Tacito di Arthur Murphy, Tytler nota: «Ammi-
riamo più di tutto il giudizio del traduttore nell’evitare ogni tentati-
vo di emulare la brevità dell’originale, sapendo che non l’avrebbe
potuta raggiungere se non con il sacrificio sia della naturalezza che
della chiarezza» (ivi, pp. 186-187). «Imitare l’oscurità o l’ambi-
guità dell’originale è uno sbaglio; e lo è ancora di più dare più di
un significato» (ivi, pp. 28-29). Thomas May e George Sandys
«manifestavano un miglior gusto nella traduzione poetica» poiché
«avevano dato alle loro versioni [di Lucano e Ovidio] sia una natu-
ralezza d’espressione che un’armonia di versi che le avvicinavano
molto al componimento originale», mascherando tanto la condi-
zione di second’ordine della traduzione quanto il suo addomestica-
mento del testo straniero. Questi traduttori che hanno prodotto il
senso dell’originalità «hanno sempre adattato la loro espressione
all’idioma della lingua nella quale scrivevano» (ivi, p. 68). Il «pre-
cetto» dominante, afferma Tytler, è «che il traduttore deve sempre
riuscire a immaginare in che modo l’autore originale si sarebbe
espresso se avesse scritto nella lingua della traduzione» (ivi, p.
201). Ma il traduttore deve anche conciliare i livelli formali della
traduzione; in verità deve sovrapporre la forma addomesticata allo
scrittore straniero.
Le raccomandazioni di Tytler sulla scorrevolezza portarono
all’inserimento nel testo straniero di una serie piuttosto conserva-
trice di rappresentazioni sociali. Questa includeva l’altezzosità nei
confronti dei riferimenti fisici, permettendo così alla sua idea di
«gusto corretto» di agire come discorso culturale con cui la bor-
ghesia e l’aristocrazia esprimevano la loro superiorità nei confronti
delle classi inferiori. Come hanno mostrato Peter Stallybrass e
Allon White,

All’interno del discorso simbolico della borghesia, indisposi-


zione, malattia, povertà, sessualità, empietà e classi inferiori
erano indissolubilmente legate. Il controllo dei limiti corporei
(nel respirare, mangiare, defecare) assicurava un’identità che
veniva sempre interpretata in termini di differenza di classe.
(Stallybrass e White 1986, p. 167)

107
Tytler ritiene quindi che Omero palesi una tendenza «a offende-
re, introducendo immagini basse e allusioni puerili. Tuttavia que-
sto difetto è ammirevolmente velato, o completamente rimosso dal
suo traduttore, Pope» (Tytler 1978, p. 79). Pope viene infatti elo-
giato per la sua omissione di «un “elemento improprio”: il compli-
mento alla vita sottile della balia» fatto da Omero, che Tytler ren-
deva nella sua versione con: «[her] waist was elegantly girt» («la
sua vita era elegantemente fasciata»), così come per quella di «una
circostanza estremamente infima, e persino disgustosa», «un’im-
magine nauseabonda» di Achille bambino che Tytler rendeva nella
sua nella traduzione con: «When I placed you on my knees, I filled
you with meat minced down, and gave you wine, which you vomi-
ted upon my bosom» («quando ti ho messo sulle mie ginocchia, ti
ho riempito di carne tritata, e ti ho dato del vino, che hai vomitato
sul mio petto») (ivi, pp. 49-50, 89-90). In altri punti il processo di
addomesticamento è esplicitamente codificato dal punto di vista di
classe, mediante il consiglio al traduttore di inserire nel testo stra-
niero discorsi letterari d’élite ed escludendo allo stesso tempo i
discorsi che circolano all’interno del proletariato urbano:

Se ci offende, giustamente, a tal punto sentire Virgilio parlare


nello stile dell’Evening Post o del Daily Advertiser, che cosa
dobbiamo pensare del traduttore che fa esprimere lo stesso
solenne e sentenzioso Tacito nel basso gergo della strada o nel
dialetto degli osti delle taverne?
(ivi, p. 119)

La trasparenza, «la naturalezza del componimento originale»


nella traduzione, era un effetto letterario di qualità che evitava la
«licenziosità» dei generi popolari orali:

Viene richiesto il gusto più corretto per impedire che quella


naturalezza degeneri in licenziosità. [...] Il più licenzioso di tutti
i traduttori è stato Mr. Thomas Brown, di arguta memoria, nelle
cui traduzioni da Luciano troviamo la più perfetta naturalezza;
ma si tratta della naturalezza di Billingsgate e di Wapping.
(ivi, pp. 220-221)

In definitiva, la valorizzazione borghese del discorso trasparen-

108
te fatta da Tytler, a esclusione di quello che Michail Bachtin chia-
mava il «carnevalesco», rivela un’ansia di classe nei confronti
della condizione di simulacro del testo tradotto e della minaccia
che esso pone a un concetto individualistico della paternità lettera-
ria (Bachtin 1984). Stallybrass e White hanno agevolato la critica
alla teoria della traduzione di Tytler con una storia bachtiniana
della formazione della paternità letteraria in Inghilterra:

Jonson, Dryden, Pope e Wordsworth, ognuno di loro cercava di


legittimare la propria asserzione alla vocazione di maestro-
poeta svincolandosi dalla scena carnevalesca per innalzarsi al
di sopra, assumendo una singolare posizione di trascendenza.
Le tracce di questo lavoro, di questo atto di rigetto discorsivo,
si distinguono semplicemente nel tentativo del poeta di trovare
un’unità illusoria al di sopra e oltre il carnevale. In ogni caso,
comunque, questo atto apparentemente semplice di superiorità
sociale e di disdegno non potrebbe effettivamente realizzarsi
senza rivelare il vero lavoro implicito di soppressione e di
sublimazione.
(Stallybrass e White 1986, pp. 123-124)

La traduzione minaccia l’autore trascendente perché sottomette


il suo testo all’infiltrazione di altri discorsi che non sono borghesi,
individualistici e trasparenti. Nel caso di Tytler c’è una particolare
premura affinché i testi classici non vengano carnevalizzati e
degradati da strategie di traduzione che non realizzano le letture
canoniche di quei testi, rendendo colloquiale «il solenne e senten-
zioso Tacito», per esempio, o abbandonando «la forza unita alla
semplicità», che è «caratteristica del linguaggio di Omero», nel
tradurre le sue volgarità. Il vero lavoro di soppressione e di subli-
mazione impiegato dalla teoria di Tytler può essere intravisto nella
sua propensione al rischio di compromettere la canonicità dei testi
classici, ammettendo che questi devono essere rivisti per convali-
dare la lettura raffinata e borghese che egli ne ha fatto. Poiché il
neoclassicismo di Tytler comprende un metodo di traduzione libe-
ra, questo esprime e allo stesso tempo dichiara impossibile un
sogno nostalgico di originalità, la vicinanza degli antichi alla
“Natura”, la libera rappresentazione ed espressione delle loro con-
dizioni discorsive.

109
Per Tytler, alla minaccia posta dalla traduzione alla trascen-
denza dell’autore viene fornita risposta dall’umanesimo liberale,
la contraddizione tra una natura umana generale e l’estetica indi-
vidualista impersonata dall’idea di «gusto corretto». La sua inten-
zione esplicita è di rivolgersi al «tema della traduzione come a
un’arte, che dipende da principi prestabiliti» (Tytler 1978, p. 4, il
corsivo è mio). Il traduttore con un «gusto corretto» è infatti un
artista, un autore: «Nessuno, se non un poeta, può tradurre un
poeta»; «un traduttore ordinario affonda nell’energia dell’origina-
le; l’uomo di genio di frequente si innalza al di sopra di essa» (ivi,
p. 42). Ed è la trasparenza che denota la qualifica di autore all’in-
terno del testo: la naturalezza dell’originalità sopravviene nei
«modelli di traduzione perfetta, in cui gli autori si sono addentrati
con gusto squisito all’interno dei modi dei loro originali» (ivi, p.
142). La qualifica di autore di un traduttore dipende da un’identi-
ficazione sensibile con l’autore straniero – «per usare un’espres-
sione coraggiosa, [il traduttore] deve adottare la vera anima del
suo autore, il quale deve parlare attraverso i suoi stessi organi»
(ivi, p. 212) – ma nella traduzione quella che viene espressa non è
tanto «l’anima» dell’autore straniero quanto quella del traduttore:
«Con quale gusto superiore il traduttore ha innalzato questa simi-
litudine, e scambiato la circostanza offensiva con una bellezza»;
«in tali esempi, il buon gusto del traduttore invariabilmente copre
il difetto dell’originale» (ivi, pp. 89 e 88). L’angoscia per il fatto
che la traduzione complichi l’espressione dell’autore mediando il
testo straniero con discorsi «bassi» è dissipata dall’abolizione
operata da Tytler della differenza tra traduttore e autore, per lo più
sulla base di un effetto illusionistico della testualità, ora segno del
«gusto corretto».
Tytler (1747-1813), uno scozzese che esercitava l’avvocatura e
perseguiva vari interessi storici, letterari e filosofici, pubblicò ano-
nimamente il suo trattato nel 1791 e ne fece in seguito uscire due
nuove edizioni, nel 1797 e nel 1813, estendendo il libro di tre volte
e più rispetto all’originale, aggiungendo moltissimi esempi, guida-
to dalla convinzione empirica che questi avrebbero fatto apparire
vero, giusto e ovvio il suo concetto di «gusto». Il trattato venne
accolto in maniera molto favorevole da critici e lettori, conferman-
do Tytler nella sensazione di rivolgersi a una sfera pubblica di con-
senso culturale, anche se limitata a un’élite letteraria borghese che

110
gli era affine17. Lo European Magazine, che si annunciava come
«un veicolo generale, attraverso il quale i letterati dell’intero regno
possono conversare l’uno con l’altro e comunicare la loro cono-
scenza al mondo», concludeva la sua recensione «con la meravi-
glia per la varietà di letture dell’autore e con l’elogio dell’esattezza
del suo giudizio e dell’eleganza del suo gusto» (European
Magazine 1793, p. 282). Il trattato di Tytler spinse il Monthly
Review a una riflessione sul «graduale progresso del gusto tra i
nostri scrittori inglesi», fenomeno messo ormai in evidenza dall’a-
scesa della traduzione scorrevole (Monthly Review 1792, p. 361).
Il recensore anonimo asseriva che «le osservazioni dell’autore
sono, per la maggior parte, così evidentemente guidate dal buon
senso, e così consone al gusto corretto, da ammettere poche repli-
che; gli esempi, attraverso i quali vengono illustrate, sono poi scel-
ti molto giudiziosamente e utilizzati in modo appropriato», «abba-
stanza per convincere ogni lettore di buon gusto che il volume
ripagherà la fatica di una lettura integrale e diligente» (ivi, pp. 363
e 366).
Sebbene entrambi questi recensori esprimessero qualche dub-
bio circa la raccomandazione di Tytler affinché il traduttore com-
mentasse o «migliorasse» il testo straniero, nessuno ritenne que-
st’azione discutibile a causa dell’addomesticamento che implicava.
Al contrario, il problema era nella natura specifica dell’addomesti-
camento, ed entrambi presentavano delle motivazioni saldamente
basate sulle maggiori questioni della traduzione nazionale. Il
recensore del Monthly Review suggeriva che «i miglioramenti»
apportati da Tytler al testo straniero avrebbero potuto ostacolare il
miglioramento del gusto rappresentato dalla traduzione, «il grande
fine della quale è indubbiamente di dare al lettore non erudito un’i-
dea giusta del pregio dell’originale» (Monthly Review 1792, p.
363). Il recensore dello European Magazine era meno didattico ma
ugualmente snobistico nel suo desiderio di conservare il testo clas-
sico in uno stato puro e non mediato: «Tali ornamenti ci appaiono

17 Alison descrive l’accoglienza estremamente favorevole ricevuta dal

trattato di Tytler – «I diversi recensori del giorno si contendevano il primato


delle osservazioni e la libertà d’elogio» – concludendo che «dopo un’espe-
rienza di quindici anni [e di cinque edizioni], può essere oggi considerato un
classico della critica inglese» (Alison 1818, p. 28).

111
come dorature moderne adagiate su una delle più belle statue del-
l’antichità» (European Magazine 1792, p. 188). Questo attegia-
mento antiquario, benché basato sull’idealizzazione del passato,
era effettivamente al servizio degli interessi sociali contemporanei,
intento, in maniera un po’ contraddittoria, alla valorizzazione del
discorso trasparente nella cultura letteraria d’élite e alla segnala-
zione di traduzioni che sembrassero riprodurre perfettamente il
testo straniero: «Il senso sobrio della critica [...] invita il traduttore
a essere fedele specchio dell’originale» (ivi, p. 189).
L’importanza di Tytler nella canonizzazione della traduzione
scorrevole è forse più chiaramente indicata dall’adesione di
George Campbell agli stessi «principi» nella sua versione in due
volumi dei Vangeli. Quella di Campbell fu indubbiamente una
delle più popolari traduzioni inglesi del suo tempo: tra il 1789,
anno della prima pubblicazione, e il 1834, ne apparvero quindici
edizioni fra Gran Bretagna e Stati Uniti. Il primo volume, di grandi
dimensioni, conteneva le Dissertazioni Preliminari di Campbell su
argomenti quali “Le cose più importanti di cui occuparsi nella tra-
duzione” (“Decima Dissertazione”, pp. 445-519), in cui si nota
una forte somiglianza con le raccomandazioni di Tytler:

La prima cosa, senza dubbio, che richiede l’attenzione [del tra-


duttore], è quella di dare una giusta rappresentazione del senso
dell’originale. Questa, bisogna riconoscerlo, è la più essenziale
di tutte. La seconda cosa è di trasportare all’interno della tradu-
zione, per quanto possibile e coerentemente con il genio del lin-
guaggio nel quale si scrive, lo spirito e i modi dell’autore e, se
così posso esprimermi, il vero carattere del suo stile. La terza e
ultima cosa è quella di fare attenzione che la versione abbia
almeno quel tanto della qualità di una rappresentazione origina-
le da apparire naturale e facile, in modo da non permettere al
critico di accusare il traduttore di avere utilizzato le parole in
maniera impropria, o con un significato non attestato dall’uso o
di averle combinate in maniera tale da rendere il loro senso
oscuro e la costruzione sgrammaticata o persino discorde.
(Campbell 1789, pp. 445-446)

Raccomandare la trasparenza come il discorso più adatto ai


Vangeli significava in effetti canonizzare le traduzione scorrevole.

112
Tytler, che dichiarava di non aver conosciuto l’opera di Campbell
prima di pubblicare la propria, ne fece uso in successive edizioni
dell’Essay, attingendo alle Dissertazioni Preliminari per ulteriori
esempi e unendosi a Campbell nel rifiutare quelle traduzioni che
erano o troppo letterali o troppo libere, allontanandosi troppo dalla
scorrevolezza e dalle interpretazioni dominanti del testo sacro. «Il
dottor Campbell ha giustamente notato che l’ebraico è una lingua
semplice», osservava Tytler, condividendo il rifiuto del traduttore
della Bibbia per la versione di Sebastianus Castalio a causa della sua
«elegante latinità», e per «aver sostituito una composizione florida e
complessa a una semplice e scarna» (Tytler 1978, pp. 111 e 112). La
descrizione di Campbell della sua stessa strategia discorsiva racco-
mandava la scorrevolezza: «Per quanto riguarda il linguaggio, e in
particolare quello della versione, semplicità, proprietà e chiarezza
sono le principali qualità verso le quali mi sono indirizzato. Ho cer-
cato di rendere ugualmente chiari i fronzoli di Arias e l’eleganza un
po’ vistosa di Castalio» (Campbell 1789, p. XX). Secondo la visione
di Campbell, Arias Montanus non era nel giusto perché la sua ver-
sione latina «appariva servilmente letterale», offrendo rese etimolo-
giche oscure e «conservando l’uniformità, rendendo la stessa parola
dell’originale, ovunque capiti o comunque sia connessa, con la stes-
sa parola nella versione», senza «badare al fine dell’autore, così
come appare dal contesto» (ivi, pp. 449, 450, 451). La scorrevolezza
richiede che il lessico del traduttore sia abbastanza vario da non
essere notato come tale, così che non emerga l’artificiosità della tra-
duzione o, in definitiva, essa richiede che il traduttore abbia creato
un “contesto” nella lingua d’arrivo per sostenere quello che egli ha
creduto di identificare nel «fine dell’autore».
La condanna fatta da Campbell della traduzione fedele ricorda
che ogni difesa del discorso trasparente nasconde un investimento
nei valori culturali nazionali: nel suo caso, un dogmatismo cristia-
no dai toni antisemiti.

L’attaccamento servile alla lettera, nella traduzione, è origina-


riamente il prodotto della superstizione, non della chiesa ma
della sinagoga, là dove sarebbe stato meglio che gli interpreti
cristiani, ministri non della lettera ma dello spirito, l’avessero
lasciato.
(Campbell 1789, pp. 456-457)

113
Come Tytler, comunque, anche Campbell presume l’esistenza
di una sfera pubblica governata dalla ragione universale. In uno
scambio epistolare egli assunse la visione compiaciuta della somi-
glianza delle loro idee come rappresentazione dell’«evidenza» di
un «incontro emotivo su argomenti critici tra persone di raffinata
ingegnosità ed erudizione» (Alison 1818, p. 27). Tuttavia, la natura
esclusiva ed elitaria di questo consenso letterario diviene evidente
non solamente nel dogmatismo cristiano di Campbell, ma anche
nella sua reazione iniziale al trattato di Tytler: Campbell scrisse
all’editore suggerendogli di annotarsi il nome di quell’autore per-
ché, benché fosse «non poco lusingato al pensiero di aver trovato
su quegli argomenti una convergenza di giudizio con uno scrittore
così ingegnoso», confessava comunque «il suo sospetto che l’auto-
re avesse potuto attingere dalla sua Dissertazione, senza riconosce-
re il debito contratto» (Alison 1818, p. 27; Tytler 1978, p. XXXII).
Anche Campbell possedeva, come traduttore, il senso della pater-
nità letteraria – cristiana e individualistica allo stesso tempo – che
poteva venire disturbato da altre traduzioni e da altri discorsi sulla
traduzione, provocandogli delle reazioni che andavano in direzio-
ne opposta alle sue convinzioni umaniste.
All’inizio del XIX secolo venne sancito fermamente, come
canone della traduzione in lingua inglese, un metodo atto ad eli-
dere la differenza linguistica e culturale del testo straniero, sem-
pre legato alla valorizzazione del discorso trasparente. La canoni-
cità della traduzione addomesticante andava in tal modo al di là di
ogni discussione sopravvissuta alla disintegrazione della sfera
pubblica borghese, essendo «ora più una disputa feroce che un
consenso blando» in cui i periodici letterari inglesi costituivano le
fazioni culturali con esplicite posizioni politiche (Eagleton 1984,
p. 37). Nel 1820 John Hookham Frere, che in seguito pubblicherà
le sue traduzioni di Aristofane, recensì sfavorevolmente sulle
pagine della rivista Quarterly Review, fermamente conservatrice,
le versioni fatte da Thomas Mitchell di The Acharnians e The
Knights, in quanto difensore tory della teoria letteraria neoclassica
e dell’autorità tradizionale di aristocrazia e chiesa anglicana
(Sullivan 1983b, pp. 359-367). Per Frere il «difetto» principale
della traduzione di Mitchell era nel discorso drammatico arcaico,
«lo stile della nostra commedia antica all’inizio del XVI secolo»,
mentre

114
il linguaggio della traduzione deve, riteniamo, essere il più pos-
sibile un elemento puro, impalpabile e invisibile, strumento del
pensiero e del sentimento, e niente di più; non deve mai attrarre
l’attenzione su di sé; per questo devono essere il più possibile
evitate tutte le espressioni idiomatiche che sono eccezionali di
per sé, sia antiche che nuove, tutte le importazioni da lingue
straniere e le citazioni. [...] tali espressioni, come [Mitchell] ha
talvolta ammesso, per esempio «solus cum solo», «petits pates»
ecc., hanno l’effetto immediato di ricordare al lettore che sta
leggendo una traduzione, e [...] l’illusione di originalità che la
piega vivace o naturale che una frase immediatamente preceden-
te poteva avere suscitato, viene fatta istantaneamente svanire.
(Frere 1820, p. 481)

Frere difendeva la strategia scorrevole ormai acquisita, in cui il


linguaggio della traduzione era creato per una lettura dalla «piega
vivace o naturale», così che l’assenza di ogni peculiarità sintattica
e lessicale producesse l’«illusione» che la traduzione non fosse
tale, ma che fosse il testo originale stesso e che riflettesse l’inten-
zione dello scrittore straniero: «Presumiamo che il compito del tra-
duttore sia quello di rappresentare le forme della lingua secondo
l’intenzione con la quale vengono utilizzate» (ivi, p. 482). Il recen-
sore dell’Edinburgh Review, una rivista la cui politica liberale e
progressista fece nascere il Quarterly Review, concordava nel rico-
noscere l’imperfezione dell’Aristofane di Mitchell e, per la stessa
ragione, sosteneva che egli «dedicava troppo tempo a lavorare
nelle miniere dei nostri antichi drammaturghi, invece di affrontare
la maggiore difficoltà che gli si sarebbe posta nel darsi uno stile
proprio più adatto all’esigenza» (Edinburgh Review 1820, p.
306)18. Il critico definiva questa «esigenza» come la caratteristica
stilistica ripetutamente attribuita ai testi classici durante il XVIII
secolo, affermando che «la semplicità non dovrebbe mai essere
dimenticata in una traduzione di Aristofane» (ivi, p. 307). Eppure
suggerì anche che la semplicità doveva essere considerata allo
stesso modo una caratteristica dello stile di Mitchell («uno stile
proprio»), mostrando inconsapevolmente che la traduzione scorre-
18 Per la prospettiva ideologica dell’Edinburgh Review si vedano Clive
1957, cap. 4; Hayden 1969, pp. 8-9, 19-22 e Sullivan 1983b, pp. 139-144.

115
vole addomesticava il testo straniero, rendendolo comprensibile in
quella cultura inglese che considerava la facile leggibilità e il
discorso trasparente come illusione della presenza dell’autore.
Ancora una volta l’addomesticamento decretato dalla strategia
scorrevole non venne visto come causa di una traduzione impreci-
sa. I noti periodici d’opposizione furono concordi nel ritenere che
la versione dell’Orlando Furioso di Ariosto fatta da William
Stewart Rose nel 1823 fosse sia scorrevole che fedele. Black-
wood’s, una rivista il cui conservatorismo tory si spingeva fino
all’estremismo reazionario, definì la traduzione di Rose «un lavoro
che, necessariamente, si indirizza alle classi più raffinate», poiché
«mai una tale scrupolosa fedeltà di resa fu associata a una simile
leggera eleganza armoniosa del linguaggio» (Blackwood’s 1823, p.
30)19. Il London Magazine, che cercava di mantenere una neutra-
lità indipendente rispetto ai suoi concorrenti politicamente faziosi,
trovò ugualmente che Rose «generalmente univa la naturalezza
loquace e il modo spontaneo dell’originale a un flusso di versi
incisivo e uniforme»(London Magazine 1824, p. 626; Sullivan
1983b, pp. 288-296). Il Quarterly Review prese la versione di Rose
come un’opportunità per riaffermare i canoni della traduzione
scorrevole:

le due caratteristiche di una buona traduzione sono quelle di


essere fedele e disinvolta. Fedele, sia nel rendere correttamente
il significato dell’originale, sia nel mostrare lo spirito generale
che lo pervade; disinvolta in maniera da non rivelare tramite la
sua fraseologia, la collocazione delle parole o la costruzione
delle frasi, che è soltanto una copia.
(Quarterly Review 1823, p. 53)

La strategia scorrevole può essere associata alla fedeltà perché


l’effetto della trasparenza nasconde l’interpretazione del testo stra-
niero fatta dal traduttore e il contesto semantico che egli ha
costruito nella traduzione secondo i valori culturali della lingua

19 Blackwood’s pubblicò una recensione favorevole anche del secondo


volume dell’Ariosto di Rose (Blackwood’s 1824). Per la prospettiva ideologi-
ca di questa rivista si veda Hayden 1969, pp. 62-63, 73 e Sullivan 1983b, pp.
45-53.

116
d’arrivo. La traduzione scorrevole di Rose venne elogiata perché
capace di «rendere correttamente il significato dell’originale» assi-
milando il testo italiano ai valori inglesi, che non valorizzavano
soltanto il linguaggio «disinvolto», ma anche l’interpretazione del
poema dell’Ariosto prevalente nella cultura d’arrivo. E, ancora una
volta, era il predominio della scorrevolezza a imporre che i testi
canonici, testi antichi e moderni in cui l’impronta dell’autore era
più pronunciata, possedessero semplicità stilistica. Il critico del
London Magazine dichiarò che l’Orlando Furioso era caratterizza-
to da «questa squisita semplicità, che porta il segno distintivo di un
genio superiore» (London Magazine 1824, p. 626).
Nel caso di Frere, la scorrevolezza significava un’omogeneiz-
zazione linguistica che evitava non soltanto gli arcaismi ma anche
«le associazioni linguistiche che appartengono esclusivamente alle
maniere moderne», generalizzando il testo straniero con l’esclusio-
ne della maggior quantità possibile di indicazioni storicamente
determinate. Il traduttore deve,

se è capace di adempiere al suo compito in base a un principio


filosofico, sforzarsi di chiarire le allusioni locali e personali
presenti nei genera, la cui varietà locale o personale utilizzata
dall’autore originale è soltanto casuale; e riprodurle in una di
quelle forme permanenti che sono legate alle abitudini immuta-
bili e universali del genere umano.
(Frere 1820, p. 482)

Frere razionalizzò la concessione di queste «libertà» richiaman-


dosi a un «principio filosofico»:

Il campo specifico del traduttore è, riteniamo, da ricercare in


quella immensa quantità di sentimento, passione, interesse,
azione e temperamento comune all’umanità di tutte le nazioni e
di tutti i tempi; e alla quale, in tutte le lingue, vengono conferite
le forme di espressione appropriate, in grado di rappresentarla
in tutte le sue infinite varietà, in tutte le distinzioni che non
mutano secondo l’età, la professione e il temperamento.
(ivi, p. 481)

Nella visione di Frere la strategia scorrevole permette alla tra-

117
duzione di essere una rappresentazione trasparente delle eterne
verità umane espresse dall’autore straniero.
Il principio sul quale si basa la teoria di Frere è quello che oggi
riconosciamo come centrale nella storia della traduzione scorrevo-
le: umanesimo liberale, soggettività vista allo stesso tempo come
autodeterminante e determinata dalla natura umana, individualisti-
ca seppure differenziata per genere, che trascende la differenza
culturale, il conflitto sociale e i mutamenti storici per rappresentare
«ogni sfumatura del carattere umano» (ibidem). Come le preceden-
ti versioni di questo principio, quella di Frere potrebbe sembrare
democratica per il fatto che si richiama a ciò che è «comune all’u-
manità», a un’essenza senza tempo e universale, ma che in effetti
implica quell’ingannevole addomesticamento che gli permise di
inserire nel testo straniero la sua moralità sessuale conservatrice e
il suo elitarismo culturale. Egli manifestò chiaramente il fastidio
per la volgarità materiale dell’umorismo di Aristofane, come per il
suo realismo grottesco, e sentì il bisogno di segnalarne l’incoeren-
za con l’intenzione generale dell’autore: i «versi estremamente
grossolani» erano «compromessi forzati [...] che furono inseriti
evidentemente con lo scopo di acquietare la parte volgare del pub-
blico durante quei passaggi in cui la loro rabbia, impazienza o
delusione poteva presumibilmente esplodere» (ivi, p. 491). Di qui,
«scartando quei passaggi,» affermava Frere «il traduttore fa, al
posto dell’autore, semplicemente quello che egli stesso avrebbe
fatto volentieri per sé», se non fosse stato «spesso nella necessità
di indirizzarsi esclusivamente alle classi più basse» (ibidem). La
difesa di Frere della strategia scorrevole era basata su uno snobi-
smo borghese, in cui il conservatorismo morale e politico allora in
ascesa nella cultura inglese si risolveva nell’esigenza di un
Aristofane espurgato che rappresentasse la «permanente» divisione
di classe dell’umanità, quella che Frere descrisse come «quel vero
umorismo comico che egli indirizzava alla parte più intelligente e
raffinata del suo pubblico» (ibidem). Per Frere, «le persone di
gusto e di giudizio, alle quali l’autore occasionalmente si rivolge,
formano, in tempi moderni, il tribunale cui deve far riferimento il
suo traduttore» (ibidem).
L’Edinburgh Review criticò l’Aristofane di Mitchell sulla base
di affermazioni filosofiche e politiche simili, benché formulate con
una differenza esplicitamente “liberale”. Aristofane, secondo il

118
recensore, si rivolgeva al pubblico facendolo sentire democratica-
mente inserito – «All’autore non bastavano i sorrisi delle poche
persone colte: egli doveva essere tutt’uno con il clamore della
folla» – e poiché «doveva provvedere a soddisfare tutti i gusti», il
commediografo cominciò ad assumere diverse funzioni sociali,
«autore di pubbliche satire», «giornalista di Stato», «critico dei
periodici» (Edinburgh Review 1820, p. 280): un Aristofane model-
lato a immagine e somiglianza dell’Edinburgh come rivista libera-
le. Diversamente da Frere, questo recensore accoglie con sollievo
il fatto che Mitchell «non ha intenzione di pubblicare un
Aristofane per famiglie», alludendo al titolo dell’edizione espurga-
ta di Shakespeare fatta da Thomas Bowdler (Bowdler 1818), senza
ritenersi dunque offeso dal linguaggio di Mitchell. Il problema per
il critico dell’Edinburgh era piuttosto la descrizione di Mitchell del
«pubblico [di Aristofane], come sempre composto di una mera
“folla”, pronta soltanto “alla baldoria insensata della vacanza” e
totalmente incapace di apprezzare il pregio di una più alta qualità»
(Edinburgh Review 1820, p. 275). Qui la posizione «liberale» del
recensore rivela la stessa contraddizione tra umanesimo ed élite
culturale che emergeva in Frere: la commedia di Aristofane «non
potrebbe essere totalmente priva di attrazione per la mente filosofi-
ca che esplora i principi della natura umana, o del gusto colto che
si delizia nel trionfo del genio» (ivi, p. 277). Le «qualità» che
distinguono Aristofane come autore «un poco al di sopra della
comprensione grossolana di una mera folla, e capace di guadagnar-
si un applauso più prezioso dell’urlo incolto dell’acclamazione
plebea» corrispondono, prevedibilmente, alle caratteristiche del
discorso trasparente: «tanto chiaro quanto evidente, incisivo eppu-
re sontuoso, potente ed etico», «quell’infallibile scorrevolezza e
abbondanza» (ivi, pp. 278, 282).

III
La canonizzazione della scorrevolezza nella traduzione in lin-
gua inglese all’inizio del periodo moderno limitava le scelte del
traduttore definendone le basi culturali e politiche. Un traduttore
poteva scegliere allora il tradizionale metodo addomesticante,
riduzione etnocentrica del testo straniero ai valori culturali domi-

119
nanti dell’inglese, oppure poteva scegliere il metodo estraniante,
una pressione etnodeviante esercitata su quegli stessi valori per
registrare le differenze linguistiche e culturali del testo straniero.
Intorno all’inizio del XIX secolo i valori in questione, benché
affermati un po’ contraddittoriamente in vari trattati, nelle prefa-
zioni dei traduttori e nelle riviste, erano decisamente borghesi:
liberali e umanisti, individualistici e d’élite, moralmente conserva-
tori e materialmente schizzinosi. Le modalità di costrizione nei
confronti dell’attività del traduttore e le forme di sottomissione e
resistenza cui un traduttore poteva essere più o meno soggiogato
sotto il loro predominio, divengono straordinariamente evidenti
nelle prime traduzioni inglesi di Catullo nelle versioni del dottor
John Nott (1795) e dell’Honourable George Lamb (1821).
Prima che apparissero queste traduzioni Catullo si era da lungo
tempo collocato all’interno del canone inglese della letteratura
classica. In Europa le edizioni del testo latino erano disponibili a
partire dal Quattrocento e, anche se dovevano ancora trascorrere
due secoli prima che venisse pubblicato in Inghilterra, Catullo era
già stato imitato da un gran numero di poeti inglesi: Thomas
Campion, Ben Jonson, Edmund Waller e Robert Herrick, tra gli
altri (Mc Peek 1939; Wiseman 1985, cap. VII). Eppure, il ruolo
ricoperto da Catullo nella letteratura inglese, benché sostenuto da
scrittori culturalmente importanti, era piuttosto esiguo. Esistevano
poche traduzioni, tratte solitamente da uno stesso gruppo ristretto
di poesie a chiara dimostrazione di quanto egli venisse effettiva-
mente trascurato in favore di Omero, Virgilio, Ovidio e Orazio:
erano questi i classici di maggiore spicco, tradotti per servire
diversi interessi estetici, morali e politici. La marginalità di Catullo
era in parte un problema di genere, per il privilegio di cui godeva
l’epica, nella traduzione poetica di quel periodo, rispetto alla lirica.
Ma c’era anche una questione morale, essendo gli scrittori inglesi
attratti e allo stesso tempo disturbati dalla sessualità pagana e dal
linguaggio fisicamente volgare, e fissi allo stesso tempo nell’opi-
nione della colpevolezza del poeta per la relazione scandalosa con
“Lesbia”.
La prima sostanziale traduzione di brani selezionati, l’anonima
Adventures of Catullus, and History of His Amours with Lesbia
(1707), era a sua volta una traduzione tratta dal testo francese Les
Amours de Catulle di Jean de la Chapelle. Consisteva in diverse

120
sezioni narrative, alcune con dialoghi di Catullo e Lesbia, affianca-
te dalle versioni dei testi latini, tutte predisposte a confermare «una
linea di congetture storiche [che] trovavano un grande fondamento
nei versi stessi del poeta» (The Adventures of Catullus 1707, p.
A2R). L’editore inglese presentava il libro come didattico, «una
delle più severe lezioni contro le nostre passioni e i nostri vizi»
ma, poiché era descritto come «una giusta rappresentazione della
nobiltà dell’antica Roma, vista attraverso la vita privata, le amici-
zie, le conversazioni, e le usanze a porte chiuse», l’editore assimi-
lava la cultura aristocratica romana anche a valori borghesi quali
l’intimità emotiva e il decoro morale, mettendo probabilmente in
discussione la “vita privata” dell’aristocrazia inglese: il libro era
dedicato al conte di Thomond (ivi, pp. A2V-A3V). Nelle sue Lives
of the Roman Poets (1733), Lewis Crusius, rispondendo all’ango-
sciosa necessità di fornire una «giustificazione a questo scrittore
[che] è stato tanto censurato per l’indecenza di alcuni suoi brani»,
chiedeva al lettore inglese di rispettare la differenza storica e cultu-
rale della poesia di Catullo, la sua diversa moralità sessuale:

Non sarebbe in nessun modo comprensibile se volessimo difen-


dere questa condotta in un nostro autore, ma per gli antichi
mostrare con naturalezza tale oscenità, non soltanto era ammis-
sibile in questo tipo di componimenti ma, se mascherata con
astuzia, era stimata una delle sue più grandi bellezze.
(Crusius 1733, p. 28)

Crusius rivelava comunque in fondo soltanto la propria raffina-


tezza morale, concludendo che si doveva continuare a censurare i
testi latini:

Ancora molti argomenti potrebbero essere portati a dimostra-


zione della legittimità di questa pratica tra i Greci e i Romani
ma, se la consideriamo altamente offensiva e criminale in se
stessa, e con conseguenze fra le più nocive per i lettori, special-
mente i giovani di entrambi i sessi nelle cui mani tali poesie
potrebbero finire, dovremmo allora chiudere definitivamente
questo capitolo.
(ivi, p. 29)

121
La pubblicazione di due traduzioni complete della poesia di
Catullo all’interno circa di una stessa generazione, segnalò la revi-
sione del canone classico inglese, l’emergere di un nuovo gusto
per le poesie brevi, soprattutto epigrammi e liriche, e in particolare
per quelle di natura erotica. I fattori sociali e culturali che resero
possibile questa revisione non prevedevano una distensione delle
norme morali borghesi, ma la canonizzazione della trasparenza
nella poesia inglese e nella traduzione poetica. Crusius aveva anti-
cipato questa tendenza fin da quando lodava «l’eleganza e l’argu-
zia naturale e semplice che anima lo stile di questo poeta» (ivi, p.
28). All’inizio del XIX secolo la poesia di Catullo era regolarmen-
te assimilata al discorso trasparente, considerata come dotata di un
effetto straordinariamente forte di presenza letteraria, e questo
occasionalmente indeboliva la ritrosia dei critici, portandoli a miti-
gare quel linguaggio volgare che trovavano così offensivo. L’opera
di riabilitazione era evidente negli Specimens of Classical Poets
(1814) di Charles Abraham Elton, un’antologia in tre volumi di
traduzioni di versi dal greco e dal latino. Elton considerava la poe-
sia di Catullo piuttosto leggera – «componimenti galanti o epi-
grammi satirici, con poche poesie di un livello più elevato» – ma
gli perdonava questo difetto supponendo che «una gran parte della
poesia di Catullo fosse andata persa» (Elton 1814, I, pp. 30-31). A
raccomandare ancora la lettura dei testi esistenti resta la loro
«naturalezza» e «semplicità»:

Coloro che si allontanano con disgusto dalle impurità volgari


che sporcano le sue pagine saranno propensi a meravigliarsi del
fatto che il termine delicatezza possa mai essere associato al
nome di Catullo. Ma alle sue tante effusioni, che si distinguono
per fantasia e sentimento, questo elogio è giustamente dovuto.
Molte delle sue brevi immagini amatorie sono veramente impa-
reggiabili nell’eleganza della loro allegria, e nessun autore lo
supera nella purezza e armonia di stile, nella deliziosa natura-
lezza e penetrante semplicità di modi, nelle gentili forme di
pensiero e felicità di espressione. Alcuni dei suoi componimen-
ti, che respirano il più alto entusiasmo dell’arte, e che sono
colorati da immagini singolarmente pittoresche, aumentano il
nostro rammarico per la nota mutilazione delle sue opere.
(ivi, II, p. 31)

122
Nel 1818 Blackwood’s pubblicò un saggio che metteva in rilie-
vo la scorrevolezza del verso di Catullo, considerandola uno spec-
chio del poeta stesso: «Questo linguaggio è uniformemente scorre-
vole.[...] La sua versificazione è trascurata ma graziosa. Il suo sen-
timento è debole, ma sempre sincero. Il poeta non vuole mai appa-
rire nient’altro da quello che è» (Blackwood’s 1818, p. 487). Il cri-
tico tentò di associare Catullo a una figura canonica inglese, sug-
gerendo che «l’oscenità è raramente introdotta esclusivamente
come fine a se stessa. Come quella di Swift, è solo un’arma per
fare satira» (ivi, p. 488). Il verdetto finale, comunque, fu

che è veramente impossibile leggere i suoi versi senza ramma-


ricarsi del fatto che egli fu un indolente, un uomo di mondo e
un pervertito.[...] avrebbe potuto lasciare in eredità ai posteri
opere fatte per ispirare sentimenti di virtù e di moralità, invece
di un libro la maggior parte del quale dovrà rimanere per sem-
pre celata a tutti coloro che hanno qualche principio di delica-
tezza umana nel loro essere.
(ivi, p. 489)

I traduttori delle prime lunghe versioni di Catullo, Nott e Lamb,


condividevano la valutazione predominante del poeta latino che
tuttavia modellò il loro lavoro in maniera molto differente. Anche
Nott pensava che «la forza e la semplicità, l’eleganza e la chiarez-
za contraddistinguessero lo stile di Catullo» (Nott 1795, I, p.
XXIII), mentre Lamb scriveva della «naturale felicità d’espressio-
ne del poeta», «lo stesso tono naturale che Catullo raramente o
quasi mai ha perso» (Lamb 1821, I, pp. XL e XLII). La più grande
differenza tra i traduttori verteva sulla questione della moralità:
Nott cercava di riprodurre la sessualità pagana e il linguaggio fisi-
camente volgare del testo latino, mentre Lamb li minimizzava o
semplicemente li ometteva.
Nott affermava consapevolmente: «Si potrebbe ritenere che
quelle indecenze che ricorrono così frequentemente nel nostro
poeta, che ho costantemente conservato nell’originale e che ho cer-
cato in qualche modo di tradurre, richiedano un’apologia» (Nott
1795, I, p. X). La sua argomentazione inziale – per soddisfare «lo
studioso curioso [che] potrebbe desiderare conoscere l’oscenità e
la satira grossolana dei tempi dei Romani» (ibidem) – non sarebbe

123
stata persuasiva per i contemporanei, dato che un tale lettore aveva
già accesso al testo latino; forse l’asserzione andrebbe vista non
tanto come giustificazione effettiva, quanto come riflesso della
tendenza colta dello stesso Nott e del suo desiderio di rivolgersi a
un pubblico accademico. La sua maggiore preoccupazione sembra
essere di una doppia natura: stare in guardia contro una replica
etnocentrica al testo latino e conservare la sua differenza storica e
culturale:

Quando un classico antico viene tradotto e spiegato, si può rite-


nere che questo formi un anello di congiunzione con la catena
della storia: la storia non dovrebbe essere falsificata, dovremmo
quindi tradurlo giustamente; e quando ci descrive le maniere
del suo tempo, per quanto esse possano a volte mostrarsi disgu-
stose per i nostri sentimenti e ripugnanti per le nostre nature,
non dobbiamo tentare di nasconderle o di renderle plausibili
attraverso un troppo esigente rispetto della delicatezza.
(ivi, pp. X-XI)

L’idea di accuratezza storica di Nott presumeva un concetto


mimetico della traduzione come rappresentazione adeguata al testo
straniero. Nel 1795 questa supposizione mimetica cominciava a
sembrare superata nella teoria poetica inglese, un movimento a
ritroso verso un empirismo più antico, sfidato ora dalle teorie
espressive della poesia e del genio originale20. E tuttavia l’adesio-
ne di Nott a una supposizione teoretica residuale gli permise di
resistere, nella sua traduzione, alla pressione dei valori morali bor-
ghesi.
Nel 1821 Lamb possedeva un senso più romantico e contempo-
raneo dell’autenticità letteraria, tale da fargli progettare un’idea
espressiva di traduzione che sapesse comunicare in maniera ade-
guata lo stato psicologico dell’autore straniero. «Le composizioni
[di Catullo], sebbene non siano numerose, esprimono probabil-
mente i suoi sentimenti su ogni evento importante della sua breve
carriera»: questo credeva Lamb, e questo lo portò a concludere che
il poeta latino «sembra essere stato un po’ offuscato dalla grossola-

20 Queste osservazioni si avvalgono delle storie culturali di Abrams 1953


e Foucault 1970.

124
nità del tempo, com’era possibile [...] in realtà la sua mente doveva
essere naturalmente pura, tanto che, in mezzo a tale volgarità di
maniere, ha potuto conservare una delicatezza così espressiva e
una raffinatezza elevata» (Lamb 1821, I, pp. XLII-XLIII). La poe-
tica espressiva di Lamb sottoscriveva non solo il suo convincimen-
to della purezza del poeta, sia morale che stilistica, ma anche la
difesa di un metodo di traduzione libera che avesse come effetto
l’illusione della trasparenza nello stesso momento in cui addome-
sticava il testo latino. Situandosi esplicitamente nella tradizione
predominante della traduzione scorrevole, da Denham a Jonson,
Lamb affermava che «il corso naturale della traduzione è, prima di
tutto, assicurare la fedeltà, e dopo tentare la raffinatezza dell’ele-
ganza e della libertà» (ivi, p. LVIII). Partendo da questi presuppo-
sti egli manipolò le «espressioni sgradevoli» sviluppando strategie
di «omissione e amplificazione», riconoscendo «la necessità di
fare ogni tentativo per velare e ammorbidire, prima di giustificare
la totale omissione» e rivedendo la supposizione secondo cui
Catullo era «un genio originariamente puro, ma inquinato dall’im-
moralità dei suoi tempi» (ivi, pp. LIX e XLI).
La traduzione di Lamb si sottomise ai valori borghesi che
dominavano la cultura inglese, inserendo il testo latino in una
moralità conservatrice e idolatrando il discorso poetico trasparente.
Nott lavorò nello stesso regime culturale ma scelse piuttosto di
resistere a quei valori in nome di una conservazione della differen-
za del testo latino. Nott rese Catullo estraniato, benché la traduzio-
ne estraniante non significa che egli trascese in qualche modo il
suo momento storico per riprodurre lo straniero in maniera non
mediata dall’elemento nazionale. Al contrario, se la traduzione di
Nott presentava qualche elemento della cultura romana durante la
tarda Repubblica, questo era possibile soltanto nei termini della
cultura di lingua inglese, non rendendo quindi lo straniero “roma-
no” al punto di segnare un’allontanamento forte dai valori inglesi
contemporanei. I vari aspetti del Catullo estraniato di Nott contra-
stavano evidentemente l’addomesticamento di Lamb. L’edizione
bilingue di Nott intendeva rendere «l’intero Catullo senza riserve»
(Nott 1795, I, p. X) e consisteva di 115 poesie attribuite al poeta
latino; l’edizione esclusivamente in inglese di Lamb ne includeva
84 (Lamb 1821). Nott tradusse testi che facevano riferimento alle
relazioni adultere e omosessuali, come anche testi che conteneva-

125
no descrizioni di atti sessuali, specialmente rapporti anali e orali.
Lamb li omise oppure li espurgò, preferendo espressioni più raffi-
nate dell’amore eterosessuale che alludevano fugacemente all’atti-
vità sessuale. L’epigramma satirico di Catullo su Vibennio, per
esempio, è una poesia che Lamb escluse. Ecco il testo latino con la
traduzione di Nott:

O furum optime balneariorum


Vibenni pater et cineade fili,
(nam dextra pater inquinatiore,
culo filius est voraciore)
cur non exilium malasque in oras
itis? quandoquidem patris rapinae
notae sunt populo, et natis pilosas,
fili, non potes asse venditare21.

Old Vibennius of all your bath-rogues is the first;


Nor less noted his boy for unnatural lust:
The hands of the former are ever rapacious,
The latter’s posterior is full as voracious:
Then, o whydon’t ye both into banishment go,
And reservedly wander in deserts of woe?
Not a soul but the father’s mean rapines must tell;
And thou, son, canst no longer thy hairy breech sell.
(Nott 1795, I, pp. 90-91)

La traduzione di Nott si allontanava dai valori letterari e morali


inglesi in diversi modi. Non solo egli scelse di includere il testo
latino e di tradurre i riferimenti sessuali, ma le sue scelte («unnatu-
ral lust», «posterior», «breech») rendevano abbastanza da vicino
l’originale («cineade» «culo» «natis»), rifiutando il tradizionale
metodo libero e minimizzando così il rischio di eufemismo e di
espurgazione. La traduzione di Nott risulta così non-inglese per il

21 «Di tutti i ladri d’albergo Vibennio è il re,/ come lo è di tutti i pederasti

il figlio:/ più son luride le mani del padre/ e più famelico è il culo del figlio./
Perché mai non ve ne andate in esilio,/ in terre maledette? Ormai i suoi furti/
sono arcinoti e le tue natiche pelose/ non valgono un soldo, figliuolo mio»
(Catullo 1975, p. 67) [N.d.T.].

126
fatto che non è scorrevole se non a tratti. Il testo si apre con una
falsa rima («first»/«lust»). Il dodecasillabo, un allontanamento dal
pentametro classico, è metricamente irregolare e piuttosto ingom-
brante, maneggiato efficacemente soltanto nel secondo distico.
Inoltre la sintassi è ellittica, invertita o complicata per una buona
metà dei versi.
Le violazioni di Nott nei confronti del decoro stilistico e morale
risultano evidenti anche dal confronto fra le sue traduzioni e quelle
di Lamb. Entrambi tradussero l’apologia di Catullo per la sua poe-
sia d’amore, ma il loro modo di trattare i primi versi è significati-
vamente diverso:

Pedicabo ego vos et irrumabo,


Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi, parum pudicum22.

I’ll treat you as ’tis meet, I swear,


Notorius pathics as ye are!
Aurelius, Furius! who arraign
And judge me by my wanton strain.
(Nott 1795, I, p. 51)

And dare ye, Profligates, arraign


The ardour of my sprightly strain,
And e’en myself asperse?
(Lamb 1821, I, p. 35)

Nessuna versione si spinse lontano quanto il testo latino nello


specificare la natura degli atti sessuali: i «pedicabo» e «irrumabo»
di Catullo indicano un rapporto sessuale anale e orale. Ma il
«pathics» di Nott era ovviamente più vicino al testo latino del
«profligates» di Lamb. La parola «pathics» era nel XVII secolo, in
base all’OED, un insulto usato per indicare «un uomo o un ragaz-
zo sul quale viene praticata la sodomia». Di qui il suo carattere

22 «In bocca e in culo ve lo ficcherò,/ Furio ed Aurelio, checche bocchina-

re/ che per due poesiole libertine/ quasi un degenerato mi considerate» (ivi, p.
37) [N.d.T.].

127
ingiurioso (anche se omofobico rispetto al modello del tardo XX
secolo) che trasmette la supposizione romana di Catullo secondo
cui un uomo che si sottometteva a un rapporto anale e orale – sia
volentieri che non – veniva umiliato, laddove «colui che penetrava
non ne veniva avvilito né disonorato» (Wiseman 1985, p. 11). La
scelta di Lamb per «profligates» effettivamente espurgava il testo
latino, ma il suo senso borghese di decoro era così intenso da farlo
sentire in obbligo di citare l’espurgazione in una nota a piè di pagi-
na, in cui cercava anche di giustificare la volgarità del linguaggio
di Catullo: essa veniva vista come l’espressione dell’intensità dei
suoi sentimenti offesi:

Questa poesia è un’imitazione molto libera dell’originale, che


non sarebbe stato tollerabile se tradotto letteralmente. Pezay
afferma che, essendo questa poesia indirizzata da Catullo a due
suoi grandi amici, dovrebbe essere considerata «comme une
petite gaité». Il tono è piuttosto di seria indignazione nei con-
fronti dei commenti fatti alle sue poesie, e ancor più avrebbe
potuto esasperarsi per un trattamento simile da parte di coloro
che considerava amici e difensori.
The sacred bard, to Muses dear,
Himself should pass a chaste career.
Questa affermazione della purezza di carattere che un poeta
licenzioso dovrebbe e potrebbe conservare è stata ribadita da
Ovidio, Marziale e Ausonio in loro stessa difesa.
(Lamb 1821, II, p. 141)

La versione di Lamb era un modello, non solo di decenza, ma


anche di scorrevolezza. Nott utilizzò un’altra falsa rima («swear»/
«ye are») creando un movimento piuttosto inelegante tra un distico
e il successivo, passando bruscamente dall’affermazione dichiara-
tiva all’epiteto all’apostrofe. È evidente che Lamb prese in prestito
da Nott la vera rima del passaggio, ma la rese molto più elegante
rendendo la sintassi più continua e variando il metro in maniera
più ingegnosa.
Non c’è forse migliore illustrazione della differenza tra i meto-
di dei due traduttori della loro versione del Carmen V, oggetto di
innumerevoli traduzioni e imitazioni inglesi fin dal XVI secolo:

128
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum23.

Let’s live, and love, my darling fair!


And not a single farthing care
For age’s babbling spite;
Yon suns that set again shall rise;
But, when our transient meteor dies,
We sleep in endless night:

Then first a thousand kisses give,


An hundred let me next receive,
Another thousand yet;
To these a second hundred join,
Still be another thousand mine,
An hundred then repeat:

Such countless thousands let there be,


Sweetly confus’d; that even we
May know not the amount;

23 «Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore/ ed ogni mormorio dei vecchi


più acidi/ consideriamolo un soldo bucato./ I giorni che muoiono possono
tornare,/ ma se questa nostra breve luce muore/ noi dormiremo un’unica notte
senza fine./ Dammi mille baci e ancora cento, / dammene altri mille e ancora
cento,/ sempre, sempre mille e ancora cento./ E quando alla fine saranno
migliaia/ per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,/ perché nessuno possa
stringere in malie/ un numero di baci così grande» (ivi, p. 13) [N.d.T.].

129
That envy, so immense a store
Beholding, may not have the pow’r
Each various kiss to count.
(Nott 1795, I, p. 17)

La prima stanza di Nott possiede una scorrevolezza considere-


vole, con la sua sintassi continua intrecciata attraverso uno schema
di rime moderatamente intricato, ma nella seconda stanza prolife-
rano le false rime, e la terza stride completamente per le inversioni
sintattiche, le sospensioni e la rima discordante «store»/«pow’r».
Le suggestive revisioni fatte da Nott sul testo latino sottolineano
l’opposizione tra la moralità del tempo («babbling spite», «mor-
morio perfido») e la passione della gioventù («transient meteor»,
«meteora passeggera»), e includono un paio di riferimenti modera-
tamente sessuali: il piacere erotico reso con «sweetly cofus’d»
(«dolcemente confusi») e la sessualità esperta insinuata in
«various» («diversi») tipi di «kisses» («baci»). La seconda stanza
di Nott corregge anche il latino (passando da «give», «dare», a
«receive», «ricevere»), creando in tal modo l’immagine dissoluta
dell’amante maschio che riceve passivamente i baci da Lesbia ed
esagerando così, ai limiti del comico, la fantasia maschile sull’ag-
gressività sessuale femminile presente nel testo di Catullo. La tra-
duzione di prospettiva maschile fatta da Nott è una celebrazione
umoristica, lievemente lasciva e non completamente appropriata
della sessualità e della giovinezza degli amanti contro la severità
dell’età e della morale. La sua franchezza sessuale contrasta con la
versione più decorosa di Lamb, in cui gli amanti vengono presen-
tati da un «rossore» vergognoso:

Love, my Lesbia, while we live;


Value all the cross advice
That the surly greybeards give
At a single farthing’s price.

Suns that set again may rise;


We, when once our fleeting light,
Once our day in darkness dies,
Sleep in one eternal night.

130
Give me kisses thousand-fold,
Add to them a hundred more;
Other thousands still be told
Other hundreds o’er and o’er.

But with thousands when we burn,


Mix, confuse the sums at last,
That we may not blushing learn
All that have between us past.

None shall know to what amount


Envy’s due for so much bliss;
None – for none shall ever count
All the kisses we will kiss.
(Lamb 1821, I, pp. 12-13)

Paragonata a quella di Nott, la traduzione di Lamb si distingue


per un’estrema scorrevolezza: le quartine si svolgono velocemente,
guidate da un metro trocaico armonicamente variato, e distribui-
scono il significato in unità sintattiche precise, ricorrendo con una
tale regolarità da richiamare l’attenzione sulla sua qualità artificia-
le, ma rimanendo discreta, semplice e leggera. Le aggiunte di
Lamb al testo latino rendono più esplicita la natura sessuale del
tema («burn», «bruciamo») e allo stesso tempo mostrano il pudore
degli amanti («blushing», «rossore»), secondo la contraddizione
sintomatica del lavoro di addomesticamento del traduttore. La ver-
sione di Lamb, diversamente da quella di Nott, segue lo schema di
una seduzione («love, my Lesbia», «amiamo, mia Lesbia») e
segue così il trattamento tradizionale inglese del testo latino: nel
Volpone (1605) di Jonson, per esempio, viene utilizzata da Volpone
un’imitazione della poesia di Catullo per sedurre la casta Celia. E
poiché le «greybeards» («barbe grigie») di Lamb, diversamente
dall’«age» («età») di Nott, riproducono il genere maschile che
Catullo assegna alla voce della moralità, la relazione tra gli amanti
assume la forma del romanzo familiare cavalleresco, con l’amante
maschio impegnato in una battaglia edipica contro i patriarchi per
il controllo della sessualità di Lesbia. La stanza finale di Lamb
riprende un’altra delle rime di Nott («amount»/«count»), e ancora
una volta questo prestito rivela i diversi valori che modellano le

131
loro traduzioni: in quella di Nott l’invidioso assiste ai baci
(«beholding», «colui che osserva») e la relazione viene presentata
come pubblica, mentre in quella di Lamb i baci sembrano essere
protetti dall’intimità («None shall know», «none shall ever count»,
«nessuno saprà», «nessuno conterà mai»). Entrambe le versioni
addomesticano in qualche modo il testo latino, a partire dalla scel-
ta del verso e dal loro uso di «farthing» (quarto di penny) per ren-
dere il latino della moneta di bronzo («assis»); ma se quella di
Lamb è caratterizzata da numerosi valori borghesi – scorrevolezza,
decoro morale, famiglia patriarcale, riservatezza – Nott ne rappre-
senta invece un significativo allontanamento, se non, semplice-
mente, una loro violazione.
Ma vediamo quale lettura emerge da una panoramica delle rea-
zioni contemporanee alle traduzioni: alla fine degli anni Novanta
del XVIII secolo, la versione di Nott risultava talmente estranea ai
gusti inglesi e provocava un’esperienza di lettura così spiacevol-
mente aliena da essere ripetutamente disapprovata sul versante
morale e stilistico. Il recensore del Gentleman’s Magazine mostrò
chiaramente come l’offesa morale potesse essere un atto borghese
di superiorità sociale, collegando la traduzione di Nott al gusto
popolare per il romanzo gotico e per la sessualità sensazionale:
«Come un uomo qualunque si sia permesso di corrompere le menti
dei suoi connazionali traducendo “le indecenze così frequenti in
questo poeta lascivo, e che il lettore casto avrebbe preferito vedere
omesse”, [...] è un problema che solo coloro che hanno letto
romanzi come ‘The Monk’ possono risolvere» (Gentleman’s
Magazine 1798, p. 408).
La disapprovazione per la traduzione «lasciva» di Nott, genera-
le nei periodici letterari, attraversava diverse linee faziose e rivela-
va così la loro arroganza borghese. Il British Critic, una rivista di
atteggiamento tory fondata da un prete anglicano che si opponeva
alle riforme parlamentari, affermava: «Noi ci opponiamo, per prin-
cipi morali, al progetto del traduttore» e insisteva che la traduzione
«dovesse essere assiduamente interdetta ai giovani e alle donne»
(British Critic 1798, p. 672), mentre il liberale Monthly Review
interveniva con un commento accuratamente formulato che
ammetteva la possibilità di un’altra lettura di Catullo e allo stesso
tempo rifiutava di approvarla: «Per quanto possiamo sembrare esi-
genti a questo traduttore, confessiamo che secondo la nostra opi-

132
nione sarebbe risultata maggiormente accettabile al pubblico una
selezione più giudiziosa delle sue poesie» (Monthly Review 1797,
p. 278)24.
La traduzione di Nott venne disdegnata dai periodici, e le
prime, rare, recensioni apparvero diversi anni dopo la pubblicazio-
ne. La traduzione di Lamb venne ampiamente recensita non appe-
na pubblicata e i giudizi, benché fossero di vario genere, vennero
affermati con gli stessi termini borghesi usati in maniera molto
meno favorevole per Nott. I recensori solitamente aggressivi si
dimostrarono non tanto antipartigiani quanto animati da una
coscienza di classe nel loro sostegno alla versione di Lamb. Il libe-
rale Monthly Magazine, che si era presentato nel primo numero
come «un’impresa a favore della libertà intellettuale contro le
forze del conservatorismo panico» (Sullivan 1983b, pp. 314-319),
lodò l’espurgazione del testo di Catullo operata da Lamb:

Il più corretto senso morale dei tempi moderni non permette-


rebbe mai una versione completa di molti di quei passaggi ripu-
gnanti di cui abbonda. Questa parte del suo compito, Mr. Lamb
l’ha eseguita con considerevole giudizio, e non dobbiamo teme-
re che la nostra delicatezza venga ferita nel leggere le pagine di
questa traduzione.
(Monthly Magazine 1821, p. 34)

Il reazionario Anti-Jacobin Review ingaggiò Lamb nella sua


battaglia contro gli oppositori della Chiesa, dello stato e della
nazione:

L’estrema sconvenienza di molte poesie scritte da Catullo ha


obbligato Mr. Lamb a ometterle, e se egli avesse rivolto la sua
attenzione totalmente verso un autore più puro, ciò avrebbe
reso onore al suo potere di selezione. In questo periodo di con-
tesa tra il principio del bene e quello del male tra noi, quando
tanti si dichiarano atei, la bestemmia è incoraggiata dal consen-
so e la sedizione sostenuta dagli istituti di carità, nessun patrio-

24 Per la posizione ideologica di queste riviste, si vedano Roper 1978, pp.

174-176 e 180-181, Hayden 1969, pp. 44-45 e 73, Sullivan 1983a, pp. 231-
237 e 1983b, pp. 57-62.

133
ta o cristiano vorrebbe aiutare il vizio sminuendo i suoi eccessi,
o rendendoli meno offensivi con un velo di decenza. [...] Mr.
Lamb è qualificato per entrambe le qualità di patriota e di cri-
stiano.
(Anti-Jacobin Review 1821, p. 14)

I critici attribuivano alla traduzione di Nott anche l’assenza di


scorrevolezza. Il Monthly Review osservava: «Loderemmo questo
traduttore per la sua generale correttezza nella versione inglese,
tuttavia la sua disattenzione alla rima è troppo grossolana e fre-
quente per non incorrere nella censura» (Monthly Review 1797, p.
278); il British Critic lamentava «grandi irregolarità rispetto sia
alla vivacità che alla correttezza e all’armonia» (British Critic
1798, pp. 671-672). In apparenza la prosodia di Lamb non era con-
siderata abbastanza vivace da molti critici – la sua versione dei
«componomenti minori» venne descritta come «languida» o priva
di «naturalezza poetica e di bellezza» – ma almeno una rivista, il
Monthly Review, trovò che egli «aveva conservato non poco della
vivacità e della dignità dell’originale», attribuendo alla traduzione
del Carmen V di Lamb un particolare elogio come «la migliore
mai vista, con l’eccezione soltanto di quella di Ben Jonson», e
riconoscendo il Catullo di Lamb come un fenomeno tipicamente
inglese, indicativo del predominio della scorrevolezza nella tradu-
zione poetica (Monthly Review 1822, pp. 11 e 9).
I diversi motivi e metodi dei traduttori si comprendono meglio
considerando le traduzioni nel contesto delle altre loro opere, delle
loro vite e dei diversi momenti storici. Medico praticante costante-
mente impegnato in progetti letterari, Nott (1751-1825) pubblicò
un certo numero di libri che attingeva in maniera decisiva alla tra-
dizione lirica amorosa nelle lingue classiche, europee e orientali
(Gentleman’s Magazine 1825, pp. 565-566; DNB). Nella fase
avanzata della sua carriera scrisse un romanzo in prosa intitolato
Sappho (1803), curò una raccolta delle Hesperides (1810) di
Robert Herrick e pubblicò una miscellanea di poesie inglesi del
XVI secolo (1812), a partire da Thomas Wyatt. La maggior parte
della sua produzione era comunque rappresentata dalle traduzioni
e per un periodo di oltre trent’anni egli si cimentò in lunghe tradu-
zioni da Johannes Secundus Nicolaius (1775), Petrarca (1777),
Properzio (1782), Hafiz (1787), Bonefonius (1797), Lucrezio

134
(1799) e Orazio (1803). La traduzione di Catullo (1795) era una
scelta obbligata per un traduttore con gli interessi e le energie di
Nott.
Ritenendo che la posta in gioco fosse molto più alta nella tra-
duzione che nella critica letteraria, fu assai prolifico in questo
campo, anche se affidò sempre le sue scelte ai valori estetici.
L’idea mimetica di traduzione che lo spinse a scegliere un meto-
do estraniante per conservare la differenza del testo straniero lo
spinse anche a pensare il suo lavoro come un atto di ricostruzio-
ne culturale. Questo era il fondamento logico che affermava nelle
sue introduzioni. Il suo «tentativo di trasferire intatte all’interno
della lingua inglese le innumerevoli bellezze di cui abbondava il
Basia di Secundus» era inteso a sottrarre «un autore meritevole
da quell’oblio nel quale era da lungo tempo sepolto» (Nott 1778,
p. VII). Reputandolo «straordinario, in considerazione del suo
merito», quel Properzio non era mai stato tradotto in inglese e
Nott voleva che la sua versione «riparasse a questa negligenza»
(Nott 1782, pp. III-IV). Per Nott la traduzione attuava un’opera
di ricostruzione culturale, rivedendo il canone della letteratura
straniera tradotta in inglese, sostenendo l’ammissione di alcuni
testi emarginati e mettendo talvolta in dubbio la canonicità di
altri. Nella sua prefazione alla raccolta del poeta persiano Hafiz,
Nott sfidò coraggiosamente la venerazione inglese per l’antichità
classica suggerendo l’idea che la cultura europea occidentale
provenisse dall’Oriente

ci duole che, mentre il passare degli anni ha permesso di acqui-


sire una capacità di comprensione degli autori greci e romani,
quegli scrittori autentici siano stati disdegnati, quegli stessi dai
quali i greci hanno evidentemente attinto sia la ricchezza della
loro mitologia che la levigatezza peculiare alle loro espressioni.
(Nott 1787, pp. V-VI)

Nott si oppose a ogni chiusura anglocentrica nei confronti di


poeti orientali come Hafiz, sostenendo l’importanza di «non giudi-
care il calore del dialogo orientale tramite il modello dei nostri
sentimenti più freddi e delle nostre idee», e spingendosi fino a sug-
gerire che «le regole più esatte della critica e del gusto inglese»
erano complici dell’imperialismo anglosassone:

135
Non è verosimile supporre, quando un’ambizione fatale ci spin-
ge a possedere un paese, la cui distanza rende il nostro tentativo
innaturale, e quando, con la pretesa del commercio, diveniamo
invasori crudeli del diritto di un altro, che avremmo dovuto
almeno conoscere la lingua di chi abbiamo conquistato? Ciò era
necessario sia per diffondere la giustizia, sia per esercitare la
compassione. Ma l’avarizia personale e l’estorsione hanno
chiuso i cancelli della pubblica virtù.
(ivi, p. VII)

Il metodo di traduzione estraniante scelto da Nott non poteva di


certo mai essere completamente scevro da valori e questioni inter-
ne, incluso lo sviluppo di una cultura nazionale: sentiva, per esem-
pio, che il fallimento della traduzione di Properzio aveva provoca-
to «un certo degrado nella letteratura inglese» (Nott 1782, p. IV).
Ma allo stesso tempo egli fu sufficientemente sensibile alla violen-
za etnocentrica implicita nell’incontro con qualsiasi alterità cultu-
rale, tanto da mettere in dubbio l’imposizione di canoni e di inte-
ressi borghesi, sia nel proprio Paese, con le traduzioni di testi lette-
rari stranieri, sia all’estero, nelle relazioni politiche ed economiche
con i Paesi stranieri.
I viaggi frequenti di Nott, inclusa una missione svolta durante
una spedizione coloniale, indubbiamente incrementarono la sua
volontà di opporsi ai valori nazionali. Dopo aver studiato medicina
a Parigi e a Londra, trascorse molti anni in Europa come medico
dei viaggiatori inglesi (1775-1777, 1786-1788, 1789-1793) e fece
un viaggio in Cina come medico di bordo su una nave della
Compagnia delle Indie Orientali (1783-1786). La classe sociale
all’interno della quale Nott si muoveva era una condizione del suo
lavoro culturale: l’aristocrazia. Suo padre ebbe un impiego presso
la famiglia di Giorgio III e i pazienti di Nott erano generalmente
aristocratici.
Questa appartenenza di classe è importante perché indica la
base nazionalista del suo interesse per la traduzione estraniante.
Come medico, Nott era in rapporti intimi con un gruppo le cui pra-
tiche sessuali, lontane da qualsiasi senso della decenza morale bor-
ghese, rivaleggiavano con quelle della Roma di Catullo per la loro
assoluta varietà e frequenza, anche se venivano discusse meno
apertamente e con maggior raffinatezza: in quel periodo la «galan-

136
teria» era spesso un eufemismo per l’adulterio. Lawrence Stone
riferiva di «una mole spiccata ed evidente di relazioni sessuali
extramatrimoniali tra numerosi mariti e alcune mogli dell’aristo-
crazia, almeno nel primo decennio del XIX secolo» (Stone 1977,
p. 534; Perkin 1989, pp. 89-96).
Nel caso di Nott possiamo essere più precisi: scapolo convinto
egli stesso, prestò servizio come medico presso Georgiana
Cavendish, Duchessa del Devonshire, tra il 1789 e il 1793, gli anni
in cui questa viaggiava in Europa (Posonby 1955; DNB). L’affa-
scinante e raffinata Duchessa era stata esiliata all’estero da suo
marito William, il quinto Duca, perché gravi perdite al gioco l’ave-
vano profondamente indebitata. Nel 1792 la Duchessa diede alla
luce una figlia che si pensò fosse il frutto del suo adulterio con
Charles Grey, un giovane politico aggressivo che dirigeva il partito
Whig e che in seguito divenne Primo Ministro. Lo stesso Duca
riconobbe tre figli illegittimi, uno da una donna con la quale aveva
avuto una relazione durante il matrimonio, altri due da Lady
Elizabeth Foster, che si separò dal marito nel 1782 e fu aiutata dal
Duca e dalla Duchessa. L’interesse di Nott per la letteratura eroti-
ca, il suo rifiuto di espurgare la poesia di Catullo e persino la fran-
chezza in termini sessuali delle sue traduzioni, erano in parte
dovuti alla moralità sessuale disinibita che caratterizzava l’am-
biente aristocratico alla fine del XVIII secolo. La sua traduzione
estraniante del testo latino rispondeva in effetti ai valori nazionali,
benché diversi da quelli che avevano influenzato Lamb e i critici
dei periodici.
George Lamb (1784-1834) nacque nello stesso ambiente aristo-
cratico di Nott, ma trent’anni dopo. Ultimo dei quattro figli di
Penniston, Visconte di Melbourne, esercitò l’avvocatura per un
breve periodo, ma l’abbandonò per seguire interessi letterari e tea-
trali disparati, recensendo per l’Edinburgh, scrivendo introduzioni
alle repliche del Drury Lane e scrivendo un’opera comica che
venne rappresentata a Covent Garden (Gentleman’s Magazine
1834, pp. 437-438; DNB). Alla fine entrò in politica, prima come
deputato per il duca del Devonshire e in seguito, con l’ingresso del
governo Whig, come sottosegretario di Stato del fratello William,
Lord Melbourne. Nel 1809 George sposò Caroline St. Jules, figlia
illegittima, insieme ad altra prole, che il duca di Devonshire aveva
avuto da Lady Foster; la stessa nascita di George era illegittima,

137
frutto di un adulterio di Lady Melbourne con il principe di Galles.
Tutti gli interessati erano a conoscenza di queste relazioni25.
Fu Lamb a informare Caroline, pochi anni prima del loro matri-
monio, dell’identità del padre. Il Duca le diede una dote di 30.000
sterline e la risposta di Lamb fu: «Posso soltanto ringraziarlo con-
sacrando la mia vita futura alla felicità di Caroline» (Posonby
1955, p. 4). La conoscenza di queste relazioni si estese al di là
della famiglia. Nel necrologio di Lamb pubblicato sul Gentleman’s
Magazine, Caroline veniva presentata come «una relazione del
Duca di Devonshire» (Gentleman’s Magazine 1834, p. 438).
Eppure, il tutto venne trattato molto discretamente. Lady Foster
architettò una genealogia per spiegare il nome insolito di Caroline,
«essendo un certo oscuro Conte di St. Jules l’ipotetico padre»
(Posonby 1955, p. 4). Lo scandalo più noto della famiglia non
coinvolse Lamb: nel 1812 Lady Caroline Lamb, moglie di suo fra-
tello William, ebbe una relazione di dominio pubblico con Byron.
Lo stesso George sembrava aver trascorso una felice vita matrimo-
niale: il necrologio riferiva della «tranquillità della sua vita dome-
stica», affermando che con la «stimabile» Caroline, «di carattere
completamente consono al suo, condivise la più sincera felicità
domestica» (Gentleman’s Magazine 1834, p. 438).
La vita di Lamb testimonia come il progredire del conservatori-
smo morale nella società inglese durante quel periodo stesse conta-
giando non solo la classe media e quella operaia, ma anche l’ari-
stocrazia. Questo movimento culturale borghese verso una riforma
morale, stimolato dall’ascesa del Cristianesimo Evangelico e
accompagnato dall’istituzione di varie “società” filantropiche,
portò alla proliferazione di tratti morali e religiosi e continuò in
quella purificazione dei testi letterari che avrebbe caratterizzato la
traduzione poetica inglese almeno fino a Pope (Quinlan 1941;
Perkin 1989, pp. 90, 120-121, 240).
La conoscenza che Lamb fece in prima persona della moralità
sessuale disinibita dell’aristocrazia Whig potrebbe averlo reso più
ricettivo nei confronti dell’emergente conservatorismo nella cultu-
ra inglese, poiché non c’è alcun dubbio che egli stesso vi contribuì.
Il suo lavoro teatrale comprendeva un adattamento del Timone di
25 Della famiglia di Lamb e Caroline St. Jules parlano Posonby 1955, pp.
2-5, Stuart 1955, pp. 160-163 e 184, e Cecil 1965, p. 27.

138
Atene (Lamb 1816) di Shakespeare, il cui fine, come affermava
nell’“Advertissement”, era quello di «restituire Shakespeare alla
scena, senza altre omissioni che quelle che l’affinamento dei modi
ha reso necessarie». Lamb omise, per esempio, questo dialogo tra
Timone e «il filosofo scontroso» Apemanto:

Tim. Vuoi pranzare con me, Apemanto?


Apem. No, non mangio signori.
Tim. Faresti arrabbiare le signore, se lo facessi.
Apem. Loro sì che se li mangiano i signori. Per questo gli
viene il pancione.
Tim. Che doppio senso osceno.
Apem. Sei tu che ce lo vedi. Ma se lo trovi divertente, tientelo.
(Shakespeare 1991, I, 203-208)

Lamb trattò Shakespeare allo stesso modo di Catullo, espurgando


il testo da ogni linguaggio volgare e, se i contemporanei che la pen-
savano allo stesso modo approvarono la sua opera, un commentatore
osservò: «viene omesso molto dal dialogo, e generalmente in manie-
ra opportuna» (Genest 1832, p. 584). Lamb non avvertiva contraddi-
zioni tra il professare il liberalismo come politico Whig e il censura-
re i testi letterari canonici. Egli seguì quelli che David Cecil ha chia-
mato i «canoni dell’ortodossia Whig: tutti credevano in una libertà
ordinata, in una tassazione moderata e nella terra recintata; nessuno
credeva al dispotismo e alla democrazia» (Cecil 1965, p. 7).
Le omissioni calcolate che Lamb ha fatto del carnevalesco nei
suoi progetti letterari devono essere considerate come un ulteriore
atto di superiorità sociale di un membro della classe egemone.
L’elitarismo di Lamb era comunque espresso in termini estetici
piuttosto che sociali: egli considerava una traduzione di poesia o
un adattamento teatrale come una forma ricercata d’intrattenimen-
to, un esercizio di valutazione estetica compiuto in momenti di
ozio, spesso in privato. Premise alla sua traduzione di Catullo una
poesia intitolata “Riflessioni prima della pubblicazione” in cui
presentava il suo lavoro non come un atto impegnato di ricostru-
zione culturale o di revisione dei canoni, ma come il passatempo
«piacevole» di un dilettante che si chiedeva se condividerlo con
altri:

139
The pleasing task, which oft a calm has lent
To lull disease and soften discontent;
Has still made busy life’s vacations gay,
And saved from idelness the leisure day:
In many a musing walk and lone retreat,
That task is done; — I may not say complete.
Now, have I heart to see the flames devour
The work of many a pleasurable hour?
Deep in some chest must I my offspring thrust,
To know my resurrection from the dust;
Or shall I, printing in this age of paper,
Add to th’unnumber’d stars another taper?
(Lamb 1821, I, ix-x)
Lamb era uno di quei futuri aristocratici per i quali Sir John
Denham sviluppò il metodo addomesticante di traduzione della
poesia classica, ritraendosi dalla prospettiva della pubblicazione
perché la traduzione poetica non era un lavoro appropriato per dei
politici o per chi era al servizio del governo. E con un senso del-
l’opportunità che Denham avrebbe apprezzato, il raffinato ritrarsi
di Lamb fluiva in scorrevoli distici eroici.
Nei trent’anni che separano il Catullo di Nott da quello di Lamb,
l’ambiente aristocratico Whig nel quale essi vivevano e lavoravano
subì un cambiamento sostanziale che influenzò il destino delle loro
traduzioni e dei metodi utilizzati. La traduzione scorrevole addome-
sticante venne valorizzata secondo la morale borghese e i valori lette-
rari, e il considerevole tentativo di resistenza esercitato attraverso il
metodo di traduzione estraniante venne decisamente negato. La tra-
duzione di Nott estraniava Catullo assimilando il testo latino ai valori
culturali che erano ancora presenti nel 1790 e marginali nel 1820: l’i-
dea mimetica della traduzione basata sul paradigma della rappresen-
tazione stava cedendo il posto all’idea comunicativa della traduzione
basata sul paradigma dell’espressione; la morale disinvolta dell’ari-
stocrazia veniva sfidata da un movimento di riforma morale che coin-
volgeva tanto l’aristocratico che il borghese. Nott e Lamb esemplifi-
cano le due possibili scelte per i traduttori nel momento specifico
della canonizzazione della scorrevolezza e mostrano, forse in modo
ancora più marcato, che nella traduzione estraniante la differenza del
testo straniero può essere rappresentata solamente da valori nazionali
che differiscono da quelli che predominano.

140
Capitolo terzo
NAZIONE

Il traduttore che si attiene da vicino all’originale rinuncia più o meno all’ori-


ginalità della sua cultura. Ne nasce un prodotto ibrido, a cui il gusto del letto-
re comune deve avere il tempo di abituarsi.
Johann Wolfgang Goethe

La ricerca di alternative alla traduzione scorrevole conduce a


teorie e pratiche che mirano ad attribuire significato all’alterità del
testo straniero. All’inizio del XIX secolo la traduzione estraniante
era priva di un centro culturale per la lingua inglese, mentre era
molto attiva nella formazione di un’altra cultura nazionale, quella
tedesca. Nel 1813, durante le guerre napoleoniche, la conferenza di
Friederich Schleiermacher Ueber die verschiedenen Methoden des
Uebersetzens (Sui diversi modi di tradurre) considerava la tradu-
zione come una pratica importante all’interno del movimento
nazionalista prussiano: essa poteva infatti arricchire la lingua tede-
sca sviluppando una letteratura elitaria tale da permettere alla cul-
tura germanica di realizzare il suo destino storico di dominio glo-
bale. Eppure, sorprendentemente, Schleiermacher suggerì questa
serie di questioni nazionaliste teorizzando la traduzione come
luogo della differenza culturale, e non di quella omogeneità che la
sua conformazione ideologica avrebbe potuto implicare e che, in
forme diverse e storicamente determinate, ha prevalso a lungo
nella traduzione in lingua inglese, sia britannica che americana. La
teoria della traduzione di Schleiermacher si basava su una compia-
cenza sciovinista nei confronti delle culture straniere, sulla convin-
zione della loro definitiva inferiorità rispetto alla cultura di lingua

141
tedesca, ma anche su un rispetto antisciovinista delle loro differen-
ze, sulla sensazione che la stessa cultura di lingua tedesca fosse
inferiore e dovesse perciò tenere in considerazione le altre per
poter progredire.
Queste tendenze contraddittorie sono peculiari dei movimenti
linguistici nazionalisti che si diffusero in Europa all’inizio del XIX
secolo, e indicano come la teoria della traduzione di Schleier-
macher potesse essere scissa dal fine ideologico che voleva assol-
vere ed essere impiegata per altri usi. La principale contraddizione
dei movimenti linguistici nazionalisti risiede nel fatto che la lingua
stessa li rende possibili e allo stesso tempo vulnerabili. Come ha
osservato Benedict Anderson, «considerata contemporaneamente
come una fatalità storica e come una comunità immaginata attra-
verso la lingua, la nazione si presenta simultaneamente aperta e
chiusa», perché «la lingua non è uno strumento di esclusione: in
teoria, chiunque può imparare qualsiasi lingua» (Anderson 1991,
pp. 134 e 146). Il linguaggio dà origine a quella particolare solida-
rietà che fonda la nazione, ma la sua apertura a nuovi usi, qualsiasi
essi siano, permette di riscrivere la narrativa nazionalista, in spe-
cial modo quando si tratta della lingua d’arrivo delle traduzioni
estranianti, le più interessate alla differenza culturale del testo stra-
niero.
Se, come credeva Schleiermacher, un metodo di traduzione
estraniante può contribuire alla formazione di una cultura naziona-
le, poiché dà vita a un’identità culturale di matrice straniera per
una comunità linguistica in procinto di raggiungere l’autonomia
politica, essa può, allo stesso tempo, indebolire qualunque concet-
to di nazione mettendo in dubbio i canoni culturali, i confini disci-
plinari e i valori nazionali della lingua d’arrivo. Ciò è avvalorato
dalla controversia sulla traduzione in lingua inglese che contrappo-
se la traduzione estraniante dell’Iliade fatta da Francis Newman
(Newman 1856) alle conferenze tenute a Oxford da Matthew
Arnold e dedicate a La traduzione di Omero (On Translating
Homer, 1860): la teoria estraniante di Newman si proiettava verso
lo sviluppo di strategie di traduzione che deviavano sia dai canoni
vittoriani del discorso trasparente che dal concetto arnoldiano di
cultura nazionale sostenitrice dell’élite accademica. La genealogia
che segue ricostruisce la tradizione della traduzione estraniante
tedesca e inglese, esaminando le specifiche situazioni culturali in

142
cui questa ha preso forma e valutando la sua utilità per contrastare
nel presente la traduzione addomesticante.

I
Per Schleiermacher «il vero traduttore» è uno scrittore

che intende realmente accostare questi due personaggi così


separati tra loro, quali sono lo scrittore e il suo lettore, e venire
in aiuto di quest’ultimo, senza tuttavia costringerlo a uscire
dalla cerchia della lingua materna.
(Nergaard 1993, p. 153)1

Antoine Berman ha richiamato l’attenzione sul paradigma


ermeneutico qui presentato e ha posto l’accento sulla traduzione
come oggetto di interpretazione del testo e mezzo di comunicazio-
ne interpersonale, «un processo di incontro intersoggettivo»
(Berman 1984, p. 235). Questo fa della comunicazione il criterio
con il quale si convalidano le scelte metodologiche e grazie al
quale si può distinguere la traduzione autentica da quella inautenti-
ca. Schleiermacher in realtà individua solamente due metodi che
rendono possibile la comprensione dell’autore straniero da parte
del lettore nazionale: «O il traduttore lascia il più possibile in pace
lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile
in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore» (Nergaard 1993,
p. 153). Schleiermacher privilegia il primo metodo poiché fa viag-
giare all’estero il lettore della lingua d’arrivo e indica l’autentico
«fine» del traduttore in termini sociali: offrire tramite la traduzione
una comprensione del testo straniero che non sia puramente etno-
centrica bensì relativa a uno specifico gruppo sociale:

1 I brani della conferenza di Schleiermacher sono tratti dalla traduzione

italiana Sui diversi modi del tradurre, a cura di Giovanni Moretto, in Etica ed
ermeneutica, Napoli, Bibliopolis, 1985, pp. 83-120, poi in S. Nergaard (a
cura di) 1993; le citazioni francesi (di nostra traduzione) sono tratte dalla tra-
duzione francese del testo di Schleiermacher a opera di A. Berman 1985, pp.
279-347. Le citazioni dal tedesco seguono Schleiermacher 1838, pp. 207-245
[N.d.T.].

143
Il traduttore deve proporsi di offrire al proprio lettore un’idea e
un godimento come quelli offerti dalla lettura dell’opera nella
lingua originale alla persona che, per la sua formazione cultura-
le, usiamo chiamare, nel senso migliore del termine, «amante e
intenditore» («Leibhaber und Kenner/amateur et connaisseur»),
a una persona cioè che non è più costretta, come gli scolari, a
pensare ogni particolare nella propria lingua materna prima di
cogliere il tutto, ma che, anche là dove più serenamente gode
delle bellezze di un’opera, rimane sempre cosciente della diver-
sità esistente tra la lingua di questa e la propria lingua materna.
(ivi, p. 157)

Il traduttore mira a conservare la differenza linguistica e cultu-


rale del testo straniero, ma solamente come è stata percepita nella
traduzione da un gruppo limitato di lettori, l’élite colta. Ciò signi-
fica prima di tutto che la traduzione è sempre etnocentrica: anche
quando il testo tradotto contiene peculiarità discorsive atte a imita-
re il testo straniero e anche quando, citando la parole di
Schleiermacher (quelle del traduttore italiano), la traduzione «ha
assunto parvenze straniere» (ivi, p. 161) («zu einer fremden
Aehnlichkeit hinübergebogen» (Schleiermacher, 1838, p. 227),
non sfugge mai alla gerarchia dei valori culturali inseriti nella lin-
gua d’arrivo. Questi valori mediano ogni movimento relativo alla
traduzione e alla reazione del lettore della lingua d’arrivo, inclusa
la percezione di ciò che è nazionale o straniero: la versione inglese
di questa frase di Schleiermacher data da André Lefevere – «bent
toward a foreign likeness» (Lefevere 1977, pp. 78-79) – addome-
stica il tedesco sottomettendo la sua sintassi al predominio della
strategia della scorrevolezza, laddove la traduzione «toward a
foreign likeness bent» avrebbe rappresentato una peculiarità
discorsiva che resisteva alla scorrevolezza poiché caratterizzava la
traduzione inglese come arcaica per il lettore angloamericano con-
temporaneo, estraniando l’inglese per avvicinarlo alla sintassi
tedesca. Paradossalmente, imitare il tedesco in maniera così ravvi-
cinata non vuol dire essergli più fedele ma essere più inglese, vale
a dire coerente con l’inversione sintattica inglese che oggi viene
considerata arcaica.
La teoria di Schleiermacher anticipa queste osservazioni. Egli
era profondamente consapevole del fatto che le strategie di tradu-

144
zione si situano all’interno di specifiche situazioni culturali nelle
quali i discorsi vengono canonizzati o marginalizzati e sono sog-
getti a relazioni di dominio ed esclusione. Il metodo di traduzione
che cerca dunque di sviluppare le peculiarità discorsive per imitare
l’estraneità del testo straniero «non può venire applicato nella stes-
sa maniera a tutte le lingue, ma soltanto a quelle non imprigionate
dai vincoli troppo stretti di un modo di esprimersi classico, fuori
dal quale tutto diventa riprovevole» (Nergaard, 1993, p. 163); il
terreno ideale per questo metodo sono «le lingue più libere, in cui
più facilmente vengono tollerate deviazioni e innovazioni, così che
dal loro accumularsi può, in certi casi, sorgere un determinato
carattere» (ibidem). Questa libertà culturale e linguistica si delinea
in maniera complessa: non solo è definita in opposizione alle «lin-
gue imprigionate» di altre culture nazionali, ma «le deviazioni e le
innovazioni» della traduzione estraniante vengono definite in
opposizione alla norma stabilita da altri discorsi di traduzione nella
cultura della lingua d’arrivo. E poiché la difesa di Schleiermacher
del metodo estraniante era anche di sostegno ai discorsi specifici
dell’élite colta, egli conferiva una considerevole autorità culturale
a questo gruppo sociale, giungendo al punto di assegnargli una
precisa funzione sociale: quella di «dar vita a un modo di espri-
mersi caratteristico», sviluppando una lingua nazionale fino a inci-
dere «sull’intera evoluzione culturare» (ivi, p. 165) («die gesamm-
te Geistesentwikkelung», Schleiermacher, 1838, p. 231). Appare
chiaro che Schleiermacher stava procedendo all’inserimento del
suo metodo privilegiato di traduzione all’interno di una questione
culturale e politica: il controllo da parte dell’élite colta sulla for-
mazione della cultura nazionale tramite l’affinamento della propria
lingua raggiunto attraverso le traduzioni estranianti.
La conferenza di Schleiermacher autorizza una più dettagliata
analisi sociale e storica di tale questione. Egli conclude con qual-
che riferimento esplicito a «noi tedeschi», osservando che «il
nostro popolo, [...] per l’attenzione che dedica all’estraneo e per la
sua natura mediatrice» (Nergaard 1993, p. 177) («seiner vermit-
telnden Natur», Schleiermacher 1838, p. 243), soddisfa in modo
unico «le due condizioni» necessarie al prosperare della traduzione
estraniante: «che la comprensione di opere straniere sia un fatto
pacifico e auspicato e che pure alla lingua nativa venga attribuita
una certa duttilità» (Nergaard 1993, p. 165). Questo è il tipo di

145
comprensione della lingua che cercano «tedeschi» colti come
Schleiermacher, professore universitario e ministro della Chiesa
Riformata, il quale percepisce la lingua tedesca dotata di una «dut-
tilità» tale da incoraggiare la traduzione estraniante e dovuta al suo
non essersi ancora sviluppata, alla mancanza di un definito «modo
di espressione», e al non essersi fatta «imprigionare» dalla lingua
«classica» e «parziale madrelingua»: «la nostra lingua, muovendo-
ci noi, per la nostra pigrizia nordica, meno di altri popoli, solo
attraverso i contatti più diversi con le lingue straniere può mante-
nersi giovane e sviluppare perfettamente la propria energia» (ivi,
p. 177). Poiché la categoria dello «straniero» è qui definita dall’in-
tellettuale, Schleiermacher usa la traduzione per delimitare lo spa-
zio predominante della minoranza borghese all’interno della cultu-
ra tedesca dell’inizio del XIX secolo.
Come constata Albert Ward, in questo periodo

la letteratura era [...] un’arte prevalentemente borghese, ma solo


una piccola parte di questa comunità rispondeva più pronta-
mente agli scrittori classici del periodo splendido della lettera-
tura tedesca. [...] Scrittori come Goethe e Schiller trovavano il
loro pubblico nelle Honoratioren delle grandi città, tra i profes-
sionisti di provenienza universitaria, tra i ministri della religio-
ne, tra gli insegnanti, i dottori e gli avvocati, in quella che
potrebbe essere definita l’élite della società borghese. «La lette-
ratura alta» era allora, molto più di oggi, appannaggio di un
piccolo gruppo di letterati.
(Ward 1974, p. 128)2

Ward dimostra la marginalità culturale ed economica della «let-


teratura» tedesca, sia classica che romantica, facendo riferimento
al tipo di edizioni e al fatturato di vendita relativamente ad alcuni
casi sorprendenti all’interno dell’industria editoriale contempora-
nea:

Karl Preusker, che giunse a Leipzig come apprendista venditore


di libri nel 1805, cita nella sua autobiografia gli autori più

2 Sheehan 1989, pp. 157-158, descrive le diverse suddivisioni culturali

tedesche di questo periodo.

146
richiesti del tempo; il più classico (nell’attuale accezione del
termine) degli autori del suo elenco è Zschokke, «mentre le
opere di Schiller e di Goethe erano vendute solamente in quan-
tità esigua».
(ivi, p. 132)

Schleiermacher aveva dei legami con i maggiori romantici


tedeschi, condividendo per un breve periodo con Friederich
Schlegel un appartamento a Berlino e collaborando alla rivista a
diffusione limitata dei fratelli Schlegel, l’Athenaeum, e si trovò
completamente d’accordo con Goethe nella formulazione della
teoria della traduzione estraniante. Nel saggio intitolato Ricordo
fraterno di Wieland, pubblicato nel febbraio del 1813, quattro mesi
prima della conferenza di Schleiermacher, Goethe scriveva:

Ci sono due regole di condotta nella traduzione: una richiede


che l’autore straniero giunga a noi in una maniera tale da poter-
lo considerare come nostro; l’altra ci richiede di andare incon-
tro a ciò che è straniero e di adattarci alle sue condizioni, al suo
uso della lingua, alle sue peculiarità. I vantaggi di entrambe
queste regole sono conosciuti a sufficienza dagli uomini istruiti
grazie a esempi perfetti. Anche il nostro amico, che cercava una
via di mezzo tra queste, tentò di conciliarle ma, essendo un
uomo sensibile e di gusto, preferì adottare la prima regola
quando si trovò in dubbio.
(Lefevere 1977, p. 39)

Condividendo questa «sensibilità e gusto» per «ciò che è stra-


niero», Schleiermacher valorizzava un discorso culturale elitario e
borghese di raffinamento letterario in opposizione alla più ampia
ed eterogenea cultura della classe media e operaia. «Il lettore ordi-
nario della classe media», indicava Ward, «voleva opere che
rispecchiassero la sua esperienza e le sue emozioni, che riflettesse-
ro i suoi interessi e che non entrassero in conflitto con le esigenze
della sua morale» (Ward 1974, p. 133). Mentre la conferenza di
Schleiermacher sulla traduzione risulta piuttosto accademica poi-
ché cita solo opere greche e latine (Platone, Cicerone, Tacito,
Grozio e Leibniz), il pubblico più ampio di lettori della classe
media preferiva racconti gotici, romanzi cavallereschi, romanzi

147
realistici sia sentimentali che didattici, biografie di uomini esem-
plari e letteratura di viaggio. Questo pubblico leggeva anche delle
traduzioni, la maggior parte delle quali era costituita da romanzi
francesi e inglesi, fra cui quelli di Choderlos de Laclos e di
Richardson. Schleiermacher stesso aveva tradotto Platone, mentre
altri romantici – Voss, August Wilhelm Schlegel, Hölderin – tradu-
cevano Omero, Sofocle, Dante e Shakespeare. Erano profonda-
mente consapevoli di tradurre per un pubblico relativamente
ristretto, per un’élite e, come Schleiermacher, guardavano a questa
realtà sociale come a un valore che migliorava la loro «letteratura»
e le infondeva autorità culturale. Friederich Schlegel annotava con
orgoglio: «[i lettori] si lamentano sempre che gli autori tedeschi
scrivano per un gruppo veramente ristretto, e spesso in realtà sola-
mente per un’élite costituita da loro stessi. Io la trovo una buona
cosa. Grazie a ciò la letteratura tedesca guadagna sempre di più in
spirito e carattere» (Ward 1974, p. 191, n. 46).
Schlegel affermava che questa non era una concezione della
letteratura di impostazione solamente borghese, ma anche naziona-
lista: «tedesca». La teoria della traduzione estraniante di
Schleiermacher rivelava una simile configurazione ideologica:
anch’essa si scagliava contro la nobiltà tedesca incolta che era
stata a lungo sottomessa alla dominazione culturale francese. La
cultura aristocratica rifuggiva dalla ricerca accademica e dalla let-
tura approfondita della letteratura del passato e di quella contem-
poranea; «le poche corti che si interessavano attivamente alle que-
stioni letterarie – nota Ward – erano caratterizzate da un’atmosfera
prevalentemente borghese» (Ward 1974, p. 128). Nell’istruzione
aristocratica «l’accento era posto sulle lingue, in particolare sul
francese, e spesso in tale misura che alcuni nobili si esprimevano
meglio in quella lingua che nella propria» (ivi, p. 123). In una let-
tera del 1757, lo studioso di estetica e drammaturgo Johann
Christoph Gottsched descriveva un’udienza presso Federico II
durante la quale informava il re prussiano della seria minaccia che
incombeva sulla cultura letteraria a causa della francesizzazione
della nobiltà:

Quando affermai che gli scrittori tedeschi non venivano suffi-


cientemente incoraggiati poiché l’aristocrazia e le corti parlava-
no troppo francese e capivano troppo poco il tedesco per essere

148
in grado di afferrare e apprezzare appieno qualsiasi cosa scritta
in tedesco, egli disse: è vero, anch’io infatti non ho più letto un
libro in tedesco dalla mia gioventù, e je parle comme un
cocher, ma sono un vecchio di quarantasei anni e non ho tempo
per queste cose.
(ivi, p. 190 n.)

Circa cinquant’anni più tardi, nella sua conferenza sulla tradu-


zione, Schleiermacher si impegnava nella battaglia culturale per la
creazione di una letteratura tedesca esprimendo una critica altret-
tanto coraggiosa a Federico II, ma raffigurando il re non come l’in-
genuo antagonista anti-intellettuale di Gottsched, ma piuttosto
come un’intelligenza limitata dalla sua stessa totale dipendenza dal
francese:

Il nostro grande re ha concepito tutti i pensieri più sottili ed ele-


vati servendosi di una lingua straniera, della quale si era impa-
dronito nella maniera più profonda proprio a questo fine.
Quello che filosofava e poetava in francese egli non poteva
filosofarlo e poetarlo in tedesco. Dobbiamo deplorare che il
grande amore per l’Inghilterra, che dominava una parte della
famiglia, non abbia preso la decisione di fargli assimilare fin
dall’infanzia la lingua inglese, che è molto vicina alla lingua
tedesca e della quale fioriva allora l’ultima età aurea. Possiamo
però sperare che, se avesse beneficiato di un’educazione auten-
ticamente erudita, egli avrebbe preferito filosofare e poetare in
latino anziché in francese.
(Nergaard 1993, p. 169)

Qui il nazionalismo linguistico della politica culturale di


Schleiermacher si fa più evidente: il re viene criticato non tanto
perché non «erudito» (è di fatto presentato come genuinamente
interessato a «filosofare e poetare»), quanto perché non scrive in
tedesco, o in una lingua «molto vicina alla lingua tedesca» rispetto
al francese. Mentre Gottsched sembra lamentarsi della mancanza
di mecenatismo letterario («sufficiente incoraggiamento») dovuta
al carattere francofono dell’aristocrazia prussiana, Schleiermacher
è più preoccupato dell’ineguale produzione culturale in tedesco e
in francese: «Non poteva filosofare e poetare in tedesco».

149
La critica di Schleiermacher al re è una protesta nazionalista
contro la dominazione francese in Germania, coerente alla sua
intensa attività all’interno del movimento prussiano, durante le
guerre napoleoniche, per l’unificazione tedesca. Come spiega Jerry
Dawson,

la guerra tra Francia e Prussia del 1806, con la conseguente


sconfitta degli eserciti prussiani e le umilianti condizioni di
pace imposte alla Prussia da Napoleone, si dimostrò il fattore
decisivo necessario alla conversione [di Schleiermacher] al
nazionalismo, conversione segnata da un abbandono totale e
quasi sconsiderato.
(Dawson 1966, p. 51)3

La “Germania” non esisteva ancora a quel tempo: a ovest del


Reno vi erano numerosi piccoli principati che, dopo il 1806,
Napoleone organizzò in una “confederazione”; a est si trovava la
monarchia dominante di lingua tedesca, la Prussia, allora dominata
dai francesi. Con la sconfitta prussiana Schleiermacher perse l’im-
piego all’università di Halle e fuggì a Berlino, la capitale prussia-
na, dove tenne delle lezioni all’università e predicò presso diverse
chiese. I suoi sermoni esortavano alla resistenza politica e militare
contro gli eserciti francesi, sviluppando un’idea culturale di nazio-
nalità basata sulla lingua tedesca e legittimata dalla teologia prote-
stante. Nel 1813, tre mesi prima della sua conferenza sulla tradu-
zione alla Akademie der Wissenschaften di Berlino, e otto mesi
prima della definitiva sconfitta di Napoleone nella battaglia di
Leipzig, Schleiermacher tenne un sermone intitolato Il dovere di
una nazione in una guerra per la libertà, in cui rappresentava la
guerra con la Francia come una battaglia contro il dominio cultura-
le e politico. In caso di vittoria esortava la congregazione affer-
mando: «Saremo in grado di conservare il nostro carattere specifi-
co, le nostre leggi, la nostra costituzione e la nostra cultura»
(Schleiermacher 1890, p. 73).
In giugno, nel mese della sua conferenza, Schleiermacher scris-

3 Per una panoramica generale sul nazionalismo tedesco nel XVIII secolo
e all’inizio del XIX, si vedano Sheehan 1989, pp. 371-388 e Johnston 1989,
pp. 103-113.

150
se una lettera a Friedrich Schlegel in cui il suo nazionalismo si tra-
sformava in utopia:

Il mio più grande desiderio dopo la liberazione è quello di un


vero Impero tedesco, che rappresenti con forza al mondo ester-
no l’intera popolazione e il territorio tedeschi e che conceda
internamente ai vari Länder e ai loro prìncipi una grande libertà
per svilupparsi e governare secondo i propri particolari bisogni.
(Sheehan 1989, p. 379)

La visione della Germania come unione di principati relativa-


mente autonomi rappresentava in parte una risposta al conflitto
internazionale dominante, caratterizzata da un atteggiamento
alquanto retrogrado espresso nella nostalgia per l’organizzazione
politica che predominava prima dell’occupazione francese.
Napoleone aveva introdotto in Prussia alcune delle innovazioni
sociali frutto della rivoluzione, abolendo il feudalesimo e promuo-
vendo un dispotismo “illuminato”. Schleiermacher stesso era un
membro dell’élite culturale borghese, ma la sua ideologia naziona-
lista era tale da ammettere l’aristocrazia, la monarchia e perfino
una tendenza imperialista, solamente però quando queste costitui-
vano un’unità nazionale in grado di resistere alla dominazione
straniera.
Presentata al senato accademico il 24 giugno 1813, al culmine del
conflitto con la Francia, la conferenza di Schleiermacher attribuiva
alla traduzione un ruolo all’interno della politica culturale nazionali-
sta. La sua teoria della traduzione estraniante dovrebbe essere consi-
derata antifrancese in quanto si oppone al metodo che dominava in
Francia fin dal Neoclassicismo, vale a dire al metodo addomesticante
che faceva viaggiare l’autore straniero in direzione del lettore della
lingua d’arrivo. Esaminando la scarsa ricezione della traduzione
estraniante nella cultura occidentale, Schleiermacher riserva il suo
sarcasmo più sprezzante alla Francia:

Gli antichi, come è noto, hanno tradotto poco in questo senso


particolarissimo e anche la maggior parte dei popoli moderni,
intimidita dalle difficoltà dell’autentica traduzione, si acconten-
ta del rifacimento e della parafrasi. Chi potrebbe affermare che
non si sia mai tradotto qualcosa dalle lingue antiche o dalle ger-

151
maniche nella lingua francese? Noi tedeschi vorremmo certa-
mente prestare ascolto a questo consiglio, ma non lo seguirem-
mo.
(Nergaard 1993, p. 177)

Il francese rappresenta un esempio di quelle lingue che sono


«imprigionate dai vincoli troppo stretti di un modo di esprimersi
classico, fuori del quale tutto diventa riprovevole», e in particolare
le innovazioni e le deviazioni introdotte dalla traduzione estranian-
te. In un dialogo satirico del 1798, A.W. Schlegel aveva già reso
esplicita l’ideologia nazionalista che identificava la cultura france-
se con un metodo di traduzione addomesticante:

Francese: I Tedeschi traducono ogni Tom, Dick e Harry let-


terario. Noi, o non traduciamo affatto, oppure lo
facciamo secondo il nostro gusto.
Tedesco: Vale a dire che parafrasate e camuffate.
Francese: Noi consideriamo un autore straniero come un
estraneo per la nostra compagnia che si deve vesti-
re e comportare secondo i nostri costumi se vuole
piacere.
Tedesco: Come siete ottusi, se vi fa piacere solo ciò che è
francese.
Francese: Tali sono la nostra natura e la nostra educazione.
Del resto anche i Greci, non ellenizzavano forse
tutto?
Tedesco: Nel vostro caso la causa risale a una natura fatta di
ristrettezza mentale e di istruzione convenzionale.
Nel nostro caso l’istruzione è la nostra natura.
(Lefevere 1977, p. 50)

Il dialogo di Schlegel indica le costanti metafisiche del nazio-


nalismo tedesco e la sua presunzione di un’essenza biologica e raz-
ziale dalla quale ha origine la cultura nazionale: «L’istruzione è la
nostra natura». Ciò concorda sia con la visione di Schleiermacher,
per cui «la nostra nazione» possiede una «natura mediatrice», sia
con la metafora organica che egli impiega per descrivere l’effetto
della traduzione estraniante sul tedesco:

152
Come, forse, solo in virtù di un molteplice innesto di piante
straniere il nostro suolo è diventato più ricco e fecondo, e il
nostro clima più ridente e mite, così ora noi sentiamo che anche
la nostra lingua, muovendoci noi, per la nostra pigrizia nordica,
meno di altri popoli, solo attraverso i contatti più diversi con le
lingue straniere può mantenersi giovane e sviluppare perfetta-
mente la propria energia.
(Nergaard 1993, p. 177)

La teoria nazionalista della traduzione estraniante di Schleier-


macher mira a sfidare l’egemonia francese, non soltanto arricchen-
do la cultura tedesca, ma anche contribuendo alla formazione di
una sfera pubblica liberale, di un’area di vita sociale nella quale
singoli individui dialoghino razionalmente ed esercitino un’in-
fluenza politica:

Se mai verrà un tempo in cui avremo una vita pubblica, dalla


quale, da una parte, debba svilupparsi una socievolezza più
ricca di contenuto e linguisticamente più corretta, e, dall’altra,
venga conquistato uno spazio più libero per il talento di colui
che parla, allora avremo forse meno bisogno della traduzione
per lo sviluppo della lingua.
(ivi, pp. 178-179)

Tuttavia la sfera pubblica di Schleiermacher mostra la contrad-


dizione che caratterizza il concetto fin dal suo emergere nell’esteti-
ca del XVIII secolo. Come nota Peter Uwe Hohendahl, «benché,
in teoria, la capacità di formarsi una precisa opinione sia presente
in tutti, in pratica essa è limitata ai soli colti» (Hoendahl 1982, p.
51). Così in Schleiermacher: benché l’effetto della traduzione
estraniante sulla lingua tedesca sia considerato come creatore di
una cultura nazionale libera dal dominio politico francese, questo
spazio pubblico è aperto esplicitamente al «talento di colui che
parla», a un’élite letteraria.
Poiché tale élite è fortemente nazionalista, essa impiega la tra-
duzione estraniante per un ambizioso progetto di imperialismo cul-
turale tedesco, realizzabile da quella comunità “destinata” alla
dominazione globale mediante un’ideale comunità linguistica. Qui
il nazionalismo si identifica con l’universalismo:

153
Una necessità interiore, nella quale si esprime abbastanza chia-
ramente una speciale vocazione del nostro popolo, ci ha spinti a
tradurre in grande quantità; non possiamo perciò tirarci indie-
tro, ma dobbiamo affrontare questa necessità. [...] In questo
senso sembra logico che, per l’attenzione che dedica all’estra-
neo e per la sua natura mediatrice, il nostro popolo possa essere
destinato a unire nella propria lingua, in una grande totalità sto-
rica, conservata nel centro e nel cuore dell’Europa, tutti i tesori
della scienza e dell’arte straniere assieme ai propri, in modo
che, con l’ausilio della nostra lingua, ognuno possa godere, con
la purezza e la perfezione possibili a uno straniero, quello che i
tempi più diversi hanno prodotto di bello. Questo, in effetti,
sembra essere il vero obiettivo storico del tradurre in grande
stile, quale ora ci è divenuto familiare.
(Nergaard 1993, pp. 177-178)

In questo modo i lettori del canone letterario mondiale farebbero


esperienza della differenza culturale e linguistica dei testi stranieri,
ma solo come differenza eurocentrica mediata da un’élite borghese
tedesca. In definitiva sembrerebbe che la traduzione estraniante non
introduca tanto lo straniero nella cultura tedesca, quanto invece lo
usi per confermare e sviluppare una somiglianza, un processo di
modellamento di un’identità culturale ideale sulla base di un’altra,
un narcisismo culturale permeato, fra l’altro, di necessità storica.
Questo metodo di traduzione «ha senso e valore solo in un popolo
risoluto ad appropriarsi dell’estraneo» (ivi, p. 164).
La prospettiva ideologica d’insieme della politica culturale di
Schleiermacher conduce a tali cambiamenti contraddittori (lettera-
tura elitaria/cultura nazionale, minoranza borghese/“Germania”,
estraniante/germanizzante), che non dovremmo sorprenderci nello
scoprire che egli parla sia a favore che contro le importazioni
nella cultura tedesca, sempre in quello stesso anno inquieto, il
1813. Il suo nazionalismo borghese da una parte difende, nella
conferenza sulla traduzione, i «contatti ad ampio spettro con lo
straniero», e dall’altra afferma, nel sermone patriottico, la sua
condiscendenza xenofoba: «Ogni nazione, miei cari amici, che ha
sviluppato un particolare e ben definito livello, viene degradata
anche solo ricevendo al suo interno un elemento straniero»
(Schleiermacher 1890, pp. 73-74). Ciò presuppone, contrariamen-

154
te alla conferenza, che la cultura tedesca abbia già raggiunto un
significativo livello di sviluppo, presumibilmente nella letteratura
classica e romantica, e che debba essere sia protetta dalla conta-
minazione straniera sia imposta universalmente, attraverso una
pratica specificamente tedesca di traduzione estraniante della let-
teratura mondiale. La teoria della traduzione di Schleiermacher
interviene in «die gesammte Geistesentwikkelung» («l’intera evo-
luzione spirituale», Nergaard 1993, p. 165), espressione idiomati-
ca che sembrerebbe trovare una restrizione nazionalistica nell’in-
glese con cui la traduce Lefevere, «the whole evolution of a cultu-
re» (Lefevere 1977, p. 81), ma che dimostra possedere un’appli-
cazione mondiale nella traduzione francese di Berman: «le pro-
cessus global de la formation de l’esprit» (Berman 1985, p. 333).
E soltanto Berman svela la metafisica idealista presente nel testo
tedesco scegliendo il termine «esprit» per «Geist».
La teoria di Schleiermacher è il terreno instabile su cui costrui-
re un’etica della traduzione che ostacoli l’etnocentrismo: la sua
conferenza non riconosce alcuna contraddizione nell’affermare che
«il nostro popolo» si distingue «per l’attenzione che dedica all’e-
straneo» (Nergaard 1993, p. 177), nello stesso momento in cui
prende in considerazione il predominio dell’élite culturale tedesca.
Non riconosce neppure delle antinomie nel suo riflettere sulla lin-
gua e sulla soggettività umana come ugualmente determinati dal
nazionalismo borghese. Schleiermacher mostra una concezione
straordinariamente chiara delle proprietà costitutive della lingua,
quelle che fanno della rappresentazione un’attività di costante
appropriazione, mai trasparente o semplicemente adeguata al suo
oggetto, attiva nella costruzione della soggettività con il determi-
nare le forme della consapevolezza. Il «dominio particolare» del
traduttore, afferma Schleiermacher, è costituito da

quei prodotti spirituali dell’arte e della scienza nei quali, da una


parte, la libera facoltà combinatoria, propria dell’autore, e, dal-
l’altra, lo spirito della lingua con il sistema di idee, in essa
inscritto, e la sfumatura degli stati d’animo, sono tutto e l’ogget-
to non è più assolutamente in grado di dominare, ma piuttosto
viene dominato dal pensiero e dal sentimento; spesso, anzi, è
solo attraverso e insieme al discorso che esso diviene ed esiste.
(Nergaard 1993, p. 146)

155
Il concetto di Schleiermacher di «libera facoltà combinatoria»
segnala, allo stesso tempo, un movimento verso un soggetto auto-
nomo le cui «idee» e «stati d’animo» trascendono le determinazio-
ni linguistiche. «Da una parte», afferma Schleiermacher,

il singolo individuo è in balia della lingua da lui parlata; egli


stesso e l’intero suo pensiero ne sono un prodotto. [...]
Dall’altra, però, ogni individuo, liberamente pensante e intellet-
tualmente autonomo, è a sua volta in grado di plasmare la lin-
gua. [...] Ora perciò ogni discorso libero e superiore deve veni-
re compreso in un doppio modo: da una parte, muovendo dallo
spirito della lingua dei cui elementi si compone, come una rap-
presentazione vincolata e condizionata da questo spirito e da
esso prodotta in maniera vitale in colui che parla; dall’altra,
muovendo dall’animo di quest’ultimo, come sua azione, scatu-
rita proprio così e spiegabile soltanto alla luce della sua natura.
(ivi, pp. 149-150)

Lo «spirito della lingua» determina ogni atto del discorso, è


coinvolto in ogni argomento, ma tuttavia parte di quell’azione
risponde soltanto a un «singolo individuo». A questo punto la prio-
rità della lingua sull’argomento è efficacemente rovesciata, con
l’autore che diviene la sola origine dello «spirito»: i lettori di una
traduzione estraniante, se vogliono «comprendere», «devono
cogliere lo spirito della lingua, che era familiare allo scrittore, [e]
devono essere in grado di intuirne il particolare modo di pensare e
di sentire» (ivi, p. 151). Come fa notare Berman, la conferenza di
Schleiermacher testimonia la sostituzione, avvenuta alla fine del
XVIII secolo, della rappresentazione con l’espressione come para-
digma concettuale della lingua, e da qui la destituzione, da parte
del soggetto, dell’oggetto come base dell’interpretazione (Berman
1984, p. 233). Il pensiero di Schleiermacher sulla lingua è ispirato
dalla teoria espressiva romantica ed è basato sull’idea di una
coscienza libera e unificata che caratterizza l’individualismo bor-
ghese.
La sua spiegazione si indirizza in seguito verso la metafora e
l’illustrazione, definendo lo «spirito della lingua» in termini etnici,
senza però abbandonare il contenuto metafisico:

156
Il discorso è compreso anche come azione di colui che parla
soltanto se insieme si accerta dove e come questi è stato affer-
rato dalla forza della lingua, dove, sotto la sua guida, sono
guizzati i lampi del pensiero, dove e come nelle sue forme è
stata imbrigliata l’irrequieta fantasia.
Il discorso è compreso anche come prodotto della lingua e
come manifestazione dello spirito di questa solo se, rendendosi
conto, ad esempio, che così poteva pensare e parlare soltanto
un greco e che una tale influenza su uno spirito umano poteva
esercitarla soltanto questa lingua, si avverte insieme che in
greco era in grado di pensare e parlare in questo modo soltanto
questo individuo, che lui soltanto poteva impadronirsi e pla-
smare così la lingua, e che così soltanto si manifesta il suo pos-
sesso vivo delle ricchezze della lingua, il suo senso vigile della
misura e dell’eufonia, la sua capacità di pensare e di formare.
(Nergaard 1993, p. 150)

Le metafore – «i lampi del pensiero», l’«irrequieta fantasia» –


proseguono la tensione individualistica rappresentando il soggetto
come essenza coerente, radicalmente indipendente dalla lingua,
affidato al «pensiero» potenzialmente sovversivo e in possesso di
una «fantasia» che assume diverse «forme» accidentali (è evidente
che «i lampi del pensiero» hanno il sapore dell’allusione mitologi-
ca e teologica, specialmente in una conferenza tenuta da un erudito
classico e ministro protestante, ma non mi occuperò in questa sede
di tali possibilità interpretative). Il movimento più interessante in
questo passaggio potrebbe essere l’esempio fornito da Schleier-
macher, che dà origine a una serie discontinua di specifiche e revi-
sioni, mettendo l’individuo alla testa, per prima cosa, di una cultu-
ra nazionale con un canone letterario («le ricchezze della lingua»;
cfr. «tutti i tesori della scienza e dell’arte straniere» internazionali
[ivi, p. 88]), e in seguito con un apprezzamento specificamente let-
terario, se non erudito, della lingua greca («misura ed eufonia»), e
infine con una «capacità» cognitiva che è esclusivamente sua,
autoespressiva e fondamentalmente autodeterminante.
Il passaggio ci ricorda che Schleiermacher sta dando vita a una
comprensione del linguaggio associata a una particolare élite cul-
turale nazionale, come il modello grazie al quale l’uso della lingua
sia reso intelligibile e giudicabile. Da qui, nel caso della traduzio-

157
ne estraniante, «il lettore della traduzione, infatti, diverrà uguale al
migliore lettore dell’opera in lingua originale solo quando, oltre
allo spirito della lingua, sarà in grado di intuire e, un po’ alla volta,
comprendere chiaramente lo spirito particolare dell’autore dell’o-
pera» (Nergaard 1993, p. 80). Tuttavia l’atteggiamento verso l’au-
tore tipico della teoria di Schleiermacher e la sua antropomorfizza-
zione della traduzione da relazione intertestuale a intersoggettiva,
psicologizza il testo tradotto mascherando in tal modo le sue deter-
minazioni culturali e sociali. Questo è il passaggio più criticato
nell’ermeneutica di Schleiermacher: egli tende a far svanire la
natura determinata del testo articolando un doppio processo inter-
pretativo, «grammaticale» e «tecnico o psicologico»4. La spiega-
zione grammaticale dell’oggettiva «connessione tra opera e lin-
gua» si unisce alla spiegazione psicologica della «connessione
soggettiva tra l’opera e il pensiero in essa implicato» (Szondi
1986, p. 103). Schleiermacher eliminerà comunque questa distin-
zione, ad esempio nei suoi aforismi sull’ermeneutica del 1809-
1810, facendo riferimento all’unione di «oggettivo e soggettivo
così che l’interprete possa calarsi “all’interno” dell’autore»
(Schleiermacher 1977, p. 64). Nel caso della traduzione estraniante
tedesca, dunque, il traduttore rende il lettore di lingua tedesca
capace di comprendere l’individualità dell’autore straniero in
maniera da identificarsi con lui, conciliando così le ideologie tran-
sindividuali germaniche – culturali (l’elitarismo letterario), di clas-
se (la minoranza borghese) e nazionali (“tedesche”) – che mediano
la rappresentazione straniata dell’autore straniero. Questo atteggia-
mento verso la lingua e la soggettività è chiaramente più coerente
con la traduzione addomesticante, orientata alla conformità con i
valori culturali della lingua d’arrivo, e dunque contribuisce poco a
contrastare il predominio del discorso trasparente nella traduzione
di oggi. Al contrario, la psicologizzazione del testo fatta da
Schleiermacher presume la trasparenza, la presenza illusoria del-
l’autore straniero nella traduzione.

4 Per le critiche all’ermeneutica di Schleiermacher contenute in questi


passaggi si veda, per esempio, Palmer 1969, pp. 91-94 e Gadamer 1970, pp.
68-84. Due spiegazioni dell’ermeneutica di Schleiermacher che chiarificano,
ma non criticano, il suo individualismo sono in Fortsman 1968 e Szondi
1986.

158
Nella sua conferenza è presente un altro pensiero che si avvici-
na a questa tensione idealistica, anche se incredibilmente intricato:
il riconoscimento delle condizioni culturali e sociali della lingua e
una proiezione della pratica della traduzione che tende a prenderle
in considerazione senza tentare però di conciliarle. Schleiermacher
considera la traduzione come un fatto della vita quotidiana, non
un’attività svolta solamente su testi letterari e filosofici, ma un’at-
tività necessaria per la comprensione intersoggettiva, attiva nel
processo reale di comunicazione per le varie differenze, culturali,
sociali, storiche, che determinano la lingua:

Infatti, non soltanto gli idiomi delle varie stirpi di un popolo e i


diversi sviluppi della medesima lingua o del medesimo idioma
nel corso di più secoli costituiscono lingue diverse e, non di
rado, hanno bisogno di venire reciprocamente tradotti, ma gli
stessi contemporanei, non divisi dall’idioma, però di classi
sociali differenti e caratterizzate, a causa della scarsità dei con-
tatti, da una formazione culturale assai diversa, sono spesso in
grado di comprendersi unicamente attraverso una mediazione
del genere.
(Nergaard 1993, p. 143)

Questa osservazione obbliga chiaramente Schleiermacher a


rivedere il suo concetto nazionalista di «spirito della lingua»: con-
cepito come «il deposito di un sistema di osservazioni e di ombre
di stati d’animo», risulta troppo monolitico e psicologistico per
ammettere l’idea di «classi sociali differenti», una gerarchia socia-
le di discorsi culturali, ognuno così distintamente codificato a
livello di classe da impedire la comunicazione. Schleiermacher
trova persino «inevitabile che si sviluppino opinioni diverse circa»
le strategie di traduzione estraniante – «nasceranno così, in certo
qual modo, scuole diverse tra i molti maestri mentre, tra il pubbli-
co, i seguaci di queste si divideranno in partiti» – ma in definitiva
individua i «punti di vista diversi» riducendoli alla coscienza del
traduttore e trasformando le pratiche culturali con implicazioni
sociali in eccentricità egocentriche: «ciascuna, presa per sé, riveste
sempre un valore soltanto relativo e soggettivo» (ivi, p. 165).
Resta comunque la differenza culturale a indirizzare le prescri-
zioni di Schleiermacher per il traduttore estraniante, per l’invenzio-

159
ne di peculiarità discorsive che diano significato all’alterità del
testo straniero. Il traduttore deve respingere il discorso usato più
frequentemente nella cultura della lingua d’arrivo, ciò che egli chia-
ma «colloquiale» (ivi, p. 162) («alltäglich», Schleiermacher, p.
227), rifiutando «la bellezza più squisitamente nazionale, di cui
ogni genere sia capace» e rischiando invece il sorriso compassione-
vole dei «maggiori specialisti e maestri che, per comprendere il suo
faticoso e irto tedesco, si vedessero costretti a far ricorso al loro
greco e latino» (Nergaard 1993, p. 162). Ancora una volta, la diffe-
renza culturale indicata dal traduttore estraniante di Schleiermacher
è quella tra l’élite istruita e la massa non istruita: quando il tradutto-
re spinge la lingua verso una somiglianza estranea non lo fa con
«ogni genere squisitamente nazionale», ma con testi eruditi e lette-
rari in greco e latino, così che soltanto gli «specialisti e maestri»
saranno in grado di «comprendere» il suo uso deviante del linguag-
gio. Il traduttore di Schleiermacher rifugge da un uso «colloquiale»
e non istruito della lingua, dalle forme letterarie popolari.
Eppure, malgrado le discutibili determinazioni ideologiche
della conferenza di Schleiermacher – l’invidualismo borghese e
l’elitarismo culturale, il nazionalismo prussiano e l’universalismo
tedesco – essa contiene il suggerimento (involontario) che la tradu-
zione estraniante possa alterare le divisioni sociali rappresentate da
queste ideologie e che possa promuovere un cambiamento cultura-
le attraverso l’effetto prodotto sulla lingua d’arrivo:

ogni individuo, liberamente pensante e intellettualmente autono-


mo, è a sua volta in grado di plasmare la lingua. Come altrimen-
ti, se non per queste influenze, si sarebbe essa sviluppata, pas-
sando dalla primitiva rozza condizione alle forme più perfette
della scienza e dell’arte? In questo senso è quindi la forza viva
dell’individuo a produrre nella materia plasmabile della lingua –
all’inizio soltanto con l’obiettivo momentaneo di comunicare
una coscienza passeggera – forme nuove, delle quali però ora
più ora meno rimane nella lingua e, accolta da altri, continua a
sviluppare attorno a sé una funzione formatrice.
(ivi, p. 149)

Questo passaggio capovolge la logica. Inizialmente l’esistenza


del linguaggio viene supposta in una «rozza condizione», essendo

160
messo in opera da un soggetto trascendente che, «in grado di pla-
smare la lingua», è origine dello sviluppo e dell’innovazione lingui-
stica e culturale. In seguito emerge comunque la natura determinata
del linguaggio come forza capace di «sviluppare attorno a sé una
funzione formatrice» dei soggetti. Nell’intervallo la materialità della
lingua viene socializzata: non più «rozza», contiene «forme nuove»
prodotte dall’«individuo» che oltrepassano tuttavia la funzione che
dovevano assolvere – la comunicazione di una «coscienza passegge-
ra» – essendo la derivazione di forme preesistenti usate da «altri».
Ciò indica che la soggettività non nasce in sé, né è l’origine della
lingua e della cultura, che i suoi valori culturali (per esempio «scien-
za e arte») sono dati in precedenza e rielaborati costantemente (fino
alle «forme più perfette»), e che dunque il soggetto può considerarsi
come autodeterminante soltanto laddove classifichi questi valori, o li
revisioni alterando una classificazione stabilita. Le innovazioni e
deviazioni discorsive introdotte dalla traduzione estraniante costitui-
scono così una minaccia potenziale per i valori culturali della lingua
d’arrivo, ma svolgono la loro opera di revisione solamente dall’in-
terno, sviluppando strategie di traduzione tratte dai diversi tipi di
discorso che circolano all’interno della lingua d’arrivo.
L’idea di traduzione estraniante di Schleiermacher costituisce
una forma di resistenza ai valori culturali dominanti nella lingua
tedesca all’inizio del XIX secolo. L’alterità nella traduzione estra-
niante indica dunque una selezione specifica di testi stranieri (let-
terari, filosofici, eruditi) e uno sviluppo di peculiarità discorsive
che si oppongono sia all’egemonia culturale francese, specialmen-
te nell’aristocrazia, sia ai discorsi letterari favoriti dalla più ampia
fascia di lettori, quella della classe media e operaia. Il progetto di
traduzione di Schleiermacher si basa su una concezione idealista
della letteratura che è allo stesso tempo elitaria e nazionalista, indi-
vidualista ma socialmente determinata, definita in opposizione alle
pratiche economiche capitalistiche: «L’interprete [Dolmetscher]
[...] assolve il suo compito nell’ambito dell’attività quotidiana,
mentre il traduttore vero e proprio [Übersetzer] lo assolve in quel-
lo della scienza e dell’arte» (Nergaard 1993, pp. 144-145).
È questo aspetto ideologico a dover essere accantonato in ogni
recupero della traduzione estraniante per intervenire contro l’in-
flusso contemporaneo esercitato dal discorso trasparente. Oggi la
trasparenza domina il discorso della poesia e della prosa, della nar-

161
rativa di finzione o meno, dei bestseller e della stampa giornalisti-
ca. Anche se i mezzi elettronici di comunicazione hanno indebolito
l’egemonia economica, politica e culturale che la stampa esercita-
va nel secondo dopoguerra, il concetto idealista di letteratura su
cui quel discorso è basato continua ad avere un considerevole
potere istituzionale che risiede non solo nelle culture accademiche
e letterarie di diverse élite colte, ma anche nell’industria editoriale
e nei periodici popolari ad alta tiratura. La distinzione che
Schleiermacher percepiva tra il campo del commercio e quello del-
l’arte e della scienza è stata cancellata, se mai in realtà è esistita
come qualcosa di più che un’invenzione designata a consolidare la
letteratura in quanto idea culturale trascendente. Il discorso traspa-
rente è un prodotto ad alto consumo all’interno del mercato cultu-
rale contemporaneo, che a sua volta influenza le decisioni editoria-
li di esclusione dei testi stranieri che negano la trasparenza.
Schleiermacher dimostra che la prima opportunità di straniare
la traduzione avviene nella scelta del testo straniero, in cui il tra-
duttore può opporre resistenza al discorso dominante della cultura
angloamericana recuperando dei testi emarginati e riformando
potenzialmente il canone inglese delle letterature straniere.
Schleiermacher suggerisce anche che la traduzione estraniante
mette in opera una specifica strategia discorsiva. Egli nega il ruolo
primario del significato, attraverso cui la traduzione scorrevole
produce l’effetto di trasparenza per affermare che la traduzione
può essere estraniante solo approssimando il ruolo dei significanti
del testo straniero: «Per quanto più rigoroso è il suo legame con le
espressioni dello scritto originale, tanto più straniera suona la tra-
duzione agli stessi lettori» (Nergaard 1993, p. 161).
La conferenza di Schleiermacher fornisce gli strumenti per la
teorizzazione di una rivolta contro il predominio del discorso tra-
sparente nella traduzione inglese contemporanea. Tuttavia gli
effetti di tale predominio includevano non soltanto una diffusa rea-
lizzazione delle strategie scorrevoli, ma anche la marginalizzazio-
ne dei testi appartenenti alla storia della traduzione che avrebbero
potuto fornire teorie e pratiche alternative, come la conferenza di
Schleiermacher. Coloro che teorizzavano e mettevano in pratica la
traduzione in lingua inglese, trascuravano Schleiermacher, a parte
rare eccezioni. La sua conferenza è stata riconosciuta solo di
recente come “moderna” esposizione centrale della teoria della tra-

162
duzione, e non è stata tradotta in inglese fino al 19775. E perfino il
suo traduttore inglese, André Lefevere, ha sentito la necessità di
interrogarsi sul valore di Schleiermacher: «La sua esigenza che la
traduzione dovesse “darci la sensazione” della lingua d’origine ci
[...] colpisce sempre più come bizzarra» (Lefevere 1977, p. 67).
Lefevere sosteneva che la traduzione dovesse essere addomesti-
cante, come «la maggior parte dei teorici» raccomandava, riferen-
dosi in particolare alla prospettiva teorica di Eugene Nida e citan-
dolo per criticare Schleiermacher:

In effetti, ci troviamo di fronte a una difesa non illogica e molto


vivace di ciò che conosciamo come “traduzionese” o, per usare
un’altra espressione ancora molto utilizzata, come “equivalenza
statica”, a dispetto del fatto che la maggior parte dei teorici sot-
toscriverebbe subito il concetto di equivalenza dinamica, che
«mira alla completa naturalezza d’espressione e tenta di mette-
re in relazione il ricevente con modi di comportamento rilevanti
all’interno del contesto della sua stessa cultura».
(Lefevere 1981, p. 11)6

5 Steiner (1974, pp. 234 sgg.) è stato finora l’unico teorico della traduzio-

ne, fra gli anglofoni, a riconoscere l’importanza della conferenza di


Schleiermacher, ma per motivi alquanto diversi da quelli presi in considera-
zione qui e in Berman 1984, pp. 248-249 n.
6 In questo estratto Lefevere cita Nida 1964, p. 159. In seguito riaffermò

la sua visione della teoria di Schleiermacher sostenendo che «la seconda


parte della sua nota affermazione, “spingere il lettore verso l’autore”, [fosse]
l’unica vitale» (1990, p. 19). L’ultima opera di Lefevere mostra un’ancor più
grande preoccupazione per le determinanti culturali e sociali della traduzione
(Lefevere 1992a), benché egli avesse l’impressione che il metodo estraniante
di Schleiermacher fosse obsoleto, «perché il pubblico di questa traduzione ha
quasi cessato di esistere[:] il lettore colto che era in grado di leggere l’origi-
nale e la traduzione l’uno accanto all’altra e, facendo ciò, apprezzare la diffe-
renza d’espressione linguistica come espressione della differenza tra due gio-
chi del linguaggio». (Lefevere 1992b, p. 5)
La mia convinzione, comunque, è che la traduzione estraniante possa fare
appello a diversi ambiti culturali, sia monolingue che colti, ma anche che il
discorso della traduzione estraniante possa essere percepito senza fare ricorso
al confronto con il testo straniero (sebbene tale paragone sia senza dubbio
illuminante).

163
L’idea di Schleiermacher di traduzione estraniante era conside-
rato anomalo da Lefevere soltanto perché questi preferiva sotto-
mettersi al regime contemporaneo della scorrevolezza o, per dirla
con Nida, della «completa naturalezza di espressione». La canoni-
cità della traduzione scorrevole durante il secondo dopoguerra ha
coinciso con l’emergere del termine «traduzionese» che designa il
linguaggio non idiomatico di un testo tradotto (OED). L’appro-
vazione di Lefevere si è rivolta all’«equivalenza dinamica» di
Nida, un’idea che ora, con il crescente riconoscimento dell’impor-
tanza odierna di Schleiermacher, deve essere vista come grossola-
no eufemismo per il metodo di traduzione addomesticante e per la
serie di questioni che nasconde. Essendo questo metodo così trin-
cerato nella traduzione di lingua inglese, Lefevere è stato incapace
di vedere che la scoperta del linguaggio non idiomatico, special-
mente nei testi letterari, è culturalmente specifica: ciò che non è
idiomatico in una formazione culturale può essere esteticamente
efficace in un’altra. Ogni atteggiamento che respinga le idee di
Schleiermacher tende a conservare la forma dell’addomesticamen-
to nella traduzione inglese di oggi, impedendo la riflessione su
quei diversi metodi che possono contrastare i valori discutibili pre-
dominanti nella cultura angloamericana. Schleiermacher può in
realtà offrirci una via d’uscita.

II
Rimanendo tuttavia la conferenza di Schleiermacher non tra-
dotta, questa via d’uscita si aprì solo a pochi traduttori di lingua
inglese del XIX secolo. Altri traduttori avrebbero potuto certamen-
te formulare una teoria della traduzione estraniante, ispirata o
meno alla tradizione tedesca, ma la teoria sarebbe rimasta come
una risposta alla particolare situazione inglese, motivata da diffe-
renti interessi culturali e politici. Questo era il caso di Francis
Newman (1805-1897), il colto fratello del cardinale. Negli anni
Cinquanta Newman sfidò la tendenza consolidata della traduzione
inglese affermando che «il tentativo di Cowper di tradurre Omero
si era dimostrato un grande fallimento, come quello di Pope», e
mettendo in rilievo «il cambiamento sensibile che stava avendo
luogo in seguito alla recente conoscenza del limite al quale i tede-

164
schi avevano portato la traduzione poetica» (Newman 1851, p.
371)7. Questa “conoscenza” della tradizione tedesca fece in appa-
renza di Newman il primo fra i pochi traduttori vittoriani che svi-
luppò strategie estranianti e che si oppose al regime inglese del-
l’addomesticamento scorrevole.
Esperto di studi classici, Newman insegnò per molti anni,
prima al New College di Manchester, poi allo University College
di Londra; fu scrittore prolifico dai vari interessi, eruditi, religiosi
o riguardanti i temi sociali più rilevanti. Scrisse commenti a testi
classici (Eschilo, Euripide), dizionari e vocabolari di lingue e idio-
mi orientali (arabo, libanese), oltre a un’autobiografia spirituale e a
molti trattati religiosi che rispecchiavano il suo credo oscillante tra
cristianità e natura eterodossa di quello stesso credo (per esempio
Hebrew Theism: The Common Basic of Judaism, Christianity and
Mohammedanism). Pubblicò regolarmente conferenze, saggi e
pamphlet che dimostravano il suo intenso impegno in un’ampia
serie di problemi politici. Newman sostenne un governo decentra-
lizzato, la nazionalizzazione della terra, il suffragio delle donne,
l’abolizione della schiavitù. Criticò il colonialismo inglese, consi-
gliando riforme governative che permettessero ai colonizzati di
partecipare alla politica. Nei suoi Essays on Diet difese l’alimenta-
zione vegetariana e, in diverse occasioni, fu fautore di una maggio-
re morigeratezza dei pubblici costumi, in parte come mezzo di
repressione della prostituzione.
La configurazione ideologica degli scritti di Newman unisce
poco agevolmente il liberalismo a un investimento paternalistico
nei valori morali borghesi, portandone le conseguenze anche
all’interno dei suoi progetti di traduzione fondamentalmente peda-
gogici e populisti. Pubblicò versioni latine di opere della letteratu-
ra popolare che assegnava ai suoi studenti come esercizi scolastici
di traduzione: il poema in prosa di Henry Wadsworth Longfellow
Hiawatha (1862) e il romanzo di Daniel Defoe Robinson Crusoe
(1884). Il pubblico di lettori che immaginava per le sue traduzioni
di Orazio (1853) e per l’Iliade (1856) non conosceva il latino e il

7 Il resoconto della carriera e delle opinioni di Newman presentato nel


seguente paragrafo si basa sul DNB, Sieveking 1909, e sulla raccolta in tre
volumi delle sue numerose lezioni, pamphlet e articoli (Newman 1869, 1887
e 1889).

165
greco oppure era troppo impegnato o svogliato per mantenere in
esercizio le lingue che aveva imparato all’università: si trattava,
citando Newman, dei «lettori inglesi non eruditi», «coloro che
vanno in cerca del solo divertimento», inclusi «gli uomini d’affa-
ri», «l’Inghilterra commerciale», ma anche il pubblico socialmente
diverso di «Dickens e Thackeray» (Newman 1853, pp. III-V).
Rispetto a Schleiermacher, Newman inserì la traduzione in una
politica culturale più democratica, le assegnò una funzione peda-
gogica ma si scagliò deliberatamente contro l’élite accademica: per
lui lo scopo dell’istruzione era quello di favorire una democrazia
liberale. Nella conferenza On the Relations of Free Knowledge to
Moral Sentiment sostenne che lo studio dell’«economia politica»
insegnava il rispetto per le differenze culturali che militavano con-
tro l’imperialismo, il nazionalismo e il predominio di classe:

L’economia politica ha dimostrato che le leggi che la morale


detterebbe come giuste sono le stesse del benessere materiale
delle nazioni e delle classi; che nessun regolamento astuto ren-
derà uno stato capace di prosperare a spese degli stranieri; e che
gli interessi delle classi e delle nazioni sono talmente collegati
che non si può essere permanentemente indeboliti senza arreca-
re danno agli altri. Ciò salva il patriota dalla tentazione di esse-
re ingiusto nei confronti dello straniero, rendendolo consapevo-
le del fatto che ciò non condurrebbe al benessere della sua stes-
sa gente.
(Newman 1847b, pp. 18-19)

Newman incitava allo stesso modo allo studio della storia, sia
letteraria che politica, per «approfondire la nostra conoscenza del-
l’umanità e la nostra capacità di penetrazione negli interessi sociali
e politici» (ivi, p. 8). Anche qui gli «usi pratici» di questa cono-
scenza richiedevano il riconoscimento delle differenze culturali.
Nelle Four Lectures on the Contrasts of Ancient and Modern
History, Newman ammetteva l’impegno metafisico centrale dell’u-
manesimo illuminista – «Il totale interesse della storia si basa sul-
l’eterna somiglianza della natura umana a se stessa» – ma soltanto
per conferirgli una revisione più materialista, attenta al cambia-
mento storico: «È ugualmente necessario essere consapevoli dei
punti in cui questa somiglianza viene meno, e in cui inizia il con-

166
trasto; altrimenti le nostre applicazioni della storia agli usi pratici
sarebbero soltanto una mera e deludente pedanteria» (Newman
1847a, pp. 5-6).
La sua concezione «pratica» dell’educazione lo portò a criticare
la specializzazione accademica poiché indeboliva il valore sociale
della conoscenza. Nella sua Introductory Lecture to the Classical
Course al New College di Manchester, asserì:

Non difendiamo niente di esclusivo. Una specializzazione a


senso unico sembrerebbe a prima vista affermare il principio
della divisione del lavoro, eppure in realtà essa non conduce
nemmeno al beneficio generale e al progresso della verità, e
ancor meno al vantaggio dell’individuo.
(Newman 1841, p. 7)

Benché intesa a giustificare il ruolo degli studi classici nel cur-


riculum accademico, la conferenza di Newman attaccava il disde-
gno dei letterati nei confronti della traduzione, descrivendolo come
mero snobismo che degradava ironicamente la letteratura classica
limitandone il pubblico: «Non sarebbe onorevole per le venerabili
produzioni dell’antichità immaginare che tutte le loro magnificen-
ze svaniscano con la traduzione, e soltanto una meschina limitatez-
za di spirito potrebbe consentire malvolentieri alla diffusione della
maggior quantità possibile della loro istruzione agli illetterati» (ivi,
p. 9). Per Newman «esclusivo» significava specializzato ma anche
elitario.
Sembra chiaro che soltanto la traduzione estraniante poteva
rispondere all’idea di istruzione liberale di Newman, alla sua
preoccupazione per il riconoscimento delle differenze culturali.
Nella conferenza introduttiva affermava che i testi letterari erano
particolarmente importanti nel rappresentare questo riconoscimen-
to perché «la letteratura è speciale, peculiare; testimonia la diffe-
renza nazionale e tende a conservarla» (Newman 1841, p. 10).
Nella prefazione alla sua versione dell’Iliade fece un resoconto
conciso del suo metodo di traduzione mettendolo in opposizione ai
principi che considerava «estremamente falsi e rovinosi per la tra-
duzione». I principi cui Newman si opponeva appartenevano al
metodo scorrevole e addomesticante che predominava nella tradu-
zione inglese dal XIX secolo:

167
Uno di questi è che il lettore debba, se possibile, dimenticarsi
del tutto che quella sia una traduzione, ed essere cullato nell’il-
lusione di leggere un’opera originale. Certamente una deduzio-
ne necessaria tratta da questo dogma è che tutto ciò che ha un
colore straniero non è auspicabile, oltre a essere un grave difet-
to. Il traduttore, sembra, deve attentamente cancellare tutto ciò
che è caratteristico dell’originale, a meno che non sia di spirito
identico a qualcosa già familiare in inglese. Rispetto a tale
affermazione il dissenso che posso esprimere non è mai abba-
stanza incisivo. Io sono precisamente nella posizione opposta:
mantenere ogni peculiarità dell’originale, per quanto estraneo
possa essere, fin dove ne sono capace, con la più grande atten-
zione, sia che si tratti di una questione di gusto o di intelletto o
di morale. [...] il traduttore inglese dovrebbe augurarsi che il
lettore sia sempre in grado di ricordare che il suo lavoro è un’i-
mitazione, fatta inoltre con un materiale diverso; che l’originale
è straniero, e che per molti aspetti è estremamente diverso dai
nostri componimenti natii.
(Newman 1856, pp. XV-XVI)

Newman considerava addomesticante quell’«illusione» di ori-


ginalità che confondeva la traduzione con il testo straniero e che
assimilava ciò che era straniero «a qualcosa di già familiare in
inglese». Raccomandava un metodo di traduzione che attribuisse
significato alle numerose differenze tra traduzione e testo stranie-
ro, alla relativa autonomia l’una dall’altro, e alla stesura in lingue
diverse per culture diverse. Eppure rifiutare l’illusione di origina-
lità significava opporsi al discorso che plasmava la maggior parte
dei «nostri componimenti natii»: la scorrevolezza. Newman aveva
l’impressione che le sue traduzioni potessero resistere alla standar-
dizzazione dell’inglese imposta dall’industria editoriale contempo-
ranea:

Al giorno d’oggi l’apparato della composizione in prosa è


intensamente meccanico – con gli editori e i correttori che
auspicano l’osservanza uniforme della regola (non importa
quale, l’importante è che sia inclusa nella grammatica “stan-
dard”) – e ogni deviazione è accolta come se fosse un’eccentri-
cità fastidiosa; in generale sembrerebbe che l’unica perfezione

168
per la quale il grammatico ha combattuto sia una secca chiarez-
za. Ogni espressione incapace di superare una verifica logica,
anche se possiede un significato chiaro e benché giustificata
dalle analogie, è destinata a essere condannata; e ogni differen-
za tra mente e mente, che si manifesti nello stile, viene disap-
provata.
(ivi, pp. XVII-XVIII)

Il metodo estraniante che Newman sviluppò nella traduzione di


testi classici implicava necessariamente un discorso che significa-
va lontananza storica, arcaicità. Nella prefazione all’antologia trat-
ta da Orazio biasimò le precedenti versioni inglesi perché avevano
modernizzato il testo latino: «Finora i nostri traduttori di poesia
hanno generalmente fallito, non tanto per mancanza di talento o di
erudizione, quanto per la loro voglia di produrre poesie in stile
moderno, a causa della paura eccessiva che il lettore moderno non
tollerasse altro» (Newman 1853, p. IV). Nella prefazione all’Iliade
Newman definì più precisamente quella sorta di arcaismo che
Omero richiedeva: si trattava, in parte, dello sforzo di proporre
un’analogia storica tra le forme antiche del greco e dell’inglese:
«Essendo l’intero idioma di Omero essenzialmente arcaico, quello
della traduzione dovrebbe essere il più possibile normanno-sasso-
ne, e dovrebbe contenere il minor numero di elementi apportati
alla nostra lingua dalla cultura classica» (Newman 1856, p. VI).
Lo «stile» di Omero richiedeva una soluzione del genere: «è simile
all’antica ballata inglese, ed è in netto contrasto con lo stile raffi-
nato di Pope, Sotheby e Cowper, i più conosciuti traduttori di
Omero» (ivi, p. IV).
Tuttavia Newman affermò altrettanto chiaramente che non era
«interessato al problema storico, allo scrivere in uno stile che fosse
realmente esistito nella lingua di un periodo precedente; bensì al
problema artistico di raggiungere un aspetto plausibile di moderata
arcaicità, pur rimanendo facilmente comprensibile» (Newman
1856, p. X). Egli sosteneva dunque un arcaismo costruito artifi-
cialmente, assemblato senza eccessivo riguardo per l’accuratezza
storica o per la coerenza, che producesse quell’effetto che egli
definiva «antiquato», opposto al «grottesco». Newman insistette su
questo discorso a diversi livelli nelle sue traduzioni, nel lessico,
nella sintassi e nella prosodia. Spiegò inoltre il suo uso di «inver-

169
sioni» sintattiche, per esempio, non come «semplici espedienti
metrici ma come necessità dello stile; in parte, per raggiungere
antichità ed elevazione, in parte enfasi o varietà» (ivi, p. XI).
Le traduzioni di Newman potevano essere estranianti soltanto
in un senso culturalmente specifico, in relazione ai concetti di
«familiare» e «straniero» che distinguevano la cultura letteraria
inglese del periodo vittoriano; questo gli permetteva di non consi-
derare incoerente il criticare le tendenze modernizzanti dei prece-
denti traduttori di Orazio quando egli stesso espurgava il testo lati-
no, investendolo di un senso inglese di proprietà morale. Questo è
il punto in cui il paternalismo borghese di Newman contraddice le
tendenze democratiche del suo populismo:

Mi sono sforzato di rendere questo libro adatto alla più casta


donna inglese e non acconsentirei mai ad aggiungere neppure a
un singolo verso degli ornamenti che tendano a corromperlo.
Esso contiene, indubbiamente, tristi episodi per ciò che concer-
ne le relazioni tra i sessi nella Roma di Augusto – fatti non
tanto scioccanti in se stessi quanto quei molti, che ci opprimono
il cuore nelle città della Cristianità – e credo sia istruttivo cono-
scerli. Solamente in pochi casi, in cui l’immoralità è troppo rac-
capricciante per essere istruttiva, ho bruscamente tagliato ciò
che era imbarazzante. Orazio mirava generalmente a una bel-
lezza più elevata di quella di Catullo o di Properzio o di Ovidio,
e il risultato di un gusto più puro è molto più simile a quello di
una moralità più profonda.
(Newman 1853, p. VI)

L’elemento estraniante nelle traduzioni di Newman non era la


moralità, ma il discorso letterario, l’estraneità dell’arcaismo.
Anche questo era di derivazione interna, un ricco pasticcio deriva-
to da varie epoche storiche della lingua inglese ma che deviava
dall’uso corrente e attraversava differenti discorsi letterari, di poe-
sia e di narrativa, d’élite e popolari, inglesi e scozzesi. La traduzio-
ne di Orazio fatta da Newman conteneva, per esempio «viands»
(“vivande”), una parola emersa all’inizio del XV secolo e larga-
mente usata all’inizio dell’era moderna in diversi tipi di scrittura,
letteraria (le opere teatrali di Shakespeare) e non (le cronache sto-
riche di Edward Hall). Venne usata tuttavia anche in seguito come

170
forma poetica distinta, una licenza poetica usata da scrittori di
epoca vittoriana molto noti quali Tennyson e Dickens8. Il lessico
arcaico di Newman attraversava non soltanto periodi storici, ma
anche intere fasce di lettori. La parola «eld» (“vecchiaia, anti-
chità”) apparve nella traduzione di Orazio dopo una successione di
diversi utilizzi: nel Pellegrinaggio del giovane Aroldo (1812) di
Byron, ne Il monastero (1820) di Sir Walter Scott e nell’Evan-
gelina (1847) di Longfellow.
La versione dell’Iliade di Newman aumentò la densità degli
arcaismi al punto di rischiare un effetto opacizzante e di incom-
prensione di lettura al posto di quella che avrebbe potuto essere
una poeticità riconoscibile. Prevedendo forse questo rischio,
Newman aggiunse un “glossario” di due pagine alla traduzione, in
cui forniva le definizioni degli arcaismi. Il glossario era un atto
erudito che indicava la pura eterogeneità del lessico, oltre alle sue
diverse origini letterarie, e i lettori lo trovarono indubbiamente
utile anche per affrontare altri libri, appartenenti a diversi generi,
periodi e idiomi. Newman usava «callant» (“giovane uomo”),
parola del XVIII secolo apparsa nel Waverly (1814) di Scott, e
«gride» (“raschiare con stridore”), coniata da Spenser, che appar-
ve nel Prometeo liberato (1821) di Shelley e nell’In Memoriam
(1850) di Tennyson. Un breve resoconto suggerisce l’inventiva
del lessico di Newman, la sua ampiezza culturale e storica, ma
anche la sua occasionale impenetrabilità: «behight», «bragly»,
«bulkin», «choler», «emprize», «fain», «gramsome», «hie»,
«lief», «noisome», «ravin», «sith», «whilom», «wight», «wend».
C’erano anche delle parole scozzesi desunte da Burns e Scott,
come «skirl», che significa “urlare acutamente”, e «syne», come
in «lang syne».
Il discorso estraniante delle traduzioni di Newman, si impresse
con forza nella mente dei lettori contemporanei. Il London
Quarterly Review incluse l’Orazio di Newman in due saggi che
sopravvissero alle versioni inglesi delle odi, passate e presenti.
Benché questi saggi furono pubblicati a distanza di quindici anni
l’uno dall’altro (1858 e 1874), entrambi disapprovavano le strate-
gie di Newman ed esprimevano la preferenza per un Orazio
8 Per ciò che concerne l’eterogeneità del pubblico vittoriano, si veda Altick

1957. Per i significati e l’uso degli arcaismi inglesi, mi sono rifatto all’OED.

171
modernizzato, tradotto scorrevolmente, in un inglese immediata-
mente comprensibile:

L’errore diffuso e persistente di questa traduzione consiste nel-


l’utilizzo di forme espressive oscure e antiquate, invece dell’in-
glese semplice e moderno. Così troviamo, proprio nella prima
Ode, espressioni quali «Lydian eld» e «quirital mob». Altrove
troviamo modi di dire come «tangled fields» (qualsiasi cosa
questo possa significare) e «the sage thrice-aged».
(London Quarterly Review 1874, p. 17)

Questa critica attraversava diverse fazioni politiche, apparendo


non soltanto nel London Quarterly, di tendenza tory, ma anche nella
liberale National Review, di cui Newman fu collaboratore (Sullivan
1984, pp. 237-242). Il recensore dell’Iliade di Newman per la
National espresse un parziale accordo con lui, ammettendo che «uno
stile in qualche modo arcaico è senza dubbio auspicabile, e persino
necessario, per rappresentare un poeta come Omero» (National
Review 1860, p. 292). Ma l’arcaismo di Newman veniva attaccato
per l’eccessivo allontanamento dal familiare, dal trasparente:

Non possiamo fare altro che giudicare lo stile del Signor


Newman inutilmente antiquato e privo di grazia; e, benché non
abbia incluso nessuna di quelle espressioni rese incomprensibili
dalla loro antichità, ha omesso di osservare quell’ulteriore cau-
tela per cui l’arcaismo non dovrebbe apparire come chiaramen-
te affettato o forzato, onde evitare che uno stile elaborato ed
artificiale in inglese possa dare l’idea di uno stile altrettanto
artificiale ed elaborato in greco, cosa che non potrebbe essere
più lontana da Omero.
(ivi, p. 292)

Il recensore preferiva un’esperienza di lettura che permettesse alla


versione inglese di passare come il vero equivalente di «Omero»,
negando al testo di Newman lo status di traduzione per l’impressione
che l’arcaismo fosse «finto», un artificio del traduttore.
Come suggerisce questo brano, comunque, le traduzioni di
Newman apparivano straniere, non solo perché «la forzata bizzar-
ria arcaica» si appropriava dell’illusione di scorrevolezza, ma

172
anche perché costituivano una lettura del testo straniero che cor-
reggeva l’opinione critica prevalente. La decisione di Newman di
tradurre Orazio in versi non rimati e dai diversi accenti metrici
ignorava quella che la London Quarterly Review chiamava «la
dignità e la musicalità del latino», «la grazia e la dolcezza dell’ori-
ginale» (London Quarterly Review 1858, p. 192; 1874, p. 18).
Come risultato, la versione di Newman apparve «alquanto bizzarra
e ruvida», mentre «le versioni rimate di Lord Ravensworth e del
Signor Theodore Martin» possedevano «le qualità dell’eleganza
semplice e della cadenza dolce» (London Quarterly Review 1858,
pp. 192-3; 1874, pp. 16, 19). I recensori cercavano un metro scor-
revole e iconico, un’intonazione imitativa che producesse un
poema trasparente, ma affermavano anche che Orazio sarebbe
stato d’accordo con loro:

A volte il Professor Newman ci sorprende con un piacevole


[sic] flusso di versi:

Me not the enduring Sparta


Nor fetile-soil’d Larissa’s plain
So to the heart has smitten
As Anio headlong tumbling,
Loud-brawling Albuneia’s grot,
Tiburnus’ groves and orchards
With restless rivulets streaming.

Qui c’è qualcosa dell’impeto di una fresca cascata d’acqua. Ma


cosa direbbe Orazio, se potesse tornare in vita, e si trovasse a
cantare le due seguenti stanze?

Well of Bandusia, as crystal bright,


Luscious wine to thee with flowers is due;
To-morrow shall a kid
Thine become, who with horny front

Budding new, designs amours and war.


Vainly: since this imp o’ the frisky herd
With life-blood’s scarlet gush
Soon shall curdle the icy pool.

173
Qui la lettura si complica, mentre il latino è piacevole all’udito
come la fontana che ci fa immaginare.
(London Quarterly Review 1858, p. 193)

I giudizi negativi dei recensori si basavano sulla contraddizione


che rivelava abbastanza chiaramente i valori culturali nazionali da
loro privilegiati. Incitando a una versione rimata inserivano il testo
latino non in rima nella forma metrica che dominava la poesia
inglese contemporanea, mentre insistevano che la rima avrebbe
reso la traduzione più vicina a Orazio. I critici affermavano così
una posizione egemonica all’interno della cultura letteraria inglese,
decisamente inclinata verso l’élite accademica: il testo di Orazio
può essere «piacevole all’udito» soltanto per coloro che leggono il
latino. Tuttavia questa lettura accademica venne anche presentata
in termini culturali nazionali poiché i recensori assimilavano
Orazio alla prosodia tradizionale inglese:

Abbandonare la macchina vetusta delle rime ricorrenti, che ha


avuto un incremento con la crescita del nostro linguaggio poeti-
co e si è rafforzata con la sua intensità, lasciare da parte quelle
migliaia di effetti familiari e prevedibili di battuta, pausa, ripe-
tizione e modulazione metrica che rendono il fascino mutevole
del verso lirico: abbandonare tutto ciò a favore di un apparato
di versi estraneo e fastidioso, ognuno dalla chiusura differente,
monotonamente privo di alcuna nuova grazia di espressione, di
alcuna nuova armonia del suono, è semplicemente l’opera di un
visionario, che lavora non per il godimento dei suoi lettori, ma
per la gratificazione di un gusto perverso e capriccioso.
(London Quarterly Review 1874, p. 15)

Questo appello per un Orazio addomesticato era motivato da un


investimento nazionalista nella «forza del nostro linguaggio poeti-
co». La versione di Newman era «perversa» perché era scritta in
un non-inglese: «è una severa richiesta da fare al grande pubblico,
che legge per piacere, quella di rompere con tutte le tradizioni
inglesi per qualcosa di estremamente nuovo, ma mediocre» (Lon-
don Quarterly Review 1858, p. 193). Newman metteva alla prova
l’affermazione dei recensori secondo la quale il pubblico dei lettori
inglesi voleva che ogni testo straniero venisse riscritto in accordo

174
con i valori letterari dominanti. La vera eterogeneità delle sue tra-
duzioni e i prestiti da diversi discorsi letterari smentivano questa
affermazione puntando alla natura ugualmente eterogenea del pub-
blico: le sue traduzioni estranianti sfidavano un concetto elitario di
cultura nazionale inglese.
La forza culturale di questa sfida può essere valutata dalla rice-
zione della sua Iliade. La strategia estraniante di Newman lo portò
a scegliere la ballata come forma inglese arcaica più adatta al
verso omerico, e questa scelta lo coinvolse all’interno della contro-
versia di metà secolo sulla prosodia delle traduzioni omeriche,
pubblicate in numerose riviste, saggi critici e in una miriade di
versioni inglesi che vedevano le più diverse forme metriche: rima-
te e non, con il metro della ballata e della stanza spenseriana, in
endecasillabi e in esametri. Anche qui le scommesse erano cultura-
li, per le diverse letture dei testi greci, e allo stesso tempo politi-
che, per le diverse concezioni della nazione inglese.
Newman scelse per la sua Iliade il metro della ballata poiché
cercava «una poesia che mirasse a essere antiquata e popolare»
(Newman 1856, p. XII). «Lo stile di Omero», affermava, «è diret-
to, popolare, impetuoso, bizzarro, fluido, verboso, abbondante di
formule, ridondante di interiezioni affermative e di particelle,
come anche di raccordi grammaticali di tempo, luogo e contenuto»
(ivi, p. IV). Egli definì storicamente l’aspetto “popolare” del testo
greco come il prodotto di una cultura orale arcaica a un livello
rudimentale di sviluppo letterario, «uno stadio della mente nazio-
nale in cui le divisioni letterarie non erano ancora state riconosciu-
te [,] come anche la distinzione tra prosa e poesia» (ivi, p. IV). Ma
individuò anche degli analoghi «popolari» contemporanei, inglesi
e greci. Scegliendo la ballata, Newman ricordava, «ho scoperto
con piacere che avevo raggiunto esattamente il metro che i greci
moderni adottano per l’esametro omerico», in quella che egli chia-
mava «l’epica greca moderna» (ivi, p. VII-VIII). I testi in questio-
ne erano in realtà ballate cantate nel Diciannovesimo secolo dai
briganti delle montagne del Peloponneso, i “Klefti”, che combatte-
vano nella resistenza greca contro l’impero turco9.
9 Newman fece riferimento “all’epica greca moderna” nell’articolo pub-

blicato su una rivista nel 1851 in cui citava «un noto appello patriottico che
incitava i Greci a liberarsi della Turchia» (Newman 1851, p. 390). Il suo uso

175
Gli analoghi inglesi citati da Newman erano ugualmente
«moderni»: versioni contemporanee di forme arcaiche. Egli affer-
mava che «i nostri antichi scrittori autentici di ballate erano troppo
poveri e meschini per rappresentare Omero, e troppo lontani dai
nostri tempi nello stile per essere comprensibili popolarmente»
(Newman 1856, p. X). Per assicurare questa comprensibilità
“popolare” la sua traduzione rifletteva l’arcaicità del romanzo sto-
rico inglese e del poema in prosa: Scott sarebbe stato, a suo avvi-
so, il traduttore ideale di Omero. Tuttavia il discorso di Newman
era anch’esso esplicitamente orale, illetterato e inglese. Le sue
inversioni sintattiche si avvicinavano al discorso inglese contem-
poraneo:

Usiamo molto più l’inversione nelle conversazioni vivaci che


nello stile saggistico: ponendo l’accusativo prima del verbo,
cominciando la frase con un predicato oppure con una negazio-
ne, e in altri modi che si avvicinano allo stile antico, che risulta
fedelmente nativo per ogni inglese genuino.
(ivi, p. XI)

Questa era una concezione del «vecchio stile» tanto nazionali-


sta quanto populista. Il lessico «normanno-sassone» di Newman
«doveva molto poco a quegli elementi portati nella nostra lingua
dall’erudizione classica» (ivi, p. VI). E le «diverse formule di vec-
chia foggia che egli utilizzava si opponevano alle prescrizioni
accademiche per l’uso dell’inglese:

Nello stile moderno, i nostri studiosi classici già da tempo


hanno introdotto dal latino un principio che mi sembra essen-
zialmente impopolare, quello di terminare una proposizione
con allora egli, allora tu, allora lei ecc., là dove ritenevano che
ci fosse bisogno di un nominativo. [...] Non riesco ad ascoltare
un modo di parlare in inglese non artefatto senza convincermi
che nell’antico inglese le parole me, te, lui ecc., non sono dei
semplici accusativi, ma anche forme isolate del pronome, come

della “moderna ballata greca klefta” è recensito nella North American Review
1862a, p. 119. Hobsbawm discute il ruolo dei “klefti” all’interno del movi-
mento nazionalista greco (Hobsbawm 1962, p. 173-174).

176
moi, toi, lui. In risposta alla domanda “Chi c’è?” ogni ragazzo o
ragazza inglese risponde Me, fino a che non gli viene imposto
di dire I (io). Nella prosa moderna hanno prevalso i latinisti ma,
in una poesia che miri a essere antiquata e popolare, mi devo
opporre a tutto questo.
(ivi, pp. XI-XII)

«Popolare» nella traduzione di Newman corrispondeva alla


costruzione contemporanea di una forma arcaica che portava con
sé diverse implicazioni ideologiche. Attingeva a una forma greca
analoga affiliata a un movimento nazionalista per conquistare
autonomia politica dalla dominazione straniera (o, più precisamen-
te, una frangia criminale di questo movimento, la resistenza
Klefta). Essa presumeva una cultura inglese nazionale ma caratte-
rizzata da divisioni sociali, in cui i valori culturali fossero disposti
gerarchicamente tra i vari gruppi, accademici e non. Essendo
populista e assegnando alle forme culturali popolari una priorità
rispetto all’élite accademica che tentava di sopprimerle, l’arcaicità
di Newman costituiva la tendenza democratica della sua idea di
nazione inglese. Pensava alla ballata come al «nostro metro comu-
ne» (Newman 1856, p. VII).
L’Iliade di Newman ricevette scarsa attenzione dai periodici
fino a che, molti anni più tardi, Matthew Arnold decise di attaccarla
in una serie di conferenze intitolate On translating Homer
(Tradurre Omero, 1861). Arnold, allora professore di poesia a
Oxford, descrisse le sue conferenze come il tentativo di «progettare
i veri principi su cui si doveva fondare una traduzione di Omero», e
questi principi erano diametralmente opposti a quelli di Newman
(Arnold 1960, p. 238). Secondo Arnold la traduzione doveva tra-
scendere le differenze culturali e linguistiche, più che attribuire loro
significato, apprezzando di conseguenza l’illusione del discorso tra-
sparente e utilizzando lo «strano linguaggio» della trascendenza
mistica per descrivere il processo di addomesticamento:

Coleridge afferma, nel suo strano linguaggio, parlando dell’u-


nione dell’anima umana con l’essenza divina, che questa ha
luogo

Whene’er the mist, which stands ’Twixt God and thee,

177
Defecates to a pure transparency;

(Ogni volta che la nebbia, che si trova tra Dio e te,


Si purifica in un’autentica trasparenza;)

e, allo stesso modo, si può dire che l’unione del traduttore con
l’originale, che sola può produrre una buona traduzione, ha
luogo quando la nebbia che si trova tra loro – la nebbia dei
modi di pensare, parlare e sentire estranei al traduttore – «si
purifica in un’autentica trasparenza» e scompare.
(ivi, p. 103)

In questa straordinaria analogia, attraverso i «princìpi» della


traduzione Arnold afferma una metafisica platonica cristiana di
vera equivalenza semantica, ragione per la quale egli demonizza
(o purifica) [ma anche “espelle”] le condizioni materiali della
traduzione, i valori della lingua d’arrivo che definiscono l’opera
del traduttore e che segnano inevitabilmente il testo della lingua
di partenza. «I modi di pensare, di parlare e di sentire» dell’in-
glese attuale devono essere repressi, come una funzione corpo-
rea; essi sono scorie «estranee» che macchiano il testo classico.
Questa passione antiquaria canonizzava il passato greco mentre
si avvicinava all’inglese del presente con un atteggiamento schiz-
zinoso verso la fisicità. Arnold non demonizzava comunque tutti
i valori nazionali poiché in verità sosteneva la tradizione canoni-
ca della traduzione letteraria inglese: seguendo Denham, Dryden,
Tytler e Frere, raccomandava il metodo libero e addomesticante
per produrre un verso scorrevole e familiare che rispettasse i
valori morali borghesi. La differenza tra il testo straniero e la cul-
tura inglese “scompare” in questa tradizione perché il traduttore
la rimuove, mentre inserisce invisibilmente una lettura che rical-
ca i canoni letterari inglesi, un’interpretazione specifica di
“Omero”. Nel caso di Arnold,

la semplicità e la naturalezza del pensiero sono caratteristiche


talmente essenziali di Omero che il traduttore, per conservarle
nella sua versione, deve sacrificare senza scrupoli, là dove
necessario, la fedeltà verbale all’originale, piuttosto che correre

178
il rischio di produrre, rimanendo letterale, un effetto strano e
innaturale.
(Arnold 1960, pp. 157-158)

Per Arnold ciò che determinava la familiarità dell’effetto non


era il semplice discorso trasparente, la scorrevolezza opposta alla
dimensione «letterale», ma la diffusa lettura accademica di Omero,
legittimata dagli studiosi di Eton, Cambridge e Oxford. L’opinione
centrale di Arnold – e il punto in cui più differiva da Newman –
prevedeva infatti che soltanto i lettori del testo greco fossero quali-
ficati a valutarne la versione inglese: «Il giudizio competente di
uno studioso sul fatto che la traduzione riproduca in maggiore o
minor parte, secondo lui, l’effetto dell’originale» (Arnold 1960, p.
201). Nelle sue conferenze Arnold si richiama costantemente a
questo «effetto» con asserzioni autoritarie: «Omero è rapido nel
movimento, Omero è piano nelle parole e nello stile, Omero è
semplice nelle idee, Omero è nobile nelle maniere» (ivi, p. 141).
Utilizzando questa lettura esplicitamente accademica, Arnold
affermava che vari traduttori, del passato e del presente, avevano
«fallito nel tradurlo»: George Chapman, a causa della «fantasia
dell’età elisabettiana, completamente estranea al pensiero e al sen-
timento diretti e semplici di Omero»; Pope, a causa della sua
«maniera letteraria artificiale, totalmente aliena alla semplice natu-
ralezza di Omero»; William Cowper, a causa del suo «stile elabo-
rato di matrice miltoniana, interamente estraneo alla fluida rapidità
di Omero» e, per finire, Newman, la cui «maniera» era «altamente
ignobile, mentre quella di Omero era altamente nobile» (ivi, p.
103). Si evince da questo che la traduzione di Newman era estra-
niante perché i suoi arcaismi deviavano dalla lettura accademica di
Omero:

Perché i versi del Signor Newman sono imperfetti? Lo sono, in


primo luogo, perché, per quanto riguarda lo stile, le espressioni
«O gentle friend», «eld», «in sooth», «liefly», «advance»,
«man-ennobling», «sith», «any-gait», e «sly of foot», sono tutte
sbagliate; alcune peggiori delle altre, ma tutte sbagliate: vale a
dire che ognuna di esse usata in questo modo suscita nello stu-
dioso, unico loro giudice, – suscita, affermerò audacemente, nel
Professor Thompson, o nel Professor Jowett – una sensazione

179
totalmente diversa da quella suscitata dalle parole di Omero che
queste espressioni dichiarano di rendere.
(ivi, p. 133)

La critica di Arnold alla traduzione di Newman si basava su un


concetto di cultura inglese nazionalista ed elitario. Per mostrare
l’effetto di familiarità sperimentato da uno studioso di fronte al
testo greco, Arnold forniva esempi di «espressioni» inglesi che
definiva «semplici», chiaramente comprensibili, ma che costitui-
vano anche gli stereotipi anglocentrici di culture straniere, implici-
tamente razzisti:

Le espressioni [greche] non appaiono allo [studioso] più strane


delle semplici espressioni inglesi. Nella lettura egli non è osta-
colato da una sensazione di estraneità, forte o debole che sia,
più di quanto non lo sarebbe nel leggere «the painted savage»,
oppure «the phlegmatic Dutchman» in un libro inglese.
(ivi, p. 123)

Arnold sosteneva che la traduzione avesse bisogno di un’élite


accademica che stabilisse dei valori culturali nazionali:

Penso che in Inghilterra, in parte per l’assenza di un’Acca-


demia, in parte per un atteggiamento intellettuale nazionale per
il quale tale assenza di un’Accademia è di per sé conveniente,
sia troppo scarsa quella che potrei chiamare una forza pubblica
di corretta opinione letteraria che possieda entro certi limiti un
chiaro senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, valido o
meno, e che acutamente richiami a sé uomini abili ed eruditi
che abbiano intrapreso una di queste evidenti direzioni sbaglia-
te a loro vantaggio. Penso anche che nel nostro Paese una forte
direzione sbagliata di questo tipo possa più facilmente soggio-
gare e corrompere l’opinione piuttosto che essere controllata e
corretta da essa.
(ivi, pp. 171-172)

La funzione sociale che Arnold affidava a traduttori quali


Newman era quella di «correggere» i valori culturali inglesi affian-
candoli all’«opinione» dei dotti. La traduzione era per Arnold un

180
mezzo per dare pieni poteri all’élite accademica e per infonderle
un’autorità culturale nazionale, ma questo conferimento di potere
implicava un’imposizione di valori eruditi su altre realtà culturali,
incluso il pubblico diversificato di lettori inglesi che Newman spe-
rava di raggiungere. L’élite, nella concezione di una cultura nazio-
nale inglese elaborata da Newman, presumeva una netta divisione
sociale: «Queste due impressioni – quella del lettore erudito e quel-
la del lettore non istruito – non possono mai, in pratica, essere para-
gonate in maniera adeguata» (ivi, p. 201). La traduzione fa da ponte
in questa divisione, ma solo eliminando ciò che non è erudito.
L’attacco di Arnold alla traduzione di Newman era una repres-
sione accademica delle forme culturali popolari che si fondava su
una diversa lettura di Omero. Dove l’Omero di Arnold era elitario,
poiché possedeva la «nobiltà» da «un grande maestro» dal «super-
bo stile», quello di Newman era populista e, per Arnold, «ignobi-
le». Per questo Arnold insisteva affermando che

lo stile e la misura della ballata sono decisamente inadeguate


per rendere Omero. La sua maniera e il suo movimento sono
sempre sia nobili che potenti: la forma della ballata e il suo
movimento sono spesso sia vivaci che eleganti, ma non altret-
tanto nobili; oppure sono prolissi e monotoni, e non altrettanto
potenti.
(Arnold 1960, p. 128)

Arnold rifiutò l’uso della «ballata» nelle diverse traduzioni


inglesi – l’Omero di Chapman, le Homeric Ballads and Comedies
of Lucian (1850) di William Maginn, l’Iliad di Newman – ritenen-
dole «troppo familiari», «banali», «sprofondate sensibilmente al di
sotto [del verso] di Omero» (ivi, pp. 117, 124, 155). L’uso di arcai-
smi in Newman degradava poi particolarmente il testo canonico
greco facendo ricorso a espressioni colloquiali shakespeariane
quali «to grunt and sweat under a weary load», un giudizio che
rivela ancora la tensione di snobismo borghese nell’elitarismo
accademico di Arnold:

Se il traduttore di Omero [...] impiegasse, quando deve parlare


di uno degli eroi di Omero sotto il peso della calamità, termini
quali «grunting» (“brontolare”) e «sweating» (“sudare”),

181
dovremmo dire che egli si newmanizza e il suo stile ci offende-
rebbe. Egli deve invece essere nobile; e nessun argomento in
difesa al voler essere semplice e naturale potrebbe scusarlo.
(ivi, p. 155)

L’idea di «nobiltà» di Omero formulata da Arnold assimila il


testo greco all’elemento erudito, escludendo quello popolare. Egli
notò che per un lettore americano la ballata «ha lo svantaggio di
avere un ritmo uguale a quello dell’aria nazionale americana
Yankee Doodle, provocando in tal modo associazioni comiche»
(ivi, p. 132). E benché Arnold raccomandasse l’esametro come
forma del verso più adatta alla traduzione omerica, fece attenzione
ad aggiungere che non si riferiva agli esametri del «piacevole e
popolare poema Evangeline» di Longfellow, ma piuttosto a quelli
del «colto Rettore di Eton, il Dott. Hawtrey», che era non soltanto
«uno dei giudici naturali della traduzione di Omero», ma l’autore
del volume pubblicato nel 1847: English Exameter Translations
(ivi, pp. 159 e 151). Data la sua adulazione erudita del testo, ogni
traduzione risultava facilmente offensiva per Arnold. La mescolan-
za operata da Newman tra colloquialismo, arcaismo e resa pedisse-
qua si dimostrò proficuamente alienante:

La risposta di Achille al suo cavallo Xanthos, alla fine del XIX


libro, il Signor Newman la traduce così:
“Chestnut! Why bodest death to me? From thee this was not
needed.
Myself right surely know also, that’t is my doom to perish,
From mother and father dear apart, in Troy; but never
Pause will I make of war, until the Trojans be glutted.”
He spake and yelling, held afront the single-hoofed horses
Qui Newman chiama Xanthos con il nome di Chestnut
(Castagna), in realtà, così come chiama Balios con quello di
Spotted (Macchiato), e Podarga con quello di Spry-Foot (Piede
Agile), che è paragonabile a un francese che chiami Miss
Nightingale Md.lle Rossignol (Signorina Usignolo) oppure Mr.
Bright M. Clair (Signor Chiaro). E anche molte altre espressio-
ni – quali «yelling», «held afront», «single-hoofed» – lasciano,
come minimo, molto a desiderare. (ivi, p. 134)

182
Tipica di Arnold, l’espressione «come minimo» è la più sinto-
matica della sua tendenza critica antidemocratica. Egli rifiutò di
definire il suo concetto di «nobiltà», la qualità omerica che distin-
gueva la lettura accademica e che giustificava la sua richiesta di
un’accademia nazionale: «Non tento di definire delle regole atte a
ottenere questo effetto di nobiltà, l’effetto, inoltre, più impalpabile
di tutti, il più irriducibile alle regole, e che maggiormente dipende
dalla personalità individuale dell’artista» (Arnold 1960, p. 159).
Come Alexander Tytler, Arnold prese in considerazione una sfera
pubblica di consenso culturale che sottoscrivesse il discorso di tra-
duzione «corretta» per Omero, ma ogni tendenza democratica di
quest’esigenza nazionale crollava su un’estetica individualista che
era fondamentalmente impressionistica: «La presenza o l’assenza
di uno stile superiore può soltanto essere distinta spiritualmente»
(ivi, p. 136). Differentemente da Tyler, Arnold non poteva accetta-
re facilmente un’affermazione moralista di «ragione e buon senso»
universali, perché il pubblico di lettori era divenuto culturalmente
e socialmente troppo eterogeneo; di qui la sua svolta verso un’élite
accademica che imponesse un programma culturale alla nazione.
Come afferma Terry Eagleton, «l’accademia di Arnold non è la
sfera pubblica, ma un mezzo di difesa contro il pubblico vittoriano
contemporaneo» (Eagleton 1984, p. 64)10.
Lo «stile superiore» era importante per Arnold in quanto attivo
nella costruzione di argomenti che riguardavano l’uomo, capace di
influenzare altri gruppi sociali con valori culturali accademici:
«Può formare il carattere, è edificante. [...] i rari artisti di stile
superiore [...] possono raffinare l’uomo naturale rozzo, lo possono
tramutare» (Arnold 1960, pp. 138-139). Eppure, poiché la nobiltà
di Omero dipendeva dalla personalità individuale dello scrittore o
del lettore, di cui si poteva solamente fare esperienza, ma non
descriverla, era autocratica e irrazionale. L’individualismo su cui si
basava la critica di Arnold minava definitivamente l’autorità cultu-
rale che egli assegnava all’accademia, facendolo cadere in con-
traddizione: se associava vagamente la nobiltà alla personalità
individuale, accusava tuttavia anche la traduzione di Newman pro-
prio per il suo individualismo. Arnold riteneva che Newman
cedesse a «qualche fantasia individuale», esemplificando un
10 Si veda in proposito anche Baldick 1983, pp. 29-31.

183
deplorevole tratto nazionale, «il grande difetto dell’intelletto ingle-
se, la grande macchia della letteratura inglese»: «eccentricità e
arbitrarietà» (ivi, p. 140). Newman rimase turbato dalle conferenze
di Arnold e alla fine dell’anno pubblicò un intero libro di replica in
cui poté sviluppare più compiutamente il fondamento logico della
sua traduzione, solo abbozzato nella prefazione, chiarendo abba-
stanza bene fin dall’inizio che il suo «unico obiettivo era di portare
Omero di fronte a un pubblico non istruito» (Newman 1861, p. 6)
e mettendo così in dubbio l’autorità che Arnold attribuiva all’acca-
demia nella formazione di una cultura nazionale. Dimostrava inol-
tre che l’Inghilterra era multiculturale, sede di valori differenti e,
benché egli stesso fosse un accademico, si schierava dalla parte dei
non accademici:

I dotti sono il tribunale dell’Erudizione, eppure il pubblico istrui-


to ma non colto è il solo giudice appropriato per il gusto, e a lui
vorrei appellarmi. Persino gli studiosi non hanno il diritto di pro-
nunciare collettivamente, e ancor meno singolarmente, una sen-
tenza definitiva sulle questioni di gusto nel loro tribunale.
(ivi, p. 2)

Poiché Newman traduceva per un pubblico diverso, rifiutò


forme di verso colte quali gli esametri proposti da Arnold:

Coloro che non sono colti guardano a tutti gli esametri, anche
ai migliori, anche a quelli di Southey, Lockhart o Longfellow,
come a una prosa strana e spiacevole. Il signor Arnold depreca
di appellarsi al gusto popolare: bene, può farlo! Tuttavia, i non
eruditi devono essere il nostro pubblico, non possiamo provo-
carli. Io stesso, prima di arrischiarmi alla stampa, tentai di veri-
ficare come le donne e i ragazzi non istruiti avrebbero accolto i
miei versi. Mi potrei vantare di come ragazzi e donne poco
istruiti li abbiano lodati e di quanto avidamente un lavoratore li
abbia richiesti, senza sapere chi fosse il traduttore.
(ivi, pp. 12-13)

La stima nutrita da Newman per il «gusto popolare» lo spinse a


scrivere la sua traduzione in forma di ballata, descritta da lui stesso
in termini che, senza dubbio, tentavano di provocare quelli affer-

184
mati da Arnold: «È essenzialmente un metro nobile, un metro
popolare, un metro di grandi capacità. È essenzialmente il metro
della ballata nazionale» (ivi, p. 22). La replica di Newman sottoli-
neava il peculiare significato ideologico del suo progetto. Il fine di
produrre una traduzione che fosse allo stesso tempo populista e
nazionalista veniva realizzato con un discorso letterario arcaico
che opponeva resistenza a ogni addomesticamento erudito del
testo straniero, a ogni sua assimilazione al regime del discorso tra-
sparente inglese:

Gli studiosi classici dovevano porsi di fronte alla doppia eresia


di tentare di imporre che la poesia straniera, per quanto varia,
venisse resa tutta in un unico idioma inglese, e che dovesse, per
quel che concerneva le parole e lo stile, avvicinarsi a una prosa
raffinata.
(ivi, p. 88)

La replica di Newman mostrava che la traduzione permetteva


ad altri discorsi letterari popolari di emergere in inglese soltanto
quando era estraniante, oppure, nel caso della letteratura classica,
storicizzante, solo quando abbandonava la scorrevolezza per dare
significato all’«elemento arcaico, irregolare e impetuoso di
Omero» (Newman 1861, p. 22). Poiché la storiografia di Newman
era essenzialmente dalla parte dei Whigs, con un modello teleolo-
gico di sviluppo umano e un concetto liberale di progresso, egli
ritenne che Omero «non solo fosse antiquato rispetto a Pericle, ma
antico in assoluto, essendo un poeta di età barbarica» (ivi, p. 48)11.
11 Per la storiografia liberale vedi Butterfield 1951, Burrow 1981, e Culler

1985. Anche gli altri scritti storici di Newman rivelano affermazioni legate al
pensiero Whig. Il finalismo liberale dava forma alle lezioni che egli ricavava
da “contrasti” storici e sfociava frequentemente in un’utopia sia democratica
che nazionalistica: «[...] guardiamo indietro, verso i cambiamenti che non
possono essere tracciati nel mondo antico: vediamo il servo vassallo emanci-
pato dal suo padrone e le città ottenere prima l’indipendenza poi l’autorità in
relazione ai proprietari terrieri. Quando l’elemento che era più debole emerge
gradualmente, in primo luogo per influenze morali e senza alcun inasprimen-
to duraturo, c’è motivo di sperare in un’unione finale di sentimenti tra città e
campagna sull’unica base stabile, quella di una mutua giustizia. Allora tutta
l’Inghilterra si fonderà in un unico interesse, quello della Nazione, nella

185
Newman ammise che era difficile evitare di giudicare le culture
straniere del passato in base ai valori culturali – sia accademici che
borghesi – che distinguevano le élite vittoriane dalle classi social-
mente inferiori in Inghilterra e altrove. Egli riteneva che

se Omero fosse vivo e potesse cantarci i suoi versi, essi ci


susciterebbero inizialmente lo stesso piacevole interesse di una
melodia elegante e semplice cantata da un africano della Costa
D’oro ma, dopo aver ascoltato venti versi, ci lamenteremmo
della loro povertà, della monotonia e dell’assenza di espressio-
ne morale, e giudicheremmo lo stile inferiore ai nostri metri
oratori, come la musica di Pindaro nei confronti della nostra
musica di terz’ordine.
(ivi, p. 14)

Nonostante questo, Newman insisteva affinché tali giudizi


anglocentrici fossero ridotti al minimo o evitati completamente:
«Aspettarsi ricercatezza e delicatezza universale d’espressione in
quello stadio della civiltà è abbastanza anacronistico e irragione-
vole» (ivi, p. 73). Discutendo sull’approccio storicistico alla tradu-
zione Newman dimostrò che i critici inglesi colti come Arnold vio-
lavano il loro stesso principio di ragione universale, quando lo uti-
lizzavano per giustificare un’abbreviazione del testo greco:

Omero non vede mai le cose nelle stesse proporzioni in cui le


vediamo noi. Omettere le sue digressioni, e quelle che potrei
definire le sue “impertinenze”, con il fine di sostenere la pro-
pria tesi, quella che Arnold ama chiamare il giusto “equilibrio”,
vuol dire attribuire maggiore importanza alle nostre menti logi-
che piuttosto che alla sua mente pittoresca e illogica.
(ivi, p. 56)

Come suggeriscono tali affermazioni, la storiografia Whig che


quale sarà moralmente impossibile dimenticare le classi più umili» (Newman
1847a, p. 23).
Newman trattò le pratiche economiche capitaliste con lo stesso ottimismo
Whig, affermando che, poiché «la diffusione del commercio tocca regioni
distanti che sono al di fuori del potere della politica», le relazioni geopoliti-
che saranno infine caratterizzate dalla «pace» (ivi, p. 33).

186
ispirava il concetto di cultura classica di Newman privilegiava ine-
vitabilmente le élite sociali vittoriane come esempi del più avanza-
to stadio di sviluppo umano. Di conseguenza essa traccia un’ana-
logia implicita tra i suoi inferiori – il pubblico popolare inglese e
quello «barbarico», «selvaggio» e colonizzato (della «Costa
D’oro») – esponendo il lato potenzialmente razzista e paternalista
del populismo della traduzione di Newman (e giungendo in chiu-
sura a una posizione vicina a quella di Arnold). Tuttavia la storio-
grafia Whig di Newman gli permise di raffinare il suo senso della
storia letteraria e di sviluppare un progetto di traduzione che allo
stesso tempo conservasse la differenza culturale del testo straniero
e riconoscesse la diversità dei discorsi letterari inglesi: «Ogni frase
di Omero appariva più o meno superata a Sofocle, il quale non
poteva fare a meno di sentire in ogni momento il carattere stranie-
ro e antiquato della poesia, come un inglese non può fare a meno
di sentirsi leggendo le poesie di Burns» (Newman 1861, pp. 35-
36). Lo scetticismo di Newman nei confronti dei dominanti valori
culturali inglesi lo portò a criticare la confessata «Bibliolatria» di
Arnold e la sua fiducia per l’«autorità della Bibbia» nello svilup-
pare un lessico per le traduzioni omeriche (Arnold 1960, pp. 165-
166). Newman non voleva che l’autorità culturale della Bibbia
escludesse altri discorsi letterari arcaici che egli considerava
ugualmente «sacri»: «Le parole che sono giunte a noi in sacra con-
nessione hanno senza dubbio una tinta sacra, ma non si deve loro
permettere di dissacrare altre parole antiche ed eccellenti»
(Newman 1861, p. 89).
La pubblicazione delle conferenze di Arnold fece della tradu-
zione omerica un importante argomento di dibattito all’interno
della cultura angloamericana, provocando non solo una replica da
parte di Newman, seguita da un’ulteriore risposta di Arnold, ma
anche molte recensioni e articoli su un gran numero di periodici
inglesi e americani. La ricezione fu eterogenea. I recensori erano
in particolare divisi sull’interrogativo se il verso accettabile per la
traduzione di Omero fosse la ballata o l’esametro12. Arnold venne

12 La diversa reazione alla questione diviene evidente con una breve


panoramica sulle recensioni. La raccomandazione di Arnold di usare gli esa-
metri nella traduzione di Omero fu accettata nella North American Review
1862a e 1862b. Più tipiche erano le riviste che accettavano una lettura acca-

187
tuttavia definitivamente favorito rispetto a Newman, a prescindere
dal punto di vista che il periodico poteva aver assunto nelle recen-
sioni precedenti: la North British Review di Edimburgo, benché
«coerente alla politica Whig», aveva un conservatorismo morale e
religioso che portava a un approccio evangelico nelle recensioni
letterarie, e all’adesione all’appello di Arnold per un’accademia
con autorità culturale nazionale (North British Review 1862, p.
348; Sullivan 1984, p. 276). In un articolo che discuteva le recenti
traduzioni omeriche e la controversia Arnold/Newman, il recenso-
re accettava la diagnosi arnoldiana della cultura inglese così come
il suo rifiuto degli arcaismi di Newman: «Al giorno d’oggi non
troviamo altro che eccentricità e gusti arbitrari. La nostra letteratu-
ra non mostra alcun riguardo per la dignità, nessuna reverenza nei
confronti della legge. [...] L’attuale mania della ballata è tra i risul-
tati di questa licenziosità» (North British Review 1862, p. 348).
Il caso di Arnold contro Newman riuscì a persuadere anche la
Westminster Review, che abbandonò il suo liberalismo tipicamente
militante per difendere l’élite culturale (Sullivan 1983b, pp. 424-
433). Il recensore notò che tenere delle conferenze in inglese inve-
ce che in latino dava ad Arnold «l’ulteriore privilegio e responsa-
bilità di indirizzarsi non a una minoranza, ma a una maggioranza,
non a una selezionata combriccola di eruditi, ma all’intero pubbli-
co di lettori» (Westminster Review 1862, p. 151). Erano proprio i
valori letterari di un selezionato gruppo di eruditi che il recensore
voleva tuttavia vedere imposti all’intero pubblico dei lettori, dal
momento che accettava «l’esperimento proposto [da Arnold] di
un’intera traduzione che doveva suscitare nell’erudito lo stesso
effetto della poesia originale» (ivi, p. 151). Di qui, la lettura acca-
demica di Arnold del testo greco venne raccomandata in sostitu-
zione della «visione [populista] secondo la quale Omero può esse-
re reso adeguatamente in ogni forma di ballata. La ballata è scadu-
demica di Omero ma che rifiutavano l’uso degli esametri come troppo
deviante dalla tradizione letteraria inglese: vedi, per esempio Spedding 1861
e la North British Review 1862. Verso la fine del decennio il “brillante contri-
buto” di Arnold alla controversia veniva ancora citato nelle riviste di tradu-
zioni omeriche (Fraser’s Magazine 1868, p. 518). Newman, al contrario,
aveva pochi sostenitori. John Stuart Blackie, che sembra essere stato l’unico
ad approvare la lettura di Omero fatta Newman, raccomandava per la tradu-
zione omerica la ballata in rima (Blackie 1861).

188
ta in un tono troppo basso; può essere rapida, diretta e commoven-
te, ma è incapace di una nobiltà sostenuta» (ivi, p. 165).
Non tutti i recensori erano d’accordo con Arnold sull’esigenza
che un’élite accademica stabilisse la cultura nazionale inglese.
Condividevano piuttosto in maniera esplicita la sua lettura accade-
mica di Omero e quindi anche la sua critica alla traduzione arcaica
di Newman. The Saturday Review, rivista che difendeva un liberali-
smo conservatore opposto alla riforma democratica (il movimento
per l’unione laburista, il suffragio per le donne, il socialismo),
assunse un’aria condiscendente di imparzialità criticando sia Arnold
che Newman (Bevington 1941). Eppure i criteri erano per lo più
arnoldiani. Il recensore affermava la superiorità culturale dell’acca-
demia punendo Arnold per aver violato il decoro erudito, per aver
dedicato le sue conferenze di Oxford all’attacco «amaramente sprez-
zante» di uno scrittore contemporaneo come Newman «il quale, al
di là delle sue aberrazioni in altre cose, ha certamente, come studio-
so, una reputazione assai più alta di quella dello stesso Arnold»
(Saturday Review 1861, p. 95). Eppure le «aberrazioni» di Newman
erano le stesse che osservava Arnold, e in particolare la tendenza
all’arcaismo che il recensore descriveva come «una teoria coerente,
benché da noi ritenuta sbagliata» (ivi, p. 96). Il rifiuto della Saturday
Review per la traduzione di Newman era a sua volta coerente con gli
altri giudizi letterari formulati dalla rivista: la tendenza era quella di
mettere in ridicolo gli esperimenti letterari che deviavano dal discor-
so trasparente, come la poesia “oscura” di Robert Browning, e di
criticare le forme letterarie populiste così come quelle popolari, fra
cui i romanzi di Dickens (Bevington 1941, pp. 208-209, 155-167).
La British Quarterly Review, un periodico religioso anticonfor-
mista e liberale, edito da un ministro congregazionista, contestava
il desiderio di Arnold «di imitare in Inghilterra l’Accademia
Francese» (British Quarterly Review 1865, p. 292; Houghton et al.
1987, IV, pp. 114-125). Ciò era considerato «un ribaltamento intel-
lettuale», poiché l’individualismo fondamentale della cultura
inglese opponeva resistenza all’idea stessa di accademia nazionale:
«Il signor Arnold sembra determinato a ignorare il fatto che uno
stile accademico è impossibile tra gli inglesi, che sono per natura
originali» (British Quarterly Review 1865, p. 292). Tuttavia il
recensore è d’accordo nel ritenere «che la traduzione omerica
richieda una nobile semplicità», aggiungendo che

189
indubbiamente Arnold ha ragione nel porre Omero in una clas-
se molto diversa dai poeti di ballate ai quali è stato di frequente
paragonato. La ballata, nella sua forma più perfetta, appartiene
a uno stadio rozzo della società, a un tempo in cui le idee scar-
seggiavano. Questo non può essere detto di Omero. La sua stes-
sa esistenza è prova sufficiente di uno sviluppo sociale abba-
stanza simile a quello dei tempi di Shakespeare, benché assai
più semplice nella forma.
(ivi, p. 293)

Il recensore si appropriava sia del concetto storicista di


Newman a proposito della ballata che della storiografia Whig sulla
quale esso si basava. Ma la lettura populista di Omero operata da
Newman venne rifiutata in favore della nobiltà arnoldiana. Questa
mossa rendeva un periodico liberale come il British Quarterly
Review non diverso dal Dublin University Magazine, di atteggia-
mento Tory, in cui una recensione a due traduzioni in esametri
ispirate alle conferenze di Arnold utilizzava la versione di
Newman per formulare la sua critica: «La ballata non in rima, il
curioso stile piatto e i suoi epiteti comici» equivalevano a una
«parodia sfortunata» (Dublin University Magazine 1862, p. 644;
Sullivan 1983b, pp. 119-123). Il verso di Newman venne descritto
come «la ballata ibrida della Grecia moderna», una scelta partico-
larmente impropria per la pura nobiltà di Omero.
Si può dire che in questo dibattito abbia prevalso Arnold, sep-
pure la sua raccomandazione per l’uso degli esametri nella tradu-
zione omerica abbia avuto bisogno di quasi un secolo per venire
accettata diffusamente, tramite la versione immensamente popola-
re di Richmond Lattimore, dal «verso libero a sei accenti»
(Lattimore 1951, p. 55)13. Il destino del progetto di Newman era

13 Lattimore affermava: «Il mio verso può chiamarsi a stento esametro


inglese» perché manca della regolarità degli esametri ottocenteschi (citando
Longfellow). Tuttavia egli chiariva l’addomesticamento che operava all’in-
terno della sua versione: condivideva la lettura di Omero proposta da Arnold
e mirava ad adattare il suo verso a sei accenti al «semplice inglese di oggi»
(Lattimore 1951, p. 55). La prima edizione economica dell’Iliade di
Lattimore apparve nel 1961; nel 1971 la traduzione aveva avuto ventuno
ristampe.

190
l’emarginazione nell’epoca a lui contemporanea e nel futuro,
avendo i critici aperto la strada all’oblio effettivo, come si può
essenzialmente notare dalle pubblicazioni dei documenti della
controversia. Tra il 1861 e il 1924 vari editori inglesi e americani
pubblicarono diciassette edizioni in singoli volumi delle conferen-
ze di Arnold; tra il 1905 e il 1954 quattordici diverse edizioni di
una raccolta di saggi che conteneva le conferenze, per non citare
la loro inclusione in molte edizioni complete degli scritti di
Arnold. L’Iliade di Newman venne ristampata una sola volta, nel
1871, e da allora la sua conoscenza proseguì principalmente attra-
verso i brani citati da Arnold nelle sue conferenze. Anche la repli-
ca di Newman venne pubblicata soltanto una volta nel XIX seco-
lo. Nella prima metà del Novecento venne ripubblicata frequente-
mente, ma solo all’interno delle raccolte dei saggi di Arnold, e
presentata come un documento integrativo, subordinato alle più
importanti conferenze di Arnold, un testo minore incluso al fine di
fornire lo sfondo culturale alla sua produzione maggiore14. Nel
1960 l’editore dei Complete Prose Works di Arnold, R.H. Super,
ritenne che la replica di Newman non meritasse una nuova pubbli-
cazione:

Il suo saggio ha raggiunto un’immortalità immeritata grazie


soltanto al fatto di essere stato pubblicato in diverse edizioni
moderne dei saggi di Arnold (per esempio la Oxford Standard
Authors e l’Everyman’s Library); i lettori che volessero cono-
scere le repliche alle migliori conferenze di Arnold su Omero,
possono leggerle in uno di quei volumi.
(Arnold 1960, p. 249)

Super attribuiva alle conferenze di Arnold un valore a sé, tra-


scendendo dal momento culturale che le aveva suscitate, renden-
dole indipendenti dalla traduzione di Newman, dall’intera contro-
versia internazionale, e senza dubbio superiori alle altre posizioni
all’interno del dibattito. La teoria della traduzione addomesticante
di Arnold, così come i valori culturali accademici che la ispirava-
no, avevano a questo punto raggiunto lo status canonico nella cul-
tura letteraria angloamericana.
14 Si veda, per esempio, Arnold 1914.

191
L’ascendenza di Arnold su Newman prese altre forme a partire
dal 1860. Le conferenze di Arnold coniarono un neologismo satiri-
co per il discorso della traduzione di Newman – “Newmanizzare”
– che per i venticinque anni successivi entrò a far parte del lessico
dei termini critici nelle riviste letterarie. Nel 1886, per esempio,
The Athenaeum recensì favorevolmente la traduzione di Arthur
Way dell’Iliade; tuttavia il recensore si esprimeva anche in termini
critici: «Way, in realtà, è leggermente incline a “Newmanizzare”»,
poiché «a volte scade» in un «vocabolario ibrido» che devia dal-
l’uso dell’inglese attuale: «il puro e semplice inglese è ampiamen-
te sufficiente per la traduzione di Omero» (Athenaeum 1886, pp.
482-483).
Un metodo di traduzione estraniante simile a quello di Newman
venne adottato da un altro traduttore vittoriano socialmente impe-
gnato, William Morris. In questo caso, fu l’investimento socialista
di Morris nel medievalismo a spingerlo a coltivare un lessico
arcaico desunto da diverse forme letterarie, elitarie e popolari15.
Gli esperimenti di Morris ricevettero, rispetto a quelli di Newman,
un maggior numero di recensioni positive, ma vennero comunque
criticati, e talvolta per le stesse ragioni. Nel 1888 il Quarterly
Review pubblicò una recensione adulatoria degli scritti di Arnold
che estendeva la sua critica delle traduzioni omeriche all’Odissea
(1887-8) di Morris: «Con questo travestimento di stile arcaico
William Morris [...] ha gravato Omero di tutto il grottesco, le ricer-
catezze e l’irrazionalità del Medioevo, nello stesso modo in cui
Arnold affermava giustamente di essere stato gravato da
Chapman» (Quarterly Review 1888, pp. 407-408).
Nello stesso anno il Longman’s Magazine, un mensile impegna-
to a portare «l’alta letteratura» al pubblico di massa, pubblicò un
articolo in cui le traduzioni di Morris vennero citate come primi
esempi di «inglese antico di Wardour Street: una merce perfetta-
mente moderna con in sé un’ingannevole apparenza di vera anti-
chità» (Ballantyne 1888, p. 589; Sullivan 1984, pp. 209-213).
Questo riferimento ai negozi di Wardour Street che vendevano
mobili d’antiquariato, sia autentici che d’imitazione, metteva in
dubbio l’autenticità degli arcaismi di Morris, legandolo a idiomi
inglesi non standardizzati e a forme letterarie marginali. L’at-
15 Cfr. Chandler 1970, pp. 209-230.

192
teggiamento elitario del recensore era di evidente ascendenza
arnoldiana:

Poesie in cui gli ospiti si coricano in letti guarniti e confortevo-


li, poesie in cui la servitù aspira al salone delle feste d’inverno,
non appartengono ad alcun centro letterario. Sono provinciali;
sono totalmente indistinte; sono indicibilmente assurde.
(Ballantyne 1888, p. 593)

Il «centro letterario» era la traduzione scorrevole. Nel 1889 la


Quarterly Review criticò in maniera simile l’Eneide (1875) di
Morris per il «senso di incongruità dovuto a quell’inglese di
Wardour-Street e a parole quali eyen e clepe» (Faulkner 1973, p.
28, n. 81). Qui il «centro» veniva identificato anche con l’inglese
standard, la lingua delle istituzioni politiche contemporanee e dei
maggiori politici. Nell’articolo del Longman sull’«inglese di
Wardour Street» si leggeva che

se il Lord Cancelliere o il Presidente di una seduta avessero


pronunciato una di queste dichiarazioni solenni in un qualsiasi
dialetto cockney o di provincia, avrebbero lasciato negli ascol-
tatori la stessa sensazione di grottesco e di scarsa dignità che il
lettore riceve da un autore che, invece di utilizzare il suo stesso
linguaggio nella forma letteraria più ricca e più vera, persegue
una moda linguistica e, per conseguirla, rende il suo lavoro pro-
vinciale invece che letterario.
(Ballantyne 1888, pp. 593-594)

La traduzione di Morris non faceva altro che «fingere di essere


letteratura», perché i testi letterari venivano scritti in un idioma
inglese erudito ed ufficiale escludendo in tal modo la linguistica
popolare e le forme letterarie.
L’«inglese di Wardour Street» venne infine utilizzato per indi-
care l’abuso di stile arcaico in ogni tipo di scrittura, riferito ai
romanzi storici di grande diffusione e in particolare alle imitazioni
di Scott, ma anche alla prosa non di finzione, come al bizzarro
libro The Gate of Remembrance (1918). Prodotto dal direttore
degli scavi di Glastonbury Abbey, F. Bligh Bond, esso era un ten-
tativo di inserire la «ricerca psichica» all’interno del «lavoro di

193
esplorazione architettonica» (Spectator 1918, p. 422). Il volume di
Bligh presentava la “scrittura automatica” di un certo “J.A.” in un
libro in cui le età storiche presenti nell’abbazia assumevano sem-
bianze umane e parlavano in diverse lingue: il latino (“William il
monaco”), l’anglosassone (“Awfold il sassone”) e un misto di
inglese medievale e moderno (“Johannes, lapidatore o scalpelli-
no”, “defunctus anno 1533”). Il recensore dello Spectator giudicò
in maniera favorevole questo esperimento linguistico, apprezzando
in particolare il latino che, affermava, «deve essere preferito di
gran lunga all’inglese di Wardour Street» fatto parlare allo scalpel-
lino (ivi, p. 422). È interessante notare come il brano di scrittura
automatica citato dal recensore leghi ancora una volta l’arcaismo
inglese all’incolto, al subalterno, mostrando lo scalpellino che
oppone resistenza ai termini architettonici a lui imposti dai trattati
dei monaci:

Ye names of builded things are very hard in Latin tongue –


transome, fanne tracery, and the like. My son, thou canst not
understande. Wee wold speak in the Englyshe tongue. Ye saide
that ye volte was multipartite yt was fannes olde style in ye este
ende of ye choire and ye newe volt in Edgares chappel...
Glosterfannes (repeated). Fannes...(again) yclept fanne...
Johannes lap... mason.
(ivi, p. 422)

Per il recensore questo linguaggio era «assolutamente brutto» e


guastava persino il «brano curioso e attraente» a proposito della
«tomba di Arthur», con il proporre forme letterarie popolari: «ci
sono evidenti reminiscenze di Sir Walter Scott e di Ivanhoe in que-
sto brano scritto in un inglese di Wardour Street sfacciato ma piut-
tosto vivido» (ibidem).
L’emblema dell’arcaismo implicava quell’esclusione del popo-
lare che viene ribadita anche nei manuali di prescrizione stilistica,
come il Dictionary of Modern English Usage (1926) di H.W.
Fowler, in cui questi includeva una dichiarazione sull’arcaismo,
considerato

pericoloso se non utilizzato da uno scrittore esperto che possa

194
confidare nel suo senso della conformità. Anche quando è usato
per dare colore alla conversazione all’interno dei racconti stori-
ci, quello che Stevenson chiama abuso di arcaismi, è più facile
che irriti il lettore piuttosto che fargli piacere.
(Fowler 1965, p. 34)

Lo «scrittore esperto» di Fowler non era apparentemente l’au-


tore di romanzi storici popolari. E il lettore che egli aveva in mente
preferiva senza dubbio il discorso trasparente.
Nell’accademia, al cui interno Arnold l’apologista dell’élite
accademica aveva trovato rifugio come scrittore canonico, le tra-
duzioni storicizzanti di Newman e di Morris furono ripetutamente
soggette ai colpi arnoldiani. Lo studio di T.S. Osmond del 1912
sulla controversia Arnold/Newman concordava con «la protesta [di
Arnold] contro l’uso delle parole desuete e ridicole» nelle tradu-
zioni perché esse si appropriano dell’illusione di trasparenza:
«L’attenzione del lettore è catturata dalle parole, invece che da ciò
che viene detto» (Osmond 1912, p. 82). Nel 1956 il tentativo di
Basil Willey di riabilitare la reputazione di Newman si focalizzava
maggiormente sui suoi trattati religiosi, in particolare su The Soul
(L’anima, 1849), che Willey riteneva dovesse essere ammessa nel
canone vittoriano assegnandole «un posto di maggior rilievo
all’interno della letteratura devota» (Willey 1956, p. 45). Tuttavia,
benché Willey fornisse un resoconto equilibrato della controversia
sulla traduzione, alla fine concordò con Arnold sull’assenza in
Newman di una «personalità individuale» che potesse rendere lo
«stile superbo» di Omero: «Newman, con tutti i suoi grandi meriti,
non fu un poeta» perché «il suo spirito non era sufficientemente
“libero, flessibile ed elastico”» (ibidem)16.
Nel 1962 J.M. Cohen, traduttore di scrittori canonici quali
Rabelais e Cervantes, pubblicò una storia della traduzione di lin-
gua inglese in cui descriveva con approvazione l’affermato metodo
addomesticante e il completo «rovesciamento di gusto» che rende-
va «illeggibile» l’uso vittoriano di arcaismi (sebbene, come abbia-
mo visto, risultasse ugualmente illeggibile a molti degli stessi vit-
toriani): «In contrapposizione a vittoriani e edwardiani, [...] i pro-
fessionisti degli ultimi vent’anni hanno mirato principalmente
16 Si veda anche Annan 1944, p. 191.

195
all’interpretazione nella lingua attuale» (Cohen 1962, p. 65). Lo
stesso Cohen seguì questa tendenza predominante verso il discorso
trasparente, asserendo che «la teoria della traduzione vittoriana
sembra, secondo il nostro punto di vista, essere stata fondata su un
errore di base» e incolpando in particolare Morris per la densità
dei suoi arcaismi: «Persino il significato è divenuto oscuro» (ivi,
pp. 24 e 25). Cohen concordava con Arnold nell’attribuire quelli
che considerava i difetti della traduzione vittoriana al suo stesso
storicismo. Gli esperimenti condotti da traduttori quali Newman,
Morris, Robert Browning, Dante Gabriel Rossetti ed Edward
Fitzgerald erano ritenuti da Cohen degli esperimenti falsati perché
i traduttori avevano «adattato lo stile dei loro autori all’immagine
più o meno erronea dell’età in cui tali autori vivevano e operava-
no» (ivi, p. 29). Eppure lo stesso Cohen immaginava anacronisti-
camente che le corrette «immagini» storiche si trovassero invece
nella «lingua attuale», rispettosa del canone moderno di «semplice
uniformità di prosa» della traduzione (ivi, p. 33).
In conclusione, non vi è forse segno più chiaro del potere inces-
sante di Arnold all’interno della cultura letteraria angloamericana,
della versione dell’Iliade (1990) prodotta da Robert Fagles, vinci-
tore per la traduzione poetica dell’Harold Morton Landon Award
dell’Accademia di poeti americani. La prefazione di Fagles inizia
riconoscendo la qualità orale del verso omerico, ma in seguito
ritorna alla lettura omerica di Arnold:

L’opera di Omero è una rappresentazione, in parte anche un


evento musicale. Forse questa è la fonte della sua speditezza, di
quell’immediatezza e semplicità che Matthew Arnold percepi-
va, e anche della sua nobiltà, elusiva eppure innegabile, che
Arnold inseguiva senza riuscire mai a catturarla veramente.
(Fagles 1990, p. IX)

Traduttore classico, curatore dell’Omero di Pope e attualmente


professore di Letterature Comparate a Princeton, Fagles dimostra
che non solo la lettura di Arnold prevale ancora oggi, ma che conti-
nua a essere affiliata con l’accademia e con la tradizione predomi-
nante in lingua inglese: la traduzione scorrevole e addomesticante.
Fagles mirava a una versione che fosse «letterata» in senso accade-
mico (cioè arnoldiano), vale a dire a metà strada tra il “letterale” e

196
il “letterario”, in maniera da rendere effettiva l’idea di “parafrasi”
di Dryden e produrre infine un Omero modernizzato:

La mia versione dell’Iliade non è una traduzione verso per


verso, mi auguro, né così letterale nel rendere il linguaggio di
Omero al punto di torturare e distorcere il mio – sebbene desi-
deri comunicare quanto più possibile quello che dice – né così
letteraria da frenare la sua energia, la sua spinta in avanti – seb-
bene desideri che la mia opera sia, con un po’ di fortuna, lette-
rata. Questo perché l’approccio letterale sembra troppo poco
inglese, e quello letterario troppo poco greco. Ho tentato di tro-
vare un incrocio tra i due, un moderno Omero inglese.
(ivi, p. X)

Fagles segue anche – seppure in modo flessibile – il suggeri-


mento sugli esametri dato da Arnold per la traduzione omerica:
«Lavorando a partire da un verso libero a cinque o sei accenti, ma
più incline a sei, lo allargo a volte fino a sette [...] o lo contraggo
fino a tre» (ivi, p. XI).

III
La controversia vittoriana offre diverse lezioni che possono
avere il loro peso sulla traduzione contemporanea di lingua ingle-
se. Il punto forse più importante consiste nel fatto che la contro-
versia mostra come ci si possa opporre alla traduzione addomesti-
cante senza privilegiare necessariamente un’élite culturale.
Newman difendeva il metodo estraniante di Schleiermacher ma lo
separava dagli interessi culturali e politici del cenacolo letterario
tedesco, allo stesso tempo elitario e nazionalista. Egli affermava
invece un concetto più democratico di cultura nazionale inglese,
riconoscendo la sua diversità e non permettendo a una minoranza
culturale come l’accademia di dominare la nazione. Newman, in
quanto erudito, credeva sinceramente che un traduttore inglese
potesse indirizzarsi a diversi ambiti culturali, soddisfacendo i
canoni eruditi dell’equivalenza della traduzione e allo stesso
tempo facendo appello al gusto popolare: «Mentre professo di scri-
vere per il lettore inglese non istruito, devo essere necessariamente

197
giudicato anche dagli studiosi classici sul problema della fedeltà e
della correttezza» (Newman 1853, p. VI).
Eppure lo «straniero» nella traduzione estraniante di Newman
era definito precisamente per la sua resistenza ai valori letterari
accademici e per l’obiettivo di racchiudere piuttosto che escludere
le forme popolari affiliate ai diversi gruppi sociali. La traduzione
estraniante è basata sul presupposto che il grado di istruzione non
sia universale, che la comunicazione sia complicata dalle differenze
culturali tra le comunità linguistiche e al loro stesso interno. Ma
estraniante è anche un tentativo di riconoscere tali differenze e di
permettere loro di modellare i discorsi culturali nella lingua d’arri-
vo. Neppure la difesa di Arnold della traduzione addomesticante
presupponeva una cultura nazionale omogenea: in realtà la differen-
ziazione della letteratura inglese significava per lui il caos. La
risposta di Arnold alle differenze culturali consisteva nel reprimer-
le, spaccando la tradizione predominante nella traduzione in lingua
inglese e autorizzando un’élite accademica a mantenerla. Newman
dimostrò, comunque, che la traduzione estraniante può essere una
forma di resistenza all’interno di una politica culturale democratica.
La controversia vittoriana offre anche una lezione pratica per i
traduttori inglesi contemporanei: mostra che la traduzione pedisse-
qua, quella che Arnold chiamava la «letteralità» di Newman, non
conduce necessariamente a un inglese non idiomatico e incom-
prensibile. Schleiermacher suggeriva che «quanto più rigoroso è il
suo legame con le espressioni dello scritto originale, tanto più stra-
niera suona la traduzione agli stessi lettori» (Nergaard 1993, p.
161), e Newman affermava allo stesso modo che «in molti passag-
gi è più idoneo rendere l’originale verso per verso» (Newman
1856, pp. VIII-IX), incorrendo così nella satira di Arnold per la
traduzione letterale degli epiteti omerici: «ashen-speared», «bra-
zen-cloaked» (Arnold 1960, p. 165). Ma la stretta aderenza di
Newman al verso e all’ordine delle parole del testo greco era unita
a un’attenzione simile per un lessico, una sintassi e una serie di
forme letterarie decisamente inglesi. La traduzione letterale rischia
certamente uno stile oscuro, costruzioni goffe e forme ibride, ma
queste variano di intensità da un testo straniero all’altro e da una
situazione nazionale all’altra. Le direzioni del “traduzionese” pre-
sumono un investimento in valori culturali e linguistici specifici a
esclusione di altri. La traduzione letterale è dunque estraniante sol-

198
tanto perché la sua approssimazione al testo straniero comporta un
allontanamento dai valori nazionali predominanti, come ad esem-
pio il discorso trasparente.
L’aspetto «letterale» di questo metodo risiede nel focalizzarsi
sulla lettera della traduzione, così come sul testo straniero, enfatiz-
zando il significante, vale a dire il ruolo significante che viene
generalmente fissato nella traduzione in lingua inglese, ridotto a
un significato relativamente coerente. La traduzione estraniante di
Newman liberò questo ruolo aggiungendo al testo straniero un sur-
plus di significati nazionali attraverso la raccolta di diversi discorsi
culturali di lingua inglese, passati e presenti, elitari e popolari,
poetici e narrativi, inglesi e scozzesi. Nella traduzione estraniante
la violenza etnocentrica che ogni traduzione mette in atto su un
testo straniero si unisce a una rottura violenta dei valori nazionali
che sfida le forme culturali di predominio, sia nazionalista che eli-
tario. La traduzione estraniante mina l’idea stessa di nazione
appellandosi ai diversi componenti sociali che tale idea tenta di
elidere.

199
Capitolo quarto
DISSIDENZA

L’errore fondamentale del traduttore consiste nello stabilizzare lo stato in cui


si trova il suo linguaggio invece di permettergli di lasciarsi potentemente
scuotere dal linguaggio straniero.
Rudolf Pannwitz

La ricerca di alternative alla tradizione addomesticante della


traduzione in lingua inglese conduce a varie pratiche di strania-
mento, sia nella scelta dei testi stranieri che nell’invenzione di
nuove strategie di traduzione. Un traduttore può segnalare l’alterità
di un testo non soltanto impiegando una strategia discorsiva che si
allontani dalla gerarchia dominante dei discorsi letterari nazionali
(per esempio, un denso uso di arcaismi contrapposto a una traspa-
renza scorrevole), ma anche scegliendo di tradurre un testo che
rappresenti una sfida per il canone contemporaneo della letteratura
straniera nella lingua d’arrivo. La traduzione estraniante è una pra-
tica culturale trasgressiva, dal momento che afferma il rifiuto del
predominio dei valori linguistici e letterari interni per sviluppare
un’affiliazione a quelli marginali e includere culture straniere che
sono state escluse a causa della loro resistenza a quegli stessi valo-
ri dominanti1. Da un lato, la traduzione estraniante determina

1 La mia idea di traduzione estraniante come pratica culturale «trasgressi-

va» attinge all’opera di Alan Sinfield sulle forme politiche di critica letteraria
e, in particolare, al testo del 1992. Pertinente alla politica della traduzione
estraniante è soprattutto l’osservazione di Sinfield che «la consapevolezza
politica non nasce dall’autocoscienza essenziale, individuale di classe, razza,
nazione, genere o tendenza sessuale, ma dal coinvolgimento in un milieu, in
una sottocultura» (Sinfield, 1992, p. 37).

201
un’appropriazione etnocentrica del testo straniero inserendolo nel-
l’ordine del giorno politico-culturale nazionale e compiendo in tal
modo un atto di dissidenza; dall’altro, è proprio questo atteggia-
mento dissidente che permette alla traduzione estraniante di segna-
lare la differenza linguistica e culturale del testo straniero e che
realizza, acconsentendo all’ingresso di canoni letterari nazionali
dal carattere etnodeviante e potenzialmente revisionista, un’opera-
zione di riordino culturale.
I progetti di traduzione dello scrittore Iginio Ugo Tarchetti
(1839-1869) ci offrono l’esempio di un modo provocatorio di
esplorare simili questioni. Tarchetti apparteneva al movimento
milanese della Scapigliatura, una libera associazione di artisti,
compositori e scrittori che contestavano, con il loro stile di vita
bohémien e le loro innovazioni formali, i valori borghesi. I letterati
di questo gruppo dissidente si opponevano al realismo fortemente
conservatore che dominava il romanzo italiano dalla pubblicazione
de I promessi sposi (1827, rev. 1840) in poi. Alcuni di loro abban-
donarono il provvidenzialismo cristiano e sentimentale di Ales-
sandro Manzoni per scegliere una rappresentazione democratica
delle divisioni di classe, realistica ma anche romantica, storica-
mente dettagliata ma melodrammatica, spesso unita all’impegno
verso eventi contemporanei relativi all’unificazione dell’Italia,
come la presenza austriaca o la coscrizione obbligatoria (Carsaniga
1974).
Il primo romanzo di Tarchetti, Paolina (1865), narra di una
cucitrice perseguitata da un aristocratico che viene infine violenta-
ta e uccisa. Il suo secondo romanzo, Una nobile follia (1866-
1867), prende spunto dalla protesta contro il nuovo esercito per-
manente ed è centrato su un ufficiale spinto alla diserzione da
meditazioni vagamente pacifiste. Il romanzo suscitò scompiglio
nell’ambiente della stampa, e ne vennero bruciate pubblicamente
delle copie in molte caserme. La narrativa successiva di Tarchetti
assunse forme più sperimentali. Fosca (1869), romanzo semi auto-
biografico su una relazione sentimentale patologica, mescolava
diverse modalità narrative – romantica, fantastica, realistica e natu-
ralistica – in opposizione alla teoria del personaggio come sogget-
tività unica (Caesar 1987). In alcuni racconti brevi, una parte dei
quali vennero pubblicati postumi nel 1869 con il titolo di Racconti
fantastici, Tarchetti impiegò efficacemente i temi convenzionali

202
del gusto fantastico del XIX secolo per lanciare una sfida radicale
alla rappresentazione realistica e alla sua base ideologica: l’indivi-
dualismo borghese.
L’appropriazione di testi stranieri era una componente essenzia-
le della politica culturale dissidente di Tarchetti. Egli fu il primo in
Italia a scrivere racconti gotici, e la maggior parte della sua narrati-
va fantastica si basa su testi specifici di scrittori come E.T.A.
Hoffmann, Edgar Allan Poe, Gérard de Nerval, Téophile Gautier, e
sulla collaborazione con Emile Erckmann e Louis-Alexandre
Chatrian (Mariani 1967; Rossi 1959). Tarchetti adattò temi fanta-
stici, riprodusse scene, tradusse e plagiò perfino, ma ognuna di
queste pratiche discorsive giovava alla funzione politica di indaga-
re le ideologie e mettere in questione l’ordinamento gerarchico dei
rapporti sociali italiani. I suoi racconti fantastici si servivano di
testi stranieri per mettere in discussione l’egemonia del discorso
realistico nel romanzo italiano, eppure tale mossa, per quanto com-
portasse una trasformazione delle opere straniere tale da inserirle
in un differente modello culturale, al tempo stesso le criticava da
una diversa prospettiva ideologica. I racconti gotici di Tarchetti,
estranianti proprio grazie all’appropriazione di testi stranieri
devianti rispetto ai valori culturali italiani, davano inizio in tal
modo a una riforma del canone letterario italiano affinché esso
ammettesse altri discorsi narrativi, oltre al realismo, sia nazionali
che stranieri. La pratica di Tarchetti mostra ai traduttori che voles-
sero applicare il metodo estraniante all’insegna della scorrevolez-
za, il modo in cui la traduzione è in grado di modificare i valori
culturali nazionali inserendo nel linguaggio predominante, nell’i-
dioma standard, alcuni testi stranieri scelti strategicamente.

I
La prima mossa estraniante di Tarchetti fu la decisione di far
proprio il genere fantastico, un discorso straniero antitetico al rea-
lismo borghese dominante nel romanzo italiano. Il fantastico si
dimostra sovversivo nei confronti dell’ideologia borghese perché
nega le convenzioni formali del realismo e il concetto individuali-
stico di soggettività su cui si fonda. La rappresentazione realistica
del tempo come sequenza cronologica, dello spazio nelle sue tre

203
dimensioni, e dell’identità individuale si basa su un’epistemologia
empirista che predilige il singolo soggetto senziente: il presuppo-
sto chiave è che la coscienza umana sia all’origine di significato,
conoscenza e azione, e trascenda le determinazioni discorsive e
ideologiche (Watt 1957). L’unità di tempo e spazio nel realismo
indica una coscienza unificata, in genere un narratore o un perso-
naggio assunto come autore, in cui tale posizione del soggetto sta-
bilisce l’intelligibilità della narrativa, facendo sembrare reale o
vero uno specifico significato attraverso la repressione del fatto
che si tratta di un effetto illusorio del discorso, e legando in tal
modo la coscienza del lettore a una posizione ideologica, a un
insieme interessato di valori, convinzioni e rappresentazioni socia-
li. L’effetto-verità del realismo, l’illusione di trasparenza per cui il
linguaggio scompare perché sembrino presenti il mondo o l’autore,
mostra che la forma stessa riproduce il concetto trascendentale di
soggettività proprio dell’individualismo borghese. Come suggeri-
sce Catherine Belsey,

attraverso la presentazione di una storia intelligibile che cancel-


la il proprio status come discorso, il realismo classico propone
un modello nel quale autore e lettore sono soggetti concepiti
come fonte di significati condivisi, la cui origine è misteriosa-
mente extradiscorsiva. [...] Tale modello di comprensione inter-
soggettiva e condivisa di un testo che rappresenta il mondo,
costituisce la garanzia non solo della verità del testo, ma anche
dell’esistenza del lettore come soggetto autonomo di conoscen-
za in un mondo di soggetti di conoscenza. In questo modo, il
realismo classico costituisce una pratica ideologica in quanto si
rivolge ai lettori come soggetti, interpellandoli perché accettino
liberamente la loro soggettività e la loro soggezione.
(Belsey 1980, pp. 72 e 69)

Il fantastico mina il soggetto trascendentale nel discorso reali-


stico creando incertezza riguardo allo status metafisico della narra-
zione. Questa incertezza è spesso provocata dall’impiego di con-
venzioni formali del realismo utilizzate per rappresentare una con-
fusione fantastica di tempo, spazio e personaggi e, così facendo,
per sospendere il lettore tra i due registri discorsivi del mimetico e
del meraviglioso. Di fronte al fantastico il lettore prova ciò che

204
Tzvetan Todorov definisce come «esitazione» tra spiegazione
naturale e spiegazione sovrannaturale: «Il fantastico dura soltanto
il tempo di un’esitazione: esitazione comune al lettore e al perso-
naggio, i quali debbono decidere se ciò che percepiscono fa parte o
meno del campo della “realtà” quale essa esiste per l’opinione
comune» (Todorov 1977, p. 43)2. La coscienza unica del realismo
si divide dunque in due alternative opposte, l’intelligibilità cede al
dubbio, il lettore viene liberato dall’asserzione ideologica del testo
e invitato, inoltre, a intuire che «l’opinione comune» sulla realtà
codifica i valori morali ed è al servizio degli interessi politici; che
la soggettività non è poi trascendente ma determinata, un luogo di
significati confusi, contraddizioni ideologiche e conflitti sociali. Il
fantastico demolisce le convenzioni formali del realismo al fine di
rivelarne i presupposti individualistici; ma introducendo una con-
fusione epistemologica, la narrazione fantastica può anche interro-
gare le posizioni ideologiche impiegate, smascherare i vari rappor-
ti di dominio che tali posizioni celano, e incoraggiare a pensare in
termini di cambiamento sociale. Nel fantastico, osserva Hélène
Cixous, «il soggetto si dibatte nella molteplicità esplosa dei suoi
stati, frammentando l’omogeneità di inconsapevolezza dell’io,
protendendosi verso ogni direzione possibile, distendendosi dentro
ogni possibile contraddizione, trans-egoisticamente»; ed è questa
strategia discorsiva che contraddistingue gli scrittori del XIX seco-
lo come Hoffmann quali oppositori al «logocentrismo, idealismo,
teleologismo, a tutti i sostegni della società, all’impalcatura dell’e-
conomia politica e soggettiva, ai pilastri della società» (Cixous
1974, p. 389).
Il pensiero di Tarchetti sul rapporto tra discorso narrativo e
ideologia può essere già colto in un saggio che risale agli inizi
della sua carriera, Idee minime sul romanzo, pubblicato sul perio-
dico Rivista minima il 31 ottobre 1865. In questa prima enuncia-
zione teorica si muove impacciato tra diverse posizioni, sostiene
diversi tipi di discorso narrativo, accoglie vari concetti di soggetti-
vità e immagina diverse forme di organizzazione sociale; inizial-
mente afferma una visione realistica del romanzo, paragonandolo
alla storia:

2 Si veda in proposito anche Jackson 1981, pp. 26-37.

205
Dalle prime confidenze, dalle prime rivelazioni che gli uomini
fecero agli uomini, dal primo affetto, dal primo dolore, dalla
prima speranza, nacque il romanzo che è la storia del cuore
umano e della famiglia, come la storia propriamente detta è il
romanzo della società e della vita pubblica.
(Tarchetti 1967, II, p. 523)

In seguito Tarchetti prosegue argomentando a favore della prio-


rità della rappresentazione romanzesca su quella storica mettendo
in discussione l’effetto-verità del realismo e definendo il romanzo
come una risposta immaginaria alle contraddizioni sociali, in
quanto genere che compensa in forma narrativa la «terribile odis-
sea di delitti» della storia e rende possibile un rinnovamento della
vita sociale:

Ebbi tra le mani un romanzo, e per poco io fui tentato di ricon-


ciliarmi [agli uomini]; non dirò quanto mi apparissero diversi
da quelli conosciuti nelle storie, non accennerò a quel mondo
meraviglioso che mi si aperse allo sguardo: nel romanzo conob-
bi l’uomo libero, nella storia avevo conosciuto l’uomo sottopo-
sto all’uomo.
(ibidem)

Il discorso produce effetti sociali concreti: il romanzo può alte-


rare la soggettività e guidare il mutamento sociale, perfino per un
bohémien come Tarchetti, il cui rifiuto scapigliato di conformarsi
ai canoni della rispettabilità borghese lo collocava ai margini della
società italiana. In ogni caso sembrerebbe necessario dover negare
il realismo affinché il romanzo possa assumere tale funzione socia-
le: un discorso realistico come quello storico può rappresentare la
vita sociale soltanto come “un’odissea”, una peregrinazione, un’a-
tomizzazione in cui gli agenti si vittimizzano l’un l’altro; il roman-
zo può contribuire al reinserimento sociale e alla ricostruzione di
una collettività, o tramite la rappresentazione di un «mondo mera-
viglioso» nel quale il carattere gerarchico delle relazioni sociali sia
stato risolto.
La distinzione operata da Tarchetti tra libertà del romanzo e
assoggettamento della storia appare, a prima vista, come un
romantico ritrarsi dalla società nella cultura, regno estetico tra-

206
scendente in cui il soggetto può tornare a essere padrone di sé,
autonomo, sebbene al prezzo della rinuncia all’impegno politico3.
Tarchetti ritorna infatti sulla teoria espressiva romantica in vari
punti del saggio, ratificando un programma individualistico di
autoespressione letteraria, discorso trasparente e replica illusioni-
stica: egli predilige quegli scrittori la cui

vita intima [...] rimane in un’armonia così perfetta colle loro


opere, che il lettore non è tentato di dire a se stesso: la mia
commozione è intempestiva, quell’uomo scriveva per ragiona-
mento; buttiamo il libro che non nacque dall’ingegno.
(Tarchetti 1967, II, p. 531)

In altri punti del saggio Tarchetti non considera d’altronde il


romanzo come una finestra sull’autore, «le onde trasparenti di quei
laghi che nella loro calma lasciano scorrere il letto che le contie-
ne» (ibidem), quanto come una «forma di letteratura» (ivi, p. 522)
storicamente specifica, un genere di discorso letterario con un
significato sociale che supera la psicologia dell’autore:

L’Italia composta di tanti piccoli stati, diversi tutti per leggi, per
usi, per dialetto, per abitudini sociali, e direi quasi per suolo,
doveva creare di grandi e svariatissimi romanzi.
(ivi, p. 526)

E quando Tarchetti descrive il valore di una lunga tradizione


del romanzo, presuppone che il discorso narrativo non possa mai
essere scevro da determinazioni sociali:
3 Williams 1958, cap. 2, ha chiarito questo punto. La mia trattazione della

politica culturale di Tarchetti mette implicitamente in discussione Carsaniga:


«Nel loro odio per tutto ciò che fosse borghese, gli scapigliati ritennero
necessario allontanarsi dalla tradizione manzoniana e dalle sue mistificazioni
ideologiche; d’altro canto, anche i loro impulsi antisociali impedivano di rag-
giungere un’autentica arte realistica. [...] Tarchetti, che era stato un acuto
osservatore e critico delle discipline devianti della vita militare, si rifugiò nel
misticismo» (Carsaniga 1974, p. 338).
Tali riflessioni tendono a realizzare l’ingenua equazione tra realismo e
realtà, dal momento che non vengono prese in considerazione le determina-
zioni ideologiche della forma letteraria.

207
Se il romanzo fosse così antico quanto la storia, e avesse avuto
in tutti i tempi e in tutte le nazioni quella popolarità di cui ora
fruisce in Europa, quante tenebre sarebbero diradate, quanta
luce sarebbe fatta sopra molti punti ignorati, sopra le arti, le
costumanze, le leggi e le abitudini e la vita domestica di molti
popoli, cui la storia non si riferisce che per i rapporti politici
con altri popoli. Quale felicità, quale esuberanza di vita morale
nel rivivere in un passato così remoto, quanti insegnamenti per
l’età presente, quale sviluppo nelle nostre facoltà immaginative,
e direi quasi quante illusioni nella potenza della nostra fede e
delle nostre memorie, e quale rassegnazione maggiore nel
nostro destino! S’egli è vero che l’umanità progredisca lenta-
mente, ma in modo sicuro, e che nulla possa arrestare e far
retrocedere il genio nel suo cammino, i nostri posteri fra
migliaia di anni, vivranno moralmente della nostra vita attuale:
le lettere avranno raggiunto per essi quello scopo sublime e
generale, che è di moltiplicare ed accrescere ed invigorire nello
spirito quelle mille ed infinite sensazioni per le quali si manife-
sta il sentimento gigantesco della vita.
(ivi, pp. 523-4)

All’inizio di questo brano fortemente discontinuo Tarchetti teo-


rizza in chiave ottimistica il discorso narrativo come fonte libera-
toria di conoscenza e come utopia dell’immaginazione, presuppo-
nendo un umanesimo liberale in cui il romanzo restituisce libertà e
unità alla soggettività («sviluppo nelle nostre facoltà immaginati-
ve»). Ma l’improvviso riferimento di Tarchetti alle «illusioni»
rivede scetticamente tali affermazioni: il romanzo diviene ora una
fonte di mistificazioni collettive («illusioni nella potenza della
nostra fede e delle nostre memorie») e di compensazioni immagi-
narie al desiderio frustrato («rassegnazione maggiore nel nostro
destino»), facendo sì che il brano giunga ad affermare che la sog-
gettività si situa sempre in condizioni trans-individuali di cui non
può mai essere pienamente conscia o libera. In seguito il progredi-
re dell’«umanità» non sembra misurato da un modello liberale di
vita sociale che garantisca identità personale e autonomia, ma da
una collettività democratica caratterizzata dalla differenza sogget-
tiva e dalla eterogeneità culturale («il sentimento gigantesco della
vita»). Le «lettere» che rappresentano e sostengono questa demo-

208
crazia tendono quindi a «moltiplicare ed accrescere ed invigorire
nello spirito [...] mille ed infinite sensazioni». Il discorso narrativo
suggerito da questo obiettivo non assomiglia tanto a una rappre-
sentazione panoramica di gruppi sociali aderente agli accordi del
realismo, quanto a un delirio sociale che genera una proliferazione
di stati psicologici e confonde le coordinate di spazio e tempo, rap-
presentando quel «mondo meraviglioso» in cui il lettore viene
liberato dall’isolamento sociale.
Nella valutazione della situazione contemporanea del romanzo
italiano, il tema costante di Tarchetti è il fallimento morale e politi-
co del realismo. Egli lamenta l’assenza in Italia di una forte tradi-
zione romanzesca, a differenza di altri paesi e, se elogia scrittori
inglesi, americani, tedeschi e francesi, degrada Manzoni a una
posizione secondaria:

Non vi ha luogo di dubitare che I promessi sposi sieno finora il


migliore romanzo italiano, ma non occorre dimostrare come
esso non sia che un mediocre romanzo in confronto dei capola-
vori delle altre nazioni.
(Tarchetti 1967, II, p. 528)

Tarchetti enumera una serie di difetti nel romanzo di Manzoni e


li attribuisce al discorso realistico:

In quanto all’accusa mossagli da taluno, che in quel libro vi sia


poco cuore, che quell’eterno episodio (quantunque bellissimo)
della monaca, nuoccia più che altro al romanzo, e desti nel let-
tore tanto interesse senza appagarlo, che quel Don Abbondio si
faccia più disprezzare per la sua viltà che amare per l’amenità
del suo carattere, che quel Renzo e quella Lucia sieno due
amanti terribilmente apati e freddi, giova in parte osservare che
il Manzoni volle dipingere gli uomini quali sono, non quali
dovrebbero essere, e in ciò fu scrittore profondo e accurato.
(ivi, p. 532)

La laconica difesa di Tarchetti risulta ancora più debole a con-


fronto della sua stessa stesura dettagliata dell’accusa, e il realismo
che ne risulta appare veramente poco attraente: incapace di rappre-
sentare stati emotivi estremi, la sua rappresentazione di Don

209
Abbondio racchiude contraddizioni ideologiche sintomatiche del
conservatorismo cristiano e del sentimentalismo borghese che lo
contraddistinguono. Tarchetti riconosce che la canonizzazione de I
promessi sposi e le numerose traduzioni di romanzi francesi con-
temporanei abbiano fatto del realismo il più diffuso discorso narra-
tivo in Italia, ma conclude che la cultura italiana soffre di uno stato
di «decadenza», in parte alimentato dai modelli di traduzione adot-
tati dagli editori italiani (Tarchetti 1967, II, p. 535), ritenendo che i
romanzi francesi

che vengono tradotti e pubblicati dai nostri editori, sono gene-


ralmente tali libri che godono di nessuna o pochissima reputa-
zione in Francia [e] tranne alcune poche eccezioni, la loro spe-
culazione si è tuttor rivolta alla diffusione di romanzi osceni.
(ivi, p. 532)

Tarchetti cita alcuni romanzieri francesi come il prolifico


Charles-Paul de Kock (1794-1871), il cui sentimentale e solleti-
cante realismo godette di un’enorme popolarità in Italia. Tra il
1840 e il 1865 vennero pubblicati in traduzione italiana oltre ses-
santa romanzi di de Kock, dai titoli quali La moglie, il marito e
l’amante (1853) o Il cornuto (1854); alcuni di questi apparvero in
traduzioni diverse, presso vari editori, a pochi anni l’una dall’altra,
dimostrando come l’editoria italiana si affannasse a sfruttare la
vendibilità di de Kock (Costa e Vigini 1991). Tarchetti era estre-
mamente preoccupato per le implicazioni politiche e sociali di
questi sviluppi culturali che definiva, in conclusione, retrogradi:

Non si voglia dimenticare che l’Italia, unica al mondo, possiede


una guida per le case di tolleranza, che i nostri romanzi licen-
ziosi sono riprodotti e popolari anche in Francia, che gli uomini
che li scrissero godono di tutti i diritti civili e dell’ammirazione
pubblica, e che appartengono in gran parte alla stampa periodi-
ca [mentre] ogni scritto politico avverso ai principi del gover-
no, ma conforme a quelli dell’umanità e del progresso, è tosto
impedito nella sua diffusione.
(Tarchetti 1967, II, pp. 534-5)

Le prove di Tarchetti con il fantastico possono essere conside-

210
rate come un intervento all’interno di questa situazione culturale,
condotte per risolvere la crisi che egli aveva diagnosticato al
discorso narrativo italiano: l’inadeguatezza del realismo a servire
una politica culturale democratica. Il fantastico rispondeva all’esi-
genza di Tarchetti di una narrativa che rappresentasse quel «mondo
meraviglioso» di «sensazioni» nel quale egli intravedeva un rime-
dio all’ordinamento gerarchico dei rapporti sociali e al suo stesso
isolamento sociale: liberare la soggettività nel discorso fantastico
si traduceva in una conquista di indipendenza. Dal momento che,
nell’ottica di Tarchetti, il realismo dominava il romanzo italiano
senza perseguire alcun fine politicamente progressivo, il suo inter-
vento prese forma attraverso la scelta di un genere straniero con-
trapposto al realismo: il racconto gotico. Il tentativo di Tarchetti di
scrivere in direzione contraria all’inclinazione manzoniana attuava
di fatto un progetto di revisione della storia del romanzo, in cui
questo aveva origine non in Europa ma nell’«oriente da cui si dif-
fuse dapprima la civiltà per tutto il mondo» (Tarchetti 1967, II, p.
524). Il prototipo del romanzo divenne non l’epica o un’altra
forma di discorso realistico, ma il fantastico, non la Bibbia o
l’Iliade, ma le Mille e una notte:

I Persiani e gli Arabi attinsero dalla varietà della loro vita


nomade, e dalla loro vergine natura, e dal loro cielo infuocato
le prime narrazioni romanzesche, onde le leggi e le abitudini di
comunanza sociale e domestica degli Arabi ci sono note e fami-
gliari da gran tempo, e Strabone si doleva che l’amore del
meraviglioso rendesse incerte le storie di queste nazioni.
(ibidem)

La storia letteraria orientalistica di Tarchetti chiarisce il ruolo


politico del suo uso del fantastico, ma insieme rivela una contrad-
dizione ideologica che si oppone a quello stesso ruolo. Il brano
citato si riferisce all’attività di Tarchetti di riscrivere attivamente il
proprio materiale culturale in modo da trasformare l’Oriente in un
veicolo della sua visione sociale democratica. Laddove i racconti
arabi, in realtà, lasciano intravedere monarchie dispotiche e il geo-
grafo Strabone descrive gli arabi nomadi come «una tribù di bri-
ganti e pastori» meno «civilizzati» dei Siriani dal momento che il
loro «governo» non è altrettanto ben «organizzato» (Strabone

211
1930, VII, 233 e 255), Tarchetti accoglie invece da Rousseau l’i-
dea della naturale innocenza umana concependo soltanto un’utopi-
stica «comunanza» vicina alla «natura vergine», non ancora cor-
rotta dalla gerarchica organizzazione sociale dell’Europa. Tarchetti
rappresentava inoltre l’Oriente come luogo esotico e fantasmagori-
co («dal loro cielo infuocato», «amore del meraviglioso»), distin-
guendo la sua concezione della narrativa dal discorso realistico che
dominava in Italia attraverso un’identificazione con l’opposto del
realismo, il fantastico. Entrambe queste rappresentazioni dell’O-
riente, tuttavia, sono chiaramente eurocentriche: mirano a fare
assolvere alla Persia e all’Arabia una funzione europea, la rigene-
razione della narrativa e della società italiane, e non sfuggono mai
all’opposizione razzista tra razionalità occidentale e irrazionalità
orientale. La storia letteraria di Tarchetti assunse quella gamma di
significati che, come ha osservato Edward Said, erano caratteristici
delle rappresentazioni romantiche dell’Oriente: «sensualità, pro-
messa, terrore, sublimità, piacere idilliaco, intensa energia» (Said
1978, p. 118).
Tale ideologia razziale, chiaramente in conflitto con la politica
democratica di Tarchetti, diviene più esplicitamente nociva al suo
progetto nel riferimento finale a Strabone, che bruscamente ribalta
la logica del discorso. Inizialmente Tarchetti considera i racconti
arabi come uno specchio dell’ordine sociale arabo, una rappresen-
tazione affidabile delle sue «leggi e abitudini», per poi concludere
in visibile accordo con Strabone che accusava questi testi di riflet-
tere poco più di un’immaginazione sovraeccitata. L’orientalismo
tipicamente romantico di Tarchetti sembra sfociare in un’accetta-
zione acritica dell’equazione di Strabone tra l’Oriente e «l’amore
del meraviglioso». L’argomentazione con cui Strabone afferma che
le «storie» dei paesi orientali mancano di solide basi nella realtà
rende tuttavia «incerte» non solo le narrazioni arabe, ma anche le
immagini democratiche che vi ritrovava Tarchetti, mettendo in
discussione la precedente considerazione del romanzo come modo
di rappresentare un «mondo meraviglioso» privo di gerarchie
sociali. Il fatto che Tarchetti citi Strabone implica che il mondo
utopico del romanzo potrebbe essere niente più che una rappresen-
tazione erronea della situazione sociale, soprattutto nel caso dei
prototipi orientali di tale genere letterario. È degno di nota che
Tarchetti, in realtà, ripropose questo punto di vista alla fine di un

212
breve racconto, La fortuna di capitano Gubart, pubblicato nello
stesso anno del saggio sul romanzo. Dopo aver dimostrato l’arbi-
trarietà delle distinzioni di classe raccontando come a un povero
musicista di strada venga conferita una nomina militare reale per
errore, il narratore conclude: «Questo fatto comunque abbia una
decisa analogia con quelli famosi delle novelle arabe, è incontra-
stabilmente vero e conosciuto» (Tarchetti 1967, I, p. 79). Questo
riferimento alle Mille e una notte sembra mirare a una satira delle
relazioni sociali italiane come fantastiche e quindi irrazionali, ma
adempie il suo ruolo satirico solo presupponendo la cultura orien-
tale come irrazionale e distinguendo la narrazione di Tarchetti
come «vera». Lo scrittore cercò di inserire testi stranieri fantastici
nella politica culturale democratica che conduceva in Italia, ma il
suo orientalismo rimaneva invischiato nell’opposizione binaria
fondamentale con cui l’Europa subordinava e giustificava la sua
colonizzazione degli stessi paesi stranieri i cui testi considerava
politicamente utili.
Stabilito il vario materiale linguistico, culturale e ideologico
che costituiva il progetto di Tarchetti, questo può essere interpreta-
to come ciò che Gilles Deleuze e Félix Guattari definiscono utiliz-
zazione minore di un linguaggio maggiore:

Anche unica, una lingua resta un pasticcio, un miscuglio schi-


zofrenico, un costume di Arlecchino attraverso il quale si eser-
citano delle funzioni di linguaggio molto differenti e dei centri
di potere distinti, che suggeriscono ciò che può essere detto e
ciò che non può: si userà una funzione contro l’altra, si faranno
giocare i coefficienti di territorialità e di deterritorializzazione
relativi. Anche se maggiore, una lingua può prestarsi a un uso
intensivo che la faccia filare secondo linee di fuga creatrici, un
uso che, per lento e cauto che sia, formi una deterritorializza-
zione, assoluta, questa volta.
(Deleuze e Guattari 1975, pp. 43-44)

La lingua maggiore con cui Tarchetti si confrontava era il


toscano, lo standard linguistico della letteratura italiana fin dal
Rinascimento. Dopo più di un decennio di ricerche intorno alla
questione della lingua nazionale, Manzoni pubblicò nel 1840
un’ampia revisione della prima versione de I promessi sposi

213
riscritta in toscano, intraprendendo in tal modo il progetto naziona-
listico di unificare l’Italia attraverso la sua lingua e la sua letteratu-
ra, collocando il suo testo nel canone letterario e al tempo stesso
stabilendo un modello linguistico per la narrativa che potesse esse-
re compreso facilmente dalla maggior parte dei lettori italiani
(Reynolds 1950). Dal momento che la narrativa fantastica di
Tarchetti era scritta in toscano, essa utilizzava il linguaggio mag-
giore su una linea di fuga che deterritorializzava il discorso narrati-
vo dominante. Egli impiegava lo standard letterario italiano per
produrre racconti gotici, un genere non solo puramente marginale
in rapporto al realismo, ma presente nella cultura italiana princi-
palmente sotto forma di sporadiche traduzioni da alcuni scrittori
stranieri, Hoffmann, Poe, Adelbert von Chamisso4. I racconti di
Tarchetti, nei quali si possono rintracciare testi tedeschi, inglesi,
francesi e perfino arabi, esaltavano ciò che il realismo reprimeva,
le determinazioni ideologiche e discorsive della soggettività. Nella
sua narrativa fantastica di derivazione straniera l’idioma standard
veniva trasformato in un’arena politica in cui l’individualismo bor-
ghese del discorso realistico era contestato al fine di indagare le
varie ideologie di classe, genere e razza. L’orientalismo di Tar-
chetti dimostra tuttavia che egli non aveva il pieno controllo della
sua politica culturale: le sue rivendicazioni erano dirette in senso
democratico ma in qualche occasione reprimevano le contraddizio-
ni ideologiche causate dallo stesso materiale su cui si fondavano e
dai metodi con cui se ne era appropriato.

II
Metodi di appropriazione culturale come la traduzione sarebbe-

4 Costa e Vigini 1991 evidenziano come, prima che Tarchetti cominciasse


a scrivere e a pubblicare, in Italia fossero poche le traduzioni integrali dispo-
nibili di narrativa fantastica straniera: esistevano tre edizioni dei racconti di
Hoffmann (1833, 1835 e 1855), e le Storie incredibili (1863), un volume che
conteneva le traduzioni de La Meravigliosa storia di Peter Schlemihl, oltre a
Il delitto della Rue Morgue e Il ritratto ovale di Poe. Le versioni italiane dei
testi di Poe vennero realizzate dalle traduzioni francesi di Baudelaire. Rossi
1959, pp. 121-125 delinea la ricezione di Poe in Italia.

214
ro senza dubbio utili al progetto di Tarchetti, mirato a impiegare il
linguaggio maggiore per usi minori. E l’effetto di deterritorializa-
zione di questo progetto renderebbe le sue traduzioni chiaramente
estranianti a causa del loro impatto sui valori culturali dominanti
in italiano. Il suo uso più intenso dell’idioma standard avvenne in
effetti in occasione della traduzione di una narrazione fantastica
straniera, un racconto gotico inglese di Mary Wallstonecraft
Shelley. Il significato politico della traduzione di Tarchetti è tutta-
via complicato dal fatto che si tratta in realtà di un plagio del testo
inglese.
Nel 1865 Tarchetti pubblicò sulla Rivista minima, nelle due
puntate del 21 giugno e 31 agosto, un racconto intitolato Il mortale
immortale (dall’inglese). La prima puntata uscì anonima; la secon-
da portava il suo nome. Queste pubblicazioni recano dunque la sua
paternità letteraria, quella che i lettori italiani hanno sempre pre-
supposto, senza mai avventurarsi oltre la supposizione che avesse
adattato il tema fantastico del racconto, l’elisir dell’immortalità, da
due testi francesi. Ma in realtà Tarchetti aveva pubblicato la sua
traduzione italiana del racconto di Mary Shelley, The Mortal
Immortal, edito per la prima volta nel 1833 nell’annuario letterario
inglese The Keepsake. Nel 1868 si presentò a Tarchetti un’altra
opportunità di riconoscere la sua traduzione, opportunità che egli
non colse: nel periodo in cui lavorava al periodico Emporio pitto-
resco ristampò il racconto sotto suo nome con un titolo diverso,
L’elisir dell’immortalità (imitazione dall’inglese).
L’uso da parte di Tarchetti dei sottotitoli parentetici («dall’in-
glese», «imitazione dall’inglese») sembra gettare luce sulla vera
natura del testo, ma questa conclusione è fuorviante: essi fornisco-
no solo una indicazione estremamente vaga del rapporto che inter-
corre tra la sua versione italiana e il racconto di Mary Shelley.
Tarchetti introdusse alcuni cambiamenti significativi: cambiò una
data, usò nomi diversi per i due personaggi principali, omise alcu-
ne espressioni e frasi, e ne aggiunse delle sue, operando così una
forte trasformazione del testo inglese. Tuttavia, frase dopo frase,
paragrafo dopo paragrafo, la sua versione italiana è dominata dal
proposito della riproduzione: aderisce così strettamente alle carat-
teristiche sintattiche e lessicali dell’inglese di Mary Shelley da
risultare più una traduzione interlinguistica che “un’imitazione”.
Non riconoscendo il testo come traduzione, Tarchetti affermò la

215
sua paternità sul materiale dell’autrice, commettendo così un pla-
gio; e sembra certo che ne fosse pienamente consapevole. Nel
1865 iniziò per lui un breve ma intenso periodo di attività nella
borghese industria editoriale di Milano, dapprima con la stampa
della sua narrativa breve e la pubblicazione a puntate dei suoi
romanzi sulla stampa periodica, in seguito con la loro raccolta in
volume con diversi editori. Venne impiegato inoltre per tradurre
interi volumi. Nel 1869 pubblicò la sua versione italiana di due
romanzi inglesi, uno dei quali era Il nostro comune amico di
Dickens (1865). In entrambi i casi egli venne riconosciuto come il
traduttore.
Le difficoltà finanziarie di Tarchetti figuravano senz’ombra di
dubbio tra le ragioni del plagio del racconto di Mary Shelley. La
velocità frenetica con cui scrisse negli ultimi quattro anni della sua
vita dimostra che lavorava per una pubblicazione e un guadagno
immediati. Nella biografia scritta dal suo amico e collaboratore
Salvatore Farina vediamo Tarchetti trasferirsi continuamente da un
indirizzo all’altro, scrivere contemporaneamente per numerosi
periodici ed editori, continuando però a rimanere povero, trasanda-
to e malato fino alla morte per tifo e tubercolosi. In una lettera del
31 gennaio 1867 Tarchetti si lamentava con Farina:

le mie solite complicazioni economiche [...] che ho nulla al


mondo, che devo pensare da oggi a domani come pranzare,
come vestirmi, come ricoverarmi.
(Farina 1913, pp. 37 e 38)

La lettera faceva riferimento al romanzo antimilitare di


Tarchetti, Una nobile follia, che proprio in quel periodo veniva
pubblicato a puntate sul periodico Il sole (dal novembre 1866 al
marzo 1867): «aspetto sempre la completazione di quei drammi
dai quali posso avere un po’ di danaro» (ivi, p. 39).
La biografia di Farina suggerisce una ragione finanziaria al pla-
gio riferendo un episodio in cui la conoscenza di Tarchetti dell’in-
glese divenne il pretesto per un piano fraudolento. Dopo aver vis-
suto per alcune settimane in un albergo di Parma, non potendo
pagare il conto, «s’improvvisò professore di lingua inglese» e

annunziò per la via delle gazzette e alle cantonate di tutte le vie

216
di Parma che, trovandosi di passaggio in quella città, avrebbe
dato un corso completo di quaranta lezioni per insegnare la lin-
gua inglese con un suo metodo spicciativo.
(Farina 1913, pp. 34-35)

La biografia piuttosto melodrammatica di Farina sembra smi-


nuire ingiustamente la buona conoscenza dell’inglese di Tarchetti
limitandola a «pochissimo, appena il tanto da intendere alla meglio
Shakespeare e Byron e tradurre ad orecchio Dickens» (ivi, p. 34),
mentre la sua traduzione del racconto di Mary Shelley conferma,
al contrario, che possedeva un’eccellente conoscenza dell’inglese
scritto. D’altro canto, ciò non smentisce necessariamente l’affer-
mazione di Farina: egli «non parlava inglese affatto e sarebbe stato
imbarazzato a sostenere una conversazione» (ibidem). Farina rife-
risce che le iscrizioni al corso furono «una retata magnifica» (ivi,
p. 35), ma anche che Tarchetti diede meno di quaranta lezioni:

Quando il professore non seppe più che cosa insegnare ai suoi


scolari, lessero insieme Shakespeare e Byron e fumarono le
sigarette che Iginio preparava sul tavolino all’ora della lezione.
(ivi, p. 36)

Questo imbroglio dell’insegnamento gli fu probabilmente più


proficuo del plagio. D’altronde, poiché la traduzione era poco
remunerata nell’Italia del XIX secolo, e il pagamento di solito
avveniva sotto forma di libri oltre che di denaro, l’implicita pretesa
che il testo fosse di sua invenzione gli avrebbe fornito un compen-
so più alto che se l’avesse pubblicato come traduzione (Berengo
1980, pp. 340-346). Una motivazione finanziaria potrebbe spiega-
re anche la ristampa del testo con un nuovo titolo quando Tarchetti
divenne l’editore di Emporio pittoresco. Il titolo diverso e la sua
firma confermavano che il racconto era originale e che veniva pub-
blicato per la prima volta.
Lo stato legale della traduzione cominciava tuttavia a essere
appena definito nel 1865, e dunque il plagio di Tarchetti non costi-
tuiva in realtà un’infrazione dei diritti d’autore né un danno finan-
ziario per i beni della Shelley e del suo editore inglese. Agli inizi
del XIX secolo molti paesi avevano sviluppato uno statuto del
diritto d’autore che concedeva all’autore il controllo esclusivo

217
sulla riproduzione del suo testo per tutta la durata della sua vita e
oltre. Ma le convenzioni internazionali sul diritto d’autore erano
lente ad emergere, e non sempre i diritti di traduzione venivano
riservati all’autore. Nel 1853, per esempio, la corte federale degli
Stati Uniti sentenziò che una traduzione tedesca de La capanna
dello zio Tom (1852), non autorizzata dall’autrice del romanzo,
Harriet Beecher Stowe, non infrangeva il suo diritto d’autore per il
testo di lingua inglese (Kaplan 1967, p. 29). Sebbene l’Inghilterra
avesse istituito il primo importante statuto per il diritto d’autore
all’inizio del XVIII secolo, nel 1851, l’anno della morte di Mary
Shelley, la legge inglese non conferiva all’autore i diritti di tradu-
zione. Fu solo nel 1852 che per statuto fu riconosciuto agli autori il
diritto di autorizzare le traduzioni dei loro testi pubblicati, diritto
limitato a cinque anni dalla data di pubblicazione (Sterling e
Carpenter 1986, p. 106). In Italia una legge generale sul diritto
d’autore non venne formulata fino all’unificazione: il 25 giugno
1865, quattro giorni dopo che Tarchetti aveva pubblicato la prima
puntata della traduzione fatta passare per un suo racconto, il gover-
no italiano concesse agli autori il diritto di «pubblicare, riprodurre
e tradurre» i loro testi, anche se i diritti di traduzione venivano
limitati a dieci anni dalla data di pubblicazione (Piola-Caselli
1927, pp. 22, 24, 26).
Il plagio di Tarchetti non era tanto un’infrazione del diritto
d’autore quanto una violazione del concetto individualistico di
paternità letteraria su cui si basa il diritto d’autore. Come dimostra
Martha Woodmansee, le leggi sul diritto d’autore riconoscono la
proprietà del testo allo scrittore in quanto suo autore e creatore:
«ossia, per quanto la sua opera sia nuova e originale, una creazione
intellettuale che deve la sua individualità solo ed esclusivamente a
lui» (Woodmansee 1984, p. 446). Tale concetto di paternità lettera-
ria presuppone la teoria espressiva romantica: il testo esprime l’u-
nicità dei pensieri e dei sentimenti dell’autore, una coscienza libera
e unica non divisa da determinazioni che superano ed eventual-
mente cadono in conflitto con la sua intenzione. L’autore è l’asse-
gnatario unico ed esclusivo dei diritti d’autore perché la sua sog-
gettività viene interpretata come un’essenza metafisica presente
nel testo e in tutte le copie, ma che trascende qualsiasi differenza o
cambiamento introdotti attraverso determinazioni formali, come la
stampa e la rilegatura, la lingua e il genere, o anche attraverso

218
certe condizioni economiche e politiche, quali l’industria editoriale
e la censura governativa. L’idea stessa di diritto d’autore, comun-
que, denuncia la possibilità di un cambiamento, dal momento che
la sua funzione è quella di controllare la forma e la distribuzione
del libro autorizzandone la riproduzione e reprimendo le modifi-
che non autorizzate. Il diritto d’autore crea una contraddizione
nella nozione individualistica di paternità letteraria, dimostrando
che tale legge è sospesa tra metafisica e materialismo, riconoscen-
do le contingenze materiali della forma, la possibilità della sua
diversificazione dall’autore, ma mettendo in atto la propria traspa-
renza grazie al presupposto metafisico della presenza dell’autore.
Il plagio di Tarchetti violava questa nozione di paternità lettera-
ria non soltanto per aver copiato il racconto di Mary Shelley, ma
anche per averlo tradotto. Con un plagio costituito da una traduzio-
ne egli introduceva un cambiamento decisivo nella forma e, in par-
ticolare, nel linguaggio dell’originale; affermando di esserne l’au-
tore mascherava questo cambiamento, ma al tempo stesso indicava
che era tanto decisivo da essere sufficiente per designare la crea-
zione di un nuovo testo che nasceva con lui. Il plagio di Tarchetti
demoliva velatamente la distinzione che un’idea individualistica di
paternità poneva tra autore e traduttore, creatore e imitatore. Ma
poiché il plagio non venne scoperto né razionalizzato – almeno
fino a oggi – continuò a sostenere tale distinzione; non riflettendo
né contribuendo a una revisione dell’opinione italiana del XIX
secolo sull’estetica e sullo status legale della traduzione. Inoltre, il
fatto che il plagio venisse celato, non mitigava in alcun modo la
violazione di paternità letteraria, e neppure il suo effetto quale pra-
tica di traduzione fortemente estraniante. Poiché la sua traduzione
era un plagio, assumeva un valore sovversivo soprattutto nei con-
fronti dei valori borghesi del linguaggio maggiore. Da un lato il
testo di Tarchetti si beffava del senso borghese di decenza e di pro-
prietà sfruttando in maniera fraudolenta il processo di trasforma-
zione letteraria in atto nell’industria editoriale italiana: in questo
modo il suo plagio esemplificava la tendenza anticonformista e
scapigliata di identificarsi con i gruppi socialmente subordinati, in
particolar modo con gli operai, i poveri e i criminali, professando
un rifiuto dissidente di quello dominante attraverso un’affiliazione
alla sottocultura (Mariani 1967). Dall’altro lato, il testo di Tarchetti
operava una deterritorializzazione del discorso narrativo borghese

219
che dominava la cultura italiana, proprio in virtù del fatto che era
un plagio nell’idioma standard, che si proponeva non soltanto
come racconto gotico originale, ma come scritto originariamente
nell’italiano del realismo manzoniano e proprio per questo estra-
niante nel suo impatto sulla scena letteraria italiana.
La paternità di Mary Shelley disturba ulteriormente la posizio-
ne ideologica dell’intervento di Tarchetti sollevando la questione
del genere sessuale (gender). Affinché fosse efficace nel sovverti-
re i valori borghesi che deterritorializzavano il modello letterario
italiano, il suo testo doveva necessariamente mantenere la sua
paternità letteraria fittizia, riferendosi solo in maniera molto vaga
al racconto della Shelley («imitazione»). Al tempo stesso, però,
questa finzione sopprimeva un caso di paternità femminile, cosic-
ché il furto della creazione letteraria di Mary Shelley conseguiva
l’effetto patriarcale della privazione d’autorità su una donna, di
limitazione del suo intervento sociale. Tarchetti non sembra aver
previsto questa conseguenza: alcuni dei suoi altri romanzi affron-
tavano esplicitamente i temi della prevaricazione maschile sulle
donne e della costruzione sociale del genere sessuale, sia con la
vivida descrizione dell’oppressione di cui era vittima Paolina, che
con le dislocazioni sessuali attuate nei suoi esperimenti fantastici
(Caesar 1987). Il fatto che il racconto che Tarchetti scelse di pla-
giare mettesse in questione le immagini patriarcali del potere
maschile e della debolezza femminile, riveste un’estrema impor-
tanza. Pur fondandosi su una soppressione antifemminista della
paternità letteraria della Shelley, il plagio di Tarchetti ne fece tut-
tavia circolare il progetto narrativo femminista nella cultura italia-
na. Tale contraddizione ideologica è aggravata ancor più dal fatto
che il testo di Tarchetti è una traduzione; il testo di Mary Shelley,
affinché potesse assolvere la sua funzione politica in una cultura
differente, venne sottoposto a una trasformazione radicale che era
contemporaneamente fedele e impropria, dal momento che ripro-
duceva e al tempo stesso integrava il testo inglese. L’indicazione
più chiara di questo rapporto diseguale appare dalle sottili diffe-
renze introdotte nella versione italiana che mettono in discussione
le ideologie razziste e di classe che permeavano il racconto di
Mary Shelley.

220
III
The Mortal Immortal di Mary Shelley è una narrazione in
prima persona in cui un assistente dell’alchimista cinquecentesco
Cornelius Agrippa si duole di aver bevuto l’elisir dell’immortalità.
L’incipit del racconto attiva lo stato di sospensione tipico del fan-
tastico citando una data che allude per un attimo alla realtà del let-
tore inglese prima di stabilire improvvisamente una cronologia
irreale: «July 16, 1833. – This is a memorable anniversary for me;
on it I complete my three hundred and twenty-third year!»
(Shelley 1976, p. 219)5. Il testo mira a sospendere il lettore tra i
due registri del discorso fantastico, il mimetico e il meraviglioso,
rappresentando le circostanze in cui si copie il gesto fatale dell’as-
sistente, e soprattutto il suo rapporto con la donna che ama e che
infine sposerà. La premessa fantastica dell’immortalità conduce a
una serie di esagerazioni satiriche tramite le quali vengono messe
in discussione le rappresentazioni sessuali patriarcali.
Conferendo l’immortalità a un narratore maschile, il testo della
Shelley lo trasforma in un tropo fantastico del potere maschile,
dando origine a una critica del patriarcato che richiama quella di
Mary Shelley Wollstonecraft. In Rivendicazione dei diritti della
donna (1792), la Wollstonecraft argomenta che la «forza corporale
[che] sembra conferire all’uomo una naturale superiorità sulla
donna [...] è l’unica base solida su cui si può costruire la superio-
rità del sesso» (Wollstonecraft 1975, p. 124). La narrazione fanta-
stica della Shelley contesta la superiorità fisica maschile facendo
dell’assistente l’instabile sede da cui l’azione diventa intelligibile:
non è certo, infatti, che egli sia fisicamente superiore. La sua “sto-
ria” è racchiusa nella domanda fondamentale «Am I immortal?»6
(Sh., pp. 219 e 229), e interrotta da varie e inconcludenti medita-
zioni sull’autenticità e l’efficacia dell’elisir di Cornelius. Il valore
della superiorità fisica maschile è destabilizzato dalla rappresenta-
zione contraddittoria che l’aiutante fornisce a proposito della

5 «16 luglio 1833. – Questo è per me un anniversario memorabile: oggi


compio il mio trecento ventitreesimo anno!». Da qui in avanti si farà riferi-
mento, nel testo, al racconto di Mary Shelley (Shelley 1976) indicandolo, per
brevità, (Sh.) e fornendone in nota una nostra traduzione di servizio [N.d.T.].
6 «Sono immortale?».

221
scienza alchemica che avrebbe potuto renderlo immortale.
L’alchimia viene stigmatizzata inizialmente come innaturale ed
eretica: il lettore viene a conoscenza del “resoconto” dell’«inciden-
te» di cui è vittima «l’allievo [di Cornelius] il quale, a sua insapu-
ta, provocò l’orribile demonio durante l’assenza del suo maestro e
ne venne distrutto», con il risultato che «tutti i suoi allievi lo
abbandonarono immediatamente», e «gli spiriti oscuri lo derisero
per non essere stato capace di trattenere un solo mortale al suo ser-
vizio» (ivi, pp. 219-220). L’assistente sembra accettare l’associa-
zione fra alchimia e magia: «Quando Cornelius venne ad offrirmi
un borsellino pieno d’oro se fossi rimasto sotto il suo tetto, ebbi la
sensazione che Satana in persona mi stesse tentando» (ivi, p. 220).
Tuttavia, a metà del brano, egli accenna al fatto che il «resoconto»
potrebbe essere «vero o falso» (ivi, p. 219); e in seguito, dopo la
morte di Cornelius, questo scetticismo riappare a discolpare l’al-
chimista e a rafforzare il dubbio sull’immortalità del suo aiutante:

Deridevo l’idea che egli fosse in grado di comandare le forze


dell’oscurità, e schernivo i timori superstiziosi con cui il volgo
lo considerava. Era un filosofo saggio, ma non aveva conoscen-
za di altri spiriti se non quelli rivestiti di carne e sangue.
(ivi, p. 226)

L’incertezza che il testo della Shelley genera intorno alla supe-


riorità fisica maschile viene rafforzata attraverso la caratterizzazio-
ne del personaggio dell’aiutante. Si tratta di una figura di uomo
debole e indeciso, dominato dalla donna che ama, a volte ridicolo,
un candidato all’immortalità estremamente improbabile. Il suo
nome è “Winzy” che, come osserva Charles Robinson, è in rela-
zione con “winze”, la parola scozzese che indica la maledizione,
ma che, inoltre, «potrebbe suggerire che il protagonista di questa
storia è un personaggio comico» (Sh., p. 390). Dopo aver ascoltato
dai suoi amici «il tremendo racconto» dell’«incidente», la reazione
di Winzy all’offerta d’impiego da parte di Cornelius è una farsa
grossolana: «Mi cominciarono a battere i denti, mi si rizzarono i
capelli: fuggii tanto velocemente quanto le mie ginocchia tremanti
me lo permisero» (ivi, p. 220). La caratterizzazione di Winzy è una
satira del presupposto ideologico del patriarcato all’interno del
determinismo biologico perché la sua superiorità fisica non è inna-

222
ta, bensì un errore: egli beve l’elisir dell’immortalità solo perché
Cornelius lo ha ingannato dicendogli che si tratta di un filtro per
curare l’amore. Poiché parte della commedia del personaggio di
Winzy è dovuta al fatto che egli manca assolutamente di controllo
psicologico, la satira si estende anche a una versione peculiarmen-
te borghese dell’ideologia patriarcale, vale a dire al legame tra
potere maschile e concetto individualistico di soggetto unico e
libero. Abbandonato pavidamente il laboratorio di Cornelius,
Winzy si ritrova con così poca presenza di spirito da scivolare
nella miseria; solo lo sguardo accigliato del suo amore Bertha lo
farà tornare al lavoro: «Così incoraggiato – costretto da lei – per-
suaso dall’amore e dalla speranza, ridendo delle mie ultime paure,
a passo veloce e con cuor leggero tornai per accettare l’offerta del-
l’alchimista, e venni installato nelle mie mansioni all’istante» (ivi,
pp. 220-221). Essendo Winzy tanto sottomesso a Bertha e tremante
per timore del suo rifiuto, sopporta la sua «incostanza» e riesce a
conquistare «il coraggio e la risolutezza» di agire solamente quan-
do viene portato a credere con l’inganno che la pozione che sta per
bere lo guarirà dal suo amore infelice (ivi, pp. 221-224). Winzy
non possiede mai l’autonomia interiore del potere maschile; egli è,
in effetti, un uomo che non desidera alcun potere, e che alla fine
del suo racconto si rammarica profondamente della sua longevità.
Il racconto di Mary Shelley segue assai da vicino la critica fem-
minista di sua madre, Mary Wollstonecraft, nella caratterizzazione
del personaggio di Bertha. Come la Wollstonecraft giudica il
dominio maschile sulle donne estremamente oppressivo nelle clas-
si più agiate perché «l’educazione dei ricchi tende a renderle inutili
e indifese» (Wollstonecraft 1975, p. 81), allo stesso modo il testo
della Shelley sottolinea un infelice mutamento in Bertha quando i
suoi genitori muoiono lei viene adottata dalla «vecchia signora del
vicino castello, ricca, senza figli, e solitaria» (Sh., p. 220).
Vivendo nell’aristocratico splendore di un «palazzo di marmo», e
«circondata da giovani vestiti di seta, ricchi e felici», Bertha assu-
me «in qualche modo le maniere di una civetta», mettendo in peri-
colo la sua relazione con Winzy (ivi, pp. 220-221). Le donne svi-
luppano «le arti della civetteria», argomenta la Wollstonecraft, per-
ché assimilano l’immagine patriarcale di se stesse come oggetto
passivo del desiderio maschile: «poiché viene loro insegnato solo a
piacere, le donne sono sempre in guardia in questo senso, e si sfor-

223
zano con vero ardore eroico di conquistare cuori, semplicemente
per poi rinunciarvi o rifiutarli sdegnosamente quando la vittoria è
decisa e cospicua» (Wollstonecraft 1975, pp. 115 e 147). Il cam-
biamento di Bertha si manifesta nell’ambigua e perversa manipo-
lazione di Winzy:

Bertha credeva che amore e sicurezza fossero nemici, godeva


nel dividerli nel mio cuore. [...] Mi mancava di riguardo in
mille modi, eppure non riconosceva mai di essere in torto. Era
capace di farmi impazzire di rabbia, per poi costringermi a
implorare il suo perdono. A volte riteneva che non fossi abba-
stanza sottomesso, e allora trovava qualche storia di rivali,
favoriti dalla loro protettrice.
(Sh., p. 221)

Come indica questo elenco di usi impropri, il racconto di Mary


Shelley è una satira dell’immagine patriarcale della donna che dà
forma alla caratterizzazione di Bertha trasformandola in una carica-
tura. La premessa fantastica dell’immortalità risulta essere un’esage-
razione della sua vanità: poiché Winzy resta un giovane di vent’anni
mentre lei diviene una «bellezza sbiadita» di cinquanta, «lei tentò di
diminuire l’apparente disparità delle nostre età ricorrendo a mille
arti femminili: il rossetto, l’abbigliamento giovanile e la scelta di
modi sbarazzini» (ivi, pp. 226 e 228). La critica di Wollstonecraft
alla preoccupazione costante della bellezza cui il patriarcato costrin-
ge le donne viene amplificata nell’ossessione ridicola e folle di
Bertha: «La sua gelosia non si assopiva mai», riferisce Winzy,

La sua occupazione principale consisteva nello scoprire che,


nonostante l’apparenza, anch’io invecchiavo. [...] Scorgeva
rughe sul mio viso e decrepitezza nella mia andatura, mentre le
saltellavo accanto pieno di vigore giovanile, più giovane nell’a-
spetto di venti altri giovani. Non osai mai parlare con un’altra
donna: una volta, credendo che la bella del villaggio mi facesse
gli occhi dolci, mi comprò una parrucca grigia.
(ivi, p. 228)

Incapace di preservare il suo aspetto attraente, Bertha giunge


persino a svilire la giovinezza e la bellezza:

224
Descriveva quanto fossero più avvenenti i capelli grigi dei miei
riccioli castani; dissertava sulla reverenza e il rispetto dovuti
all’età, su quanto fossero preferibili alla scarsa considerazione
in cui erano tenuti i fanciulli: come potevo immaginare che i
doni deprecabili della bellezza e della giovinezza superassero la
disgrazia, l’odio e la derisione?
(ivi, p. 227)

L’elisir dell’immortalità di Tarchetti è una traduzione abbastan-


za letterale del racconto della Shelley, che ne afferra perfettamente
il tono di satira femminista ma che, con le sue revisioni, oltrepassa
il testo inglese. Alcune modifiche indicano una strategia di amplifi-
cazione destinata ad accrescere la confusione epistemologica del
fantastico per il lettore italiano (le parole in corsivo nelle seguenti
citazioni italiane indicano le aggiunte di Tarchetti al testo inglese):
la traduzione intensifica infatti il registro meraviglioso del discorso
fantastico di Mary Shelley aggiungendo una marcata tendenza al
sensazionalismo. Tarchetti segue il testo inglese nel dare inizio alla
sospensione fantastica fin dalla prima frase, con una data che fa
riferimento alla realtà italiana del lettore, ma inserendo anche dei
leggeri cambiamenti che intensificavano la meraviglia del lettore:

Dicembre 16, 1867. – È questo per me un anniversario assai


memorabile. Io compio oggi il mio trecento ventinovesimo
anno di vita.
(Tar., p. 114)7

La prima espressione di dubbio in Winzy sulla propria superio-


rità fisica è costituita da una semplice domanda – «Am I, then,
immortal?»8 (Sh., p. 219) – mentre la versione italiana ricorre a
una riaffermazione più enfatica: «Ma non invecchierò io dunque?
Sono io dunque realmente immortale?» (Tar., p. 114). Talvolta
l’amplificazione produce un effetto melodrammatico: «belief» e
«thought» (Sh., p. 226) vengono enfatizzati nei più teatrali «illu-
sione» e «dubbio» (Tar., p. 126); «sad» (Sh., p. 224) è reso con

7 Da qui in avanti si farà riferimento, nel testo, al racconto di Tarchetti


(Tarchetti 1967, I) indicandolo, per brevità, (Tar.) [N.d.T.].
8 «Sono, dunque, immortale?».

225
«pazza» (Tar., p. 124), «fondly» – come in «my Bertha, whom I
had loved so fondly»9 (Sh., p. 228) – viene reso con «pazzamente»
(Tar., p. 129). E a volte il melodramma inclina verso il meraviglio-
so. Quando Bertha, invecchiata, cerca di lenire la sua vanità ferita
dicendo a Winzy: «Though I looked so young, there was ruin at
work within my frame»10, la versione italiana trasforma la rovina
(«ruin») in un processo eccezionalmente improvviso: «quantunque
io apparissi così giovane, eravi qualche cosa in me che m’avrebbe
fatto invecchiare repentinamente» (Tar., p. 1309).
Altrove la traduzione di Tarchetti aumenta la confusione episte-
mologica del lettore italiano rafforzando il registro mimetico del
discorso fantastico della Shelley. I personaggi principali sono
ribattezzati Vincenzo e Ortensia, due nomi italiani abbastanza
comuni che eliminano l’improbabilità comica suggerita da un
immortale di nome Winzy. La strategia di amplificazione mimetica
adoperata da Tarchetti agisce accumulando dettagli e spiegazioni
verosimili. Quando Vincenzo racconta la tragedia dell’«allievo [di
Cornelio] che avendo inavvertitamente evocato durante l’assenza
del maestro, uno spirito maligno, ne fu ucciso», Tarchetti aggiunge
un altro dettaglio al brano inglese per rendere l’incidente più plau-
subile: «senza che alcuno avesse potuto soccorrerlo» (Tar., p. 115).
In maniera analoga la versione italiana accentua il realismo psico-
logico del testo inglese. Quando Winzy e Bertha si separano dopo
il loro primo bisticcio, egli afferma concisamente: «We met now
after an absence, and she had been sorely beset while I was
away»11 (Sh., p. 220). Nella traduzione, tuttavia, l’incontro è molto
più istrionico, con Vincenzo che esprime fisicamente la sua passio-
ne per Ortensia ed enfatizza l’angoscia della separazione:

Io la riabbracciava ora dopo un’assenza assai dolorosa; il


bisogno di confidenza e di conforti mi aveva ricondotto presso
di lei. La fanciulla non aveva sofferto meno di me durante la
mia lontananza.
(Tar., p. 117)

9 «La mia Bertha, che avevo amato così appassionatamente».


10 «Sebbene sembrassi così giovane, la rovina era in atto nel mio corpo».
11 «Ci incontravamo ora dopo un periodo di assenza, ed ella era stata

dolorosamente turbata mentre ero via».

226
Poiché la traduzione tende a favorire stati emotivi estremi, que-
sto tipo di amplificazione mimetica trasforma facilmente un brano
inglese relativamente realistico in una fantasia ricercata. Quando
Winzy fugge spaventato dal presumibilmente satanico Cornelius,
si rivolge a Bertha per avere un po’ di conforto: «My failing steps
were directed whither for two years they had every evening been
attracted, – a gently bubbling spring of pure living waters, beside
which lingered a dark-haired girl»12 (Sh., p. 220). La versione ita-
liana infonde nel paesaggio e nella figura della fanciulla delle sfu-
mature gotiche:

I miei passi si diressero anche quella volta a quel luogo, a cui


pel giro di due anni erano stati diretti ogni sera, – un luogo
pieno d’incanti, una sterminata latitudine di praterie, con una
sorgente d’acqua viva che scaturiva gorgogliando malinconica-
mente, e presso la quale sedeva con abbandono una fanciulla.
(Tar., p. 116)

La strategia dell’amplificazione adottata da Tarchetti riproduce


efficacemente la critica femminista della Shelley attraverso un’ul-
teriore amplificazione dell’immagine patriarcale sessuale che
modella i personaggi. Quando Winzy beve ciò che egli erronea-
mente ritiene un rimedio al suo amore frustrato per Bertha, è sog-
getto a un attacco improvviso di autostima e audacia che conferma
comicamente la sua debolezza psicologica, seguitando, così, nella
satira del potere maschile: «Methought my good looks had won-
derfully improved. I hurried beyond the precints of the town, joy
in my soul, the beauty of heaven and earth around me»13 (Sh., p.
223). La versione italiana trasforma Vincenzo nella parodia del-
l’individuo romantico, narcisista, gradasso e byroniano:

Parvemi che i miei occhi, già così ingenui, avessero acquistata

12 «I miei passi vacillanti si dirigevano lì dove erano stati attratti ogni sera
per due anni: una sorgente di pure acque vive delicatamente spumeggiante,
accanto alla quale indugiava una fanciulla dai capelli scuri».
13 «Mi sembrava che il mio bell’aspetto fosse meravigliosamente miglio-

rato. Mi precipitai al di là del recinto della città, con la gioia nell’animo, e la


bellezza del cielo e della terra tutto intorno a me».

227
una sorprendente espressione. Mi cacciai fuori del recinto della
città colla gioia nell’anima, con quella orgogliosa soddisfazio-
ne che mi dava il pensiero di essere presto vendicato.
(Tar., p. 122)

Allo stesso modo la traduzione accentua la caricatura della


vanità femminile. Mentre Winzy osserva che la sua giovinezza ha
condotto Bertha a trovare una «compensation for her misfortunes
in a variety of little ridiculous circumstances»14 (Sh., p. 228),
Ortensia si volge a «puerili e ridicole circostanze» (Tar., p. 129). E
mentre Winzy afferma che Bertha «Would discern wrinkles in my
face and decrepitude in my walk»15 (Sh., p. 228), Vincenzo si
lamenta che Ortensia «struggeasi di scoprire delle grinze sul mio
viso, e qualche cosa di esitante, di decrepito nel mio incesso»
(Tar., p. 130).
Il primo allontanamento decisivo di Tarchetti dalle determina-
zioni ideologiche del racconto di Mary Shelley si verifica intorno
alla questione di classe. L’autrice sfida l’assunto patriarcale secon-
do il quale l’identità sessuale è fissata biologicamente indicando
che la trasformazione di Bertha in una fanciulla civettuola è social-
mente determinata quale effetto della mobilità verso l’alto. La
posizione sociale di Bertha è chiaramente borghese: «i suoi genito-
ri, come i miei», afferma Winzy, «conducevano una vita umile ma
rispettabile» (Sh., p. 220). Questa «vita» dovrebbe essere interpre-
tata come borghese nonostante la connotazione di «umile», non
solo perché è definita «rispettabile», ma anche perché dà a Winzy
la possibilità di diventare apprendista di un alchimista presso il
quale guadagna «una somma di denaro di certo non insignificante»
(Sh., p. 221). Bertha e Winzy sono «umili» in confronto alla pro-
tettrice della ragazza, un’aristocratica, una «gentildonna» che abita
in un «castello» feudale. Il racconto della Shelley inizia, dunque,
associando il patriarcato al dominio aristocratico, e l’eguaglianza
dei sessi alla famiglia borghese. Questo appare in modo estrema-
mente chiaro in un brano sorprendente, che allude esplicitamente
al trattato della Wollstonecraft. Quando Bertha lascia infine la sua

14 «Compensazione per le sue disgrazie in varie e ridicole circostanze


minime».
15 «Scorgeva rughe sul mio viso e decrepitezza nella mia andatura».

228
protettrice aristocratica per tornare dai genitori di Winzy, questi
afferma che la ragazza «fuggiva da una gabbia dorata verso la
natura e la libertà» (Sh., p. 224), rifacendosi a una delle metafore
della Wollstonecraft per l’auto-oppressione cui l’ideologia patriar-
cale costringe le donne: «Istruita fin dall’infanzia alla bellezza
come scettro della donna, la mente si conforma al corpo e, percor-
rendo in tondo la sua gabbia dorata, cerca solo di adorare la sua
prigione» (Wollstonecraft 1975, p. 131).
Man mano che la narrazione procede, la logica di classe della
critica femminista di Mary Shelley viene però sconfitta. Sebbene
l’attacco sferrato da Winzy alla protettrice aristocratica stabilisca
implicitamente l’equazione tra la famiglia borghese e lo stato natu-
rale libero dalle rappresentazioni sessuali patriarcali, il suo matri-
monio con Bertha costringe quest’ultima a viverle in maniera
ancora più ossessiva. La coppia continua a essere economicamente
indipendente: Winzy fa riferimento alla «mia fattoria» (Sh., p.
227), e nonostante ad un certo punto «la povertà si fosse fatta sen-
tire» perché la sua eterna giovinezza faceva in modo che fossero
«evitati da tutti», sono comunque in grado di liquidare la loro pro-
prietà ed emigrare in Francia, «avendo messo insieme una somma
sufficiente a mantenerci almeno per tutto il tempo che Bertha fosse
vissuta» (ivi, p. 228). Perciò, sia vivendo con i loro genitori, sia da
soli, dopo sposati, essi continuano a condurre una «vita umile ma
rispettabile». Il loro rapporto può essere tuttavia difficilmente con-
siderato di «natura e libertà» per entrambi. Bertha diventa l’ogget-
to passivo del desiderio di Winzy:

Non avevamo figli, eravamo in tutto e per tutto l’uno per l’al-
tro; e sebbene, invecchiando, il suo spirito brioso diventasse a
volte un po’ irritabile, e la sua bellezza diminuisse tristemente,
la tenevo cara nel mio cuore come l’amante che avevo idolatra-
to, la moglie che avevo chiesto con un amore così perfetto.
(ivi, p. 227)

E quando la vanità induce Bertha al ridicolo, allontanando gli


estremi, Winzy non può più far altro che riconoscere la gerarchia
dei sessi determinata dalla sua superiorità fisica: «Questa vecchia
leziosa, affettata e gelosa. Avrei dovuto riverire i suoi riccioli grigi
e le sue guance appassite; ma così! Era il mio lavoro, lo sapevo;

229
ma ciononostante deploravo questo tipo di umana debolezza» (ivi,
p. 228). Il ritorno di Bertha alla borghesia contraddice in definitiva
l’attacco di Winzy alla protettrice: il loro matrimonio dimostra che
la famiglia borghese non è un rifugio egualitario dal patriarcato
aristocratico, ma un’estensione del predominio maschile.
Tale contraddizione ideologica è centrale anche nel femmini-
smo della Shelley. Come ha sostenuto Anne Mellor,

Mary Shelley era femminista nel senso in cui lo era sua madre,
cioè nel sostenere un matrimonio egualitario e l’educazione
delle donne. Ma nella misura in cui ella approvava la riprodu-
zione ininterrotta della famiglia borghese, il suo femminismo si
qualifica attraverso i modi in cui l’affermazione della famiglia
borghese implica un’accettazione della sua implicita gerarchia,
una gerarchia storicamente manifestatasi tramite la dottrina
delle sfere separate [e] il dominio del genere maschile.
(Mellor 1988, p. 217)

La valorizzazione del matrimonio propria di Mary Shelley


emerge in The Mortal Immortal in primo luogo perché Winzy è il
narratore: egli racconta il suo amore per Bertha e il loro matrimo-
nio come le condizioni dalle quali le loro azioni sono rese intelligi-
bili, e quindi la famiglia borghese, con la sua costruzione patriar-
cale dei sessi, viene stabilita come il modello secondo il quale ven-
gono giudicati. Ciò che il testo impone come vero o banale è che
Winzy sia l’amante e il marito devoto, attento alle loro esigenze
materiali e al controllo del loro destino nella sfera pubblica, men-
tre Bertha controlla la loro vita privata, spinta dalla sua vanità a
prendersi gioco del suo affetto, a invidiare la sua giovinezza, e per-
fino a minacciare le loro vite. Riflettendo sul fatto che l’aspetto
immutabile di Winzy poteva farli giustiziare «come un trafficante
di magia nera» e la sua «complice [,] alla fine ella insinuò che
dovessi condividere il mio segreto con lei, e accordarle benefici
simili a quelli di cui godevo, altrimenti mi avrebbe denunciato;
quindi scoppiò in lacrime» (Sh., p. 227).
La traduzione di Tarchetti indaga le contraddizioni del femmi-
nismo della Shelley rivedendo in modo sottile le ideologie messe
all’opera nel suo racconto. Il testo italiano segue quello inglese
quando fa affermare a Vincenzo: «Io divenni marito di Ortensia»

230
(Tar., p. 123), ma omette ripetutamente i segni del loro matrimo-
nio. Quando Bertha si accorge dell’immortalità di Winzy, egli le
rinnova i suoi voti coniugali: «I will be your true, faithful husband
while you are spared to me, and do my duty to you to the last»16
(Sh., p. 228). Tarchetti omette l’intera frase. E lì dove Winzy e
Bertha si chiamano l’un l’altro «my poor wife» 17 e «my
husband»18 (Sh., pp. 227 e 228), Vincenzo e Ortensia dicono «mia
buona compagna» e «mio amico» (Tar., p. 128). Questi cambia-
menti mostrano lo sforzo di indebolire, per quanto leggermente, la
valorizzazione del matrimonio tipica del racconto di Mary Shelley,
e riflettono forse un rifiuto scapigliato della rispettabilità borghe-
se. Ancor più significativo è il fatto che i cambiamenti introdotti
da Tarchetti forniscono una collocazione alla determinazione ideo-
logica che qualifica il progetto femminista della Shelley, e riesco-
no in ciò enfatizzando l’amicizia invece del matrimonio, suggeren-
do la possibilità di una relazione equa tra gli amanti e contestando
la gerarchia dei sessi nella famiglia borghese.
Allo stesso tempo, la traduzione di Tarchetti sovrappone un
altro conflitto di classe al testo inglese: anche questo esige una
riduzione dei valori borghesi di Mary Shelley. La versione italiana
riproduce tutti quei passi che indicano l’indipendenza economica
dei protagonisti, tranne quello più esplicito: la descrizione dei
genitori di Vincenzo e Ortensia cancella «rispettabile» ed enfatizza
«umile», indicando chiaramente che non sono borghesi, ma mem-
bri della classe operaia: «I suoi parenti erano, come i miei, di assai
umile condizione» (Tar., p. 116). L’adozione di Ortensia da parte
della protettrice, dunque, configura il patriarcato come il dominio
dell’aristocrazia sulla classe operaia. La versione italiana sottoli-
nea questa rappresentazione codificando le vane ossessioni di
Ortensia con degli atteggiamenti aristocratici. Mentre Bertha, spin-
ta dall’invidia per l’aspetto fisico di Winzy, fino all’estremo para-
dosso di screditare la bellezza, gli dice che «i capelli grigi» sono
«molto più avvenenti» e che «giovinezza e bellezza» sono «doni
deprecabili», Ortensia esprime un senso aristocratico di superiorità

16 «Sarò il tuo fedele e sincero marito per tutto il tempo che mi sarai con-
cessa, e assolverò i miei doveri nei tuoi confronti fino alla fine».
17 «La mia povera moglie».
18 «Mio marito».

231
sociale: la versione italiana sostituisce «comely» (“avvenenti”) con
«gentili», e «despicable» (“deprecabili”) con «volgari» (Tar., pp.
127 e 128). Con questi cambiamenti la traduzione di Tarchetti
costringe il racconto della Shelley a occuparsi del rapporto gerar-
chico tra l’aristocrazia e la classe operaia, un esempio di dominio
di classe che il femminismo borghese della scrittrice reprime.
La tendenza a esporre nella traduzione forme di mistificazio-
ne ideologica si fa sentire anche in quelle omissioni che rimuo-
vono l’Orientalismo dal racconto di Mary Shelley. Tarchetti
omette la reazione di Winzy al comportamento civettuolo di
Bertha: «I was jealous as a Turk»19 (Sh., p. 221). Poiché qualsiasi
espressione di gelosia particolarmente violenta o aggressiva
risulterebbe comicamente incoerente con la remissività di Winzy,
la sua affermazione può essere interpretata come un contributo
alla satira del potere maschile costruita intorno alla sua caratte-
rizzazione. Eppure, una volta resosi conto del significato femmi-
nista della battuta, il lettore si colloca in un’altra ideologia, quel-
la dell’Orientalismo europeo: la satira diviene intelligibile soltan-
to quando il lettore considera che la gelosia di Winzy non potreb-
be mai essere tanto esasperata quanto quella di un turco, ossia
soltanto quando il lettore presuppone la verità dello stereotipo e
quindi accetta un insulto etnico, tracciando una distinzione razzi-
sta tra l’Occidente razionale e L’Oriente irrazionale. L’impiego
dello stereotipo da parte della Shelley per sostenere la satira fem-
minista mette in ridicolo la gerarchia dei sessi introducendone
una fondata sulla razza.
L’assenza di questa ideologia razziale dalla versione italiana
potrebbe sembrare insignificante, se non fosse che Tarchetti omette
un altro riferimento orientalista del testo inglese, molto più com-
plicato di questo: un’allusione alla History of Nourjahad, un rac-
conto orientale scritto da Frances Sheridan, romanziere e dramma-
turgo del XVIII secolo. All’inizio del testo Winzy cita malinconi-
camente degli esempi «favolosi» di longevità che si dimostrarono
molto più tollerabili del suo:

Ho udito parlare di incantesimi in cui le vittime venivano im-


merse in un sonno profondo per risvegliarsi, dopo cento anni,
19 «Ero geloso come un turco».

232
fresche come non mai: ho sentito parlare dei Sette Dormienti;
così l’immortalità non sarebbe tanto gravosa ma, oh! Il peso del
tempo senza fine; il noioso trascorrere delle ore che pur si sus-
seguono sempre! Come era felice il leggendario Nourjahad!
(Sh., p. 219).

La qualità estremamente ellittica di questa allusione, soprattutto


se paragonata all’asserzione chiarificatrice che precede i Sette
Dormienti, indica l’enorme popolarità del personaggio di Sheridan,
perfino nel tardo 1833, quando la Shelley era impegnata a scrivere il
racconto. Pubblicato nel 1767, un anno dopo la morte di Sheridan,
The History of Nourjahad conobbe almeno undici edizioni inglesi
fino al 1830, compresa un’edizione ridotta e illustrata per bambini, e
venne adattata due volte per il teatro, prima come «spettacolo melo-
drammatico» nel 1802, quindi come produzione musicale nel 1813
(Todd 1985, pp. 282-284). Avendo già pubblicato diversi racconti su
The Keepsake, Mary Shelley sapeva che i temi orientali erano in
voga presso i lettori della rivista, e sembra anche che abbia presunto
che il «leggendario Nourjahad» fosse loro più familiare dell’allusio-
ne piuttosto colta ai Sette Dormienti, cosicchè doveva semplicemen-
te fare in modo che il suo «mortale immortale» richiamasse il nome
del personaggio per significare l’immortalità interrotta ripetutamente
da un «sonno profondo”20. Eppure, per i lettori che conoscono The
History of Nourjahad, il riferimento è troppo repentino e generico
perché la sua eco cessi, e costituisce, dunque, un aspetto fastidioso
di indeterminatezza nel testo della Shelley, limitato solo dalle condi-
zioni sociali e culturali in cui viene letto.
Il Nourjahad di Sheridan è il favorito del sultano persiano
Schmezeddin che, volendolo nominare «primo ministro», deve sta-
bilire se è ne è degno, cioè innocente dalle colpe imputategli dai
consiglieri di corte: «giovinezza», «avidità», «amore del piacere»
e «irreligiosità» (Weber 1812, p. 693). Quando Schmezeddin lo
mette alla prova chiedendogli che cosa chiederebbe se ogni suo
desiderio potesse essere soddisfatto, la risposta di Nourjahad con-
ferma i sospetti dei consiglieri:

20 Fin dal primo numero, The Keepsake pubblicò racconti e poesie orien-
tali con titoli quali: Sadak the Wanderer. A Fragment; The Persian Lovers e
The Deev Alfakir (Reynolds 1828, pp. 117-119, 136-137, 160-169).

233
Desidererei essere posseduto da ricchezze inesauribili; e, per
essere in grado di goderne al massimo grado, vorrei la mia vita
prolungata per l’eternità, [ignorando] le speranze del Paradiso
[al fine di] rendere questo globo terrestre un paradiso finché
duri, e correre il rischio per quell’altro più tardi.
(Weber 1812, p. 694)

Nourjahad suscita il rimprovero del sultano, e quella notte rice-


ve la visita del suo «genio custode» che esaudisce il suo desiderio
di ricchezza e immortalità a condizione che ogni immoralità da lui
commessa verrà «punita con una totale privazione delle [sue]
facoltà», che durerà «per mesi, anni, anzi, per una intera rivoluzio-
ne di Saturno ogni volta, o forse per un secolo» (ivi, p. 695).
Nourjahad dimentica questa punizione, si aliena ulteriormente
Schmezeddin dedicandosi a «nient’altro se non ai suoi sfrenati
appetiti» (ivi, p. 698), e compie tre atti immorali ognuno dei quali
viene punito con un lungo periodo di sonno profondo. Mentre si
abbandona «con libertà smisurata ai suoi desideri più voluttuosi»,
Nourjahad «si ubriaca per la prima volta» e quindi dorme per quat-
tro anni (ivi, p. 700); in seguito inventa una « mascherata celestia-
le» per la quale ordina che «le donne del suo serraglio impersonino
gli uri», mentre «egli stesso dovrebbe necessariamente impersona-
re Maometto; e una delle amanti che egli amava di più [...]
Kadijia, la moglie favorita del profeta»: per questa «idea barbara e
blasfema» egli dorme per quarant’anni (ivi, p. 705). Infine, quando
i suoi «appetiti si indeboliscono per l’abbondanza», egli comincia
a dilettarsi di «crudeltà» e uccide brutalmente Kadijia, quindi
dorme per vent’anni (ivi, p. 710). Al suo risveglio Nourjahad fa
ammenda e intraprende un vasto programma filantropico, ramma-
ricandosi così profondamente della ricchezza e dell’immortalità
che il suo genio custode ricompare per portarglieli via. In seguito
viene rivelato che «l’avventura [di Nourjahad] era tutta una finzio-
ne» (ivi, p. 719), che egli non uccise Kadijia, non era mai stato
ricco o immortale, e che sono trascorsi solo quattordici mesi, non
sessant’anni o più. Schmezeddin aveva inventato tutto per ottenere
la correzione morale del suo favorito.
L’allusione di Mary Shelley al racconto di Sheridan mette in
gioco vari temi densi di significato ideologico. Nourjahad appare a
Winzy chiaramente «felice», dal momento che il peso della sua

234
immortalità viene alleggerito da lunghi periodi di sonno, e infine
rimosso. Inoltre, alla luce del rapporto tra Winzy e Bertha,
Nourjahad è ancora invidiabile perché alla fine egli si unisce in
matrimonio alla sua amata Mandana, «una giovane fanciulla, così
squisitamente incantevole e ben educata, che egli le donò l’intero
possesso del suo cuore» (Weber 1812, p. 698), ma più tardi, quan-
do lei muore di parto, si sentirà ingannato. Ciò che distingueva la
relazione tra Nourjahad e Mandana era il suo averla scelta come
confidente: «Desideroso di sfogarsi con qualcuno sulla cui tene-
rezza e fedeltà potesse contare, le svelò la meravigliosa storia del
suo destino» (ibidem), esemplificando con ciò l’idea di matrimo-
nio basato sulla complicità che iniziava ad affacciarsi nel XIX
secolo, idea che metteva in rilievo l’amicizia domestica, la condi-
visione tra gli sposi dell’affetto e degli interessi, mentre manteneva
l’autorità del marito (Stone 1977). Senza dubbio questo anteceden-
te al concetto di matrimonio egualitario proprio della Shelley, oltre
alla premessa fantastica dell’immortalità, attirò l’autrice verso il
racconto di Sheridan, in particolare per la narrazione adottata che
può essere letta come una critica al patriarcato. The History of
Nourjahad, come The Mortal Immortal, contesta l’immagine ses-
suale patriarcale: Nourjahad rappresenta la superiorità fisica
maschile spinta agli estremi della violenza contro le donne.
Quando Winzy si paragona a Nourjahad, il testo della Shelley
avverte che si sta rivolgendo alla differenza sessuale e offre a ogni
lettore di The Keepsake in grado di instaurare un paragone e condi-
videre il pensiero della Wollstonecraft, uno scherzo femminista a
spese di Winzy: l’allusione indica inevitabilmente l’incongruenza
tra la sua umiliante debolezza e il potente eccesso di Nourjahad,
dando inizio alla satira del potere maschile che costituisce il tema
della Shelley.
Qualsiasi progetto femminista possa comunque essere indivi-
duato nel racconto di Sheridan, viene infine sviato dalle ideologie
di classe e razziali che ne attraversano la scrittura. Nel contestare il
patriarcato, The History of Nourjahad è chiaramente sovradetermi-
nato dall’orientalismo: dimostra e allo stesso tempo ripristina l’in-
feriorità morale dell’Oriente. La caratterizzazione di Nourjahad
coinvolge il procedimento razzista che consiste nel naturalizzare
stereotipi etnici, dando loro un fondamento biologico: «Non era di
temperamento attivo», «era collerico di natura» (Weber 1812, pp.

235
698 e 700). E sebbene l’Islam venga trattato con rispetto, giacchè
Nourjahad riceve la punizione più severa quando ingiuria il
Corano, la valorizzazione del matrimonio da parte di Sheridan è
connessa all’esplicito privilegio accordato all’Occidente, e a una
coerente rappresentazione delle donne come oggetto del desiderio
sessuale maschile, persino nel contesto del matrimonio basato
sulla complicità dei coniugi. Il fatto che Mandana ricambi l’amore
di Nourjahad viene così descritto come «una felice circostanza
molto rara presso i mariti orientali», e viene rivelato che la donna è
il dono di Schmezeddin al suo favorito, liberata dalla condizione di
«schiava» del sultano poiché ha contribuito al suo «progetto»
impersonando il genio custode di Nourjahad e unendosi, in segui-
to, al suo harem (ivi, pp. 698, 719-720). Per quanto Schmezeddin
sia responsabile del ravvedimento morale di Nourjahad, inoltre, la
narrazione conferma un’istituzione politica specifica, una monar-
chia dispotica che si basa su interventi paternalistici. La configura-
zione ideologica del racconto di Sheridan, ciò che può essere chia-
mato l’immagine orientalistica del despotismo patriarcale, stride
con il femminismo borghese decifrabile nell’allusione di Mary
Shelley, portando l’esclamazione di Winzy a provocare ulteriori
contraddizioni nel suo progetto. «Come era felice il leggendario
Nourjahad»: perché viveva sotto un despota il quale esercitava un
potere assoluto sui suoi sudditi? Perché esercitava il dominio su
sua moglie e sulle donne del suo harem? Perché come Persiano
riuscì a vincere la sua propensione orientale al vizio? Tali signifi-
cati potenziali sarebbero stati accessibili ai lettori de The
Keepsake: il pubblico di questi costosi volumetti era costituito per
ampia parte da donne aristocratiche e borghesi, politicamente con-
servatrici, abituate a prosa e poesia spesso orientaliste e con la
testa piena di costruzioni sessuali patriarcali. (Faxon 1973, p. XXI;
Altick 1957, pp. 362 e 363).
Nonostante The History of Nourjahad godesse di una certa
popolarità nel continente durante il tardo Diciottesimo secolo –
quando venne tradotto in francese, russo e ungherese – sembra
improbabile che Tarchetti lo conoscesse. La soppressione di qual-
siasi riferimento a Nourjahad nella sua traduzione potrebbe essere
semplicemente dovuta al fatto che Tarchetti non conosceva il rac-
conto di Sheridan. Di certo la soppressione non avvenne perché
egli era consapevole degli stereotipi orientalistici o perché vi si

236
opponeva, dal momento che la stessa ideologia razziale emerge
altrove nei suoi scritti, anche quando cerca di formulare una politi-
ca culturale democratica per la narrativa italiana. Qualunque possa
essere stata la ragione, l’omissione di Tarchetti influenza sia il
testo inglese che la traduzione italiana. La semplice assenza del-
l’allusione isola e al tempo stesso cancella un nodo di contraddi-
zione ideologica del testo di Mary Shelley, permettendo alla tradu-
zione di volgersi alla questione del dominio di classe e dei sessi in
Italia senza il fardello del razzismo e della monarchia dispotica.
Ma tale assenza indica anche un effetto antifemminista nella tradu-
zione a causa delle funzioni culturali e sociali svolte da ogni allu-
sione. Come ha affermato Susan Stewart,

L’atto allusivo fa sempre riferimento a una tradizione e la crea,


[ma] fa anche, e sempre, riferimento alla situazione più prossi-
ma, e la crea, articolando la relazione tra quella situazione e la
tradizione, e articolando i disponibili gradi di accesso alla tradi-
zione [,] le fasce di lettori, i livelli di accessibilità alla cono-
scenza.
(Stewart 1980, pp. 1146 e 1151)

L’allusione della Shelley al racconto di Sheridan non solo


annuncia il suo progetto di critica femminista al patriarcato, ma
costruisce implicitamente una tradizione di paternità letteraria
femminile e di critica ideologica femminista, anche se la rivelazio-
ne di quella tradizione nasconde la contraddittorietà delle sue con-
dizioni ideologiche nei testi di entrambi gli scrittori. L’allusione di
Mary Shelley, inoltre, rende la tradizione accessibile alle donne
socialmente importanti che leggevano The Keepsake e che la
Wollstonecraft considerava le più oppresse dal sistema patriarcale.
La soppressione operata da Tarchetti annulla questo atto di tradi-
zionalizzazione femminista, bloccando completamente al lettore
italiano l’accesso alla tradizione da questa costruita.

IV
La traduzione di Tarchetti stabilisce due rapporti discontinui:
uno con il racconto di Mary Shelley e l’altro con la cultura italia-

237
na, che può essere compreso meglio ricorrendo al concetto di
fedeltà abusiva, o impropria, enunciato da Philip Lewis. Questi
afferma che in questo tipo di traduzione il traduttore concentra la
sua attenzione sugli «abusi» del testo nella lingua di partenza,
«punti o brani che in qualche modo sono forzati, che spiccano
come raggruppamenti di energia testuale», e tenta di riprodurre la
loro qualità impropria nella cultura della lingua d’arrivo (Lewis
1985, p. 43). Il tentativo di riproduzione attuato dal traduttore inte-
gra però al tempo stesso il testo della lingua di partenza in modo
problematico. Questo concetto di fedeltà della traduzione è abusi-
vo in quanto svolge ciò che Lewis chiama

una duplice funzione: da un lato, quella di forzare il sistema


linguistico e concettuale dal quale dipende, e dall’altro di rivol-
gere un attacco critico inverso al testo che traduce, e in rappor-
to al quale diventa una specie di risultato destabilizzante (è
come se la traduzione cercasse di occupare il ruolo già destabi-
lizzato dell’originale, e quindi, lungi dall’“addomesticarlo”,
cercasse di trasformarlo in un ruolo ancora più estraneo a se
stesso).
(ibidem)

Sembra che Lewis consideri la fedeltà abusiva come una scelta


strategica, almeno in parte controllata dal traduttore (“in parte”
perché le scelte sono contingenti, dal momento che variano da un
testo della lingua di partenza a un altro, da una cultura della lingua
d’arrivo a un’altra). Tuttavia, il trattamento precedentemente ana-
lizzato della traduzione di Tarchetti esige una revisione dell’idea di
Lewis che includa quelle scelte di traduzione che rimangono inar-
ticolate e inconsce, e che di conseguenza possono sostenere un
effetto che va al di là delle intenzioni del traduttore. In altre parole,
qualsiasi movimento del traduttore può sia riprodurre che integrare
il testo della lingua di partenza.
La traduzione di Tarchetti, con le sue tecniche formali del
meraviglioso e dell’amplificazione mimetica, riproduce il centrale
uso improprio del progetto narrativo femminista della Shelley e
del suo impiego del fantastico al fine di operare una dislocazione
delle rappresentazioni patriarcali dei sessi; e poiché la sua tradu-
zione è un plagio scritto in italiano standard, questa deterritorializ-

238
za il discorso realistico dominante in Italia, attuando una pratica
culturale ideologica radicalmente democratica, che contrasta le
ideologie di classe (aristocratica e borghese), di genere sessuale
(patriarcale), e di razza (orientalistica). I movimenti della traduzio-
ne di Tarchetti sono tali da esibire un simile ordine del giorno poli-
tico persino in casi (come ad esempio la rimozione dell’orientali-
smo della Shelley) in cui non sembrano calcolati, o mancano alme-
no di un calcolo politico.
L’improprietà della traduzione di Tarchetti non si limita alla
cultura della lingua d’arrivo, in quanto mette anche in atto una cri-
tica ideologica “destabilizzante” del racconto della Shelley, espo-
nendo i limiti politici del suo femminismo, il suo fallimento nel
riconoscere la gerarchia sessuale nel matrimonio borghese e la sua
dissimulazione dell’oppressione della classe operaia e del razzi-
smo in Europa. Il paradosso della strategia di traduzione di
Tarchetti risiede nel fatto che i suoi usi impropri sorgono soprattut-
to dalle sue molteplici fedeltà: all’italiano standard, ma non al rea-
lismo dominante; alle caratteristiche sintattiche e lessicali del testo
inglese, come anche al suo discorso fantastico e all’ideologia fem-
minista, ma non ai suoi valori borghesi e all’orientalismo. Queste
carenze nel testo di Tarchetti vengono colmate da un’altra fedeltà,
quella a una politica culturale democratica.
Più specificamente, l’attenzione della traduzione di Tarchetti al
discorso di classe fornisce un esempio di come il suo impiego del
fantastico fosse finalizzato a un confronto con le divisioni di clas-
se, trasformate ma in ogni caso sopravvissute all’unità d’Italia.
Questa trasformazione sociale fu in fondo una trasformazione più
liberale che non democratica: liberò i mercati dalle restrizioni
regionali e incentivò lo sviluppo di interessi professionali, manifat-
turieri e mercantili, soprattutto al Nord, pur senza un miglioramen-
to consistente della vita dei lavoratori agricoli e industriali che
costituivano il segmento più ampio della popolazione. Al contra-
rio, la riorganizzazione economica, invece di ridurre la dipendenza
dei lavoratori dai proprietari terrieri e dai datori di lavoro, aggiun-
se le incertezze legate alle condizioni di mercato, alle tasse e ai
prezzi più alti. E l’istituzione di un governo nazionale con un eser-
cito permanente mise i lavoratori di fronte alla coscrizione obbli-
gatoria, mentre l’analfabetismo diffuso frenava la loro partecipa-
zione al processo politico (Smith 1969). La traduzione di Tarchetti,

239
come gli altri suoi racconti fantastici, interviene in queste contrad-
dizioni sociali, non solo criticando il dominio aristocratico e bor-
ghese sulle classi operaie, ma anche scegliendo un discorso narra-
tivo che capovolgeva i presupposti borghesi del realismo. Realizzò
inoltre tale intervento durante la formazione culturale altamente
politicizzata degli anni intorno al 1860, pubblicando i suoi racconti
su periodici milanesi strettamente legati ai gruppi più progressisti e
democratici e raggiungendo in tal modo la borghesia settentrionale
massimamente beneficiata dai mutamenti politici ed economici
dell’Italia del periodo post-unitario (Portinari 1989, pp. 232-240;
Castronovo et al. 1979).
Tuttavia, il fatto che Tarchetti si affidi al plagio per promuovere
il suo progetto politico, così come alla soppressione di un’allusio-
ne letteraria che probabilmente non comprendeva, distorce ancora
una volta l’idea di fedeltà abusiva della traduzione formulata da
Lewis. Entrambe queste scelte mostrano che il testo della lingua di
partenza può causare «una sorta di risultato destabilizzante» nel
testo della lingua d’arrivo, indicando i punti in cui quest’ultimo è
«estraneo» al suo stesso progetto o nei quali entra in conflitto con
l’intenzione del traduttore. Non appena il furto di Tarchetti viene
scoperto, e la soppressione ricollocata, il racconto della Shelley
attiva una critica ideologica della sua traduzione che rivela come
egli abbia importato in modo violento in Italia la sua narrativa
femminista, sopprimendo la paternità letteraria dell’autrice e la sua
costruzione di una tradizione letteraria femminista. Gli effetti anti-
femministi del testo di Tarchetti costituiscono un promemoria
notevole del fatto che la traduzione, come ogni pratica culturale,
funziona a delle condizioni che possono non essere completamente
riconosciute, ma che complicano ugualmente e, forse, compromet-
tono, l’attività del traduttore, anche quando essa miri a un inter-
vento politicamente strategico.
Per il traduttore contemporaneo di lingua inglese in cerca di
forme di resistenza contro il regime dell’addomesticamento scorre-
vole, Tarchetti fornisce l’esempio di una pratica di traduzione
estraniante che opera su due livelli, quello del significato e quello
del significante. La sua strategia discorsiva deviava dal realismo
dominante liberando il gioco del significante: egli amplificò i regi-
stri discorsivi della narrazione fantastica della Shelley, sia quello
mimetico che quello meraviglioso, e in tal modo rafforzò l’incer-

240
tezza sullo status metafisico della rappresentazione (l’elisir è
«reale» oppure no?) frustrando l’illusione di trasparenza. Ma il
plagio di Tarchetti produsse anche l’illusione della sua paternità
letteraria: egli cancellò la condizione di secondo grado della sua
traduzione presentandola come il primo racconto gotico scritto
nell’italiano del discorso realistico più diffuso, determinando la
sua identità di scrittore d’opposizione e stabilendo il significato del
suo testo come dissidente. Alla stregua dell’autore contemporaneo
di traduzioni scorrevoli in lingua inglese, Tarchetti era invisibile ai
suoi lettori in qualità di traduttore, ma questa stessa invisibilità gli
permetteva di praticare la traduzione estraniante all’interno della
situazione italiana, essendo visibile solo come autore.
Le pratiche di traduzione di Tarchetti non possono essere imita-
te oggi senza una revisione significativa. Il plagio, per esempio,
viene in larga misura impedito dalle leggi sul diritto d’autore che
vincolano i traduttori tanto quanto gli autori, con il risultato di
contratti stilati in modo da assicurare che la traduzione sia vera-
mente una traduzione, e che non implichi un impiego non autoriz-
zato di alcun materiale protetto dal diritto d’autore. Diamo qui di
seguito qualche esempio di clausole standard tratte da recenti con-
tratti di traduzione21, inclusi quelli in cui il traduttore viene deno-
minato l’«autore» della traduzione:

Lei garantisce che l’originalità del suo lavoro sarà tale da non
ledere il diritto d’autore o violare il diritto di qualsiasi persona
o parte interessata, e acconsente a sollevare e assicurare noi – e
qualunque concessionario o rivenditore dell’opera – da qualsia-
si danno subìto per qualunque richiesta, azione o procedura
basate su una presunta violazione di ciascuna delle garanzie
precedenti.

L’autore si fa garante di avere il pieno potere di stipulare questo


accordo; che l’opera non è stata in precedenza pubblicata sotto
21 Queste clausole sono tratte dai miei contratti con editori americani per

la traduzione di vari libri italiani: Barbara Alberti, Delirium, Farrar Strauss &
Giroux, 29 Maggio 1979, p. 1; Restless Nights: Selected Stories of Dino
Buzzati, North Point Press, 15 Settembre 1982, p. 2; e I.U. Tarchetti,
Fantastic Tales, Mercury House, 3 Luglio 1991, p. 5.

241
forma di volume in lingua inglese; che tutti i diritti accordati
all’editore qui di seguito sono scevri da impedimenti o da
accordi precedenti; che l’opera non viola alcun diritto d’autore
in nessun modo. L’autore solleverà e difenderà l’editore e i suoi
concessionari da tutte le richieste, rivendicazioni o azioni legali
relative a queste garanzie. L’autore compenserà l’editore [...]

L’autore garantisce di essere l’unico autore dell’opera; di essere


l’unico detentore di tutti i diritti accordati all’editore [...]
L’autore solleverà l’editore, qualsiasi rivenditore dell’opera e
qualsiasi concessionario con diritto sussidiario dell’opera da
qualunque danno subìto.

L’astuzia e l’assoluta audacia del plagio di Tarchetti può ren-


derlo attraente agli occhi dei dissidenti della cultura letteraria
angloamericana, in special modo ai traduttori dissidenti interessati
a disturbare le consuetudini dell’industria editoriale. Eppure resta
il fatto che pubblicare una traduzione non autorizzata di un testo
straniero protetto dal diritto d’autore comporta l’avvio di procedu-
re legali il cui costo andrà molto oltre il compenso che un tradutto-
re potrebbe ottenere persino da una traduzione che si riveli un vero
bestseller.
Ciò che il traduttore contemporaneo può apprendere da
Tarchetti non è come plagiare un testo straniero, ma come sceglie-
re quello da tradurre. Tarchetti dimostra che la traduzione estra-
niante non solo prende forma come strategia di traduzione devian-
te, ma anche come scelta di testi stranieri che deviano dai canoni
letterari dominanti nella cultura della lingua d’arrivo. La scelta di
Tarchetti di tradurre il racconto gotico di Mary Shelley era estra-
niante per l’introduzione di un discorso narrativo di finzione che
sfidava il realismo dilagante, e la sua traduzione, insieme a quelle
poche altre traduzioni italiane di racconti fantastici stranieri già
pubblicate, diede inizio a un mutamento del gusto letterario che
culminò in una riforma significativa del canone. Altri membri
della Scapigliatura, quali Arrigo e Camillo Boito ed Emilio Praga,
pubblicarono racconti gotici negli anni ’60, mentre le traduzioni
italiane di scrittori stranieri quali Poe, Gautier e Erckmann-
Chatrian aumentarono rapidamente in quello scorcio di XIX seco-
lo. I racconti di Hoffmann, ad esempio, apparvero in otto diverse

242
edizioni italiane tra il 1877 e il 1898 (Costa e Vigini 1991; Rossi
1959). È in parte per effetto di queste tendenze che il fantastico
divenne un genere dominante nella narrativa italiana del XX seco-
lo, modernista e postmodernista, ispirando numerosi scrittori cano-
nici quali Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli, Dino Buzzati,
Tommaso Landolfi e Italo Calvino (Bonifazi 1971 e 1982). La
lezione impartita da Tarchetti al traduttore dissenziente è che la
scelta di un testo straniero da tradurre può essere altrettanto estra-
niante nel suo impatto sulla cultura della lingua d’arrivo quanto
l’invenzione di una strategia discorsiva. In un momento in cui le
deviazioni dalla scorrevolezza avrebbero potuto limitare la circola-
zione di una traduzione o impedirne perfino la pubblicazione,
Tarchetti ha indicato il valore strategico di un’attenta selezione dei
testi e delle letterature stranieri nello sviluppo di un progetto di tra-
duzione.

243
Capitolo quinto
MARGINE

La traduzione di una poesia di qualsiasi profondità finisce per diventare una


di queste due cose: o l’espressione del traduttore, di fatto una nuova poesia,
oppure una fotografia, per così dire, quanto più possibile esatta, di un solo
fianco di una statua.
Ezra Pound

Il predominio del discorso trasparente nella traduzione in lin-


gua inglese venne contestato in modo decisivo agli inizi del XX
secolo, quando nella cultura angloamericana emerse il moderni-
smo. La sperimentazione che caratterizzava la letteratura di questo
periodo introdusse nuove strategie di traduzione che evitavano la
scorrevolezza per sviluppare discorsi estremamente eterogenei, in
primo luogo nelle traduzioni di poesia ma anche, in maniera più
estesa, nella composizione poetica. La traduzione divenne allora
una pratica chiave della poetica modernista, provocando l’appro-
priazione di numerosi modelli di poesia arcaica e straniera che
rispondevano ai progetti culturali del modernismo di lingua ingle-
se1. Allo stesso tempo la teoria della traduzione in lingua inglese
raggiungeva un nuovo livello di elaborazione critica, chiamata
com’era a spiegare razionalmente dei testi modernisti particolari,
poesie scaturite da traduzioni come pure traduzioni di poesie.
Ma la traduzione sembra oggi recare poche tracce di quegli svi-
luppi. Il predominio del discorso trasparente è rimasto così solido
in inglese che, sebbene la poesia e la prosa moderniste siano state
da lungo tempo canonizzate nella cultura letteraria angloamerica-
1 Si veda, per esempio, Hooley 1988.

245
na, sia all’interno che all’esterno delle accademie, le innovazioni
che contraddistinguono la traduzione modernista continuano a
essere marginali, raramente applicate nella traduzione inglese con-
temporanea, raramente segnalate nelle asserzioni teoriche di tra-
duttori e non. Nel cercare vie d’uscita al predominio della traspa-
renza è importante valutare le innovazioni della traduzione moder-
nista e controllare tanto le funzioni culturali da essa svolte con
grande forza all’inizio del secolo, quanto le condizioni della sua
marginalizzazione a partire dalla metà del secolo. Quali alternative
offrì la traduzione modernista nella sua sfida alla trasparenza?
Perché queste vennero relegate ai margini della cultura angloame-
ricana?

I
In una recensione pubblicata nel 1936 su Criterion, Basil
Bunting criticò lo studio di E. Stuart Bates, Modern Translation,
per non aver mantenuto la promessa contenuta nel titolo, per non
essere riuscito a presentare un’idea moderna di traduzione.
Secondo Bunting, Bates non era in grado di distinguere i «plagi
[scolastici] (ad esempio, i Loeb Classics) dalle traduzioni» che lo
stesso Bunting stimava come «traduzioni considerate autonome,
opere equivalenti nella loro lingua a un originale dalla cui autorità
non erano tuttavia costrette a dipendere, rivendicando la propria
indipendenza e accettando la responsabilità implicita nel fatto di
avere una vita propria» (Bunting 1936, p. 714).
Il modernismo afferma “l’indipendenza” del testo tradotto ed
esige che venga giudicato secondo le “proprie” condizioni, non
solo separatamente dal testo straniero, ma in relazione ad altri testi
letterari nella “sua stessa” lingua, accettando la “responsabilità” di
distinguersi in termini letterari all’interno di quella lingua. Ma nel
momento stesso in cui la traduzione modernista sceglie tali termi-
ni, cessa di essere un’opera indipendente, non potendo mai appar-
tenere a “se stessa” dal momento che la traduzione è scritta in una
lingua codificata con valori letterari fondamentalmente diversi da
quelli che circolano nella lingua straniera. Il modernismo ritiene
che la responsabilità della traduzione risieda nella sua indipenden-
za, ma la responsabilità presupposta in tale convinzione si deve in

246
realtà all’intelligibilità interna e alla forza culturale che cancellano,
in qualche modo irresponsabilmente, la differenza culturale e lin-
guistica del testo straniero. Bunting riteneva che tale differenza
non fosse importante nella traduzione, ritenendola una possibilità
remota, o semplicemente inesistente, da incontrare nella lingua
inglese. «Nessuno è davvero bilingue – scrisse – ma non ha impor-
tanza» (ivi, p. 714).
Il modernismo cerca di stabilire l’autonomia culturale del testo
tradotto omettendo le sue molteplici condizioni ed esclusioni, e in
particolare il processo di addomesticamento attraverso il quale il
testo straniero viene riscritto ai fini dell’esigenza culturale moder-
nista. Bunting era consapevole di tale addomesticamento. Egli elo-
giava il Rubáiyát di Omar Khayyám (1859) di Edward Fitzgerald
in cui «Fitzgerald tradusse una poesia mai esistita, eppure uno svi-
luppo spontaneo e naturale dell’obiettivo di Dryden fece sì che
Omar pronunciasse parole “che avrebbe davvero detto se fosse
nato in Inghilterra” e in un’epoca nella quale ancora si percepiva,
anche se velatamente, l’ombra di Byron» (Bunting 1936, p. 715).
Fitzgerald incarnava, secondo Bunting, l’ideale modernista poiché
traduceva una poesia «mai esistita» sebbene, paradossalmente, il
traduttore attingesse da materiale preesistente: seguiva infatti il
metodo della traduzione addomesticante di Dryden (che rese
Virgilio un poeta della Restaurazione inglese), e la sua traduzione
era notevolmente influenzata da Byron, dal byronismo e dall’o-
rientalismo della cultura romantica. La consapevolezza che
Bunting possedeva di tale processo di addomesticamento non fu
mai abbastanza critica da fargli mettere in discussione la sua idea
di traduzione, da portarlo a dubitare dell’autonomia del testo tra-
dotto o a chiedersi che cosa accadesse all’alterità del testo stranie-
ro una volta tradotto. Ciò che lo interessava era esclusivamente
che la traduzione apportasse una differenza, un’alterità a livello
nazionale, e non che desse significato alla differenza linguistica e
culturale del testo straniero.
Nella traduzione modernista questi due tipi di differenza colli-
dono: il testo straniero viene inserito in un programma culturale
modernista e quindi considerato come valore assoluto che sma-
scheri l’inadeguatezza delle traduzioni ispirate a differenti progetti
culturali. In una recensione del 1928 della traduzione di
Baudelaire realizzata da Arthur Symons, T.S. Eliot affermò che la

247
traduzione rappresenta «un’interpretazione», mai completamente
adeguata al testo della lingua d’origine perché mediata dalla cultu-
ra della lingua d’arrivo, legata a un momento storico: «Il presente
volume dovrebbe, per essere onesti, essere forse letto come un
documento rappresentativo degli anni Novanta, piuttosto che come
un’interpretazione attuale» (Eliot 1928, p. 92). Eliot aveva assunto
il punto di vista modernista, secondo il quale la traduzione è un
radicale addomesticamento che si risolve in un testo autonomo: «Il
lavoro della traduzione è quello di fare in modo che qualcosa di
straniero, o di lontano nel tempo, viva insieme alla nostra vita»
(ivi, p. 98). Ma la sola «vita» che Eliot avrebbe concesso nella tra-
duzione si conformava al suo particolare tipo di modernismo. Ciò
che rendeva la versione di Symons «sbagliata», «una traduzione
erronea», «un imbratto pasticciato» era proprio che egli «avesse
avvolto Baudelaire nel violetto swinburniano della nebbia di
Londra degli anni Novanta», trasformando il poeta francese in «un
contemporaneo di Dowson e Wilde» (ivi, pp. 91, 99-100, 102,
103). La «giusta» versione assumeva la sua fisionomia in base a
ciò che Eliot annunciò come il suo «generale punto di vista»:
«classicista in letteratura, realista in politica e anglo-cattolico in
religione» (ivi, p. VII). Dunque, «il fatto importante della figura di
Baudelaire è che egli era essenzialmente un cristiano, nato nell’e-
poca sbagliata, e un classicista, nato nell’epoca sbagliata» (ivi, p.
103), mentre il «tempo» che conta è il presente di Eliot: «Dowson
e Wilde sono passati, mentre Baudelaire resta; egli apparteneva a
una generazione che li precedeva, eppure, molto più di loro, è
nostro contemporaneo» (ivi, p. 91).
Anche Pound preferiva i testi stranieri che poteva mobilizzare
all’interno della politica culturale modernista, ma il suo punto di
vista ideologico era diverso da quello di Eliot, e non poco incoe-
rente. Certa poesia medievale, e in particolare la lirica trobadorica
provenzale e il dolce Stilnovo, doveva essere recuperata attraverso
l’interpretazione, la traduzione e l’imitazione, perché conteneva
valori che nella cultura occidentale erano andati perduti, ma che il
modernismo avrebbe ora recuperato. La poesia di Guido
Cavalcanti fu assimilata a valori poetici e filosofici del moderni-
smo quali il positivismo e l’esattezza linguistica. Nel saggio di
Pound, Cavalcanti (1928), «la differenza tra l’esatta metafora
interpretativa di Guido, e l’ampollosità e l’ornamento petrarche-

248
schi» è nel fatto che «le espressioni [di Guido] corrispondono a
sensazioni precise che ha provato» (Anderson 1983, p. XX). Lo
stesso saggio chiariva anche la natura specificamente politica della
restaurazione culturale di Pound, esprimendo la sua lettura moder-
nista di Cavalcanti con un anti-clericalismo e un razzismo rabbio-
si:

Sembra che noi abbiamo perduto il mondo radiante in cui un


pensiero intersecava l’altro con un taglio netto, un mondo di
mobili energie – in mezzo scuro luce rade – risplende in sé per-
petuale effecto – forze magnetiche che assumono forma, e
diventano visibili o rasentano la visibilità, la materia del Para-
diso di Dante, il vetro sott’acqua, la forma che sembra una
forma vista in uno specchio, queste realtà percettibili al senso,
dal reciproco influsso (e non si mova, perch’a lui si tiri) non
tocche dalle due malattie, il male ebraico, il male indù, i fanati-
smi e l’eccesso che producono un Savonarola, gli ascetismi che
producono i fachiri, San Clemente d’Alessandria con la sua
proibizione alle donne di fare il bagno.
(Pound 1977, pp. 1029-1030)

Nello stesso saggio Pound spostava poi la prospettiva ideologi-


ca collegando l’interesse per la poesia medievale a un anti-com-
mercialismo con tendenze radicalmente democratiche. La canzone
filosofica di Cavalcanti, Donna mi prega,

rivela tracce di una tonalità di pensiero che ormai non è più


considerata pericolosa, ma che ad un lettore fiorentino dell’an-
no di grazia 1290 poteva probabilmente apparire non più grade-
vole di quanto non lo sia oggi, ad una riunione di un comitato
di banchieri metodisti di Memphis, Tennessee, una discussione
su Tom Paine, Marx, Lenin e Bucharin.
(ivi, p. 1022)

Pound, come Bunting ed Eliot, occultava la sua appropriazione


modernista di testi stranieri dietro la richiesta di autonomia cultu-
rale per la traduzione. Egli concludeva il saggio del 1929,
Rapporti di Guido, facendo una breve distinzione tra una «tradu-
zione interpretativa», approntata come «accompagnamento» al

249
testo straniero, e «l’altro “genere”» di traduzione, che possiede
un’indipendenza estetica:

L’altro «genere», e cioè il caso in cui il «traduttore» vuole deci-


samente creare una nuova poesia, appartiene senz’altro al
dominio della creazione originale, e, se tale originalità non rag-
giunge, deve essere giudicao sulla scorta di identici criteri, e
lodato con una certa giusta deduzione che può definirsi solo di
volta in volta secondo il caso specifico.
(ivi, p. 1097)

Pound tracciò questa distinzione pubblicando le sue traduzioni.


Come ha osservato David Anderson, la raccolta del 1920, Umbra:
Prime poesie di Ezra Pound, si concludeva con le “Linee generali
delle opere di E.P. fino a oggi”, in cui Pound classificava Il noc-
chiero, Lettera dell’esiliato (e Catai in generale) e Omaggio a
Sesto Properzio come “Major Personae”, mentre le versioni da
Cavalcanti e da poeti provenzali, fra cui Arnaut Daniel, le chiama-
va “Études”, saggi sui testi stranieri (Anderson 1983, pp. XVIII-
XIX). Pound le considerava tutte sue “poesie”, ma impiegò il tito-
lo “Major Personae” per selezionare delle traduzioni che meritava-
no di essere giudicate secondo gli stessi criteri della sua «scrittura
originale». L’appello a questi (mai citati) criteri significa certa-
mente che le traduzioni di Pound mettono i testi stranieri al servi-
zio della poetica modernista, come risulta evidente, per esempio,
nell’impiego del verso libero e di un linguaggio esatto, ma anche
nella scelta di testi stranieri che potrebbero dare forma a una «per-
sona», a una voce indipendente o a una maschera del poeta. È pos-
sibile comprendere da questo che i valori delle traduzioni autono-
me di Pound inseriti nei testi stranieri includevano non solo una
poetica modernista, ma anche un individualismo al tempo stesso
romantico e patriarcale. Egli definiva la traduzione come una
«nuova poesia» nei termini individualistici della teoria espressiva
romantica («l’espressione del traduttore»). E ciò che riceveva
espressione in traduzioni quali Il nocchiero e La moglie del mer-
cante fluviale: una lettera era la psicologia di un maschio aggres-
sivo o di una donna sottomessa in un mondo dominato da uomini.
La teoria e la pratica di traduzione di Pound erano tuttavia
abbastanza varie da qualificare e indirizzare nuovamente la sua

250
appropriazione modernista di testi stranieri, spesso secondo moda-
lità contraddittorie. L’idea di «traduzione interpretativa» o «tradu-
zione di accompagnamento» dimostra che il suo ideale di autono-
mia culturale coincideva con un tipo di traduzione che manifestava
esplicitamente la propria dipendenza dai valori nazionali, non solo
per creare una differenza culturale all’interno della nazione, ma
anche per segnalare la differenza del testo straniero. Nell’intro-
duzione alla sua traduzione Sonetti e Ballate di Guido Cavalcanti
(1912), Pound ammetteva che «in fatto di queste traduzioni e della
mia conoscenza della poesia toscana, Rossetti mi è padre e madre,
ma nessuno può vedere tutto in una volta » (Pound 1977, p. 1015).
Pound considerò le versioni di Dante Gabriel Rossetti come la
fonte di un lessico arcaico che egli sviluppò per attribuire signifi-
cato al diverso linguaggio e contesto culturale della poesia di
Cavalcanti:

È concepibile che la poesia antica o esotica necessiti di una tra-


duzione non solo della parola e dello spirito, ma di un «accom-
pagnamento», cioè che il pubblico moderno debba in un certo
senso essere informato dello stato mentale del pubblico antico e
di ciò che per esso significavano certe mode di pensiero e di
espressione. Sei secoli di consuetudini derivative e di applica-
zione generica hanno oscurato il significato esatto di frasi
come: «La morte del cuore», e «L’anima dipartita».
(ivi, p. 1012)

La traduzione di accompagnamento richiedeva una pubblica-


zione bilingue. Questa avrebbe attribuito significato alla differenza
culturale del testo straniero tramite la deviazione dall’uso dell’in-
glese corrente e quindi tramite l’invio del lettore all’altra pagina
per confrontare la lingua straniera. «Quanto alle atrocità della mia
traduzione», scriveva Pound in Cavalcanti, «tutto ciò che posso
dire come scusa è che esse sono per la maggior parte, spero, inten-
zionali, e commesse allo scopo di guidare la percezione del lettore
entro l’originale, più profondamente di quanto non avrebbe potuto
fare senza tali atrocità» (ivi, p. 1054). In un “Postscript” del 1927
alle sue numerose edizioni delle poesie di Cavalcanti, Pound criti-
cava la propria strategia arcaizzante, ma sentiva allo stesso tempo
che questa necessitava di un ulteriore perfezionamento, non di un

251
abbandono, al fine di suggerire le differenze generiche dei testi ita-
liani: «Il traduttore potrebbe, con profitto, aver accentuato le diffe-
renze e aver impiegato per le poesie d’occasione un linguaggio più
leggero, più browninghiano e meno pesantemente swinburniano»
(Anderson 1983, p. 5). Un paio d’anni più tardi, in Rapporti di
Guido, Pound condannò inaspettatamente il suo precedente impie-
go dell’arcaismo, affermando: «Ciò che mi confuse fu il linguag-
gio vittoriano, [...] non fu l’italiano ma la scorza di linguaggio
inglese morto, il sedimento presente nel vocabolario di cui dispo-
nevo» (Pound 1977, pp. 1085-1086). Ma ancora una volta non si
decise ad abbandonarlo. Al contrario, la sua idea era che il discor-
so della traduzione in lingua inglese dovesse essere quanto più
possibile eterogeneo: «Si può solo imparare una serie di diversi
linguaggi inglesi», insisteva, e dunque «è stupido trascurare le
invenzioni linguistiche degli autori che ci hanno preceduti, anche
quando essi siano degli sciocchi o degli speciosi o dei Tennyson»
(ibidem). Quando, in questo saggio del 1929, Pound offriva la sua
traduzione di Cavalcanti come esempio, definiva il suo discorso un
«inglese pre-elisabettiano» (ivi, p. 1095).
Le traduzioni interpretative di Pound rivelano una crescente
eterogeneità, in particolare a partire dalle revisioni che ne fece per
vari decenni. Il suo debito nei confronti di Rossetti venne annun-
ciato presto, ne Lo spirito romanzo (1919), in cui citava spesso e
con ammirazione le versioni degli stilnovisti a opera del poeta vit-
toriano. Nelle sue prime versioni delle poesie di Cavalcanti a volte
Pound echeggiava quelle di Rossetti. L’evocazione di Cavalcanti
della donna angelicata,

Chi è questa che vien, ch’ogni uom la mira,


Che fa di clarità l’aer tremare!
E mena seco Amor, sì che parlare
Null’uom ne puote, ma ciascun sospira?
Ahi Dio, che sembra quando gli occhi gira!
Dicalo Amor, ch’io nol saprei contare;
Cotanto d’umiltà donna mi pare,
Che ciascun’altra in ver di lei chiam’ira,
Non si potria contar la sua piacenza,
Ch’a lei s’inchina ogni gentil virtute,
E la beltate per sue Dea la mostra,

252
Non fu sì alta gia la mente nostra,
E non si è posta in noi tanta salute,
Che propriamente n’abbiam conoscenza.

venne tradotta scorrevolmente da Rossetti, il quale fece ricorso


a un arcaismo relativamente discreto per la forma in versi (un
sonetto italianizzato) e per lo stile («thereon», «benison», «ne’er»),
relativamente discreto, vale a dire, nel contesto della poesia vitto-
riana:

Who is she coming, whom all gaze upon,


Who makes the air all tremolous with light,
And at whose side is Love himself? that none
Dare speak, but each man’s sighs are infinite.
Ah me! how she looks round from left to right,
Let Love discourse: I may not speak thereon.
Lady she seems of such high benison
As makes all others graceless in men’s sight.
The honour which is hers cannot be said;
To whom are subjects all things virtuous,
While all things beauteous own her deity.
Ne’er was the mind of man so nobly led,
Nor yet was such redemption granted us
That we should ever know her perfectly.
(Rossetti 1981, p. 223)

Alcune delle deviazioni di Rossetti dall’italiano migliorano la


scorrevolezza della traduzione semplificando la sintassi. «At
whose side is Love himself», per esempio, è una resa libera di
«mena seco Amor», che si legge molto più agevolmente di una
versione più letterale quale «she leads Love with herself». Rossetti
aggiunge anche sfumature differenti all’idealizzazione della donna
fatta da Cavalcanti, rendendola più morale o spirituale, perfino
teologica, impiegando «benison» per «umiltà», «honour» per «pia-
cenza» e «redemption» per «salute». La versione di Pound del
1910 citava quella di Rossetti ma aderiva più strettamente al testo
italiano e aumentava notevolmente gli arcaismi. Rispetto alla ver-
sione di Rossetti, inoltre, quella di Pound offriva un’immagine più
umana della donna facendo riferimento alla sua «modesty» e

253
«charm», oltre alla sua capacità di suscitare l’attenzione dell’élite
aristocratica («noble powers»). All’amante viene inoltre attribuito
un «daring», un’audacia cavalleresca che «ne’er before did look so
high», mai prima guardò tanto in alto, spiritualmente o socialmen-
te:

Who is she coming, whom all gaze upon,


Who makes the whole air tremolous with light,
And leadeth with her Love, so no man hath
Power of speech, but each one sigheth?
Ah God! the thing she’s like when her eyes turn,
Let Amor tell! ’Tis past my utterance:
And so she seems mistress of modesty
That every other woman is named “Wrath.”
Her charm could never be a thing to tell
For all the noble powers lean towards her.
Beauty displays her for an holy sign.
Our daring ne’er before did look so high;
But ye! there is not in you so much grace
That we can understand her rightfully.
(Anderson 1983, p. 43)

La versione che Pound pubblicò nella raccolta del 1912, Sonetti


e Ballate, costituiva una sostanziale revisione, ma non alterava la
sua fondamentale strategia arcaizzante:

Who is she coming, drawing all men’s gaze,


Who makes the air one trembling clarity
Till none can speak but each sighs piteously
Where she leads Love adown her trodden ways?

Ah God! The thing she’s like when her glance strays,


Let Amor tell! ’Tis no fit speech for me.
Mistress she seems of such great modesty
That every other woman were called “Wrath.”

No one could ever tell the charm she hath


For all the noble powers bend toward her,
She being beauty’s godhead manifest.

254
Our daring ne’er before held such high quest;
But ye! There is not in you so much grace
that we can understand her rightfully.
(ivi, p. 45)

Pound mantenne alcuni dei prestiti da Rossetti e utilizzò altre


forme arcaiche («adown», «godhead», «quest»), che introduceva-
no un medievalismo romantico venato di misoginia. L’apertura
caratterizzava la dama come una «belle dame sans merci» keatsia-
na, riferendosi alla sua capacità di sfruttare la propria bellezza
maestosa («drawing all men’s gaze») per vittimizzare i suoi nume-
rosi ammiratori («each sighs piteously») con una certa frequenza
(«adown her trodden ways»). Era addirittura presente un accenno
di imperfezione morale, un potenziale di infedeltà («her glance
strays»).
Nel 1932 Pound pubblicò Guido Cavalcanti Rime, edizione cri-
tica dei testi italiani unita ad alcune traduzioni, tra cui una versione
finale di questo sonetto nella quale l’arcaismo veniva portato all’e-
stremo, come risulta evidente non solo dalla scelta lessicale di
Pound, dalla sintassi e dall’ortografia, ma anche dal neologismo
pseudo-arcaico («herward»). La dama venne sottoposta a un’altra
metamorfosi, facendosi questa volta immagine mistica «che confi-
na con il visibile» :

Who is she that comes, makying turn every man’s eye


And makying the air to tremble with a bright clearnesse
That leadeth with her Love, in such nearness
No man may proffer of speech more than a sigh?

Ah God, what she is like when her owne eye turneth, is


Fit for Amor to speake, for I can not at all;
Such is her modesty, I would call
Every woman else but an useless uneasiness.

No one could ever tell all of her pleasauntness


In that every high noble vertu leaneth to herward,
So Beauty sheweth her forth as her Godhede;

Never before was our mind so high led,

255
Nor have we so much of heal as will afford
That our thought may take her immediate in its embrace.
(Anderson 1983, p. 46)

La donna viene ritratta come percepibile dai sensi ma inaccessi-


bile nella sua spiritualità, un’Idea neo-platonica che supera anche
«l’abbraccio» quasi fisico del «pensiero» umano. Questa rappre-
sentazione mette senza dubbio in rilievo un tema centrale dello
stilnovismo, ma è anche riconoscibile come lettura modernista di
quella poesia medievale che Pound celebrava: «Il concetto del
corpo come perfetto strumento dell’intelletto sempre più vigoroso»
(Pound 1977, p. 1026); «il tema centrale dei trovatori è il dogma
che vi sia una qualche proporzione fra la cosa bella che l’animo
tiene in sé e la cosa inferiore pronta per l’uso immediato» (ivi, p.
1025). Nello stesso modo in cui Eliot, in Philip Massinger (1920),
poneva la «sensibilità» unica nella cultura letteraria inglese prece-
dente al tardo XVII secolo, «periodo in cui l’intelletto si trovava in
cima ai sensi» (Eliot 1950, p. 185), Pound scoprì un’«armonia del
senziente» in Cavalcanti, «in cui il pensiero ha la sua demarcazio-
ne, la sostanza la propria virtù, in cui degli uomini stupidi non
hanno ridotto ogni “energia” ad un’astrazione senza limiti e senza
distinzione» (Pound 1977, p. 1030).
A livello tematico, le traduzioni di Pound inserivano nei testi di
Cavalcanti valori diversi da quelli di Rossetti in quanto sia moder-
nisti che patriarcali, e in particolare nella rappresentazione della
dama, trasformata dalle sue revisioni da «cosa inferiore pronta per
l’uso immediato» a «la cosa bella che l’animo tiene in sé». Ma le
versioni successive di Pound investigavao anche il loro rapporto
con i testi italiani e le traduzioni di Rossetti, mostrando come l’i-
dealizzazione della donna da parte degli stilnovisti e dei preraffae-
liti presupponesse una degradazione femminile, il sospetto misogi-
no che il valore della dama fosse «inferiore», dipendente dall’im-
maginazione maschile. Nel forgiare la propria immagine di poeta
traduttore, Pound era in competizione con due «padri» poetici,
Cavalcanti e Rossetti, e questa competizione edipica si manifestò
nella revisione dell’immagine della donna.
A livello del discorso, tuttavia, le traduzioni di Pound non
difendono facilmente il concetto positivista di linguaggio nelle sue
letture moderniste. Il denso arcaismo produce a malapena l’effetto

256
illusionistico della trasparenza che egli apprezzava negli stilnovi-
sti, ciò che egli descriveva estaticamente come l’invisibilità virtua-
le della forma letteraria, «il vetro sott’acqua» (Pound 1977, p.
1029). Le peculiarità del testo arcaico di Pound frustrano ogni illu-
sionismo richiamando l’attenzione sul linguaggio come inglese
specifico, discorso poetico legato a un particolare momento storico
che non è né quello di Pound né quello di Cavalcanti o di Rossetti.
La versione finale del sonetto Who is she that comes corrisponde
al testo citato da Pound in Rapporti di Guido per illustrare il modo
in cui l’inglese «pre-elisabettiano» poteva essere usato per tradurre
Cavalcanti. Il fondamento logico di Pound a questo discorso era
tipicamente modernista: descriveva quello pre-elisabettiano come
«un periodo in cui gli scrittori erano ancora intenti ad esprimersi
chiaramente ed esplicitamente, e ancora preferivano queste qualità
alla magniloquenza e alla frase tonante» (ivi, p. 1095). Ma Pound
sapeva anche che la sua strategia arcaizzante non si risolveva tanto
in chiarezza e precisione quanto in un senso di stranezza o estra-
neità:

Le obiezioni a questo metodo sono: il dubbio sul diritto di pren-


dere una poesia seria e tramutarla in un mero esercizio di biz-
zarria; l’inesatta rappresentazione non dell’antichità della poe-
sia, ma del senso relativo di questa antichità, col che intendo
che il linguaggio dugentesco di Guido è per la sensibilità italia-
na del Novecento assai meno arcaico di quanto non sia per noi
un linguaggio inglese del Trecento, del Quattrocento o del
primo Cinquecento.
(ivi, p. 1096)

L’arcaismo non conseguì affatto una fedeltà maggiore ai testi


italiani, né stabilì un’analogia tra due culture del passato, l’italiana
e l’inglese. Nonostante le dichiarazioni moderniste di Pound, l’ar-
caismo non era in grado di sconfiggere «sei secoli di consuetudini
derivative e di applicazione generica» per comunicare «il signifi-
cato esatto di certe frasi come “La morte del cuore” e “L’anima
dipartita”» (ivi, p. 1012), perché indicava una diversa cultura lette-
raria in una lingua diversa in un diverso momento storico.
L’inglese pre-elisabettiano di Pound non poteva far altro che attri-
buire un significato alla lontananza dalla poesia di Cavalcanti,

257
insieme all’impossibilità di trovare un equivalente linguistico e let-
terario esatto. L’arcaismo permetteva ciò solo perché si allontana-
va radicalmente dalle norme culturali che prevalevano nell’inglese
dell’epoca. Questo risulta forse ancora più evidente nella prosodia
arcaica di Pound: come ha osservato Anderson, egli desiderava
«liberare la cadenza delle sue versioni inglesi dal pentametro
giambico elisabettiano e post-elisabettiano» che rappresentava,
ancora agli inizi del XX secolo, il modello del verso inglese
(Anderson 1982, p. 13; Easthope 1983).
I commenti di Pound alle sue versioni di Arnaut Daniel rivela-
rono l’acuta consapevolezza che le norme culturali correnti limita-
vano il suo lavoro di traduttore. Queste erano le sue traduzioni più
sperimentali, testi nei quali sviluppava i discorsi più eterogenei.
Come le successive traduzioni da Cavalcanti, queste mescolavano
varie forme arcaiche, principalmente di un «medievalismo pre-raf-
faelita»2 e dell’inglese pre-elisabettiano, attinto soprattutto dalla
versione dell’Eneide del 1531 di Gavin Douglas, ma anche dai
primi poeti Tudor come Sir Thomas Wyatt (McDougal 1972, p.
114; Anderson 1982, p. 13). C’erano inoltre tracce occasionali
dello stile colloquiale americano del XX secolo e di espressioni
tratte da lingue straniere, in particolare dal francese e dal proven-
zale. I brani che seguono sono estrapolati dalle traduzioni che
Pound pubblicò nel saggio Arnaut Daniel (1920):

When I see leaf, and flower and fruit


Come forth upon light lynd and bough,
And hear the frogs in rillet bruit,
And birds quhitter in forest now,
Love inkirlie doth leaf and flower and bear,
And trick my night from me, and stealing waste it,
Whilst other wight in rest and sleep sojourneth.
(Pound 1953, p. 177)

So clear the flare


That first lit me
To seize

2 Nota di Pound a “Rossetti: poeti italiani”, in L’abc del leggere, Pound


1969, p. 133.

258
Her whom my soul believes;
If cad
Sneaks,
Blabs, slanders, my joy
Counts little fee
Baits
And their hates.
I scorn their perk
And preen, at ease.
Disburse
Can she, and wake
Such firm delights, that I
Am hers, froth, lees
Bigod! from toe to earring.
(ivi, pp. 161 e 163)

Flimsy another’s joy, false and distort,


No paregale that she springs not above. [...]
Her love-touch by none other mensurate.
To have it not? Alas! Though the pains bite
Deep, torture is but galzeardy and dance,
For in my thought my lust hath touched his aim.
God! Shall I get no more! No fact to best it!
(ivi, pp. 179 e 181)

Pound considerava questi testi come traduzioni interpretative


che mettevano in risalto le elaborate stanze dei testi provenzali,
mimandone i ritmi e gli effetti sonori, ma era anche consapevole
che in questo modo le sue traduzioni si opponevano ai valori lette-
rari predominanti nelle lingue moderne europee come l’inglese e il
francese. Nel saggio su Daniel si scusava delle sue deviazioni:

come attenuante per il linguaggio dei miei versi vorrei far nota-
re che i Provenzali non erano raffrenati dalla coscienza estetica
moderna. I loro freni erano il motivo musicale e lo schema
delle rime, essi non erano frenati dal bisogno di certe qualità
formali senza le quali nessuna poesia moderna è completa o
soddisfacente. Essi non avevano da competere con la prosa di
Maupassant. (Pound 1973, p. 132)

259
La citazione di Maupassant indica che le traduzioni di Pound
erano in grado di dare significato alla differenza della prosodia
musicale di Daniel solo sfidando il discorso trasparente che domi-
nava «la coscienza estetica moderna» e, in modo particolarmente
rilevante, la narrativa realistica. Per mimare una forma di versifi-
cazione arcaica Pound sviluppò un’eterogeneità discorsiva che
rifiutava la scorrevolezza privilegiando il significante sul significa-
to, e rischiando non solo di diventare anti-idiomatico, ma anche
inintelligibile. In una lettera del 1922 a Felix Schelling, professore
dell’università della Pennsylvania che gli insegnava la letteratura
inglese e che recensì sfavorevolmente le sue traduzioni di Daniel,
Pound citava la distanza culturale della poesia trobadorica come
«la ragione per l’idioma arcaico» : «il sentimento provenzale è
arcaico, noi ne siamo lontani epoche intere» (Pound 1950, p. 179).
E Pound misurò tale distanza con il metro dei valori contempora-
nei della lingua inglese:

Ho dimostrato che gli schemi delle rime provenzali non sono


impossibili in inglese. Probabilmente sono sconsigliabili. Il tro-
vatore non era turbato dal nostro stesso senso dello stile, dai
nostri «valori letterari» e, di conseguenza, poteva buttar dentro
quantità di parole nell’ordine che preferiva. [...] Il trovatore, per
fortuna forse, non si preoccupava dell’ordine inglese; egli otte-
neva taluni effetti musicali perché poteva concentrarsi sulla
musica senza curarsi dei valori letterari. Era in possesso di un
tipo di libertà che non abbiamo più.
(ibidem)

Le traduzioni di Pound mettevano in risalto l’alterità del testo


straniero non perché fossero fedeli o accurate – egli stesso ammi-
se: «Se sono riuscito a indicare alcune delle qualità [della musica]
ho anche dovuto rinunciare [alla poesia]» (Pound 1973, p. 132) –
ma perché deviavano dai canoni letterari nazionali della lingua
inglese.
Le sue prime versioni delle poesie di Cavalcanti apparvero in
effetti estranee ai suoi contemporanei. In una recensione di Sonetti
e Ballate apparsa sul periodico inglese Poetry Review (1912), il
professore di italiano Arundel Del Re trovava la traduzione imper-
fetta e non completamente comprensibile, incluso il titolo bilingue:

260
«La traduzione di “Sonnets and Ballate” – perché non Sonetti e
Ballate o Sonnets and Ballads? – ci mostra l’autore nell’ardente
tentativo di ottenere quell’idea vitale di cui qualcuno a volte affer-
ra un barlume nel disordine e nel pasticcio generali» (Homberger
1972, p. 88). Tuttavia Del Re riconosceva l’effetto storicizzante
dell’arcaismo di Pound, citando, per descriverlo, espressioni dal-
l’introduzione che lo stesso Pound aveva scritto: «Nonostante i
difetti quasi schiaccianti questo rappresenta un tentativo sincero,
anche se scalcagnato, di tradurre in inglese “l’accompagnamento”
e “lo stato mentale di ciò che i contemporanei di Guido Cavalcanti
ricavarono da certe mode di pensiero e di espressione”» (ibidem).
Nella recensione di John Bailey per il Times Literary Supplement ,
l’«alterità» della traduzione di Pound aveva luogo fin dalla scelta
del testo straniero: egli sentiva che «sebbene non appartenesse
all’alto ordine universale», la poesia di Cavalcanti possedeva il
«fascino particolare» di «una fuga da tutto ciò che è contempora-
neo o attuale nel[l’] hortus conclusus dell’arte» (Homberger 1972,
p. 88). Ma Bailey trovava spiacevolmente curioso che la traduzio-
ne di Pound, a confronto con quella di Rossetti, mancasse total-
mente di scorrevolezza:

A volte è goffo, spesso oscuro, e non possiede un delicato tocco


linguistico, dal momento che impiega parole ed espressioni
quali «Ballatet», «ridded», «to whomso runs», e altre ancora di
dubbia o infelice formazione. Una colpa ancora più seria risie-
de nel fatto che egli assolve se stesso di frequente e completa-
mente dal dovere della rima e, ammesso che un sonetto inglese
in blank verse sia mai stato sopportabile, non lo sarebbe qualo-
ra fingesse di rappresentare un originale italiano.
(ivi, p. 91)

Bailey lodava Rossetti per aver «preservato» in misura «mag-


giore la rima e il movimento originali» (ivi, p. 92); la sua idea
della traduzione scorrevole non consisteva esattamente nel signifi-
cato univoco, nell’arcaismo riconoscibile e nella dolcezza prosodi-
ca, ma in un discorso poetico vittoriano e in un medievalismo pre-
raffaelita, per citare solo una delle forme arcaiche presenti nelle
traduzioni di Pound. Il fatto che Pound stesse violando una norma
culturale egemonica è evidente all’inizio della recensione di

261
Bailey, quando egli si mostra d’accordo con Matthew Arnold affer-
mando di parlare per «ogni uomo di stato ricco, dotato di senso
civico e dai gusti intellettuali contemporanei» (ivi, p. 89).
Gli altri commentatori apprezzavano maggiormente il lavoro di
Pound come traduttore, ma le loro valutazioni variavano a seconda
dei mutevoli fondamenti logici cui facevano riferimento. In un
articolo del 1920 per la North American Review, May Sinclair,
romanziera inglese amica di Pound, pubblicava una critica favore-
vole delle sue pubblicazioni uscite fino a quel momento. Seguendo
l’idea di Pound della distanza culturale della poesia provenzale,
Sinclair sosteneva che l’arcaismo segnalava nelle sue traduzioni
l’assenza di qualsiasi autentica equivalenza nell’inglese moderno:

Con ogni mezzo possibile – l’impiego di parole strane quali


«gentrice» e «plasmatour» – [Pound] obbliga [la poesia proven-
zale] a tornare indietro di sette secoli. E ciò affinché suoni
quanto più diversa possibile dal discorso moderno, dal momen-
to che appartiene a un mondo che per la natura stessa delle sue
convenzioni è inconcepibilmente remoto, inconcepibilmente
differente dal nostro, un mondo che non possiamo più ricostrui-
re nella sua realtà.
(Homberger 1972, p. 183)

Nella recensione del 1932 a Guido Cavalcanti Rime pubblicata


su Hound & Horn, A. Hyatt Mayor seguiva la lettura modernista di
Pound dei testi italiani, il suo senso positivista del linguaggio esat-
to, non riuscendo per questo a percepire l’alterità dell’arcaismo,
ma elogiando invece le traduzioni per aver stabilito un’equivalen-
za autentica alla «freschezza» dell’italiano:

Il linguaggio bizzarro non è un pastiche di sonetti pre-shake-


speariani, o un tentativo di far parlare a Cavalcanti l’elisabettia-
no nello stesso modo in cui Andrew Lang cercò di far parlare
Omero come Re James. Ezra Pound è nell’atto di eguagliare la
prima freschezza di Cavalcanti con una sfumatura tratta dalla
prima freschezza della poesia inglese.
(Mayor 1932, p. 471)

Sinclair affermò che le traduzioni di Pound erano interpretative

262
per il loro impiego dell’arcaismo, usato per indicare la distanza
storica del testo straniero, mentre Mayor interpretò le traduzioni
come opere letterarie indipendenti che potevano essere giudicate a
confronto con altre nel presente o nel passato, e il cui valore, di
conseguenza, era senza tempo. «L’inglese mi sembra tanto raffina-
to quanto l’italiano» scrisse «e, in effetti, il verso Who were like
nothing save her shadow cast è più finemente definito del verso
Ma simigliavan sol la sua ombria» (ivi, p. 470).
La teoria e la pratica della traduzione interpretativa di Pound
rovesciano le priorità stabilite da critici modernisti della traduzio-
ne quali Mayor, Bunting, Eliot e lo stesso Pound. La traduzione
interpretativa contraddice l’ideale dell’autonomia indicando le
varie condizioni del testo tradotto, straniere o nazionali che siano,
e chiarendo in tal modo che la traduzione può creare una differen-
za culturale nel proprio paese solo attribuendo significato alla dif-
ferenza del testo straniero. L’eterogeneità discorsiva delle tradu-
zioni interpretative di Pound, in particolare l’impiego dell’arcai-
smo, era sia un’innovazione della poetica modernista che una
deviazione dai correnti valori letterari e linguistici, abbastanza evi-
dente da risultare estranea. Pound dimostra che nella traduzione
l’alterità del testo straniero è accessibile soltanto tramite le forme
culturali già in circolazione nella lingua d’arrivo, alcune delle
quali in possesso di un bagaglio culturale maggiore di altre. Nella
traduzione l’alterità del testo straniero può essere costituita esclusi-
vamente da ciò che appare come “straniero” nella cultura della lin-
gua d’arrivo, in relazione ai valori nazionali predominanti, e dun-
que solo in qualità di valori marginali a diversi livelli: o perché
residui, sopravvivenze di forme culturali precedenti nella lingua
d’arrivo; o perché appena emergenti, trasformazioni di forme pre-
cedenti riconoscibili come diverse; oppure perché specializzati e
non standard, forme legate a gruppi specifici caratterizzati da livel-
li mutevoli di potere sociale e di prestigio. Il testo straniero può
essere solo uno sconvolgimento della gerarchia di valori corrente
nella cultura della lingua d’arrivo, un estraniamento da essi che
cerca di determinare una differenza culturale attingendo da ciò che
è marginale. La traduzione, dunque, coinvolge sempre un processo
di addomesticamento, uno scambio di intelligibilità fra la lingua di
partenza e le lingue d’arrivo. Ma addomesticamento non vuol dire
necessariamente assimilazione, ossia una riduzione conservativa

263
del testo straniero ai valori nazionali predominanti. Può anche
voler dire resistenza, attraverso un recupero del residuo o un’affi-
liazione all’emergente o all’emarginato: scegliendo di tradurre, per
esempio, un testo straniero escluso dai metodi prevalenti della tra-
duzione inglese o dal canone corrente della letteratura straniera in
inglese, con la conseguenza di rendere necessarie una revisione
metodologica e una riforma del canone.
L’aspetto più rilevante della traduzione modernista, anche se
nelle sue affermazioni teoriche insiste sull’autonomia del testo tra-
dotto, consiste tuttavia nell’effetto tramite il quale ha condotto allo
sviluppo di pratiche che attingevano a un’ampia serie di discorsi
nazionali e che recuperavano a più riprese quelli esclusi e marginali
per sfidare quello predominante. Le traduzioni di Pound non inclu-
devano il discorso trasparente che esercitava il suo predominio
sulla traduzione in lingua inglese dal XVII secolo. Invece di tradur-
re scorrevolmente, mettendo in primo piano il significato e mini-
mizzando qualsiasi ruolo del significante che impedisse la comuni-
cazione – perseguendo una sintassi lineare, il significato univoco,
l’uso attuale, i linguaggi standard, la scorrevolezza prosodica –
Pound incrementò il gioco del significante, coltivando una sintassi
invertita o contorta, la polisemia, l’arcaismo, i linguaggi non stan-
dard, forme metriche elaborate ed effetti sonori: tutte caratteristiche
testuali che frustrano l’intelligibilità immediata, la risposta empati-
ca, la supremazia dell’interpretazione. In questo modo Pound rivol-
geva l’attenzione al problema della traduzione addomesticante che
nuoceva, fra l’altro, non solo alla sua pretesa di autonomia cultura-
le, ma anche al discorso trasparente predominante nella traduzione
di lingua inglese. La trasparenza contrassegna il testo straniero con
i valori dominanti inglesi (come la trasparenza stessa) e occulta
contemporaneamente tale addomesticamento dietro l’illusione che
il testo tradotto non sia una traduzione ma “l’originale”, che rifletta
la personalità e l’intenzione dell’autore straniero o il significato
essenziale del testo originale; la traduzione modernista, al contrario,
deviando dalla trasparenza e contrassegnando il testo straniero con
valori inglesi marginali, dà luogo a un movimento estraniante che
indica le differenze linguistiche e culturali tra i due testi (ammetten-
do, naturalmente, che alcuni dei valori contrassegnati da modernisti
come Pound non sono né marginali né particolarmente democratici
come, ad esempio, il patriarcato).

264
Questa idea di traduzione non venne teorizzata in maniera coe-
rente dal modernismo, ma venne piuttosto resa possibile dalle stes-
se teorie e pratiche di traduzione del modernismo. Non la trovere-
mo presente nei critici del modernismo, modernisti quali Bunting,
Eliot o Hugh Kenner, perché questi accettavano la pretesa autono-
mia culturale per il testo tradotto. «Ezra Pound non traduce mai
“in” qualcosa di preesistente in inglese – scrisse Kenner – e soltan-
to lui ha avuto sia l’audacia che le risorse per creare una forma
nuova, dall’effetto simile a quello dell’originale» (Pound 1953, p.
9). Possiamo tuttavia affermare oggi che una traduzione non è in
grado di produrre un effetto equivalente a quello del testo straniero
perché la traduzione è un addomesticamento, è l’iscrizione di valori
culturali che variano profondamente da quelli della lingua di par-
tenza. Gli effetti di Pound erano indirizzati solamente alla cultura di
lingua inglese, per questo egli tradusse sempre in forme culturali
inglesi preesistenti : modelli anglosassoni di accentuazione e allitte-
razione, inglese pre-elisabettiano, medievalismo preraffaelita, esat-
tezza modernista, tipologia colloquiale americana. Il fatto che
Pound si affidasse a forme preesistenti annulla la sua distinzione tra
due tipi di traduzione: sia le traduzioni interpretative che le tradu-
zioni intese come nuove poesie ricorrono alle innovazioni della
poetica modernista, dunque di entrambe si può dire che offrono
«una fotografia, quanto più possibile esatta, di un solo fianco della
statua» (Anderson 1983, p. 5), il lato selezionato e inquadrato dal
modernismo di lingua inglese. L’eterogeneità discorsiva creata da
Pound, se ha mostrato ai modernisti i testi tradotti come “nuovi”,
era anche una tecnica che segnalava la loro differenza, sia dai valori
inglesi predominanti sia da quelli che modellavano il testo stranie-
ro. Il modernismo ha reso possibile un’idea di traduzione postmo-
dernista che presume l’impossibilità di qualsiasi valore culturale
autonomo e considera quello straniero come irrimediabilmente
mediato ma anche strategicamente utile, una categoria culturalmen-
te variabile che deve essere ricostruita per guidare l’intervento del
traduttore nella scena attuale della lingua d’arrivo.

II
All’inizio degli anni Cinquanta la traduzione modernista era

265
stata ampiamente accettata nella cultura letteraria angloamericana,
ma soltanto in parte, vale a dire per quanto riguardava la rivendica-
zione dell’autonomia culturale del testo tradotto e le scelte formali
– il verso libero e il linguaggio esatto corrente – che erano ormai
sufficientemente familiari da assicurare un addomesticamento del
testo straniero. Le innovazioni più decisive del modernismo ispira-
rono pochi traduttori, senza dubbio perché traduzioni, saggi e
recensioni che contenevano queste innovazioni erano di difficile
reperibilità, disponibili soltanto su periodici poco noti ed edizioni
rare a tiratura limitata, ma anche perché si opponevano alle strate-
gie scorrevoli che continuavano a dominare la traduzione poetica
inglese. Il primo segno di tale marginalizzazione fu la ricezione
dell’edizione antologica delle traduzioni di Pound pubblicata dal-
l’editore americano New Directions nel 1953. Questo volume
offriva sostanzialmente una retrospettiva, ristampando le versioni
più recenti di Cavalcanti e di Daniel in formato bilingue, insieme a
Il nocchiero, Catai, drammi di teatro Nô, un testo in prosa di
Rémy de Gourmont e una miscellanea di traduzioni di poesia lati-
na, provenzale, italiana e francese.
Al momento della pubblicazione Pound rappresentava una figu-
ra estremamente controversa (Stock 1982, pp. 423-424, 426-427;
Homberger 1972, pp. 24-27). Le sue trasmissioni radiofoniche in
tempo di guerra, al tempo del governo di Mussolini, fecero sì che
venisse processato per tradimento negli Stati Uniti e infine inviato
a Washington, presso il St. Elizabeth’s Hospital per criminali mala-
ti di mente (1946). Ma venne anche riconosciuto come uno dei
principali poeti americani contemporanei con l’attribuzione del
premio Bollingen per i Canti pisani (1948), un evento che suscitò
attacchi feroci e dibattiti su quotidiani e riviste, fra cui il New York
Times, la Partisan Review e il Saturday Review of Literature. In
tale clima culturale era inevitabile non solo che le traduzioni
venissero ampiamente recensite, ma che provocassero una serie di
repliche conflittuali. Taluni riconobbero la natura innovativa del-
l’opera di Pound, anche se erano incerti riguardo al suo valore;
altri la liquidarono come esperimento fallito e ormai superato,
privo di potere culturale.
I giudizi favorevoli giunsero, ancora una volta, da recensori che
condividevano il programma culturale modernista. In Inghilterra,
la Poetry Review elogiò la «versificazione esperta» delle versioni

266
di Daniel, analizzando la loro eterogeneità discorsiva con quella
stessa modalità elitaria cui Pound dava voce, a volte, nelle sue
celebrazioni della poesia antica: «Si dice che Arnaut fosse delibe-
ratamente oscuro, affinché le sue canzoni non potessero essere
comprese dal volgo. Piuttosto moderno» (Graham 1953, p. 472)3.
Negli Stati Uniti la recensione di John Edwards per Poetry si basa-
va sul presupposto fondamentale della sua tesi di dottorato su
Pound discussa all’università di Berkeley – vale a dire che questi
fosse uno scrittore americano canonico – e di conseguenza la
recensione sottolineava la necessità che le traduzioni ricevessero
un migliore trattamento editoriale rispetto a quello ottenuto con
New Directions (Edwards 1954, p. 238). La simpatia di Edwards
per il modernismo si rivelava nella sua citazione implicita, tratta
dall’introduzione di Kenner alle traduzioni (che rappresentano,
affermava, «un’estensione delle possibilità del discorso poetico nel
nostro linguaggio»; ivi, p. 238), ma anche in una straordinaria
descrizione delle versioni di Cavalcanti del tutto insensibile al loro
denso arcaismo:

È sufficiente leggere solamente il sonetto XVI di Cavalcanti


nella versione di Rossetti (Early Italian Poets), quindi nella
prima versione di Pound (Sonnets and Ballate of Guido
Cavalcanti, 1912) e infine nella traduzione di Pound del 1931
qui pubblicata, per vedere la crosta che cade e il verso che cre-
sce pulito e fermo, trasportando l’originale nell’inglese, non
solo le parole ma la poesia stessa.
(ivi, p. 238)

Edwards accettava il fondamento logico modernista su cui


Pound basava le sue traduzioni: i testi italiani di Cavalcanti erano
caratterizzati dall’esattezza linguistica e l’espressione inglese pre-
elisabettiana era sufficientemente «chiara ed esplicita» (Pound
1977, p. 1095) per tradurli. Ma a Edwards mancava l’ulteriore e

3 Pound esprime questo atteggiamento elitario nella sua introduzione a


Sonetti e Ballate di Guido Cavalcanti quando fa riferimento a «i pochi inte-
ressati» (Pound 1977, p. 1020). Fra gli altri recensori con un atteggiamento
favorevole ai progetti modernisti di traduzione di Pound ricordiamo Murphy
1953, Ferlinghetti 1953 e The New Yorker 1954.

267
opposta consapevolezza di Pound che questa strategia rendesse le
traduzioni non «pulite e ferme» ma bizzarre o poco familiari, con
tutta la probabilità di essere prese per «un mero esercizio di bizzar-
ria» (ibidem).
Vi furono anche recensori più scaltri nel comprendere la pro-
spettiva modernista delle traduzioni, pur rimanendo critici nei con-
fronti del suo valore culturale. In una recensione per il New
Statesman and Nation, il poeta e critico inglese Donald Davie, che
aveva criticato il progetto della poesia di Pound pur confermando-
ne lo status canonico nell’ambiente della critica letteraria accade-
mica4, affermò che la traduzione interpretativa portava in sé una
peculiare rivendicazione dogmatica di autonomia culturale estre-
mamente evidente nell’arcaismo che la contraddistingueva:

Traducendo Cavalcanti egli mira a rendere una traduzione asso-


luta : non, certamente, nel senso che deve riprodurre in inglese
tutti gli effetti dell’originale, ma nel senso che deve essere
Cavalcanti in inglese e per sempre, non solo per questa genera-
zione o per le immediatamente successive. Di qui lo stile arcaico,
che a volte ricorre a una sillabazione olde-Englysshe. [...] Pound
ritiene che l’inglese sia giunto – nell’epoca specifica del tardo
Chaucer e del primo periodo Tudor – nella posizione più vicina
per rendere il tipo di effetti che Cavalcanti ottiene in italiano.
(Davie 1953, p. 264)

Ma Pound non presuppose mai un’equivalenza “assoluta” tra


stili di diversi periodi. In realtà, in Rapporti di Guido, indicava
l’impossibilità di trovare un equivalente esatto nella lingua ingle-
se: almeno una qualità dei testi italiani «non si trova assolutamente
nella poesia inglese», tanto che «non esiste alcun pigmento verbale
già pronto per la sua oggettivizzazione»; utilizzare l’inglese pre-
elisabettiano implicava infatti «l’inesatta rappresentazione erronea
non dell’antichità della poesia, ma del senso relativo di questa
antichità» per i lettori italiani (Pound 1977, p. 1096). Ciò che sem-

4 Il commento di Davie alla scrittura di Pound comprende due volumi,


1964 e 1976. Homberger è intervenuto su quello che Davie riteneva un
«attacco sostenuto e talvolta amaro all’intenzione che soggiace ai Cantos»
(Homberger 1972, pp. 28-29).

268
brava a Davie troppo assoluto era in realtà il fondamento logico in
base al quale Pound impiegava l’arcaismo: non apprezzava le tra-
duzioni perché non accettava le letture moderniste dei testi stranie-
ri («Ancora mi chiedo, per mia ignoranza, se Cavalcanti valga
tutte le rivendicazioni che Pound ha avanzato per lui, e tutto il
tempo che gli ha dedicato», Davie 1953, p. 264). Eppure Davie
accettava l’ideale modernista dell’indipendenza estetica, annullan-
do la distinzione fra traduzione interpretativa e nuova poesia tra-
mite una valutazione delle traduzioni di Pound come testi letterari
di diritto, e giudicando le più sperimentali delle mediocri esecuzio-
ni: le versioni di Cavalcanti «danno l’impressione non di un Wyatt
ma di un Surrey, l’aggraziato virtuosismo di una convenzione
dolorosamente limitata e, in fin dei conti, superficiale» (ibidem).
George Whicher dell’Amherst College recensì le traduzioni di
Pound due volte, e in entrambe le occasioni i giudizi furono sfavo-
revoli, basati su un apprezzamento colto ma critico della poetica
modernista. Nel giornale accademico American Literature,
Whicher affermava che «la prova contenuta nel volume» non con-
fermava la rivendicazione dell’autonomia culturale fatta da
Kenner: «lungi dal creare una forma nuova, Pound stava semplice-
mente producendo l’astuta approssimazione a una vecchia»
(Whicher 1954, p. 120). Concludendo l’articolo Whicher afferma-
va che l’opera di Pound come traduttore ne indicava la marginalità
nel canone letterario americano, «in qualche modo marginale
rispetto alla tradizione dei poeti americani autenticamente creativi
come Whitman, Melville ed Emily Dickinson» (ivi, p. 121).
Whicher valutava le traduzioni di Pound confrontandole con il suo
richiamo all’esattezza linguistica e biasimandone «lo stile pedan-
te» : «Il poeta non si era ancora liberato dall’affettazione dell’ar-
caismo che aveva segnato e rovinato la sua “Ballad of the Goodly
Frere”» (ivi, p. 120)5. Nel New York Herald Tribune Whicher si

5 Si veda anche Stern 1953: «Ciò che è caratteristico del modo di tradurre
di Pound è evidente soprattutto nelle famose versioni di Cavalcanti e Arnaut
Daniel. Al di là del contesto didattico, Pound ha teso ad appesantire alcune
delle traduzioni con un fardello antico (forse per includere ciò che fin da allo-
ra è stato ritenuto standard o stereotipo, o ciò che è ormai svanito dalla tradi-
zione). [...] I migliori versi in inglese contenuti nelle Traduzioni sono quelli
de Il nocchiero e delle poesie cinesi contenute in Catai. In questi testi scom-

269
unì a Davie nel contestare la scelta dei testi stranieri operata da
Pound, servendosi delle traduzioni come di un’opportunità per giu-
dicare antiquato il modernismo, una volta forse considerato “rivo-
luzionario”, ma ormai ritenuto “fiacco” nel 1953:

È quasi impossibile comprendere [...] quanto fosse rivoluziona-


ria la pubblicazione delle Poesie di Cavalcanti nel 1912.
Rappresentava un primo consapevole attacco nella campagna
intesa a ridimensionare la poesia per ricondurla alle sue nude
caratteristiche essenziali. [...] Ora, tuttavia, ci chiediamo come
un eccellente artista quale Pound possa essersi occupato di
tante poesie noiose, seppure con l’aiuto di un poeta italiano
minore.
(Whicher 1953, p. 25)

Le recensioni negative di questi e altri critici – Leslie Fiedler,


alludendo alla reclusione di Pound in ospedale, chiamò le sue ver-
sioni di Daniel un «Dante Gabriel Rossetti diventato un po’ tocco»
(Fiedler 1962, p. 120) – segnalavano una reazione contro il moder-
nismo che, a metà del secolo, bandiva le traduzioni di Pound ai
margini della cultura letteraria angloamericana6. Il fulcro della tra-
duzione di poesia in lingua inglese era nelle strategie di scorrevo-
lezza, moderne ma non completamente moderniste, addomestican-
ti nella loro assimilazione di testi stranieri al discorso trasparente
che prevaleva in tutte le espressioni della cultura stampata contem-
poranea; coerenti con il rifiuto dell’eterogeneità discorsiva attra-
verso la quale la traduzione modernista cercava di attribuire signi-
ficato alle differenze culturali e linguistiche. La recensione delle
traduzioni di Pound scritta dall’autorevole Dudley Fitts esemplifi-
cava tale situazione culturale in termini acutissimi.
pare gradualmente ciò che vi è di casuale, riluttante, antico o labirintico nelle
altre sezioni del libro, per lasciare il posto a quel verso puro, emotivamente
sottile e amabile che gran parte dei lettori inglesi conosce solo grazie a
Pound» (Stern 1953, pp. 266 e 267).
In modo simile Edwin Muir elogia «tutte le traduzioni contenute nel
volume, eccetto quelle da Guido Cavalcanti» e aggiunge, in modo un po’
eccentrico, che «le poesie provenzali e cinesi portano a buon fine il miraco-
lo» (Muir 1953, p. 40).
6 Si vedano in proposito Perkins 1987 e Von Hallberg 1985.

270
Fitts (1903-1968) era un poeta e critico che dai tardi anni
Trenta in poi si era guadagnato un’insigne reputazione come tra-
duttore di testi classici, in massima parte drammi di Sofocle e
Aristofane. Aveva tradotto anche epigrammi greci e latini e pubbli-
cato un’antologia critica di poesia latino-americana del XX secolo.
Come traduttore e curatore di traduzioni pubblicò sedici libri,
soprattutto con un’importante casa editrice, la Harcourt Brace. Le
sue numerose recensioni a raccolte poetiche e traduzioni venivano
pubblicate su varie riviste, sia ad altissima che a bassa tiratura,
incluse quelle legate al modernismo: Atlantic Monthly, The
Criterion, Hound & Horn, Poetry, Transition. La voce “Fitts” nei
Contemporary Authors indica in modo conciso l’importante ruolo
culturale da lui esercitato durante gli anni Cinquanta e Sessanta,
facendo al tempo stesso luce sulla strategia canonica di traduzione
che la sua opera rappresentava:

Dudley Fitts è stato uno dei più importanti traduttori dal greco
antico di questo secolo. A differenza della procedura seguita da
molti studiosi, Fitts tentò di evocare il carattere intrinseco del-
l’opera prendendosi alcune libertà con il testo. Il risultato, e
molti recensori sono d’accordo, era una versione tanto pertinen-
te e sensata per il lettore moderno quanto lo era per il pubblico
di Sofocle e Aristofane.
(Locher 1980, p. 152)

Il «carattere intrinseco» dell’«opera», «tanto pertinenete e sen-


sata per il lettore moderno quanto» per il «pubblico» greco si basa-
va sul fatto che i richiami al testo straniero potessero assicurare
un’autentica equivalenza della traduzione, trascendendo le diffe-
renze culturali, storiche e perfino le «libertà» linguistiche del tra-
duttore. Questa voce anonima e, in qualche modo, contraddittoria
chiarisce come l’autorevolezza di Fitts traduttore si fondasse sulla
difesa di un metodo libero e addomesticante che riscriveva il testo
straniero in termini riconoscibili, come inglese «moderno».
Nella prefazione alle sue Cento poesie dall’Antologia palatina
(1938), Fitts descriveva in modo abbastanza dettagliato il suo
metodo:

In realtà non mi sono affatto impegnato in una traduzione, tra-

271
duzione, vale a dire, come viene concepita a scuola. Ho sempli-
cemente cercato di riesporre nel mio idioma ciò che i versi
greci hanno significato per me. Gli svantaggi di questo metodo
sono ovvi: implica tagli, alterazioni, espansioni, revisioni, in
breve, tutti gli espedienti della parafrasi libera. [...] In generale,
il mio proposito è stato quello di comporre, prima di tutto, e il
più semplicemente possibile, una poesia inglese. A tale fine ho
eliminato le espressioni poetiche trite, anche là dove (in
Meleagro, per esempio) avrebbero potuto essere conservate.
Tranne in alcune “Dediche”, e in componimenti simili il cui
linguaggio è certamente liturgico, ho evitato arcaismi quali
«thou» e «ye» e tutto il corteo di fantasmi al loro seguito. In
modo meno giustificabile ho corso il rischio di un’atmosfera
spuria di monotoeismo scrivendo «Dio» per «Zeus» (ma il
signor Leslie lo renderebbe «Giove»!) dovunque il contesto lo
permettesse senza stridere troppo pericolosamente.
(Fitts 1956, pp. XVII-XVIII)

La prima cosa degna di nota è quanto il metodo di Fitts fosse in


debito con la traduzione modernista, in special modo con l’opera
di Pound. L’affermazione dell’indipendenza estetica della tradu-
zione, la pratica dell’«alterazione» del testo straniero e dell’impie-
go dell’inglese contemporaneo, persino la critica delle traduzioni
accademiche, presumibilmente troppo letterali e perciò non lettera-
rie, tutto ciò caratterizzava teoria e pratica della traduzione di
Pound (ma anche di figure precedenti nella storia della traduzione
in lingua inglese: alcune delle opinioni di Pound, e di Bunting,
risalivano a Denham e Dryden). Fitts conosceva l’opera di Pound,
la recensì e intrattenne con lui una corrispondenza negli anni
Trenta; alla Choate School insegnò la poesia di Pound a James
Laughlin, il quale avviò la New Directions e pubblicò la Palatine
Anthology di Fitts come anche molti libri di Pound (Stock 1982,
pp. 322-323; Carpenter 1988, pp. 527-528). Il più significativo
allontanamento di Fitts da Pound presente in quel libro, allontana-
mento che stava determinando la ricezione di Pound sia dentro che
fuori l’ambiente accademico, era costituito dal rifiuto di discorsi
poetici differenti, incluso l’arcaismo. Con la rivendicazione del-
l’autonomia culturale della traduzione i materiali culturali preesi-
stenti sbiadiscono in «fantasmi»: si può quindi effettuare un addo-

272
mesticamento completo che inserisca il testo straniero nei valori
della lingua d’arrivo, sia linguistici (scorrevolezza) che culturali
(un monoteismo giudaico cristiano: «scrivere “Dio” per “Zeus”»).
Quando Fitts ristampò questa traduzione nel 1956, aggiunse
una «Nota» in cui si scusava per non aver rivisto i testi: «Le mie
teorie di traduzione sono mutate così radicalmente che qualunque
tentativo di rimaneggiare l’opera di quindici o vent’anni fa finireb-
be solo per fare confusione e per rendere ridicola la forza che le
poesie possono aver posseduto un tempo» (Fitts 1956, p. XIII).
Pochi anni più tardi, però, pubblicando un saggio sulla traduzione
intitolato The Poetic Nuance, dapprima come «edizione fuori com-
mercio» della Harcourt «per gli amici dell’autore e i suoi editori»
(Fitts 1958), in seguito nell’antologia On Translation a cura di
Reuben Brower per la Harvard University Press (Brower 1959),
risultò evidente che la teoria della traduzione di Fitts non era cam-
biata affatto. Egli discuteva le stesse idee fondamentali che conti-
nuavano a costituire il canone della traduzione poetica in lingua
inglese, accessibili sia tramite i grandi editori che quelli universita-
ri e confermato dal prestigio di Fitts come traduttore e recensore. Il
punto centrale di The Poetic Nuance era contenuto nella seguente
affermazione: «La traduzione di una poesia dovrebbe essere una
poesia, vitale quanto una poesia e, come una poesia, valutabile»
(Fitts 1958, p. 12). Eppure l’unico tipo di poesia che Fitts ricono-
sceva come tale era scritta in un inglese americano abbastanza
standard, disseminato di elementi colloquiali familiari e social-
mente accettabili. Presentando la sua tesi, Fitts si riferiva inizial-
mente alla poesia del messicano Enrique González Martínez che
rappresentava un «attacco all’eleganza spuria della trita espressio-
ne poetica» (ivi, p. 13), per citare in seguito la sua versione moder-
na di un epigramma di Marziale:

Quod nulli calicem tuum propinas,


humane facis, Horme, non superbe7.
(Marziale, II, 15)

7 «O Ormo, quando si brinda, tu non porgi la tua coppa a nessuno:/ lo fai


per riguardo, non per superbia» (Marziale, Epigrammi, 1980, p. 195)
[N.d.T.].

273
You let no one drink from your personal cup, Hormus,
when the toasts go round the table.
Haughtiness?
Hell, no.
Humanity.
(Fitts 1958, p. 25)

Fitts leggeva il testo latino come uno “scherzo” di Marziale


sull’“igiene” disgustosa di Hormus, concludendo che «la sua
comicità dipende in gran parte dalla compostezza della forma, dal
decoro apparente del lessico» (ibidem) e, in particolare, dall’uso
della parola humane. Secondo la lettura di Fitts, «Hormus è così
sporco nella persona che egli stesso possiede un senso igienico
sufficiente per non imporre a nessun altro la coppa che ha usato»
e, di conseguenza, «le sue cattive maniere sono in realtà filantro-
pia» (ivi, p. 22). La traduzione di Fitts interpretava tale lettura
spezzando il «decoro» dell’inglese, scivolando dallo stile collo-
quiale estremamente prosaico e quasi privo di ritmo dei primi due
versi, a un’astrazione relativamente formale e leggermente britan-
nica («Haughtiness»), fino allo staccato di un’espressione gergale
(«Hell, no»). Lo spostamento dalla formalità elitaria al gergo
popolare inseriva nel testo latino una gerarchia di classe, facendo
in modo che la riuscita dello scherzo si basasse sul riconoscimen-
to, da parte del lettore, della violazione delle differenze di classe
attuata da Hormus, e del modo sconveniente in cui la realizzava.
La traduzione e la lettura di Fitts dava forma a una posizione
socialmente superiore dalla quale deridere il personaggio, mentre
la scorrevolezza dell’inglese faceva sì che tale atteggiamento elita-
rio apparisse naturale.
Fitts provava evidentemente una profonda ambivalenza nei
confronti della traduzione modernista. Condivideva la valorizza-
zione di Pound dell’esattezza linguistica nella lettura e nella tradu-
zione della poesia antica. La prefazione entusiastica di Fitts alla
versione di Saffo realizzata da Mary Barnard nel 1958 elogiava la
percezione con cui la traduttrice aveva letto lo «stile assoluto sem-
plice e pungente» dei testi greci rendendolo in un inglese appro-
priatamente «semplice»:

Some say a cavalry corps,

274
some infantry, some, again,
will maintain that the swift oars

of our fleet are the finest


sight on dark earth; but I say
that whatever one loves, is.

Non vedo come lo si potrebbe migliorare. Come il greco, è


scarno e ruvido, inelegante della bella ineleganza della verità.
Qui non c’è traccia del «sweete slyding, fit for a verse» che ci
si aspetta di trovare in una versione di Saffo. È una traduzione
esatta ma anche, nella composizione, nell’uso degli spazi, nel-
l’ordinamento degli accenti, arte elevata. Saffo deve essere
stata così, è questo che pensiamo.
(Barnard 1958, p. IX)

La versione della Barnard, tuttavia, era «esatta» non tanto per-


ché aveva trovato un equivalente autentico al testo greco – lei stes-
sa ammise in seguito di essere ricorsa a “inserimenti” per rendere i
frammenti più continui – ma piuttosto perché influenzata da Pound
(Barnard 1984, pp. 280-284). Durante la corrispondenza con Pound
negli anni Cinquanta, quando questi era confinato al St. Elizabeth,
gli inviò le sue versioni di Saffo che in seguito avrebbe rivisto
secondo la sua raccomandazione di impiegare un «linguaggio
VIVO» invece del «poetichese» (poetic jarg) (ivi, p. 282). Questa
raccomandazione coincideva con la lettura di Saffo fatta dalla
Barnard, in parte modernista («Era sobria ma musicale») e in parte
romantica («e possedeva, inoltre, il suono della viva voce che enun-
cia un’affermazione semplice ma emotivamente carica»). La
Barnard sviluppava infine una strategia scorrevole che produceva
l’effetto della trasparenza, alla ricerca della «cadenza che appartie-
ne alla viva voce» (ivi, p. 284), di cui Fitts apprezzava l’effetto illu-
sionistico, scambiando l’inglese per il testo greco, la poesia per il
poeta: «Saffo deve essere stata così, è questo che pensiamo».
Ma se sia Fitts che la Barnard condividevano con Pound la
valorizzazione dell’esattezza linguistica, erano incapaci tuttavia di
condividere il suo interesse per un discorso più frammentato ed
eterogeneo, vale a dire, per una strategia di traduzione che frustras-
se la trasparenza. La Barnard ignorò infatti i passi delle lettere in

275
cui Pound le contestava sia l’aderenza al modello standard della
grammatica inglese («utility of syntax? waal the chink does
without a damLot») sia la raffinatezza di un linguaggio «omoge-
neo» :

it is now more homogene/it is purrhapz a bit lax/


whether one emend that occurs wd/lax still more???
it still reads a bit like a translation/

what is the maximum abruptness you can get it TO?

Fordie: “40 ways to say anything”


I spose real exercise would consist in trying them ALL.
(Barnard 1984, p. 283)

Fitts, a sua volta, elogiava la Saffo della Barnard perché era


«omogenea», perché impiegava un inglese «esatto», corrente e
senza alcuna «espressione poetica spuria, senza alcuno degli ele-
menti eretici di Swinburne o di Symonds così di moda un tempo»:
«Ciò che principalmente ammiro nelle traduzioni e nelle ricostru-
zioni della Barnard è la purezza diretta dello stile e della versifica-
zione» (Barnard 1958, p. IX).
Negli anni Cinquanta Fitts aveva già recensito gli scritti di
Pound in alcune occasioni, prendendo gradualmente le distanze dal
primo consenso8. La sua recensione negativa delle traduzioni di
Pound simboleggiava la reazione di metà del secolo contro il
modernismo: criticava le versioni più sperimentali in base alla spe-
cifica ragione modernista che non raggiungevano l’autonomia dei
testi letterari. «Quando fallisce – scriveva Fitts – fallisce perché ha
8 Il mutato atteggiamento di Fitts nei confronti della scrittura di Pound è
documentato dalle due recensioni pubblicate in Homberger 1972: la prima è
una valutazione estremamente entusiastica di A Draft of XXX Cantos del
1931, la seconda è un secco congedo di Guide to Kulchur del 1939
(Homberger 1972, pp. 246-255, 335-336). Anche Carpenter 1988, pp. 507 e
543, segnala le recensioni negative su Pound. A sua volta, il poeta percepiva
anche le recensioni positive di Fitts come frutto di incomprensioni (Carpenter
1988, p. 478). Laughlin sembra aver assecondato la critica di Fitts, dal
momento che invitava quest’ultimo «a controllare e correggere le allusioni
classiche» presenti nei Cantos (ivi, p. 687).

276
scelto di inventare un non-linguaggio, un linguaggio di anticaglie
arcaizzanti, ampiamente impronunciabile (nonostante il suo orec-
chio eccellente), e tutto tranne che leggibile» (Fitts 1954, p. 19).
Fitts rivelava la conoscenza del fondamento logico su cui Pound
basava il suo impiego dell’arcaismo – vale a dire la sua utilità nel
significare la distanza storica e culturale dei testi stranieri – ma
rifiutava qualsiasi discorso di traduzione che non li assimilasse ai
valori predominanti della lingua inglese, e che non fosse sufficien-
temente trasparente da produrre l’illusione dell’originalità:

È vero, Daniel scrisse secoli fa, e in provenzale. Ma scriveva in


una lingua viva, non in qualcosa strappato agli abissi più remoti
del Dizionario Etimologico di Skeat. Egli diceva autra gens,
vale a dire «other men», e non «other wight»; diceva el bosc
l’auzel, e non «birds quhitter in forest», e così via. Pound [...]
può averne «assorb[ito] l’atmosfera», ma non ha scritto «una
poesia sua» ; semplicemente, non ha scritto una poesia.
(ibidem )

Espressioni come «linguaggio vivo» e «una poesia sua» dimo-


strano che Fitts era molto selettivo nella comprensione della teoria
e della pratica di traduzione di Pound, e che non condivideva il suo
interesse a segnalare l’estraneità del testo straniero al momento
della traduzione. Al contrario, l’impulso addomesticante è così
forte nella recensione di Fitts che le parole straniere (come «autra
gens») vengono ridotte alla versione inglese contemporanea più
familiare («other men»), come se questa versione ne rappresentas-
se l’esatto equivalente, oppure vengono semplicemente ripetute,
come se la ripetizione risolvesse il problema della traduzione
(«egli diceva el bosc l’auzel, e non “birds quhitter in forest”»).
Come Davie, Fitts ignorava l’idea di traduzione interpretativa di
Pound, ritenendo le versioni di Daniel delle poesie in lingua ingle-
se, e non dei saggi intesi a indicare le differenze dei testi provenza-
li. Le poesie che Fitts giudicava accettabili tendevano inoltre a
essere scritte o in inglese contemporaneo scorrevole e immediata-
mente intelligibile o in un linguaggio poetico da lui considerato
abbastanza discreto per non interferire con l’evocazione di una
coerente voce narrante. Di conseguenza, come molti altri recenso-
ri, Fitts apprezzava soprattutto quelle che Pound aveva chiamato le

277
sue “Major Personae”: «Possiamo considerare Il nocchiero, alcune
poesie di Catai e i drammi Nô come delle felici casualità» (ibi-
dem). L’opera di Fitts come traduttore, curatore e recensore rivela
in maniera piuttosto evidente come le innovazioni della traduzione
modernista rappresentassero una disgrazia per il discorso traspa-
rente che dominava la cultura letteraria angloamericana.
Queste innovazioni vennero generalmente trascurate nei decen-
ni successivi alla pubblicazione delle traduzioni di Pound. I poeti
britannici e americani continuarono a tradurre poesia straniera,
naturalmente, ma le strategie sperimentali di Pound attirarono rela-
tivamente pochi adepti. E quei poeti che perseguirono nella tradu-
zione lo sperimentalismo modernista videro il loro lavoro liquidato
come un’aberrazione il cui valore culturale era ritenuto scarso o
inesistente. Forse nessun progetto di traduzione nel periodo imme-
diatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale attesta
meglio la continua marginalità del modernismo della notevole ver-
sione di Catullo a opera di Celia e Louis Zukofsky.
A conclusione del loro lavoro durato circa dieci anni (1958-
1969) gli Zukofsky produssero una traduzione omofona del corpus
riconosciuto delle poesie di Catullo, 116 testi e una manciata di
frammenti, che pubblicarono in edizione bilingue nel 1969
(Zukofsky e Zukofsky, p. 1969)9. Celia scrisse una versione ingle-
se abbastanza letterale per ogni verso latino, segnò il metro quanti-
tativo del verso e analizzò sintatticamente ogni parola latina; usan-
do questi materiali, Louis scrisse le poesie inglesi che mimavano il
suono di quelle latine, tentando anche di preservare il senso e l’or-
dine delle parole. La prefazione degli Zukofsky, scritta nel 1961,
offriva una breve illustrazione del loro metodo: «Questa traduzio-
ne di Catullo segue il suono, il ritmo e la sintassi del suo latino;
cerca, come si dice, di emanare con il poeta il significato “lettera-
le”» (Zukofsky 1991, p. 243). Rifiutando il metodo libero e addo-
9 La traduzione è ristampata, senza i testi latini, in Zukofsky 1991, in cui

le date di composizione, 1958-1969, vengono riportate in parentesi quadre.


Cid Corman, che era in contatto epistolare con Louis Zukofsky e che pub-
blicò una parte della traduzione di Catullo nella sua rivista Origin, nota che
essa implicava «almeno 8 o 9 anni di duro lavoro» (Corman 1970, p. 4).
Celia Zukofsky illustrò in seguito la divisione del lavoro adottata (Hatlen
1978, p. 539, n. 2). L’influenza di Pound sul Catullo degli Zukofsky può
essere desunta da Ahearn 1987, pp. 200, 203, 208, 218.

278
mesticante che fissava un significato riconoscibile nell’inglese
scorrevole, gli Zukofsky seguivano l’esempio di Pound e accen-
tuavano l’importanza del significante per ottenere una traduzione
estraniante, ossia una traduzione che deviasse dal predominio della
trasparenza. Il processo estraniante cominciava nel titolo, in cui
mantenevano una versione latina che possedeva sia l’eleganza
dotta che la promessa di uno specialismo rigoroso, se non addirit-
tura impenetrabile: Gai Valeri Catulli Veronensis Liber (reso lette-
ralmente, «Il libro di Gaio Valerio Catullo da Verona»). Un recen-
sore fu spinto a scrivere che «il titolo non-inglese non si offriva di
delucidare un bel niente» (Braun 1970, p. 30).
Vediamo qui di seguito una breve poesia satirica di Catullo
prima tradotta da Charles Martin, la cui traduzione scorrevole
adotta esplicitamente il metodo libero di Dryden, e poi dagli
Zukofsky, il cui discorso è caratterizzato da improvvisi spostamen-
ti sintattici, dalla polisemia e dai ritmi discontinui:

Nulli se dicit mulier mea nubere malle


quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in uento et rapida scribere oportet aqua10.
(LXX)

My woman says there is no one she’d rather marry


than me, not even Jupiter, if he came courting.
That’s what she says – but what a woman says to a passionate
lover
ought to be scribbled on wind, on running water.
(Martin 1990, p. XXIV)

Newly say dickered my love air my own would marry me all


whom but one, none see say Jupiter if she petted,
Dickered: said my love air could be o could dickered a man too
in wind o wet rapid a scribble reported in water.
(Zukofsky 1990, 70)

10 «Solo con te farei l’amore, dice la donna mia,/solo con te, anche se mi

volesse Giove./Dice: ma ciò che dice una donna e un amante impazzito/devi


scriverlo sul vento, sull’acqua che scorre» (Catullo 1975, p. 197) [N.d.T.].

279
Sebbene entrambe le versioni possano essere considerate delle
parafrasi con una discreta valutazione del senso latino, la tradu-
zione omofona degli Zukofsky è senza dubbio più opaca, diffici-
le e frustrante nella lettura separata, e solo leggermente più sem-
plice se giustapposta a una versione trasparente come quella di
Martin.
L’opacità del linguaggio è dovuta, tuttavia, non all’assenza di
significato, ma alla liberazione dei molteplici significati specifici
dell’inglese. Jean-Jacques Lecercle (1990) descrive tali effetti
della traduzione omofona come il «residuo», ciò che eccedendo gli
impieghi trasparenti del linguaggio adeguati alla comunicazione e
alla relazione, può in realtà ostacolarli con diversi gradi di violen-
za. Come almeno uno dei recensori del Catullo degli Zukofsky (il
classicista Steele Commager) ha compreso, la traduzione omofona
è analoga a una moderna pratica culturale francese, il traduscon,
ossia il tradurre secondo il suono, metodo che dà sempre luogo a
una proliferazione di ambiguità (Commager 1971). Nella versione
degli Zukofsky la parola latina «dicit», da dicere, “dire”, è resa
omofonicamente con l’inglese «dickered» che porta in qualche
modo con sé il senso del “dire” se inteso come “disputare” o “con-
trattare”, ma che in questo contesto erotico diventa la forma collo-
quiale oscena di forme sessuali di rapporto. La sequenza «my love
air» traduce «mulier», ma il metodo omofono aggiunge la parola
inglese «air» che dà luogo ad altre possibilità, soprattutto in un
testo che paragona scetticamente al vento la dichiarazione d’amore
della donna. «Air», inoltre, ricalca «ere», introducendo un arcai-
smo in un lessico inglese prevalentemente moderno, e permettendo
una costruzione come «my love, ere my own, would marry me». Il
calco basato su «air» avvalora l’osservazione di Lecercle che il
residuo è la persistenza nell’uso corrente di forme linguistiche pre-
cedenti, «il luogo per la diacronia-nella-sincronia, il luogo dell’in-
serimento di congiunture linguistiche passate e presenti» (Lecercle
1990, p. 215). Egli riconosce l’impulso estraniante presente in
questi effetti, paragonando il traduttore omofono a un soggetto
parlante per il quale

una lingua straniera è una tesoreria di suoni strani ma affasci-


nanti, e il parlante è impigliato tra l’impulso di interpretarli, il
bisogno pervasivo di comprendere la lingua e il desiderio affa-

280
scinato di giocare con le parole, di ascoltarne i suoni, indiffe-
rentemente dal loro significato.
(ivi, p. 73)

La traduzione omofona degli Zukofsky non “interpretava” le


parole latine fissando un significato univoco, facile da riconoscere.
Essi piuttosto ne “ascoltavano il suono”, e ciò che udivano era una
gamma abbagliante di inglesi, dialetti e discorsi scaturiti dalle
radici straniere dell’inglese (greco, latino, anglosassone, francese)
e dai diversi momenti della storia della cultura di lingua inglese11.
Per rappresentare l’alterità della poesia di Catullo, dunque,
Louis Zukofsky non solo cercò di piegare il suo inglese in confor-
mità al testo latino e al numeroso materiale procuratogli da
Celia, ma coltivò anche l’eterogeneità discorsiva che contraddi-
stingueva la traduzione modernista, liberando il residuo del lin-
guaggio, recuperando forme culturali marginali per sfidare quelle
predominanti. Molti dei testi inglesi sono resi in linguaggio poeti-
co del XVI secolo, in particolar modo elisabettiano e perfino
shakespeariano, che comprende parole isolate – «hie» (51), «hest»
(104), «bonnie» (110) – ma anche consistenti paragrafi che evoca-
no il blank verse del dramma rinascimentale inglese:

Commend to you my cares for the love I love,


Aurelius, when I’m put to it I’m modest -
yet if ever desire animated you, quickened
to keep the innocent unstained, uninjured,
cherish my boy for me in his purity;
(Zukofsky 1991, 15)

[...] Could he, put to the test,


not sink then or not devour our patrimonies?
In whose name, in Rome’s or that of base opulence -
(ivi, 29)

11 Ho appreso molto sul linguaggio del Catullo degli Zukofsky dal breve
ma incisivo saggio di Guy Davenport, 1970 e 1979. Si veda anche Gordon
1979 e Mann 1986, il quale presenta un’acuta discussione sulle questioni cul-
turali e politiche sollevate dalla traduzione.

281
No audacious cavil, precious quaint nostrils,
or we must cavil, dispute, o my soul’s eye,
no point – as such – Nemesis rebuffs too, is
the vehement deity: laud her, hang cavil.
(ivi, 50)

Ci sono anche toni che si rifanno a un’eleganza da XVIII seco-


lo («perambulate a bit in all cubicles», 29; «darting his squilbs of
iambs», 36; «tergiversator», 71), oltre a una sperimentazione
modernista, joyceana («harder than a bean or fob of lapillus», 23;
«O quick floss of the Juventii, form», 24), e a una terminologia
scientifica presa dalla biologia e dalla fisica («micturition», 39;
«glans» e «quantum», 88; «gingival», 97). Non meno importante
è infine il ricco assortimento di stili colloquiali, di cui alcuni bri-
tannici («a bit more bum», 39), ma la maggior parte americani,
scelti da diversi periodi del Ventesimo secolo e affiliati a differen-
ti gruppi sociali: «side-kick» (11), «canapes» (13), «don’t conk
out» (23), «collared» (35), «faggots» (36), «moochers» (37),
«hunk» (39), «amigos» (41), «suburban» (44), «con» (86), «bra»
(55), «hick» (55), «kid» (56), «mug» (57), «homo» (81). Nel con-
testo omofono creato dal metodo di traduzione degli Zukofsky, le
singole parole risuonano divenendo nodi di differenti idiomi e
discorsi. Nel 70 (qui citato precedentemente a p. 279), «say»
(“dire”) può anche significare «for the sake of argument»
(“ammesso e non concesso”), «for example» (“per esempio”), o
anche essere una forma contratta dell’arcaico «save» (“salvare”);
«see» (“vedere”) può essere una forma abbreviata di «you see»
(“tu vedi”). Queste possibilità conferiscono all’espressione un
tono colloquiale e incisivo, il gergo di un gangster dalla malizia
elisabettiana: «Newly, say, dickered» ; «none, see, save Jupiter».
Un verso del componimento 17 – «your lake’s most total paludal
puke» – echeggia la parlata alla moda di un adolescente degli anni
Cinquanta. C’è persino una traccia di dialetto nero, «pa’s true
bro» (111), «they quick» (56), maggiormente pronunciato in una
delle traduzioni più forti:

O rem ridiculam, Cato, et iocosam,


dignamque auribus et tuo cachinno.
Ride, quidquid amas, Cato, Catullum:

282
res est ridicula et nimis iocosa.
Deprendi modo populum puellae
trusantem: hunc ego, si placet Dionae,
protelo rigida mea cecidi12.
(LVI)

Cato, it was absurd, just too amusing,


fit for your ears & fit to make you cackle!
You’ll laugh if you love your Catullus, Cato:
it was absurd & really too amusing!
Just now I came across a young boy swiving
his girlfriend, and – don’t take offense now, Venus!
I pinned him to his business with my skewer.
(Martin 1990, 56)

O ram ridicule home, Cato, the jokes some


dig, now cool your ears so the two cock in – no.
Read: they quick, kid, almost as Cato, Catullus:
raciest ridicule it may not miss jokes.
Prehended a mode of pupa, loon boy lay
crux on to her: and cog I, so placate Dione,
pro tale, o rig it all, me I cogged kiddie.
(Zukofsky 1991, 56)

La portata ristretta del lessico moderno di Martin si evidenzia


nell’uso di «swiving» che appare nel contesto, più dell’arcaismo
(chauceriano) che in realtà vuole rappresentare, un educato eufe-
mismo per l’attività sessuale, paragonabile a «business» o
«skewer». La versione omofona degli Zukofsky si sposta di nuovo
bruscamente da un registro discorsivo all’altro, dal gergo contem-
poraneo («dig», «cool») a costruzioni pseudo-arcaiche («it may
not miss jokes»), a termini scientifici («pupa»), all’“elisabettese”
(«cog»), fino allo stile colloquiale contemporaneo («kiddie»). Tali
spostamenti sono estranianti in quanto, deviando dalla trasparenza,

12 «Scherzo così divertente, Catone,/è giusto che tu lo sappia e ne


rida./Ridine per l’amore che mi porti:/credi, è uno scherzo troppo diverten-
te./Sorpreso da un ragazzino che si fotte/una fanciulla, io, Venere mia,/col
cazzo ritto, un fulmine, l’inculo» (Catullo 1975, p. 115) [N.d.T.].

283
costringono il lettore inglese ad affrontare un Catullo costituito
dalle differenze linguistiche e culturali più estreme, compresa la
differenza da se stesso: una tendenza autocritica che contesta la
fonte del suo stesso divertimento (l’espressione sconcertante «the
jokes some dig») e indica il proprio eccesso sessuale, suggerendo
persino una relazione omoerotica tra sé e Catone («they quick, kid,
almost as Cato [and] Catullus»). Questo tipo di autocoscienza è
talmente debole da essere assente sia dal latino («ride, quidquid
amas, Cato, Catullum») che dalla versione di Martin («You’ll
laugh if you love your Catullus, Cato»). Il proposito di Martin era
l’evocazione della «voce del poeta» (Martin 1990, p. XIII), e ciò
significava un fondamentale addomesticamento che attribuisse al
testo latino un significato chiaro e modernizzato assegnando a
Catullo un inglese standard punteggiato da qualche forma gergale;
il proposito degli Zukofsky di avvicinarsi al suono del testo latino
li condusse a echeggiare le numerose voci, standard o meno, che
costituiscono l’inglese scritto e parlato.
L’eterogeneità discorsiva del Catullo degli Zukofsky mescola il
linguaggio arcaico a quello corrente, il letterario al tecnico, l’elita-
rio al popolare, il professionale all’operaio, lo scolastico a quello
della strada. Nel recupero dei discorsi marginali questa traduzione
attraversa numerosi confini linguistici e culturali, mettendo in
scena «il ritorno all’interno del linguaggio delle contraddizioni e
delle lotte che costituiscono il sociale» (Lecercle 1990, p. 182),
mostrando la rete di affiliazioni sociali mascherate dall’effetto illu-
sionistico della trasparenza. E dal momento che il Catullo degli
Zukofsky richiama l’attenzione sulle condizioni sociali degli effet-
ti della propria lingua inglese, mette anche in discussione l’appa-
rente unità dell’inglese di versioni scorrevoli come quella di
Martin, dimostrando invece che

quando si parla di «inglese» si parla di una molteplicità di idio-


mi, registri e stili, della sedimentazione di congiunture passate,
dell’iscrizione di antagonismi sociali come antagonismi discor-
sivi, della coesistenza e contraddittorietà di diversi ordinamenti
collettivi di espressione, dell’interpellanza di soggetti all’inter-
no dei sistemi inclusi nelle pratiche linguistiche (la scuola, i
mezzi di comunicazione).
(ivi, p. 229)

284
Nel Catullo degli Zukofsky il recupero del marginale sfida l’il-
lusionismo di versioni come quella di Martin, in cui l’inglese stan-
dard e il discorso traduttivo predominante (ossia la trasparenza)
appaiono le scelte giuste per il testo latino, il mezzo per stabilire
un’autentica equivalenza. La traduzione degli Zukofsky dimostra,
al contrario, che queste forme culturali inglesi non sono poi tanto
«corrette», quanto conservative, impegnate nel mantenimento delle
norme linguistiche e dei canoni letterari esistenti e perciò esclusive
verso altre forme culturali. Lo sforzo con cui gli Zukofsky lasciano
penetrare il marginale fa apparire la loro traduzione inglese strana
perché impropria, non solo rispetto al discorso trasparente, ma
anche al testo latino. Non c’è dubbio, infatti, che la loro versione,
per quanto «aderente» al testo latino, metta in atto la violenza etno-
centrica dell’imposizione di effetti di traduzione che funzionano
solo in inglese, in una cultura letteraria di lingua inglese.
Naturalmente questa traduzione sembrò estranea ai recensori
che, con rare eccezioni, la criticarono nei termini più schiaccianti.
E il senso di alterità veniva misurato, ma ciò non dovrebbe sor-
prendere, secondo il canone della traduzione scorrevole, che diver-
si recensori formulavano in modo tale da rintracciarne le origini
nel tardo XVII e nel XVIII secolo. Nella Grosseteste Review, una
rivista inglese con un atteggiamento generalmente favorevole nei
confronti delle poetiche moderniste, Hugh Creighton Hill ebbe da
ridire sul Catullo degli Zukofsky perché violava il metodo della
traduzione addomesticante prediletto da Johnson: «Secondo
Samuel Johnson il dovere è quello di cambiare una lingua in un’al-
tra facendo attenzione a mantenere il significato, dunque la ragione
principale [del tradurre] sarebbe quella di presentare il significato
di uno scrittore, altrimenti incomprensibile, in termini riconoscibi-
li» (Hill 1970, p. 21). Dalle pagine di Arion, una rivista accademi-
ca dedicata alla letteratura classica, Burton Raffel richiamava una
serie di teorici inglesi della traduzione, da Dryden a Tytler, per
indicare che la traduzione di Catullo richiedeva «(a) un poeta, e (b)
la capacità di identificarsi con lui, di essere quasi Catullo per un
periodo protratto nel tempo» (Raffel 1969, p. 444). Raffel elogiava
il Catullo di Peter Whigham del 1966 per aver realizzato la tradu-
zione addomesticante suggerita da Denham e Dryden: «È ricono-
scibile come ciò che Catullo avrebbe potuto dire se fosse stato
vivo e vegeto a Londra» (ivi, p. 441). Questa esaltazione della tra-

285
sparenza permetteva a Raffael di apprezzare solo quei casi, nella
versione degli Zukofsky, in cui era più forte l’effetto illusionistico
della presenza dell’autore. I termini del suo elogio richiamavano
inoltre gli innumerevoli chiosatori della traduzione inglese del
periodo illuminista: «La versione degli Zukofsky [di 2a] è sempli-
ce, aggraziata; possiede un tono di confidenza e si riscalda al tatto
man mano che la si legge e rilegge» (ivi, p. 437). Sulla Poetry
Review Nicholas Moore conveniva con Raffel, e con i presupposti
umanistici dei loro precursori illuministi: «Per catturare davvero lo
spirito di un originale si richiede un’affinità di temperamento e
perfino di stile al di sopra e al di là di tempo, lingua, nazionalità e
milieu» (Moore 1972, p. 182). Moore valutava la versione degli
Zukofsky anche in relazione alla ricezione della poesia di Catullo
durante il XVIII secolo, elogiando la «semplicità essenziale» dei
testi latini e mostrando nel frattempo, inavvertitamente, come l’ad-
domesticamento fosse all’opera in questo tipo di lettura che instau-
rava un paragone con vari poeti inglesi: secondo Moore Catullo
era «una specie di mescolanza di Herrick e Burns con la raffinatez-
za di Pope e la libertà della Restaurazione gettata qua e là» (ivi, p.
180). Questi commenti dimostrano che anche nei tardi anni
Sessanta e nei primi anni Settanta i canoni secolari della traduzio-
ne scorrevole continuavano a dominare la cultura letteraria angloa-
mericana.
Il Catullo degli Zukofsky sollevava in realtà una minaccia cul-
turale nei confronti dei recensori ostili, inducendoli a rendere dei
commenti espliciti, estremi e in qualche modo contraddittori sul
valore del discorso trasparente. Sulla rivista letteraria Chelsea,
Daniel Coogan, insegnante di lingue straniere alla City University
di New York, affermava di «poter trovare poche cose degne di lode
in questa traduzione» (Coogan 1970, p. 117). Sul New Statesman il
poeta inglese Alan Brownjohn elogiava la recente versione di
Catullo a opera di James Michie come «un’esecuzione di immensa
lucidità e ritmo», mentre criticava quella degli Zukofsky come
«ingarbugliata, goffa, pomposa e, in fin dei conti, sciocca»
(Brownjohn 1969, p. 151). La richiesta di intelligibilità immediata
era così intensa nelle recensioni che espressioni quali «discorso
inarticolato», «illeggibile» e «folle» vennero applicate ripetuta-
mente alla traduzione degli Zukofsky. Robert Conquest scriveva su
Encounter che prendere il loro progetto così «seriamente» come

286
essi facevano corrispondeva a «sentire il vento freddo dagli abissi
dell’assurdità» (Conquest 1970, p. 57).
Ma le recensioni testimoniano anche l’assurdità della trasparen-
za. Dopo aver precedentemente affermato: «Non sono così inge-
nuo da credere di non avere, proprio io, teorie sulla traduzione!»,
Raffel si contraddiceva concludendo che «la traduzione non può
essere realizzata sotto l’egida di una teoria, ma soltanto sotto la
protezione della Musa, che tollera la teoria, che può utilizzare la
follia, ma che non può scusare il fallimento dell’esecuzione»
(Raffel 1969, pp. 437 e 445). Raffel si domandava se la “teoria”
della traduzione degli Zukofsky fosse di alcuna utilità di ordine
estetico, scolastico o altro. Tuttavia, invece di interpretare su basi
razionali l’uso che riteneva maggiormente consigliabile, tornava
all’asserzione anti-intellettuale del valore estetico come evidente:
la Musa mistificante che trascende le limitazioni di tempo e spa-
zio, le differenze di lingua e cultura. Come Coogan e Brownjohn,
era disposto ad autorizzare solo quel tipo di «esecuzione» della
traduzione che celasse i propri presupposti e i propri valori attra-
verso l’effetto illusionistico della trasparenza. L’anti-intellettuali-
smo di Raffel si manifestava non solo nella preferenza per il giudi-
zio impetuoso piuttosto che per un’argomentazione teoricamente
soffusa, ma anche nel presupposto alquanto ingenuo che il discor-
so trasparente rappresentasse autenticamente il testo straniero o,
per meglio dire, l’autore straniero: «Nessuno avrebbe dovuto scri-
vere questo libro: non rappresenta nulla, e non è né una traduzione
né Catullo» (ivi, p. 445).
L’interesse di Raffel per il valore d’uso dell’opera degli
Zukofsky mostrava come egli ponesse sullo stesso piano traduzio-
ne e addomesticamento; il loro era un Catullo estraniato per il forte
uso improprio. Allo stesso modo il recensore inglese Nicholas
Moore accusava la traduzione degli Zukofsky di «non riferirsi al
presente in alcun modo reale» (Moore 1971, p. 185), rivelando di
ignorare i lessici contemporanei da cui attingeva e di non sapere
riconoscere il suo profondo investimento in un inglese piuttosto
standard e oscillante verso elementi britannici. Esemplificava il
suo discorso traducendo varie poesie di Catullo e pubblicando le
sue versioni nella recensione. Vediamo qui il componimento 89
nella sua interpretazione e in quella degli Zukofsky:

287
Gellius est tenuis: quid ni? cui tam bona mater
tamque valens uiuat tamque venusta soror
tamque bonus patruus tamque omnia plena puellis
cognatis, quare is desinat esse macer?
qui ut nihil attingat, nisi quod fas tangere non est,
quantumuis quare sit macer invenies13.
(LXXXIX)

Coldham is rather run-down, and who wouldn’t be!


With so kindly and sexy a mother,
With a sister so sweet and lovable,
With a kindly uncle and such a large circle of
Girl-friends, why should he cease to look haggard?
If he never touched any body that wasn’t taboo,
You’d still find dozens of reasons why he should look haggard!
(Moore 1971)

Gellius is thin why yes: kiddin? quite a bonny mater


tom queued veil lanced viva, tom queued Venus his sister
tom queued bonus pat ‘truce unk’, tom queued how many
plenum pullets
cognate is, query is his destiny emaciate?
Kid if he only tingled not seeing what dangler’s there, honest
can’t he wish where thin sit maker envious.
(Zukofsky 1991)

Moore consigliava in effetti un’anglicizzazione diffusa del testo


latino, fino a impiegare l’inglese più corrente («sexy») e a liquida-
re il nome latino per uno dalla sonorità inglese («Coldham»). La
versione degli Zukofsky offriva la combinazione straniante di
arcaismo («bonny»), elemento britannico («queued»), stile collo-
quiale americano («bonus», «unk»), e parole latine, sia popolari
(«viva», come in «Viva Gellius’s mother») sia scientifiche («ple-

13 «Gellio è ridotto a uno scheletro. Certo, con una madre/ così attraente e

sfrenata, quell’incantevole sorella,/ con uno zio tanto accmodante e tutta


quella schiera/ di ragazze sue parenti, che sia stremato è naturale./ Anche se
non toccasse niente oltre ciò che è proibito, / vi son fin troppe ragioni perché
sia così stremato» (Catullo 1975, p. 237) [N.d.T.].

288
num»). L’eterogeneità discorsiva impedisce al lettore di confonde-
re il testo inglese con quello latino e insiste, in effetti, sulla loro
simultanea indipendenza e interrelazione (attraverso l’omofonia),
mentre la scorrevolezza di Moore offusca tali distinzioni, invitan-
do il lettore a scambiare la versione addomesticata per l’«origina-
le» e a ignorare le differenze linguistiche e culturali in gioco.
La marginalità di progetti di traduzioni moderniste come quello
degli Zukofsky si è protratta fino al presente, all’interno e all’e-
sterno degli ambienti accademici. Non solo le innovazioni del
modernismo ispirano pochi traduttori di lingua inglese, ma le criti-
che che queste innovazioni ricevono sono modellate dal predomi-
nio persistente del discorso trasparente: vengono infatti considera-
te marginalmente, persino dalla recente disciplina accademica
degli Studi sulla traduzione (Translation Studies). Nel libro di
Ronnie Apter, Digging for the Treasure: Translation after Pound
(Apter 1987), tutto questo appare con evidenza.
Apter ha cercato di distinguere il risultato di Pound come poeta
traduttore da quello dei suoi predecessori vittoriani, per poi valuta-
re la sua influenza sulla successiva traduzione poetica inglese, in
particolare negli Stati Uniti, senza dimostrare tuttavia alcun entu-
siasmo per gli esperimenti più arditi dei modernisti. Sebbene la sua
analisi includesse molti traduttori, noti ma anche sconosciuti
(Kenneth Rexroth, Robert Lowell, Paul Blackburn, W. S. Merwin),
ha completamente tralasciato il Catullo degli Zukofsky per preferi-
re, invece, il commento alla versione libera e colloquiale del com-
ponimento 8 di Catullo che Louis Zukofsky incluse nel suo volu-
me di poesie del 1946, Anew. Secondo Ronnie Apter il valore di
questa versione risiedeva nell’evocazione di una voce narrante
familiare e nella sua illusione di trasparenza: «L’effetto ricrea il
dolore di Catullo come se fosse vivo oggi» (Apter 1987, p. 56). In
linea con molti altri recensori e critici, anche la Apter ha manife-
stato una maggiore ammirazione per le “Major Personae” di Pound
che per le traduzioni interpretative in cui spingeva il suo discorso
fino agli estremi dell’eterogeneità: «I suoi esperimenti di traduzio-
ne sono interessanti – ha affermato Ronnie Apter – ma non intera-
mente riusciti» (ivi, p. 67).
Il criterio della «buona riuscita» è qui rappresentato dalla tradu-
zione addomesticante e scorrevole in cui gli spostamenti discorsivi
sono discreti, a malapena visibili. Ronnie Apter elogiava quindi le

289
traduzioni provenzali di Blackburn perché «egli sviluppava uno
stile in cui sia i toni colloquiali moderni che gli arcaismi deliberati
sembravano naturali» (Apter 1987, p. 72). La versione di Pound de
L’aura amara di Arnaut Daniel è invece «rovinata da escursioni
pseudoarcaiche» e rese «grottesche», che la rendono «a volte
meravigliosa e a volte esasperatamente orribile» (ivi, pp. 70, 71,
68). Di sicuro Apter condivideva parte del programma culturale
modernista, in particolare «l’enfasi sulla combinazione di passione
e intelletto». Giunse infatti al punto di applicare tale prospettiva
alle traduzioni di Pound, definendo le sue versioni di Daniel «alla
maniera di Donne», impiegando la lettura di Eliot della poesia
«metafisica» per descrivere la traduzione inglese di un testo pro-
venzale e quindi concludere, un po’ falsamente, che era stato
Pound, e non lei, a fare «un confronto riuscito a metà tra Arnaut
Daniel e John Donne» (ivi, p. 71). Il tipo di traduzione che la
Apter preferiva non era comunque modernista ma illuminista, non
storicista ma umanista, privo dell’effetto distanziante dell’elemen-
to straniero, trasparente. Il suo elogio andava alla versione di
Burton Raffel di Sir Gawain and the Green Knight perché conside-
rava «Raffel tagliato per portare i suoi lettori a identificarsi con le
emozioni dei personaggi del XIV secolo» che arrivavano a sem-
brare «fin troppo umani» (ivi, p. 64)14.

III
La marginalizzazione del modernismo nella traduzione in lin-
14 Raffel recensì molto favorevolmente, e questo non ci sorprende, lo stu-

dio della Apter (Raffel 1985), mentre il suo saggio su Pound (Raffel 1984)
includeva un capitolo sulle traduzioni, ma ometteva quasiasi discussione
sulle sue versioni di Cavalcanti e di Daniel. Si veda anche la valutazione
negativa del Catullo degli Zukofsky da parte di Lefevere (Lefevere 1975, pp.
19-26, 95-96). «Il risultato – conclude Lefevere – è una creazione ibrida di
scarsa utilità per il lettore, che al massimo testimonia il virtuosismo linguisti-
co e l’inventiva del traduttore» (ivi, p. 26). L’opera recente di Lefevere tende
ad essere «descrittiva» invece che «prescrittiva», in modo tale da consentirgli
di astenersi dal giudicare il Catullo degli Zukofsky, sebbene sottolinei che
«mai [ha] raggiunto più di una certa notorietà, in quanto curiosità destinata a
non essere presa sul serio» (Lefevere 1992a, p. 109).

290
gua inglese durante il periodo postbellico limitò le opzioni dei tra-
duttori e definì i loro interessi politici e culturali. La maggior parte
dei traduttori scelse un metodo addomesticante e scorrevole che
riduceva il testo straniero ai valori culturali inglesi predominanti e,
in particolare, al discorso trasparente, ma anche a una vasta serie
di idee, convinzioni e ideologie ugualmente predominanti, all’epo-
ca, nella cultura angloamericana (il monoteismo giudaico-cristia-
no, l’umanesimo illuministico e l’elitarismo culturale). I pochi tra-
duttori che scelsero di oppore resistenza a questi valori, sviluppan-
do un metodo estraniante e riprendendo le innovazioni di cui
Pound era stato il pioniere per dare nuovo significato alle differen-
ze culturali e linguistiche del testo straniero, andarono incontro a
critiche ed emarginazione. Le modalità secondo cui la situazione
culturale restringeva l’attività del traduttore, e le forme di resisten-
za che un traduttore modernista poteva adottare ai margini della
cultura letteraria di lingua anglofona, trovano una chiara esemplifi-
cazione nella carriera del poeta americano Paul Blackburn (1926-
1971). La domanda di primaria importanza che dobbiamo porci
per una valutazione della vicenda di Blackburn è duplice: in che
modo i suoi progetti di traduzione giunsero a negoziare il predomi-
nio della trasparenza e degli altri valori della cultura americana
postbellica? E fino a che punto egli può incarnare un modello di
resistenza a tale predominio?
Pound svolse un ruolo cruciale nella formazione di Blackburn
come poeta traduttore. Fu sotto la sua influenza che, nel 1949-
1950, quando era studente all’università del Wisconsin, Blackburn
iniziò infatti a occuparsi della poesia trovadorica provenzale. Il
racconto di Blackburn, in un’intervista rilasciata circa dieci anni
dopo, condivideva lo scetticismo verso le istituzioni accademiche
che Pound aveva espresso in molte occasioni, in particolar modo
l’idea che i corsi di studio esistenti, convalidati da un programma
culturale modernista, non includessero lo studio della poesia anti-
ca. Blackburn si presentò come difensore del modernismo chie-
dendo una revisione del programma di studio universitario che
portasse al ripristino dei vecchi corsi:

Ciò che mi ha spinto a iniziare lo studio della poesia provenzale


è stata la lettura delle provocazioni contenute nei suoi Cantos, e
l’irritante incapacità di comprendere tale letteratura. Non essen-

291
do stata oggetto di corso a Wisconsin dagli anni Trenta, mi
rivolsi al professor [Karl] Bottke, il medievalista locale, che si
offrì di seguirmi personalmente in quegli studi. Il corso mi ser-
viva per conseguire un punteggio, ma perché potesse accordar-
melo aveva bisogno di cinque studenti: gliene procurai otto e
facemmo un corso molto buono.
(Ossmann 1963, p. 22)

Una delle compagne di classe di Blackburn, Sister Bernetta


Quinn, la quale in seguito dedicò diversi studi critici alla scrittura
di Pound, descrisse il corso definendolo come lo sforzo «di ade-
guarsi alle intenzioni del loro maestro», presenti in opere quali Lo
spirito romanzo (Quinn 1972, p. 94). Annotò anche che l’imitazio-
ne del «maestro» da parte di Blackburn si sviluppò in un progetto
di traduzione: «Molti dei nostri compiti, perfezionati, apparvero in
Proensa di Blackburn, del 1953, una rivelazione della bellezza da
scoprire nella canzone trovadorica “rinnovata” e un tributo all’in-
fluenza di Pound» (ibidem).
Pubblicato dalla casa editrice del poeta Robert Creeley, la Divers
Press di Maiorca, Proensa era una traduzione bilingue di undici testi
di sette poeti provenzali. Fu sulla base di quest’opera che Blackburn
ottenne una borsa di studio Fullbright per continuare i suoi studi
provenzali all’università di Tolosa negli anni 1954-1955. Quando la
borsa di studio terminò, egli restò in Europa per altri due anni, dap-
prima insegnando inglese a Tolosa mentre continuava le ricerche di
manoscritti e di edizioni provenzali in biblioteche francesi e italiane,
quindi spostandosi di città in città tra la Spagna e Maiorca, scriven-
do le sue poesie e traducendo. Nel 1958 Blackburn aveva completa-
to un intero libro di traduzioni di poesia trovadorica. In una cartolina
indirizzata a Pound (datata «IV.17.58»), scriveva:

Ora l’antologia dei trovadori è pronta. 105 componimenti (da


150 originari: e scommetti che vorranno tagliarne ancora?).
Eccetto le opere, da G[uille]m a Cardenal, Riquier e Pedro de
Aragon. (1285). 8 anni su questo lavoro. Ho una copia in più
senza note, se me la restituirai in breve tempo. Dimmi solo che
ti interessa vederla15.

15 Cito la corrispondenza Blackburn-Pound da Paul Blackburn, Letters to

292
Forse il momento più decisivo dell’apprendistato di Blackburn
come poeta traduttore modernista fu la sua corrispondenza con
Pound. A partire dal 1950 e fino al 1958, a intervalli, Blackburn
scrisse a Pound presso il St. Elizabeth e in qualche occasione lo
andò a visitare, una volta tornato a New York. Insieme alle lettere
Blackburn spedì spesso a Pound le sue traduzioni, in cerca sia di
una critica dettagliata, parola per parola, sia di risposte a proble-
matiche specifiche poste dai testi provenzali. La prima replica di
Pound, scarabocchiata su un unico foglio di carta, incoraggiò
Blackburn a sviluppare un discorso di traduzione che «moderniz-
zasse Joyce in Ford» (10 febbraio 1950). In seguito Pound approvò
esplicitamente le traduzioni di Blackburn, dando istruzioni a
Dorothy Pound affinché gli scrivesse queste parole: «Possiedi una
sensibilità certa per il provenzale e dovresti restargli fedele». In
seguito predispose la pubblicazione di una sua versione. In un dat-
tiloscritto aggiunto alla lettera di Dorothy, Pound scrisse: «“Ab l’a-
len” [di Peire Vidal] approvato in modo sufficiente perché Ez spe-
disca lo stesso a un editore che paga QUANDO stampa» (12 ago-
sto 1952).
È estremamente importante notare che le lettere di Pound inco-
raggiarono l’apprendistato di Blackburn nel programma culturale
modernista. La prima risposta di Pound criticava l’uso del linguag-
gio negli Stati Uniti dal punto di vista della poetica modernista:

The fatigue,
The “ , my dear Blackpaul,
of a country where no
exact statements are
ever made!!
(10 febbraio 1950)

Ezra Pound, Collection of American Literature, Beinecke Rare Book and


Manuscript Library, Yale University, e Ezra e Dorothy Pound, Letters to Paul
Blackburn, Paul Blackburn Collection, Archive for New Poetry. Nessuna
delle due raccolte contiene le prime lettere di Blackburn a Pound del 1950.
Parte della corrispondenza è datata dai corrispondenti stessi o dagli archivisti;
le date che ho congetturato sulla base di un rimando interno sono segnate con
un punto interrogativo. La mia lettura del rapporto fra Blackburn e Pound si
basa su Sedgwick 1985.

293
Pound suggerì a Blackburn di leggere alcuni trovadori da
un’angolatura modernista: «Pieire Cardenal non si nascondeva die-
tro l’estetismo» (non datata; 1957?); «Prova Sordello» (1 dicembre
1950). Fece poi in modo che Blackburn incontrasse altri poeti
modernisti che vivevano a New York, come Louis Dudek e
Jackson MacLow (4 luglio 1950), e lo incitò a studiare storia cul-
turale ed economica «per collocare le cose DENTRO qualcosa»,
per collocare le sue traduzioni provenzali in un contesto storico
(25 gennaio 1954?). Pound criticò ripetutamente le istituzioni
accademiche per l’assenza di insegnamento del senso della storia,
giungendo talvolta addirittura a interrogare Blackburn sui perso-
naggi storici:

Ignorance of history in univ/ grads/ also filthy. blame not the


pore stewwddent, but the goddam
generations of conditioned profs/ / / / thesis fer Sister B/:
absolute decline of curiosity re/
every vital problem in U.S. educ/ from 1865 onward. Whentell
did Agassiz die? anyhow.)
(20 marzo 1950)

Il senso della storia che Pound insegnava in queste lettere evita-


va ogni riduzione grossolana del passato al presente, tanto quanto
ogni riduzione del presente al passato. La prima conduceva a «pro-
grammi / “modernizzanti”, vale a dire a escludere qualsiasi pensie-
ro fondamentale da TUTTE le dannate univs» (20 marzo 1950),
mentre la seconda portava a un atteggiamento antiquario privo di
importanza per il presente: «la filologia puramente retrospettiva
MANCA di vitalità» (1957?). La «vitalità» proveniva dal permet-
tere alla differenza storica delle culture precedenti di sfidare la
situazione culturale contemporanea. «BLACKBURN» scrisse
Pound «potrebbe attribuirgli un po’ di vita SE volesse ampliare la
sua curiosità», e poi aggiungeva un riferimento al Law of
Civilization and Decay (1895) dello storico Brooks Adams: «Vid
Brooks Adams/ Civ/ & Dec Knopf reissue/ p.160» (25 gennaio
1954?).
Il fatto che Blackburn apprendesse gradualmente da questa cor-
rispondenza è evidente nella sua recensione del 1953 all’opera di
Hugh Kenner, The Poetry of Ezra Pound. Blackburn descriveva

294
«le posizioni più forti e più criticate» di Pound, il suo «carattere
per l’onorevole intelligenza contro l’astuzia materiale degli usu-
rai» e «la sua insistenza sulla definizione e l’esattezza contro la
confusione, il deliberato nascondimento dei fatti e la menzogna
vera e propria» (Blackburn 1953, p. 217). In questa recensione
alquanto negativa, Blackburn ostentava un tono irritabile, incredi-
bilmente simile a quello di Pound, contestando la decisione di
Kenner di criticare i critici dei Cantos : «Egli addenta quei lupi
rosicchiati dai tarli, giornalisti ed educatori, e il resto di quella pac-
cottiglia di vecchie marionette che vanno insieme a ciò che egli
definisce “la stampa letteraria di cultura medio-alta”, per poi
respingerli» (ivi, p. 215). La domanda che Blackburn indirizzava a
Kenner, come a ogni altro lettore della poesia di Pound, era:

Perché perdere tempo con gli stupidi? Impiega il tuo sforzo


onesto positivamente, fai il lavoro onestamente, educa dalla
cima, dove ce n’è una. Kung dice: «Non si può estrarre tutto lo
sporco dal terreno prima di aver piantato il seme».
(ivi, p. 216).

Con l’allusione di Blackburn al confucianesimo dei Cantos


(«Kung dice»), egli si proiettava su Pound instaurando un proces-
so di identificazione per il recensore (un aspirante poeta tradutto-
re), ma in modo che fosse riconoscibile, come una posa, al lettore
della recensione. La corrispondenza complica ulteriormente l’al-
lusione svelando un altro, più competitivo, livello di identificazio-
ne: questo brano dalla recensione di Blackburn è un plagio; il
tono, le idee e perfino le parole sono, in realtà, di Pound.
Blackburn citava da una delle lettere di Pound indirizzate a lui,
ma senza ammetterlo:

Acc/ Kung: Not necessary to take all the dirt out of


the field before yu plant seed.

Hindoo god of wealth inhabits cow dung. Del Mar: gold mining
not
only ruins the land, it ruins it FOREVER. No reason to
sleep on a middan.
Bombs no kulchurl value.

295
IF possible to educate from the top??
Where there is any top. But at least from where one IS.
(12 agosto 1950)

La direttiva di Pound a Blackburn – simile a un adagio: «Acc/


Kung» – sembra suggerire che i materiali culturali preesistenti
sono «necessari» per le innovazioni, per quanto regressivi possano
apparire («the dirt»). E in effetti tale paradosso viene reso signifi-
cativo dal linguaggio frammentato di Pound, «Acc/ Kung», un
gioco di parole su «Achtung» («attenzione») che faceva della mas-
sima cinese e, contemporaneamente, tedesca, un recupero del con-
fucianesimo con una sfumatura fascista: la risonanza d’attualità di
«Achtung» sarebbe stata più marcata, e più significativa dal punto
di vista ideologico, per un lettore di lingua inglese dell’era della
Guerra Fredda. La recensione di Blackburn trasformava questo
brano della lettera di Pound in una direttiva perché il critico per-
mettesse alla situazione culturale corrente, per quanto regressiva,
di determinare il «lavoro necessario», il tipo di commento in grado
di mutare la situazione in una più favorevole alla poesia di Pound
(Blackburn 1953, p. 215). Nel caso di Kenner, ciò voleva dire edu-
care gli educatori («the top») sulla «forma, o tecnica o materiali [di
Pound], o ciò che da essi segue, ciò a cui essi conducono»
(ibidem). Blackburn addebitava a Kenner «uno stato di discepolo
troppo semplice», mentre egli ne esemplificava, presumibilmente,
uno più complicato, come sappiamo ora, evidente nel plagio delle
citazioni dalle lettere di Pound.
In tale plagio, Blackburn presupponeva e contemporaneamente
qualificava l’identità di Pound, raccomandando un’appropriazione
strategica del modernismo in un momento in cui esso occupava
una posizione marginale nella cultura americana. La strategia di
Blackburn richiedeva un confronto con la politica culturale moder-
nista di Pound, una revisione che facesse in modo che essa potesse
intervenire in una situazione sociale successiva. Egli imputava a
Kenner un’accettazione «acritica» del modernismo di Pound,

che non affrontava l’aspetto degli assi economici e sociali della


sua critica, e le conclusioni che questi comportano. Il poeta,
questo poeta, in qualità di riformatore economico e sociale, è
un dilemma che tutti noi dobbiamo affrontare col tempo. Deve

296
essere affrontato prima che possa essere fatto funzionare. Il
problema non può essere ignorato, né va bene mandare giù
acriticamente le teorie e i fatti dell’uomo. Ed è semplicemente
sciocco e da ignoranti ingiuriarlo. Vi è più di un manicomio a
Washington di questi tempi.
(Blackburn 1953, p.217)

La corrispondenza dimostra che l’identità di Blackburn come


poeta traduttore non era solo modernista, ma anche maschilista.
Era costruita su una base di rivalità edipica con Pound, per cui
Blackburn cercava approvazione e incoraggiamento dal padre poe-
tico in lettere franche e personali che legavano la sua scrittura a
relazioni sessuali con le donne. La natura edipica di questa rivalità
modella l’autoritratto bohémien che Blackburn fornisce di sé nella
corrispondenza, le sue deviazioni dalla rispettabilità borghese, il
suo impiego occasionale dell’oscenità («The defense is not to give
a fuck»). Le sue lettere imitavano il tono colloquiale arcigno delle
lettere di Pound, ma le superavano di gran lunga in quanto a shock
espressivo (Pound non va oltre «goddam», “maledetto”). Dopo la
lettera in cui Pound lo avvertiva di aver inviato a un editore la tra-
duzione di “Ab l’alen” di Peire Vidal (12 agosto 1950), la risposta
di Blackburn rendeva evidente la configurazione edipica della sua
identità autoriale:

GRAZIE, POUND. E la stagione secca è finita! Sono stato a


sedere qui cercando di distrarmi leggendo. NG. Altre distrazio-
ni fisiche meglio per la salute et alli. Andare a fonti come il
sesso e alla fine rilassarsi e star bene e ruppi la siccità in una
doccia di qualcosaoqualcosaltro. Pace pura: entrare in una
donna rilassato, ossia nel controllo delle tensioni; sedersi e scri-
vere di nuovo, ossia nel controllo delle tensioni. Così, di nuovo
in piedi guardando facendo e sentendo.
(primi di settembre 1950?)

Sebbene questo passaggio interessante si apra con Blackburn


che ringrazia Pound «per l’incoraggiamento pratico», cioè l’invio
della traduzione, inizia subito dopo a suggerire che lo stesso
Blackburn ruppe «la siccità» della sua scrittura tramite il
«sesso». Egli non sfida Pound in modo diretto: uno degli aspetti

297
del brano che colpisce maggiormente è la cospicua omissione di
pronomi di prima persona che indicherebbero l’intervento di
Blackburn. Questo brano costruisce soltanto un soggetto: Pound.
Tuttavia, un agente appare nell’improvvisa rottura sintattica di
«ruppi la siccità», che presuppone un «io», distinto da Pound, e
quindi suggerisce la competizione sessuale alla base dell’identità
di Blackburn come poeta traduttore. Questa identità è, fondamen-
talmente, una costruzione patriarcale che richiede una donna
quale oggetto della sessualità maschile perché Blackburn possa
riconquistare il «controllo» sulla sua scrittura. Lo sfruttamento
sessuale di «una donna» sposta su Pound la dipendenza letteraria
di Blackburn.
Pochi mesi più tardi, il giorno del suo venticinquesimo com-
pleanno, Blackburn scrisse a Pound una lunga lettera che prolun-
gava questo legame tra scrittura e sessualità. Questa volta veniva
invocato un altro scrittore canonico, e i partner sessuali si moltipli-
cavano:

Un mese fa, tre settimane, qualcosa, mi sono liberato di due


amiche, attaccato briga, per ragioni adeguate, distaccato. Un
mese dopo, entrambe, a intervalli, adornano il mio letto, molto
più sicure grazie all’onestà riconquistata con la loro e la mia
nuova valutazione. Non si pone fine alle relazioni. Le storie
non finiscono. Shxpr lo sapeva e uccise tutti i suoi personaggi
principali, ponendo fine alla LORO storia: la seule methode
effectif.
(24 novembre 1950)

Blackburn è nuovamente «nel controllo» nell’inventare il suo


concetto sessualmente potente di «onestà», nello scrivere la sua
narrazione tanto quanto quella delle sue «amiche», qui paragonate
ai personaggi di Shakespeare mentre paragona se stesso al grande
poeta.
Questo è il doppio triangolo dell’identità letteraria di
Blackburn: la rivalità con Pound viene elaborata attraverso il
dominio sessuale sulle donne e l’identificazione con altri scrittori
canonici:

298
Funny thing, fear of death, I am twenty-five on this
date. Seen, faced, lived with, worked with, d e a t h. We are all
familiars with it, the twenty-five to thirty group. Somewhat,
someh o w.
The defense is not to give a fuck.
I am defenseless.
I care about too much.
Your position too. Why you are where you are.
Elective affinities. Good title. (G. was afraid of his genius.)
(Loved many worthy and unworthy women and married – his
housekeeper.)
(ibidem)

L’imitazione di Blackburn della scrittura discontinua delle let-


tere di Pound dava luogo a un suggestivo stile di libera associazio-
ne che rivelava non solo il livello delle sue ambizioni poetiche
(Goethe), ma anche le loro condizioni sessuali. La rivalità con
Pound, al tempo stesso letteraria e sessuale, diviene infine esplicita
verso la fine di questa lettera:
Ti interessa vederne ancora [di traduzioni]? Farò delle copie.
Rammentandomelo ti procurerò dei testi di queste cose per
Natale. Voglio darti qualcosa. Se ti serve qualcosa che potrei
trovare fammi sapere. Sono inaffidabile e fedele. Se ciò ha per
te un senso, io sono fedele a due splendide donne contempora-
neamente.
(ibidem)
Blackburn è «fedele» a Pound nel senso del suo rispetto per
l’autorità letteraria dell’anziano scrittore, ma «inaffidabile» per lo
sforzo di sfidare quell’autorità attraverso affermazioni sulla sua
potenza sessuale (vale a dire quando è «fedele a due splendide
donne contemporaneamente»).
È impossibile sapere cosa pensasse Pound di tali rivelazioni
personali. Nessuna delle sue lettere vi faceva riferimento. Eppure,
dopo quest’ultima lettera rivelatoria, sembra che Pound abbia
interrotto la corrispondenza, che per tre anni non venne ripresa.
«C’è qualcosa che non va?» scrisse improvvisamente Blackburn
nel 1953, «oppure da parte tua hai posto fine alla corrispondenza?
E se quest’ultima possibilità è ciò che è accaduto, ti dispiace se ti

299
scrivo ogni tanto?» (4 luglio 1953). La corrispondenza era divenu-
ta sufficientemente importante per la percezione che Blackburn
aveva di sé come scrittore che gli bastava semplicemente scrivere
a Pound, anche senza ottenere risposta.
Tardiva nella corrispondenza, la rivalità di Blackburn emerge
con la scelta di tradurre un testo provenzale osceno che Pound, in
un accesso di pruderie borghese, si era rifiutato di tradurre. Si trat-
tava di “Puois en Raimons e n Trucs Malecs”, scritto dal poeta che
ispirò le traduzioni più innovative di Pound: Arnaut Daniel. Ne Lo
spirito romanzo Pound aveva definito il testo di Daniel una «satira
troppo rancida per il palato moderno» (Pound 1952, p. 35).
Blackburn, tuttavia, lo tradusse e, il 3 gennaio 1957, lo inviò a
Pound da Malaga. Eccone una strofa:

Better to have to leave homew, better into exile,


than to have to trumpet, into the funnel between
the griskin and the p-hole, for from that place there come
matters better not described (rust-coloured). And you’d never
have the slightest guarantee that she would not leak
over you altogether, muzzle, eyebrow, cheek.

Nella lettera acclusa Blackburn dichiarava che la sua traduzio-


ne era riuscita, «letterale al punto giusto, e lo spirito è lì», ricono-
scendo a Pound la sua prima percezione dell’oscenità del testo e
aggiungendo: «Non sarà mai pubblicata». Blackburn considerava
il linguaggio osceno come la prerogativa del poeta modernista che
impiega un discorso colloquiale, seguendo William Carlos
Williams, e nell’intervista con David Ossman denotò tale linguag-
gio come maschile:

Se vuoi cominciare dal punto di vista che il discorso, anche


quello comune, è un mezzo molto giusto e valido per la poesia,
scoprirai che il discorso comune di alcune persone è più comu-
ne di quello della maggior parte. Questo includerebbe molti
membri maschili; le donne di solito controllano il proprio lin-
guaggio con discreta attenzione, e ciò è più che giusto.
(Ossman 1963, p. 25)

Nel 1959, subito dopo aver sottoscritto un contratto con

300
Macmillan per pubblicare la sua traduzione provenzale, Blackburn
scrisse nuovamente a Pound suggerendogli che l’oscenità era una
prerogativa del poeta – traduttore maschio:

Macmillan metterà sul mercato i trovadori in edizione ristretta


in primavera, se riesco a finire l’introduzione. Credo di aver
salvato il testo di “tant las fotei com auziretz” ma, nel comples-
so, quando protestavano per il linguaggio forte, suggerivo di
tagliare interamente il pezzo dal libro. Marcabru, Guillem VII
eccetera non devono fare i conti con una tradizione protestante.
Jeanroy tagliando, eliminando completamente quelle stanze
nella sua versione letterale fr. all’interno dell’edizione. Sua
moglie ha letto le bozze?
(5 febbraio 1959)

Blackburn aveva reso il provenzale fotei con «fucked», “fotte-


re”. L’interesse per l’oscenità, espresso dalla versione di «Truc
Malec» e da questa lettera, illustra come la rivalità con Pound
determinasse i progetti di traduzione di Blackburn, talvolta con
modalità molto dirette.
L’espressione più intensamente maschilista di tale rivalità,
intersoggettiva e al tempo stesso intertestuale, coinvolge un testo
di Bertran de Born, una celebrazione del militarismo feudale sulla
quale avevano lavorato sia Pound che Blackburn: “Bem platz lo
gais temps de pascor”. Pound ne aveva dato una versione ne Lo
spirito romanzo, parte in versi e parte in prosa, per illustrare l’af-
fermazione in cui diceva che «il miglior Bertran è quello dei canti
guerrieri» (Pound 1991, p. 56):

E altresim platz de senhor


Quant es primiers a l’envazir
En chaval armatz, sens temor,
Qu’aissi fai los seus enardir
Ab valen vassalatge,
E puois que l’estorns es mesclatz,
Chascus deu esser acesmatz,
E segrel d’agradatge,
Que nuls om non es re prezatz
Tro qu’a maintz colps pres e donatz.

301
Massas e brans elms de color
E scutz trauchar e desgarnir
Veirem a l’intrar de l’estor
E maintz vassals ensems ferir,
Dont anaran aratge
Chaval dels mortz e dels nafratz;
E quant er en l’estorn entratz
Chascus om de paratge,
No pens mas d’asclar chaps e bratz,
Que mais val mortz que vius sobratz.
(Thomas 1971, p. 132)

Thus that lord pleaseth me when he is first to attack, fearless,


on his armed charger; and thus he emboldens his folk with valiant
vassalge; and then when stour is mingled, each wight should be
yare, and follow him exulting; for no man is worth a damn till he
has taken and given many a blow.

We shall see battle axes and swords, a-battering colored haumes


and a-hacking through shields at entering melee; and many vas-
sals smiting together, whence there run free the horses of the
dead and wrecked. And when each man of prowess shall be
come into the fray he thinks no more of (merely) breaking heads
and arms, for a dead man is worth more than one taken alive16.
(Pound 1952, p. 35)

Anche se questa versione è abbastanza aderente all’originale,


Pound vi sviluppa un discorso inglese eterogeneo per indicare la
16 «E altresì mi piace il signore quand’è primo ad assalire, intrepido sul
cavallo armato. Ché così, con valente prodezza, fa ardita la sua gente; e poi,
ingaggiata la mischia, ognuno dev’essere pronto a seguirlo di buon grado,
poiché nessuno è di nessun pregio finché non ha dato e ricevuto parecchi
colpi.// Mazze e brandi, elmi colorati e scudi tranciare e sguarnire vedremo al
cominciar della mischia, e molti vassalli ferire insieme, dal che andranno
sbandati i cavalli dei feriti e dei morti; e quando sarà entrato nella zuffa, ogni
uomo d’ardire non pensi (che) a spaccar teste e braccia, poiché val più morto
che vivo sopraffatto» (Pound 1991, p. 56). Si è scelto di inserire nel volume
le traduzioni dei testi poetici solamente laddove già esistenti in edizione ita-
liana. Per gli altri testi si rimanda alle versioni originali [N.d.T.].

302
distanza storica del testo provenzale, come risulta particolarmente
evidente nel lessico arcaico. La parola «stour» rende il provenzale
estorn, estor, che vuol dire «lotta», «conflitto» (Levy 1966). La
scelta di Pound è virtualmente un equivalente omofono, un calco,
ma è anche un arcaismo di lingua inglese, che vuol dire «mischia»,
combattimento armato, inizialmente in anglosassone, ma mantenu-
to sia nell’inglese medievale che nel primo inglese moderno. Il ter-
mine compare nell’Eneide di Gavin Douglas, tra i molti altri testi
letterari, di prosa e poesia, pre-elisabettiani ed elisabettiani. L’uso
curioso a opera di Pound di «colored haumes» per il provenzale
«elms de color» («elmi colorati»), incrementa in effetti la presenza
di arcaismi nel testo, ma la sua etimologia è incerta, e potrebbe
non essere una parola inglese strettamente arcaica: sembra essere
più simile alla variante sillabica della parola del francese moderno
heaume, «elmo», che a una delle varianti di inglese arcaico per
«helm» (cfr. OED, s.v. «helm»). Ciò che tale arcaismo faceva sem-
brare straniero in questo testo era il tema militaristico, che Pound
definiva e contemporaneamente valorizzava con una scelta sugge-
stiva. Egli tradusse «chascus om de paratge» con «each man of
prowess» («ogni uomo d’ardire»), rifiutando le possibilità più
genealogiche di «paratge» (“linearità”, “famiglia”, “nobiltà”), e
più indicative del dominio di classe, a favore di una scelta che sot-
tolineava il valore centrale dell’aristocrazia feudale cui attribuisce
il genere maschile: «valore, audacia, ardimento, temerarietà mar-
ziale; coraggio maschile, fermezza attiva» (OED, s.v. «prowess»).
Nel 1909, un anno prima della pubblicazione de Lo spirito
romanzo, Pound aveva pubblicato un libero adattamento del testo
di Bertran “Sestina: Altaforte”, in cui impiegava la stessa strategia
arcaizzante. Tuttavia qui Pound celebrava il mero atto dell’aggre-
sione, caratterizzato come tipicamente aristocratico e maschilista,
ma privo di qualunque idea di audacia:

The man who fears war and squats opposing


My words for stour, hath no blood of crimson
But is fit only to rot in womanish peace
Far from where worth’s won and the swords clash
For the death of such sluts I go rejoicing;
Yea, I fill all the air with my music.
(Pound 1956, p. 8)

303
Come ha affermato Peter Makin, l’appropriazione da parte di
Pound di un poeta precedente quale Bertran serve «come esempio,
come dimostrazione di un possibile modo di vivere», gravato inol-
tre da diverse determinazioni culturali e ideologiche (Makin 1978,
p. 42). Makin collega «l’aggressività fallica» di “Sestina:
Altaforte” alla stima di Pound per «la “linea netta medievale”» in
architettura, come anche ai suoi panegirici di dittatori passati e
presenti, quali Sigismondo Pandolfo Malatesta, della Rimini rina-
scimentale, e Benito Mussolini, «un maschio della specie» (Makin
1978, pp. 29-35; Pound 1954, p. 83).
Blackburn incluse una traduzione della poesia di Bertran nel-
l’antologia trovadorica di cui aveva fatto menzione a Pound nel
1958. Egli seguì l’esempio di Pound nel perseguire una strategia di
traduzione modernista, ricorrendo al verso libero con i ritmi sottil-
mente intricati e operando una selezione inventiva di arcaismi. La
traduzione di Blackburn è una potente performance in grado di
competere, e di superare, entrambe le appropriazioni del testo pro-
venzale fatte da Pound:

And I love beyond all pleasure, that


lord who horsed, armed and beyond fear is
forehead and spearhead in the attack, and there
emboldens his men with exploits. When
stour proches and comes to quarters
may each man pay his quit-rent firmly,
follow his lord with joy, willingly,
for no man’s proved his worth a stiver until
many the blows
he’s taken and given.

Maces smashing painted helms,


glaive-strokes descending, bucklers riven:
this to be seen at stour’s starting!
And many valorous vassals pierced and piercing
striking together!
And nickering, wandering lost, through
the battle’s thick,
brast-out blood on broken harness,
horses of deadmen and wounded.

304
And having once sallied into the stour
no boy with a brassard may think of aught, but
the swapping of heads, and hacking off arms –
for here a man is worth more dead
than shott-free and caught!
(Blackburn 1958, pp. 119-120)

«Quit-rent», «vassals», «glaive-strokes», Blackburn ha creato


un lessico chiaramente medievale e talvolta imitato i modelli
anglosassoni nel ritmo e nell’allitterazione («brast-out blood on
broken harness»). Il discorso della sua traduzione non era solo sto-
ricizzante, ma anche estraniante: alcuni degli arcaismi erano deci-
samente sconosciuti, o anacronistici, impiegati in periodi più tardi
del Medioevo. «Stiver», che indica una piccola moneta, è usato per
la prima volta nel XVI secolo. Il verbo «nicker» è la versione di
«neigh», impiegato nel XIX secolo, e compare in testi letterari
come il romanzo Il monastero (1820) di Sir Walter Scott.
«Brassard» è francese per «armor», ma in inglese si tratta di un
altro uso del XIX secolo, questa volta vittoriano, aggiungendo in
questo modo alla traduzione un tocco di medievalismo preraffaeli-
ta. Anche la parola «proches» è francese, almeno nella sillabazio-
ne: nella traduzione di Blackburn è un neologismo pseudoarcaico,
una parola francese anglicizzata che si presenta come variante
arcaica della sillabazione di «approaches» ma che in realtà non lo
è (tale sillabazione non è registrata nell’OED).
E naturalmente c’è il prestito da Pound, «stour», uno dei molti
prestiti che ricorrono nelle traduzioni di Blackburn (Apter 1987,
pp. 76-77; Apter 1986). Apter ha argomentato che costituiscono
un «omaggio» a Pound «in quanto fonte dell’interesse [di
Blackburn] per la guida alla traduzione delle liriche provenzali»
(1987, p. 77). Ma per quanto i prestiti inseriscano il linguaggio di
Pound in un contesto diverso, il loro significato varia, ed essi pos-
sono anche indicare una competizione con Pound, perfino un tra-
dimento. L’appropriazione di «stour» da parte di Blackburn per-
mette alla sua traduzione di contestare le appropriazioni di Pound
della poesia di Bertran, e la rivalità si configura, in modo abba-
stanza interessante, con le revisioni provocatorie che mettono in
questione le determinazioni ideologiche dei testi di Pound.
Dunque, in contrasto notevole con Pound, Blackburn rese «cha-

305
scus om de paratge» con «no boy with a brassard». L’espressione
crea possibilità di significato che destano confusione. Può essere
interpretata come stile colloquiale moderno, come espressione
appassionata di complicità maschile. Blackburn utilizzò «boys» in
questo modo all’inizio di Companho, faray un vers ... covinen di
Guillem de Poitou:

I’m going to make a vers, boys ... good enough,


But I witless, and it most mad and all
Mixed up, mesclatz, jumbled from youth and love and joy –

Tuttavia, il singolare «boy» della traduzione può essere inter-


pretato come un altro tipo di stile colloquiale, un’espressione
maschilista di disprezzo, in genere per la debolezza altrui. Anche
qualora venisse interpretato il significato più accettato (“bambi-
no”), l’uso che Blackburn fa di «boy» ironizza apertamente l’elo-
gio di Bertran per il militarismo feudale, contraddistinguendolo
come infantile, non virile, e cancellando la suggestione del domi-
nio maschile di «paratge». È interessante notare che la rivalità edi-
pica di Blackburn nei confronti di Pound, nonostante possieda una
configurazione di per sé maschilista, conduce, paradossalmente, a
una traduzione che mette in discussione l’aggressività fallica del
padre poetico, il suo investimento nel patriarcato feudale che figu-
ra nei testi provenzali.
Tale rivalità condusse Blackburn a superare Pound nello svilup-
po di quel discorso della traduzione di cui Pound stesso era stato il
pioniere. In base alla costruzione edipica del loro rapporto era ine-
vitabile che la competizione discorsiva si verificasse nella rappre-
sentazione trovadorica della dama. Proprio come Pound aveva pro-
dotto la sua opera innovativa con Cavalcanti contestando l’immagi-
ne preraffaelita della dama delle versioni di Rossetti («padre e
madre» poetico di Pound), così Blackburn incrementò l’eteroge-
neità della sua traduzione mettendo in discussione l’investimento di
Pound nelle immagini patriarcali della lirica amorosa provenzale.
I personaggi femminili della poesia provenzale sono spesso
l’oggetto del desiderio sessuale maschile, ma la loro rappresenta-
zione varia a seconda della classe di appartenenza. Le donne ari-
stocratiche vanno soggette a un’idealizzazione fisica e spirituale,
trasformate in ornamento passivo per mezzo dell’elaborata rete di

306
immagini dei loro amanti, con i quali trovano un variabile succes-
so sessuale; le donne delle classi più umili ricevono un trattamento
più realistico, coinvolgendo forme di seduzione che variano dalla
piacevole lusinga all’intimidazione brutale. Per Lo spirito romanzo
Pound tradusse “L’autrier jost’un sebissa” di Marcabru, che egli
identificava con la storia di una “pastorella”, un dialogo in cui un
cavaliere in viaggio attraverso il paese si imbatte in una contadina
e tenta di sedurla. La versione di Pound è scritta in un inglese pre-
ciso e corrente, leggermente arcaizzato:

L’autrier jost’un sebissa


trobei pastora mestissa,
de joi e de sen massissa,
si cum filla de vilana,
cap’ e gonel’ e pelissa
vest e camiza trelissa,
sotlars e caussas e lana.

Ves lieis vinc per la planissa:


«Toza, fim ieu, res faitissa,
dol ai car lo freitz vos fissa.»
«Seigner, som dis la vilana,
merce Dieu e ma noirissa,
pauc m’o pretz sil vens m’erissa,
qu’alegreta sui e sana.»

«Toza, fi’m ieu, cauza pia,


destors me sui de la via
per far a vos compaignia;
quar aitals toza vilana
no deu ses pareill paria
pastorgar tanta bestia
en aital terra, soldana.»
(Dejeanne 1971, p. 33)

The other day beside a hedge


I found a low-born shepherdess,
Full of joy and ready wit,
And she was the daughter of a peasant woman;

307
Cape and petticoat and jacket, vest and shirt of fustian,
Shoes, and stockings of wool.

I came towards her through the plain,


«Damsel,» said I, «pretty one,
I grieve for the cold that pierces you.»
«Sir,» said the peasant maid,
«Thank God and my nurse
I care little if the wind ruffle me,
For I am happy and sound.»

«Damsel,» said I, «pleasant one,


I have turned aside from the road
To keep you company.
For such a peasant maid
Should not, without a suitable companion,
Shepherd so many beasts
In such a lonely place»17.
(Pound 1952, pp. 62-63)

Ancora una volta, la versione di Pound è piuttosto letterale, e


non si distingue per invenzione prosodica o lessicale.
L’allontanamento più netto dal testo provenzale è tuttavia estrema-
mente chiaro: egli impiega l’arcaismo «damsel» per rendere l’epi-
teto con cui il cavaliere apostrofa la pastorella, «toza», quella che
Emil Levy definiva «jeune fille», ragazza (Levy 1966), ma con
una connotazione spiacevole, «fille de mauvaise vie», ragazza
immorale (anche il testo provenzale stigmatizza la ragazza con
«mestissa», un riferimento ai suoi bassi natali che similmente
porta con sé il senso di «mauvais, vil»). Con l’uso di «damsel»
17 «L’altro ier presso una siepe/ vidi un’umile pastora,/ assennata e spiri-
tosa,/ ch’era figlia di villana./ Cappa, gonna e camicetta,/ veste e giacca di
traliccio,/ scarpe e calze avea di lana.// M’appressai per la pianura:/ “Tosa, –
dissi – gran bellezza,/ duolmi che vi punga il vento”./ “Signor, – disse la vil-
lana – / Dio ringrazio e la mia balia:/ poco val se mi scompiglia,/ perché
sono allegra e sana”.// “Tosa, – dissi – gran delizia,/ sono uscito dalla via/
sol per farvi compagnia,/ perché tal bella villana/ non può, senza buon com-
pagno,/ pascolar tante bestie/ sola sola in questa piana”» (Pound 1991, p.
69) [N.d.T.].

308
Pound idealizza e nel contempo ironizza l’immagine della ragazza,
sottolineando sarcasticamente l’inferiorità della sua posizione
sociale e ritraendo il cavaliere come un seduttore argutamente
ambiguo, pronto ad avere il sopravvento sulle sue resistenze facen-
do appello in modo lusinghiero alle sue (presunte) aspirazioni di
classe.
Pound godeva a tal punto della sessualità predatoria del cava-
liere che immaginò malinconicamente che la ragazza, alla fine,
cedesse. Dopo aver citato la sua traduzione parziale della poesia,
aggiunse: «E così via, finché alla fine l’avventura non è portata a
buon successo» (Pound 1991, p. 70). Ma il fatto è che la ragazza
resiste alle proposte galanti del cavaliere e conclude il dialogo con
una battuta di spirito criptica, secondo la resa di Frederick Goldin,

«Don, lo cavecs vos ahura,


que tals bad’en la peintura
qu’autre n’espera la mana».

«Master, that owl is making you a prophecy:


this one stands gaping in front of a painting,
and that one waits for manna»18.
(Goldin 1973, p. 77)

Blackburn tradusse l’intero testo di Marcabru, ed è abbastanza


chiaro che la sua versione prende dei versi in prestito da quella di
Pound, mentre altrettanto chiaramente rivede l’aggressività fallica
del padre:

The other day, under a hedge


I found a low-born shepherdess,
full of wit and merriment
and dressed like a peasant’s daughter:
her shift was drill, her socks were wool,
clogs and a fur-lined jacket on her.

I went to her across the field:


18 L’originale dice infatti che il cavaliere «bad’en la peintura», resta cioè

a bocca asciutta [N.d.T.].

309
— Well, baby! What a pretty thing,
You must be frozen, the wind stings ...
— Sir, said the girl to me,
thanks to my nurse and God, I care
little that wind ruffle my hair,
I’m happy and sound.

— Look, honey, I said, I turned


into here and out of my way
just to keep you company.
Such a peasant girl ought not
without a proper fellow
pasture so many beasts alone
in such a wild country.
(Blackburn 1958, p. 24)

Blackburn si impegnò duramente per superare Pound a qualsia-


si livello. La sua prosodia inventiva tendeva a mimare gli effetti
sonori, simili a canzone, del testo provenzale, evocando la musica
di “The Passionate Shepherd to His Love” di Christopher Marlo-
we, soprattutto al termine della prima stanza. Egli creò un discorso
di traduzione che esemplificava ogni lessico più disparato, passato
(«drill») e presente («honey»), britannico («proper fellow») e ame-
ricano («pretty thing»), standard («sir») e gergale («baby»). In una
versione successiva Blackburn rese grossolano il colloquio trasfor-
mando «pretty thing» in «pretty piece», svelando fin dall’inizio le
intenzioni sessuali del cavaliere riguardo alla ragazza e trattando
lui (invece che lei, come nel provenzale «toza») nel modo più
spiacevole, come una sorta di giovane di tendenza degli anni
Cinquanta, maniaco sessuale dedito agli adescamenti pornografici:
«Well, baby! What a pretty piece» (Blackburn 1986, p. 35).
Blackburns persiste con questa immagine ironica del cavaliere
rivedendo il testo provenzale e traducendo «pareill paria» (appros-
simativamente “persone socialmente eguali”, “i tuoi simili”, “i tuoi
pari”) con «proper fellow», suggerendo sia la superiore posizione
sociale del cavaliere che l’improprietà morale celata dal suo accen-
to «proper» (“appropriato”). La mescolanza di arcaismi e di lingua
d’uso adottata da Blackburn giustappone le rappresentazioni cultu-
rali di due periodi, facendo sì che si confrontino l’un l’altro: il vol-

310
gare gergo contemporaneo demistifica gli effetti retorici più for-
mali (trovadorici e marloviani) che mistificavano il dominio ari-
stocratico (della Provenza medievale e dell’Inghilterra elisabettia-
na), mentre l’arcaismo defamiliarizza i termini sessuali più recenti
e familiari («pretty piece») svelando la loro complicità con le
immagini maschiliste delle donne delle passate culture letterarie
aristocratiche.
L’effetto criptico scaturito dalla mescolanza di lessici attuata da
Blackburn rafforza la sua versione della conclusione criptica della
pastorella, che Pound lesse erroneamente e soppresse. Nella ver-
sione di Blackburn la pastorella descrive la retorica mistificante
del patriarcato feudale come un «simple show», espressione dal
suono arcaico, per poi smascherarlo in quanto distrazione dalle
condizioni materiali della seduzione, non il mana trascendentale
del testo provenzale, ma le inique relazioni sociali in cui lei e il
cavaliere sono coinvolti, indicate qui da un’espressione colloquia-
le, «the lunch basket»:

— Sir, the owl is your bird of omen.


There’s always some who’ll stand open-
mouthed before the simple show,
while there’s others’ll wait until
the lunch basket comes around.
(Blackburn 1958, p. 25)

Dati gli effetti criptici del lessico misto, la traduzione di


Blackburn può essere letta come una messa in discussione delle
determinazioni ideologiche, sia aristocratiche che maschiliste, che
modellano tanto la versione di Pound quanto il testo di Marcabru.
Le traduzioni provenzali di Blackburn sono l’illustre conquista
di un poeta traduttore modernista. Assimilando le innovazioni svi-
luppate da Pound nelle sue versioni di trovadori come Arnaut
Daniel, Blackburn coltivò l’eterogeneità discorsiva al fine di attri-
buire significato alla differenza linguistica e culturale dei testi pro-
venzali. Mise in atto tale strategia recuperando vari dialetti e
discorsi di lingua inglese, residui, dominanti, emergenti. Vi è una
ricca varietà di arcaismi, in parte medievali, in parte elisabettiani,
che rievocano Chaucer, Douglas, Sir Philip Sidney, Shakespeare:
«the king’s helots», «choler», «her soft mien», «seisin», «cark»,

311
«sire», «wench», «harlotry», «puissance», «haulberk», «doublets»,
«thee», «forfend», «dolors», «gulls», «escutcheon», «villeiny»,
«beyond measure». E c’è un’altrettanto ricca varietà di stile collo-
quiale contemporaneo, talvolta britannico («tart»), ma per la mag-
gior parte americano, inclusi termini osceni e forme gergali degli
anni Cinquanta, ma che comunque attraversano periodi, forme cul-
turali (d’élite e di massa) e gruppi sociali diversi: «jay-dee» (per
«juvenile delinquent»), «phonies», «push-cart vendor», «budged»,
«cash», «grouch», «make-up», «goo», «asshole», «cunt», «the
doc», «we’ll have some lovin’», «all of ’em crapped out», «balls»,
«this bitch», «hard-up», «shell out», «nymphos», «creeps», «hide-
the-salami», «skimpy», «floored», «you sound like some kind of
nut», «Mafiosi», «garage», «steamrolls», «a pain in his backside»,
«hassle», «keep his eye peeled for them», «shimmy», «90 proof».
La molteplicità lessicale di Blackburn è anche multilinguistica poi-
ché include il provenzale («trobar», «canso», «vers»), il francese
(«fosse», «targe», «copains», «maistre»), e perfino uno pseudo-
arcaismo gallicizzato («cavalage», formato sul provenzale enca-
valgar, “cavalcare”).
Le varie strategie discorsive di Blackburn includevano peculia-
rità sintattiche adottate da Pound. Dudley Fitts, nella sua recensio-
ne alle traduzioni di Pound, aveva criticato la sintassi: dopo aver
citato un verso del Daniel tradotto da Pound, «Love inkerlie doth
leaf and flower and bear», Fitts lamentava: «Quelli, o Lettore,
sono verbi, non nomi» (Fitts 1954, p. 19). Allo stesso modo
Blackburn impiegò sostantivi in funzione di verbi, frustrando le
aspettative grammaticali del lettore con un fraseggio strano («I
grouch»), ma anche evocativo («the night they sorcered me»).
La prosodia di Blackburn deve molto alle raccomandazioni di
Pound riguardo «all’uso delle canzoni in inglese, sia per composi-
zione o in traduzione» (Pound 1977, p. 1048). Pound riteneva che
alcune «rime inglesi [...] hanno un timbro e un peso falsi» (ibidem)
per la stanza provenzale o italiana, così intricatamente rimate, e
per compensare questo difetto egli sviluppò «un’estetica della
rima» che si differenziava dai testi stranieri, così come anche dalle
forme strofiche correnti nella poesia di lingua inglese: «Per contra-
sto, noi abbiamo le nostre rime dissimulate e le nostre allitterazioni
semisommerse» (ibidem). La fine sensibilità per l’ordine e il
tempo della parola condusse Blackburn a variare i modelli di rima

312
interna e finale, facendo a volte risaltare l’anacronismo della sua
mescolanza lessicale, l’urto di culture diverse, di diversi periodi
storici, come fece con la rima «okay»/«atelier» nella sua versione
di Ben vuelh que sapchon li pluzor di Guillem de Poitou:

I would like it if people knew this song,


a lot of them, if it prove to be okay
when I bring it from the atelier, all
fine and shining:
for I surpass the flower of this business,
it’s the truth, and I’ll
produce the vers as witness
when I’ve bound it in rhyme.
(Blackburn 1986, p. 12)

L’attenzione di Blacburn alla musicalità del testo provenzale


presuppone l’analisi di Pound della «melopea» nel canso e nella
canzone: «Le poesie della Provenza e della Toscana medievali in
genere, furono tutte composte per essere cantate. E i relativi giudi-
zi di valore all’interno di questi periodi debbono tener conto dei
valori di canto» dell’opera, spiegando il «suo evidente impulso
lirico o la forza emotiva della sua cadenza» (Pound 1977, pp. 1047
e 1067). Per Pound tale lirismo fondato sul ritmo produceva un
effetto individualistico, ma anche maschilista, che costruiva nella
traduzione un “io” lirico esplicitamente maschile: «Nella mia tra-
duzione ho cercato di richiamare le qualità del ritmo di Guido, non
verso per verso, ma in modo da incarnare nel complesso del mio
testo inglese qualche traccia di quel potere che sottintende l’uo-
mo» (Anderson 1983, p. 219), ciò che Pound in seguito definì
«una robustezza, una mascolinità» (Pond 1977, p. 1085). Ma le
traduzioni più innovative di Pound tendevano ad allontanarsi dalle
sue rappresentazioni critiche moderniste dei testi stranieri, in
primo luogo perché il suo discorso traduttivo era così eterogeneo e
denso di effetti testuali da minare qualunque illusionismo, qualun-
que senso della presenza dell’autore straniero, qualunque “io” coe-
rente. In qualche modo, la prosodia lirica di Blackburn costruisce
certamente una posizione-soggetto con cui l’ascoltatore/lettore può
identificarsi, ma i ritmi variano sempre, diventando in alcuni passi
asimmetrici, e le peculiarità lessicali e sintattiche mettono costan-

313
temente in primo piano la testualità, indebolendo la coerenza della
voce parlante, frantumando il discorso in culture e periodi diversi,
e persino in generi diversi (a seconda del genere poetico), ora rac-
chiusi in un confronto reciproco. Ecco l’inizio della versione di
Blackburn di Ab lo temps qe refrescar di Cercamon:

With the fine spring weather


that makes the world seem young again,
when the meadows come green again
I want to begin
with a new song
on a love that’s my cark and desire,
but is so far I cannot hit her mark
or my words fire her.

I’m so sad nothing can confort me,


better off dead, for foul mouths
have separated me from her, God-
damn them – o,
I would have wanted her so much! Now
I grouch and shout, or weep, or sing
or walk about
like any hare-brained golden thing.

And how lovely she I sing is! more


than I know how to tell you here.
Her glance is straight, her color’s fresh
and white, white without blemish, no
she wears no make-up.
They can say no hard word of her, she
is so fine and clear as an emerald.
(Blackburn 1958, p. 17)

Lo stile e i ritmi strani di Blackburn destabilizzano l’identifica-


zione del lettore con la voce lirica, impedendo che la traduzione
venga presa per “l’originale”, trasparente espressione dell’autore
straniero, e insistendo, invece, su una condizione di second’ordine,
un testo che produce in inglese effetti distinti dalla poesia proven-
zale, ma che si allontana anche dall’uso dell’inglese contempora-

314
neo, e in possesso di una potente auto-diversificazione, uno sposta-
mento improvviso dal familiare a ciò che non lo è, fino all’inintel-
ligibile.
La traduzione di Blackburn della poesia provenzale è chiara-
mente più accessibile del Catullo degli Zukofsky, in quanto richie-
de un’applicazione, per apprezzarla, di carattere meno aggressivo,
grazie al lirismo più invitante. Ma anch’essa segue le innovazioni
di Pound, sviluppando un discorso di traduzione che è sia storici-
stico che estraniante, un discorso che segnala le differenze cultura-
li del testo straniero attraverso lo sperimentalismo linguistico. Il
progetto è caratterizzato dalla rivalità con Pound che formava l’i-
dentità di Blackburn come poeta-traduttore modernista, determi-
nando non solo la scelta dei testi e lo sviluppo di un discorso di
traduzione, ma anche un revisionismo che criticava proprio l’ap-
propriazione da parte di Pound degli stessi testi, mettendo in
discussione l’investimento nell’aristocrazia, nel patriarcato e nel-
l’individualismo: determinazioni ideologiche che caratterizzavano
anche la scrittura di Blackburn in grado variabile e attraverso
molte forme diverse (lettere, poesie, traduzioni, interviste). Il pro-
getto provenzale di Blackburn fu decisivo nella sua formazione
personale come autore; ma dal momento che tale formazione si
verificava nella scrittura, la traduzione poteva essere concepita
anche come un intervento pubblico strategico, una pratica politico-
culturale fondamentalmente modernista, ma non acritica nell’ac-
cettazione del modernismo di Pound.
I rari commenti di Blackburn sul suo lavoro indicano come egli
lo concepisse secondo queste posizioni o altre affini. In un’intervi-
sta del 1969, alla domanda «Quali poeti hanno influenzato il suo
lavoro?» egli rispose citando Pound, Williams, Creeley e Charles
Olson, di cui aveva letto le poesie perché, affermò, «Volevo sco-
prire chi fosse mio padre» (Packard 1987, p. 9). Blackburn può
non aver psicoanalizzato il suo rapporto con Pound, ma dopo aver
tradotto per circa vent’anni, e dopo essere stato in analisi per lungo
tempo, era senza dubbio in possesso di una visione psicoanalitica
del processo di traduzione, del rapporto tra traduzione e testo stra-
niero, tra traduttore e autore straniero. Tutto questo risulta evidente
in un’intervista:

Non divento l’autore quando traduco la sua prosa o la sua poe-

315
sia, ma sicuramente penetro con le mie capacità nelle sue fissa-
zioni. Le preoccupazioni di un’altra persona diventano la mia
occupazione. Questa, per qualche tempo mi possiede letteral-
mente. Sa, non è solo questione di leggere una lingua e com-
prenderla e trasportarla in inglese. Si tratta di comprendere
qualcosa che fa sì che l’uomo, ovunque stia andando, lo faccia.
E non è un processo completamente oggettivo. Deve essere in
parte soggettivo; ci deve essere una sorta di proiezione. Come
sai quale parola scegliere quando in inglese ci sono quattro o
cinque possibili significati? Non si tratta semplicemente di
capire il testo. In un certo senso lo vivi ogni volta, voglio dire,
sei lì. Se così non fosse, non potresti possedere la poesia.
(ivi, p. 13).

I teorici della traduzione inglese, dal XVII secolo in poi, hanno


raccomandato un’identificazione tra traduttore e autore straniero.
Per dirla con le parole di Alexander Tytler, «il traduttore deve adot-
tare proprio l’anima del suo autore, che deve parlare attraverso i suoi
organi» (Tytler 1978, p. 212). Tuttavia, questo tipo di compartecipa-
zione ai sentimenti di un altro veniva impiegato per sottoscrivere
l’individualismo del discorso trasparente, l’illusione della presenza
autoriale prodotta dal discorso scorrevole: era la risposta di Tytler
alla domanda «Come conseguirà allora l’autore questa difficile unio-
ne fra semplicità e fedeltà?». Il senso modernista dell’identificazio-
ne, tipico di Blackburn, riconosceva che un’identificazione perfetta
non era mai possibile, che il traduttore sviluppava una «proiezione»,
una rappresentazione, peculiare alla cultura della lingua d’arrivo,
che confrontava l’autore straniero, svelando «le sue fissazioni».
Quando il traduttore di Blackburn è «lì», il senso di immediatezza
giunge non da una qualsiasi comprensione diretta del testo straniero,
ma dal vivere interamente un’interpretazione che rende il traduttore
in grado di «possedere la poesia», di razionalizzare ogni stadio del
processo di traduzione, la scelta di ogni vocabolo.
Rispondendo nel 1970 a un questionario del New York
Quarterly, Blackburn impiegò una terminologia psicologica simile
per descrivere gli effetti testuali della traduzione, osservando che
l’identificazione del traduttore cambia l’autore straniero, ma anche
il traduttore stesso, che diviene sempre più il luogo di soggettività
multiple, una deviazione dalle norme razionali:

316
Egli deve essere disposto a (e capace di) permettere che la vita
di un altro uomo entri nella sua così profondamente da farlo
divenire una qualche parte permanente del suo autore originale.
Dovrebbe essere paziente, tenace, leggermente schizoide, un
critico duro, un curatore brillante [...] Tutti noi siamo centinaia,
forse migliaia, di persone, potenzialmente o di fatto.
(Blackburn 1985, p. 616)

Sia nell’intervista che nel questionario, la visione di Blackburn


del poeta traduttore è insistentemente maschilista: il processo di
identificazione o «proiezione» si verifica tra uomini. Nell’in-
tervista compariva parte dell’autopresentazione bohémien di
Blackburn, quando all’improvviso passava da una discussione
sullo «scrivere in viaggio» al «guardare le donne»: «tornare alla
città, tuttavia, la metropolitana è un posto incredibile per guardare
le ragazze. Se trovi un bel viso o un bel paio di gambe, puoi stare a
guardarli per ore» (Packard 1987, p. 14). Eppure, secondo il reso-
conto di Blackburn, se la traduzione moltiplica le soggettività
mediando le differenze culturali, essa può tuttavia solo far esplode-
re ogni concetto individualistico di identità, maschilista o altro che
sia. Blackburn sentiva che la serie diversificata di richieste impo-
sta al traduttore era estrema e produceva una devianza, invitando
all’uso di termini psichiatrici o di allusioni a forme culturali popo-
lari, come il blues o il rock-and-roll (o anche, più specificamente,
al rock di base blues dell’album di Bob Dylan del 1965, Bringing
It All Back Home), e legando in tal modo il traduttore ad altre sot-
toculture razziali e giovanili:

In your view, what is a translator?

A man who brings it all back home.


In short, a madman.
(Blackburn 1985, p. 616)

Blackburn era naturalmente consapevole che i processi psicolo-


gici da lui descritti così ironicamente potevano essere raffigurati
soltanto nelle strategie discorsive, che egli vedeva come una sfida
ai valori borghesi e non solo ai concetti individualistici di identità,
ma anche a un senso moralistico della proprietà di condotta e di

317
linguaggio. Già nel 1950, in una lettera a Pound, faceva delle
osservazioni sull’«impossibilità di tradurre poesie scritte in un
vocabolario aristocratico del XII secolo in POESIE INGLESI
MODERNE scritte con un vocabolario borghese del XX secolo»
(24 novembre 1950). Vent’anni dopo, in risposta a un questionario
del New York Quarterly, Blackburn riconobbe che il traduttore
deve attingere all’uso dell’inglese corrente, pur difendendo allo
stesso tempo uno sperimentalismo linguistico che recuperasse
discorsi marginali, anche con i testi letterari più canonici:

Fino a che punto un traduttore dovrebbe tentare di «moderniz-


zare» un testo antico?

Cerca prima di trovare uno stile, uno stile moderno, che sia in
grado di tradurre il maggior numero possibile di valori dell’ori-
ginale. Ho visto poesia latina tradotta in linguaggio beat che
funziona molto bene in alcuni componimenti. Se si esagerasse,
impiegandolo per l’intera opera, si trasformerebbe in un’acroba-
zia. Tuttavia, alcune acrobazie vengono eseguite a meraviglia.
(Blackburn 1985, p. 617)

L’investimento di Blackburn nella poesia provenzale era dovu-


to in parte ai temi anti-borghesi dei trovatori, presenti non solo
nella celebrazione dei valori aristocratici feudali, ma anche in una
rappresentazione dei trovatori tratta in parte dai dettagli biografici
delle vidas e dei razos. Alcuni trovatori erano esecutori itineranti
non nobili – fattori, commercianti, mercanti – che vivevano e lavo-
ravano, in seguito, ai margini delle corti feudali; altri erano cava-
lieri senza terra, in qualche modo emigranti, che offrivano la pro-
pria devozione ora all’uno ora all’altro signore o dama. Nel suo
componimento “Sirventes” (1956), una satira «indirizzata alla città
di Tolosa», Blackburn adotta un trovatore e invoca Peire Vidal,
ritraendolo come un poeta bohémien, esponente della beat genera-
tion, tutto intento ad offendere qualunque senso di decenza bor-
ghese:

That mad Vidal would spit on it,


that I as his maddened double
do – too

318
changed, too changed, o
deranged master of song,
master of the viol and the lute
master of those sounds,
I join you in public madness,
in the streets I piss
on French politesse
that has wracked all passion from the sound of speech
A leech that sucks the blood is less a lesion. Speech!
this imposed imposing imported courtliness, that
the more you hear it the more it’s meaningless
& without feeling.
(Blackburn 1985, pp. 89-90)

Nelle traduzioni provenzali, a volte Blackburn piega pesante-


mente il lessico verso l’inglese contemporaneo, iscrivendo il com-
ponimento trovadorico in una satira delle pratiche economiche
capitaliste, degli uomini d’affari e degli avvocati. Ciò accade con
un’altra canzone di guerra di Bertran de Born, No puosc mudar un
chantar non esparga. Nella versione di Blackburn, il cavaliere pre-
datorio diventa un criminale, più simile a un gangster – «A good
war, now, makes a niggardly lord/ turn lavish and shell out handso-
mely» – ma si fa anche più pratico, dedito a una pianificazione
finanziaria («expenditures») e a vivere nei quartieri residenziali
fuori città:

Have I not taken blows upon my targe?


And dyed red the white of my gonfalon?
Yet for this I have to suffer and pinch my purse,
for Oc-e-No plays with loaded dice.
I’m hardly lord of Rancon or Lusignan
that I can war beyon my own garage
without an underwriter’s check.
But I’ll contribute knowledge and a good strong arm
with a basin on my head and a buckler on my neck!
(Blackburn 1958, p. 116)

Blackburn fece in effetti riferimento alle implicazioni sociali


della traduzione in un’occasione: The International Word, l’artico-

319
lo con il quale contribuì a un numero speciale di The Nation dedi-
cato a cultura e politica. Pubblicato nel 1962, alla vigilia della crisi
dei missili cubani, quando Blackburn lavorava come editore di
poesia in questa rivista di sinistra, The International Word sostiene
che una politica culturale modernista possa intervenire efficace-
mente nella situazione globale attuale: secondo la diagnosi di
Blackburn, «la crisi d’identità dell’individuo [dipende] da un
mondo le cui realtà basilari sono la guerra fredda e la bomba»
(Blackburn 1962, p. 358). In un esame della poesia americana
comtemporanea, Blackburn scoprì che i poeti più impegnati politi-
camente erano modernisti: la sua litania include Pound, Williams,
gli Oggettivisti, la Black Mountain, i poeti Beat, la New York
School, figure e movimenti che recentemente sono state presentate
come in opposizione nell’antologia di Donald Allen The New
American Poetry (Allen 1960). Blackburn annotava l’insistenza di
Pound «sui valori di un’operazione che riportasse altre sensibilità
in altre lingue e da tutti i periodi della storia e della civiltà»
(Blackburn 1962, p. 357), e assegnava alla traduzione un ruolo
geopolitico chiave: «la reciproca inseminazione delle culture è un
passo importante verso ciò che i nostri politici ritengono essere la
comprensione internazionale» (ivi, p. 358). In questo presupposto
politico per lo scambio culturale, la traduzione modernista veniva
chiamata a risolvere una crisi nazionale, ricercando culture stranie-
re che supplissero alla mancanza di fiducia nei «valori ufficiali»
della cultura americana della Guerra Fredda:

La Guerra Fredda e la possibilità di una imminente illuminazio-


ne del mondo hanno originato un’altra reazione nei poeti [...]
C’è un’affermazione, una riaffermazione, di valori, una ricerca
delle culture precedenti, sia americane che straniere, moderne e
antiche, di valori che sostengano l’individuo in un mondo in cui
tutti i valori ufficiali ci hanno totalmente delusi per la loro ipo-
crisia di fondo (considerate per un attimo l’espressione «etica
degli affari»), e le religioni sono diluite al punto che anche i
monaci gridano alla crisi.
(ivi, p. 359)

L’interesse di Blackburn per «l’identità dell’individuo» non


presupponeva un individualismo liberale fondato sui concetti di

320
libertà personale, auto-determinazione, coerenza psicologica; egli
piuttosto vedeva l’identità umana come determinata da altri, un
composto costruito sui rapporti con i «valori» transindividuali, cul-
turali e sociali, racchiusi in istituzioni come lo stato, la chiesa e la
scuola. Se la traduzione poteva mutare i contorni della soggetti-
vità, pensava Blackburn, allora poteva contribuire a un cambia-
mento dei valori, lontano «dall’istanza militare e dal tema del pro-
fitto», verso relazioni geopolitiche meno tese, «un’ampia com-
prensione degli altri popoli, una maggiore tolleranza e abilità nelle
altre lingue, unite con saggezza e utilità politica per le due genera-
zioni successive e oltre» (ivi, p. 358).
Alcune delle osservazioni di Blackburn sembrano ormai troppo
ottimistiche. Egli riteneva, a partire dal «flusso attuale di traduzio-
ni sia di prosa che di poesia», che «i canali del libero scambio fos-
sero già aperti in letteratura» (Blackburn 1962, pp. 357 e 358). Ma
uno scambio culturale tramite la traduzione non era allora (né
potrebbe mai esserlo) «libero» da varie limitazioni, letterarie, eco-
nomiche, politiche, e la traduzione in lingua inglese non era sicu-
ramente libera nel 1962. Quell’anno il numero di traduzioni pub-
blicate da editori americani era, in effetti, ridotto, raggiungendo
approssimativamente il 6 per cento del totale dei libri pubblicati
(Publishers Weekly, 1963). Oggi sappiamo che le percentuali di
traduzioni raggiunsero l’apice nei primi anni Sessanta, ma che
sono rimaste costantemente piuttosto basse rispetto alle tendenze
editoriali straniere durante tutto il periodo postbellico, che indica-
no percentuali molto più alte di traduzioni da testi inglesi.
L’utopismo di Blackburn possiede anche una prospettiva filoa-
mericana che sembra oggi troppo acritica dopo i numerosi sviluppi
successivi: la guerra del Vietnam, gli interventi politici e militari in
El Salvador e in Nicaragua, la superficialità del governo per quan-
to riguarda le problematiche ecologiste, l’emergenza delle corpora-
zioni multinazionali, soprattutto quelle editoriali, in cui il numero
delle traduzioni in lingua inglese è sceso a meno del 3 per cento
del totale dei libri pubblicati. Nel 1962, tuttavia, Blackburn imma-
ginava che

forse anche il nazionalismo, una forza così viva oggigiorno in


Africa e in Estremo Oriente, comincia in parte a morire nel
ricco Occidente. A eccezione delle forme politiche, l’Europa

321
occidentale è in procinto di diventare un’unità economica. È
forse un sogno impossibile pensare a un’America bilingue che
si estenda dalla Terra del Fuoco all’oceano Artico, comprensiva
di ottantatrè stati invece che cinquanta? Non con la conquista
ma con l’unione. Come si può elevare il tenore di vita dei paesi
sottosviluppati nel nostro emisfero in maniera più efficace che
attraverso la rimozione dei confini?
(Blackburn 1962, p. 358)

I lettori del 1962 consideravano senza dubbio questo passaggio


come un’impennta utopistica. Lo stesso Blackburn lo definiva «un
sogno impossibile». L’anno successivo pubblicò un articolo pessi-
mista su Kulchur, «The Grinding Down», in cui esaminava la
«scena» poetica corrente e trovava il modernismo marginale e
frammentato: «il Rinascimento», scriveva Blackburn, «non tira-
va»; ora era concentrato in poche riviste a circolazione limitata,
«trovandosi un posto da qualche parte tra il margine più esterno
dell’accademismo e il settore interiore del cosiddetto beat»
(Blackburn 1963, pp. 17 e 10). Nel 1962 Blackburn era più fidu-
cioso sulle prospettive del modernismo, ma l’enfasi sull’«Occi-
dente» del suo utopismo mostra la difficoltà di immaginare rappor-
ti tra gli emisferi durante la Guerra Fredda, anche per un poeta tra-
duttore politicamente impegnato come lui. L’angolazione dalla
quale egli anticipava sviluppi globali futuri era chiaramente quella
dell’egemonia nordamericana, in alleanza con l’Europa occidenta-
le per un contenimento strategico dell’espansionismo sovietico,
ma permetteva di indulgere, per suo conto, in una certa espansione
nell’emisfero («ottantatrè stati»).
L’articolo di Blackburn è importante non come predizione sto-
rica o di politica estera, ma piuttosto come modello teorico, utile a
pensare in che modo la traduzione possa essere inserita in una
politica culturale democratica. Blackburn vedeva la traduzione
come un intervento efficace nella cultura americana, fondato su
una diagnosi sociale che trovava i valori nazionali predominanti
implicati in relazioni sociali inique o esclusivistiche. Le traduzioni
di Blackburn, con le loro diverse strategie estranianti, accompa-
gnavano l’internazionalismo di sinistra, ideato per contrastare le
forme ideologiche di esclusione nell’America della Guerra Fredda,
ancora più evidenti nel patriottismo isterico animato dall’irrigidi-

322
mento delle posizioni geopolitiche (Whitfield 1991). La traduzione
provenzale era particolarmente sovversiva in questa situazione cul-
turale, perché rivelava un’ampia serie di influenze, straniere e sto-
riche. Il debito evidente nei confronti del modernismo rendeva il
progetto vulnerabile allo stesso attacco politicizzato che Leslie
Fiedler aveva sferrato contro le traduzioni di Pound perché manca-
vano di un «centro», della fedeltà a una letteratura nazionale, ame-
ricana: «La nostra Musa è il poeta senza una Musa, che abbastanza
opportunamente assolviamo dall’accusa di tradimento (e cosa
rimane da tradire?) e confiniamo al St. Elizabeth» (Fiedler 1962, p.
459).
La traduzione provenzale di Blackburn era caratterizzata non
solo da una connessione con un poeta traduttore non americano, ma
anche da un’affiliazione alla cultura popolare attraverso l’uso riso-
nante della forma colloquiale. Come ha dimostrato Andrew Ross,
gli intellettuali della Guerra Fredda associavano la cultura popolare
con il totalitarismo, il pensiero di massa, il lavaggio del cervello,
ma anche con il mercantilismo, l’egualitarismo, la democrazia radi-
cale. Mentre il governo americano perseguiva all’estero una politi-
ca di contenimento dell’Unione Sovietica, in patria gli intellettuali
come Fiedler costruivano una cultura nazionale di consenso che
«dipendeva esplicitamente dal contenimento del radicalismo intel-
lettuale e del populismo culturale» (Ross 1989, p. 47). Secondo il
punto di vista di Robert von Hallberg, «ciò che è importante per la
storia letteraria non è solo l’esistenza di questo consenso, ma anche
il suo mantenimento e la sua dipendenza, in qualche modo, dalle
istituzioni accademiche. [...] Per quanto i poeti guardassero alle
università per il loro pubblico, essi si rivolgevano [...] al pubblico
che sentiva la massima responsabilità per l’affinamento del gusto e
per la preservazione di una cultura nazionale» (Von Hallberg 1985,
p. 34). Il lavoro di Blackburn con la poesia provenzale metteva in
discussione e al tempo stesso opponeva resistenza alla tendenza
egemonica nazionale. Fedele a un movimento poetico modernista
che si definiva come «rifiuto totale di tutte quelle qualità tipiche del
verso accademico» (Allen 1960, p. XI), la traduzione di Blackburn
era radicale per i suoi confronti ideologici (con i testi stranieri, con
le appropriazioni precedenti di lingua inglese e con la cultura ame-
ricana contemporanea) e populista nella sua giustapposizione di
discorsi culturali popolari e d’élite.

323
La storia editoriale del manoscritto di Blackburn dimostra
senz’ombra di dubbio che i valori culturali e politici rappresentati
dalla sua traduzione continuavano ad essere marginali negli Stati
Uniti ancora negli anni Settanta. Nel caso di Blackburn, tuttavia, la
marginalità non fu segnalata da recensioni di vario genere o da
attacchi amari o anche dalla negligenza dei mezzi di comunicazio-
ne; non ci fu mai una pubblicazione da recensire. Il manoscritto,
che secondo Blackburn era già completato nel 1958, non venne
stampato che vent’anni dopo.
Nel marzo del 1958 l’influente critico di poesia M.L. Ro-
senthal, che era stato per breve tempo docente di Blackburn all’e-
ditore New York University (1947), segnalò il manoscritto alla
Macmillan19. Nel 1957, in qualità di curatore di poesia per The
Nation, Rosenthal aveva accettato una delle traduzioni di
Blackburn, la versione, di ispirazione poundiana, di Bem platz lo
gais temps pascor di Bertran de Born. Al momento Rosenthal era
consulente di Emile Capouya, un editore del dipartimento com-
merciale di Macmillan, per una serie di volumi di poesia.
Blackburn inviò il manoscritto, con il titolo provvisorio di
Anthology of Troubadors. Si trattava di una traduzione di 68 testi
di trenta poeti, notevolmente ridotti rispetto ai «105 componimen-
ti» di cui Blackburn fece menzione a Pound, «da 150 originari»
(17 marzo 1958). Capouya chiese la relazione di un lettore esterno
e poi, nonostante la valutazione fortemente critica, accettò di pub-
blicare la traduzione, emettendo un contratto che prevedeva per
Blackburn un piccolo anticipo (150 $) e che gli offriva i pieni dirit-
19 Questa storia editoriale è ricostruita grazie a documenti della Paul

Blackburn Collection, Archive for New Poetry: M.L. Rosenthal, lettere a


Emile Capouya, 17 luglio e 2 agosto 1958; Capouya, lettera a John Ciardi, 27
giugno 1958; Ciardi, lettera a Capouya, 2 luglio 1958; Capouya, lettera a
Ramon Guthrie, 18 luglio 1958; Guthrie, lettera a Capouya, 24 luglio
1958;Guthrie, rapporto sulla Anthology of Troubadors di Blackburn, 12 set-
tembre 1958, 8 ottobre 1958, 31 ottobre 1958, 8 dicembre 1958, 26 marzo
1965; R. Repass, Memo (richiesta di contratto per Blackburn), 29 settembre
1958; Herbert Weinstock, lettera a Blackburn, 11 giugno 1963; Daniel R.
Hayes, lettera a Blackburn, 7 giugno 1963; Arthur Gregor, lettera a
Blackburn, 1° settembre 1965; M.L. Rosenthal, lettere a Blackburn, 8 feb-
braio 1957, 16 marzo 1958, 14 giugno 1958, 22 luglio 1958, 1° novembre
1958.

324
ti d’autore (ossia il 10 per cento del prezzo di copertina, 3.50 $,
per una prima tiratura di 1500 copie), più tutto il ricavato dai primi
diritti di serie (prime pubblicazioni in riviste e antologie).
Nonostante nell’ottobre del 1958 i contratti fossero stati firmati e
controfirmati, il manoscritto non era completo: Blackburn doveva
inviare l’introduzione che aveva progettato. Capouya programmò
la data di pubblicazione per l’estate del 1959, ma Blackburn non
terminò il manoscritto, e il progetto languì fino al 1963 quando,
pochi anni dopo che Capouya aveva lasciato Macmillan, un altro
curatore decise di annullare il contratto. Nel corso degli anni
Sessanta Blackburn tentò di far accettare il suo manoscritto da altri
editori, fra cui Doubleday, che chiese a Rosenthal di valutare il
progetto. Tuttavia questi tentativi rimasero sporadici e fallimentari.
La traduzione apparve infine postuma nel 1978 con il titolo
Proensa: An Anthology of Troubador Poetry, a cura di un suo
amico, il medievalista e poeta George Economou, per la Univer-
sity of California Press.
Perché Blackburn non portò a termine un progetto che sarebbe
stato sicuramente pubblicato, e con termini contrattuali favorevoli
al traduttore (nonostante il modesto anticipo)? Le risposte a questa
domanda sono state numerose, spaziando dalla vita instabile, all’e-
poca, di Blackburn (il divorzio dalla prima moglie, le ristrettezze
finanziarie) a un giudizio psicoanalitico secondo il quale le sue
relazioni con le donne, e in particolare con sua madre, la poetessa
Frances Frost, erano legate a «un’ossessione» per «l’idealizzazione
della donna così come era espressa dai trovatori» (Eshleman 1989,
p. 19). L’episodio di Macmillan poteva essere determinato solo da
simili investimenti privati in una forma estremamente pubblica,
che qui includeva la valutazione severa del lettore. Sara Golden, la
seconda moglie di Blackburn (1963-1967), ricordò che l’idea di
quella valutazione «fece entrare Paul in una spirale infinita di revi-
sioni che non ebbero mai termine fino alla sua morte» (intervista
telefonica del 23 gennaio 1992). Rosenthal descriveva Blackburn
reso «sgomento» dalla valutazione; il poeta Robert Kelly, un
amico di Blackburn che curò alcuni dei suoi libri postumi, ricordò
che «Paul ne fu sia ferito che divertito» e che talvolta leggeva le
critiche con voce comicamente esagerata (interviste telefoniche del
26 dicembre 1991 e 23 luglio 1992). Colto di sorpresa da queste
critiche, dopo anni di incoraggiamento da parte di scrittori come

325
Pound e Creeley, e da editori di riviste come Hudson Review,
Origin e The Nation, Blackburn non portò a termine il manoscrit-
to. Al contrario, egli ebbe all’improvviso l’impressione che neces-
sitasse di una mole notevole di lavoro, non solo dell’introduzione e
delle note, ma anche di revisioni sostanziali della traduzione.
Sfortunatamente, gli mancava anche un editore che facilitasse la
conclusione del progetto e lo portasse in stampa.
Capouya cercò di ottenere dei giudizi da parte di poeti tradutto-
ri e critici potenti. Si rivolse dapprima a un poeta e traduttore di
Dante, John Ciardi, allora associato al Saturday Review, che gli
rispose scrivendo: l’«antologia dei trovatori sembra interessante»,
ma rifiutò a causa di impegni precedenti. Quindi Capouya si rivol-
se a Ramon Guthrie, un poeta americano che aveva vissuto in
Francia per molti anni e che all’epoca era professore di francese a
Dartmouth. Guthrie (1896-1973) pubblicò i suoi primi libri negli
anni Venti: traduzioni e adattamenti di poesia trovadorica e un
romanzo basato sui testi di Marcabru. Sotto pseudonimo, Guthrie
pubblicò anche The Legend of Ermengarde, che Sally Gall ha defi-
nito un «componimento largamente indecente», ispirato alla poesia
trovadorica (Gall 1980, p. 184). Capouya progettò di pubblicare il
volume di poesie di Guthrie, Graffiti, segnalato anche da
Rosenthal, il quale gli suggerì di far valutare la traduzione di
Blackburn a Guthrie. Forse nello sforzo di stimolare l’interesse di
Guthrie, o di evitare qualsiasi aspettativa di fedeltà accademica ai
testi provenzali, la lettera di Capouya descriveva il progetto di
Blackburn come «una raccolta di adattamenti», non «l’antologia»
di cui aveva parlato a Ciardi. Guthrie si rivelò in effetti il peggior
lettore possibile per il manoscritto da Blackburn.
Negli anni Venti, le sue traduzioni di testi provenzali furono
realizzate con un inglese di uso corrente dal leggero arcaismo pre-
raffaelita, nello stile e nella forma versificatoria (la stanza rimata).
Questo è l’inizio di “Winter-Song”, traduzione di Guthrie di
Marcabru:

Since the withered leaves are shredded


From the branches of the trees,
Mauled and tousled and beheaded
By the bitter autumn breeze,
More I prize the sleety rain

326
Than the summer’s mealy guile,
Bearing wantonry and lewdness.
(Guthrie 1927a, p. 68)

Sebbene Guthrie vivesse a Parigi durante gli anni Venti, e


amasse evocare quel momento culturale modernista nella sua poe-
sia successiva, la stessa poesia svela un poeta più wordsworthiano
che poundiano:

Montparnasse
that I shall never see again, the Montparnasse
of Joyce and Pound, Stein, Stella Bowen,
little Zadkine, Giacometti [...] all gone in any case,
and would I might have died, been buried there.
(Guthrie 1970, p. 15)

Negli anni Cinquanta Guthrie era diventato anche un accademi-


co, nonostante fosse privo di diploma superiore e avesse ricevuto
la laurea per stranieri offerta dall’università di Tolosa. Questa
immersione nella cultura accademica giocò un certo ruolo nella
sua valutazione del manoscritto di Blackburn. La sua risposta fu
sostanziale e dettagliata: controllava le singole traduzioni sul testo
provenzale, dava ciò che chiamava «suggerimenti» in una relazio-
ne di due pagine e molti commenti marginali sparsi su tutto il
manoscritto. Non gli interessava l’oscenità cui faceva ricorso
Blackburn, anche se negli anni Venti era stato abbastanza moralista
da impiegare uno pseudonimo per una parodia volgare, e da espur-
gare la sua traduzione firmata tratta da Guillem de Poitou: «nella
quale occasione – qui censuriamo ... Centovolte e ottant’otto,/ fin-
ché cuore e schiena erano entrambi in grande/ Pericolo di rottura»
(Guthrie 1927a, p. 59). La versione di Blackburn all’inizio portava
«fucked» ma poi, apparentemente in un momento di incertezza
riguardo al suo maschilismo bohémien, lo eliminò e aggiunse
«loved». Guthrie incoraggiò Blackburn a usare termini osceni, che
forse servivano a confermare il suo senso di mascolinità, compen-
sando la precedente espurgazione attraverso il lavoro di un altro
traduttore:

La parola «loved» suona troppo come uno sgattaiolare dalla

327
porta di servizio. Perché non la parola originale in inglese come
era, o «f —— d» o lasciarla in occitano, «las fotei»? In una
causa legittima quanto questa, bisognerebbe essere capaci di
farla franca con una parola di 4 lettere.

Ciò che non sembrava legittimo a Guthrie era lo sperimentali-


smo modernista della traduzione di Blackburn: le strategie estra-
nianti deviavano troppo dai valori nazionali prevalenti nella rice-
zione dei testi arcaici, in special modo dall’annotazione erudita e
dal discorso scorrevole.
Lo stesso lavoro di Guthrie con la poesia trovadorica, negli
anni Venti, aveva presupposto l’ideale modernista di traduzione
come testo letterario indipendente: pubblicò le sue traduzioni
come poesie di diritto, identificandole come traduzioni soltanto in
vaghe note a pié di pagina che omettevano qualunque identifica-
zione precisa con i testi provenzali. Nel 1958, tuttavia, Guthrie non
riconobbe il legame di Blackburn con questo stesso ideale moder-
nista, la sua enfasi sulle qualità letterarie della traduzione a spese
delle note, che limitava ai titoli provenzali, alle vidas e ai razos
che accompagnavano i testi nei manoscritti. Guthrie desiderava
che la traduzione di Blackburn prendesse un’impronta più accade-
mica, anche se riconosceva nello stesso tempo il «lettore generi-
co»:

Vi dovrebbe essere una breve introduzione che spiegasse che


cosa, quando e dove fossero i trovatori; qualcosa sulla natura e
l’importanza della loro opera, le qualità formali delle loro opere
e le differenze tra le loro forme e la resa di P.B., e anche un
cenno sulle intenzioni di P.B. Vi dovrebbero essere, inoltre, al
posto giusto (che nella maggior parte ho segnato) le definizioni
di termini come «alba», «tenson», «sirventes» etc. [...] Alcune
poesie (vedi pp. 163, 55, 129) hanno un disperato bisogno di
introduzione.

L’omissione delle note può segnalare senza dubbio la differen-


za culturale dei testi stranieri, insistendo sulla loro alterità con tutti
i disagi relativi all’incomprensione. La maggior parte delle strate-
gie estranianti di Blackburn venivano comunque attuate nelle sue
traduzioni e, dal momento che costituivano deviazioni notevoli dal

328
discorso scorrevole, certamente apparivano strane a Guthrie.
Blackburn ricorse dunque a varianti di sillabazione per mimare
l’assenza di una pronuncia e di un’ortografia codificate in proven-
zale, ma per Guthrie questo rendeva il testo troppo refrattario a una
facile leggibilità:

Per tutto vantaggio del lettore, ci dovrebbe essere uniformità


nella sillabazione dei nomi propri. Per il non iniziato è fonte di
confusione trovare (spesso nella stessa pagina) Peitau e Poitou,
Caersi e Quercy, Talhafer e Tagliaferro (io lo tradurrei «Iron-
Cutter», visto che si tratta di un soprannome); Ventadorn e
Ventadour, Marvoill e Mareuil, Amfos e Alfons. Usare i nomi
moderni delle città aiuterebbe il lettore generico.

L’uso da parte di Blackburn di varianti di sillabazione era un


mezzo di arcaizzazione del testo, per significare la sua distanza
storica. Guthrie preferiva l’uso dell’inglese attuale («Iron-Cutter»),
come anche la toponomastica più recente.
Le critiche di Guthrie colpivano al cuore il progetto di
Blackburn. Esse toccavano i testi che raffiguravano la rivalità edi-
pica con Pound: l’interesse di Guthrie per la scorrevolezza condu-
ceva al suggerimento che Blackburn cancellasse la sua versione di
ispirazione poundiana della canzone di guerra di Bertran de Born.
«Forse sono troppo duro – scrisse Guthrie – ma dal primo all’ulti-
mo verso sembra forzata e inefficace se paragonata o con l’origi-
nale o con la Sestina di Pound tratta dalla stessa fonte». Quando
Guthrie raggiunse pagina 135 nel manoscritto di 187 pagine, sca-
rabocchiò un commento critico in un certo senso esasperato sulla
mescolanza dei lessici di Blackburn:

P. B.
No, guarda, se hai intenzione di chiamare qualcuno “burgesa”
in un verso e far sì che i poveri “inhorantes” vadano a cercarne
il significato sul Levy, non puoi far ficcare il marito della “bur-
gesa” in una (dal 1950) hassle [disputa] né far sì che qualcuno
disonori “somebuditch” e lo “smoting” “on ye hede” nel verso
seguente.
R.G.

329
Se si dice “copains”, non si può dire nella stessa frase «had
been taken ill». È come se si dicesse «His buddy» (solo in una
lingua straniera) «gave up his ghost».

È interessante notare come Guthrie si erigesse ripetutamente a


portavoce del pubblico non specialista, non accademico («i non
iniziati», «gli inhorantes»), ma come nel contempo compisse il
gesto elitario di escludere i discorsi e i dialetti popolari, in special
modo i toni colloquiali della classe lavoratrice. L’investimento di
Guthrie nel dialetto standard portava con sé un senso di superiorità
sociale che emergeva nel suo commento a un’altra traduzione, la
versione di Blackburn di Can vei la lauzeta mover di Bernart de
Ventadorn. Il testo di Blackburn è tipicamente eterogeneo:

Narcissus at the spring, I kill


this human self.

Really, though, without hope, over the ladies;


never again trust myself to them.
I used to defend them
but now
I’m clearing out, leaving town, quit.
Not one of them helps me against her
who destroys and confounds me,
fear and disbelieve all of them,
all the same cut.
(Blackburn 1958, p. 47)

Guthrie riteneva che il tono colloquiale degradasse il testo stra-


niero, che egli percepiva di tono più elevato, di linguaggio più
decoroso, più aristocratico: «Questo – scrisse – perde valore,
diventa una specie di parodia di Flatbush su Bernart, P.B.». In
modo simile, l’uso fatto da Blackburn di «Hell» si allontanava dal-
l’immagine elitaria che Guthrie aveva dei trovatori: «Non è in sin-
tonia con lo stato d’animo di Bernart, ma forse è più moderno di
“Alas”». Per Guthrie i discorsi di traduzione marginali devastava-
no i testi canonici. L’inglese che preferiva era il dialetto americano
standard; se veniva usato l’arcaismo, doveva essere discreto e coe-
rente.

330
Gli esperimenti più inventivi di Blackburn provocarono inevita-
bilmente in Guthrie un impulso all’addomesticamento delle tradu-
zioni, attraverso una revisione in nome della scorrevolezza, ma
anche la cancellazione della satira politica resa possibile dalla
mescolanza dei lessici. Quando Blackburn avvicinava la sua ver-
sione di Bertran de Born ai problemi sociali contemporanei
ritraendo i cavalieri feudali come imprenditori borghesi, «incapaci
di fare la guerra oltre il mio garage/ senza l’assegno di un assicura-
tore» (Blackburn 1958, p. 125), Guthrie lamentava gli strani effetti
prodotti dallo stile multilingue:

Poiché P.B. usa così tanti anacronismi sul versante moderno,


perché «targe» per «shield»? Lo schema delle rime di questa
sestina non sono [sic] comunque seguite nella traduzione e,
essendo irregolare, sarebbe meglio se venisse omesso. Ma se è
proprio necessario avere una rima (e Dio sa che «targe – gara-
ge» non è niente di cui si possa essere particolarmente felici),
perché non «shield – field»? [...] La parte di «garage» è brutta
sotto tutti i punti di vista. Se «tarja» deve essere «targe», perché
non considerare allora Bertran come troppo povero per combat-
tere «at large»?

Guthrie sembrava disposto a riconoscere l’attenzione riservata


da Blackburn alla prosodia: il verso libero considerato «irregola-
re», con le rime nascoste e l’allitterazione semi-sommersa che
Pound aveva raccomandato per i «valori di cantabilità» del testo
provenzale. Eppure, Guthrie continuava ad essere refrattario a
licenziare il discorso eterogeneo di Blackburn. Attraversando lin-
guaggi, culture e periodi storici, la rima «targe»/«garage» frustra la
trasparenza, ogni sensazione illusionistica di una voce autoriale, e
richiama l’attenzione sulla molteplicità dei codici che costituisco-
no questa traduzione in lingua inglese secondo un programma
politico-culturale. La reazione di Guthrie mostra che in parte la
traduzione di Blackburn rappresentava il collasso dei valori lettera-
ri che dominavano la cultura letteraria durante la Guerra Fredda,
dentro e fuori l’ambiente accademico, valori elitari nella loro
esclusione di discorsi culturali marginali, e reazionari nel loro
rifiuto della politica democratica che animava il progetto moderni-
sta di Blackburn.

331
Dopo l’episodio con Macmillan, la scrittura di Blackburn ebbe
diversi sviluppi. Alcuni rispondevano direttamente alla valutazione
di Guthrie; la maggior parte, però, continuava sulla strada dei suoi
già importanti risultati come poeta traduttore modernista, ma in
nuove direzioni. Il rapporto di Blackburn con la traduzione pro-
venzale certamente cambiò. La profondità dell’impatto di Guthrie
può essere misurata dalla versione finale della traduzione:
Blackburn incorporò alcuni dei suggerimenti di Guthrie, anche
quando questi erano in conflitto con il suo sperimentalismo moder-
nista. In vari punti Blackburn accolse l’insistenza di Guthrie sul-
l’inglese standard: utilizzò la sillabazione raccomandata da
Guthrie, «night», al posto della sua scelta iniziale, il «nite» da sot-
tocultura; accettò il cambiamento di «like» in «as» operato da
Guthrie nel colloquiale «like/they say» (Blackburn 1958, p. 32;
1986, pp. 46, 47). Qui Blackburn venne intimidito dall’avversione
di Guthrie per le inesattezze grammaticali, dal presupposto alquan-
to etnocentrico che i trovatori dovrebbero essere vincolati alle
norme culturali di lingua inglese; «Quel “like” invece di “as” fa
sicuramente rigirare Guilhem nella tomba – scrisse Guthrie – mi fa
provare brividi di orrore». Blackburn abbandonò anche la tanto
criticata rima «targe»/«garage» per adottare quella di Guthrie,
«shield»/«field» (Blackburn 1986, p. 164).
Blackburn non operò comunque in sostanza molte revisioni sul
lessico e sulla sintassi delle versioni del 1958. Ampliò, invece, la
selezione delle traduzioni provenzali, includendo altre quattro sati-
re di Marcabru che richiedevano una gamma più ampia di termini
osceni. Aggiunse anche delle note che fornivano alcune delle
informazioni richieste da Guthrie, e cercò di rispondere alle sue
obiezioni. In una nota Blackburn commentò le differenti sillaba-
zioni, rivelando le diverse, e in qualche modo contradditorie,
determinazioni che modellavano la sua versione finale: l’impulso
storicista, evidente nel suo rispetto per i manoscritti provenzali, ma
anche l’interesse per la prosodia della traduzione, e infine la par-
ziale accettazione da parte sua dell’invito di Guthrie a una sillaba-
zione coerente e moderna. La nota di Blackburn si rivolge in parti-
colare alla reazione di Guthrie:

Mareuil (Dordogne): uso la sillabazione del francese moderno


per normalizzare il nome del luogo. Nei manoscritti si trova

332
Maroill, Maruoill, Marueill, Maruelh, Marvoill, Merueil,
Meruoill, Miroill e Miroilh. Alcuni possono essere semplice-
mente degli errori dei copisti, ma riflettono anche leggere diffe-
renze di pronuncia da zona a zona. [...] Ciò che qui vorrei speci-
ficare è che né la pronuncia né l’ortografia erano particolarmen-
te standardizzate. Soprattutto nei componimenti, uso la versione
che mi suona meglio all’orecchio in quel contesto. In questo
razo uso Anfos per il re d’Aragona: il nome è anche Amfos,
Alfons – non ricordo di aver mai usato il francese Alphonse.
(Blackburn 1986, p. 285)

Le vicissitudini editoriali che bandirono le traduzioni provenza-


li di Blackburn ai margini della cultura letteraria americana, dispo-
nibili solo su riviste a circolazione ridotta e in volumi a tiratura
limitata, ridussero inevitabilmente l’influenza dei suoi effetti sor-
prendenti. Questi ispirarono non il lavoro di altri traduttori, o di
teorici e critici della traduzione ma, in primo luogo, la poesia dello
stesso Blackburn (Sturgeon 1990). Durante gli anni Sessanta la tra-
duzione divenne per Blackburn un campo di esperimento prosodi-
co: egli esplorò la nozione di «verso proiettivo» di Charles Olson,
orientata verso un tipo di poesia performativa, «in cui il poeta rie-
sce a registrare sia le acquisizioni del suo orecchio che le pressioni
del suo respiro» (Allen 1960, p. 393). Olson argomentava che que-
sta prosodia seguiva l’abbandono modernista del pentametro stan-
dard («gli esperimenti di Cummings, Pound e Williams»), ma era
resa possibile esclusivamente da una macchina da scrivere che,
«grazie alla sua rigidità e alla precisione della spaziatura», poteva
produrre una poesia «quale scritto della sua vocalizzazione» (ibi-
dem). Nell’intervista rilasciata al New York Quarterly, Blackburn
interpretava in maniera simile l’impaginazione del testo come una
serie di note per una performance: «La punteggiatura serve nello
stesso modo in cui serve la spaziatura: ossia, per indicare la lun-
ghezza di una pausa» (Packard 1987, p. 11).
Dopo l’episodio con la Macmillan, le revisioni di Blackburn
delle traduzioni provenzali inclusero una maggiore attenzione alle
loro qualità formali: punteggiatura, interlinea, spaziatura. In alcuni
casi gli esiti furono drammmatici. Il lavoro di Blackburn sull’ini-
zio di questo testo di Marcabru sviluppava l’aspetto iconico della
prosodia, la sua imitazione della foglia che cade:

333
When the leaf spins
its staying power
gone,
twists off,
falls
spinning
down through the branches from top limbs whence
wind has torn it,
I watch.
It is a sign.
The icy storm that’s brewing’s better
than grumbling and meandering summer
congesting us with hates and whoring.
(Blackburn 1958, p. 30)

When the leaf spins


its staying power
gone,
twists off,
falls
spinning
down through the branches
from top limbs from
which the wind has
torn it, I
watch.
It is a sign.
The icy storm that’s brewing’s better
than grumbling and meandering summer
congesting us with hates and whoring.
(Blackburn 1986, p. 43)

Nella seconda versione Blackburn sacrificò l’arcaismo «when-


ce», ma lo sostituì con una forma sintattica ripetitiva più evocativa
della foglia «spinning» (roteante: «from top limbs from/which the
wind has»). Questi esperimenti prosodici culminarono negli ultimi
componimenti di Blackburn, The Journals (1967-1971), in cui il
verso autobiografico è poliritmico – lirico e angolare, colloquiale e

334
iconico, quietamente emotivo e parodico – ma sempre inventivo,
in sintonia con una musica riflessiva, multicodificata:

Seaplane going over, going


somewhere . over
head, the blue re-
ally re-
flected in the sea.
(Blackburn 1985, p. 572)

The end of a distance come


so early in the morning
where the eye stops,
flames
running O their tongues up thru
along the rooftree of
down the coping of
that church in Harlem.
(ivi, p. 555)

The wind blowth


snow fallth
branches whip in the wind
down, rise, forth and back
drifts groweth summat
It’s going to take us two days at least to
shovel out of this one, off to Buf-fa-lo, o
March, after all, Spring
cometh.
(ivi, p. 613)

The Journals è essenzialmente un progetto di stampo indivi-


dualistico, un diario in versi degli ultimi anni di Blackburn, dei
viaggi in Europa e negli Stati Uniti con la moglie Joan e il figlio
Carlos, e della sua sofferenza durante lo stadio finale del cancro.
Eppure, gli esperimenti prosodici di Blackburn conferiscono a
tutto ciò un taglio anti-individualistico, indirizzando il verso a una
maggiore eterogeneità, usando il ritmo, la punteggiatura e gli espe-
dienti tipografici per mettere in primo piano la testualità ed erode-

335
re la coerenza della voce parlante, ora sede di lessici, codici cultu-
rali e affiliazioni sociali disparati, la giustapposizione dei quali
invita in primo luogo a una contestazione reciproca.
Il progetto provenzale era anche una fonte di personae e temi
per le poesie di Blackburn, alcune delle quali proseguono la critica
sociale che egli qualche volta aveva introdotto nel lessico delle tra-
duzioni. La sua versione di Ab lo dolchor del temps novel di
Guillem de Poitou –

In the new season


when the woods burgeon
and birds
sing out the first stave of new song,
time then that a man take the softest joy of her
who is most to his liking.
(Blackburn 1958, p. 13)

– viene citata in una poesia contemporanea al manoscritto del


1958, “Meditation on the BMT”:

Here, at the beginning of the new season


before the new leaves burgeon, on
either side of the Eastern Parkway station
near the Botanical Gardens
they burn trash on the embankment, laying
barer than ever our sad, civilized refuse.

1 coffee can without a lid


1 empty pint of White Star, the label
faded by rain
1 empty beer-can
2 empty Schenley bottles
1 empty condom, seen from
1 nearly empty train
empty
(Blackburn 1985, p. 141)

La citazione di Blackburn usa il motivo trovadorico per indaga-


re il capitalismo consumistico, giustapponendo un’evocazione liri-

336
ca della primavera a una lista dettagliata di «immondizia» visibile
nella metropolitana di New York. L’idealizzazione provenzale
della sessualità umana come piacere naturale rigenerativo enfatiz-
za lo sporco realismo delle pratiche sessuali contemporanee, che
giungono a sembrare meno «civilizzate» e più impoverite, emoti-
vamente, proprio mentre suggeriscono che la poesia trovadorica è
essa stessa sospetta, una mistificazione delle condizioni e delle
conseguenze materiali della sessualità.
È da notare, infine, come l’esperienza di Blackburn con la tra-
duzione provenzale abbia un rapporto anche con gli altri suoi pro-
getti di traduzione. Non avendo pubblicato il manoscritto del 1958,
egli rivolse la sua attenzione alla scrittura latino-americana, in par-
ticolare alla narrativa dell’argentino Hulio Cortázar. Nel 1959
Blackburn stipulò un contratto con Cortázar che lo riconosceva
«rappresentante letterario (AGENTE) esclusivo e ufficiale [dello
scrittore argentino] in tutto il mondo (tranne che in) Francia,
Germania, Italia e tutti i paesi di lingua spagnola»20. Blackburn
negoziò la pubblicazione delle prime versioni in lingua inglese
della narrativa di Cortázar, due romanzi: Il viaggio premio, tradot-
to da Elaine Kerrigan nel 1965, e Ottaedro, tradotto da Gregory
Rabassa nel 1966. Nei tardi anni Cinquanta Blackburn iniziò a tra-
durre le poesie e i racconti brevi di Cortázar, in gran parte per la
pubblicazione su riviste e, nel 1967, i racconti brevi vennero pub-
blicati con il titolo Ultimo round. In seguito tradusse un’altra rac-
colta di brevi componimenti in prosa di Cortázar, Storie di
Cronopios e di Fama (1969), e sarebbe stato il probabile traduttore
del volume di storie di Cortázar che era in procinto di uscire subito
dopo in lingua inglese, All Fires The Fire (1973), se la sua salute
malferma non gli avesse impedito di intraprendere il progetto. Il
lavoro di Blackburn con Cortázar dipendeva dalla politica cultura-
le modernista che aveva animato la sua traduzione provenzale e
l’articolo «The International Word»: un internazionalismo di sini-

20 «Accordo di Rappresentanza (Contratto)», 11 agosto 1959, Paul

Blackburn Collection, Archive for New Poetry. Le cifre di vendita delle tra-
duzioni di Cortázar (citate a p. 339) sono tratte dai rendiconti delle royalties
della Blackburn Collection. La corrispondenza di Blackburn in qualità di
agente di Cortázar documenta il crescente interesse americano per la narrati-
va dello scrittore argentino.

337
stra che vedeva la traduzione come intervento estraniante all’inter-
no della cultura americana. Le traduzioni di Cortázar, tuttavia,
erano molto più efficaci nella loro dissidenza, dal momento che
mettevano in discussione, e in effetti modificavano, i canoni lette-
rari della lingua inglese.
Blackburn, tra gli altri traduttori e curatori dell’opera di
Cortázar, importava il cosiddetto «boom» nella narrativa latino-
americana del XX secolo, un corpus di letteratura straniera caratte-
rizzato da strategie sperimentaliste che sfidavano il realismo domi-
nante nella narrativa britannica e americana. Il boom latino-ameri-
cano cominciò a circolare in inglese durante gli anni Cinquanta,
quando su riviste e antologie apparvero traduzioni di scrittori come
Jorge Luis Borges. Tra le prime traduzioni in volume di questa ten-
denza c’era, in effetti, Finzioni di Borges (1962), reso da diversi
traduttori, inglesi e americani. Qualche anno più tardi le recensioni
delle traduzioni di Cortázar lo legavano ripetutamente al suo
«compatriota» Borges, ed entrambi venivano inseriti nella corrente
modernista della narrativa europea: Franz Kafka, Italo Svevo,
Günter Grass, Alain Robbe-Grillet, Michel Butor, Nathalie
Sarraute21. La narrativa inglese e americana contemporanea era
all’epoca in massima parte realistica, e lo sperimentalismo narrati-
vo era bandito ai suoi margini oscuri (Djuna Barnes, Samuel
Beckett, Flann O’Brien, William Burroughs, William Gaddis, John
Hawkes, Thomas Pynchon), oppure a forme popolari, come la nar-
rativa dell’orrore o la fantascienza. Un riflesso di ciò è nella
“Classifica dei bestseller” del New York Times del 9 luglio 1967,
edizione in cui venne recensito Ultimo round di Blackburn (v.
Tabella n. 3). La lista contiene soprattutto diverse forme di reali-
smo (storico e contemporaneo); l’unica deviazione è rappresentata
da una fantasia gotica, un genere popolare arcaico modernizzato
nel romanzo di Ira Levin, Rosemary’s Baby.
Il successo degli scrittori latino-americani come Borges e
Cortázar era un successo sia commerciale che di critica, che dove-
va a un gran numero di recensioni, per la maggior parte favorevoli,
il sostegno di grandi editori quali Grove, Pantheon e New Di-

21Questa lista di scrittori è tratta da diverse recensioni del Cortázar di


Blackburn: Coleman 1967, Kauffman 1967, Davenport 1967, Stern 1967
eTimes Literary Supplement, 1968.

338
rections, mentre il Centro per le Relazioni Inter-Americane, un’or-
ganizzazione culturale sovvenzionata da fondazioni private, emise
delle sovvenzioni editoriali. Le traduzioni furono accolte molto
bene. La versione di Rabassa di Ottaedro vinse il National Book
Award per la Traduzione del 1966. Il viaggio premio vendette
8195 copie rilegate; in cinque mesi Ottaedro ne vendette 6965.
Entrambi i romanzi vennero subito ristampati in edizione econo-
mica. Ultimo round di Blackburn (1967) ottenne venti recensioni
entusiaste in Inghilterra e negli Stati Uniti, mentre The New Yorker
e Vogue ne pubblicarono degli estratti. A tre mesi dalla pubblica-
zione ne erano state vendute 3159 copie rilegate, e nei pochi anni
successivi numerosi racconti furono spesso antologizzati. Nel
1974 si era arrivati alla quarta edizione economica.

Tabella 3. New York Times «Classifica dei bestseller», 9 luglio 1967

Posizione
Questa Settimana Settimane di
settimana precedente permanenza

1 The Eight Day, Thornton Wilder 2 13


2 The Arrangement, Elia Kazan 1 20
3 Washington, DC, Gore Vidal 3 8
4 The Chosen, Chaim Potok 4 7
5 The Plot, Irving Wallace 5 5
6 Tales of Manhattan, Louis Auchincloss 6 13
7 The Secret of Santa Vittoria, Robert Crichton 7 43
8 Rosemary’s Baby, Ira Levin 8 11
9 Fathers, Herbert Gold 10 11
10 Go to the Window-Maker, James Jones — 7

Fonte: New York Times Book Review, 9 luglio 1967, p. 45

Per ironia della sorte le edizioni economiche furono pubblicate


da Macmillan, che cambiò il titolo del volume in Blow-Up per
trarre maggior profitto dalla pubblicità derivata dal film di
Michelangelo Antonioni del 1967, libero adattamento di una storia
di Cortázar.

339
L’intervento culturale che per Blackburn era fallito con le tra-
duzioni provenzali si realizzò con quelle di Cortázar: dunque, con
un genere diverso, un linguaggio moderno, uno scrittore contem-
poraneo. Il successo della scrittura latino-americana in lingua
inglese durante gli anni Sessanta alterò senz’ombra di dubbio il
canone della narrativa straniera nella cultura angloamericana, non
solo introducendo nuovi testi e scrittori, ma anche confermando
strategie sperimentaliste che minavano i presupposti del realismo
classico, sia teorici (individualismo, empirismo) che ideologici
(umanesimo liberale). Il boom latino-americano deve essere anche
annoverato tra le tendenze culturali che alterarono il canone della
narrativa britannica e americana degli anni Sessanta con la prolife-
razione di vari esperimenti narrativi ispirati dal modernismo:
Donald Barthelme, Christine Brooke-Rose, Angela Carter, Robert
Coover, Guy Davenport, tra i molti. Il lavoro di Blackburn con
Cortàzar manteneva la politica culturale modernista che aveva ani-
mato le sue traduzioni provenzali: egli recuperò una letteratura
straniera all’epoca marginale nella cultura angloamericana, in
modo che potesse creare una differenza culturale in inglese, met-
tendo in discussione i valori letterari predominanti (realismo e
individualismo borghese) e influenzando lo sviluppo di nuove let-
terature in lingua inglese.
Il lavoro di Blackburn con Cortázar manifestava un impulso
estraniante nella scelta di tradurre testi marginali, ma produsse
anche delle traduzioni che erano così estranianti da diventare irre-
sistibilmente strane. L’aspetto straordinario delle traduzioni che
sostennero la canonizzazione della narrativa latino-americana in
inglese consisteva nell’essere contraddistinte da una notevole scor-
revolezza. Le traduzioni di Blackburn contrabbandarono la narrati-
va di Cortázar nella cultura angloamericana sotto le spoglie del
discorso scorrevole che continuava a dominare la traduzione di lin-
gua inglese. Tradurre scorrevolmente, assicurare l’illusione della
trasparenza e l’evocazione di una voce coerente, e collocare il let-
tore all’interno di un punto di vista narrativo: in definitiva tutto ciò
fa risaltare gli effetti modernisti di Cortázar, le discontinuità che
spostano il lettore dalla collocazione narrativa e incoraggiano
un’autoconsapevolezza critica dell’illusione realista. Il recensore
della rivista inglese Books and Bookmen riconobbe l’impulso
estraniante della scelta operata da Blackburn sull’opera di

340
Cortázar, il cui «mondo è uno strano mondo, e per la maggior
parte della gente, ritengo, sconosciuto». Ma il recensore percepiva
anche quanto fosse potente la traduzione di Blackburn nel convo-
gliare tale estraneità:

Ignaro dell’esperienza che mi aspettava, aprii la copia rilegata di


viola della raccolta di racconti brevi di Cortázar e, dopo un minu-
to esatto, mi ritrovai dall’altro lato dello Specchio. Da dove
cominciare a parlare di questo libro? Forse dalla traduzione di
Peter Blackburn in un inglese splendido, flessibile, le cui metafo-
re recano la brutale precisione di un pugno nello stomaco.
(Stubbs 1968, p. 26)

Il recensore di The Nation descriveva il fatto che Blackburn


facesse affidamento sull’uso dell’inglese corrente, ma indicava
anche una tendenza estraniante presente nel lessico la quale,
secondo il recensore, avrebbe favorito delle innovazioni nella
prosa di lingua inglese:

La traduzione, a cura di Paul Blackburn, è colloquiale in


maniera appropriata, elegante ed eloquente, ed è aromatizzata
dall’aggiunta di espressioni spagnole e francesi quanto basta
per dare sapore alla narrativa. A questo punto, per lo sviluppo
di una forma più libera di scrittura di prosa, Cortázar è indi-
spensabile.
(Stern 1967, p. 248)

Eppure, forse il brano avrebbe dovuto leggersi: «La traduzione


di Blackburn da Cortázar è indispensabile» per una prosa innova-
tiva. Nel regime della trasparenza, in cui la scorrevolezza rende
d’abitudine il traduttore invisibile, anche i recensori che elogiano
il traduttore per nome tendono a ricondurre la traduzione all’autore
straniero. La traduzione di Blackburn, per quanto scorrevole, in
certi punti è, inevitabilmente, libera, allontanandosi da «Cortázar»,
inscrivendo nel testo spagnolo valori linguistici e culturali diversi,
e facendo sì che questi producano degli effetti attivi soltanto in
inglese. Uno sguardo più attento alle mosse discorsive di
Blackburn rivelano, in effetti, l’efficacia delle sue traduzioni di
Cortázar.

341
Continuity of Parks (Continuidad de los Parques) è un testo
breve ma caratteristico di Ultimo round, che oscilla senza soluzio-
ne di continuità tra due narrative realistiche, provocando alla fine
un’incertezza metafisica riguardo a quale sia il testo e quale la
realtà. Un uomo d’affari seduto in poltrona nella sua tenuta legge
un romanzo su una moglie infedele, il cui amante si reca a uccide-
re il marito; quando il crimine sta per essere commesso, si scopre
che la vittima è lo stesso uomo d’affari seduto nella poltrona. Nel
finale l’uomo «reale» che legge il romanzo diventa improvvisa-
mente un personaggio di quel romanzo, proprio come i personaggi
diventano «reali» per porre fine alla vita dell’uomo. Cortázar coin-
volge il lettore di lingua spagnola in un enigma, dapprima
costruendo l’uomo d’affari come il punto di vista narrativo e poi,
senza avvertimenti, spostandosi improvvisamente sugli amanti. La
conclusione rapida è un po’ scioccante, non solo perché il testo ter-
mina proprio prima che si verifichi l’omicidio, ma anche perché in
precedenza il lettore era stato collocato all’interno del punto di
vista della vittima, presupponendo che fosse la realtà.
La traduzione scorrevole di Blackburn rende tale collocazione
più evidente impiegando pronomi coerenti. Il soggetto di ogni ini-
zio frase è «egli»: in questo modo si conserva la distinzione reali-
stica tra la realtà dell’uomo e il carattere fittizio del romanzo che
sta leggendo:

He had begun to read the novel a few days before. He had put it
down because of some urgent business conferences, opened it
again on his way back to the estate by train; he had permitted
himself a slowly growing interest in the plot, in the characteri-
zations. That afternoon, after writing a letter giving his power
of attorney and discussing a matter of joint ownership with the
manager of his estate, he returned to the book in the tranquillity
of his study which looked out upon the park with its oaks.
Sprawled in his favorite armchair, its back toward the door –
even the possibility of an intrusion would have irritated him,
had he thought of it – he let his left hand caress repeatedly the
green velvet upholstery and set to reading the final chapters.
(Cortázar 1967, p. 63)

La traduzione di Blackburn possiede tutte le caratteristiche

342
della scorrevolezza – sintassi lineare, significato univoco, linguag-
gio d’uso corrente – e stabilisce in questo modo «he» come la
posizione da cui la narrativa è intelligibile, la descrizione vera e
l’ambientazione reale. La traduzione è abbastanza aderente al testo
spagnolo, tranne che per una deviazione espressiva: l’osservazione
parentetica dell’ultima frase di Blackburn rivede il testo spagnolo.
Il testo di Cortázar riporta infatti «de espaldas a la puerta que lo
hubiera molestado como una irritante possibilidad de intrusiones»
(in una versione letterale: «con la schiena rivolta alla porta, che
l’avrebbe seccato come l’irritante possibilità di intrusioni»). La
revisione di Blackburn aggiunge l’a parte «had he thought of it»,
che improvvisamente scivola su un livello discorsivo nuovo, un
punto di vista narrativo nuovo, onnisciente e nel contempo autoria-
le, identificando «he» come un personaggio del testo di Cortázar e
minando velocemente l’illusione realistica stabilita nelle frasi pre-
cedenti. La traduzione scorrevole di Blackburn vanta un raffina-
mento stilistico considerevole, che si nota anche in questa sottile
revisione, un’aggiunta al testo spagnolo molto in tono con la tecni-
ca narrativa di Cortázar.
Le scelte di Blackburn lo rivelano intento a rafforzare l’illusio-
ne realistica, quando all’improvviso la narrativa si sposta sulla
descrizione del romanzo, collocando il lettore con gli amanti, can-
cellando la linea tra finzione e realtà. Ma subito dopo – seguendo
il testo spagnolo da vicino – ritrova momentaneamente quella
linea, impiegando termini letterari per descrivere il romanzo («dia-
logue/diálogo», «pages/páginas»), e facendo un tacito riferimento
all’uomo d’affari che legge («one felt/ se sentía»):

The woman arrived first, apprehensive; now the lover came in,
his face cut by the backlash of a branch. Admirably, she stan-
ched the blood with her kisses, but he rebuffed her caresses, he
had not come to perform again the ceremonies of a secret pas-
sion, protected by a world of dry leaves and furtive paths throu-
gh the forest. The dagger warmed itself against his chest, and
underneath liberty pounded, hidden close. A lustful, panting
dialogue raced down the pages like a rivulet of snakes, and one
felt it had all been decided from eternity.
(Cortázar 1967, p. 64)

343
Da un lato, Blackburn incrementa la verosimiglianza della tra-
duzione aggiungendo dettagli più precisi, come l’espressione
«through the forest», che manca nel testo spagnolo (in un altro
brano, egli in modo simile aggiunge «leading in the opposite direc-
tion» a «On the path», ivi, p. 65). Dall’altro lato, Blackburn esage-
ra gli aspetti melodrammatici della scena: usa «lustful, panting»
per rendere una sola parola spagnola, anhelante, e sceglie «raced»
per corría (invece del più banale «ran»). Due altre aggiunte al
testo spagnolo producono lo stesso effetto di esagerazione: «unfo-
reseen», nella frase «Nothing had been forgotten: alibis, unfore-
seen hazards, possible mistakes»/«Nada había sido olvidado: cor-
tadas, azares, posibles errores» (Cortázar 1967, p. 65; e 1964, p.
1); e «flying» nella frase «he turned for a moment to watch her
running, her hair loosened and flying»/«él se volvió un instante
para verla correr con pelo suelto» (Cortázar 1967, p. 66; e 1964, p.
10). Il lessico melodrammatico di Blackburn rafforza l’illusione
realistica, rendendo la narrativa più ricca di suspense, legando il
lettore più strettamente alla collocazione degli amanti; ma classifi-
ca anche la narrativa come genere popolare di finzione, il romance
sensuale, incoraggiando il lettore a interrogare l’illusionismo reali-
stico che domina la narrazione di lingua inglese, in modo più evi-
dente nei romanzi di successo. Il testo di Cortázar sfida le forme
culturali individualistiche come il realismo suggerendo che la sog-
gettività umana non si origina o determina da sé, ma viene costrui-
ta nei generi narrativi, inclusi quelli popolari. Questo fatto e la sco-
perta che è un uomo d’affari a vivere una finzione, si riconnettono
a una critica dei valori borghesi, economici e culturali, che ricorre
nel resto dell’opera di Blackburn.
Il lavoro di Blackburn come traduttore abbraccia varie lingue e
periodi: pubblicò molte altre traduzioni, incluse The Cid, una scel-
ta di poesie di Lorca, e i poemi in prosa di Picasso, tradotti con il
titolo Hunk of Skin. Ma è stato detto abbastanza per poter tracciare
i contorni principali della sua carriera e per considerarla una rispo-
sta vigorosa alla sua situazione culturale. Blackburn seguì le inno-
vazioni moderniste sviluppate da Pound ma marginalizzate dal
regime della scorrevolezza nella traduzione di lingua inglese. Ciò
significò coltivare un discorso estremamente eterogeneo (una ricca
mescolanza di arcaismi, toni colloquiali, citazioni, punteggiatura e
ortografia non standard e di esperimenti prosodici), che impediva

344
alla traduzione di venir scambiata per «l’originale» e che afferma-
va invece la sua indipendenza come testo letterario in una lingua e
in una cultura diverse. Le pratiche sperimentali di Blackburn erano
estranianti: la loro sfida alla scorrevolezza, tra gli altri valori
nazionali (critica accademica, elitarismo linguistico, decoro bor-
ghese, realismo e individualismo), rendeva la sua traduzione in
grado di segnalare le differenze culturali e linguistiche dei testi
stranieri. Ma Blackburn si andava appropriando di questi testi
anche per un programma culturale personale e nazionale: nella
costruzione della sua identità letteraria attraverso la rivalità con
Pound, nello sviluppo prosodico e tematico della sua poesia, e in
un intervento politico dissidente programmato per favorire un
internazionalismo di sinistra nella cultura americana della Guerra
Fredda, quando una politica estera di contenimento dell’opposizio-
ne ideologica conduceva in patria a un’ondata di nazionalismo che
escludeva le differenze culturali.
La traduzione provenzale di Blackburn interveniva in questa
situazione, ma ne veniva anche costretta, intrappolata tra la reazio-
ne di metà secolo contro il modernismo, la ricezione accademica
dei testi letterari arcaici e un elitarismo che marginalizzava i dia-
letti e i discorsi non standard. Ancora vent’anni dopo, nel 1978,
quando il manoscritto venne finalmente pubblicato, la ricezione
rifletteva il protrarsi della marginalità della traduzione modernista.
In The New York Times Book Review, il critico accademico e tra-
duttore Robert M. Adams riconosceva lo sviluppo da parte di
Blackburn di una poetica della traduzione («Blackburn era un
poeta, e rispondeva alla poesia degli originali»), ma biasimava il
suo « modo stilistico marcato (in pratica, il gergo elaborato di
Pound)», ritenendo la curatela di George Economou inadeguata
per motivi essenzialmente eruditi: «l’informazione storica e bio-
grafica è scarsa e insolitamente confusa nella sua presentazione»;
«nel testo non compare mai l’indicazione del punto cui si riferisce
una nota a pié di pagina» (Adams 1979, p. 36).
La risposta di Blackburn dopo l’episodio di Macmillan fu quel-
la di sviluppare nuovi progetti di traduzione che continuassero a
servire una politica culturale modernista, anche se con letterature
straniere e discorsi di traduzione diversi. In qualità di agente e tra-
duttore di Cortázar, Blackburn si adoperò perché la narrativa lati-
no-americana venisse ammessa nel canone della letteratura stranie-

345
ra in inglese; e per conseguire questa riforma del canone ricorse,
come molti altri traduttori di lingua inglese, alla scorrevolezza,
assimilando narrative sperimentali marginali al discorso trasparen-
te che contraddistingueva il realismo dominante. La carriera di
Blackburn come poeta-traduttore modernista mostra con una certa
chiarezza che le strategie di traduzione possono essere definite
«estranianti» o «addomesticanti» solamente in relazione a specifi-
che situazioni culturali e a specifici momenti in cui muta la rice-
zione di una letteratura straniera o in cui muta la gerarchia dei
valori nazionali.

346
Capitolo sesto
SIMPATICO*

Quante persone vivono ancor oggi in una lingua che non è la loro? Oppure
non conoscono neppure più la loro e conoscono male la lingua maggiore di
cui sono costretti a servirsi? È il problema degli immigrati, e soprattutto dei
loro figli. È il problema delle minoranze. Problema d’una letteratura minore e
tuttavia anche nostro, di noi tutti: come strappare alla propria lingua una lette-
ratura minore, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una
sobria linea rivoluzionaria? Come diventare il nomade, l’immigrato e lo zin-
garo della propria lingua?
Gilles Deleuze e Félix Guattari

Nel 1978, poco dopo aver pubblicato su alcune riviste le mie


traduzioni di poesia italiana, incontrai un altro traduttore america-
no dall’italiano, uno scrittore più esperto, ampiamente pubblicato e
molto dotato che criticò parte del mio lavoro e mi diede consigli
sulla traduzione letteraria. Tra le sue tante osservazioni puntuali vi
era il suggerimento di tradurre un autore italiano della mia genera-
zione, come aveva fatto lui per molti anni e con grande successo.
Spiegò infatti che quando autore e traduttore vivono nello stesso
momento storico, è più facile che condividano una sensibilità
comune, cosa altamente auspicabile nella traduzione perché
aumenta la fedeltà del testo tradotto all’originale. Il traduttore
lavora meglio quando tra lui e l’autore c’è un rapporto simpatico,
disse il mio amico, e con questo non intendeva soltanto “piacevo-
le” o “congeniale”, i significati che questa parola italiana general-
mente indica, ma anche “che possiede un’armonia di base”. Il tra-

* In italiano nel testo [N.d.T.].

347
duttore non deve semplicemente procedere insieme all’autore, non
deve solamente trovarlo piacevole; ci dovrebbe anche essere un’i-
dentità tra di loro.
La situazione ideale ha luogo, secondo il mio amico, quando il
traduttore scopre il suo autore all’inizio di entrambe le loro carrie-
re. In questo caso, il traduttore può seguire da vicino il percorso
dell’autore, accumulando una conoscenza approfondita dei testi
stranieri, rafforzando e sviluppando l’affinità che già sente nei
confronti delle idee e dei gusti dell’autore, assumendo, in effetti, lo
stesso animo. Quando il rapporto simpatico è presente, il processo
della traduzione può essere visto come un vero e proprio riepilogo
del processo creativo attraverso il quale nacque l’originale; e quan-
do si presume che il traduttore condivida indirettamente i pensieri
e i sentimenti dell’autore, il testo tradotto viene letto come l’e-
spressione trasparente della psicologia o del significato dell’auto-
re. La voce che il lettore ascolta in ogni traduzione fatta sulla base
di un rapporto simpatico, viene sempre riconosciuta come quella
dell’autore, mai come quella del traduttore, e nemmeno come
quella di un loro ibrido.
Le idee del mio amico sulla traduzione prevalgono ancora oggi
nella cultura angloamericana, sebbene abbiano dominato la tradu-
zione in lingua inglese almeno dal XVII secolo. L’Essay on
Traslated Verse (1684) del conte di Roscommon raccomandava al
traduttore:

Scegli un Autore come se scegliessi un Amico:


Uniti da questo Legame Simpatico,
Divenite Familiari, Intimi, e Appassionati;
I vostri Pensieri, le vostre Parole, i vostri Stili, e le vostre
Anime si accordano,
Non più il suo Interprete, ma Lui.
(Steiner 1975, p. 77)

Alexander Tytler affermava nell’Essay on the Principles of


Translation (1798)1 che il fine del traduttore è la scorrevolezza,
«egli deve adottare la vera anima del suo autore» (Tyler 1978, p.
212). L’articolo di John Stuart Blackie sulla controversia della tra-
1 Si veda in proposito il secondo capitolo di questo libro [N.d.T.].

348
duzione vittoriana, «Omero e i suoi traduttori» (1861), asseriva
che «il traduttore di successo di un poeta, non solo deve essere
poeta lui stesso, ma deve esserlo allo stesso livello, e con una ispi-
razione simile, [...] guidato da un istinto sicuro in grado di ricono-
scere l’autore a lui simile per gusto e spirito, e verso il quale ha
quindi una speciale inclinazione a tradurlo» (Blackie 1861, pp. 269
e 271). La recensione di Burton Raffel del Catullo modernista
degli Zukofsky affermava egualmente che le condizioni ottimali
per tradurre i testi latini includono «(a) un poeta, (b) la capacità di
identificarsi con lui, di essere quasi Catullo per un periodo protrat-
to nel tempo, e (c) una grande fortuna» (Raffel 1969, p. 444).
Da questo coro di teorici, critici e traduttori sembra chiaro
che l’idea della traduzione simpatica è coerente con le idee sulla
poesia oggi prevalenti nella cultura angloamericana, anche se
queste vennero formulate secoli fa, in particolare con maggiore
incisività alla nascita del Romanticismo in Inghilterra. Da
William Wordsworth fino a T.S. Eliot, a Robert Lowell e oltre,
l’estetica dominante nella poesia inglese è stata la trasparenza,
l’opinione, come afferma acutamente Antony Easthope nella sua
critica incisiva, che «la poesia esprime esperienza; l’esperienza
dà accesso alla personalità, e così la poesia ci conduce alla per-
sonalità» (Easthope 1983, pp. 4-5). Il concetto di simpatia del
mio amico era di fatto uno sviluppo di questi presupposti che
servivano a caratterizzare la pratica della traduzione (trasparen-
te) e a definire il ruolo del traduttore (identificazione con la per-
sonalità dell’autore straniero).
Fui profondamente attratto dalle osservazioni del mio amico.
Indubbiamente la mia attenzione era dovuta in parte alla sua auto-
rità culturale, alla sua ascendenza sugli editori, alla quantità cre-
scente di premi e riconoscimenti e al grande successo ottenuto con
le sue traduzioni. Ma egli forniva anche l’esempio di una com-
prensione sofisticata e piuttosto lirica di ciò che volevo fare, la
condizione per la mia identificazione come traduttore, quello che
potevo essere traducendo, vale a dire il mio amico di successo, ma
anche, nel processo, l’autore di un testo straniero. Seguii questo
consiglio e il caso volle che mi imbattessi in uno scrittore italiano
che ha pressappoco la mia età, il poeta milanese Milo De Angelis.
Nato nel 1951, De Angelis debuttò precocemente nel 1975,
quando venne invitato a partecipare con alcune delle sue poesie a

349
L’almanacco dello Specchio, una prestigiosa rivista annuale con
sede a Milano e pubblicata da una delle case editrici più grandi
d’Italia, la Arnoldo Mondadori Editore. Il titolo dell’antologia
rivela l’intenzione di offrire uno sguardo d’insieme rappresentati-
vo della poesia, ma la collega anche alla prestigiosa collana di
poesia della Mondadori, Lo Specchio, la cui linea editoriale l’anto-
logia sembra condividere: entrambe pubblicano l’opera recente di
scrittori canonici del XX secolo, stranieri e italiani, insieme a
pochi esordienti. La pubblicazione de L’almanacco cui partecipò
De Angelis comprendeva anche poesie di Eugenio Montale e di
Pier Paolo Pasolini, così come traduzioni italiane di poesie di
diversi scrittori stranieri, russi (Marina Tsvetajeva), tedeschi (Paul
Celan) e americani (Robert Bly). Il primo libro di poesie di De
Angelis, intitolato Somiglianze, apparve nel 1976 per la casa edi-
trice Guanda, celebre negli anni ’70 per le pubblicazioni di testi
contemporanei innovativi. Questi due titoli, lo specchio dogmatico
da una parte e le somiglianze sperimentali dall’altra, sollevarono
una serie di domande sulle possibilità della traduzione come rap-
porto simpatico, sulla rappresentazione, la formazione del canone
e la pubblicazione letteraria, che continuano a tormentare il mio
incontro con la poesia di De Angelis.

I
Ben presto, seguendo il successo di De Angelis in Italia, mi resi
conto che non avrebbe potuto raggiungerne uno simile negli Stati
Uniti e in Inghilterra, almeno non oggi. Il canone corrente in tradu-
zione inglese della poesia italiana del XX secolo non ha ancora
riconosciuto il modo di scrivere di questo poeta, non lo trova sim-
patico, e ha di fatto schiacciato i tentativi di pubblicare le mie tra-
duzioni. Al centro di questo canone si trova Eugenio Montale
(1896-1981), affiancato da altri numerosi poeti italiani che mostra-
no un’affinità stilistica con la sua poesia, che hanno goduto della
sua ammirazione espressa in saggi e recensioni, o che sono stati da
lui segnalati agli editori. Ai margini si trovano le successive cor-
renti sperimentali sviluppatesi nella poesia italiana del dopoguerra
e che permisero l’emergere di poeti come De Angelis. Ho compre-
so che lo status canonico di Montale nella traduzione poetica

350
angloamericana pone un velo di trascuratezza sulle legioni di poeti
italiani che lo seguirono.
La traduzione inglese della poesia di Montale cominciò presto,
con un’apparizione nel 1928 nel Criterion di Eliot, ed è continuata
fino a oggi in miriadi di riviste e antologie. È stato solo alla fine
degli anni ’50 che le traduzioni integrali dei suoi libri hanno
comunque cominciato a proliferare, in misura tale che Montale
oggi rivaleggia con Dante per il numero di differenti versioni nelle
collane di vari editori. Montale pubblicò sette piccoli volumi di
poesia, ognuno dei quali ha avuto una traduzione inglese integrale
o parziale, mentre alcuni fra loro sono stati tradotti più di una
volta2. Spesso sono state estratte dai volumi originali scelte di poe-
sie o sezioni per essere pubblicate come volumi a sé. Ci sono state
cinque raccolte antologiche, un libro di prosa autobiografica, una
piccola miscellanea di prosa critica, e un’ampia raccolta di saggi
(di circa 350 pagine). Nel momento in cui scrivo sono in corso di
stampa tredici traduzioni inglesi dell’opera di Montale pubblicate
dalle case editrici più diverse, commerciali, accademiche o minori
negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Canada: case editrici quali
Agenda, Boyars, Ecco, Graywolf, Kentucky, Mosaic, New Dire-
ctions, Norton, Oberlin, Oxford, Random House. E tra i numerosi
traduttori sono inclusi poeti di talento, studiosi e curatori, alcuni
dei quali conosciuti a livello internazionale: William Arrowsmith,
Jonathan Galassi, Dana Gioia, Alastair Hamilton, Kate Hughes,
Antonino Mazza, G. Singh, e Charles Wright. Anche i libri dei
poeti italiani legati a Montale per rapporti di influenza, stilistici o
di altro tipo sono apparsi in un gran numero di traduzioni sin dalla
fine degli anni ’50: Guido Gozzano, Giuseppe Ungaretti, Salvatore
Quasimodo, Lucio Piccolo, Sandro Penna, Leonardo Sinisgalli e
Vittorio Sereni. Anche qui le case editrici sono varie e i traduttori

2 Le raccolte di Montale sono: Ossi di Seppia (1925), Le occasioni


(1939), La bufera e altro (1956), Satura (1971), Quaderno di quattro anni
(1977), e Altri versi e poesie disperse (1981), ora riuniti in Montale 1984a.
William Arrowsmith stava completando la traduzione di Cuttlefish Bones
(Ossi di seppia) e Satura quando morì nel 1992; Jonathan Galassi sta tuttora
completando la traduzione dei primi tre libri di Montale. I testi italiani di
Montale sono stati anche oggetto di liberi adattamenti inglesi: si veda, per
esempio, Lowell 1961, pp. 107-129 e Reed 1990.

351
sono esperti: Anvil, Carcanet, Cornell, Hamish Hamilton,
Minerva, New Directions, Ohio State, Princeton, Red Hill, Red
Ozier; Jack Bevan, Patrick Creagh, W.S. Di Piero, Ruth Feldman e
Brian Swann, Allen Mandelbaum, J.G. Nichols, Michael Palma e
Paul Vangelisti. Undici libri di poeti che possono essere descritti,
senza troppa esagerazione, come incarnazioni inglesi di Montale,
sono attualmente in corso di stampa, un paio fra loro accompagnati
da suoi saggi.
In confronto all’interesse crescente che contraddistingue la
ricezione di Montale nella cultura angloamericana, le altre tenden-
ze poetiche italiane del dopoguerra hanno ricevuto un’attenzione
limitata. Tra queste, lo sperimentalismo è rappresentato in maniera
decisamente marginale rispetto alla sua importanza in Italia.
Secondo una valutazione conservatrice possono essere classificati
in questa categoria circa cinquanta poeti che, attivi da oltre quattro
decenni, la rendono un movimento centrale nella poesia italiana
contemporanea. La prima ondata, a volte chiamata “I novissimi” in
seguito al titolo di un’importante antologia del 1961, comprende il
suo curatore Alfredo Giuliani (1924-), Corrado Costa (1929-),
Edoardo Sanguineti (1930-), Giulia Niccolai (1934-), Nanni
Balestrini (1935-), Antonio Porta (1935-1989), Franco Beltrametti
(1937-) e Adriano Spatola (1941-1989). La seconda, che cominciò
a pubblicare negli anni ’70, comprende Nanni Cagnone (1939-),
Gregorio Scalise (1939-), Luigi Ballerini (1940-), Angelo Lumelli
(1944-), Giuseppe Conte (1945-), Cesare Viviani (1947-),
Michelangelo Coviello (1950-) e Milo De Angelis. Ci sono anche
diversi poeti le cui carriere non coincidono con queste cronologie,
ma la cui opera è caratterizzata da un forte impulso sperimentale:
Andrea Zanzotto (1921-), per esempio, e Amelia Rosselli (1930-
1996). Il fatto che questi nomi siano molto probabilmente privi di
senso per i lettori di poesia di lingua inglese, è sintomatico dell’at-
tuale marginalità dei poeti (e probabilmente di ogni altro poeta ita-
liano esclusi Dante e Montale) nella scrittura angloamericana.
Le traduzioni inglesi di libri di poesia sperimentale richiesero
molto più tempo per apparire (oltre un decennio dopo la pubblica-
zione italiana) di quelle delle poesie di Montale (entro i primi tre
anni dal suo primo volume). Negli anni Settanta Ruth Feldman e
Brian Swann curarono una raccolta di Zanzotto per Princeton, e Paul
Vangelisti pubblicò la sua versione economica del Majakovskiiiiiiij

352
di Spatola con la Red Hill Press di John McBride di Los Angeles.
Vangelisti e McBride diedero vita a una piccola biblioteca dello spe-
rimentalismo italiano, con nove libri di Beltrametti, Costa, Niccolai,
Porta, Spatola, così come un’antologia che mira a descrivere il
movimento, Italian Poetry, 1960-1980: from Neo to Post Avant-
garde. Porta è stato il più tradotto: cinque libri in tutto, incluso un
volume singolo con City Light e un’antologia con la casa editrice
canadese Guernica, nelle versioni di diversi traduttori. La Out of
London Press del poeta Ballerini ha pubblicato edizioni bilingui di
Cagnone, Tomaso Kemeny e Giovanna Sandri, come anche un’anto-
logia che raccoglieva saggi, conferenze e poesie tratte da un con-
gresso tenutosi a New York alla fine degli anni Settanta, la The
Favorite Malice di Thomas Harrison. I poeti dello sperimentalismo
del dopoguerra, così come di altre tendenze contemporanee, sono
rappresentati in numerose altre antologie di questi anni, ma sono
decisamente assenti dalla raccolta dei Poems of Italy di William Jay
Smith e Dana Gioia, che mira a fornire una panoramica rappresenta-
tiva della poesia italiana fin dai suoi inizi medievali.
Fino a oggi sono stati pubblicati approssimativamente venti
libri in lingua inglese che si riferiscono interamente o in parte al
movimento sperimentalista, per la maggior parte da piccole case
editrici poco conosciute e dalla distribuzione limitata. Non è esa-
gerato dire che non è possibile trovare alcuno di questi libri in una
libreria locale o persino in molte biblioteche universitarie, dove è
invece certamente possibile trovare dei libri di Montale. Rispetto
alla monumentale resa di Montale nell’editoria angloamericana, in
Italia si trova un panorama poetico molto diverso: è un panorama
che di certo vede Montale all’interno del canone, ma che vi inclu-
de anche la tendenza che sto qui chiamando, in maniera un po’
riduttiva, “sperimentalismo”.
La diversa ricezione di queste opere poetiche italiane è dovuta
a molti fattori, culturali, economici e ideologici. Il fatto che
Montale abbia ricevuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1975,
in parte spiega la sua importanza culturale all’estero. Ma non basta
a spiegare né l’attenzione prolungata accordata alla sua poesia
dagli scrittori di lingua inglese che hanno scelto di tradurlo, né la
relativa trascuratezza di quarant’anni di sperimentalismo. Per com-
prendere ciò, vorrei suggerire, dobbiamo guardare alle poetiche
dominanti nella cultura angloamericana e, in particolare, ai suoi

353
presupposti romantici: il poeta come soggettività unificata che
esprime la sua personale esperienza e, di conseguenza, una poesia
centrata sull’io poetico, che evoca un’unica voce, che comunica
l’individualità del poeta in un linguaggio trasparente, confermando
un sentimento di rapporto simpatico con il traduttore. Il fatto che
Montale appartenga al canone angloamericano delle opere lettera-
rie si fonda sull’assimilazione della sua poesia, compiuta dai suoi
traduttori, alle poetiche più condivise, mentre lo sperimentalismo
del dopoguerra è stato ampiamente marginalizzato per la resistenza
che oppone a questi tipi di assimilazione. Il Montale canonizzato
in inglese è costituito in realtà da una versione addomesticata
modellata su un’estetica centrata sul poeta e realizzata nel discorso
trasparente della traduzione scorrevole.
Un esempio a questo proposito è la versione di Dana Gioia dei
Mottetti di Montale, una sequenza consecutivamente numerata di
venti poesie che forma la parte centrale della raccolta del 1939, Le
occasioni. I contemporanei di Montale trovarono queste poesie
oscure e utilizzarono il termine “ermetismo” per denigrare la loro
poetica tipicamente modernista dell’obliquità, del ricorso all’ellis-
si, alla frammentazione, all’eterogeneità. In un saggio del 1950,
Due sciacalli al guinzaglio, Montale rispondeva ai suoi critici
affermando che i “mottetti” non erano oscuri e che, sebbene le
singole poesie fossero state scritte in momenti diversi, tuttavia
costituivano «un romanzetto autobiografico tutt’altro che tenebro-
so», in cui egli utilizzava alcuni materiali culturali tradizionali –
La Vita Nuova di Dante, i poeti del Dolce Stil Novo – per rappre-
sentare la sua relazione discontinua con Irma Brandeis, una stu-
diosa americana di Dante incontrata a Firenze (Montale 1976, p.
84). La poetica dominante angloamericana privilegia il poeta, così
Gioia accetta il saggio difensivo e astutamente ironico di Montale
e afferma che le poesie «formano una sequenza unificata il cui
pieno significato e potere divengono chiari soltanto quando sono
lette insieme» (Montale 1990, p. 11). L’oscurità è soltanto appa-
rente, effetto dell’ugualmente apparente discontinuità della narra-
tiva:

La sequenza ricrea momenti isolati di intuito, spogliati dei loro


elementi non essenziali. Ogni altra cosa nella storia viene detta
per deduzione, e il lettore deve partecipare alla ricostruzione

354
del dramma umano proiettando le sue associazioni private per
completare gli elementi mancanti della narrativa.
(ivi, p. 16, corsivi miei)

È interessante notare come Gioia ripetutamente individui gli


elementi formali che valsero a Montale l’appellativo di “ermeti-
co”, soltanto per dar ragione della loro esistenza, per «completare»
le incrinature del testo spezzato. Nell’assimilazione di Montale
alle poetiche maggiormente condivise operata da Gioia, l’elemento
più importante è conservare la continuità con cui il poeta rappre-
senta la propria esperienza, assicurando la coerenza del soggetto
poetico e il controllo sull’espressione di sé. La strategia di tradu-
zione di Gioia è dunque designata a creare versioni che «si muova-
no naturalmente come poesie di lingua inglese, [...] preferendo
sempre la chiarezza emozionale e l’integrità narrativa dell’intera
poesia in inglese alla fedeltà lessicale della singola parola», allon-
tanandosi dalla versificazione di Montale in modo tale da «integra-
re strettamente gli elementi trasposti in un nuovo intero» (ivi, p.
21). Gli allontanamenti non sono visti quindi come imprecisioni o
revisioni addomesticanti, ma come fedeltà più intime, mostrando
che Gioia è veramente in rapporto simpatico con Montale, «fedele
non solo al senso, ma anche allo spirito dell’italiano» (ivi, p. 22).
Qui diviene chiaro che il sentimento di simpatia del traduttore non
è altro che una proiezione, e che l’oggetto di identificazione del
traduttore è in definitiva se stesso, le «associazioni private» che
inserisce nel testo straniero con la speranza di suscitare un’espe-
rienza similmente narcisista nel lettore di lingua inglese.
L’effetto delle poetiche dominanti nelle traduzioni di Gioia è
visibile nella sua versione del sesto testo del gruppo dei Mottetti:

La speranza di pure rivederti


m’abbandonava;

e mi chiesi se questo che mi chiude


ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:

355
(a Modena tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
(Montale 1984a, p. 144)

I had almost lost


hope of ever seeing you again;

and I asked myself if this thing


cutting me off
from every trace of you, this screen
of images,
was the approach of death, or truly
some dazzling
vision of you
out of the past,
bleached, distorted,
fading:

(under the arches at Modena


I saw an old man in a uniform
dragging two jackals on a leash).
(Montale 1990, p. 35)

La versione di Gioia estende considerevolmente la presenza del


poeta nella poesia attraverso numerose alterazioni e aggiunte. I
versi di apertura di Montale – «La speranza di pure rivederti/m’ab-
bandonava» (in una resa che segue l’ordine delle parole italiane e
la versificazione, leggeremmo: «The hope of ever seeing you
again/was abandoning me») – viene ribaltata, con un’enfasi spo-
stata sull’«I» di Gioia: «I had almost lost». Allo stesso modo, il
penultimo verso contiene un altro riferimento alla prima persona,
«I saw», che non appare affatto nel testo italiano. Le altre aggiunte
di Gioia – «truly», «vision», «bleached», «old man» – mostrano un
tentativo di rendere il linguaggio più emotivo o drammatico, di
abbozzare i contorni psicologici del soggetto poetico, ma risultano
un po’ artificiose, persino sentimentali («old man»). Continuando
con questa resa emotiva del lessico di Montale, Gioia utilizza l’e-
spressione «approach of death» (“l’avvicinarsi della morte”) per

356
tradurre «i segni della morte», diminuendo l’elemento autoriflessi-
vo del testo italiano, la sua consapevolezza del proprio stato di
«immagini» e «segni» per rimpiazzarlo con una pallida ricerca del
sensazionale. La parola inglese «signs» è abitualmente dotata di
diversi significati, incluso un riferimento a prestiti stranieri contro-
versi nella teoria della letteratura angloamericana che spersonaliz-
zano il testo e decostruiscono la figura dell’autore: la semiotica e il
poststrutturalismo. La scelta di evitare la parola produce qui due
effetti degni di nota: allontana la traduzione dal pensiero europeo
contemporaneo che metterebbe in dubbio i presupposti teorici
delle poetiche dominanti, e rinforza l’accento sullo stato emozio-
nale del poeta, sulla (ri)presentazione della poesia di Montale
come espressione di sé (di Montale o di Gioia?). La strategia tra-
duttiva di Gioia cerca, piuttosto chiaramente, di cancellare il
discorso poetico modernista di Montale, di rimuovere quegli ele-
menti formali che rendevano il testo italiano così sorprendente-
mente diverso agli occhi dei primi lettori italiani e che, se un tra-
duttore avesse cercato di riprodurli in inglese, si sarebbero risolti
in una traduzione ugualmente sorprendente per il lettore angloa-
mericano a causa del loro scarto dall’estetica dominante centrata
sul poeta.
Lo sperimentalismo italiano del dopoguerra si mostrò restio a
questa ideologia assimilazionista, sia nella forma che nel contenu-
to. Nella sua prima fase venne chiamato “neoavanguardia” per il
ritorno a movimenti modernisti come il Futurismo, il Dadaismo e
il Surrealismo per sviluppare un discorso poetico altamente
discontinuo che riflettesse la sua situazione culturale e sociale.
Nella prefazione a I novissimi, Giuliani delineava il progetto speri-
mentale come una politica culturale di sinistra: il linguaggio è frat-
turato in una “visione schizomorfa” che simultaneamente registra
e resiste alle dislocazioni mentali e alle rappresentazioni illusorie
del capitalismo consumista (Giuliani 1961, p. XVIII). La poesia di
Edoardo Sanguineti, per fare un esempio, è un flusso frenetico di
episodi della vita del poeta, di allusioni a figure e a eventi contem-
poranei, di citazioni e applicazioni delle sue letture di filosofia, let-
teratura, psicologia, e teoria sociale, punteggiate da un linguaggio
levigato e da riferimenti alla cultura popolare. Lo sperimentalismo,
in questa fase iniziale, circolava ampiamente nelle riviste e nelle
antologie, in una collana di un’importante casa editrice (Fel-

357
trinelli), e in diversi incontri pubblici seguiti attentamente dai
media. Gli esperimenti presero diverse forme, non solo una scrittu-
ra molto più plurivoca ed eterogenea di qualsiasi cosa prodotta da
Montale, ma anche poesia visiva e collage, testi generati dal com-
puter e performance.
Lo sperimentalismo comprende molti tipi di poesia, e le mie
periodizzazioni e genealogie culturali danno inevitabilmente un
resoconto troppo semplicistico (che, inoltre, in questa occasione è
interessato, teso com’è a dimostrare un allontanamento da
Montale). Il comune filo sperimentale è l’uso della discontinuità
formale per riferirsi ai problemi filosofici sollevati dal linguaggio,
dalla rappresentazione e dalla soggettività, avvicinandosi in questo
alle contemporanee tendenze francesi del nouveau roman e dell’e-
mergere del pensiero poststrutturalista, in particolare nelle versioni
politicizzate del gruppo Tel Quel. In verità l’immensa importanza
della politica nella neoavanguardia ha portato Christopher
Wagstaff a suggerire che «quando, nel 1968, l’Italia sembrava
offrire opportunità significative per l’azione politica diretta», il
movimento «vide la sua raison d’être scomparire», come è eviden-
ziato dalla cessazione di una rivista di importanza centrale, dalle
crescenti affiliazioni con le istituzioni culturali e accademiche uffi-
ciali e, più significativamente, da un nuovo indirizzo teorico e pra-
tico (Wagstaff 1984, p. 37).
La seconda fase sperimentalista evitò un impegno politico
esplicito per sviluppare progetti più speculativi con radici distinta-
mente filosofiche (fenomenologia esistenzialista, psicoanalisi,
poststrutturalismo), esplorando le condizioni della coscienza
umana e dell’azione in testi fortemente indeterminati. Alla rinno-
vata enfasi sulla testualità veniva talvolta data un’inflessione poli-
tica nelle affermazioni teoretiche, particolarmente dai membri
della prima fase dello sperimentalismo. In un’antologia che offre
uno sguardo sulla poesia italiana degli anni Settanta, Porta soste-
neva che «la riaffermazione della forza linguistica dell’io risolve il
problema dell’interazione tra poesia e società, tra poesia e realtà,
perché l’io poetico non è mai meramente “personale” ma, proprio
come l’autore, è un evento linguistico collettivo» (Porta 1979, p.
27). In generale, comunque, lo sperimentalismo successivo al 1968
non faceva ricorso alle teorizzazioni di sinistra della neoavanguar-
dia, ma piuttosto perseguiva la «parola innamorata», come indica-

358
va il titolo di un’importante antologia, volgendola a una posizione
di polisemia incontrollabile, esponendo e destabilizzando le deter-
minazioni multiple della soggettività, linguistiche, culturali e
sociali (Pontiggia e Di Mauro 1978). In questo modo alcuni poeti
ritornarono alle innovazioni formali e tematiche dell’ermetismo, al
suo obliquo mezzo di significazione, alla sua inclinazione per
l’uso del climax. Tutto questo appare chiaramente nel caso di Milo
De Angelis: attingendo non solo all’ermetismo ma anche ad altri
poeti europei come René Char e Paul Celan, egli spinge la fram-
mentazione modernista all’estremo minacciando l’inintellegibilità
pur nella proliferazione del significato.
La poesia di De Angelis intitolata “Lettera da Vignole” può
forse indicare come egli allo stesso tempo assomigli e differisca
dal primo Montale. Anche questa prende spunto dall’amicizia tra il
poeta e una donna impegnata nell’attività letteraria, anche se non
in qualità di dantista. La donna è Marta Bertamini, che collaborò
con De Angelis alla rivista sperimentalista da lui fondata, niebo
(1977-1984) e a una traduzione dal latino (Claudiano, Il ratto di
Proserpina). Vignole è il paese vicino al confine austriaco in cui
nacque la Bertamini.

Udimmo la pioggia e quelli


che ritornavano: ogni cosa
nella calma di parlare
e poi la montagna, un attimo, e tutti
i morti che neanche il tuo esilio
potrà distinguere.

“Torna subito o non tornare più.”

Era questa – tra i salmi


della legge – la voce
che hai ripetuto all’inizio,
la potente sillaba, prima
di te stessa.

“Solo così ti verrò incontro, ignara


nell’inverno che ho perduto e che trovo.”
(De Angelis 1985, p. 12)

359
We heard the rain and those
who were returning: each thing
in the calm of speaking
and then the mountain, an instant, and all
the dead whom not even your exile
can distinguish.

“Come back at once or don’t ever come back.”

This – amid the psalms


of the law – was the voice
that you repeated at the beginning,
the potent syllable, before
you yourself.

“Only then shall I come to meet you, unaware


in the winter which I lost and find.”

Conoscere l’allusione del titolo non aiuta molto a rintracciare il


significato di questa poesia. I pronomi sostengono soggettività
multiple. Una parola come «inverno» avvia una fertile catena
intertestuale/intersoggettiva: suggerisce un motivo chiave in diver-
si poeti, considerevolmente in Celan e in Franco Fortini (1917-
1994), uno scrittore dalla critica letteraria e dal verso politicamente
impegnati che espresse presto la sua ammirazione per De Angelis.
Sebbene De Angelis prenda frequentemente specifici episodi della
sua vita come punto di partenza, la sua poetica sperimentale li
rende sia impersonali che interpersonali, complicando la rappre-
sentazione con un’intricata rete di immagini e allusioni che intes-
sono relazioni con altri discorsi poetici, altri soggetti poetici, sfi-
dando ogni riduzione semplicistica del testo ad autobiografia (del
poeta o del lettore).
Montale è indubbiamente più facile da catturare, per la poetica
dominante angloamericana rispetto allo sperimentalismo. Di fatto,
si potrebbe dire che alcuni traduttori inglesi si rifanno alle tracce,
in Montale, di un’altra estetica centrata sul poeta, il Crepusco-
larismo, un movimento fin de siècle che valorizzava la voce singo-
la in un linguaggio colloquiale, producendo riflessioni introspetti-
ve e lievemente ironiche su esperienze prosaiche (Sanguineti

360
1963). Ciò andrebbe in qualche modo a spiegare non solamente la
negazione da parte di Gioia del modernismo di Montale, ma anche
l’attrazione americana verso più giovani poeti italiani che sembra-
no ritornare al crepuscolarismo, come Valerio Magrelli (1957-),
per esempio, che Gioia ha anche promosso e tradotto (Cherchi e
Parisi 1989).
Non tutti i traduttori in lingua inglese di Montale mettono cer-
tamente in opera un’ideologia assimilazionista. Le versioni di
William Arrowsmith avevano precisamente il fine di rispettare il
margine modernista di poesie come i Mottetti. Nella «Prefazione
del Traduttore» alla versione inglese delle Occasioni, Arrowsmith
descrisse il suo metodo come «resistente» a ogni addomesticamen-
to dei testi italiani:

Ho coscienziosamente opposto resistenza alla tentazione del


traduttore di completare o altrimenti modificare le costanti
ellissi di Montale, per favorire il mio lettore fornendogli transi-
zioni più dolci. E ho fatto del mio meglio per onorare la reti-
cenza di Montale, le sue qualità ironiche e le cadenze schive. Il
fine principale è stato quello di conservare l’apertura dell’italia-
no del poeta, benché ciò abbia significato opporsi all’attitudine
dell’inglese per la concretezza.
(Montale 1987, p. XXI)

L’intenzione di Arrowsmith era comunque di legittimare, non


di rivalutare lo status canonico di Montale nella traduzione poetica
angloamericana, non sentendo dunque alcun bisogno di menziona-
re lo sperimentalismo italiano del dopoguerra, ma suggerendo sol-
tanto che era degno di essere tradotto in inglese. Egli sosteneva
infatti che

Nessun poeta italiano del XX secolo ha corso rischi sperimen-


tali più grandi di quanto abbia fatto Montale in questo libro,
soprattutto nello sforzo di rinnovare la vena dantesca nei termi-
ni di una sensibilità che appartiene così appassionatamente al
suo tempo e che si sforza tenacemente di trovare una voce indi-
viduale, una voce che non deve essere mai ripetuta.
(ivi, p. XX)

361
Il discorso modernista della traduzione che Arrowsmith racco-
mandava avrebbe potuto opporre resistenza a certi valori letterari
angloamericani («transizioni più dolci», «concretezza»), ma il fon-
damento logico di questo discorso concordava con la poetica
dominante, la valorizzazione romantica della «voce» del poeta. Le
traduzioni di Arrowsmith possono ovviamente fare ben poco per
mettere in dubbio l’ombra di negligenza che Montale continua a
proiettare sugli sperimentalisti italiani come Milo De Angelis.

II
L’ironia della mia situazione non mi sfuggiva. Nel perseguire
l’idea di rapporto simpatico del mio amico avevo scoperto uno
scrittore italiano che mi spinse a sospettare di questa idea e, in
definitiva, ad abbandonarla. Quando mi imbattei nella raccolta
antologica di De Angelis del 1975 e quindi venni in possesso del
suo primo libro, ciò che maggiormente mi impressionò era il fatto
che a ogni livello – linguistico, formale, tematico – queste poesie
lanciavano una sfida decisiva all’estetica centrata sul poeta. Le
brusche rotture di verso e le peculiarità sintattiche, l’oscura mesco-
lanza di astrazione, metafora e dialogo conferivano loro l’opacità
che mina ogni senso di voce poetica coerente. Esse non invitano
alla partecipazione indiretta del lettore e di fatto frustrano ogni let-
tura che le consideri come l’espressione controllata della persona-
lità o dell’intenzione dell’autore. La voce di chi – o di che cosa –
parlerebbe in una traduzione della poesia di De Angelis? Spesso,
dovrei aggiungere, è più una questione di quale voce, poiché non è
possibile attribuire i frammenti di dialogo che punteggiano i suoi
testi a un’identità distinta. La poesia di De Angelis mette in dubbio
il fatto se il traduttore possa essere (o possa essere pensato) in
armonia con l’autore straniero. Essa dimostra piuttosto che la voce
nella traduzione è irriducibilmente estranea, mai veramente ricono-
scibile in quella del poeta o del traduttore, mai veramente capace
di liberarsi della sua estraneità al lettore.
Quando cominciai a tradurre le poesie di De Angelis mi resi
conto che l’idea di simpatia effettivamente mistifica ciò che acca-
de nel processo della traduzione. Più decisamente, nasconde il
fatto che per produrre l’effetto della trasparenza in un testo tradot-

362
to, per dare al lettore la sensazione che il testo sia una finestra sul-
l’autore, i traduttori devono manipolare quello che spesso sembra
un materiale molto resistente, vale a dire la lingua in cui stanno
traducendo, nella maggior parte dei casi la prima lingua che hanno
imparato, la loro madrelingua. La trasparenza ha luogo soltanto
quando la traduzione si legge scorrevolmente, quando non c’è una
fraseologia goffa, né costruzioni non idiomatiche o significati con-
fusi, quando chiare connessioni sintattiche e pronomi coerenti
generano l’intelligibilità del lettore. Quando la traduzione è rap-
presentata da una poesia in verso libero è necessario fare ricorso a
ritmi diversi che evitino metri monotoni per dare alla lingua la
qualità di una conversazione, per farla suonare come naturale. Le
rotture del verso non dovrebbero distorcere la sintassi al punto da
impedire al lettore la ricerca della comprensione; dovrebbero inve-
ce sostenere la continuità sintattica che lo o la spinge a leggere il
significato sopra le righe, seguendo lo sviluppo di una voce poeti-
ca coerente, tracciando i suoi contorni psicologici. Queste tecniche
formali rivelano come la trasparenza sia un effetto illusionistico:
essa dipende dal lavoro del traduttore sulla lingua, ma lo nasconde,
nasconde persino la stessa presenza della lingua, suggerendo che
nella traduzione è possibile scorgere l’autore, che in essa l’autore
parla con la sua voce. Se l’illusione della trasparenza è abbastanza
forte può produrre un effetto di verità, in cui la voce d’autore
diviene autoritaria, ascoltata come se dicesse ciò che è vero, giu-
sto, ovvio. Tradurre le poesie di De Angelis ha significato per me
demistificare tale illusionismo perché esse resistevano chiaramente
alla scorrevolezza valorizzando, invece, un’estetica della disconti-
nuità.
Prendiamo ora in esame una poesia tratta da Somiglianze, un
testo programmatico che dà il titolo alla raccolta antologica di De
Angelis:

L’idea centrale
È venuta in mente (ma per caso, per l’odore
di alcool e le bende)
questo darsi da fare premuroso
nonostante.
E ancora, davanti a tutti, si sceglieva
tra le azioni e il loro senso.

363
Ma per caso.
Esseri dispotici regalavano il centro
distrattamente, con una radiografia,
e in sogno padroni minacciosi
sibilanti:
“se ti togliamo ciò che non è tuo
non ti rimane niente.”
(De Angelis 1976, p. 97)

The Central Idea


came to mind (but by chance, because of the scent
of alcohol and the bandages)
this careful busying of oneself
notwithstanding.
And still, in front of everybody, there was choosing
between the actions and their meaning.
But by chance.
Despotic beings made a gift of the center
absentmindedly, with an X-ray,
and in a dream threatening bosses
hissing:
“if we take from you what isn’t yours
you’ll have nothing left.”

La poesia italiana offre scorci di un ambiente ospedaliero,


inquietante con la sua associazione con ferite e morte, ma il vero
incidente non è mai precisamente definito, e le riflessioni semi-
filosofiche sul suo significato rimangono recondite, solo per essere
in seguito oscurate dall’improvviso slittamento al sogno e alla cita-
zione inquietante. Non solo il lettore non può essere sicuro di ciò
che accade, ma non sa veramente neppure chi sta facendo quell’e-
sperienza. Fino all’affermazione perentoria dei «padroni», il tono è
naturale benché impersonale, meditativo ma non veramente intro-
spettivo, privo di alcun suggerimento sull’appartenenza della voce
a una persona particolare, mostrando solo qualcuno che ha provato
quel misterioso pericolo fisico. Il testo non offre un punto di vista
coerente dal quale comprenderlo, oppure una voce psicologica-
mente coerente con la quale identificarsi. Al contrario, la sintassi
frammentata e le brusche rotture di verso spezzano continuamente

364
il processo di significazione, forzando il lettore a rivedere le sue
interpretazioni. I versi di apertura sono notevoli per i cambiamenti
e le contorsioni sintattiche che obbligano a sintesi di dettagli utili
solamente a dare loro un senso, ma in seguito indeboliscono ogni
chiusura con la restrizione introdotta da «nonostante».
L’enjambement è contraddittorio, schizoide, metamorfico. Se «il
centro» è dato «distrattamente», in che senso può essere descritto
come centrale? I «padroni» che sono «minacciosi» diventano
«sibilanti», una parola spesso usata per descrivere il suono del
vento tra le canne, o dei serpenti. Il risultato della forma disconti-
nua della poesia è che non riesce a creare l’effetto illusionistico
della presenza dell’autore dimostrando, con gradi di disagio che
variano da lettore a lettore, quanto la trasparenza dipenda dal lin-
guaggio, dagli elementi formali come la sintassi lineare e il signifi-
cato univoco. In modo ancor più interessante, l’abbandono di De
Angelis delle tecniche formali utilizzate per raggiungere la traspa-
renza avviene in una poesia la cui rappresentazione della coscienza
umana rifiuta chiaramente l’individualismo romantico. Questa idea
di soggettività è quella che soggiace ad affermazioni chiave della
trasparenza come la teoria di Wordsworth sull’espressione dell’au-
tore contenuta nella prefazione alle Lyrical Ballads (1800): «La
buona poesia è la spontanea profusione di sentimenti possenti»
(Wordsworth 1974, p. 123). La stessa idea è evidente anche nel
modernismo romantico di Eliot, nella sua definitiva capitolazione
al culto romantico dell’autore: «La poesia [...] non è espressione
della personalità», scriveva Eliot alla fine di Tradizione e talento
individuale (1919), «ma un’evasione dalla personalità. È naturale,
però, che solo chi ha personalità e sentimenti sa che cosa significhi
volerne evadere» (Eliot 1985, p. 79). La poesia di De Angelis, al
contrario, rappresenta la coscienza non come l’origine unificata
del significato, della conoscenza e dell’azione, che si esprime libe-
ramente nel linguaggio, ma piuttosto come divisa e determinata
dalle sue mutevoli condizioni: l’essere svegli e il dormire, il pen-
siero e gli stimoli sensoriali, il significato e l’azione, la diagnosi
medica e il caso. Così, qualunque possa essere l’idea centrale, non
viene alla mente attraverso la volontà del soggetto, ma emerge sol-
tanto accidentalmente, grazie a diversi fattori determinanti sui
quali il soggetto ha un controllo limitato o nullo, come un odore o
l’eventualità della morte.

365
Poiché questo è un testo straniero che rifiuta l’estetica romanti-
ca della trasparenza che ha a lungo dominato nella poesia angloa-
mericana, rende ogni conseguimento di rapporto simpatico diffici-
le se non impossibile per il traduttore in lingua inglese. “L’idea
centrale” non è una poesia adatta ad essere portata in una cultura
che fa leva sull’individualità e l’autodeterminazione al punto tale
che l’intenzionalità e l’espressione di sé modellano fortemente i
loro riflessi sulla lingua e la poesia. Il predominio prolungato di
questi presupposti individualistici nella cultura angloamericana
contemporanea rende inevitabilmente De Angelis uno scrittore
minore in inglese, marginale in relazione all’estetica dominante
inglese, l’espressione trasparente dell’esperienza dell’autore. Il
predominio dell’individualismo rende in realtà la traduzione stessa
un genere minore di scrittura in inglese, marginale in relazione a
una scrittura che non solo realizza la più importante estetica della
trasparenza, ma che sostiene anche l’imprimatur dell’autore.
Poiché il discorso trasparente è percepito come specchio dell’auto-
re, esso considera il testo straniero come originale, autentico, vero,
e svalorizza quello tradotto come derivato, simulacro, falso, obbli-
gando la traduzione ad accettare il progetto di cancellare il suo sta-
tus di secondo ordine con una strategia che mira alla scorrevolez-
za. È qui che una metafisica platonica emerge dall’individualismo
romantico per costruire la traduzione come la copia di una copia,
dettando una strategia di traduzione in cui l’effetto della trasparen-
za maschera le mediazioni tra la copia e l’originale, e al loro inter-
no, eclissando il lavoro del traduttore con l’illusione di una presen-
za letteraria, riproponendo la marginalità culturale e lo sfruttamen-
to economico di cui soffre oggi la traduzione3. Rimasi fortemente
attratto dalla diversità della poesia di De Angelis, anche se essa
ribaltava le pratiche di traduzione angloamericane che il mio
amico aveva descritto così liricamente. Eppure questa diversità mi
stava spingendo a trovare nuovi obiettivi per il mio lavoro. Che
cosa potevo sperare di raggiungere traducendo De Angelis in
inglese? Quale teoria avrebbe guidato la mia strategia di traduzio-
ne e governato le mie scelte?

3 Queste riflessioni sull’individualismo romantico e il degrado da esso


operato sulla traduzione si basano su Derrida 1976 e Deleuze 1990, pp. 253-
266.

366
Avrei potuto certamente sottomettermi al culto predominante
dell’autore e rendere la mia traduzione de “L’idea centrale” il più
scorrevole possibile, forse con la vana speranza di avvicinare la
poesia alla trasparenza. Un certo progresso in questa direzione si
può ottenere se al verso 12 della traduzione si inserisce il verbo
«were» prima di «hissing», minimizzando la sintassi frammentata
e dando una maggiore definizione al significato, o dando un sog-
getto al verbo «came» del primo verso, anche vagamente definito
come «it». Certo, l’aggiungere «were» e «it» non porterebbe molto
lontano nel rendere il testo trasparente, ma almeno mitigherebbe il
disagio grammaticale solitamente provocato dall’omissione di un
soggetto o di un verbo in una frase inglese.
La mia versione inglese, comunque, rifiuta la scorrevolezza.
Prendendo spunto dalla stessa estetica di De Angelis, la mia strate-
gia può essere chiamata di resistenza: cerca di riprodurre la discon-
tinuità della poesia di De Angelis. E la traduzione è indubbiamente
più discontinua con l’omissione di un soggetto e di un verbo. La
resistenza ha agito nel mio sforzo di accrescere la discontinuità
delle cesure del verso e il loro effetto di forzare il lettore a cambia-
re aspettativa. Nel primo verso «scent», dalla definizione così vaga
da poter presupporre la possibilità di piacevolezza, ha rimpiazzato
due scelte precedenti, «smell» e «odor», che contengono entrambe
forti connotazioni negative e anticipano troppo il gusto minaccioso
di «alcohol», riducendo il potere del secondo termine nell’evocare
sorpresa e paura. L’interruzione del verso permette a «scent» di
liberare i suoi vari significati possibili, rendendo la posposizione
di «alcohol» un po’ più sorprendente. Allo stesso modo, una prece-
dente versione del verso 9 cominciava con «carelessly», ma è stata
definitivamente rimpiazzata dal più risonante «absentmindedly»,
che sembra non soltanto inesplicabile nel contesto di «gift», ma
anche piuttosto allarmante: poiché il regalo (“gift”) porta le impor-
tanti associazioni cognitive del «center» (“centro”), esso offre al
lettore la promessa dell’intelligibilità, di una certa luce diffusa sul
titolo che, comunque, l’idea della distrazione (“absentminded”)
velocemente tradisce.
Adottando una strategia di resistenza per tradurre la poesia di
De Angelis sono stato infedele, e di fatto ho portato una sfida,
all’estetica dominante nella cultura della lingua d’arrivo, quella
angloamericana, divenendo un nomade nella mia stessa lingua, un

367
fuggiasco dalla mia madrelingua. Allo stesso tempo, comunque,
l’adozione di questa strategia non deve essere considerato come il
tentativo di rendere la traduzione più fedele al testo della lingua di
partenza. Benché si possa dire che la resistenza si basa sugli stessi
presupposti di fondo della lingua e sulla soggettività ispirati dalla
poesia di De Angelis, la mia versione inglese devia ancora dal
testo italiano in modi decisivi che obbligano a ripensare la defini-
zione di fedeltà nella traduzione. Il tipo di fedeltà che viene qui
messa in gioco è stata chiamata “abusiva” (abusive) da Philip
Lewis: il traduttore, il cui «scopo è di ricreare analogicamente l’a-
buso che avviene nel testo originale», tende al massimo entrambi
«forzando il sistema linguistico e concettuale da cui [la traduzio-
ne] è dipendente» e «dando una spinta critica all’indietro verso il
testo che essa traduce» (Lewis 1985, p. 43). Gli «abusi» della
scrittura di De Angelis sono precisamente i suoi punti di disconti-
nuità e di indeterminatezza. Essi continuano a esercitare la loro
forza nella cultura italiana, sul lettore di lingua italiana, anche
molto dopo la pubblicazione di Somiglianze. Nel 1983, per esem-
pio, il poeta Maurizio Cucchi aprì la sua voce di dizionario su De
Angelis affermando che «pensiero e libertà dell’immagine spesso
coesistono nei suoi versi, rivelando una sottesa, insinuante inquie-
tudine, un attraversamento sempre arduo e perturbante dell’espe-
rienza» (Cucchi 1983, p. 116). La mia strategia di resistenza mira
a riprodurre questo effetto in inglese ricorrendo a tecniche analo-
ghe di frammentazione e proliferazione di significato. Di conse-
guenza, la traduzione stabilisce una fedeltà impropria al testo ita-
liano: da un lato, essa si oppone all’estetica trasparente della cul-
tura angloamericana che tenterebbe di addomesticare la scrittura
difficile di De Angelis mediante una strategia scorrevole; dall’al-
tro lato, la traduzione crea simultaneamente una resistenza in rela-
zione al testo di De Angelis, qualificando il suo significato con
aggiunte e sottrazioni che costituiscono una «spinta critica» verso
di esso.
Alcune caratteristiche della sintassi della mia traduzione la ren-
dono, per esempio, più insolita dell’italiano di De Angelis. Il suo
primo verso presenta un verbo senza soggetto – «È venuta» – che
è grammaticalmente accettabile e comprensibile in italiano perché
il particolare tempo verbale indica il genere del soggetto, qui fem-
minile, dirigendo quasi immediatamente il lettore italofono verso

368
l’ultimo sostantivo femminile, che si trova nel titolo, «L’idea». Le
frasi inglesi senza soggetto sono grammaticalmente sbagliate e
spesso incomprensibili. Seguendo strettamente l’italiano e omet-
tendo il soggetto mi stavo quindi effettivamente allontanando dal
testo straniero, o almeno lo stavo rendendo più difficile, più insoli-
to: «È venuta» appare scorrevole al lettore italofono, con la lettera
maiuscola «E» che indica l’inizio di una frase, mentre la violazio-
ne grammaticale presente in «came to mind» (con la lettera minu-
scola) la fa apparire non idiomatica o resistente a un lettore
anglofono, anche se questo è solo un effetto iniziale, che eventual-
mente obbliga a volgere uno sguardo indietro, al titolo, per
coglierne il significato. La mia traduzione prende l’elusività sintat-
tica della versione italiana, ovvero l’assenza di un qualsiasi sog-
getto esplicito, e la distorce, dando luogo all’enfasi esasperata di
ciò che è solo lievemente accennato in italiano: che l’idea centrale
rimane sempre fuori dalla poesia perché non viene mai affermata
esplicitamente, forse perché non può esserlo, mettendo in dubbio
ogni forma di rappresentazione, sia nel linguaggio che nei raggi X.
In questo caso, la mia traduzione oltrepassa il testo straniero a
causa di differenze irriducibili tra la lingua di partenza e quella
d’arrivo, differenze sintattiche che complicano lo sforzo di produr-
re resistenza. Ma l’eccesso nella traduzione può anche essere visto
nel fatto che ho reso certi versi principalmente sulla base di un’in-
terpretazione della poesia. Poiché l’interpretazione e la poesia
sono delle entità distinte, determinate da fattori diversi, con fun-
zioni diverse, che conducono vite discorsive diverse, la mia tradu-
zione interpretativa dovrebbe essere vista come una trasformazio-
ne della poesia, basata, è vero, su informazioni riguardanti le lettu-
re di De Angelis in letteratura, critica letteraria e filosofia, ma tesa
a far circolare questo corpus di scrittura nella cultura anglofona
dove continua a essere alieno e marginale. Perché quello che la
poesia di De Angelis mostra ai lettori angloamericani, con tutti i
disagi dell’inintelligibile, è che la cultura europea, nelle sue mani-
festazioni del XIX e del XX secolo, è andata ben oltre il Ro-
manticismo.
Nelle lettere inviatemi, così come nei suoi saggi, traduzioni e
interviste, De Angelis ha chiarito come la sua poesia assimili
diversi materiali letterari (europei e orientali, classici e del XX
secolo), ma anche che essa ha una distinta genealogia filosofica: le

369
sue ampie letture di fenomenologia e psicoanalisi sono riviste alla
luce delle nuove concezioni del linguaggio e della soggettività che
fondano le varietà del pensiero poststrutturalista nella cultura con-
temporanea francese e italiana. L’interesse iniziale di De Angelis
per le riflessioni critiche di Maurice Blanchot sul processo creativo
e sulla natura della testualità, lo spinse allo studio di Heidegger e
di Ludwig Binswanger, e infine al riconoscimento dell’importanza
di Nietzsche e Lacan per un progetto contemporaneo di poesia.
Questo aspetto della scrittura di De Angelis venne in parte notato
da Franco Fortini in una recensione a questa prima raccolta antolo-
gica: Fortini trovava De Angelis «affascinato dai vortici dell’origi-
ne, dell’assenza, della ricorrenza e del pericolo della morte di
Heidegger» (Fortini 1975, p. 1309). Secondo la mia interpretazio-
ne de “L’idea centrale”, la poesia riflette il concetto di Heidegger
di essere-per-la-morte, ma De Angelis sottopone questo concetto a
una revisione nietzschiana.
In Essere e tempo (1927) Heidegger afferma che l’esistenza
umana è perennemente «gettata» sul mondo, sempre predetermina-
ta da relazioni inquietanti con persone e cose, la sua identità
dispersa nell’«Esserci», finché non appare la possibilità della
morte (Heidegger 1962, pp. 219-224). L’anticipazione della morte,
la possibilità di essere niente, costituisce una «situazione limite» in
cui il soggetto, costretto a riconoscere l’inautenticità della sua
natura determinata, guadagna «una libertà che è stata liberata dal-
l’illusione delll’«Esserci» e che è pratica, sicura di se stessa, e
ansiosa» (ivi, p. 311). “L’idea centrale” di De Angelis utilizza il
potenziale drammatico di questo momento culminante di verità
abbozzando una scena d’ospedale. La sua poesia rappresenta l’es-
sere-per-la-morte come uno stato fisico e psicologico estremo, in
cui l’unità apparente dell’esperienza vissuta viene scissa da rappre-
sentazioni oppositive e la coscienza perde il possesso e la coerenza
di sé. Le «azioni» vengono decentrate dall’intenzionalità: «il loro
senso» non è mai unicamente appropriato al soggetto, ma è un’ap-
propriazione del soggetto da parte dell’«Esserci», raffigurato qui
come i «padroni» così «minacciosi» per l’identità perché parlano
«in sogno», avendo colonizzato persino l’inconscio. “L’idea cen-
trale” è che la soggettività non è, in definitiva, «niente», è mera
azione cui è imposto un significato, un insieme di processi biologi-
ci la cui mancanza di significato viene inavvertitamente rivelata

370
dagli «esseri dispotici» quando tentano di sopraffarla e di imporre
un significato attraverso una rappresentazione scientifica come i
raggi X. Le peculiarità formali di questo testo – i cambiamenti dal
dettaglio realistico alla riflessione astratta e all’affermazione citata,
la scarsa quantità di informazioni, la sintassi frammentata – imita-
no l’esperienza di frantumazione dell’identità dell’essere-per-la-
morte destabilizzando il processo di significazione, abbandonando
ogni linearità di significato e spiazzando la ricerca di comprensio-
ne da parte del lettore.
Ciò che appare chiaramente, comunque, è che la poesia enig-
matica e perturbante di De Angelis non suggerisce in alcun modo
che l’essere-per-la-morte sia il preludio all’esistenza autentica. De
Angelis si oppone all’idea di Heidegger di autenticità come esi-
stenza unificata e libera, come «qualcosa di proprio» che può
«“scegliere” se stessa e conquistare se stessa» (Heidegger 1962, p.
68). Nella forma e nel tema, «l’idea centrale» suggerisce piuttosto
le note corrosive di Nietzsche de La volontà di potenza in cui l’a-
gente umano è descritto come «non soggetto ma azione, un postu-
lare creativo, non “cause ed effetti”» (Nietzsche 1967, p. 331)4.
Per Nietzsche la soggettività non può mai essere autentica, perché
non può mai possedere un’identità essenziale: è sempre un luogo
di determinazioni multiple, o prodotte da una grammaticalità del
linguaggio, il bisogno di un soggetto per la frase, o costruite da
qualche sistema concettuale o istituzione sociale più elaborati,
come una psicologia, una moralità, una religione, una famiglia o
un lavoro: i «padroni». La poesia di De Angelis richiama l’atten-
zione sulle condizioni contraddittorie della soggettività, che spesso
rimangono sconosciute nel «darsi da fare premuroso» della vita di
tutti i giorni e hanno bisogno di una situazione limite per riemerge-
re alla coscienza.

4 Vedi anche Genealogia della morale: «Una quantità di forza è equiva-

lente a una quantità di spinta, volontà, effetto: di più, non è nient’altro che
questo preciso spingersi, volere, effettuare, e solo a causa della seduzione del
linguaggio (e degli errori fondamentali della ragione che sono pietrificati in
esso), che concepisce e mal concepisce tutti gli effetti come condizionati da
qualcosa che causa effetti, da un “soggetto”, può apparire diversamente»
(Nietzsche 1984). Deleuze 1983, pp. 6-8, propone un’esposizione incisiva
della «filosofia della volontà» di Nietzsche.

371
Questa interpretazione mi permise di risolvere certi problemi di
traduzione, anche se ne creava degli altri. Nel terzo verso, per
esempio, la parola «premuroso» può essere tradotta in inglese in
vari modi come «thoughtful», «attentive», o «solicitous». Scelsi di
evitare questi significati più ordinari a favore di «careful», una
parola ugualmente ordinaria che ha avuto tuttavia un significato
filosofico in inglese e che può avvicinare il testo a quelli che con-
sidero i suoi temi: i traduttori inglesi di Heidegger usano «care»
per rendere «Sorge», la parola tedesca con cui il filosofo contrad-
distingue la natura della vita di ogni giorno (Heidegger 1962, p.
237). Similmente, nel quinto verso, il verbo «si sceglieva» è una
forma impersonale che non richiede che il soggetto venga specifi-
cato. Le frasi inglesi devono avere invece dei soggetti, e così «si
sceglieva» viene spesso tradotto in inglese con «one chose», oppu-
re utilizzando la forma passiva. Dal momento che la mia lettura
stabilisce una connessione con l’idea di Nietzsche dell’azione
umana come azione senza soggetto, come volontà o come forza,
né un soggetto né il passivo sarebbero andati bene: sono ricorso
alla circonlocuzione un po’ particolare «there was choosing», e ho
evitato un soggetto esplicito, persino in forma impersonale come
«one», pur mantenendo un senso di azione energica. In entrambi
questi esempi la traduzione perdeva parte di quella consuetudine
che rende la lingua del testo straniero particolarmente toccante e
ricca di possibilità, così come l’uso di «bosses» per tradurre
«padroni» esclude le associazioni patriarcali di quest’ultimo, inde-
bolendo la risonanza psicoanalitica dell’italiano.
La mia interpretazione riflette indubbiamente alcune delle lettu-
re e dei pensieri di De Angelis, ma le soluzioni traduttive che
razionalizza non rendono la mia versione più fedele al suo signifi-
cato. No, l’interpretazione ha fissato un significato, lasciando tanto
che la traduzione andasse oltre quanto che mancasse la poesia di
De Angelis. È interessante notare che la traduzione indica una ten-
sione logica interna al tema, e precisamente la contraddizione esi-
stente fra l’autenticità heideggeriana e l’azione nietzschiana. La
mia traduzione interpretativa dischiude effettivamente questa con-
traddizione presente nella poesia, la pone in primo piano, e forse
rivela un aspetto del pensiero di De Angelis di cui egli stesso non
era consapevole o che, in ogni caso, rimaneva irrisolto ne “L’idea
centrale”. La mia traduzione interpretativa supera il testo della lin-

372
gua di partenza integrandolo con una ricerca che indica le sue ori-
gini contraddittorie, e quindi mette in dubbio il suo status di origi-
nale, di perfetta e coerente espressione del significato d’autore di
cui la traduzione è sempre la copia, in definitiva imperfetta per il
suo fallimento nel tentativo di catturare quella stessa coerenza. Il
fatto è che anche l’originale può essere visto come imperfetto, per-
corso com’è da idee contraddittorie e dal materiale filosofico che
mette in opera: la traduzione ha reso questo conflitto più chiaro.
Questo interrogativo opprimente della traduzione emerge anche
in un altro punto di resistenza, dove si presenta un’ambiguità com-
pletamente assente nella poesia di De Angelis. Il verso 10, «and in
a dream threatening bosses», ricalca l’ordine delle parole del testo
italiano nel modo più aderente possibile che le differenze linguisti-
che consentono. Ma poiché «threatening» è sintatticamente ambi-
guo, riferito sia a «dream» (come participio) che a «bosses» (come
aggettivo), il verso offre un significato supplementare che si dimo-
stra particolarmente risonante nel contesto interpretativo che ha
guidato le mie altre scelte: i «bosses» («padroni») possono anche
essere visti come «threatened» (“minacciati”) dal «dream»
(«sogno»), incubo della soggettività determinata o, più in generale,
gli agenti che dirigono le istituzioni sociali sono ugualmente deter-
minati da relazioni gerarchiche in cui essi dominano altri agenti. Il
«dream» («sogno») diviene quello della sovversione da parte dei
dominati, ed è colui che sogna che sta «threatening» (“minaccian-
do”) e «hissing» (“sibilando”) ai «bosses» («padroni»). Qui l’im-
proprietà della traduzione compie una critica destabilizzante del
testo italiano mostrando un suo atteggiamento di privilegio verso i
«padroni» e una rappresentazione implicita del potere e della
dominazione sociale come trascendenti le determinazioni dell’a-
zione umana.
Una strategia di resistenza si risolve così in una fedeltà impro-
pria che costruisce una relazione simultanea di riproduzione e com-
plementarità fra la traduzione e il testo straniero. La natura esatta di
questa relazione non può essere calcolata prima che inizi il proces-
so di traduzione perché devono essere elaborate diverse relazioni in
base agli specifici materiali culturali dei diversi testi stranieri e alle
specifiche situazioni culturali in cui quei testi sono tradotti. Tutto
questo fa della traduzione un lavoro intenso, ma anche affidato alla
fortuna: il traduttore esamina pazientemente i dizionari, sviluppan-

373
do molte alternative di traduzione, e trova inaspettatamente parole
ed espressioni che allo stesso tempo imitano e superano il testo
straniero. «Nel lavoro di traduzione», nota Lewis,

l’integrazione che si raggiunge sfugge, in modo vitale, dalla


riflessione ed emerge in un ordine sperimentale, un ordine di
scoperta, in cui la riuscita è una funzione non solo delle
immense capacità parafrastiche e paronomastiche della lingua,
ma anche di tentativi ed errori, di fortuna. La traduzione sarà
saggistica, nel vero senso della parola.
(Lewis 1985, p. 45)

La fedeltà abusiva può essere raggiunta con diverse strategie di


resistenza operate da differenti tecniche formali, ma molto spesso
le tecniche affiorano accidentalmente solo come possibilità, ven-
gono sperimentate e i loro effetti sono valutati solo dopo il fatto,
quando ha luogo la razionalizzazione.
Gli abusi presenti nella poesia “Il corridoio del treno” di De
Angelis, sempre tratta da Somiglianze, offrono un altro esempio:

“Ancora questo plagio


di somigliarsi, vuoi questo?” nel treno gelido
che attraversa le risaie e separa tutto
“vuoi questo, pensi che questo
sia amore?” È buio ormai
e il corridoio deserto si allunga
mentre i gomiti, appoggiati al finestrino
“tu sei ancora lì,
ma è il tempo di cambiare attese” e passa
una stazione, nella nebbia, le sue case opache.
“Ma quale plagio? Se io credo
a qualcosa, poi sarà vero anche per te
più vero del tuo mondo, lo confuto sempre”
un fremere
sotto il paltò, il corpo segue una forza
che vince, appoggia a sé la parola
“qualcosa, ascolta,
qualcosa può cominciare.”
(De Angelis 1976, p. 36)

374
“Again this plagiary
of resemblance – do you want this?” in the cold train
that crosses the rice fields and separates everything
“you want this – you think this is love?” It is dark now
and the deserted corridor lengthens
while the elbows, leaning on the compartment window
“you’re still there,
but it’s time to change expectations” and a station
passes, in the fog, its opaque houses.
“But what plagiary? If I believe
in something, then it will be true for you too,
truer than your world, I confute it always”
a trembling
beneath the overcoat, the body follows a force
that conquers, leans the word against itself
“something, listen,
something can begin.”

La frammentazione della soggettività del testo italiano è il suo


punto di resistenza più forte e più sorprendente. La voce (o le voci?)
è apparentemente impegnata in una strana lite amorosa, allo stesso
tempo amara e molto astratta, in cui il desiderio è strutturato da
modi contraddittori di rappresentazione, pur riuscendo, in definitiva,
ad abbatterli. Benché mai definita come identità distinta, con un’età
e un genere sessuale definiti, la voce litigiosa fissa in apertura
un’opposizione tra due idee di “amore”: la prima, giudicata falsa e
non autentica (“plagio”), è regolata da «somigliarsi», da un’identità
o somiglianza tra gli amanti; la seconda, implicitamente favorita
dalla voce, è un’alternativa regolata dalla differenza, o dalla devia-
zione, l’invenzione di nuove «attese». Tuttavia il testo italiano insi-
dia già la seconda alternativa con le «attese», che può anche signifi-
care “ritardi”, un’ambiguità che sottomette la speranza delle «atte-
se» a uno scetticismo pregiudiziale. La citazione che comincia con
«tu sei ancora lì» può infatti facilmente significare l’introduzione di
una voce differente, suggerendo che forse colui che lancia l’accusa
di «plagio» sta cambiando le sue attese, che forse l’accusatore sta
per abbandonare ogni ricerca di esistenza autentica, ogni sforzo di
evitare la disonestà dell’imitazione, dal momento che il desiderio ha
sempre determinazioni contraddittorie, frustrazioni, “ritardi”.

375
L’interrogare insistente rimanda all’idea nietzschiana dell’amore
come un’altra forma della volontà di potenza, in cui i due amanti
sono intrappolati in una lotta per il dominio e ognuno può confutare
(«confuto») la rappresentazione che l’altro ha della loro relazione,
imponendo un «mondo» che «sarà vero» per entrambi. A questo
punto, le voci perdono quella vaga definizione che potevano aver
acquisito all’aprirsi del testo, e le due posizioni contraddittorie di
comprensione vengono definitivamente abbandonate dall’ultima
voce – che implicitamente chiama il silenzio – piena di aspettativa
per un’altra, ancora non pronunciata, «parola» che costruirà una
nuova posizione di soggetto per «il corpo», una nuova rappresenta-
zione della «forza» biologica che minaccia la base linguistica di
ogni relazione. L’indeterminatezza dell’espressione «appoggia a sé
la parola» indica l’interazione contraddittoria tra linguaggio e desi-
derio. Se leggiamo «sé» come «forza» (o «corpo»? un’altra indeter-
minatezza, probabilmente qui meno consequenziale a causa della
connessione tra «forza» e «corpo»), la «parola» riceve supporto da,
oppure «appoggia a sé», la «forza», come il significato di un segno
linguistico dipende dal legame tra significante e significato. Così, il
desiderio è visto come il conduttore dell’uso della lingua, ma anche
come dipendente da tale uso per la sua articolazione. Se tuttavia
leggiamo «sé» come «la parola», nel senso generale del linguaggio,
la «forza» «appoggia [...] la parola» anche a un’altra parola, diffon-
dendo una catena di significanti che differiscono i significati, inse-
rendolo in una divisione interna. È possibile intravedere qui l’idea
fondamentale di Lacan secondo la quale il desiderio è simultanea-
mente comunicato e represso dal linguaggio (Lacan 1977).
La resistenza della traduzione riproduce la discontinuità forma-
le della poesia di De Angelis aderendo alle sue rotture del verso e
alle peculiarità sintattiche. Una strategia scorrevole potrebbe facil-
mente risolvere la sintassi, per esempio, correggendo e completan-
do i frammenti di frase: nel verso 7 sostituendo il verbo «lean» con
il participio «leaning»; nel verso 10 inserendo un’espressione ver-
bale come «go by» dopo il frammentario «opaque houses». La tra-
duzione riproduce in ogni caso la sfida di De Angelis al discorso
trasparente utilizzando costruzioni spezzate che hanno l’effetto di
spiazzare il processo di lettura, aggravando così il già difficile pro-
blema posto dalle mutevoli posizioni di comprensione e dalla
dislocazione della voce.

376
Nelle citazioni la traduzione è perfino più impropria del testo
straniero stesso. Per imitare il dramma della situazione ho cercato
di rendere l’apertura fortemente colloquiale, inserendo bruschi
slanci e frazionando le domande del quarto verso mediante l’omis-
sione dell’ausiliare «do». Ma poiché la mia lettura interpreta que-
sto testo come una meditazione poststrutturalista sulla relazione tra
linguaggio e desiderio, ho tentato di accrescere l’astrazione filoso-
fica dell’inglese: «resemblance» ha rimpiazzato l’espressione più
ordinaria e più concreta «resembling each other», effettivamente
più vicina all’italiano «somigliarsi». La mescolanza di discorsi
filosofici e colloquiali nella traduzione riproduce, ma anche esage-
ra, i materiali similmente discordanti del testo italiano, la combina-
zione di stile concreto e astratto.
La strategia di resistenza è evidente anche nella tendenza della
traduzione all’arcaismo, in particolare nell’uso dei più datati «pla-
giary» e «confute» al posto dei più contemporanei «plagiarism» e
«refute». Queste parole arcaiche rendono le citazioni più insolite e
distanti dal lettore anglofono, centrando l’attenzione su di loro come
parole e abusando in questo modo del canone della trasparenza. La
parola «plagiary» è particolarmente utile per produrre questo effetto:
introduce un grado di polisemia che dischiude un registro metacriti-
co vis-à-vis con il testo straniero. L’italiano «plagio» indica l’azione
o il caso di furto letterario, la pratica o il testo, e sarebbe general-
mente tradotto in inglese con “plagiarism”; in italiano colui che
compie l’azione, «plagiarist», è il «plagiario». La mia scelta di «pla-
giary» condensa queste parole e questi significati: può significare sia
«plagiarism» che «plagiarist», l’azione o l’agente, il testo o il sog-
getto. Unito nella traduzione a «resemblance», «plagiary» diviene
un gioco di parole che stigmatizza in sé ogni relazione basata sull’i-
dentità come un crimine contro l’autonomia personale e l’individua-
lità, una falsità heideggeriana, un furto di persona, rievocando la sua
radice latina plagiarius, rapitore. Ma poiché «resemblance» defini-
sce anche un modo di rappresentazione esemplificato dal discorso
trasparente, il gioco di parole su «plagiary» mette in questione l’illu-
sionismo soggettivo della trasparenza, la sua finzione di presenza
personale, la sua finta-persona. I versi inglesi «plagiary/of resem-
blance» valorizzano e allo stesso tempo demistificano il concetto di
autenticità, situando dentro la voce stridente dell’inizio una voce
diversa, estranea. La tensione verso l’arcaismo presente nella tradu-

377
zione inserisce in definitiva la poesia di De Angelis nel flusso tem-
porale, suggerendo che le forme culturali regolate dalla «somiglian-
za» sono situate nel passato, statiche, riluttanti ad ammettere la dif-
ferenza e il cambiamento, ma anche che in De Angelis l’idea di sog-
getto come processo determinato si allontana dalle evocazioni indi-
vidualistiche della poesia più antica, romantica e moderna.
L’arcaismo nella versione inglese va al di là del testo straniero
aggiungendo un metacommento sulla sua forma e sul suo tema.

III
La resistenza è quindi una strategia di traduzione con la quale
le poesie di De Angelis divengono estranee al poeta italiano, così
come al lettore angloamericano e al traduttore. È certo che De
Angelis non riconoscerà la sua voce nelle traduzioni, non solo per-
ché le sue idee e i suoi testi sembrerebbero indurre un tipo di lettu-
ra impensabile per lui, ma anche perché è incapace di discutere la
lingua d’arrivo. Sebbene lavori con diverse lingue, quali il greco, il
latino, il francese, il tedesco, e con diversi dialetti italiani, egli
considera l’inglese difficile da conoscere a fondo e riesce a leggere
le mie traduzioni soltanto con l’aiuto di mediatori, solitamente ita-
liani che hanno studiato l’inglese. Quando attua questa lettura d’é-
quipe a volte scopre, inoltre, quello che ho affermato, che il mio
inglese perde delle caratteristiche del testo italiano e ne aggiunge
altre che egli non ha mai previsto.
La strategia di resistenza delle mie traduzioni conferisce loro
un’alterità diversa, e forse più intensa, nella cultura della lingua
d’arrivo. Esse hanno goduto di un successo alterno presso i lettori
anglofoni fin dalla fine degli anni ’70. Molte sono apparse in rivi-
ste letterarie, interessando editori dalle concezioni estetiche gene-
ralmente divergenti, sia tradizionali che sperimentali, sebbene que-
ste stesse traduzioni siano anche state rifiutate da altrettante
riviste5. Il manoscritto completo, una raccolta delle poesie di De

5 Le riviste che hanno pubblicato le mie traduzioni delle poesie di De


Angelis comprendono American Poetry Review, Paris Review, Poetry e
Sulfur. Sono state invece rifiutate, fra le altre, da Antaeus, Conjunction,
Field, New American Writing, The New Yorker e Pequod.

378
Angelis e della sua prosa critica, è stato rifiutato da molti editori
americani e inglesi, comprese due case editrici universitarie con
note collane di traduzioni: Wesleyan e P (per “prestigiosa”: l’edito-
re di questa casa non mi permetterebbe di identificarla). Le rela-
zioni dei lettori anonimi di queste case editrici, scritte nel 1987,
dimostrano piuttosto chiaramente che la mia strategia di resistenza
era considerata strana perché faceva un uso improprio del discorso
trasparente che dominava la traduzione poetica angloamericana.
Un lettore della Wesleyan riconosceva la «difficoltà» dei testi
italiani di De Angelis, ma pensava che

la traduzione di Venuti rende i contenuti più difficili con l’esse-


re fedele a questa difficoltà; egli ha scelto di non scegliere tra i
molti ambigui livelli di significato del verso denso [di De
Angelis]. Per esempio, un calcio d’angolo rimane un «corner
kick», né più e né meno e, come vediamo chiaramente dalla sua
posizione nel verso poetico, non si è scesi a nessun compro-
messo a beneficio del suono in inglese6.

Il tipo di fedeltà che il lettore della Wesleyan preferiva era evi-


dentemente quella al canone della trasparenza che, in questo caso,
include significato univoco e prosodia armoniosa. Ma le mie tra-
duzioni mirano a essere fedeli alle differenze linguistiche e cultu-
rali dei testi italiani, alla loro caratteristica discontinuità, ai neolo-
gismi, agli slittamenti sintattici, al ritmo staccato. L’esempio del
lettore era tratto dalla poesia di De Angelis “Antela”, il cui speri-
mentalismo inizia già dal titolo: un neologismo che unisce «ante-
nati» (“forebears”) e «ragnatela» (“spider web”). La mia versione
si intitola “Foreweb”. L’asprezza di questa poesia, la successione
vertiginosa di immagini criptiche richiederebbe una considerevole
riscrittura per produrre un inglese scorrevole. Sarebbe stato più
facile, come ha evidentemente deciso Wesleyan, rifiutare l’intero
manoscritto.

C’è un crimine
non so se commesso o visto

6 Lettera di Peter Potter, collaboratore editoriale, Wesleyan University


Press, 24 Novembre 1987.

379
in un tempo senza stile, come un’aria
di blu e di buio, che mosse
la destra. O qualcuno
che, morso dalla carie, urla.
Allora anche la mosca di pezza dà
voli indiscussi e anche
un ginocchio ferito nel calcio d’angolo
ricuce il maschio con la femmina.
(De Angelis 1985, p. 46)

There is a crime
I don’t know whether committed or witnessed
in a styleless time, like a breeze
blue and dark, which moved
the right hand. Or someone
who, bitten by caries, screams.
Then even the rag-fly makes
unquestioned flights and even
a knee hurt in the corner kick
stitches male back to female.

L’anonimo lettore della P, in maniera analoga, si aspettava


un’assimilazione dello sperimentalismo di De Angelis al discorso
trasparente. I commenti del lettore su traduzioni specifiche rivela-
no l’insistenza su una comprensibilità immediata, criticando arcai-
smo e polisemia a favore di un uso corrente dell’inglese. Il mio
uso della parola «plagiary» in “The Train Corridor” (“Il corridoio
del treno”), per esempio, venne definito «veramente obsoleto e
oscuro». Questo lettore, come quello di Wesleyan, raccomandava
di rivedere il testo italiano, anche quando conteneva un espediente
retorico riconoscibile: «la discontinuità (anacoluto) tra il secondo e
il terzo verso sembra eccessiva, benché giustificata dall’originale;
sembra necessaria un po’ di colla».
Le mie traduzioni attribuiscono significato all’alterità della
poesia di De Angelis resistendo ai dominanti valori letterari
angloamericani che avrebbero addomesticato i testi italiani, li
avrebbero resi familiarmente rassicuranti, facili da leggere. E que-
sta è l’accoglienza che la traduzione continua ad avere. Una rac-
colta venne inclusa in un’antologia del 1991, New Italian Poets,

380
un progetto sviluppato inizialmente dalla Poetry Society of
America e dal Centro Internazionale Poesia della Metamorfosi in
Italia, e in seguito curato da Dana Gioia e Michael Palma (Gioia e
Palma 1991). L’antologia ricevette poche recensioni, generalmente
favorevoli, su periodici americani, britannici e italiani. Nella
Poetry Review, comunque, riflettendo sulle differenze culturali tra
la poesia britannica e quella italiana, il critico sceglieva (le mie tra-
duzioni di) De Angelis come esempio di queste differenze estra-
nianti al massimo grado:

Una caratteristica che distingue chiaramente molti di questi poeti


dai loro contemporanei britannici è un immaginario associativo
molto libero, che non si sente obbligato a spiegare se stesso – le
improvvise transizioni, le lacunae – o a collocarsi in un tempo e
uno spazio familiari. Questo aspetto fastidioso si ritrova al massi-
mo grado in Milo De Angelis, a cui Palma, nell’introdurlo, pro-
pone al lettore di avvicinarsi «con apertura e sensibilità». Una
volta fatto ciò, il lettore sarà «mosso dal sentimento e dall’intui-
zione che, benché ineffabili, sono genuini e profondi». Io ho fatto
del mio meglio, ma sono rimasto immobile.
(McKendrick 1991, p. 59)

I lettori anglofoni tenderanno a rimanere sia «immobili» che


«infastiditi» di fronte alla poesia di De Angelis, non solo perché
l’estrema discontinuità dei testi impedisce l’evocazione di una
voce parlante coerente, ma anche perché egli attinge da concetti
filosofici che rimangono estranei, se non avversi alla cultura
angloamericana. In un saggio polemico pubblicato nel 1967,
Kenneth Rexroth si chiedeva: «Perché la poesia americana è cultu-
ralmente spoglia?»; perché egli «non aveva mai conosciuto un
poeta americano che avesse familiarità con gli sforzi filosofici di
Jean Paul Sartre, e ancor meno con il discorso intricato di Scheler
o Heidegger» (Rexroth 1985, p. 59). La considerazione di Rexroth,
secondo cui, con poche eccezioni, il pensiero filosofico è estraneo
alla poesia americana del XX secolo, è applicabile anche alla poe-
sia britannica e rimane vero anche più di vent’anni dopo. Tra le
eccezioni degne di nota c’è oggi il gruppo particolare di scrittori
cosiddetti «L=A=N=G=U=A=G=E», come Charles Bernstein, che
ha corroso la generica distinzione tra poesia e saggio attingendo a

381
varie tradizioni e pensatori europei, inclusi Dada e Surrealismo,
Brecht e la scuola di Francoforte, il poststrutturalismo e la filosofia
post-analitica (1986 e 1982)7. L’estetica di Bernstein – disconti-
nua, opaca, anti-individualistica –, che ha attribuito alle sue opere
un posto marginale nell’editoria americana, confinate alla relativa
oscurità delle case editrici minori e delle piccole riviste, dimostra
che la cultura americana contemporanea non è propensa a offrire
una calda accoglienza a un poeta come De Angelis, che scrive con
la conoscenza delle maggiori correnti della filosofia europea
(Biggs 1990). È stato solo dopo averlo adattato che il mio mano-
scritto della sua traduzione, nel 1989, è stato accettato per la pub-
blicazione dal Sun & Moon di Los Angeles, una piccola casa edi-
trice che ha in catalogo molti sperimentalisti come Bernstein (i
suoi problemi finanziari impedirono la pubblicazione della mia
traduzione fino al 1994). De Angelis gode di fatto di una posizione
assai più centrale nella cultura italiana: la sua opera è pubblicata
sia da piccole che da grandi case editrici ed è recensita da noti cri-
tici su una vasta serie di giornali e riviste, sia locali che nazionali,
per un pubblico sia d’élite che di massa8. Forse il segno più evi-
dente del suo status canonico in Italia è che il suo primo libro,
Somiglianze, è stato ripubblicato in una nuova edizione nel 1990.
Se le mie traduzioni della poesia speculativa di De Angelis non
sono immediatamente riconoscibili per il lettore anglofono, è
anche vero che io stesso non riconosco la mia voce in queste tra-
duzioni. Al contrario, il mio incontro con i testi di De Angelis è
stato profondamente estraniante per ragioni specifiche relative alla
mia situazione di traduttore nella cultura angloamericana contem-
poranea: rendendo simpatico un obiettivo impossibile, la disconti-
nuità formale dell’italiano mi ha costretto a mettere in dubbio la

7 Per una selezione degli scritti di questo gruppo di scrittori si veda

Messerli 1987. Per le discussioni delle differenze teoriche tra il gruppo


L=A=N=G=U=A=G=E e il Romanticismo che domina la poesia americana
contemporanea, si vedano Perloff 1985 e Bartlett 1986.
8 La poesia di De Angelis è stata recensita su piccole riviste come

Produzione e cultura, nella rivista letteraria di ampia tiratura Alfabeta (che


ora ha cessato le pubblicazioni), e su riviste a grande tiratura come
L’Espresso e Panorama. Tra i giornali che hanno pubblicato recensioni dei
suoi libri vi sono La Gazzetta di Parma, La Stampa e il Corriere della Sera.

382
scorrevolezza, la strategia di traduzione dominante nella lingua
inglese, e ad esplicitare il suo legame con l’individualismo delle
teorie romantiche e moderne del discorso trasparente, distaccando-
mi così dalla posizione costruita per il traduttore anglofono dalle
sue molteplici relazioni con curatori, editori, recensori e, come
suggerisce il consiglio del mio amico, con altri traduttori. Questo
estraniamento può aver luogo perché la disposizione con cui una
pratica discorsiva qualifica gli agenti della produzione culturale
non opera in maniera totalmente coerente: una pratica specifica
non può mai fissare in modo irrevocabile un’identità, poiché l’i-
dentità è relazionale, il punto centrale di una molteplicità di prati-
che la cui incompatibilità o assoluto antagonismo crea la possibi-
lità di cambiamento (Laclau e Mouffe 1985, pp. 105-114). Una
pratica discorsiva come la traduzione sembra particolarmente vul-
nerabile ai cambiamenti di disposizione, agli spostamenti d’iden-
tità: la sua funzione è di lavorare sulle differenze linguistiche e
culturali che possono facilmente dare origine a interrogativi sulle
condizioni del lavoro del traduttore. Sebbene l’egemonia del
discorso trasparente nella cultura angloamericana contemporanea
abbia fatto della scorrevolezza la strategia dominante nella tradu-
zione in lingua inglese, la poesia di De Angelis può tuttavia ancora
impegnare il traduttore in una contraddizione culturale: sono stato
portato ad attivare una strategia di resistenza in opposizione a
quelle leggi discorsive in base alle quali il mio lavoro verrà, con
ogni probabilità, giudicato; eppure quella strategia, lontana dal
dimostrarsi più fedele ai testi italiani, in realtà ne ha fatto un uso
improprio, sfruttando il loro potenziale per significati diversi e
incompatibili.
La sfida che la traduzione della poesia di De Angelis pone alle
teorie romantiche e moderne del discorso è abbastanza simile a
quella posta dall’opera di Paul Celan. Nel discorso di Celan intito-
lato Il Meridiano (1960), l’oscura discontinuità della poesia euro-
pea del secondo dopoguerra composta da lui e da altri poeti – ciò
che chiama «le difficoltà, pur non sottovalutabili, delle opzioni les-
sicali, con l’accelerato declino della sintassi, o con la vivace pro-
pensione all’ellissi» (Celan 1993, p. 15) – è associata a un ripensa-
mento della poesia lirica nelle sue parvenze romantiche e moderne.
Celan mette in questione il progetto lirico come espressione perso-
nale e come evocazione di una voce individuale: la poesia «parla

383
sempre e soltanto, rigorosamente in prima persona», afferma, ma
al tempo stesso ritiene che «da sempre tra le speranze del poema vi
sia quella di parlare in tal modo anche per conto di estranei [...] di
parlare per conto di un Altro – chissà, magari di tutt’Altro» (ivi, p.
14). La poesia, quindi, non esprime un sé letterario ma piuttosto
libera quel sé dai suoi confini familiari, divenendo «il luogo dove
la persona è in grado di affrancarsi come un io... straniato», e
dove, «qui con l’io – con questo io affrancatosi qui e in tale modo
– forse qui si libera ancora qualcos’altro» (ivi, pp. 12-13), libera
dal potere appropriante dell’“io” parlante, di un linguaggio perso-
nale. La poesia non trascende ma riconosce la contraddizione tra
espressione di sé e comunicazione con l’altro, obbligando a una
consapevolezza dei limiti e delle possibilità del suo linguaggio.
È questa sorta di liberazione che la resistenza tenta di produrre
nel testo tradotto ricorrendo a tecniche che la rendono estranea ed
estraniante nella cultura della lingua d’arrivo. La resistenza cerca
di liberare il lettore della traduzione, così come il traduttore, dalle
costrizioni culturali che generalmente regolano la loro lettura e
scrittura e che minacciano di sopraffare e addomesticare il testo
straniero annullando la sua alterità. La resistenza fa della traduzio-
ne in lingua inglese una politica culturale dissidente di oggi, men-
tre le strategie scorrevoli e il discorso trasparente mettono in atto
quotidianamente quella mistificazione dei testi stranieri. Nel caso
specifico dell’inglesizzazione della poesia di De Angelis, l’inter-
vento politico assume le sembianze dell’utilizzo minore di una lin-
gua maggiore. «Anche se maggiore», osservano Deleuze e
Guattari, «una lingua può prestarsi a un uso intensivo che la faccia
filare secondo linee di fuga creatrici, un uso che, per lento e cauto
che sia, formi una deterritorializzazione, assoluta, questa volta»
(Deleuze e Guattari 1975, pp. 43-44)9. Senza dubbio le mie tradu-
zioni della poesia di De Angelis non possono mai liberarsi comple-

9 Derrida nota, in modo simile, che «ci sono forse, in un sistema linguisti-
co, molti linguaggi o lingue. [...] C’è impurità in ogni linguaggio» e conclude
che «la traduzione può fare tutto tranne rivelare questa differenza linguistica
presente all’interno del linguaggio, questa differenza dei sistemi del linguag-
gio presenti in una singola lingua» (1985, p. 100). Quel che sto affermando è
che è precisamente questa differenza che la strategia della resistenza è desti-
nata a rivelare: le differenze tra le lingue, ma anche al loro interno.

384
tamente dall’inglese e dalle costrizioni linguistiche e culturali che
esso impone alla poesia e alla traduzione; quella linea di fuga si
approprierebbe di ogni traduzione e non sarebbe altro che una
capitolazione alla lingua maggiore, una sconfitta politica. Il punto
è piuttosto che le mie traduzioni oppongono resistenza all’egemo-
nia del discorso trasparente nella cultura di lingua inglese, e lo
fanno dall’interno, deterritorializzando la lingua d’arrivo, metten-
done in dubbio lo status culturale predominante tramite il suo uti-
lizzo come veicolo di idee e tecniche discorsive che al suo interno
rimangono minori, che essa stessa esclude. I modelli di questa
strategia di traduzione comprendono l’ebreo ceco Kafka che scrive
in tedesco, in particolare relativamente alla lettura dei suoi testi
fatta da Deleuze e Guattari, ma anche l’ebreo rumeno Celan, che
assume il tedesco come linea di fuga utilizzandolo per parlare del
razzismo nazista e della cultura ebraica, e sfruttando all’estremo la
sua capacità di composizione delle parole e di frammentazione sin-
tattica10. Se la strategia di resistenza effettivamente produce una
traduzione estraniante, allora anche il testo straniero godrà di una
momentanea liberazione dalla cultura della lingua d’arrivo, forse
prima di venire riterritorializzata dall’articolazione della voce di
un lettore – riconoscibile, trasparente – o di qualche lettura sogget-
ta all’estetica predominante in inglese. Il momento della liberazio-
ne avverrebbe quando il lettore della traduzione resistente fa espe-
rienza, nella lingua d’arrivo, delle differenze culturali che separano
quella lingua e il testo straniero.
La traduzione è un processo che implica la ricerca delle affinità
tra lingue e culture – in particolare i messaggi simili e le tecniche
formali – ma lo fa soltanto perché confronta costantemente le dif-
ferenze. Non può e non dovrebbe mai mirare a rimuovere comple-
tamente queste differenze. Un testo tradotto dovrebbe essere il
luogo in cui emerga una cultura diversa, in cui il lettore abbia una
visione dell’altro culturale, e la resistenza, una strategia di tradu-
zione basata su un’estetica di discontinuità, possa conservare nel
modo migliore quella differenza, quella alterità, ricordando al let-
tore i profitti e le perdite che si hanno nel processo di traduzione e
gli incolmabili divari esistenti tra le culture. Al contrario, l’idea di
rapporto simpatico, offrendo un premio alla trasparenza e richie-
10 Si veda, per esempio, Felstiner 1983 e 1984.

385
dendo una strategia scorrevole, può essere considerato un narcisi-
smo culturale: cerca un’identità, un riconoscimento di sé, e trova
soltanto la propria cultura in un’opera straniera, soltanto lo stesso
sé nell’altro culturale. Questo accade perché il traduttore diviene
consapevole di questa intima armonia con lo scrittore straniero sol-
tanto quando riconosce la sua propria voce nel testo straniero.
Sfortunatamente, le irriducibili differenze culturali fanno intendere
che questo riconoscimento di sé è sempre falso, malgrado la scor-
revolezza assicuri che questa caratteristica venga persa nel tradur-
re. Ora più che mai, mentre la trasparenza continua a dominare la
cultura angloamericana assicurando che il rapporto simpatico
rimarrà una meta obbligata per i traduttori di lingua inglese, sem-
bra importante riconsiderare cos’è che si fa quando si traduce.

386
Capitolo settimo
RICHIAMO ALL’AZIONE

Il traduttore è il maestro segreto della differenza delle lingue, non per abolir-
la, ma per utilizzarla, al fine di risvegliare nella propria, con i cambiamenti
violenti o lievi che le apporta, una presenza di ciò che, in origine, è differente
nell’originale.
Maurice Blanchot

Nel breve e provocatorio saggio Tradurre (1971), Blanchot


inverte la gerarchia convenzionale nella quale «l’originale» è supe-
riore alla traduzione. Egli non considera il testo straniero come
l’immutabile monumento culturale in relazione al quale la tradu-
zione deve essere per sempre una copia inadeguata ed effimera,
ma come un testo in trasformazione, «mai immobile», partecipe
della «solenne deriva [dérive] delle opere letterarie», sede di una
differenza intrinseca che la traduzione realizza compiutamente,
liberandola o reprimendola (Blanchot 1971, p. 71). Ciò presuppo-
ne che il testo straniero sia derivativo, dipendente da altri materiali
preesistenti (un elemento introdotto dalla decisione di Sieburth1 di
rendere «dérive» con due parole, «drift and derivation»), ma anche
dipendente dalla traduzione:

Un’opera non è pronta o valida per la traduzione a meno che


non accolga, in qualche modo, questa differenza al suo interno,
o perché essa originariamente rimanda a qualche altra lingua, o
1 Sieburth è il traduttore inglese del saggio qui citato di Blanchot. Venuti
fa infatti riferimento alla traduzione inglese (1990) di Traduire (1971) di
Blanchot [N.d.T.].

387
perché riunisce dentro di sé in qualche modo privilegiato quelle
possibilità di essere diversa e straniera a se stessa che ogni lin-
gua viva possiede.
(ibidem)

Trattando la dérive delle opere letterarie, il traduttore è un


agente di alienazione linguistica e culturale: colui che stabilisce la
monumentalità del testo straniero, se è degno di traduzione, ma
soltanto dimostrando che non è un monumento, che ha bisogno
della traduzione per individuare e mettere in primo piano l’alterità
che determina la sua dignità. Persino «i capolavori classici – scrive
Blanchot – vivono soltanto in traduzione» (ibidem). E nel processo
di (de)monumentalizzazione del testo straniero il traduttore provo-
ca ugualmente «violenti o sottili cambiamenti» nella lingua della
traduzione. Blanchot cita «Lutero, Voss, Hölderin, George, nessu-
no dei quali temeva, nel suo lavoro di traduttore, di sfondare i con-
fini della lingua tedesca al fine di ampliarne le frontiere» (ivi, p.
73).
Il potere delle suggestive osservazioni di Blanchot può essere
liberato se le ritraduciamo ancora (dopo la traduzione di Sieburth e
dopo la versione presentata nel precedente intervento), situandole
più localmente, prendendo in considerazione le determinazioni
materiali delle pratiche culturali. La differenza che rende prezioso
un testo nella lingua di partenza per Blanchot non è mai «utilizza-
bile» in forme non mediate. È sempre un’interpretazione del tra-
duttore, non necessariamente aperta a ogni lettore, che acquisisce
visibilità e viene privilegiata soltanto da un particolare punto di
vista ideologico nella cultura della lingua d’arrivo. Ogni passo del
processo di traduzione – dalla selezione dei testi stranieri alla rea-
lizzazione di strategie di traduzione, alla curatela, alla revisione, e
alla lettura delle traduzioni – è mediato dai diversi valori culturali
che circolano nella lingua d’arrivo, sempre in ordine gerarchico. Il
traduttore, che opera a diversi livelli di calcolo, sotto un continuo
controllo di sé, e spesso con la consultazione attiva di regole e
risorse culturali (da dizionari e grammatiche ad altri testi, strategie
di traduzione e traduzioni, sia canoniche che marginali), può sotto-
mettersi od opporre resistenza ai valori dominanti della lingua
d’arrivo e, in entrambe le direzioni dell’azione, essere suscettibile
di cambiamenti di condotta. La sottomissione presuppone un’ideo-

388
logia di assimilazione all’opera nel processo di traduzione, indivi-
duando l’identico in un altro culturale, perseguendo un narcisismo
culturale che è imperialista all’estero e conservatore, persino rea-
zionario, nel mantenimento del canone in patria. La resistenza pre-
suppone un’ideologia di autonomia, individuando l’estraneo in un
altro culturale, perseguendo la differenza culturale, mettendo in
primo piano le differenze culturali e linguistiche del testo della lin-
gua di partenza e trasformando la gerarchia dei valori culturali
nella lingua d’arrivo. Anche la resistenza può essere imperialista
all’estero, appropriandosi dei testi stranieri per servire i propri
interessi culturali e politici in patria; ma dato che essa si oppone ai
valori che escludono certi testi, compie un atto di ricostruzione
culturale che mira a mettere in dubbio ed eventualmente a ri-for-
mare i canoni nazionali, o semplicemente ad annientarne l’idea
stessa.
Blanchot teorizza un approccio alla traduzione basato sulla
resistenza e, come appare chiaramente dai suoi esempi e dall’occa-
sione in cui scrive il suo saggio (è un commento a Il compito del
traduttore di Walter Benjamin), il suo approccio è specifico della
traduzione culturale tedesca. La teoria e la pratica della traduzione
in lingua inglese, al contrario, sono state dominate dalla sottomis-
sione, dalla traduzione addomesticante e scorrevole almeno fin dai
tempi di Dryden. Ci sono stati in realtà diversi approcci alternativi,
inclusa l’opposizione storicista del Dott. John Nott all’espurgazio-
ne, l’arcaismo populista di Francis Newman, e gli esperimenti plu-
rilingue di Ezra Pound, di Celia e Louis Zukofsky e di Paul
Blackburn. A giudicare dalla loro ricezione, queste alternative
cadono comunque vittime delle loro stesse tendenze estranianti: la
loro estraneità provocò un’aspra critica da parte dei recensori,
tanto che non vennero lette o persino – nel caso di Blackburn –
non vennero neppure pubblicate, relegate ai margini della cultura
inglese e americana, disdegnate da traduttori successivi, dai teorici
della traduzione e dagli studiosi di letteratura. La maggior parte
dei traduttori di lingua inglese ha lasciato che la loro scelta dei
testi stranieri e lo sviluppo delle strategie di traduzione si confor-
masse ai valori culturali dominanti in inglese e che, tra questi valo-
ri, si imponesse il discorso trasparente, anche se in forme diverse.
Tuttavia le teorie e le pratiche di traduzione alternative sono
degne di essere recuperate perché offrono ai traduttori contempo-

389
ranei modi esemplari di resistenza culturale per lavorare in uno
scenario nuovo e decisamente sfavorevole, per quanto qualificati
essi siano. La traduzione addomesticante che domina attualmente
la cultura letteraria angloamericana, tanto elitaria che popolare,
può essere sfidata solo sviluppando una pratica che non sia soltan-
to più consapevole di sé, ma anche più autocritica. La conoscenza
della cultura della lingua di partenza, per quanto profonda, è insuf-
ficiente a produrre una traduzione che allo stesso tempo sia leggi-
bile e opponga resistenza a un addomesticamento riduttivo; i tra-
duttori devono anche possedere una conoscenza approfondita dei
diversi discorsi culturali nella lingua d’arrivo, passati e presenti. E
devono essere capaci di scriverli. La selezione di un testo straniero
per la traduzione e l’invenzione di una strategia discorsiva per tra-
durlo dovrebbe essere basata su una valutazione critica della cultu-
ra della lingua d’arrivo, delle sue gerarchie ed esclusioni, delle sue
relazioni con l’altro culturale di tutto il mondo. Prima di scegliere
un testo straniero i traduttori devono indagare la situazione corren-
te: il canone delle letterature straniere in inglese, così come il
canone della letteratura britannica e americana, orientati contro
schemi di scambio interculturale e relazioni geopolitiche (per un
esempio incisivo di questo tipo di diagnosi culturale, si veda Said
1990).
La violenza etnocentrica della traduzione è inevitabile: nel pro-
cesso di traduzione, le lingue, i testi e le culture straniere saranno
sempre sottoposte a qualche grado e forma di riduzione, esclusio-
ne, iscrizione. Tuttavia il lavoro nazionale sulle culture straniere
può essere un intervento estraniante, lanciato per mettere in que-
stione i canoni esistenti in patria. Un traduttore può non solo sce-
gliere un testo straniero che sia marginale nella cultura della lingua
d’arrivo, ma tradurlo con un discorso canonico (ad esempio, la tra-
sparenza). Oppure può scegliere un testo straniero che sia canonico
nella cultura della lingua d’arrivo, ma tradurlo con un discorso
marginale (ad esempio, l’arcaismo). In questa pratica estraniante di
traduzione il valore di un testo straniero o di una strategia discorsi-
va è contingente alla situazione culturale in cui la traduzione viene
fatta. Per il traduttore, questo valore è sempre espresso in termini
letterari, come una pratica di scrittura.
La traduzione estraniante è densa di rischi, specialmente per il
traduttore di lingua inglese. I canoni di esattezza sono piuttosto

390
severi nella cultura angloamericana contemporanea, imposti dai
curatori editoriali e da contratti legalmente coercitivi. Il linguaggio
contrattuale standard richiede che il traduttore aderisca strettamen-
te al testo straniero:

La traduzione dovrà essere una resa fedele dell’opera in ingle-


se; non dovrà né omettere nulla né aggiungere alcuna cosa al
testo originale tranne quei cambiamenti verbali che sono neces-
sari per tradurre in inglese.
(A Handbook for Literary Translator 1991, p. 16)

A causa del rischio legale, la considerevole libertà di Robert


Graves o le correzioni di Pound non sono facilmente adottabili dai
traduttori di oggi, almeno non con testi stranieri il cui diritto d’au-
tore non sia ancora disponibile al pubblico utilizzo. Poiché la «resa
fedele» è definita in parte dall’illusione della trasparenza, dall’ef-
fetto discorsivo dell’originalità, il plurilinguismo degli Zukofsky e
di Blackburn è ugualmente limitato nella sua efficacia, suscettibile
di trovare l’opposizione degli editori e di ampie fasce di lettori
anglofoni che cercano nella lettura una comprensione immediata. I
traduttori contemporanei di testi letterari possono tuttavia introdur-
re delle variazioni discorsive, sperimentare arcaismi, gerghi, allu-
sioni e convenzione letterarie per richiamare l’attenzione sullo sta-
tus secondario della traduzione e segnalare le differenze linguisti-
che e culturali del testo straniero. I traduttori contemporanei hanno
bisogno di sviluppare una pratica letteraria più sofisticata, in cui il
“letterario” racchiuda le diverse tradizioni della letteratura britan-
nica e americana e i diversi idiomi inglesi. I traduttori impegnati a
trasformare la loro marginalità culturale possono agire solo all’in-
terno dei codici specifici della cultura della lingua d’arrivo. Ciò
significa limitare gli esperimenti discorsivi a deviazioni percettibili
che possono essere rischiose ma che arrestano bruscamente il
parodico o l’incomprensibile, che autorizzano la dérive dei discor-
si culturali nella lingua d’arrivo.
I traduttori devono anche spingere a una revisione dei codici –
culturali, economici, legali – che li marginalizzano o li sfruttano:
possono agire per rivedere il concetto individualistico di paternità
letteraria, che ha confinato la traduzione ai limiti della cultura
angloamericana, non solo sviluppando pratiche di traduzione inno-

391
vative in cui la loro opera divenga visibile al lettore, ma anche pre-
sentando i sofisticati fondamenti logici di queste pratiche in prefa-
zioni, saggi, conferenze e interviste. Una tale autopresentazione
indicherà che la lingua della traduzione nasce in modo decisivo
con il traduttore, ma anche che il traduttore non rappresenta la sua
unica origine: l’originalità del traduttore consiste proprio nello
scegliere un testo straniero particolare e una particolare combina-
zione di idiomi e tipi di discorso tratti dalla storia della letteratura
britannica e americana in risposta a una situazione culturale esi-
stente. Riconoscere il traduttore come un autore mette in dubbio
l’individualismo dei concetti correnti di paternità letteraria sugge-
rendo che nessuna scrittura può essere una pura espressione di sé
perché è derivata da una tradizione culturale in uno specifico
momento storico.
Questa indagine deve essere condotta anche rispetto ai termini
dei contratti con gli editori. I traduttori faranno bene ad insistere
sulla loro relazione d’autore con il testo tradotto durante le trattati-
ve: dovrebbero richiedere dei contratti che definiscano la traduzio-
ne come un «lavoro originale d’autore», invece che un «lavoro a
cottimo», con un diritto d’autore che protegga la traduzione a nome
del traduttore e che offra gli stessi termini finanziari standard degli
autori, in particolare un anticipo dei diritti d’autore e una partecipa-
zione nei diritti di vendita sussidiari. A lungo andare, sarà necessa-
rio effettuare una trasformazione più radicale, una revisione dell’at-
tuale legge sul diritto d’autore che limiti il controllo dell’autore
straniero sulla traduzione così da riconoscere la sua relativa autono-
mia dal testo straniero. I diritti di traduzione dell’autore straniero
dovrebbero essere limitati a un breve periodo, dopo il quale il testo
straniero entra a far parte del dominio pubblico, benché soltanto ai
fini della traduzione. Considerata la velocità con cui al giorno d’og-
gi la letteratura, in quanto merce, invecchia nel mercato dell’edito-
ria internazionale, la prospettiva della vendita dei diritti di traduzio-
ne diviene, con il passare del tempo, sempre più improbabile, e la
traduzione di un testo straniero dipende in definitiva dagli sforzi del
traduttore di coinvolgere l’editore, in particolare nell’editoria
angloamericana in cui così pochi editori sono in grado di leggere le
lingue straniere. Se un testo straniero pubblicato non rappresenta un
immediato successo critico e commerciale nella cultura per la quale
è stato scritto, probabilmente non verrà preso in considerazione

392
dagli editori della lingua d’arrivo. Il progetto della sua traduzione,
dunque, dovrebbe essere controllato dal traduttore che, in effetti,
deve inventare per il lettore della lingua d’arrivo un testo straniero
che altrimenti sarebbe per lui inesistente.
Un cambiamento dell’attuale atteggiamento nei confronti della
traduzione richiede in definitiva un cambiamento della pratica di
lettura, di recensione e di insegnamento della traduzione. Poiché la
traduzione è una doppia scrittura, una riscrittura del testo straniero
secondo i valori culturali nazionali, ogni traduzione richiede una
doppia lettura, sia come comunicazione sia come inserimento.
Leggere la traduzione come una traduzione significa riflettere sulle
sue condizioni, sugli idiomi e sui discorsi nazionali in cui è scritta,
così come sulla situazione culturale in cui viene letta. Questa lettu-
ra è storicizzante: segna una distinzione tra il passato (straniero) e
il presente (nazionale). Valutare la traduzione come una traduzione
significa considerarla un intervento nella situazione presente. Le
recensioni non devono essere limitate a rari commenti sullo stile di
una traduzione o sulla sua esattezza a seconda dei canoni implici-
tamente applicati. I critici dovrebbero considerare i canoni di esat-
tezza che il traduttore ha stabilito nell’opera, giudicando la deci-
sione di tradurre e di pubblicare un testo straniero in relazione al
canone corrente della letteratura straniera nella cultura della lingua
d’arrivo.
È soprattutto nelle istituzioni accademiche che pratiche di lettu-
ra differenti possono essere sviluppate e applicate alle traduzioni.
Qui diviene cruciale una doppia lettura. La traduzione produce
informazioni sul testo della lingua di partenza – le sue strutture
discorsive, i suoi temi e le sue idee – ma nessuna traduzione
dovrebbe essere mai insegnata come una rappresentazione traspa-
rente di quel testo, anche se questa è la pratica oggi prevalente.
Ogni informazione desunta dalla traduzione viene inevitabilmente
presentata in quei termini della lingua d’arrivo che devono essere
considerati l’oggetto di studio, dei dibattiti scolastici e della ricer-
ca avanzata. La ricerca sulla traduzione non può mai essere sem-
plicemente descrittiva; soltanto pensare la traduzione come un
argomento della storia culturale o della critica presume l’opposi-
zione alla sua posizione marginale nella gerarchia attuale delle
pratiche culturali. E la scelta di un argomento tratto da un periodo
storico specifico condurrà sempre agli interessi culturali del pre-

393
sente. Tuttavia, anche se la ricerca sulla traduzione non può essere
vista come descrittiva, priva di interessi culturali e politici, non
dovrebbe mirare a essere semplicemente prescrittiva, approvando
o rifiutando le teorie e pratiche di traduzione senza esaminare
attentamente la relazione con la loro stessa importanza e con quel-
la del ricercatore.
L’invisibilità del traduttore solleva oggi delle questioni preoc-
cupanti circa l’economia geopolitica della cultura, tali da richiede-
re urgentemente un atteggiamento più sospettoso nei confronti
della traduzione per poterle affrontarle. Tuttavia l’atteggiamento
sospettoso che qui incoraggio presuppone una fede utopistica nel
potere della traduzione di creare una differenza, non solo in patria
con la comparsa di nuove forme culturali, ma anche all’estero, con
la comparsa di nuove relazioni culturali. Riconoscere l’invisibilità
del traduttore significa allo stesso tempo criticare la situazione cor-
rente e sperare in un futuro più ospitale per quelle differenze che il
traduttore deve mediare.

394
BIBLIOGRAFIA

Abrams, M.H. (1953), The Mirror and the Lamp: Romantic Theory and the
Critical Tradition, Oxford, Oxford University Press, trad. it. Lo specchio
e la lampada. La teoria romantica e la tradizione critica, trad. e cura di
R. Zelocchi, Bologna, Il Mulino, 1976.
Adams, R.M. (1979), «From Langue d’Oc and Langue d’Oïl», in New York
Times Book Review, 25 febbraio, pp. 14 e 36.
The Adventures of Catullus, and History of His Amours with Lesbia.
Intermixt with Translations of his Choicest Poems. By several Hands.
Done from the French (1707), London, J. Chantry.
Ahearn, B. (a cura di), (1987), Pound/Zukofsky: Selected Letters of Ezra
Pound and Louis Zukofsky, New York, New Directions.
Alison, A. (1818), Memoir of the Life and Writings of the Honourable
Alexander Fraser Tytler, Lord Woodhouselee, Edinburgh, Neill & Co.
Allen, D.M. (a cura di), (1960), The New American Poetry, New York, Grove.
Altick, R.D. (1957), The English Common Reader: A Social History of the
Mass Reading Public, 1800-1900, Chicago, University of Chicago Press,
trad. it. di J. Mannucci, La democrazia fra le pagine. La lettura di massa
nell’Inghilterra dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1990.
Amos, F.R. (1920), Early Theories of Translation, New York, Columbia
University Press.
Anderson, B. (1991), Imagined Communities: Reflections on the Origin and
Spread of Nationalism, n.ed, London-New York, Verso, trad. it. di M.
Vignale, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi,
Roma, manifestolibri, 1996.
Anderson, D. (1982), «A Language to Translate Into: The Pre-Elizabethan
Idiom of Pound’s Later Cavalcanti Translations», in Studies in
Medievalism, 2, pp. 9-18.
— (a cura di), (1983), Pound’s Cavalcanti : An Edition of the Translations,
Notes, and Essays, Princeton, Princeton University Press.
Annan, N. (1944), «Books in General», in New Statesman and Nation, 18
marzo, p. 191.

395
Anti-Jacobin Review; and Protestant Advocate (1821), Review of G. Lamb’s
Translation of Catullus, 61, pp. 13-19.
Apter, R. (1986), «Paul Blackburn’s Homage to Ezra Pound», in Translation
Review, 19, pp. 23-26.
— (1987), Digging for the Treasure: Translation after Pound (1984), New
York, Paragon House.
Arnold, M. (1914), Essays by Matthew Arnold, London, Oxford University
Press, trad. it. Saggi di critica letteraria, a cura di M. D’Amico, Bari,
Adriatica, 1970.
— (1960), On the Classical Tradition, a cura di R.H. Super, Ann Arbor,
University of Michigan Press.
Athenaeum (1886), Recensione a The Iliad of Homer, trad. ingl. di Arthur
Way, 10 aprile, pp. 482-483.
Bachtin, M. (1984), L’opera di Rabelais e la cultura popolare, trad. it. di M.
Romano, Torino, Einaudi, 1979.
Balderston, D. (1992), «Fantastic Voyages», in New York Times Book Review,
29 novembre, p. 15.
Baldick, C. (1983), The Social Mission of English Criticism: 1848 – 1932,
Oxford, Clarendon Press.
Ballantyne, A. (1888), «Wardour-Street English», in Longman’s Magazine,
12 (Ottobre), pp. 585-594.
Ballerini, L. e Milazzo, R. (a cura di), (1979), The Waters of Casablanca,
Chelsea, 37.
Barnard, M. (trad. e cura di), (1958), Sappho: A New Translation, Berkeley-
Los Angeles, University of California Press.
— (1984), Assault on Mount Helicon: A Literary Memoir, Berkeley-Los
Angeles, University of California Press.
Bartlett, L. (1986), «What Is ‘Language Poetry’?», in Critical Inquiry, 12,
pp. 741-752.
Bassnett, S. (1980), Translation Studies, London-New York, Methuen, trad.
it. di G. Bandini, La traduzione. Teorie e pratica, a cura di D. Portolano,
Milano, Bompiani, 1993.
Baudrillard, J. (1983), Simulations, trad. ingl. di P. Foss, P. Patton, e P.
Beitchman, New York, Semiotext(e).
Belsey, C. (1980), Critical Practice, London e New York, Methuen.
Beltrametti, F. (1976), AnotherEarthquake, trad. ingl. di P. Vangelisti, San
Francisco-Los Angeles, Red Hill.
Benjamin, A. (1989), Translation and the Nature of Philosophy: A New
Theory of Words, London- New York, Routledge.
Berengo, M. (1980), Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione,
Torino, Einaudi.
Berman, A. (1984), L’épreuve de l’etranger: Culture et traduction dans

396
l’Allemagne romantique, Paris, Gallimard, trad. it. e cura di G. Giometti,
La prova dell’estraneo, Macerata, Quodlibet 1997.
— (a cura di) (1985), Les Tours de Babel: Essais sur la traduction,
Mauvezin, Trans-Europ-Repress.
Bernstein, C. (1986), Content’s Dream: Essays 1975 – 1984, Los Angeles,
Sun & Moon.
— (1992), A Poetics, Cambridge, Massachusetts, Harvard University
Press.
Bettelheim, B. (1982), Freud and Man’s soul, trad. it. di A. Serra, Freud e
l’anima dell’uomo, Milano, Feltrinelli, 1983.
Bevington, M. M. (1941), The Saturday Review, 1855 – 1868: Representative
Educated Opinion in Victorian England, New York, Columbia University
Press.
Biggs, M. (1990), A Gift That Cannot Be Refused: The Writing and
Publishing of Contemporary American Poetry, New York, Greenwood.
Blackburn, P. (1953), «Das Kennerbuch», in New Mexico Quarterly, 23, pp.
215-219.
— (trad. e cura di), (1958), Anthology of Troubadours – translated from the
12th and 13th C. Occitan by Paul Blackburn, manoscritto inedito, Paul
Blackburn Collection, Archive for New Poetry, Mandeville Department
of Special Collections, University of California, San Diego.
— (1962), «The International Word», in Nation, 21 Aprile, pp. 357-360.
— (1963), «The Grinding Down», in Kulchur, 10, pp. 9-18.
— (trad. ingl.), (1966), Poem of the Cid, New York, American R.D.M.
Corporation.
— (1985), The Collected Poems of Paul Blackburn, a cura di E. Jarolim,
New York, Persea.
— (trad. e cura di), (1986), Proensa: An Anthology of Troubadour Poetry
(1978), a cura di G. Economou, New York, Paragon House.
Blackie, J.S. (1861), «Homer and his Translators», in Macmillan’s Magazine,
4, pp. 268-280.
Blackwood’s Edinburgh Magazine (1818), «Observations on Catullus,
Suggested by a Piece of French Criticism», 2, pp. 486-490.
— (1823), «New Poetical Translations – Wiffen – Rose – Gower», 14, pp.
26-39.
— (1824), «The Second Volume of Rose’s Ariosto», 15, pp. 418-424.
Blanchot, M. (1971), Traduire, in L’amitié, Paris, Gallimard, pp. 69-73, trad.
ingl. di R. Sieburth, in Sulfur, 1990, 26, pp. 82-86.
Bonifazi, N. (1971), Il racconto fantastico da Tarchetti a Buzzati, Urbino,
STEU.
— (1982), Teoria del fantastico e il racconto fantastico in Italia: Tarchetti,
Pirandello, Buzzati, Ravenna, Longo.

397
Borges, J.L. (1984), Finzioni, trad. it. in Tutte le opere, a cura di D. Porzio,
Milano, Mondadori.
Bowdler, T. (a cura di), (1818), The Family Shakespeare. In Ten Volumes
12mo. In which nothing is added to the Text; but those Words and
Expressions are omitted which cannot with Propriety be read aloud in a
Family, London, Longman.
Brady, P.V. (1977), «Traps for Translators», in Times Literary Supplement, 25
febbraio, p. 201.
Braun, R.E. (1970), «The Original Language, Some Postwar Translations of
Catullus», in The Grosseteste Review, III, 4, pp. 27-34.
Brinkley, R. (1967), Arthurian Legend in the Seventeenth Century (1932),
New York, Octagon.
British Critic (1798), Recensione alla traduzione di Catullo di J. Nott, 10, pp.
671-673.
British Quarterly Review (1865), «Homer and his Translators», 40 (Aprile),
pp. 290-324.
Brooke, S. (1898), English Literature from the Beginning to the Norman
Conquest, New York-London, Macmillan.
Brower, R. (a cura di), (1959), On Translation, Cambridge, Massachusetts,
Harvard University Press.
Brownjohn, A. (1969), «Caesar ‘Ad Some», in New Statesman, 1° agosto, p. 151.
Bunting, B. (1936), Recensione a E. Stuart Bates, in Modern Translation,
Criterion 15, pp. 714-716.
Burgess, A. (1990), «On Wednesday He Does His Ears», in New York Times
Book Review, 14 ottobre, p. 11.
Burrow, J.W. (1981), A Liberal Descent: Victorian Historians and the
English Past, Cambridge, Cambridge University Press.
Bush, D. (19622), English Literature in the Earlier Seventeenth Century 1600
– 1660, Oxford, Clarendon Press.
Butler, H.E. e Cary, M. (a cura di), (1927), C. Suetoni Tranquilli Divus Iulius,
Oxford, Oxford University Press.
Butterfield, H. (1951), The Whig Interpretation of History, New York,
Scribner.
Caesar, A. (1987), «Construction of Character in Tarchetti’s Fosca», in
Modern Language Review, 82, pp. 76-87.
Cagnone, N. (1975), What’s Hecuba to him or he to Hecuba?, trad. ingl. di
David Verzoni, New York-Norristown-Milano, Out of London.
Campbell, G. (trad. ingl. e cura di) (1789), The Four Gospels, Translated
from the Greek. With Preliminary Dissertations, and Notes Critical and
Explanatory, London, A. Strahan & T. Cadell.
Carpenter, H. (1988), A Serious Character: The Life of Ezra Pound, Boston,
Houghton Mifflin.

398
Carsaniga, G.M. (1974), «Realism in Italy», in F.W.J. Hemmings (a cura di),
The Age of Realism, Harmondsworth, Penguin.
Castronovo, V., Fossati, L.G., Tranfaglia, N. (1979), La stampa italiana nel-
l’età liberale, Roma-Bari, Laterza.
Catullo (1975), Le poesie, trad. it. di M. Ramous, Milano, Garzanti.
Caudwell, C. (1973), Illusion and Reality: A Study of the Sources of Poetry
(1937), New York, International Publishers.
Cecil, D. (1965), Melbourne, London, Constable.
Celan, P. (1993), La verità della poesia. Il Meridiano e altre prose, trad. it. e
cura di G. Bevilacqua, Torino, Einaudi.
Chandler, A. (1970), A Dream of Order: The Medieval Ideal in Nineteenth-
Century English Literature, Lincoln, University of Nebraska Press.
Cherchi, P. e Parisi, J. (1989), «Some Notes on Post-War Italian Poetry», in
Poetry, 155 (Ottobre-Novembre), pp. 161-167.
Christ, R. (1984), «Translation Watch», in PEN American Center Newsletter,
53 (inverno), p. 8.
Cixous, H. (1974), «The Character of ‘Character’», trad. ingl. di K. Cohen, in
New Literary History, 5, pp. 383-402.
Clive, J. (1957), Scotch Reviewers: The Edinburgh Review, 1802 – 1815,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press.
Cohen, J.M. (1962), English Translators and Translations, London,
Longmans, Green & Co..
Coleman, A. (1967), «Everywhere Déjà Vu», in New York Times Book
Review, 9 luglio, p. 5.
Commager, S. (1971), Recensione a tre traduzioni di Catullo, in New York
Times Book Review, 15 agosto, pp. 4, 35.
Conquest, R. (1970), «The Abomination of Moab», in Encounter, 34
(Maggio), pp. 56- 63.
Coogan, D. (1970), «Catullus», in Chelsea, 28, pp. 113-118.
Corke, H. (1967), «New Novels», in The Listener, 8 giugno, pp. 761-762.
Corman, C. (1970), «Poetry as Translation», in The Grosseteste Review, III,
4, pp. 3-20.
Cortázar, J. (1964), «Continuidad de los Parques», in Final del juego, Buenos
Aires, Editorial Sudamericana.
— (1965), The Winners, trad. ingl. di E. Kerrigan, New York, Pantheon.
— (1966), Hopscotch, trad. ingl. di G. Rabassa, New York, Pantheon.
— (1973), All Fires The Fire, trad. ingl. di Suzanne Jill Levine, New York,
Pantheon.
— (1981), Storie di cronopios e di fama, trad. it. di F. Nicoletti Rossini,
Torino, Einaudi.
— (1992), Ultimo round e altri scritti politici, trad. it. di, Milano, Linea
d’ombra.

399
Costa, C. (1975), Our Positions, trad. ingl. di P. Vangelisti, San Francisco-
Los Angeles, Red Hill.
Costa, M. e Vigini, G. (a cura di) (1991), CLIO: catalogo dei libri italiani
dell’ottocento (1801 – 1900), Milano, Editrice Bibliografica.
Crusius, L. (1733), The Lives of the Roman Poets. Containing A Critical and
Historical Account of Them and their Writings, with large Quotations of
their most celebrated Passages, as far as was necessary to compare and
illustrate their several Excellencies, as well as to discover wherein they
were deficient, London, W. Innys, J. Clarke, B. Motte, J. Nourse.
Cucchi, M. (1983), Dizionario della poesia italiana: i poeti di ogni tempo, la
metrica, i gruppi e le tendenze, Milano, Mondadori.
Culler, A.D. (1985), The Victorian Mirror of History, New Haven,
Connecticut, Yale University Press.
D’Ablancourt, N.P. (trad.), (1640), Les Annales de Tacite. Première Partie.
Contenant la vie de Tibère, Paris, Jean Camusat.
Davenport, G. (1967), «And a Cool Drink by the Hammock», in National
Review, 25 luglio, pp. 811-812.
— (1970), «Louis Zukofsky», in Agenda, VIII, 3-4, pp. 130-137.
— (1979), «Zukofsky’s English Catullus» (1973), in C.F. Terrell (a cura di),
Louis Zukofsky, Man and Poet, Orono, Maine, National Poetry
Foundation.
Davie, D. (1953), «Translation Absolute», in New Statesman and Nation, 5
settembre, pp. 263-264.
— (1964), Ezra Pound: Poet as Sculptor, New York, Oxford University
Press.
— (1976), Ezra Pound, New York, Viking.
Dawson, J. (1966), Friedrich Schleiermacher: The Evolution of a
Nationalist, Austin-London, University of Texas Press.
De Angelis, M. (1975), L’idea centrale, in M. Forti (a cura di), L’almanacco
dello Specchio, 4, pp. 371-391.
— (1976), Somiglianze, Milano, Guanda.
— (1985), Terra del viso, Milano, Mondadori.
— (1994), Finite Intuition: Selected Poetry and Prose, trad. ingl. e cura di L.
Venuti, Los Angeles, Sun & Moon.
Dejeanne, J.M.L. (a cura di) (1971), Poésies Complètes du Troubadour
Marcabru (1909), New York, Johnson.
Deleuze, G. (1992), Nietzsche e la filosofia, trad. it. di F. Polidori, Milano,
Feltrinelli.
— (1984), Logica del senso, trad. it. di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli.
Deleuze, G., Guattari, F. (1975), Kafka. Per una letteratura minore, trad. it.
di A. Serra, Milano, Feltrinelli.
Denham, J. (trad. ingl. e cura di) (1656), The Destruction of Troy, An Essay

400
upon the Second Book of Virgils Æneis. Written in the year, 1636,
London, Humphrey Moseley.
— (19692), The Poetical Works, a cura di T.H. Banks, Hamden, Connecticut,
Archon.
Derrida, J. (1982), «Différance», in Margins of Philosophy, trad. ingl. di A.
Bass, Chicago, University of Chicago Press.
— (1985), The Ear of the Other: Otobiography, Transference, Translation, a
cura di C. McDonald, trad. ingl. di A. Ronell e P. Kamuf, New York,
Schocken.
— (1989), Della grammatologia, trad. it., Milano, Jaka Book.
— (1995), «Des Tours de Babel», trad. it. di A. Zinna, in S. Nergaard (a cura
di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Bompiani.
Dickstein, M. (1992), Recensione a Appearances di G. Celati, trad. ingl. di S.
Hood, in New York Times Book Review, 29 novembre, p. 18.
Dryden, J. (1956), «Preface to Ovid’s Epistles» (1680), in E.N. Hooker, H.T.
Swedenberg, Jr (a cura di), The Works of John Dryden, Berkeley-Los
Angeles, University of California Press, vol. I.
— (1958), «Dedication of the Æneis» (1697), in J. Kinsley (a cura di), The
Poems of John Dryden, Oxford, Clarendon Press, vol. III.
— (1962), «Preface to The Rival Ladies» (1664), in G. Watson (a cura di),
Of Dramatic Poesy and Other Critical Essays, London, Dent, vol. I.
Dublin University Magazine (1862), «Homer and his Translators», 59
(Giugno), pp. 643-654.
Dunckley, H. (1890), Lord Melbourne, London, Sampson Low, Marston,
Searle and Rivington.
Eagleton, T. (1984), The Function of Criticism: From The Spectator to Post-
structuralism, London, Verso.
Easthope, A. (1983), Poetry as Discourse, London-New York, Methuen.
Edinburgh Review (1820), Recensione della traduzione di T. Mitchell da
Aristofane, 34, pp. 271-319.
Edwards, J. (1954), «Pound’s Translations», in Poetry, 83, pp. 233-238.
Eliot, T.S. (1928), «Baudelaire in Our Time», in For Lancelot Andrewes:
Essays on Style and Order, London, Faber & Gwyer.
— (1950), Selected Essays, New York, Harcourt, Brace & World, trad. it. di
V. Di Giuro e A. Obertello, Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica,
Milano, Bompiani, 1985.
Elton, C.A. (trad. ingl. e cura di) (1814), Specimens of the Classic Poets, In a
Chronological Series from Homer to Tryphiodorus, Translated into
English Verse, And Illustrated with Biographical and Critical Notices,
London, Robert Baldwin, 3 voll..
Eshleman, C. (1989), «The Gull Wall», in Antiphonal Swing: Selected Prose,
1962 – 1987, Kingston, New York, McPherson.

401
European Magazine, and the London Review and Literary Journal (1793),
Recensione a A.F. Tytler, Essay on the Principles of Translation, 24, pp.
186-189, 278-282.
Fagles, R. (trad. ingl.) (1990), Homer, The Iliad, a cura di B. Knox, New
York, Viking.
Farina, S. (1913), La mia giornata: Care ombre, Torino, Societa Tipografico-
Editrice Nazionale.
Faulkner, P. (a cura di) (1973), William Morris: The Critical Heritage,
London, Routledge & Kegan Paul.
Faxon, F.W. (1973), Literary Annuals and Giftbooks. A Bibliography, 1823-
1903. Reprinted with Supplementary Essays, Pinner, Middlesex, Private
Libraries Association.
Feldman, G. (1986), «Going Global», in Publishers Weekly, 19 dicembre, pp.
20-24.
Feldman, R. e Swann, B. (a cura di) (1979), Italian Poetry Today, St. Paul,
Minnesota, New Rivers.
Fell, C. (1991), «Perceptions of Transience», in M. Godden e M. Lapidge (a
cura di), The Cambridge Companion to Old English Literature,
Cambridge, Cambridge University Press.
Felstiner, J. (1983), «Paul Celan in Translation: ‘Du Sei Wie Du’», in Studies
in Twentieth-Century Literature, 8, pp. 91-100.
— (1984), «Paul Celan’s Triple Exile», in Sulfur, 11, pp. 47-52.
Ferlinghetti, L. (1953), «Among the New Books», in San Francisco
Chronicle, 4 ottobre, p. 26.
Fiedler, L. (1962), «Sufficient unto the Day» (1955), in W. Phillips e P. Rahv
(a cura di), Partisan Review Anthology, New York, Holt, Rinehart &
Winston.
Fischbach, H. (1992), «The Mutual Challenge of Technical and Literary
Translation: Some Highlights», in Sci-Tech Newsletter, (gennaio), pp. 3-5.
Fitts, D. (1954), «The Tea-Shop Aura», in New Republic, 4 gennaio, pp. 18-
19.
— (trad. ingl. e cura di) (1956), Poems from the Greek Anthology, New
York, New Directions.
— (1958), The Poetic Nuance, New York, Harcourt, Brace.
Flad, B. (1992), «A Speech for the Defense of the Visible and Audible
Translator», in Translation Review, 38- 39, pp. 40-41.
Forstman, H.J. (1968), «The Understanding of Language by Friedrich
Schlegel and Schleiermacher», in Soundings, 51, pp. 146-165.
Fortini, F. (1975), «The Wind of Revival», in Times Literary Supplement, 31
ottobre, pp. 1308-1309.
Foucault, M. (1977), «Nietzsche, la genealogia, la storia», in Microfisica del
potere, trad. it., Torino, Einaudi.

402
— (1978), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it.
di E. Panaitescu, Milano, Rizzoli.
Fowler, H.W. (1965), A Dictionary of Modern English Usage, a cura di E.
Gowers, New York-Oxford, Oxford University Press.
Frank, J. (1961), The Beginnings of the English Newspaper 1620-1660,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press.
Fraser’s Magazine (1868), «Translations of the Iliad», 78 (Ottobre), pp. 518-
531.
Frémy, D. e M. (a cura di) (1992), Quid 1992, Paris, Laffont.
Frere, J.H. (1820), Recensione alla traduzione di T. Mitchell da Aristofane, in
Quarterly Review, 23, pp. 474-505.
Freud, S. (1960), The Psychopathology of Everyday Life (1901), trad. ingl. di
A. Tyson, a cura di J. Strachey, New York, Norton; trad. it.
Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, a cura di C. Musatti,
Torino, Boringhieri, 1977, vol. IV.
— (1961), Beyond the Pleasure Principle (1920), trad. ingl. e cura di J.
Strachey, New York, Norton; trad. it. Al di là del principio di piacere, in
Opere, a cura di C. Musatti, Torino, Boringhieri, 1977, vol. IX.
Gadamer, H.-G. (1970), «The Problem of Language in Schleiermacher’s
Hermeneutic», trad. ingl. di D.E. Linge, in R.W. Funk (a cura di),
Schleiermacher as Contemporary, New York, Herder and Herder.
Gall, S. (1980), «Ramon Guthrie», in K.L. Rood (a cura di), Dictionary of
Literary Biography 4: American Writers in Paris, 1920-1939, Detroit,
Gale.
Gardam, J. (1990), «The Institute of Translation and Interpreting Survey of
Rates and Salaries», in Professional Translator and Interpreter, 1, pp. 5-
14.
Genest, J. (a cura di) (1832), Some Account of the English Stage from the
Restoration in 1660 to 1830, Bath, H.E. Carrington, vol. VIII.
Gentleman’s Magazine (1798), Recensione alla traduzione di J. Nott da
Catullo, 68, p. 408.
— (1825), «John Nott, M.D.», 95, pp. 565-566.
— (1834), «Hon. George Lamb», 104, pp. 437-438.
Gentzler, E. (1993), Contemporary Translation Theories, London-New York,
Routledge.
Giddens, A. (1979), Central Problems in Social Theory: Action, Structure,
and Contradiction in Social Analysis, Berkeley-Los Angeles, University
of California Press.
Gioia, D. e Palma, M. (a cura di) (1991), New Italian Poets, Brownsville,
Oregon, Story Line Press.
Giuliani, A. (a cura di) (1961), I novissimi: Poesia per gli anni ’60, Milano,
Rusconi e Paolazzi.

403
Glenny, M. (1983), «Professional Prospects», in Times Literary Supplement,
14 ottobre, p. 1118.
Goldin, F. (trad. ingl. e cura di) (1973), Lyrics of the Troubadours and
Trouvères: An Anthology and a History, Garden City, New York,
Doubleday.
Gordon, D.M. (1979), «Three Notes on Zukofsky’s Catullus», in C.F. Terrell
(a cura di), Louis Zukofsky, Man and Poet, Orono, Maine, National
Poetry Foundation.
Gozzano, G. (1981), The Man I Pretend to Be: The Colloquies and Selected
Poems of Guido Gozzano, trad. ingl. e cura di M. Palma, Princeton,
Princeton University Press.
— (1987), The Colloquies and Selected Letters, trad. ingl. e cura di J.S.
Nichols, Manchester-New York, Carcanet.
Graham, J. (a cura di) (1985), Difference in Translation, Ithaca, New York,
Cornell University Press.
Graham, S. (1953), «Pound Sterling», in Poetry Review, 44, pp. 472-473.
Grannis, C.B. (1991) «Balancing the Books, 1990», in Publishers Weekly, 5
luglio, pp. 21-23.
Grant, M. (a cura di) (1980), Gaius Suetonius Tranquillus, The Twelve
Caesars, trad. ingl. di R. Graves, Harmondsworth, Penguin.
Graves, R. (trad. ingl.) (1957), Gaius Suetonius Tranquillus, The Twelve
Caesars, Harmondsworth, Penguin.
— (1965), «Moral Principles in Translation», in Encounter, 24, pp. 47-55.
Grove, R. (1984), «Nature Methodiz’d», in Critical Review, 26, pp. 52-68.
Guthrie, R. (1923), Trobar Clus, Northampton, Massachusetts, S4N.
— (1927a), A World Too Old, New York, Doran.
— (1927b), Marcabrun, New York, Doran.
— (1929), The Legend of Ermengarde, Paris, Black Manikin.
— (1970), Maximum Security Ward 1964-1970, New York, Farrar, Straus &
Giroux.
Habermas, J. (1984), Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it. di A.
Illuminati, F. Masini e W. Perretta, Roma-Bari, Laterza.
Hager, A. «British Virgil: Four Renaissance Disguises of the Laocoön
Passage of Book 2 of the Aeneid», in Studies in English Literature 1500-
1900, 22 (1982), pp. 21-38.
A Handbook for Literary Translators (1991), 2° ed., New York, PEN
American Center.
Hardacre, P.H. (1953), «The Royalists in Exile during the Puritan Revolution,
1642-1660», in Huntington Library Quarterly, 16, pp. 353-370.
Harrison, T.J. (trad. ingl. e cura di) (1983), The Favorite Malice: Ontology
and Reference in Contemporary Italian Poetry, New York-Norristown-
Milano, Out of London.

404
Hatlen, B. (1978), «Catullus Metamorphosed», in Paideuma, 7, pp. 539-545.
Hawkins, T. (trad. ingl. e cura di) (1625), Odes of Horace, The best of Lyrick
Poets, Contayning much morality, and sweetness, Selected, and
Translated by S:T:H:, London, W. Lee.
Hayden, J.O. (1969), The Romantic Reviewers, 1802-1824, Chicago,
University of Chicago Press.
Heidegger, M. (1990), Essere e tempo, trad. it., Milano, Longanesi.
Helgerson, R. (1983), Self-Crowned Laureates: Spenser, Jonson, Milton, and
the Literary System, Berkeley-Los Angeles, University of California
Press.
Hermans, T. (1985), «Images of Translation: Metaphor and Imagery in the
Renaissance Discourse on Translation», in T. Hermans (a cura di), The
Manipulation of Literature: Studies in Literary Translation, London,
Croom Helm.
Hill, H.C. (1970), «Transonance and Intransigence», in The Grosseteste
Review, 3, (4), pp. 21-25.
Hingley, R. (trad. ingl. e cura di) (1964), The Oxford Chekhov, London-New
York, Oxford University Press, vol. III.
Hobsbawm, E.J. (19783), Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, trad. it. di O.
Nicotra, Milano, Il Saggiatore.
Hodgart, M. (1978), «The Subscription List for Pope’s Iliad, 1715», in R.B.
White, Jr (a cura di), The Dress of Words, Lawrence, Kansas, University
of Kansas Libraries.
Hohendahl, P.E. (1982), «Literary Criticism and the Public Sphere», trad.
ingl. di R.L. Smith e H.J. Schmidt, in The Institution of Criticism, Ithaca,
New York, Cornell University Press.
Holden, J. (1991), The Fate of American Poetry, Athens, Georgia, University
of Georgia Press.
Holyday, B. (trad. ingl.) (1635), Aulus Persius Flaccus His Satyres.
Translated into English, By Barten Holyday, Master of Arts, and student
of Christ Church in Oxford. And now newly by him reviewed and amen-
ded. The third Edition, London, R. Higginbotham.
Homberger, E. (a cura di) (1972), Ezra Pound: The Critical Heritage,
London-Boston, Routledge & Kegan Paul.
Honig, E. (1985), The Poet’s Other Voice: Conversations on Literary
Translation, Amherst, University of Massachusetts Press.
Hooley, D.M. (1988), The Classics in Paraphrase: Ezra Pound and Modern
Translators of Latin Poetry, Selinsgrove, Pennsylvania, Susquehanna
University Press.
Horkheimer, M. e Adorno, T. (1980), Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di
R. Solmi, Torino, Einaudi.
Houghton, W.E., Houghton, E.R. e Slingerland, J.H. (a cura di) (1987), The

405
Wellesley Index to Victorian Periodicals, 1824-1900, Toronto, University
of Toronto Press, 5 voll..
Howard, H. (trad. ingl.) (1557), Certain Bokes of Virgiles Aenaeis turned into
English meter by the right honorable lorde, Henry Earle of Surrey,
London, R. Tottel.
An International Survey of Book Production during the Last Decades (1982),
Paris, UNESCO.
Jackson, R. (1981), Fantasy: The Literature of Subversion, London-New
York, Methuen, trad. it. e cura di R. Berardi, Il fantastico. La letteratura
della trasgressione, Napoli, Pironti, 1986.
Jameson, F. (1979), Fables of Aggression: Wyndham Lewis, the Modernist as
Fascist, Los Angeles-Berkeley, University of California Press.
Jiménez-Landi, A. (1974), The Treasure of the Muleteer and Other Spanish
Tales, trad. ingl. di P. Blackburn, Garden City, New York, Doubleday.
Johnston, O.W. (1989), The Myth of a Nation: Literature and Politics in
Prussia under Napoleon, Columbia, South Carolina, Camden House.
Jones, E. (1944), Geoffrey of Monmouth 1640-1680, Berkeley, University of
California Press.
Jonson, B. (1968), The Complete Poetry of Ben Jonson, a cura di William B.
Hunter, Jr, New York, Norton.
Kaplan, B. (1967), An Unhurried View of Copyright, New York, Columbia
University Press.
Kauffmann, S. (1967), «Real and Otherwise», in New Republic, 15 luglio, pp.
22 e 36.
Keeley, E. (1990), «The Commerce of Translation», in PEN American Center
Newsletter, 73, pp. 10-12.
Kemeny, T. (1976), The Hired Killer’s Glove, trad. ingl. di T. Kemeny, New
York- Norristown-Milano, Out of London.
Korshin, P.J. (1973), From Concord to Dissent: Major Themes in English
Poetic Theory 1640-1 700, Menston, England, The Scolar Press.
Krapp, G.P. e Dobbie, E.V.K. (a cura di) (1936), The Exeter Book, New York,
Columbia University Press.
Kratz, D. (1986), «An Interview with Norman Shapiro», in Translation
Review, 19, pp. 27-28.
Lacan, J. (1974), «Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’in-
conscio freudiano», in Scritti, trad. it. a cura di G. Contri, Torino,
Einaudi, vol. II.
Laclau, E. e Mouffe, C. (1985), Hegemony and Socialist Strategy: Toward a
Radical Democratic Politics, trad. ingl. di W. Moore e P. Cammack,
London, Verso.
Lamb, G. (a cura di) (1816), Shakespeare’s Timon of Athens, As Revived at
the Theatre Royal, Drury-lane, On Monday, Oct. 28, 1816. Altered and

406
Adapted for Representation, By the Hon. George Lamb, London, C.
Chapple.
— (trad. ingl. e cura di) (1821), The Poems of Caius Valerius Catullus
Translated. With a Preface and Notes, By the Hon. George Lamb,
London, John Murray, 2 voll..
Latham, W. (trad. ingl.) (1628), Virgils Eclogues Translated into English: By
W.L. Gent., London, W. Jones.
Lattimore, R. (trad. ingl. e cura di) (1951), The Iliad of Homer, Chicago,
University of Chicago Press.
Lecercle, J.-J. (1990), The Violence of Language, London-New York,
Routledge.
Lefevere, A. (1975), Translating Poetry: Seven Strategies and a Blueprint,
Assen, Van Gorcum.
— (trad. ingl. e cura di) (1977), Translating Literature: The German
Tradition from Luther to Rosenzweig, Assen, Van Gorcum.
— (1981), «German Translation Theory: Legacy and Relevance», in Journal
of European Studies, 11, pp. 9-17.
— (1990), «Translation: Its Genealogy in the West», in S. Bassnett e A.
Lefevere (a cura di), Translation, History and Culture, London and New
York, Pinter.
— (1992a), Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame,
London-New York, Routledge.
— (trad. ingl. e cura di) (1992b), Translation/History/Culture: A
Sourcebook, London-New York, Routledge.
Levy, C. (1991), «The Growing Gelt in Others’ Words», in The New York
Times, 20 ottobre, p. F5.
Levy, E. (1966), Petit Dictionnaire Provençal-Français (1909), Heidelberg,
Carl Winter Universitatverlag.
Lewis, P.E. (1985), «The Measure of Translation Effects», in J. Graham (a
cura di), Difference in Translation, Ithaca, New York, Cornell University
Press.
Locher, F. (a cura di) (1980), Contemporary Authors, Detroit, Gale, voll. 93-
96.
London Magazine (1824), «Rose’s Orlando Furioso», 9, pp. 623-628.
London Quarterly Review (1858), «Horace and his Translators», 104
(Ottobre), pp. 179-198.
— (1874), «The Odes of Horace and Recent Translators», 42 (Aprile a
Luglio), pp. 1-27.
Lorca, F.G. (1979), Lorca/Blackburn: Poems of Federico Garcia Lorca, trad.
ingl. di P. Blackburn, San Francisco, Momo’s.
Lottman, H.R. (1991), «Milan: A World of Change», in Publishers Weekly,
21 giugno, pp. S5-Sl l.

407
Lowell, R. (1961), Imitations, New York, Farrar, Straus & Giroux.
MacAdam, A. (1967), «A Life without Patterns», in New Leader, 11 settem-
bre, pp. 19-20.
McDougal, S.Y. (1972), Ezra Pound and the Troubadour Tradition,
Princeton, Princeton University Press.
MacDougall, H.A. (1982), Racial Myth in English History: Trojans, Teutons,
and Anglo-Saxons, Hanover, New Hampshire, University Press of New
England.
McKendrick, J. (1991), «Italians for Anglosassoni», in Poetry Review, 81, 3
(Autunno), pp. 58-59.
McLuhan, M. (1964), Understanding Media: The Extensions of Man, New
York, McGraw-Hill, trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano,
Garzanti, 1986.
Macmillan’s Magazine (1861), «Homer and His Translators», 4, pp. 268-280.
McPeek, J.A.S. (1939), Catullus in Strange and Distant Britain, Cambridge,
Massachusetts, Harvard University Press.
Makin, P. (1978), Provence and Pound, Berkeley-LosAngeles, University of
California Press.
Mandel, E. (1973), Neocapitalismo e crisi del dollaro, trad. it., Roma-Bari,
Laterza.
Mann, P. (1986), «Translating Zukofsky’s Catullus», in Translation Review,
21-22, pp. 3-9.
Marcus, J. (1990), «Foreign Exchange», in Village Voice Literary
Supplement, 82 (February), pp. 13-17.
Mariani, G. (1967), Storia della Scapigliatura, Caltanisetta-Roma, Sciascia.
Marsh, P. (1991), «International Rights, The Philosophy and the Practice», in
Publishers Weekly, 12 luglio, pp. 26-27.
Martin, C. (trad. ingl. e cura di) (1990), The Poems of Catullus (1979),
Baltimore-London, Johns Hopkins University Press.
Marziale (1980), Epigrammi, a cura di G. Norcio, Torino, Utet.
Mayor, A.H. (1932), «Cavalcanti and Pound», in Hound & Horn, V, 3
(Aprile-Giugno), pp. 468-471.
Mellor, A.K. (1988), Mary Shelley: Her Life, Her Fiction, Her Monsters,
New York-London, Methuen.
Mercurius Politicus, Comprising the Sum of Foreine Intelligence, with the
Affairs now on foot in the three Nations of England, Scotland, & Ireland.
For Information of the People. Numb. 306. From Thursday April 17: to
Thursday April 24, 1656.
Messerli, D. (a cura di) (1987), “Language” Poetries: An Anthology, New
York, New Directions.
Michener, C. (1980), «Laughter Goes Into Exile», in Newsweek, 24 novem-
bre, p. 108.

408
Montale, E. (1959a), Poems by Eugenio Montale, trad. ingl. e cura di E.
Morgan, Reading, England, University of Reading.
— (1959b), Selected Poems of Montale, trad. ingl. e cura di George Kay,
Edinburgh, Edinburgh University Press.
— (1966) Selected Poems, a cura di G. Cambon, New York, New Directions.
— (1970a), Provisional Conclusions, trad. ingl. e cura di E. Farnsworth,
Chicago, Henry Regenry.
— (1970b), Xenia, trad. ingl. di G. Singh, Los Angeles, Black Sparrow, e
New York, New Directions.
— (1971), The Butterfly of Dinard, trad. ingl. di G. Singh, Lexington,
University Press of Kentucky.
— (1973), Mottetti, trad. ingl. di L. Kart, San Francisco, Grabhorn Hoyem.
— (1976a), New Poems: A Selection from Satura and Diario del ’71 e del
’72, trad. ingl. e cura di G. Singh, New York, New Directions.
— (1976b), A Poet in Our Time, trad. ingl. di A. Hamilton, London, Boyars.
— (1976c) Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori.
— (1978), The Storm and Other Poems, trad. ingl. di C. Wright, Oberlin,
Oberlin College.
— (1980a), It Depends: A Poet’s Notebook, trad. ingl. di G. Singh, New
York, New Directions.
— (1980b), Xenia and Motets, trad. ingl. di K. Hughes, London, Agenda.
— (1984a), Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori.
— (1984b), Otherwise: Last and First Poems, trad. ingl. di J. Galassi, New
York, Random House.
— (1985), Bones of Cuttlefish, trad. ingl. di A. Mazza, Oakville, Ontario,
Mosaic.
— (1986), The Storm and Other Things, trad. ingl. di W. Arrowsmith, New
York, Norton.
— (1987), The Occasions, trad. ingl. di W. Arrowsmith, New York, Norton.
— (1990), The Motets of Eugenio Montale; Mottetti: Poems of Love, trad.
ingl. di D. Gioia, St. Paul, Minnesota, Graywolf.
Monthly Magazine (1821), Recensione alla traduzione di G. Lamb da
Catullo, 52, pp. 33-36.
Monthly Review (1792), Recensione a A.F. Tytler, Essay on the Principles of
Translation, 8, pp. 361-366.
— (1797), Recensione alla traduzione di J. Nott da Catullo, 24, pp. 275-278.
— (1822), Recensione alla traduzione di G. Lamb da Catullo, 97, pp. 1-13.
Moore, N. (1971), «Hot Cat on a Cold Tin Roof Blues (or, Get Your Boots
Laced, Fullus – Here Comes That Guy ‘Cat’Ullus», in Poetry Review, 62,
pp. 179-187.
Muir, E. (1953), «New Poems for Old», in Observer, 2 agosto, p. 40.
Murphy, R. (1953), «The Art of a Translator», in Spectator, 18 settembre, p. 503.

409
Mynors, R.A.B (a cura di) (1969), Virgil, Opera, Oxford, Clarendon Press.
National Review (1860), «The English Translators of Homer», 11 (Ottobre),
pp. 283-314.
Nergaard, S. (a cura di) (1993), La teoria della traduzione nella storia,
Milano, Bompiani.
— (a cura di) (1995), Teorie contemporanee della traduzione, Milano,
Bompiani.
Newman, F.W. (1841), Introductory Lecture to the Classical Course, London,
Simpkin, Marshall and Co. e J. Green.
— (1847a), Four Lectures on the Contrasts of Ancient and Modern History,
London, Taylor and Walton.
— (1847b), On the Relations of Free Knowledge to Moral Sentiment,
London, Taylor and Walton.
— (1851), «Recent Translations of Classical Poets», in Prospective Review,
7 (Agosto), pp. 369-403.
— (trad. ingl. e cura di) (1853), The Odes of Horace, London, John
Chapman.
— (trad. ingl. e cura di) (1856), The Iliad of Homer, London, Walton and
Maberly.
— (1861), Homeric Translation in Theory and Practice. A Reply to Matthew
Arnold, Esq., London-Edinburgh, William and Norgate.
— (1869), Miscellanies, London, Trübner and Co., vol. I.
— (1887 e 1889), Miscellanies, London, Kegan Paul, Trench, voll. II e III.
New Republic (1955), «Selected Books», 16 maggio, p. 46.
New Yorker (1954), «The Translations of Ezra Pound», 1 maggio, p. 112.
Niccolai, G. (1975), Substitution, trad. ingl. di P. Vangelisti, San Francisco-
Los Angeles, Red Hill.
Nida, E.A. (1952), God’s Word in Man’s Language, New York, Harper &
Brothers.
— (1964), Toward a Science of Translating. With Special Reference to
Principles and Procedures Involved in Bible Translating, Leiden, Brill.
— (1975), Customs and Cultures: Anthropology for Christian Missions
(1954), South Pasadena, California, William Carey Library.
Nida, E.A. e de Waard, J. (1986), From One Language to Another:
Functional Equivalence in Bible Translating, Nashville, Thomas Nelson.
Nietzsche, F. (1946), trad. it., La volontà di potenza, Milano, Bocca.
— (1984), Genealogia della morale, trad. it. di F. Masini, Milano, Adelphi.
Niranjana, T. (1992), Siting Translation: History, Poststructuralism, and the
Colonial Context, Berkeley-Los Angeles, University of California Press.
North American Review (1862a), «On Translating Homer», 94 (Gennaio), pp.
108-125.
— (1862b), «Newman’s Homeric Translation», 94 (Aprile), pp. 541-545.

410
North British Review (1862), «Recent Homeric Critics and Translators», 72
(Maggio), pp. 345-380.
Nott, J. (trad. ingl. e cura di) (1778), Kisses: A Poetical Translation of the
Basia of Joannes Secundus Nicolaius. With the Original Latin, and An
Essay on his Life and Writings. The Second Edition, With Additions,
London, J. Bew.
— (trad. ingl. e cura di) (1782), Propertii Monobiblos; or, That Book of the
Elegies of Propertius, Entitled Cynthia; Translated into English Verse:
With Classical Notes, London, H. Payne.
— (trad. ingl. e cura di) (1787), Select Odes, from the Persian Poet Hafez,
Translated into English Verse; with Notes Critical, and Explanatory,
London, T. Cadell.
— (trad. ingl. e cura di) (1795), The Poems of Caius Valerius Catullus, in
English Verse, with the Latin Text revised, and Classical Notes. Prefixed
are Engravings of Catullus and his Friend Cornelius Nepos. Two
Volumes, London, Joseph Johnson.
Ogilby, J. (trad. ingl. e cura di) (1654), The Works of Publius Virgilius Maro.
Translated, adorn’d with Sculpture, and illustrated with Annotations, By
John Ogilby, London, T. Warren.
O’Hehir, B. (1968), Harmony from Discords: A Life of Sir John Denham,
Berkeley-Los Angeles, University of California Press.
— (a cura di) (1969), Expans’d Hieroglyphicks: A Critical Edition of Sir
John Denham’s Coopers Hill, Berkeley-Los Angeles, University of
California Press.
Osmond, T.S. (1912), «Arnold and Homer», in W.P. Ker (a cura di), Essays
and Studies By Members of the English Association, Oxford, Clarendon
Press, vol. III.
Ossman, D. (1963), The Sullen Art: Interviews with American Poets, New
York, Corinth Books.
Packard, W. (a cura di) (1987), The Poet’s Craft: Interviews from the New
York Quarterly (1974), New York, Paragon House.
Palmer, R.E. (1969), Hermeneutics: Interpretation Theory in Schleiermacher,
Dilthey, Heidegger, and Gadamer, Evanston, Illinois, Northwestern
University Press.
Pannwitz, R. (1917), Die Krisis der europäischen Kultur, Nurenberg, H.
Carl.
Parsons, A.E. (1929), «The Trojan Legend in England: Some Instances of its
Application to the Politics of the Times», in Modern Language Review,
24, pp. 253-264, 394-408.
Patterson, A. (1984), Censorship and Interpretation: The Conditions of
Writing and Reading in Early Modern England, Madison, University of
Wisconsin Press.

411
— (1987), Pastoral and Ideology: Virgil to Valéry, Berkeley-Los Angeles,
University of California Press.
Penna, S. (1982), This Strange Joy: Selected Poems, trad. ingl. e cura di W.S.
Di Piero, Columbus, Ohio, Ohio State University Press.
Perkin, J. (1989), Women and Marriage in Nineteenth-Century England,
London, Routledge.
Perkins, D. (1987), A History of Modern Poetry: Modernism and After,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press.
Perloff, M. (1985), «The Word as Such: L=A=N=G=U=A=G=E Poetry in the
Eighties», in The Dance of the Intellect: Studies in the Poetry of the
Pound Tradition, Cambridge, Cambridge University Press.
Phaer, T. (trad. ingl. e cura di) (1620), The Thirteene Bookes of Aeneidos. The
first twelue being the worke of the Diuine Poet Virgil Maro; and the thir-
teenth, the Supplement of Maphaus Vegius. Translated into English Verse,
to the first third part of the tenth Booke, by Thomas Phaer, Esquire: and
the residue finished, and now newly set forth, for the delight of such as
are studious in Poetry, by Thomas Twyne, Doctor in Physike, London, B.
Alsop.
Picasso, P. (1968), Hunk of Skin, trad. ingl. di P. Blackburn, San Francisco,
City Lights.
Piccolo, L. (1972), Collected Poems of Lucio Piccolo, trad. ingl. di R.
Feldman e B. Swann, Princeton, Princeton University Press.
Piola-Caselli, E. (1927), Trattato del Diritto di Autore, 2° ed., Napoli,
Marghieri.
Pontiggia, G. e Di Mauro, E. (a cura di) (1978), La parola innamorata: i
poeti nuovi 1976-1978, Milano, Feltrinelli.
Pope, A. (trad. ingl. e cura di) (1967), The Iliad of Homer (1715-20), in
Maynard Mack (a cura di), The Twickenham Edition of the Poems of
Alexander Pope, London, Methuen, e New Haven, Connecticut, Yale
University Press, vol. VII.
Porta, A. (1978), As If It Were a Rhythm, trad. ingl. di P. Vangelisti, San
Francisco-Los Angeles, Red Hill.
— (a cura di) (1979), Poesia degli anni settanta, Milano, Feltrinelli.
— (1986a), Invasions: Selected Poems, a cura di P. Vangelisti, trad. ingl. di A.
Baldry, P. Vangelisti, P. Verdicchio, San Francisco-Los Angeles, Red Hill.
— (1986b), Passenger: Selected Poems, trad. ingl. e cura di P. Verdicchio,
Montreal, Guernica.
— (1987), Kisses from Another Dream, trad. ingl. di A. Molino, San
Francisco, City Lights.
— (1992), Melusine, trad. ingl. di A. Molino, Montreal, Guernica.
Portinari, F. (1989), «Milano», in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italia-
na. Storia e geografia, Torino, Einaudi, vol. III.

412
Posonby, V.B. (a cura di) (1955), Georgianna; Extracts from the Corre-
spondence of Georgianna, Duchess of Devonshire, London, John Murray.
Potoker, E.M. (1965), Recensione a H. Böll, Absent Without Leave, trad. ingl.
di L. Vennewitz, in Saturday Review, 11 settembre, p. 42.
Potter, L. (1989), Secret Rites and Secret Writing: Royalist Literature, 1641-
1660, Cambridge, Cambridge University Press.
Pound, E. (1950), The Letters of Ezra Pound, 1907-1941, a cura di B.D.
Paige, New York, Harcourt, Brace & World, trad. it. di G. Mancuso e W.
Rodeghiero, Lettere (1907-1958), a cura di A. Tagliaferri, Milano,
Feltrinelli, 1980.
— (1952), The Spirit of Romance (1910), New York, New Directions, trad.
it. di S. Baldi, Lo spirito romanzo, Milano, SE, 1991.
— (1953), Translations, New York, New Directions, trad. it. Traduzioni, in
Opere scelte, a cura di M. de Rachewiltz, Milano, Mondadori, 19774.
— (1954), Literary Essays, a cura di T.S. Eliot, New York, New Directions,
trad. it. di N. d’Agostino, Saggi letterari, Milano, Garzanti, 1973.
— (1956), Selected Poems, New York, New Directions, trad. it. Poesie, in
Opere scelte, a cura di M. de Rachewiltz, Milano, Mondadori, 19774.
— (1960), The ABC of Reading (1934), New York, New Directions, trad. it.
di R. Quadrelli, L’abc del leggere, Milano, Garzanti, 1974.
Publishers Weekly (1963), «Statistics for 1962: Subject Analysis of American
Book Production», 21 gennaio, pp. 40-44.
Quarterly Review (1823), Recensione a L. Ariosto, Orlando Furioso, trad.
ingl. di W.S. Rose, 30, pp. 40-61.
— (1888), «Matthew Arnold», 167 (Ottobre), pp. 398-426.
Quasimodo, S. (1968), The Sekcted Writings of Salvatore Quasimodo (1960),
trad. ingl. e cura di A. Mandelbaum, New York, Minerva.
— (1980), The Tall Schooner, trad. ingl. di M. Egan, New York, Red
Ozier.
— (1983), Complete Poems, trad. ingl. di J. Bevan, London, Anvil.
Quinlan, M. (1941), Victorian Prelude: A History of English Manners, 1780-
1830, New York, Columbia University Press.
Quinn, S.M.B. (1972), Ezra Pound: An Introduction to the Poetry, New
York, Columbia University Press.
Raffel, B. (1969), «No Tidbit Love You Outdoors Far as a Bier, Zukofsky’s
Catullus», in Arion, 8, pp. 435-445.
— (1984), Ezra Pound, The Prime Minister of Poetry, Hamden,
Connecticut, Archon.
— (1985), «Pound and Translation», in Literary Review, 28, pp. 634-635.
Reed, J. (1990), The Coastguard’s House, Newcastle upon Tyne, Bloodaxe.
Rener, F.M. (1989), Interpretatio: Language and Translation from Cicero to
Tytler, Amsterdam, Rodopi.

413
Rexroth, K. (1985), «Why Is American Poetry Culturally Deprived?» (1967),
in TriQuarterly 20, 63, pp. 53-59.
Reynolds, B. (1950), The Linguistic Writings of Alessandro Manzoni: A
Textual and Chronological Reconstruction, Cambridge, Heffer.
Reynolds, F.M. (a cura di) (1828), The Keepsake for MDCCCXXVIII,
London, Hurst, Chance and Co..
Rider, H. (1638), All The Odes And Epodes of Horace. Translated into
English Verse: By Henry Rider, Master of Arts of Emanuel Colledge in
Cambridge, London, R. Rider.
Robinson, D. (1991), The Translator’s Turn, Baltimore-London, Johns
Hopkins University Press.
Rogers, P. (1978), «Pope and his Subscribers», in Publishing History, 3, pp.
7-36.
Roper, D. (1978), Reviewing before the Edinburgh: 1788-1802, Newark,
Delaware, University of Delaware Press.
Ross, A. (1989), No Respect: Intellectuals and Popular Culture, New York-
London, Routledge.
Rossetti, D.G. (trad. ingl. e cura di) (1981), The Early Italian Poets (1861), a
cura di Sally Purcell, Berkeley-LosAngeles, University of California
Press.
Rossi, S. (1959), «E.A. Poe e la Scapigliatura Lombarda», in Studi
americani, 5, pp. 119-139.
Said, E.W. (1978), Orientalism, New York, Pantheon, trad. it. di S. Galli,
Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
— (1990), «Embargoed Literature», in Nation, 17 settembre, pp. 278-280.
Sandri, G. (1976), From K to S: Ark of the Asymmetric, trad. ingl. di F.
Pauluzzi, New York, Norristown, Milano, Out of London.
Sanesi, R. (trad. it. e cura di) (1966), Poemi anglosassoni. Le origini della
poesia inglese (VI-X secolo), Milano, Lerici.
Sanguineti, E. (1963), «Da Gozzano a Montale», in Tra Libertà e
Crepuscolarismo, Milano, Mursia.
Saturday Review (1861), «Homeric Translators and Critics», 27 luglio, pp.
95-96.
Scarles, C. (1980), Copyright, Cambridge, Cambridge University Press.
Scarron, P. (1988), Le Virgile Travesti (1648 – 49), a cura di J. Serroy, Paris,
Bordas.
Schleiermacher, F. (1838), Sämmitliche Werke. Dritte Abteilung: Zur
Philosophie, Zweiter Band, Berlin, Reimer, trad. it. e cura di S.
Sorrentino, Opere scelte, Brescia, Paideia, 1981-1985, 2 voll..
— (1890), Selected Sermons, trad. ingl. e cura di M. F. Wilson, New York,
Funk and Wagnalls, trad. it. e cura di S. Spera, Sulla religione, Brescia,
Queriniana, 1989.

414
— (1977), Hermeneutics: The Handwritten Manuscripts, a cura di H.
Kimmerle, trad. ingl. di J. Duke e J. Forstman, Missoula, Montana,
Scholars Press.
Sedgwick, E.K. (1985), Between Men: English Literature and Male
Homosocial Desire, New York, Columbia University Press.
Sereni, V. (1971), Sixteen Poems, trad. ingl. e cura di P. Vangelisti, San
Francisco-Los Angeles, Red Hill.
Shakespeare, W. (1959), Timon of Athens, a cura di H.J. Oliver, London,
Methuen, trad. it. Timone di Atene, in Teatro completo, Milano,
Mondadori, 19914, vol. V.
Sheehan, J.J. (1989), German History, 1770-1866, Oxford, Oxford
University Press.
Shelley, M.W. (1976), Collected Tales and Stories, a cura di C.E. Robinson,
Baltimore and London, Johns Hopkins University Press.
Sieveking, I.S. (1909), Memoir and Letters of Francis W. Newman, London,
Kegan Paul, Trench, Trubner and Co., Ltd..
Simon, S. (1989), «Conflits de juridiction, La double signature du texte tra-
duit», in Meta, 34, pp. 195-208.
Sinfield, A. (1989), Literature, Politics, and Culture in Postwar Britain,
Berkeley-Los Angeles, University of California Press.
— (1992), Faultlines: Cultural Materialism and the Politics of Dissident
Reading, Berkeley-LosAngeles, University of California Press.
Sinisgalli, L. (1988), The Ellipse: Selected Poems, trad. ingl. e cura di W.S.
Di Piero, Princeton, Princeton University Press.
Skone James, E.P., Mummery, J.F., Rayner James, J.E. e Garnett, K.M.
(1991), Copinger and Skone James on Copyright, 13° ed., London, Sweet
and Maxwell.
Smith, D.M. (1969), Italy: A Modern History, 2° ed., Ann Arbor, University
of Michigan Press.
Smith, L.R. (trad. ingl. e cura di) (1981), The New Italian Poetry, Berkeley-
LosAngeles, University of California Press.
Smith, W.J., Gioia, D. (a cura di) (1985), Poems from Italy, St. Paul,
Minnesota, New Rivers.
Spatola, A. (1975), Majakovskiiiiiiij, trad. ingl. di P. Vangelisti, San
Francisco-Los Angeles, Red Hill.
— (1977), Zeroglyphics, San Francisco-Los Angeles, Red Hill.
— (1978), Various Devices, trad. ingl. e cura di P. Vangelisti, San Francisco-
Los Angeles, Red Hill.
Spatola, A., Vangelisti, P. (a cura di) (1982), Italian Poetry, 1960-1980: from
Neo to Post Avant-garde, San Francisco-Los Angeles, Red Hill.
Speck, W.A. (1982), «Politicians, Peers, and Publication by Subscription,

415
1700-50», in I. Rivers (a cura di), Books and their Readers in Eighteenth-
Century England, Leicester, Leicester University Press.
Spectator (1918), «The Gate of Remembrance», 20 aprile, p. 422.
Spedding, J. (1861), «Arnold on Translating Homer», in Fraser’s Magazine,
63 (Giugno), pp. 703-714.
Stallybrass, P., White, A. (1986), The Politics and Poetics of Transgression,
London, Methuen.
Stapylton, R. (trad. ingl.) (1634), Dido and Aeneas. The Fourth Booke of
Virgils Aeneis Now Englished by Robert Stapylton, London, W. Cooke.
Steiner, G. (1974), After Babel: Aspects of Language and Translation,
London, Oxford, New York, Oxford University Press, trad. it. di R.
Bianchi, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, n. ed. a
cura di C. Béguin, Milano, Garzanti, 1994.
Steiner, T.R. (a cura di) (1975), English Translation Theory 1650-1800,
Assen, Van Gorcum.
Steiner, W. (1992), «The Bulldozer of Desire», in New York Times Book
Review, 15 novembre, p. 9.
Sterling, J.A.L., Carpenter, M.C.L. (1986), Copyright Law in the United
Kingdom, Sydney-London, Legal Books.
Stern, D. (1967), «Straight and Nouveau», in Nation, 18 settembre, pp. 248-249.
Stern, R.G. (1953), «Pound as Translator», in Accent, XIII, 4 (Autunno), pp.
265-268.
Stewart, S. (1980), «The Pickpocket: A Study in Tradition and Allusion», in
MLN, 95, pp. 1127-1154.
Stock, N. (1982), The Life of Ezra Pound, n. ed., San Francisco, North Point.
Stone, L. (1977), The Family, Sex and Marriage in England, 1500-1800,
New York, Harper and Row, trad. it. di E. Basaglia, Famiglia, sesso e
matrimonioin Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Torino, Einaudi, 1983.
Storie incredibili (1863), Milano, Daelli.
Strabone (1930), The Geography of Strabo, trad. ingl. e cura di H.L. Jones,
London, William Heinemann Ltd, e New York, G.P. Putnam’s Sons.
Stracher, C.A. (1991), «An Introduction to Copyright Law for Translators»,
in Translation Review, 36-37, pp. 12-14.
Stuart, D.M. (1955), Dearest Bess: The Life and Times of Lady Elizabeth
Foster, afterwards Duchess of Devonshire, London, Methuen.
Stubbs, J. (1968), «Looking-glass Land», in Books and Bookmen, maggio, p.
26.
Sturgeon, T. (1990), «Doing That Medieval Thing: Paul Blackburn’s
Medieval Premises», in Sagetrieb, 9, pp. 147-168.
Sullivan, A. (a cura di) (1983a), British Literary Magazines: The Augustan
Age and the Age of Johnson, 1698-1788, Westport, Connecticut-London,
Greenwood.

416
— (1983b), British Literary Magazines: The Romantic Age, 1789-1836,
Westport, Connecticut-London, Greenwood.
— (1984), British Literary Magazines: The Victorian and Edwardian Age,
1837-1913, Westport, Connecticut-London, Greenwood.
Svetonio (1951), Caio Giulio Cesare, in Le vite di dodici Cesari, versione di
G. Vitali, Bologna, Zanichelli, vol. I.
Szondi, P. (1986), «Schleiermacher’s Hermeneutics Today», in On Textual
Understanding and Other Essays, trad. ingl. di H. Mendelsohn,
Minneapolis, University of Minnesota Press.
Tarchetti, I.U. (trad. it.) (1869a), Carlo Dickens, L’amico comune, Milano,
Sonzogno.
— (trad. it.) (1869b), J.F. Smith, Fasi della vita o Uno sguardo dietro le
scene, Milano, Sonzogno.
— (1967), Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, Bologna, Cappelli, 2 voll.
Thomas, A. (a cura di) (1971), Poésies complètes de Bertran de Born (1888),
New York, Johnson.
Time (1967), «Unease in the Night», 11 agosto, p. 80.
Times Literary Supplement (1961), «On Translating the Bible», 17 febbraio,
p. IV.
— (1967), «Anatomy of a Publication», 11 maggio, p. 399.
— (1968), «Experiment with Rabbits», 14 marzo, p. 245.
— (1969), «Recapitulations», 20 febbraio, p. 180.
Todd, J. (a cura di) (1985), A Dictionary of British and American Women
Writers, 1660-1800, Totowa, New Jersey, Rowman and Allanheld.
Todorov, T. (1977), La letteratura fantastica, trad. it. di E. Klersy
Imberciadori, Milano, Garzanti.
Townshend, A. (1983), The Poems and Masques of Aurelian Townshend, a
cura di C. Brown, Reading, England, Whiteknights Press.
Tytler, A.F. (1978), Essay on the Principles of Translation, a cura di J.F.
Huntsman, Amsterdam, John Benjamins.
Underdown, D. (1960), Royalist Conspiracy in England 1649-1660, New
Haven, Connecticut, Yale University Press.
Ungaretti, G. (1958), Life of a Man, trad. ingl. e cura di A. Mandelbaum, London,
Hamish Hamilton; New York, New Directions; Milano, Scheiwiller.
— (1969), Selected Poems, trad. ingl. e cura di P. Creagh, Harmondsworth,
Penguin.
— (1975), Selected Poems of Giuseppe Ungaretti, trad. ingl. e cura di A.
Mandelbaum, Ithaca, New York, Cornell University Press.
Updike, J. (1981), «Books», in New Yorker, 3 agosto, pp. 92-93.
Venuti, L. (a cura di) (1992), Rethinking Translation: Discourse, Subjectivity,
Ideology, London-New York, Routledge.
Vicars, J. (1632), The XII Aeneids of Virgil, the most renowned Laureat

417
Prince of Latine-Poets; Translated into English deca-syllables, By John
Vicars, London, N. Alsop.
Virgilio (19944), Eneide, a cura di E. Paratore, trad. di L. Canali, Fondazione
Lorenzo Valla, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 6 voll.
Von Hallberg, R. (1985) American Poetry and Culture, 1945-1980,
Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press.
Wagstaff, C. (1984), «The Neo-avantgarde», in M. Caesar e P. Hainsworth (a
cura di), Writers and Society in Contemporary Italy, New York, St.
Martin’s Press.
Ward, A. (1974), Book Production, Fiction and the German Reading
Public,1740-1800, Oxford, Oxford University Press.
Wasserman, E. (1959), The Subtler Language: Critical Readings of
Neoclassic and Romantic Poems, Baltimore, Johns Hopkins University
Press.
Watt, I. (1957), The Rise of the Novel, Berkeley-LosAngeles, University of
California Press, trad. it. Le origini del romanzo borghese, a cura di L.
Del Grosso Destreri, Milano Bompiani, 1994.
Weber, H. (1812), Tales of the East: Comprising the Most Popular Romances
of Oriental Origin; and the Best Imitations by European Authors: With
New Translations, and Additional Tales, Never Before Published,
Edinburgh, James Ballantyne and Company, vol. II.
West, P. (1970), Recensione a G.G. Marquez, One Hundred Years of Solitude,
trad. ingl. di G. Rabassa, in Book World, 22 febbraio, p. 4.
Westminster Review (1862), «On Translating Homer», 77, pp. 150-163.
Whicher, G. (1953), «Reprints, New Editions», in New York Herald Tribune,
25 ottobre, p. 25.
— (1954), Recensione a The Translations of Ezra Pound, American
Literature, 26, pp. 119-121.
Whiteside, T. (1981), The Blockbuster Complex: Conglomerates, Show
Business, and Book Publishing, Middletown, Connecticut, Wesleyan
University Press.
Whitfield, S.J. (1991), The Culture of the Cold War, Baltimore-London,
Johns Hopkins University Press.
Willey, B. (1956), More Nineteenth-Century Studies: A Group of Honest
Doubters, New York, Columbia University Press.
Williams, R. (1958), Culture and Society 1780-1950, New York, Harper and
Row, trad. it. di M. Grendi, Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra
1780-1950, Torino, Einaudi, 19722.
Wilson, E. (1946), «Books», in New Yorker, 13 aprile, p. 100.
Wilson, P. (1982), «Classical Poetry and the Eighteenth-Century Reader», in
I. Rivers (a cura di), Books and their Readers in Eighteenth-Century
England, Leicester, Leicester University Press.

418
Wiseman, T.P. (1985), Catullus and His World: A Reappraisal, Cambridge,
Cambridge University Press.
Wollstonecraft, M. (1975), A Vindication of the Rights of Woman, a cura di
M. Brody, London, Penguin, trad. it. di M. Gallone, Il manifesto femmini-
sta, Milano, Ed. Elle, 1977.
Woodmansee, M. (1984), «The Genius and the Copyright: Economic and
Legal Conditions of the Emergence of the ‘Author’», in Eighteenth-
Century Studies 14, pp. 425-448.
Wordsworth, W. (1974), The Prose Works of William Wordsworth, a cura di
W.J.B. Owen e J.W. Smyser, Oxford, Oxford University Press, vol. I.
The World of Translation (1971), New York, PEN American Center.
Wroth, T. (1620), The Destrvction of Troy, or The Acts of Æneas. Translated
ovt of the Second Booke of the Æneads of Virgill That peerelesse Prince
of Latine Poets. With the Latine Verse on the one side, and the English
Verse on the other, that the congruence of the translation with the
Originall may the better appeare. As also a Centurie of EPIGRAMS, and
a Motto vpon the Creede, thereunto annexed By Sr THOMAS WROTHE,
Knight, London, T. Dawson.
Zanzotto, A. (1975), Selected Poetry of Andrea Zanzotto, trad. ingl. e cura di
R. Feldman e B. Swann, Princeton, Princeton University Press.
Zuber, R. (1968), Les “Belles Infidelès” et la formation du goût classique:
Perrot d’Ablancourt et Guez de Balzac, Paris, Colin.
Zukofsky, L. (1991), Complete Short Poetry, Baltimore-London, Johns
Hopkins University Press.
Zukofsky, L. e Zukofsky, C. (1969), Catullus (Gai Catulli Veronensis Liber),
London, Cape Goliard Press; New York, Grossman.
Zwicker, S.N. (1984), Politics and Language in Dryden’s Poetry: The Arts of
Disguise, Princeton, Princeton University Press.

419
INDICE DEI NOMI

Academy of American Poets, 196 Baudelaire, C., 247-248


Adams, B., 294 Baudrillard, J., 26
Adams, R.M., 345 Beckett, S., 338
Adorno, T., 26 Belsey, C., 204
Agenda, 351 Beltrametti, F., 352, 353
Agostino, 26 Benjamin, W., 389
Allen, D., 320, 323 Berman, A., 44, 45, 143, 155-156
American Bible Society, 46 Bernart de Ventadorn, 330
American Booksellers Convention, Bernstein, C., 26, 27, 381-382
37 Bertamini, M., 359
Anderson, B., 142 Bertran de Born, 301, 303-306,
Anderson, D., 250, 252, 254, 256, 319, 324, 329, 331
258, 265, 313 Bettelheim, B., 50-56
Antonella, A., 38 Bevan, J., 352
Antonioni, M., 339 Binswanger, L., 370
Anvil Press Poetry, 352 Bioy Casares, A., 22
Apter, R., 289-290, 305 Blackburn, P., 11, 33, 34, 289-301,
Apuleio, 58 304-306, 309-346, 389
Ariosto, L., 116-117 Blanchot, M., 7, 11, 13, 370, 387-
Aristofane, 114-115, 118, 279 389
Arnold, M., 64, 142, 177-192, 195- Bligh, F.B., 193-194
198, 262 Bly, R., 350
Arrowsmith, W., 351, 361, 362 Bo, C.,8
Ashmore, J., 74 Boito, A., 242
Boito, C., 242
Bailey, J., 261-262 Böll, H., 22, 23
Bachtin, M., 109 Bollingen Prize for Poetry, 266
Balestrini, N., 352 Bonefonius, 134
Ballerini, L., 352, 353 Bontempelli, M., 243
Banks, T., 92 Borges, J.L., 338
Baridon, S., 8 Bottke, K., 292
Barnard, M., 274-276 Bowdler, T., 119
Barnes, D., 338 Boyars, Marion, 351
Barthelme, D., 340 Brandeis, I., 354
Bassnett, S., 65, 67 Bray, B., 23
Bates, E.S., 246 Brecht, B., 382

421
Brinsley, J., 76 Cervantes, 196
Brooke, S., 67 Chamisso, A., von, 214
Brooke-Rose, C., 340 Chapelle,J. de la, 120
Brower, R., 273 Chapman, G., 179, 181, 192, 197
Brown, T., 108 Char, R., 359
Browning, R., 189, 196 Carlo I, 75, 82, 84, 86-87, 90
Brownjohn, A., 286-287 Chaucer, G., 311
Bunting, B., 246-247, 249, 263, Christ, R., 30
265, 272 Ciardi, J., 326
Burns, R., 171, 187, 286 Cicerone, 103, 147
Burroughs, W., 338 Cixous, H., 205
Butor, M., 338 Claudiano, 359
Buzzati, D., 243 Cohen, J.M., 27, 57, 195-196
Byron, Lord, 138, 171, 217 Coleridge, S.T., 177
Columbia University Press, 32
Cagnone, N., 352, 353 Commager, S., 280
California, University of, Press, 325 Conquest, R., 286-287
Calvino, I., 22, 30, 243 Conte, G., 352
Camden, W., 82 Convenzione di Berna, 31
Campbell, G., 112-114 Coogan, D., 286-287
Campion, T., 120 Coover, R., 340
Camus, A., 22 Cornell University Press, 352
Capouya, E., 324-326 Cortázar, J., 33, 337-345
Carcanet, 352 Costa, C., 352, 353
Cardenal, P., 294 Coviello, M., 352
Carter, A., 340 Cowley, A., 79, 104
Castalio, S., 113 Cowper, W., 164, 169, 179
Catone, 282, 283 Creagh, P., 352
Catullo, 120-137, 139-140, 170, Creeley, R., 292, 315, 326
278-290, 349 Crusius, L., 121-122
Cavalcanti, G., 248-262, 266-270, Cucchi, M., 368
306 Cummings, E.E., 333
Cavendish, G., Duchessa del
Devonshire, 137 D’Ablancourt, N.P., 79-82
Cavendish, W., Duca del Daniel, A., 250, 258-260, 266-267,
Devonshire, 137 277, 290, 300, 311-312
Cecil, D., 139 Dante Alighieri, 148, 326, 354
Celan, P., 350, 359, 360, 383, 385 Davenport, G., 340
Celati, G., 22 Davie, D., 268-270, 277
Center for Inter-American Relations, Dawson, J., 150
339 De Angelis, M., 11, 349-50, 352,
Centro Internazionale Poesia della 359-360, 362-384
Metamorfosi, 381 Defoe, D., 165
Cercamon, 314 De Kock, C.-P., 210

422
Deleuze, G., e F. Guattari, 213, Ford, F.M., 293
347, 384-385 Fortini, F., 360, 370
Del Re, A., 260-261 Foster, Lady E., 137
Denham, Sir J., 74-77, 79-101, 103- Foucault, M., 69
104, 125, 140, 178, 272, 285 Fowler, H.W., 195
Dickens, C., 64, 165, 171, 189, Federico II, 148
216-217 Frere, J.H., 114-115, 117-119, 178
Dickinson, E., 269 Freud, S., 50-56
Diodoro, 58 Frost, F., 325
Di Piero, W.S., 352
Divers Press, 292 Gaddis, W., 338
Donne, J., 290 Galassi, J., 351
Douglas, G., 303, 311 Gall, S., 326
Dowson, E., 248 García Márquez, G., 22
Dryden, J., 11, 97-101, 104, 178, Gautier, T., 203, 242
197, 247, 272, 279, 285, 389 Geoffrey di Monmouth, 82
Dudek, L., 294 Giorgio III, 136
Dylan, B., 317 George, S., 388
Giacomo I, 77
Eagleton, T., 114, 183 Gilbert, S., 23
Easthope, A., 349 Gioia, D., 302, 351, 353-357, 381
East India Company, 136 Giuliani, A., 352, 357
Ecco Press, 351 Goethe, J.W. von, 11, 141, 146-
Economou, G., 325, 345 147, 299
Edwards, J., 267 Golden, S., 325
Eliot, T.S., 196,247-249, 256, 263, Goldin, F., 309
265, 290, 349, 350, 365 González Martínez, E., 273
Elton, C.A., 122 Gottsched, J.C., 148-149
Erckmann, E., e L.-A. Chatrian Gourmont, R. de, 266
203, 242 Gozzano, G., 351
Eschilo, 165 Grant, M., 59, 66-67
Euripide, 165 Grass, G., 30, 338
Everyman’s Library, 191 Graves, R., 56-63, 66-67, 391
Graywolf Press, 351
Fagles, R., 196-197 Grey, C., 137
Fanshawe, Sir R., 79, 82, 86, 97 Grozio, H., 147
Farina, S., 216-217 Grove, R., 98-99
Feldman, R., e B. Swann, 352 Grove Press, 338
Fell, C., 65 Guanda Editore, 350
Feltrinelli Editore, 358 Guarini, G., 86
Fiedler, L., 270, 323 Guernica Press, 353
Fiera di Francoforte, 37 Guglielmo III, 101
Fitts, D., 270-278, 312 Guilhem IX (Guillem de Poitou),
Fitzgerald, E.,196, 247 306, 313, 327, 332, 336

423
Guthrie, R., 103, 326-332 Kerrigan, E., 337
Guthrie, W., 103 Kratz, D., 29
Kristeva, J., 22, 23
Hafiz, 134-135 Kundera, M., 22
Hall, E., 170
Hamilton, A., 351 Lacan, J., 370, 376
Hamish Hamilton, 352 Laclos, C. de, 148
Harcourt Brace, 271 Lalli, G.B., 82
Harrison, T., 353 Lamb, Lady C., 138
Harvard University Press, 273 Lamb, G., 120, 123-134, 137-140
Hawkes, J., 338 Lamb, P., Visconte Melbourne, 138
Hawkins, Sir T., 77 Lamb, W., Lord Melbourne, 138
Hawtrey, E.C., 182 Landolfi, T., 243
Heidegger, M., 370-372, 381 Landon Award for Poetry
Heim, M.H., 23 Translation, 196
Herrick, R., 120, 286 Lane, H., 23
Heywood, T., 83 Lang, A., 262
Hill, H.C., 285 Latham, W., 78
Hoffmann, E.T.A., 203, 205, 214, Lattimore, R., 190
242 Laughlin, J., 272
Hohendahl, P.U., 153 Lecercle, J.-J., 280, 284
Hölderlin, F., 148, 388 Lefevere, A., 144, 147, 152, 155,
Holyday, B., 78 163-164
Honig, E., 28 Leibniz, G.W., 147
Hood, S., 24 Levin, I., 338
Horkeimer, M., 26 Levy, E., 308
Howard, H., Conte di Surrey, 85, Lewis, P., 49, 238, 240, 368, 374
87, 90-91, 269 Lockhart, J.G, 184
Hughes, K., 351 Loeb Classics, 246
Hutchinson, J., colonnello, 92 Longfellow, H.W., 165, 171, 182,
Hutchinson, L., 92 184
Lorca, F.G., 344
Jeanroy, A., 301 Lowell, R., 289, 349
Jonson, B., 76, 82, 120, 125, 131 Lucano, 107
Johnson, S., 285 Luciano, 108
Jowett, B., 179 Lucrezio, 134
Joyce, J., 293 Lumelli, A., 352
Lutero, M., 388
Kafka, F., 338, 385
Keats, J., 255 MacBride, J., 353
Kelly, R., 325 MacLow, J., 294
Kemeny, T., 353 McLuhan, M., 26
Kenner, H., 265, 267, 269, 294-296 Macmillan, 301, 324, 332, 333,
Kentucky, University Press of, 351 339, 345

424
Maginn, W., 181 Nida, E., 46, 47, 48, 163-164
Magrelli, V., 361 Nietzsche, F., 69, 370-372
Makin, P., 304 Nobel, Premio per la letteratura,
Malatesta, S.P., 304 353
Mandel, E., 26 Norton, W.W., 351
Mandelbaum, A., 352 Nott, J., 11, 120, 123-137, 140, 389
Manzoni, A., 202, 209, 213
Marcabru, 301, 307, 309, 311, 326, Oberlin College Press, 351
332, 333 O’Brien, F., 338
Maria Enrichetta, 77 Ogilby, J., 88, 90
Marlowe, C., 310 Ohio State University Press, 352
Marsh, P., 38 Olson, C., 315, 333
Martin, C., 279-280, 284-285 Omero, 107, 109, 120, 148, 164,
Martin, T., 173 169, 172, 175-182, 349
Marziale, 273-274 Orazio, 120, 165, 169-171, 173-
Maupassant, G. de 259-260 174
May, T., 107 Osmond, T.S., 195
Mayor, A.H., 262-263 Ossman, D., 300
Mazza, A., 351 Out of London Press, 353
Meleagro, 272 Ovidio, 97, 120, 170
Mellor, A., 230 Oxford Standard Authors, 191
Merwin, W.S., 289 Oxford University Press, 351
Michie, J., 286
Minerva Press, 352 Palma, M.,; e D. Gioia, 352, 381
Mitchell, T., 114-115, 118-119 Pannwitz, R., 201
Mondadori Editore, 350 Pantheon Books, 338
Montale, E., 350-362 Pasolini, P.P., 350
Montanus, A., 113 Pedro de Aragon, 292
Moore, N., 286-289 PEN American Center, 29
Morris, W., 64, 192-193, 195-196 Penguin Classics, 57, 62
Mosaic Press, 351 Penna, S., 351
Moseley, H., 74 Persio, 78
Munday, A., 83 Petrarca, 134
Murphy, A., 107 Phaer, T., 77
Mussolini, B., 266 Picasso, P., 344
Piccolo, L., 351
Napoleone Bonaparte, 150 Pindaro, 104
National Book Award, 339 Pirandello, L., 243
Nerval, G., 203 Platone, 79, 147-148
New Directions, 339, 351, 352 Poe, E.A., 203, 214, 242
Newman, F., 11, 142, 76, 77, 81, Poetry Society of America, 381
135, 164-177, 195-199, 389 Pope, A., 101-102, 108, 164, 169,
Niccolai, G., 352, 353 179, 197, 286
Nichols, J.G., 352 Porta, A., 352, 353, 358

425
Potoker, E.M., 23 Sarraute, N., 338
Potter, L., 87 Sartre, J.P., 381
Pound, E., 11, 63-68, 245, 248-279, Scalise, G., 352
289-315, 344, 389 Scarron, P., 81
Praga, E., 242 Scheler, M., 381
Preusker, K., 146 Schelling, F., 260
Princeton University Press, 352 Schiller, F., 146-147
Properzio, 134, 136, 170 Schlegel, A.W., 148, 152
Prynne, W., 83 Schlegel, F., 147, 148, 151
Pynchon, T., 338 Schleiermacher, F., 25, 26, 44, 45,
71, 141-142, 146-164, 166,
Quasimodo, S., 351 197-198
Quinn, Sister B., 292 Scott, Sir W., 6, 171, 176, 193-194,
305
Rabassa, G., 337, 339 Secundus Nicolaius, J., 134
Rabelais, F., 196 Sereni, V., 351
Raffel, B., 285-287, 290, 349 Shakespeare, W., 119, 139, 148,
Random House, 351 170, 217, 311
Ravensworth, Lord, 173 Shapiro, N., 21
Red Hill Press, 352, 353 Shelley, M.W., 214-240
Red Ozier Press, 352 Shelley, P.B., 171
Rexroth, K., 289, 381 Sheridan, F., 232-237
Richardson, S., 148 Sidney, Sir P., 311
Richelieu, Cardinale, 82 Sieburth, R., 387-388
Rider, H., 81 Sinclair, M., 262
Robbe-Grillet, A., 338 Sinfield, A., 62-63
Robinson, C., 26, 222 Singh, G., 351
Roscommon, Conte di, 73, 348 Sinisgalli, L., 351
Rose, W.S., 116-117 Skeat, W.W., 277
Rosenthal, M.L., 324-326 Smith, W.J., e D. Gioia, 353
Ross, A., 323 Society of Authors, 29
Rosselli, A., 352 Sofocle, 86, 148, 187, 279
Rossetti, D.G., 196, 251-258, 261, Sordello, 294
267, 270, 306 Sotheby, W., 169
Rousseau, J.-J., 212 Spatola, A., e P. Vangelisti, 352,
353
Saffo, 274-276 Southey, R., 184
Sagan, F., 22 Stallybrass, P., e A. White 107, 109
Said, E., 212, 390 Stapylton, R., 78, 79, 80
St. Jules, C., 137, 138 Sterne, L., 27
Sallustio, 106 Steuart, H., 106-107
Sandri, G., 353 Stevenson, R.L., 195
Sandys, G., 107 Stewart, S., 237
Sanguineti, E., 352, 357, 360 Stone, L., 137

426
Stowe, H.B., 218 Venuti, L., 347, 349,350, 362
Strabone, 211-212 Vicars, J., 88, 90-91
Strachey, J., 52-53 Vidal, P., 293, 297, 318
Svetonio, 56-63 Virgilio, 75-77, 79, 82, 95-96, 100,
Sun & Moon Press, 382 108, 120, 247
Super, R.H., 191 Viviani, C., 352
Svevo, I., 338 Von Hallberg, R., 323
Swann, B., e R. Feldman, 352 Voss, J.H., 148, 388
Swift, J., 123
Swinburne, A.C., 276 Wagstaff, C., 358
Symonds, J.A., 276 Walter, E., 120
Symons, A., 247-248 Ward, A., 146-148
Wase, C., 86
Tacito, 80, 107, 109, 147 Waterhouse, E., 83
Tarchetti, I.U., 11, 202-243 Way, A., 192
Tennyson, A. Lord, 64, 171, 252 Whicher, G., 269, 270
Thackeray, W.M., 165 Whigham, P., 285
Thompson, W.H., 179 White, A., e P. Stallybrass, 107, 109
Todorov, T., 205 Whitman, W., 269
Tottel, R., 90 Wilde, O., 248
Townshend, A., 86 Willey, B., 195
Trask, W., 28, 29 Williams, W.C., 300, 315, 320, 333
Tsvetajeva, M., 350 Wilson, P., 23, 102-103
Tyson, A., 52 Wollstonecraft, M.,: 221, 223-224,
Tytler, A.F., Lord Woodhouselee, 228-229, 235, 237
101, 104-114, 178, 183, 285, Woodmansee, M., 218
316, 348 Wordsworth, W., 349, 365
Wright, C., 351
Ungaretti, G., 351 Wroth, Sir T., 78, 85, 87, 90
Updike, J., 30 Wyatt, Sir T., 134, 258, 269

Vangelisti, P., e A. Spatola, 352, Zanzotto, A., 352


353 Zukofsky, C. e L., 11, 278-290,
Vargas Llosa, M., 22 349, 389, 391
Vennewitz, L., 23 Zwicker, S., 101

427

Potrebbero piacerti anche