Sei sulla pagina 1di 98

Propedeutica

La filologia

Il termine filologia compare per la prima volta in Platone col significato di «amore del discorso», «amore per
il ragionamento e la discussione», più estensivamente «amore per la cultura».

La rivoluzione linguistica, estetica e antropologica del Novecento ci ha insegnato che il mondo fenomenico
non sarebbe che un oggetto per un soggetto conoscente e non esisterebbe se non per il soggetto conoscente
che lo «intenziona» nella sua coscienza.

Quel per è il ponte tra l’Io e il mondo, è l’insieme dei linguaggi, il «discorso del mondo»: il senso del mondo
è il nostro discorso del mondo e il «discorso del mondo» è possibile solo attraverso i linguaggi.

Tra tutti i linguaggi la LINGUA è il codice che veicola tutti i codici. Quindi, il «discorso del mondo» è possibile
innanzitutto attraverso una lingua.

Se, dunque, in principio è la parola (ossia la lingua), e se la lingua genera il testo, allora la mediazione tra
l’uomo e il mondo avviene tramite il TESTO. Tra tutti i testi il letterario è quello a più alta densità
comunicativa, risultato di un’alta elaborazione del codice.

Si può altresì affermare che soprattutto attraverso i linguaggi dell’arte un popolo effettui la transizione
modellizzante e simbolica dal piano della natura a quello della cultura (e che ogni cultura tenda a sua volta a
pensare e a descrivere se stessa in un certo modo, ossia a costruire un «automodello»).

Il rapporto dell’Io col mondo è mediato dai linguaggi ed è caratterizzato dall’interpretazione.

Qui si ritrova il fondamento epistemologico e la stessa ragion d’essere della FILOLOGIA, in quanto
ricostruzione e interpretazione dei TESTI, studio della loro tradizione. Il compito del filologo è stabilire la
verità del testo (esprimente cioè la volontà dell’autore) attraverso l’individuazione ed emendazione degli
errori legati alla sua trasmissione nel tempo e nello spazio. Verità del testo che può aiutare a comprendere
la verità delle cose.

Critica del testo e metodo ecdotico

La filologia è stata – a seconda dei tempi, dei luoghi e delle situazioni – variamente intesa e concepita sia
come insieme degli studi letterari ed eruditi sia come scienza che studia l’origine e la struttura di una lingua,
oppure come studio storico, oppure come complesso degli studi fondati sull’esame critico di fonti, documenti
e testimonianze al fine di fornire un’esatta interpretazione di vari fenomeni (storici, artistici, filosofici,
musicali ecc.). In senso lato è stata da taluni più estensivamente intesa come studio di un’intera civiltà.

Col termine FILOLOGIA designeremo, stricto sensu, quella composita e variegata area disciplinare (o
multidisciplinare) che, mediante l’analisi linguistica e la critica del testo, si propone di RICOSTRUIRE e
INTERPRETARE, con metodo rigoroso e scientifico, i testi letterari scritti e la loro trasmissione nel tempo e
nello spazio.

La CRITICA DEL TESTO è l’esercizio stesso del metodo filologico ed ecdotico, pensato come insieme dei mezzi
che servono a ricostituire il testo originale attraverso l’individuazione ed emendazione di errori legati alla
riproduzione dei testi.

L’edizione critica

L’EDIZIONE CRITICA è la pubblicazione a stampa di un’opera letteraria presentata quale risultato di un


rigoroso lavoro di ricerca, raccolta e comparazione dei testimoni e delle fonti (manoscritte e a stampa), di
ricostruzione congetturale e induttiva del testo nella sua forma originaria (quando non è conservato alcun
originale) o di restituzione critica dell’originale (quando questo è conservato in una o più redazioni), grazie
alla scelta delle varianti interne al testo e intercorrenti tra testimoni, all’individuazione ed emendazione delle
interpolazioni e degli errori (o innovazioni) trasmessi dalla tradizione.

L’edizione critica si caratterizza, perciò, non solo per la fissazione del testo originale, ma anche per
l’esplicitazione del percorso ecdotico che ha condotto il filologo a tale restituzione. Il curatore (o editore
critico) rende edotto il lettore, infatti, del lavoro compiuto, del metodo seguito e dei criteri adottati durante
l’approntamento dell’edizione.

 l’apparato filologico (o critico),


 la nota al testo,
 l’introduzione,
 le note esplicative e di commento,
 l’appendice,
 la bibliografia

Al testo restaurato e fissato (TESTO CRITICO) si deve aggiungere, dunque, l’APPARATO FILOLOGICO, che ha
l’importante funzione di documentare lo stato della tradizione sia di copia (APPARATO SINCRONICO) che
d’autore (APPARATO DIACRONICO).

Lanfranco Caretti definì diacronico l’apparato nel quale sono allogate le varianti d’autore, sincronico quello
in cui trovano invece accoglienza le varianti di tradizione, innovazioni dei vari copisti portate dalla tradizione
del testo.

La NOTA AL TESTO rappresenta in sintesi la memoria storica dell’edizione, perché raccoglie in modo
essenziale e schematico molte delle informazioni e delle spiegazioni relative alla tradizione diretta e indiretta
del testo (raccolta, luogo di conservazione, talvolta descrizione e storia dei testimoni) alle più importanti
questioni filologiche e linguistiche incontrate e affrontate dall’editore in sede di allestimento e le scelte
metodologiche.

L’INTRODUZIONE è il saggio iniziale del volume (anche se in realtà si caratterizza per essere il momento
conclusivo di un articolato lavoro di analisi) e rappresenta la sezione nella quale l’editore espone e commenta
diffusamente e approfonditamente i contenuti ecdotici, esegetici ed ermeneutici dell’edizione, calando nelle
giuste coordinate, storiche e culturali, letterarie e linguistiche, l’opera restituita e indagata, illustrando i
risultati raggiunti.

La BIBLIOGRAFIA è l'elenco più o meno ragionato delle pubblicazioni utilizzate e citate per la e nella stesura
dell’edizione. In alcune edizioni può capitare di trovare, oltre alle menzionate, altre sezioni che aiutano a
offrire al lettore il quadro informativo ed argomentativo più completo.

Queste unità, non obbligatorie, sono: le NOTE ESPLICATIVE e di COMMENTO storico, linguistico, filologico e
letterario, l’APPENDICE, parte aggiunta, accessoria e integrante, collocata in cauda per spiegare meglio
tematiche, riflessioni e lezioni non completamente esplicitate nel testo, oppure per accogliere, in un ulteriore
apparato critico (in questo caso diacronico).

L’edizione critica, in quanto scientifica, spesso sancisce e rappresenta – per la sua alta affidabilità costitutiva
– l’ufficialità del testo restituito e per autorevolezza non di rado diventa la fonte, il modello testuale da
riprodurre, per tutte le altre edizioni, determinando di fatto la vulgata editio, l’edizione divulgata, il testo
fissato e adottato.

Le altre edizioni

FACSIMILARE consiste nella fedele duplicazione di un codice tramite fotografia, microfilm o microfiches
(mentre per la riproduzione meccanica dei testi a stampa si preferisce parlare di edizione ANASTATICA).
La DIPLOMATICA è, invece, l’edizione che, con mezzi tipografici, ripropone le peculiarità del testo
manoscritto secondo criteri rigorosamente descrittivi, di alta fedeltà, restituendo l’esatta configurazione e
forma attestata del codice.

L’EDIZIONE INTERPRETATIVA propone al lettore alcuni adattamenti e modernizzazioni grafiche per rendere
il testo più comprensibile. Il curatore, facendo appunto opera di interpretazione, separa le parole, introduce
i sintagmi di legamento, gli accenti e gli apostrofi, scioglie le abbreviazioni, se necessario normalizza
l’ortografia, distingue la u e la v, regolarizza l’uso delle maiuscole e delle minuscole, uniforma alcune grafie (i
e j), segnala a testo con segni diacritici (parentesi tonde, quadre, aguzze) eventuali lacune, integrazioni e
cancellature, correda il tutto di note esplicative e di commento.

L’edizione ANASTATICA consiste invece nella fedele e inalterata riproduzione tipografica di antiche e
importanti edizioni a stampa.

Ricostruzione e interpretazione del testo letterario

La FILOLOGIA mira alla ricostruzione e alla corretta interpretazione dei testi e dei documenti linguistici scritti
(nel nostro caso letterari), antichi e moderni.

ll FILOLOGO è, dunque, colui che studia la loro trasmissione e la loro tradizione per riportarli – attraverso
l’individuazione e l’emendazione degli errori – alla lezione autentica, per spiegarli, discuterli e, appunto,
interpretarli.

Fra i vari compiti della filologia ricordiamo:

1. stabilire il testo più sicuro e autentico possibile al fine di risalire a quello archetipo o iniziale;
2. identificare il corredo eventuale di varianti del testo e studiarle dall’interno per motivare le
preferenze;
3. considerare la tradizione testuale come veicolo attivo e caratterizzante per la definizione di un testo;
analizzare la vita di un’opera, la sua fortuna, i modi di trascrizione e di circolazione, l’accoglienza da
parte del pubblico, le reazioni che essa ha determinato e via dicendo;
4. procedere a una valutazione globale del testo, nella sua realtà complessa (culturale, storica,
psicologica, formale), in un’ottica necessariamente interdisciplinare.

Declaratoria della disciplina

Il macro settore scientifico-disciplinare della LINGUISTICA E DELLA FILOLOGIA ITALIANA si interessa da un lato
all’attività scientifica e didattico-formativa nel campo degli studi di filologia della letteratura italiana,
dall’altro all’attività scientifica e didattico-formativa nel campo degli studi sulla lingua italiana e sui dialetti
parlati in Italia.

Col De Sanctis si è soliti far cominciare la storia della critica contemporanea. Nel suo pensiero confluiscono i
motivi più significativi della cultura romantica, proprio in un periodo in cui lo storicismo idealistico stava
lasciando il passo alla ricerca filologico-erudita, del cui influsso risentirà in modo particolare il Carducci.

La sua Storia della letteratura italiana nasce con l’intento di fornire alla nazione, che si avvia a divenire Stato,
il segno di una identità necessaria per saldare in un blocco unico il policentrismo di piccoli stati e di relative
letterature che le lotte risorgimentali hanno finalmente unificato.

Il critico campano è contrastato dal positivismo e soltanto con Croce avrà inizio quella rivalutazione che,
attraverso Gramsci, troverà importanti sviluppi nella critica di ispirazione marxista.

Molte delle storie letterarie novecentesche per lungo tempo hanno ricalcato lo stesso schema storiografico,
un modello ottocentesco, nato in un particolare contesto storico di superamento degli stati regionali, che
proponeva – secondo criteri toscano-centrici e dinamiche centripete – un’idea astratta, monolitica,
falsamente unitaria della produzione testuale e letteraria degli italiani.

Il criterio di inclusione ed esclusione si fondava, infatti, sul toscano letterario scritto senza considerare il
rapporto tra oralità e scrittura, come se gli italiani avessero parlato e scritto per secoli la stessa lingua e
avessero da sempre prodotto una testualità omogenea nello spazio e nel tempo per modalità di trasmissione,
codici, convenzioni e generi utilizzati e per destinatari coinvolti.

A differenza di quanto era accaduto per altre grandi lingue di cultura, la fisionomia dell’italiano era stata
determinata soprattutto dallo stretto legame con la tradizione letteraria di matrice toscana, per altro avviata,
soprattutto a partire dalla proposta normativa del Bembo, sui binari della compattezza e dell’arcaismo
classico. Una tradizione che si era dimostrata lontana dalla lingua d’uso quotidiano, riccamente
rappresentata dai dialetti parlati nelle varie regioni. Un tale scarto avrebbe provocato col tempo il declino
della stessa lingua italiana, appresa, come una lingua straniera, in modo libresco, attraverso lo studio delle
grammatiche, dei vocabolari e delle opere dei classici e sentita, parafrasando Isella, «estranea e inamabile».

Da una parte, quindi, un’élite di intellettuali, scrittori e poeti proiettati verso un modello alto e sublime
informato in poesia sul monolinguismo petrarchesco e in prosa sul ‘bello stilo’ boccacciano, dall’altra i tanti
parlari e parlanti italici con i numerosi autori, cosiddetti periferici, esclusi da quella minoranza di eletti del
Parnaso, non disposti ad adeguarsi a un sistema linguistico allotrio. Si era attivata cioè una dinamica
centripeta, che più che a includere tendeva a escludere dal diritto di cittadinanza.

Ciò spiega, per converso, perché nel Cinquecento, accanto alla codificazione di una lingua letteraria italiana
si fosse consolidata, contestualmente, una prestigiosa e solidissima produzione poetica, narrativa e
soprattutto teatrale in dialetto.

Una produzione di testi ricca e, non infrequentemente, di alto valore estetico – con propri canali, propri
codici, proprio pubblico, e una circolazione orale e scritta diffusa più scritta che parlata; e tra le scritte, la
meno rinsanguata dal parlato, la più costante nel tempo quasi una lingua di cerchie ristrette di persone
socialmente privilegiate; «lingua di cultura», non «lingua di natura» per la totalità di una nazione (salvo la
Toscana). Ancora nel secondo Ottocento, a unificazione politica avvenuta, un piemontese, un lombardo, un
siciliano continuano a esperimentare la drammatica scelta tra dialettale e libresco.

Il che permetterebbe di scrivere, con tutta legittimità, una storia della lingua letteraria italiana prendendo a
principio direttivo le difficoltà di adattamento degli scrittori periferici a calarsi in un sistema linguistico
espressivo ad essi naturalmente estraneo.

In letteratura la linea seguita dal Manzoni andò affermandosi incontrastata per quasi tutta la parte centrale
del secolo sul fronte del monolinguismo letterario.

Dalla seconda metà dell’Ottocento sino a buona parte del Novecento l’architettura regionale endemica torna
ad emergere vistosamente; a tutto ciò si deve aggiungere il fatto che in Italia, per molti decenni, nella critica
letteraria il mainstream filosofico è stato ideal-crociano.

L’arte, per Croce, è intuizione pura, produzione spirituale di un’immagine animata dal sentimento distinta
dalla conoscenza razionale-filosofica e non riducibile a un fatto pratico-utilitaristico o a un valore morale.

Parte da qui il rifiuto di ogni analisi degli aspetti tecnici e retorici, di tutto ciò che riguarda la struttura
dell’opera, delle caratteristiche della società o delle vicende della vita del poeta. Il poeta è nient’altro che la
sua poesia.

A partire dal secondo dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta la cultura italiana fu, nel bene e
nel male, egemonizzata dal pensiero crociano, nel campo della letteratura della critica musicale, d’arte e
cinematografica, della storiografia.
riflessione di Carlo Dionisotti, che nel 1951 con Geografia e storia della letteratura italiana ripensa in
prospettiva diacronica e diatopica la produzione testuale dello stivale letterario, per il recupero di autori fino
ad allora considerati a torto minori e periferici (anche dialettali), sottolineando il carattere policentrico del
nostro Paese e ponendosi così in aperta polemica rispetto alle idee unitarie proposte da De Sanctis.

Oggi, sappiamo bene che, a partire dal Corso di linguistica generale di Saussure (peraltro tradotto in Italia
da De Mauro solo alla fine degli anni Sessanta, in ritardo rispetto ad altri paese europei), si poterono precisare
meglio nel Novecento i concetti di natura, funzione e ruolo della comunicazione letteraria. Il concetto stesso
di langue aprì alla rivalutazione della comunicazione orale del testo e alle sue e modalità di trasmissione
(bocca-orecchio), legittimando tutte le culture minoritarie (come quella sarda).

Il segno letterario non può, infatti, prescindere dal suo sostrato, che è il codice linguistico. Tutto ciò permise,
inoltre, di rivalutare tutte le lingue naturali e di studiare con maggiore competenza le lingue e le letterature
delle minoranze post-coloniali di area ispanofona, anglofona e francofona. La rivoluzione culturale
novecentesca ha inevitabilmente messo in crisi, l’idea stessa di letteratura nazionale monolitica e
monolingue.

Oggi non ha più senso parlare di letteratura italiana, quanto semmai di comunicazione letteraria degli
italiani, ossia di sistemi letterari policentrici la cui identità si è storicamente e geograficamente affermata
grazie al contributo di più lingue e di più culture.

Si parla di storia e geografia della comunicazione letteraria studio cioè della produzione ma anche della
circolazione e della ricezione dei testi – intesi e studiati prima di tutto per la loro natura linguistica – in uno
spazio storicamente circoscritto e in situazioni complesse di plurilinguismo e di pluriculturalismo.

La questione della lingua e delle lingue degli italiani

Nessuna nazione dell’Europa è stata attraversata, come l’Italia, da un’eterna questione della lingua.

La penisola italiana, a differenza delle altre nazioni, non ha mai avuto un centro culturale veramente
predominante, come per esempio Parigi in Francia. Ma soprattutto che, a partire dall’invasione longobarda
per arrivare al 1861, l’Italia è esistita, per circa 1200 anni, solamente come un’espressione geografica. Gli
stati regionali italiani, infatti – che si erano formati sulle ceneri di signorie e principati proprio quando le
grandi monarchie feudali compivano, a prezzo di guerre sanguinose, la formazione dei primi grandi stati
nazionali – dopo quasi cinque secoli di lotte, ostilità e divisioni giunsero all’unità politica e territoriale solo
nel XIX secolo.

Una unità che non si conosceva, nella forma particolare in cui si era realizzata nell’ambito dell’impero
romano, proprio dall’età gotico-giustinianea, prima che si infrangesse definitivamente dinanzi all’avanzata
dei modesti eserciti longobardi. Non avendo avuto mai un centro culturale che dettasse legge, la penisola
italiana nella sua diversità e nel suo policentrismo, ha avuto, però, il privilegio di poter contare sempre su
uomini di grandissima intelligenza ed immensa cultura, che, a loro volta, sono stati il prodotto di una civiltà
storica.

Quando sul grande ceppo latino, tra i secoli IX e XII d. C., sorsero le lingue romanze o neolatine, l’Italia tra i
secoli XII, XIII e XV subito si distinse dando vita ad una civiltà che non aveva l’eguale in Europa.

Volgari, dialetti e lingue nazionali

Una lingua nazionale è, di norma, un antico dialetto parlato in un'area geograficamente ristretta che è
riuscito a imporsi su altri dialetti.
Dalla frammentazione linguistica seguita al crollo dell'Impero romano nacque, nell'Europa neolatina, una
serie di parlate locali, che si è soliti chiamare “volgari". Quando - secoli più tardi - presero a formarsi gli stati
nazionali, accadde che uno di questi volgari - quasi sempre quello parlato nella città più importante -
prevalse sugli altri, diventando la lingua di quel paese.

Così è stato in Francia, Portogallo e Spagna.

In Italia, questa sorte è toccata, in séguito a un processo molto meno lineare, al volgare di Firenze. L'italiano
che oggi parliamo e scriviamo è, nella sua struttura grammaticale, il fiorentino letterario del Trecento. Dalla
metà del Cinquecento, questa varietà di fiorentino si affermò come lingua letteraria comune ai diversi stati
italiani. Da quel momento le altre parlate locali, pure usate fino ad allora anche in testi ufficiali e letterari,
cominciarono a essere retrocesse al rango di dialetti.

La distinzione tra "dialetto" e "lingua" consiste soltanto nella più limitata diffusione del dialetto, nella sua
ridotta importanza politica e nel suo minore prestigio sociale.

Capitale politica e capitale linguistica

Altre grandi lingue europee, dunque, come il francese, lo spagnolo, l'inglese, si sono modellate sulla lingua
della capitale politica e amministrativa. In Germania, l'affermazione del tedesco moderno si deve alla riforma
di Lutero che, traducendo la Bibbia, promosse una particolare varietà linguistica a lingua della società civile.

Nulla del genere per l'Italia. La lingua che oggi adoperiamo in ufficio, in autobus, nei negozi, nelle conferenze
è, come detto, il dialetto fiorentino trecentesco, con le inevitabili modificazioni (massime nel lessico, minime
nella fonetica).

Ma Firenze non è stato mai un centro politico con ambizioni superregionali; e la religione si è espressa fino
ad anni recenti o nel latino liturgico, ovvero nell'italiano più o meno intriso di dialetto che il prete adoperava
nei contatti con i fedeli e anche nella predicazione. La ragione è un'altra: Firenze è stata la città che ha dato
vita a una grande letteratura, presto diffusa ed emulata altrove, l'eccellenza dei grandi scrittori fiorentini.

Dante, autore della Comedìa può essere considerato il capostipite di una tradizione linguistica e letteraria
che costituisce oggi, a distanza di secoli, uno dei patrimoni culturali più ricchi del mondo.

Il contingente lessicale dell’italiano

Col passare del tempo, il numero delle parole presenti in italiano e la varietà dei loro significati tendono ad
accrescersi. Il contatto con altre lingue, la scoperta di nuovi oggetti, la messa a fuoco di nuovi concetti fanno
sì che vengano usate nuove parole o che le vecchie parole assumano nuovi significati.

La lingua italiana odierna è, dunque, il risultato di un processo di formazione che si è protratto per secoli.
Le parole che usiamo quotidianamente per farci capire sono circa diecimila e costituiscono una parte molto
piccola, ma importantissima, del vocabolario italiano. La maggior parte di questo vocabolario "di base"
dell'italiano risulta attestato già dal XIII e dal XIV secolo.

Molti altri vocaboli, però, sono entrati nell'uso successivamente: depositati sul solido fondo preesistente,
Sono voci cólte, prelevate dal latino e dal greco parole provenienti da altre lingue europee o da lingue
esotiche come l'arabo; nuove parole formate a partire da vocaboli italiani già in uso.

Fino al raggiungimento dell'unità politica (1861), la lingua italiana sia stata appresa quasi come una lingua
straniera: attraverso lo studio delle grammatiche, dei vocabolari e delle opere dei classici.

Il modello toscano

Impostosi essenzialmente come lingua della letteratura grazie al prestigio di Dante, Petrarca o Boccaccio,
quello che oggi è l'italiano costituì per secoli - fuori di Toscana- una lingua distinta da quella parlata.
Nel Cinquecento, il fiorentino trecentesco si affermò come lingua letteraria comune; ma appropriarsi delle
sue norme richiedeva - a chi avesse voluto servirsene - un continuo esercizio.

Con Dante, il vero e grande padre della lingua italiana, il quale aveva saputo dare al plurilinguismo un’unità
linguistica di altissimo livello, basata sul fiorentino, cominciò, dunque, in Italia la questione della lingua.

Nel De vulgari eloquentia (1304) fissò le regole dell'uso letterario del volgare: la questione si poneva per lui
nella creazione, mediante raffinamento, di una lingua 'illustre', 'cardinale', 'aulica' e 'curiale’.

Dante tuttavia vedeva nella frammentazione politica d'Italia un ostacolo insormontabile alla creazione di
questa lingua. Petrarca ne continuò l’opera, arrivando, però, a rivedere il plurilinguismo dantesco per
giungere ad un raffinatissimo monolinguismo. Liberò la lingua poetica dantesca da tutti i suoni realistici e
duri per arrivare ad una dolcezza melodica raffinatissima.

L’egemonia del latino

Il XV secolo fu il secolo dell’Umanesimo.

I grandi scrittori del Quattrocento cominciarono a sentire, così, il disagio di scrivere senza essere letti, se non
dagli addetti ai lavori. Cominciarono essi, in qualche modo, ad ammettere nella loro scrittura qualche parola
del linguaggio usato dal popolo.

Fino al Cinquecento e oltre, il latino fu - in Italia e in Europa - non solo la lingua della religione, ma anche la
lingua della comunicazione in tutti gli àmbiti della cultura alta (diritto, medicina, scienze, filosofia). Parole
latine - spesso attraverso la mediazione di una lingua moderna - hanno continuato per secoli ad arricchire il
vocabolario intellettuale, oltre che delle lingue romanze, anche delle altre grandi lingue di cultura occidentali
che non derivano dal latino (come l'inglese o il tedesco).

La familiarità degli italiani con il latino si deve anche alla tradizione scolastica: fino al pieno Settecento era
questa l'unica lingua insegnata (e quella in cui si svolgeva l'insegnamento) anche nelle scuole primarie.

La rivoluzione dei canali: “la galassia Gutenberg”

Dall’VIII secolo nell’Asia orientale si ha notizia delle prime possibilità di riprodurre testi mediante xilografia.

In Europa solo l’invenzione di Gutenberg, la stampa, diede l’inedita possibilità di diffondere testi comparabili
per bellezza all’arte dei manoscritti e, nello stesso tempo, in una quantità di copie fino allora sconosciuta.

Le prime testimonianze di stampa datate furono del 1454 e del febbraio del 1455.

Da questo momento in poi testi di qualsiasi natura poterono essere pubblicati in modo più veloce ed
economico e in maggiore quantità. Le possibilità della nuova stampa libraria favorirono in Europa i processi
culturali e lo sviluppo delle università nel XV e XVI secolo (con un contributo decisivo all’alfabetizzazione e
alla crescita quantitativa e qualitativa del pubblico dei lettori), promuovendo la diffusione delle idee
dell’Umanesimo rinascimentale e creando nel contempo le premesse per la riforma della Chiesa e la
divulgazione dei contenuti dottrinari nella lingua del popolo.

Si aprì una nuova epoca dello sviluppo della comunicazione umana.

La questione della lingua nel Cinquecento


Dopo il ritorno al latino promosso dall'Umanesimo, il problema tornò di attualità tra la fine del Quattrocento
e il Cinquecento. Si fronteggiarono allora tre correnti principali: la «cortigiana», la «fiorentina», la «classica»
o «arcaizzante».

La corrente «cortigiana» che trovò i maggiori sostenitori in Vincenzo Colli, Baldassarre Castiglione e Gian
Giorgio Trissino, si ispirava a un ideale di lingua eclettico, come l'idioma usato nelle corti italiane dell'epoca,
nel quale, su una base genericamente toscana, si inserivano parole e costrutti mutuati da altre parlate italiane
o di altri paesi (soprattutto il provenzale), purché raffinati e 'aventi qualche grazia nella pronuncia'.

La corrente «fiorentina» sostenuta fra gli altri da Niccolò Machiavelli, Pierfrancesco Giambullari e Benedetto
Varchi, proponeva l'adozione del fiorentino come era parlato all'epoca.

La proposta del Bembo, la corrente arcaizzante, che nelle Prose della volgar lingua (1525) si oppose
all'ipotesi di fondare l'italiano sull'uso linguistico comune delle corti rinascimentali, la cosiddetta 'lingua
cortigiana', perché non si può, affermava, considerare vera lingua letteraria una parlata che non sia nobilitata
dall'opera di grandi scrittori. Per lo stesso motivo si dichiarò contrario all'adozione del fiorentino parlato,
perché non era lingua abbastanza elaborata. Propose dunque l'adozione della lingua fiorentina del Trecento,
in particolare quella di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa; Dante non venne considerato
sufficientemente esemplare, perché aveva accolto nella Divina Commedia voci provenienti da dialetti o
lingue diverse. La proposta del Bembo fu accolta immediatamente dai più illustri letterati dell'epoca:
Ludovico Ariosto (che apportò correzioni all’Orlando Furioso).

L'opera di Bembo ebbe immediata risonanza e decretò il successo della corrente arcaizzante, che divenne
preponderante dalla metà del secolo grazie anche all'opera di Leonardo Salviati e alla fondazione
dell'Accademia della Crusca.

Lo scarto tra la lingua letteraria e la lingua d’uso

La lingua letteraria italiana si avviò dunque sui binari dell'arcaismo e del preziosismo, staccandosi dalla
lingua d'uso quotidiano, per il quale si continuarono a utilizzare i dialetti.

A questo punto, infatti, si aprì uno iato incolmabile tra la lingua letteraria italiana e i molteplici registri
regionali parlati dalle masse popolari delle varie regioni italiane. Per alcuni ciò determinò il declino della
lingua italiana, che si potrarrà per tutti i secoli della sua storia; da una parte uomini di grande, sublime e
raffinata cultura, e dall’altra una massa di popolo delle varie regioni italiane, che parlavano altre lingue e che
non sapevano leggere e capire quel pugno di uomini addottrinati.

Veniva penalizzato Dante, perché la sua lingua - composita e variegata - non possedeva quei caratteri di
compattezza e di classicità ricercati dal Bembo.

Ciò spiega, inoltre, che proprio all’inizio del Cinquecento, insieme con la lingua letteraria, comincia a farsi
largo la creazione artistica in dialetto.

Monti, Cesari e i puristi

Come si vede, a cominciare dal Cinquecento, la letteratura italiana si sviluppa percorrendo due strade: quella
della lingua italiana letteraria di matrice toscana e quella delle lingue dialettali di non meno alto livello. Non
mancarono, come accennato, voci contrarie; in particolare durante l'Illuminismo si criticò l'eccessiva
astrattezza e complicazione della lingua, proponendo come modello la chiarezza del francese.

Si ricorda fra tutti il poeta arcade-illuminista Vincenzo Monti che si mise in polemica col Cesari e i puristi, e
compose la famosa Proposta di alcune correzioni, ed aggiunte al Vocabolario della Crusca.

Il Monti in Italia fu il primo a difendere la lingua dell’uso, vale a dire che non ci debba essere differenza tra la
lingua che si parla e quella che si scrive.
Alessandro Manzoni

Fu, però, all’inizio del secolo XIX che si accese la polemica tra i seguaci del Classicismo e i seguaci del
Romanticismo. Vinsero i romantici con a capo Alessandro Manzoni.

Quale lingua usò nell’edizione de I Promessi Sposi del 1840 il grande romanziere?

Egli esordì sotto l’influenza del Monti.

I componimenti giovanili, furono da lui scritti con un linguaggio classicheggiante.

L’edizione de I Promessi Sposi del 1827, dunque, risente della sua educazione linguistica. Diversa è, invece,
la lingua dell’edizione de I Promessi Sposi del 1840.

La ragione fu soprattutto politica. L’Italia si avviava al Risorgimento politico nazionale.

Il poeta, come patriotta e, nonostante fosse un cattolico, non seguì la posizione della Chiesa, la quale si
opponeva all’indipendenza e all’unità politica dell’Italia. Era convinto che fosse necessario che tutti gli italiani
parlassero la stessa lingua. Il popolo, come detto, parlava il dialetto e l’italiano lo parlavano solo pochi
letterati. Ecco perchè, diceva il nostro Lombardo, bisognava inventare una lingua italiana, la quale potesse
essere intesa da tutte le genti italiche.

Di qua la sua scelta di “sciacquare i panni nell’Arno”, vale a dire di correggere la lingua de I Promessi Sposi
del 1827, adattandola alla lingua fiorentina parlata dalla media borghesia ottocentesca, perché, solo a Firenze
il popolo e la borghesia avevano parlato sempre l’italiano. Ma il problema della creazione unitaria della lingua
italiana era molto più complesso di quanto ritenesse il Manzoni.

Far parlare ad un veneto o ad un siciliano o ad un pugliese o a un lucano o a un sardo la lingua che si parlava
a Firenze era lo stesso che gli si volesse far parlare l’inglese o il francese o il tedesco o la lingua che parlavano
i letterati colti italiani.

Graziadio Isaia Ascoli

Chi cercò di avviare a soluzione, su una base realistica e scientifica, la questione della lingua in Italia fu il
glottologo Graziadio Isaia Ascoli, grande studioso di lingue sanscritiche.

Egli sosteneva che nessuna lingua può avere una vera base se non si fonda su ciò che essa è stata capace di
creare nei secoli per via della scrittura. Perciò, secondo lui, la lingua unitaria italiana doveva avere per
fondamento, la scrittura che tutti gli scrittori italiani, in qualunque regione fossero nati e avessero operato,
avevano lasciato ai posteri. Quindi era un falso problema quello di dire che la lingua italiana dovesse essere
popolare e colta perché non poteva essere che quella che gli scrittori italiani avevano creata lungo i secoli.

Egli giunse alla conclusione che l’unità linguistica potesse derivare solamente dal generale innalzamento
culturale degli italiani.

L’italiano e la norma

Questa impostazione basata sui modelli letterari dominerà la nostra tradizione grammaticale fino agli inizi
del Novecento. Solo nel secondo dopoguerra si affermerà una posizione diversa, più attenta all'uso, meno
rigida nel fissare i confini tra norma ed errore. La norma, infatti, non è statica, ma è la risultante di forze
contrastanti: da una parte i fattori di evoluzione e innovazione linguistica (per esempio il parlato), dall'altra i
fattori di stabilizzazione e appunto di normatività: la scuola, le grammatiche, i dizionari, i modelli scritti.

I dizionari
Accanto alle grammatiche e ai testi letterari, anche i dizionari hanno rappresentato uno strumento
indispensabile per la formazione dell'italiano.

Ricordiamo il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), fondato essenzialmente sul fiorentino del
Trecento.

Tra Sette e Ottocento, la porzione del lessico italiano accolta nei vocabolari si amplia moltissimo ed entrano
in grande quantità parole fino a quel momento escluse, come quelle tecniche, legate alle scienze e ai mestieri.

Così ai dizionari generali si sono affiancati, nel tempo, dizionari dei sinonimi, raccolte di neologismi e di
tecnicismi, dizionari etimologici.

L’italiano parlato

«La lingua italiana non è stata mai parlata ... è lingua scritta, e non altro», scriveva Ugo Foscolo nel 1826. In
effetti, fu proprio per soddisfare le esigenze degli scrittori, in cerca di uno strumento espressivo comune, che
nel 1525 Pietro Bembo propose come modello il fiorentino letterario trecentesco. La sua proposta era
destinata ad affermarsi abbastanza rapidamente, ma solo nella lingua scritta.

Ancora per quattro secoli, la situazione linguistica dell'Italia sarebbe stata caratterizzata da una netta
separazione fra i due campi: si scriveva in italiano, ma si parlava in dialetto.

Verso la sofferta unità

Il 2 ottobre 1870 si svolse nel Lazio il plebiscito per l’annessione al regno d’Italia.

Qualche mese dopo, il 23 dicembre, a Firenze, la Camera approvò la legge per il trasferimento della capitale
a Roma.

Gli stati regionali italiani, dunque – che si erano formati sulle ceneri di signorie e principati proprio quando le
grandi monarchie feudali compivano, a prezzo di guerre sanguinose, la formazione dei primi grandi stati
nazionali – dopo quasi cinque secoli di lotte, ostilità e divisioni giunsero all’unità politica e territoriale. Una
unità che non si conosceva, nella forma particolare in cui si era realizzata nell’ambito dell’impero romano,
dall’età gotico-giustinianea, prima che si infrangesse definitivamente dinanzi all’avanzata dei modesti eserciti
longobardi.

L’eterogeneità e la frantumazione dal punto di vista economico, politico-amministrativo e culturale e il


complessivo ritardo nello sviluppo economico aggravarono il compito di una classe dirigente figlia del
moderatismo centro-settentrionale maturato negli ambienti della grande proprietà terriera, della nobiltà
sabauda e della borghesia imprenditoriale lombarda. Ognuno dei vecchi stati aveva le sue leggi, i suoi sistemi
commerciali, il suo sistema di tassazione, le sue monete, le sue unità di misura, la sua lingua. Solo venticinque
italiani su cento sapevano leggere e scrivere; solo tre italiani su cento usavano correntemente la lingua
italiana: tutti gli altri si esprimono nei dialetti e nelle lingue locali più diversi. L’agricoltura e l’industria, salvo
che in alcune zone del nord e della Toscana, soffrivano condizioni di grave arretratezza infrastrutturale e di
modesta virtù espansiva. Le generali condizioni di vita delle popolazioni soprattutto rurali.

Furono segnate pesantemente dall’insufficiente alimentazione e dalle cattive condizioni igienico-sanitarie;


tifo, colera, vaiolo, malaria e pellagra colpivano ogni anno decine di migliaia di persone, soprattutto lavoratori
delle campagne.

Il sistema formativo: “fare gli italiani”

Bisognava, quindi, ricostruire il paese rinnovando non solo le istituzioni ma anche le coscienze. Scienziati,
intellettuali, studiosi, ricercatori, docenti si trovarono a dover affrontare la spinosa questione, cioè come
«fare gli italiani» una volta «fatta l’Italia».
Si dovette innanzitutto ripensare e riorganizzare il sistema formativo la cui frammentazione economica e
sociale si rifletteva ancora – non poteva essere altrimenti – in differenti livelli di alfabetizzazione.

Sostanzialmente su ciò si concentrò l’attenzione di Terenzo Mamiani, Francesco De Sanctis, Carlo Matteucci
e Cesare Correnti che ressero il ministero della Pubblica istruzione e guidarono l’azione educativa dello stato
tra il 1860 e i1870. Del resto la formazione scolastica sino a quel momento (se si esclude l’avanzato
Lombardo-Veneto, lì dove sin dal 1818 il governo austriaco aveva imposto ai bambini fra i sei e i nove anni
l’obbligo di frequentare le scuole statali) era stata appannaggio di pochi e in molte realtà regionali
responsabilità esclusiva delle istituzioni private e confessionali che non poterono ovviamente più affrontare
da sole la nuova situazione.

Il primo dato nuovo nel panorama culturale dell’Italia postunitaria fu, dunque, l’introduzione dell’istruzione
elementare obbligatoria.

L’università e il modello centralistico

L’opera di riorganizzazione e riunificazione della intricata struttura universitaria. Si trattò di costruire un


sistema unitario ed efficiente partendo da una realtà contrassegnata dalla eccessiva ed onerosa
frammentazione nel territorio degli istituti e dei centri di ricerca.

Due possibili modelli di riferimento esistevano in Europa. Quello francese, centralistico, basato su pochi
grandi istituti rigidamente controllati dal potere centrale; quello tedesco, e in parte inglese, federalista,
centrifugo, caratterizzato da un alto numero di centri fortemente autonomi.

In Italia prevalsero, come in altri settori della vita pubblica, le tesi accentratrici pur permanendo un
policentrismo culturale.

L’Italia dei dialetti e delle lingue

Nel 1861, all'atto della proclamazione del Regno d'Italia, dunque, non più del 10% della popolazione era in
grado di parlare in italiano e ben il 75% era analfabeta.

Con l'Unità d'Italia si avviò un lento processo di unificazione linguistica, che vide dapprima nella scuola e
nella letteratura di consumo, poi anche in altri mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, cinema)
i maggiori veicoli di diffusione dell'italiano.

Il processo può dirsi concluso solo nella seconda metà del Novecento: gli italiani che oggi usano soltanto o
prevalentemente il dialetto in ogni tipo di conversazione sono meno del 7%.

L'italiano è diffuso oggi in tutte le classi sociali e in tutte le aree del paese anche se ancora risente
sensibilmente delle differenze geografiche. La provenienza geografica non emerge soltanto nelle diverse
parole usate, ma anche nel modo in cui vengono pronunciatela "prosodìa". Quando un italiano parla, se non
è un doppiatore o un attore di teatro, la dizione tradisce inevitabilmente la sua provenienza.

Confini politici e confini linguistici: Chi guarda una carta geografica dell’Europa e si chiede quale sia il
rapporto tra i confini politici dell’Italia e i confini linguistici dell’italiano, si accorge che essi coincidono
abbastanza bene, ma non sono affatto identici. L’Italiano è parlato entro i confini dell’odierna repubblica
Italiana e, fuori dei confini politici. È facile incontrare persone che lo comprendono, nel Nizzardo e nel
Principato di Monaco, nei territori delle ex colonie italiane, nell’ex protettorato di Rodi, in Istria, in alcune
località della Dalmazia e a Malta. Alla televisione si deve anche la recente influenza dell’italiano in Albania.
L’italiano è parlato da circa 58 milioni di persone, quindi, e da oltre 300.000 in Svizzera.
Letteratura e dialetto

L’uso del dialetto ha costituito una robusta alternativa di carattere espressivo, quando non, addirittura, una
sovversione della sicurezza nel linguaggio unico (il toscano), immobile, onnicontestuale. La storiografia
recente ha difatti giustamente inglobato nel canone dei valori, a parità di livello degli scrittori in lingua, i
grandi dialettali come Ruzzante, Basile, Maggi, Porta e Belli.

La scelta dialettale è stata una scelta di cultura che ha inteso porsi in antinomia rispetto alla tradizione
letteraria nazionale e ha potuto spesso esprimere una esperienza letteraria derivante da suggestioni di
cultura diverse da quelle fissatesi nella letteratura in lingua.

L’Europa Una situazione dunque eccezionale rispetto ad altri paesi. L’assenza in Francia di una letteratura
dialettale riflessa fu dovuta al prestigio di una lingua nazionale affermatasi assai presto: il dialetto dell’lle-de-
France che già nel sec. XIV sottomette il rivale piccardo, e dal Cinquecento in poi è l’unico volgare in Francia
che serva per l’espressione letteraria. Anche in Spagna la centralizzazione della vita culturale ha ostacolato
vitalità e sviluppo di una letteratura regionale. In Inghilterra la lingua nazionale ha potuto soppiantare sin dal
Medioevo i dialetti, che dal Quattro al Settecento scompaiono addirittura dall’uso scritto. In Germania la
Bibbia di Lutero e l’autorevolezza e la popolarità ad un tempo della sua lingua hanno emarginato sin dal sec.
XVI i dialetti basso-tedeschi dall’uso pubblico e dall’uso letterario.

Le corti di Parigi, Londra, Madrid, le rispettive amministrazioni statali, sono state strumento di unificazione
politica, culturale, linguistica.

La diversità italiana In Italia è mancata una capitale linguistica e culturale accentratrice.

I prosatori dell’Ottocento Gran parte dei nostri prosatori dell’Ottocento hanno sentito l’italiano come lingua
di Stato, grigia e scolorita, quasi entità burocratico-scolastica «estranea e inamabile» ; ora come lingua di una
élite culturale, ora come lingua della borghesia, La storia della lingua letteraria italiana va dunque rivisitata e
disegnata a rovescio, rivoltando lo schema storiografico invalso in cui tutto tende all’unità nazionale e dove
il vivacissimo regionalismo ha corso il rischio di esser prospettato come momento negativo, o rallentante.

Il Medioevo Il primo passo per uscire dalla frammentarietà del dialetto è compiuto in Italia dalla scuola
poetica siciliana: essa assume tematica e forme metriche dalla poesia occitanica attraverso un’opera di
nobilitazione, il dialetto è reso «illustre», privo di caratteri locali e plebei, nettamente rescisso dall’uso
pratico.

Dante e il volgare «illustre» Dante riconoscerà che quell’ideale di volgare illustre nel De vulgari eloquentia
tra la selva dei dialetti italiani, è realizzato, la prima volta, nella lirica dei Siciliani (nei Siciliani a lui noti,
sappiamo, attraverso le trascrizioni dei copisti toscani).

A Dante sta a cuore non la ricerca e la definizione di una lingua italiana nazionale, sopradialettale, ma la
definizione di quel volgare che poeticamente aveva trovato applicazione nello «stile sublime» dei buoni
dicitori siciliani e stilnovisti; un volgare «illustre» che però non sarà quello cui aderisce lo stile comico (cioè
opposto al superiore, tragico) della Commedia, ; il tutto inserito in una lingua che accoglie pienamente lo stile
« sublime », il latinismo più evidente, la soavità dell’elegia, il tecnicismo delle scienze, le altezze della filosofia
e della Scrittura. Nella Commedia l’intera gamma delle possibilità espressive è esaurita. L’elemento anche
dialettale è assunto in una sostanza mistilingue che va dall’umile al sublime. Dante realizza, con libertà non
più osata per i secoli a venire, una lingua letteraria sopradialettale. L’appello già umanistico del Petrarca
richiamerà sulla linea vincente la scelta opposta, monolinguistica, il ritorno al sublime.

Tradizioni dialettali: le Origini Tradizioni dialettali si erano comunque costituite sin dal Duecento,
parallelamente allo stilnuovo. Ma non hanno capacità di irradiarsi; chiudono il loro ciclo soccombendo alla
tradizione più ricca di prestigio e più vitale, il toscano, che tra l’altro si normalizzava in istituzioni stabili valide
per scrivere non soltanto poesia, ma per trattare, come in Dante, ogni argomento: l’epistola, il trattato, la
prosa narrativa e didascalica, il componimento lirico. Nel Trecento il toscano si espande fuori dei confini
regionali.

Tradizioni dialettali: l’età umanistica Nel Quattrocento i poeti si adeguano al modello Petrarca. Il Canzoniere
è utilizzato come miniera di modi stilistici e lessicali. Il modello non consente l’ingresso di elementi dialettali
nel lessico, mentre il settore fonomorfologico, meno controllabile dallo scrittore, è ancora largamente aperto
all’infiltrazione. Quanto alla prosa, dopo Boccaccio il dialetto è accettato in posizione subalterna, come
macchia umoristica e lingua del comico.

La proposta normativa di Bembo Né si può dire che la posizione del Bembo fosse reazionaria ed astorica. Si
appoggiava invece su una solida ideologia emersa dal pensiero umanistico che proponeva il concetto di
imitazione dell’antico come atto creativo.

La dialettalità plurima della commedia Perciò un genere «popolare» come la commedia ad esempio è
commedia di dialetti con personaggi schematizzati in maschere che parlano dialetto, oppure è commedia
colta aperta al termine dialettale, rapporto cosciente tra livelli diversi della lingua. L’uso di forme dialettali
non intacca il sentimento dell’unità linguistica insita nella coscienza di chi scrive.

Ruzzante Il Cinquecento: Per un Ruzzante invece il dialetto non è evasione letteraria, ma luogo in cui lo
scrittore trova una libertà espressiva, per comunicare ad un pubblico reale; è scelta del naturale.

Il teatro di Ruzzante è rappresentazione autentica che si innesta su una tradizione viva e vissuta nell’ambiente
veneto.

Il Settecento Nel Settecento si allarga il fronte della poesia milanese in dialetto; nel sec. XVIII il più celebre
tra i poeti in dialetto è il siciliano Giovanni Meli. Egli traduce in dialetto temi della poesia in lingua, e scrive
in un dialetto nobilitato e dirozzato ad uso di lettori colti.

L’Ottocento I romantici cercano di rompere questo mondo chiuso e raffinato; vagheggiano una lingua viva,
parlata dal popolo. La nuova situazione culturale induce e giustifica scelte apparentemente opposte di un
Porta (che si «chiude» nel dialetto) e di un Manzoni (che si apre alla lingua collettiva).

Porta opta per il dialetto a fini di popolarità appunto, e di realismo. Anche in Toscana si comincia ad attingere
a piene mani dal parlato fiorentino o lucchese. Sia Manzoni sia Nievo cercano di trasferire il carattere di lingua
parlata e familiare dai dialetti alla lingua, di strappare ai dialetti il privilegio dell’immediatezza e della
spontaneità. Nievo opta per un italiano venato di regionalismi. Manzoni, nel Fermo e Lucia, usa un
vocabolario più milanese che toscano.

Manzoni aveva inteso con i Promessi Sposi raggiungere un linguaggio collettivo, superiore al tempo e ai
personaggi.

L’uso fiorentino cui egli affidava la funzione regolatrice della lingua era un additamento (non da purista e da
passatista) ad una lingua popolare e d’uso, ad una lingua di conversazione e di comunicazione che
trascendesse i limiti geografici e culturali del regionalismo e potesse garantire con la propria medietà la
«popolarità» della letteratura.

Le correzioni al testo del ‘27 sono apportate non già per ripulire il romanzo dai lombardismi (al modo degli
scrittori del Cinquecento), ma per sostituire con espressioni della parlata « media» fiorentina le
corrispondenti toscane;

La sciacquatura in Arno, il soggiorno a Firenze e la frequentazione degli amici fiorentini lo portano a contatto
non con il fiorentino popolare, ma con la lingua dei fiorentini colti. Quel parlato, non troppo alto né troppo
basso vi riconosce spontaneità e comprensibilità insieme, al cospetto di una unità nazionale.
L’Ascoli e il Manzoni Proporre un discorso comune che avesse centro in una sola città o regione, in una classe
sola, senza coinvolgere aree sociali e geografiche diverse, fu “errore” del Manzoni. L’unificazione della lingua
della prosa e della conversazione che fosse insieme un fatto civile e politico non poteva che basarsi sul
contributo delle varie regioni ed essere il risultato di una elaborazione collettiva, compiuta dalla storia, non
da una scelta individuale. L’Ascoli, di sorprendente modernità, capì benissimo che la questione dell’unità
della lingua e della sua vitalità non si poteva risolvere indicando semplicemente un nuovo modello di
perfezione formale. La rivoluzione manzoniana in certo senso falliva, se si pensa a quanto la snaturassero
immediatamente in applicazioni meccaniche i linguaioli, sentendosi autorizzati al ribobolo. Ma era un
fallimento relativo, quanto ad indicazioni future. Manzoni aveva mostrato che si poteva scrivere guardando,
finalmente, fuori della tradizione letteraria. Soltanto a quel modo e da quel momento in poi si potranno
scrivere romanzi in Italia. In materia di lingua toccava legiferare non più soltanto, come in passato, alla
letteratura, ma al linguaggio vivo e alla lingua collettiva. Familiare e popolare acquistavano per sempre diritto
di cittadinanza nella letteratura. Si poteva tornare alla provincia; o alla Toscana, ma come ad una delle
provincie.

Dopo Manzoni, dalla seconda metà dell’Ottocento sino ad oggi, la struttura regionale endemica e
connaturata alla cultura italiana, torna ad emergere vistosamente; il momento centripeto e l’evasione
centrifuga riprendono la secolare alternanza.

Gli scapigliati lombardi, Dossi innanzitutto, ricercano l’eccezione alla norma, alla scoloritura dell’uso: il
dialetto è posto fìanco a fianco al toscanismo e alla forma arcaica. Faldella svaria tra poli opposti del purismo
e del dialetto, in una tensione espressiva di esito espressionistico. Vittorio Imbriani, scrittore antiaccademico,
carica la propria prosa, per avversione alla banalità, di preziosismi letterari, di forme vernacolari, di «
goffaggini fiorentine». L’uso del dialetto non è più recupero romantico della parlata popolare, né debito
pagato al naturalismo. In Dossi e in Faldella l’uso del dialetto è antitetico a quello dei veristi. Sia Verga sia gli
espressionisti scapigliati intendono uscire dai binari del linguaggio ordinario: Verga, grazie al dialetto, dalla
«solita nenia delle frasi lisciate da cinquant’anni». Ma per i veristi l’ordinario è la tradizione letteraria; per gli
espressionisti il conformismo dilagante nel neutro italiano comune in via di formazione. Lo scopo degli
‘irregolari’ scapigliati è la fuga dalla media; il risultato il pastiche. Il dialetto diventa uno dei magazzini
d’eccezione (al parlare corrente e neutrale), dove si può attingere con libertà. Verga, tramite il dialetto,
persegue un mimetismo realistico; la sintassi corale, il colorito provinciale, la sgrammaticatura, il dialettismo
sono assorbiti in un’alta e classica ‘monotonia’, in una sostanziale unità stilistica. Per Dossi e Faldella il dialetto
è invece tessera di un mosaico stilisticamente plurimo;

Il ventaglio delle possibilità epressive; s’innestano nel filone « macaronico» e «plurilinguistico» della
dialettalità plurima che, inaugurata da Dante comico, è tornata ciclicamente nelle nostre lettere;

La geniale soluzione del Verga, la sua discesa verso il basso, verso le classi che non hanno mai avuto menzione
letteraria, aiutava intanto a superare la barriera del naturalismo, l’impiego cioè «caratterizzante» del dialetto
entro opere in lingua, il dialettismo d’ambiente diretto e immediato, quasi citazione senza elaborazione.

Nei Malavoglia il dialetto non è, semplicemente, inserito, ma tutto il romanzo è scritto in lingua italiana
pensata in siciliano. Il dialetto non è posto in subordine rispetto all’italiano letterario come nel bozzettismo
ottocentesco toscano.

Il Novecento Il dopo D’Annunzio segna una varia soluzione di ritorni a Verga. Vi ritorna, per
antidannunzianesimo, Federico Tozzi. Il suo linguaggio fitto di toscanismi riesce a dare un singolare senso
realistico alla narrazione, che ritrae con forza la vita di provincia.

Il fatto che l’assunzione dialettale spesso coincida con l’arcaismo fa sì che il recupero del lessico e della
sintassi popolare recuperi insieme la solennità arcaicizzante peculiare delle parlate toscane, gravide di
letteratura due-trecentesca. A nessun periferico era consentita l’asciuttezza e l’ascetismo evocati dal
toscano; manca allo scrittore toscano la coscienza del distacco fra lingua e dialetto, l’uso di forme dialettali è
perciò più indifferenziato.

Per Pavese e Fenoglio, così per Verga, la forma dialettale risponde ad una fase non più arretrata di civiltà, ma
più elementare, o mitica.

Pirandello è immune da tali ansie di primordiale e di epico; si muove a suo agio nell’attualità e nel grigiore
del mondo borghese. Ai dialettali si associa, al massimo, per la comune volontà di mettere a fuoco ogni
elemento capace di concorrere all’andamento «parlato» del periodo. E più che nel lessico, è nella sintassi che
la lingua di Pirandello ottiene i risultati più nuovi.

È duttilità che si avvicina ad un uso parlato di tipo medio, efficace per ritrarre con distacco e penetrazione ad
un tempo il mediocre della mediocrità borghese. Lo stesso lessico difatti è preso nei valori attuali, medi, senza
profondità storica, con un voluto «grigiore».

Ideologicamente è posizione radicalmente opposta all’evocazione, ricca di valori arcaici e popolari ad un


tempo, perseguita dalla poesia e dalla prosa nata in ambito « decadente». Al canone neopositivistico
dell’oggettività il decadentismo contrappone l’inattualità linguistica di linguaggi « inauditi», si pensi alla
dialettica « metaforica» di un Pascoli, all’arcaico e vergine friulano di un Pasolini, al monolinguismo quasi
‘petrarchesco’ di un Biagio Marin che scrive in una lingua remota (il dialetto di Grado) che pochissimi parlano,
e che si direbbe invenzione sua.

L’ultimo Pavese, approda appunto ad un « volgare» di misurata classicità.

Dopo la prima negazione vistosamente polemica contro il tono alto della lingua ermetica e post-ermetica e
la parola letteratissima della prosa d’arte, Pavese entra nelle linee di sviluppo della storia con un rivolgimento
più sottile ed attenuato, senza «trascrizioni» troppo crude del dialetto. Il dialetto è nobilitato senza abbassare
la lingua.

Comunque, a differenza dell’Ottocento, quando sembravano testimoniare una realtà genuina e ingenua,
nella stagione neo-realistica i dialetti sono assunti come testimonianza sociale. S’intende mimare dal di
dentro la vita e il linguaggio delle masse lavoratrici o delle classi emarginate, senza partire più da una
posizione di distacco critico: il popolo, oltre che soggetto della narrazione, si fa narratore di sé, direttamente
o attraverso un fedele mediatore. Pasolini vuole immedesimarsi, tramite il dialetto, negli ambienti degli
esclusi che non sono ancora arrivati a possedere la lingua.

C’è chi, come Davì, cerca la trascrizione quasi stenografica della vicenda.

Assistiamo dunque nella narrativa contemporanea a momenti dialettali puri, a momenti di lingua miscedata
con intenti ancora documentari; a momenti in cui l’italiano è riprodotto come lingua di incolti; a momenti in
cui il dialetto è qualcosa di fuso nel discorso, non troppo sollevato da esso.

Quanto a fortuna, vitalità e funzione, nel Novecento, della poesia in dialetto, c’è da tenere in conto, per una
corretta valutazione, la mutata situazione sociolinguistica, che ha fatto registrare in questi ultimi decenni la
diffusione sempre maggiore della lingua nazionale su tutta la penisola come lingua parlata.

Il poeta dialettale non è più il poeta popolare. L’uso parodistico tradizionale è subitamente decaduto. È
venuto a mancare di mano in mano l’interlocutore principale, cioè il pubblico della borghesia dialettofona.

È decaduto per lo stesso motivo il teatro vernacolare.

Occupa invece la posizione dello scrittore colto che regredisce ora, nelle prove più forti, in un’arcaicità
remota, le cose rievocate, con gusto nostalgico per il dialetto transeunte; in questi casi la poesia dialettale si
rifugia appunto nel registro minore sentimentale e intimistico, di matrice pascoliana.
Nel Settecento e nell’Ottocento (per un Goldoni, un Porta, un Belli) la scelta del dialetto fu scelta di cultura,
in antinomia e con autonomia culturale rispetto alla tradizione letteraria nazionale. Nel Novecento un poeta
dialettale, non può che situare la propria poesia nei confini di una quotidianità più angusta, intinta di materia
locale, di intimità familiare appartata e casalinga. Raramente il dialetto riesce ad uscire dall’ambito della sua
storia privata.

La diffusione dell’italiano a tutti i livelli e la proverbialità usurante raggiunta da una lingua letteraria
mediamente vulgata e banalizzata ha per così dire riserbato al dialetto lo statuto di lingua ‘alta’.

La neoavanguardia ha assunto difatti il dialetto come materiale di valore pari ai linguaggi tecnico-scientifici
ed ai cultismi, per tentare una disgregazione eversiva di un linguaggio ritenuto « merce» del neocapitalismo,
conformista e standardizzata.

Il dialettismo usato fuori dal contesto abituale, inserito cioè in una struttura che non gli è propria, avrebbe la
funzione di rottura dell’uso «medio». Se in passato il dialetto costituiva una scelta sociale o una scelta
espressionistica, nella pagina degli scrittori della neoavanguardia vi cade neutrale, come elemento
inutilizzabile; non macchia, ma elemento estraneo e pungente entro una scrittura impersonale e meccanica.

Si spiega come l’audacia espressiva di autentica avanguardia di un Gadda, la sua mescolanza degli stili, sia
apparsa alla neoavanguardia «una specie di Arcadia espressionistica». I dialetti, condannati dalla
neoavanguardia, e in forte regresso come linguaggi parlati, continuano comunque nella narrativa anche
recentissima, al di fuori della dialettalità, del provincialismo, del preziosismo idillico.

In Gadda l’elemento dialettale immesso nel calderone delle espressioni astratte, sublimi ed enfatiche, dotte
e tecniche, è visto con distacco critico, lingua arbitraria.

Che cosa è la letteratura?

Il termine litteratura, (dal latino littĕra, lītĕra lettera dell’alfabeto, analogamente al greco grammatiké, da
grámma), designò originariamente l’atto stesso dello scrivere

Già per i greci grammatiké (tékhne) era stato «il mestiere delle lettere» e l'insieme delle competenze
necessarie per produrre testi scritti.

In epoca romana il termine si connotò di significati ulteriori e fu posto in relazione, oltre che con la
grammatica, con la retorica. Quintiliano, ad esempio, comprese nella nozione anche l’insieme delle tecniche
e dei modi del comporre.

Litteratus, aggettivo originariamente riferito all’oggetto andò successivamente a designare il soggetto-


scrivente, colui che sapeva scrivere, quindi, per estensione, la persona colta, dotta, istruita.

Nelle lingue romanze (littérature, literatura, letteratura) si conservò per continuazione la medesima
articolazione di senso conosciuta in ambito classico.4 Solo a partire dal XVII-XVIII secolo e sino ai giorni nostri,
la parola iniziò sempre più a indicare sia i testi di valore artistico sia le tecniche e le modalità compositive che
caratterizzano tali testi.

Che cos’è la letteratura, dunque? Cos’è quel quid così ineffabile che attraverso il linguaggio poetico e i
meccanismi del racconto sa trasferire e trasmettere al lettore, in ogni luogo e in ogni tempo, piacere estetico,
emozioni, vissuti, memorie individuali e collettive, orizzonti etici, paesaggi dell’anima e profondità
ontologiche, saperi antropologici, orientamenti di senso sull’uomo e sulla vita?

La letteratura è un dono o un mestiere? È genio o tecnica? Questioni queste irrisolvibili nel senso che la
letteratura rappresenta la sintesi di tutto ciò. Resta però un fatto: da sola, nessuna di queste caratteristiche
potrebbe spiegarla.
La letteratura ha rappresentato nella storia della cultura occidentale una delle espressioni più alte e raffinate
dell’attività intellettuale e artistica dell’uomo in società. Attraverso la riflessione sulla sua natura e il suo
ruolo, molti studiosi hanno cercato di rendere più chiara e intelligibile la complessità di un sistema
comunicativo che, per l’importante funzione formativa e informativa svolta, ha da sempre rivestito una
grande valenza sociale.

Questa concezione della poesia e dell’arte, il cui fine ultimo è la formazione umana e la crescita civile di un
popolo, ha trovato scaturigine, almeno in Occidente, dalla retorica classica, dalla Poetica di Aristotele, dall’Ars
poetica di Orazio, dall’Institutio Oratoria di Quintiliano (riprese e codificate nei numerosi trattati del
Medioevo); opere che hanno in modi diversi teorizzato il miscēre utile dulci e il docēre delectando, ossia il
conciliare finalità edonistiche e pedagogiche e il trattare argomenti utili sul piano morale dilettando e
sublimando.

La letteratura è stata dunque un’arte educatrice, con finalità essenzialmente etiche (oltre che estetiche), che
ha nei secoli mirato ad insegnare e a dilettare, a consolare e a far riflettere.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento iniziarono a precisarsi meglio due fondamentali opzioni teoriche
e metodologiche di approccio all’opera letteraria; opzioni tra il principio dell’«autonomia del campo estetico
dell’arte e quello dell’eteronomia di esso», che prepararono il terreno alla critica successiva.

Su un versante si collocarono, infatti, tutte le interpretazioni che e – intendendo l’atto del soggetto creatore,
il prodotto letterario e più generalmente il mondo dell’esteticità dell’arte come fatti eteronomi (dal greco
hèteros, «altro», e nòmos, «legge»), riceventi da fuori di sé le norme e le cause del proprio agire e del proprio
svolgersi – cercarono di applicare al testo categorie interpretative altre rispetto allo specifico letterario ed
estranee alla sua natura linguistica; categorie senza le quali si riteneva non potesse essere compiutamente
compreso il testo stesso (la storia, la filosofia, la scienza, i fenomeni economici, la sociologia, la psicanalisi, gli
altri linguaggi). Su un altro versante si posero, invece, le teorie che – basandosi anche sul principio
dell’autonomia dell’arte (dal greco autòs, «stesso») – per converso studiarono il testo nella sua peculiarità e
affermarono che il fenomeno letterario trova in se stesso le leggi del suo funzionamento e i principi della
propria esistenza e del proprio sviluppo, risultando a volte irriducibile ad ogni altra categoria interpretativa.

Prospettive e criteri di definizione

La vicenda di un’opera letteraria non rappresenta un fatto statico e immutabile, ma mobile e dinamico. Essa
nasce dall’incontro del risultato di un atto creativo (il «farsi» del testo) con le sue diverse interpretazioni e la
capacità del lettore e dello studioso di collegarlo con altri testi, di collocarlo dentro un sistema comunicativo,
di inserirlo criticamente in un reticolo di relazioni.

Il rapporto tra emittente e destinatario si fonda, infatti, sulla reciprocità e trova nel testo stesso il suo punto
d’incontro.

Nel momento in cui un autore si accinge a comporre un romanzo, ad esempio, stabilisce con il lettore una
sorta di intesa, di «patto» implicito, in base al quale egli propone una storia (il «che cosa», un contenuto
diegetico, dinamizzato da una successione di eventi e popolato di esistenti, che si colloca entro strutturali
coordinate crono-topiche) tradotta in finzione letteraria mediante un discorso (il «come») organizzato
secondo particolari strutture e tecniche narrative ed espresso attraverso specifiche modalità stilistico –
compositive.

Il lettore reale, dal canto suo, entra nel mondo fittizio, facendosi, per così dire, condurre per mano dall’autore
e impegnandosi a seguirlo nel suo avvincente percorso.

Di fronte a una tale opera dell’ingegno e della creatività vi sono diverse modalità di approccio. Esiste una
lettura ingenua, che si fa per evasione, passatempo, svago e che porta il lettore ad abbandonarsi al piacere
del racconto, a identificarsi con i personaggi, ad immedesimarsi nella storia proposta e soprattutto a
considerarla “vera”.

Una lettura critica che consiste, invece, nel fruire un’opera letteraria attivando abilità e capacità descrittive,
analitiche e decifratorie elevate e mirando – senza concedersi ai processi di immedesimazione, di finzione e
di “innamoramento” – ad avere piena coscienza delle strutture e dei percorsi di senso che sottendono il
messaggio e consapevolezza delle norme che governano il testo (pur stando al gioco del suo auctor).

Le due modalità di approccio naturalmente spesso coesistono. Del resto la fortuna di un’opera letteraria
dipende generalmente dal consenso che essa riscuote presso il suo diversificato e stratificato pubblico; un
pubblico composto sia dal fruitore ingenuo, emotivamente ed esteticamente coinvolto, che esprime il
proprio gradimento e apprezzamento mediante il giudizio di gusto, sia dal destinatario colto, specialistico,
critico, che formulando giudizi di valore e stabilendo per la produzione testuale criteri di inclusione ed
esclusione (critica, dal greco krínein, «giudicare», kríno, «separo», «distinguo» e quindi «giudico») concorre
a costruire il canone letterario di un’epoca.

Il canone letterario

Per canone letterario si intende il corpus di testi che una comunità storicamente e geograficamente
determinata considera esemplari, degni di studio, di memoria e di trasmissione, modelli da imitare, da
seguire e tramandare. È chiaro che entrambi i giudizi – di gusto e di valore – variano in relazione al contesto
storico e culturale in cui essi stessi vengono formulati e in base all’esperienza e al particolare orientamento
culturale e ideologico di chi li esprime. Si può dire, dunque, che non è data critica letteraria senza storia e
geografia letteraria e viceversa. Come si attiva, in un qualsivoglia scambio verbale, un processo di
codificazione del messaggio da parte di un soggetto locutore in un contesto dato, altrettanto e per converso
si attiva un’operazione di decodifica da parte di un soggetto interlocutore.

Come esiste un discorso della letteratura, così esiste un discorso sulla letteratura.

E i discorsi sulla letteratura – come discorsi critici sul testo, in quanto oggetto concreto, sull’intertesto, come
insieme delle relazioni tra testi, e sul contesto, come ciò che sta intorno al testo – concorrono a costruire le
varie teorie della letteratura, ossia i differenti orientamenti di studio e sistemi di pensiero storicamente
affermatisi e concernenti i fondamenti epistemologici.

Critica, metodo e teoria letteraria

Solo nel Settecento la critica letteraria diventa un genere autonomo.

Il discorso critico si è avvalso nella storia di idee, conoscenze, metodologie, parametri di giudizio, strumenti
teorici e pratici, finalizzati all’individuazione, alla classificazione, all’interpretazione e alla valutazione del
prodotto letterario, da intendersi sia come sistema-testo che come insieme di testi e di opere inserite –
diacronicamente e sincronicamente – dentro un più generale sistema integrato della comunicazione. Il
metodo è, dunque, la concretizzazione storica di un’idea e di una visione teorica figlia dei tempi.

Il contributo dato dalla critica, quindi, risulta fondamentale per la varietà delle riflessioni e dei contributi
messi in campo nell’arco di secoli.

In base alle metodologie di approccio e all’area storica e culturale in cui gli studiosi si sono collocati di fronte
all’oggetto di studio, si sono sviluppati percorsi differenti:

 Centralità dell’autore; Fra i tanti orientamenti critici alcuni si sono caratterizzati per aver concentrato
la loro attenzione investigativa precipuamente sulla fenomenologia dell’autore, sulla sua psicologia
(soggetto psicologico), sulla sua personalità storicamente e culturalmente determinata (soggetto
storico, l’uomo, l’intellettuale), sul soggetto creatore, sull’intenzionalità e sugli scopi estetici del suo
messaggio (soggetto lirico, l’artista, l’auctor, da augeo, «io creo»).
A seconda che dell’autore si privilegiasse l’universo psicologico, l’inconscio e le pulsioni celate cioè il
rapporto tra l’autore e le sue opere dal punto di vista del soddisfacimento che in esse si determina
delle pulsioni inconsce (critica psicologica e psicanalitica di orientamento freudiano), oppure
l’aspetto puramente creativo, soggettivo, l’atto spirituale dell’intuizione che si realizza
nell’espressione, ossia in un linguaggio che è perpetua creazione (critica crociana e idealistica),
oppure lo status economico e sociale, i rapporti con le istituzioni, la formazione culturale e morale,
l’ideologia e la visione del mondo, la maggiore o minore consapevolezza storica e/o tensione verso il
cambiamento.
 Centralità del testo; all’inizio del Novecento furono soprattutto i linguisti, impegnati a studiare il
funzionamento della comunicazione verbale, a riscoprire la centralità del testo per sottolinearne le
componenti linguistiche nella loro relativa autonomia. Testo come insieme strutturato di parole e
come sistema linguistico stratificato mirando a cogliere e a definire la «letterarietà», ossia quelle
condizioni intrinseche che farebbero letterario un testo.
A partire dai formalisti russi, iniziatori di questo indirizzo teorico, si cominciò ad affermare che il
linguaggio poetico costituisce uno «scarto dalla norma», una sorta di deviazione rispetto alla lingua
standard, e, secondo la teoria dell’arte come procedimento, soprattutto che l’identità semantica
dell’opera letteraria è indissolubilmente legata alla peculiarità della sua forma. A seconda degli scopi
che si propone di conseguire chi parla o scrive, infatti, la lingua viene usata in modi diversi (o con
funzioni diverse). La «funzione» è dunque il modo (forma) in cui la lingua viene adoperata in relazione
allo «scopo» (intenzione) per cui un dato dato messaggio è stato formulato.
Le teorie e il metodo dello strutturalismo linguistico, oltre che alla critica letteraria, si estesero
all'antropologia), alla psicoanalisi, alla psicologia, alla teoria sociale e all'epistemologia.
La letteratura venne concepita come un sistema segnico che, per dirla con Roman Jakobson,
costituisce una «violenza organizzata» commessa ai danni del linguaggio ordinario.
La consueta relazione tra segno e referente viene disarticolata e liberata dalla consuetudine della
percezione. Il segno acquista così un valore in sé. L’arte restituisce all’oggetto una nuova luce e una
rinnovata dimensione di sensibilità attraverso il procedimento dello «straniamento», ossia mediante
la sottrazione, appunto, dell’oggetto stesso dall’automatismo della percezione, dal suo ordinario
«riconoscimento», per essere riconvertito in «visione».
La rivoluzione linguistica, antropologica e filosofica novecentesca ha insegnato, come già scritto, che
il senso che diamo al mondo è il nostro discorso del mondo, il linguaggio è «la casa dell’essere».
Se in principio è la parola, e quindi la lingua, e se la lingua genera il testo, la mediazione tra l’uomo e
il mondo avviene tramite il testo. Il rapporto dell’Io col mondo è mediato dai linguaggi, cioè dal
simbolico.
Ma, per la psicanalisi, anche il rapporto dell’Io (centro della mente cosciente) con l’Altro Io
(l’inconscio) – entrambi costituenti il Sé (totalità psichica di elementi consci e inconsci) – è mediato
dal linguaggio, e il significato profondo dell’inconscio si nasconde, ad esempio, nelle immagini
simboliche dei nostri sogni.
Il sogno è una sorta trasformazione dei pensieri in immagini, il materiale onirico prende forma
attraverso i meccanismi della condensazione e dello spostamento, ossia della metafora e della
metonimia. Grazie al linguaggio artistico, ad alto tasso di figuralità e ad alta densità connotativa e
simbolica, si possono perciò aprire dinanzi al critico varchi insospettati e insospettabili attraverso i
quali poter scandagliare le profondità dell’inconscio. Attraverso l’analisi, ad esempio, dei temi e dei
motivi ricorrenti, delle isotopie sememiche, delle figure archetipiche, delle metafore ripetute, si può
scovare sotto il testo letterario, l’«altro testo», abitato dal rimosso e dalle pulsioni celate, per
recuperarne le verità nascoste e carpirne il significato profondo.
 Centralità del lettore; Un altro criterio utilizzato per comprendere e definire il letterario si è invece
fondato sul destinatario, sul lettore, sul pubblico, sulla «ricezione» del testo.
Ad introdurre un'originale riflessione teorica sui problemi dell’«estetica della ricezione»
(rezeptionästhetik) ponendo al centro il lettore - in un rinnovato rapporto in termini di biunivocità
tra destinatario e testo e tra letteratura e storia - furono prima Hans Georg Gadamer e poi gli
esponenti della cosiddetta Scuola di Costanza, Wolfang Iser e Hans Robert Jauss.
Secondo tale orientamento, per cercare di determinare il corpus dei testi letterari e tentare di
coglierne le stratificazioni di senso - poiché è illusorio sia sorprendere nella sua pienezza l’intenzione
dell’autore- ci si deve affidare alla competenza estetica ed ermeneutica di chi legge, o meglio
all’interazione tra esperienze storiche diverse, quella dello scrittore e quella del lettore. Non essendo
possibile una comprensione «oggettiva» di opere culturalmente e temporalmente lontane da chi le
fruisce, diviene metodologicamente inevitabile predisporsi alla soggettività relativa propria di un
farsi interpretativo dinamico, condizionato dalla situazione storica e culturale di chi legge.
Sarebbe dunque impossibile trovare caratteristiche «intrinseche» ad un testo che consentano di
accertare una volta per tutte e con sicurezza la sua natura letteraria (come invece avevano sostenuto
i formalisti). Quindi il problema non sarebbe più tanto di individuare ciò che farebbe letteraria
un’opera, quanto semmai di comprendere come, dentro il generale sistema della comunicazione,
essa storicamente funzioni ed agisca.
In questo rapporto comunicativo sarebbe il destinatario a mettere il messaggio in primo piano, non
il messaggio a porre al centro se stesso. Perché la letteratura prenda vita, il ruolo, la funzione e la
partecipazione del lettore non sono perciò meno importanti di quelle dello scrittore.
Si spiegherebbe in questo modo perché può capitare che si possa prendere per letteratura «quello
che non lo era nelle intenzioni dell’autore, o anche (ma più raramente) prendere per non letterario
un discorso inteso come letterario.
L’opera letteraria è quindi una sorta di microcosmo di significazione che si attiva solo nella pratica
della lettura, che a sua volta si sviluppa nel tempo e nello spazio, modalità attraverso cui il testo viene
storicamente fruito, definito e considerato.
L’ermeneutica ci ha insegnato che il destinatario, figlio del suo tempo, ha i suoi paradigmi, i suoi pre-
modelli o modelli interpretativi pre-costituiti (visione del mondo e della letteratura).
In tal modo i valori e le «verità» del testo scaturiranno dal rapporto e dal «dialogo» interattivo e
simbiotico tra passato e presente, tra il lettore e l’opera.
 Centralità del contesto e del referente; per quanto riguarda più specificatamente gli orientamenti
otto-novecenteschi, critica storicista, marxista e sociologica. Il presupposto di base del pensiero
marxista è che l’arte abbia una genesi storica; essa nascerebbe per motivi di necessità concreta in
un contesto ben definito. Questa concezione implica l’impossibilità di dare della letteratura una
definizione universale.
Secondo Marx ed Engels la produzione artistica apparterrebbe alla sovrastruttura ideologica di una
società storicamente determinata e sarebbe profondamente condizionata dalla struttura economica,
ossia dalla totalità dei rapporti di produzione e di potere tra le classi e dalle reali condizioni di vita
degli uomini. A sua volta la sovrastruttura, orientata e diretta dalla borghesia, classe egemone che
detiene i mezzi di produzione, concorrerebbe a formare la coscienza sociale.
Solo i radicali cambiamenti nella base economica e il conseguente rovesciamento dei rapporti di forza
tra le classi, produrrebbero una trasformazione della suddetta sovrastruttura.
Ma senza un’arte «realista», capace di disvelare le contraddizioni del sistema e di smascherare
l’opera mistificante delle ideologie dominanti, il proletariato non potrebbe prendere coscienza della
propria condizione di subalternità e di marginalità. Dentro una tale concezione ideologica e
prospettiva politica, si può ben comprendere quale «rivoluzionaria» funzione pedagogica e di «verità
storica» dovrebbe avere la letteratura e quale ruolo dovrebbero rivestire l’intellettuale e l’artista.
L’arte è riportata alla sua dimensione diacronica, a un contesto particolare inteso come intreccio di
rapporti economico-sociali e di potere tra classi.
Il grande pericolo starebbe nella deriva meccanicista e determinista di una teoria che a un certo
punto rischia di non tenere più conto delle complesse mediazioni che esistono tra arte e società,
l’autonomia della prima rende ab imis non meccanico il rapporto tra i due universi, come non
meccanici e non pre-determinati sono i rapporti di causa-effetto che ne deriverebbero.
Per Lukàcs, invece, l’arte è un prodotto della società ma è altresì e nel contempo il suo
«rispecchiamento».
 Realtà e finzione; un altro dei criteri utilizzati a latere per determinare, indagare e valutare il testo
letterario si è fondato sulla differenza tra realtà e fantasia. Più precisamente si tratta di un approccio
che si è orientato sullo studio e sulla valutazione della natura stessa del referente, sulla situazione o
sul contesto a cui il messaggio testuale rimanda, quindi sulla realtà extralinguistica. In base a questo
cosiddetto «criterio di verità» le opere scaturite dalla fantasia e dalla sensibilità dell’autore sarebbero
letterarie.
Quindi anche se la vicenda (si pensi ai Promessi sposi) è ambientata in un paesaggio reale e in
un’epoca storica ben precisa, in quanto prodotto di un atto di finzione (perché costituita di fatti
inventati) sarebbe da annoverarsi nell’ambito della letterarietà. Per converso, le opere che hanno un
referente cosiddetto «vero», il cui mondo rappresentato anziché fantastico è «reale», farebbero
invece parte di altre tipologie testuali. A tal riguardo, ad esempio, l’Origine delle specie di Charles
Darwin verrebbe catalogata nell’insieme dei testi non-letterari, perché è un trattato scientifico che
descrive leggi biologiche in parte dimostrabili e verificabili.
Il «criterio di verità» si dimostra, nel contempo, fuorviante e fallace.
Fuorviante quando si esca dall’esempio specifico e si decida di spostarsi e di calarsi dentro altre
coordinate spazio-temporali: Il Principe di Machiavelli e il Discorso sui massimi sistemi di Galilei, ad
esempio, sono entrambi dei trattati che però il pubblico del XVI e del XVII secolo avvertiva, sentiva e
concepiva come letterari. Ferdinand De Saussure nel Novecento ci ha insegnato che la lingua è
geneticamente estranea al referente; De Saussure si discosta dalle precedenti considerazioni storico-
naturalistiche della lingua che invece ponevano fra segno e cosa, fra segno e realtà, un rapporto
necessario e motivato, come se nella parola fossero implicite le caratteristiche stesse della cosa.
Già Aristotele aveva criticato con la nota proposizione: «la parola “cane” non morde». Morde
l’animale cane. Detto questo, non c’è dubbio che nel leggere un’opera letteraria «noi sottoscriviamo
tacitamente un patto con l'autore, il quale fa finta di dire qualcosa di vero e noi facciamo finta di
prenderlo sul serio.
Nel fare questo ogni asserzione romanzesca disegna e costituisce un mondo possibile e tutti i nostri
giudizi di verità o falsità si riferiranno non al mondo reale ma al mondo possibile di quella finzione».

La letteratura: un sistema integrato della comunicazione

Si intende per sistema un insieme integrato di elementi coordinati e connessi tra loro tramite reciproche
relazioni di solidarietà e interazione. Ogni elemento (o sottosistema) concorre per proprio conto e in rapporto
simbiotico con gli altri, a determinare il senso globale e l’identità del sistema, che si comporta come un’unità
funzionale organicamente strutturata avente regole proprie. La modifica o l’ingresso nel complesso integrato
di un solo elemento, cambia l’equilibrio e l’identità del sistema stesso.

La comunicazione

Quotidianamente viviamo immersi dentro una quantità enorme di sollecitazioni e di informazioni che ci
provengono dall’esterno. Oggi più che mai siamo subissati da un flusso comunicazionale fatto di parole, di
immagini, di suoni, di odori, di sapori, di colori, di gesti, vera sostanza del nostro essere e del nostro esistere.
Possiamo dire che senza comunicazione non è data vita di relazione, non è data conoscenza. Comunicare (dal
latino CUM, «con», e «MUNIRE», «legare», «costruire») significa, infatti, mettere insieme, mettere in
comune nello spazio e nel tempo esperienze, idee, sentimenti, informazioni.

La comunicazione, nel suo significato più generale, è dunque un passaggio di informazioni tra un EMITTENTE,
che codifica e invia un MESSAGGIO (o un SEGNALE), e un DESTINATARIO, che lo riceve (EMITTENTE →
MESSAGGIO → RICEVENTE).

Il messaggio, prodotto grazie alla selezione e combinazione di segni all’interno di un CODICE (linguistico,
verbale, gestuale, visivo, prossemico, cinesico, ecc.), utilizza un supporto fisico, un CANALE (o CONTATTO),
attraverso il quale passare (ad esempio, le onde sonore, un filo telefonico, un libro, ecc.). La scelta del canale
e del codice è strettamente legata alla natura e alle caratteristiche del messaggio, del contesto e del
ricevente. Una comunicazione rivolta ad un pubblico ufficiale, ad esempio, o ad un’alta carica istituzionale o
autorità religiosa richiederebbe, in linea di massima, la scelta di un canale scritto (versus orale), oltre che di
un codice adeguato al profilo dell’interlocutore. Qualora, invece, si volesse comunicare al buio con una
persona lontana, si dovrebbero adottare canali e codici sonori (versus visivi). Se volessimo, infine e per
converso, comunicare con un non udente, dovremmo escludere il canale sonoro e prendere in
considerazione quello visivo e tattile. Si definisce rumore (o disturbo o alterazione o interferenza) l’insieme
degli elementi che ostacolano il passaggio del messaggio. Il processo comunicativo può essere verbale e non
verbale, può avere una natura bidirezionale (i soggetti coinvolti possono essere, come in un dialogo, a un
tempo emittenti e riceventi) e, affinché si realizzi, è necessario che esista identità di codice (insieme di regole
di combinazione condivise) tra emittente e destinatario. L’emittente può essere umano o non umano (ad
esempio, un suono, una luce intermittente, un colore), un singolo o un gruppo, consapevole o non
consapevole. Il ricevente può essere distinto (IO → EGLI) o coincidente con l’emittente (scrittura di un diario:
IO → IO) e, da questi, previsto o non previsto, e anch’esso umano o non umano (si può comunicare col cane),
un singolo o un gruppo. Il messaggio che passa è l’atto di comunicazione.

I mezzi che servono per comunicare sono detti SEGNI. Il CODICE è, perciò, un sistema di segni e l’insieme
delle norme relative al loro uso. Possiamo dunque dire che si intende per comunicazione qualsiasi processo
in cui sono implicati dei segni, qualunque sia il rapporto tra emittente e ricevente.

Si avrebbe comunicazione solamente quando l’emittente invia, consapevole di farlo, delle informazioni a un
destinatario). L’atto comunicativo, per essere tale, deve concludersi con la ricezione del messaggio da parte
del destinatario.

Il contesto e il referente

Un atto comunicativo non si realizza nel nulla, e la sola conoscenza del codice non è sufficiente per garantire
la piena comprensione di un messaggio. Esso si inserisce semmai, sempre e comunque, dentro un reticolo di
relazioni, in un quadro di altre informazioni comuni all’emittente e al destinatario, linguistiche ed
extralinguistiche.

Questo reticolo di relazioni si chiama CONTESTO. Senza contesto, dato strutturale dal quale non si può
prescindere, non è data comunicazione.

Si parta dal CONTESTO LINGUISTICO, molto utile al filologo, ossia l’insieme delle frasi che precedono e
seguono una determinata unità di contenuto e il quadro delle informazioni che si trovano dentro il testo.

Le funzioni del co-testo nell’interpretazione linguistica possono essere molteplici. La conoscenza del contesto
è importante per l’identificazione dei referenti, in presenza di elementi deìttici che servono a collocare
l’enunciato nel tempo e nello spazio e a identificare atti locutori e prospettive dei protagonisti di eventi
verbali.
La conoscenza del contesto linguistico, soccorre infine, per la comprensione di parole o espressioni
polisemiche, ambigue, incomplete, implicite.

Per comprendere appieno il messaggio, inoltre, il destinatario deve, come già scritto, far ricorso a
informazioni relative alla situazione extralinguistica, alle condizioni ambientali e fisiche entro cui si svolge
l’atto comunicativo (CONTESTO SITUAZIONALE).

Il segno

Con il termine SEGNO si indica qualsiasi fenomeno, fatto, manifestazione, gesto, atto, parola, espressione
che significa o comunica qualcosa. Esso è un elemento minimo.

Diciamo che il segno è qualcosa che sta per qualcos’altro), al posto di qualcos’altro, ossia il REFERENTE,
l’oggetto o l’evento a cui il segno rinvia, esso rappresenta il fondamento della comunicazione stessa.

Il segno è formato dall’unione di un significante e di un significato.

Il significante è la forma materiale, cioè qualcosa che può essere ascoltato, visto, annusato, toccato o gustato,
mentre il significato è il concetto mentale ad esso associato.

Tra il segno e la cosa rappresentata può esistere un rapporto naturale di causa ed effetto o di causa presente
ed effetto futuro.

Esistono, dunque, diversi tipi di segni, NATURALI (INDICI) e ARTIFICIALI (SOSTITUTIVI e PRODUTTIVI). I segni
naturali non sono intenzionali, non presuppongono cioè una volontà di comunicare, per cui è il solo
destinatario («interprete») a desumere, interpretare, attribuire senso e nominare; quelli artificiali sono per
converso intenzionali (esiste la consapevolezza e la volontà del mittente a comunicare) e con essi si entra
perciò nella sfera del «linguaggio».

TRA I SEGNI NATURALI, gli INDICI sono segni riferibili a fenomeni al di fuori di una convenzione prestabilita e
sono basati sul rapporto causa-effetto.

Tra i SEGNI ARTIFICIALI i sostitutivi sono quelli che convenzionalmente stanno al posto di qualcos’altro,
mentre i produttivi sono quelli che si generano mediante le tecniche del riconoscimento. Tra i SOSTITUTIVI
ricordiamo i SEGNALI, la cui decifrazione è garantita dalla conoscenza, da parte del destinatario, del codice,
dei segni convenuti (segnali di fumo per comunicare la propria presenza in un luogo); i SEGNI ICONICI (disegni,
fotografie, carte geografiche, registrazioni, diagrammi, onomatopee, ecc.); i SEGNI VISIVI ASTRATTI, come gli
iconogrammi, gli emblemi, i simboli araldici; gli INDICI VETTORI, sorta di deittici, i SIMBOLI, SEGNI
LINGUISTICI.

Tra i PRODUTTIVI, che comprendono molti segni visivi, ricordiamo i SEGNI OSTENSIVI, estrinseci e intrinseci.
I CARATTERIZZANTI e i CARATTERIZZANTI.

Il modello più conosciuto e condiviso di SEGNO LINGUISTICO è quello teorizzato da Ferdinand de Saussure.
Esso si basa cioè sul dualismo (BIPLANARITÀ) proprietà costitutiva di tutti i segni, come precedentemente
scritto tra significante e significato.

Il SIGNIFICANTE, o «espressione», è la parte o la faccia fisicamente percepibile del segno.

La natura del segno linguistico è, dunque, astratta.

Significante e significato sono dunque due facce di una medaglia, sono inscindibili e si rinviano
continuamente a vicenda. Il loro legame nelle lingue storico-naturali è fondamentalmente arbitrario
(ARBITRARIETÀ), nel senso che non esiste alcun legame naturalmente motivato, o rapporto logico e
necessario fra significante e significato.
Non c’è nessun legame naturale né collegamento motivato logicamente tra, ad esempio, l’idea di ‘cavallo’ e
la catena di suoni e/o grafemi («c+a+v+a+l+l+o»).

Si distinguono quattro tipi di ARBITRARIETÀ: è arbitrario il rapporto tra SEGNO e REFERENTE (non esiste alcun
legame motivato né naturalmente né logicamente, né di derivazione dell’uno dall’altro, tra il segno «cavallo»
e l’animale cavallo); è arbitrario il rapporto tra SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO (non esiste alcun legame
motivato né naturalmente né logicamente tra la catena di suoni e di lettere «c+a+v+a+l+l+o» con il significato
«mammifero erbivoro di grossa taglia, con testa allungata, orecchie dritte e corte, collo slanciato ornato di
criniera, arti snelli, zampa con un solo dito ricoperto dallo zoccolo»); è arbitrario il rapporto tra FORMA e
SOSTANZA del significato (ogni lingua ha i propri criteri di estensione e/o circoscrizione di senso);12 è infine
arbitrario il rapporto tra FORMA e SOSTANZA del significante (in latino, ad esempio, ĀNUS, vuol dire «anello»,
mentre ĂNUS, significa «vecchia»).

La natura del segno linguistico testimonia di un’altra caratteristica fondamentale della lingua: la
CONVENZIONALITÀ. Tutti i segni mediante i quali avviene la comunicazione sono convenzionali perché
risultato di un processo storico, culturale e di un accordo linguistico (LANGUE), stabilito all’interno di un
gruppo più o meno vasto di persone, in base al quale a determinati significanti è stato attribuito il compito
di esprimere determinati significati.

Langue e parole

Ferdinand de Saussure chiarisce il carattere di SISTEMA DELLA LINGUA come un tutto organico e solidale la
cui dinamica la SINCRONIA (la simultaneità) e la DIACRONIA (l’evoluzione storica) è garantita dal rapporto tra
sistema astratto e realizzazione concreta, tra sistema e uso, tra LANGUE (la lingua come struttura astratta,
arbitraria e convenzionale, come istituto, grammatica, sistema costante che vive e si attua nei parlanti) e
PAROLE (come produzione, atto linguistico concreto, materiale e contingente, come uso particolare,
individuale e mutevole che del sistema fa il parlante).

Un sistema di segni geneticamente estraneo al referente

Alla luce di quanto scritto precedentemente si può affermare che la lingua sia geneticamente estranea al
referente.

I segni assumono un significato nel sistema linguistico per la loro posizione rispetto agli altri segni, piuttosto
che per il legame con gli oggetti che designano o evocano.

La COMUNICAZIONE LINGUISTICA è un circuito verbale che si stabilisce tra due persone. Essa consiste in uno
scambio di parole tra un soggetto locutore e uno interlocutore.

La LINGUA è, infatti, il codice che veicola tutti i codici. Con essa è possibile parlare di tutto, attribuire
un’espressione a ogni contenuto (ONNIFORMATIVITÀ e ONNIPOTENZA SEMANTICA), tradurre qualsiasi
messaggio formulato con altri codici, codificarne di nuovi e di inediti.

Secondo Jakobson, ai sei fattori della comunicazione verbale corrispondono altrettante «funzioni» del
linguaggio:

 l’EMOTIVA (o ESPRESSIVA), s’incentra sugli stati d’animo;


 la CONATIVA si basa su una sorta di opera di imposizione esercitata dal mittente sul destinatario con
espressioni caratterizzate dalla presenza di vocativi, imperativi, esortativi;
 la POETICA pone al centro dell'attenzione la scelta e la disposizione delle parole, il loro valore fonico,
le peculiarità espressive, le figure retoriche del significante e del significato;
 la METALINGUISTICA riferita al codice, tende ad evidenziare le modalità di definizione e di
funzionamento della lingua stessa;
 la FÀTICA riferita al canale, al contatto, verifica il funzionamento del canale sul quale viene veicolato
il messaggio e assicura la continuità dell’attenzione del destinatario;
 la REFERENZIALE si basa sul referente o sul contesto, ossia su ciò di cui si parla, sull’oggetto del
discorso, e assolve lo scopo di fornire informazioni.

Le funzioni - quindi i modi (forme) con i quali si usa una lingua in base agli scopi - non si esplicano mai
singolarmente, ma sinergicamente.

Altre proprietà e funzionamento della lingua

La LINGUA si basano sui principi della COMBINATORIETÀ di tali unità, della LINEARITÀ, ossia della loro
realizzazione secondo una successione crono-topica, della DISCRETEZZA o DIFFERENZA dei segni e della
COMPLESSITÀ SINTATTICA.

Il significante è scomponibile a due livelli in parti più piccole: a un primo livello, in segni dotati di significato
(MORFEMI) a loro volta utilizzabili per codificare altre parole (cavall-o, cavall-i, cavall-a).

A un secondo livello, in più piccole unità di significante prive di significato (FONEMI) che combinandosi
costituiscono morfemi (c,a,v,a,l,l).

È l’EQUIVOCITÀ, che si fonda sulle relazioni e corrispondenze plurivoche tra significante e significato
(polisemia, omonimia, sinonimia).

Nell’atto della codificazione di un messaggio (atto di parole), infatti, il mittente si trova ad affrontare due
momenti: il momento della scelta delle parole e quello della loro combinazione secondo le regole della
grammatica. Quindi si definisce asse paradigmatico l'insieme dei segni verbali scelti tramite associazione dal
serbatoio della langue per comporre la catena di parole e asse sintagmatico il concatenamento degli elementi
comunicativi considerati nel loro rapporto di contiguità.

Le lingue ed il linguaggio

Una lingua fornisce la «facoltà del linguaggio») e fatto costitutivo della cultura di un popolo, trasmessa per
tradizione.

Il linguaggio è universale, in quanto capacità comune a tutti gli esseri umani di comunicare, le lingue storiche-
naturali sono particolari, in quanto sistemi segnici propri di una comunità di parlanti storicamente e
culturalmente insediata in un territorio.

Secondo Whorf, esponente del relativismo linguistico, il nostro modo di percepire e pensare sarebbe
condizionato dalla struttura linguistica che ci è peculiare.

La letteratura – un sistema integrato della comunicazione – 2

Il testo e le tipologie testuali

Il TESTO, dal latino TEXTUS (‘tessuto’, ‘trama’, ‘intreccio’), è un enunciato, un'unità logico-concettuale, un
insieme di parole, orali o scritte, connesse tra loro a vari livelli e organizzate secondo le regole di una
determinata lingua con l’intenzione e lo scopo di comunicare qualcosa. Possiamo dire che esso sia un sistema
realizzato di segni linguistici.

Le sue caratteristiche sono l’intenzionalità, la coesione, la coerenza.

Esistono varie tipologie testuali. In base all’intenzionalità e allo scopo dell’emittente, alle sue capacità
linguistiche e concettuali, al tipo di destinatario, al patto comunicativo, alle circostanze, ai canali di
trasmissione, cambiano le funzioni della lingua, le modalità compositive, i generi di discorso e le
caratteristiche costitutive di un testo.
Sulla loro classificazione esistono quattro fondamentali orientamenti: il primo, di tipo funzionalistico-
cognitivo, si basa su tre variabili extralinguistiche (lo scopo che ci si prefigge nell’atto comunicativo, il
destinatario a cui ci si intende rivolgere, il contesto situazionale in cui avviene la comunicazione) che
condizionano le scelte linguistiche e su cinque tipologie (testo descrittivo, narrativo, regolativo, espositivo e
argomentativo);

il secondo, di tipo pragmatico, classifica i testi, sulla base di criteri di tipo linguistico (materia da trattare,
genere di discorso, forma testuale) e soprattutto in base ai diversi gradi di esplicitazione e costrizione
comunicativa in tre categorie principali: con discorso molto vincolante, con discorso mediamente vincolante,
con discorso poco vincolante (i meno espliciti e più ambigui, ossia i testi letterari); il terzo, di tipo didattico,
classificando i testi in base alle capacità linguistiche e concettuali richieste per la loro codificazione, distingue
tra testi autonomi e testi mimetici; il quarto orientamento, di tipo diamesico, preferisce differenziare tra testi
orali e testi scritti.

I TESTI NARRATIVI raccontano storie, eventi ed esistenti in una dimensione diacronica, verticale, cogliendone
le connessioni temporali ed i rapporti di causa ed effetto, secondo un ordo naturalis (successione logico-
cronologica degli eventi) oppure secondo un ordo artificialis (libera dinamica degli eventi, con rotture e/o
distorsioni temporali, analessi e prolessi). Testi narrativi letterari sono i racconti, le novelle, le fiabe, i romanzi;
non letterari sono gli articoli di cronaca, le cronache storiche, le biografie e le autobiografie, le relazioni di
viaggio, gli aneddoti, i verbali ecc.

I TESTI DESCRITTIVI rappresentano la realtà con una visione sincronica, colta nella sua orizzontalità spaziale,
dettagliata o d'insieme, di oggetti, ambienti, situazioni, persone, stati d’animo. Sono testi descrittivi le guide
turistiche, i cataloghi delle mostre e dei musei, i bollettini meteorologici, le descrizioni letterarie di luoghi e
personaggi ecc.

I TESTI ARGOMENTATIVI sono quelli in cui l'autore, intenzionato a sostenere le proprie opinioni su una
determinata questione, vuole convincere il destinatario della bontà e della giustezza di una tesi, attraverso
l'impiego di una strategia che si basa sul ragionamento e sull’analisi degli elementi utili ad un’argomentazione
volta alla difesa delle proprie ragioni e alla confutazione delle teorie e/o ipotesi contrarie. Sono testi
argomentativi tutti quei saggi in cui l'autore espone e motiva una sua personale ipotesi interpretativa, gli
articoli di fondo, gli scritti d'opinione, le arringhe degli avvocati, i discorsi politici, il tema scolastico ecc.

I TESTI ESPOSITIVI (o INFORMATIVI) presentano idee e illustrano argomenti, spiegan doli e mostrandone
l'organizzazione con chiarezza, organicità e coerenza. Sono testi espositivi i manuali scolastici, le
enciclopedie, le opere o gli articoli di divulgazione scientifica, i trattati letterari, le guide turistiche ecc.

I TESTI REGOLATIVI (O IUSSIVI), infine, sono quelli che trasmettono leggi, norme e pre scrizioni, forniscono
istruzioni, danno ordini, invitano o incitano a fare qualcosa e pre suppongono che il destinatario riconosca
l'autorità dell'emittente. Vi prevalgono le for mule conative, gli imperativi, i congiuntivi esortativi. Sono testi
regolativi i testi giuridici, i regolamenti, le avvertenze, i manuali di manutenzione e d’istruzioni per l'uso, le
ricette, molti volantini e manifesti ecc.

Quid est litteratura?

«la letteratura è quell’insieme di TESTI del PASSATO E DEL PRESENTE che OGNI EPOCA RITIENE LETTERARI».
UNITA’ 2A

La trasmissione e la tradizione del testo


Nel sistema della comunicazione letteraria il sistema testo si colloca in un complesso processo di trasmissione
che definisce la fortuna e l'identità di esso

Il processo si articola in tre momenti

Produzione
Circolazione
• Fruizione

La produzione riguarda la modalità e le diverse fasi di composizione dell'Opera e di codificazione del messaggio
e riguarda oltre che l'autore mittente anche i canali e i codici della comunicazione
L'autore infatti a seconda dei tempi usa determinati strumenti scrittori come ad esempio penna d'oca e
particolari materiali scrittori come pietre cocci,papiro, carta

L'autore emittente può in teoria comporre il suo testo di getto in qualche ora in una giornata oppure più
frequentemente e verosimilmente in tempi diversi con intervalli più lunghi in un contesto situazionale e culturale
o in più contesti dati.

Egli è dunque nello stesso tempo fonte e primo trasmittente del messaggio dallo stesso codificato con scopo
estetica e tramite particolari procedure scritturali che non prescindono dalle rette ricche del suo tempo e dalla
tradizione letteraria.

Il vettore comunicativo si esplica secondo due itinerari distinti

Autore - messaggio
Messaggio - lettore

L'autore infatti scrive per un lettore ideale non reale e tra i due non c'è interazione, il lettore quindi può
dialogare solo con l'opera, ne deriva così il fatto che il soggetto-lettore mutevole decodifica e intenziona
l'oggetto libro in luoghi ed epoche differenti

Questo tipo di relazione genera interferenze di diverso tipo complicando la comunicazione letteraria e rendendo
spesso non facile il lavoro dello studioso

Nella critica del testo trasmissione e tradizione sono sinonimi in questo caso bisogna fare la distinzione e
intendiamo:
• la trasmissione più propriamente come un processo tecnico di riproduzione, come l'atto meccanico del
trasferimento del testo da un esemplare alla sua copia manoscritto o a stampa.
L'ecdotica definisce quella copia testimone, il testimone è quindi ogni codice manoscritto o edizione a stampa
che abbia trasmesso copia totale o parziale di un testo

• Il complesso dei testimoni costituisce la tradizione, quindi definiamo la tradizione con un sistema che
comprende l'insieme delle testimonianze scritte di un testo che lo hanno tramandato nel tempo e nello
spazio con tutto ciò che questo implica e comporta.

La trasmissione verticale e orizzontale

• La trasmissione del testo che avviene attraverso la trascrizione di un unico esemplare viene definita
verticale
• La trasmissione attraverso uno o più testimoni di una famiglia (intrastemmatica) o più famiglie
(extrastemmatica), testimoni appartenenti ad altro ad altri gruppi viene definita trasmissione
orizzontale o trasversale
Il copista così trascrive il suo testo da più esemplari per singole lezioni o per ampi brani alterando e
contaminando le linee di trasmissione del testo rendendo difficile la ricostruzione dei rapporti genetici tra i
testimoni.

La trasmissione verticale manoscritta


L'amanuense o il copista

Prima della diffusione della stampa l’amanuense era la figura professionale di chi per mestiere copiava
manoscritti a servizio di privati o del pubblico, nell'antichità era esercitata dagli schiavi
Dopo le invasioni barbariche fu coltivata soprattutto in centri religiosi, nel XIII secolo si sviluppò una vera e
propria industria di professionisti

Ai fini della critica testuale l'opera di amanuensi professionisti è in generale più sicura di quella del copista
occasionale o dello studioso che tende a interpretare il testo

Il copista (detto anche scriba, amanuense o menante) è responsabile della scrittura di un testo. La maggior parte
dei casi un testo è scritto da un unico copista ma a volte è frutto di una collaborazione tra questi, a maggior
ragione un codice miscellaneo può essere opera di uno più amanuensi.

Quando un manoscritto però di più copisti si dice che ci sono più Mani, identificandole come mano Alfa, mano
Betta e via seguendo con le lettere dell'alfabeto greco.
Quando l'opera di uno avviene con delle interruzioni di tempo si può confondere con un cambio di umani ma in
realtà bisogna considerare il mutare nello stesso copista di umore, grafia, la penna.
Consideriamo anche che il copista se è un calligrafo, imita la scrittura del modello quando ad esempio si
sostituisce una pagina guasta o perduta di un manoscritto.
A volte egli riceve l'ordine di copiare pagina per pagine e riga per riga il modello. Quando accede in lunghezza
vi aggiunge una linea supplementare; quando succede invece di eccedere in brevità, scrive una riga della pagina
successiva poi la sbarra e la scrive di nuovo nella pagina seguente

Nell'ambito della stampa, compositore tipografo sono in un certo senso gli eredi dei copisti.

Quella del copista è una funzione e in certi casi può essere anche un ufficio o una professione.
Nel medioevo, a parte i monaci, i copisti di professione sono rari

Scrivere un libro era sinonimo di copiarlo, mentre per indicare l'attività dell'autore si ricorreva al verbo facere.

Nei manoscritti di tipo giullaresco il copista chiedeva come ricompensa per la sua fatica non tanto i caelica regna
quanto piuttosto qualcosa di piú terreno e a volte di piú carnale: un poculum vini, una bona puella ecc.
Spesso queste formule, talora insieme col nome del copista e raramente con la data, erano riportate nel
cosiddetto colofone (colophon), che disponeva le righe in una struttura grafica in genere rastremata verso il
basso in modo da dare la figura di un trapezio.
Nell’ambito universitario lavorano anche scribi professionisti. In realtà nel lungo arco del Medioevo i tipi di
copista sono varî e come i copisti per passione, quelli che trascrivevano i testi favoriti per poterne possedere un
esemplare personale: il caso piú famoso, studiato in particolare da Vittore Branca, è quello dei mercanti-copisti
che trascrissero varie copie del Decameron.
È interessante sapere se uno scriba ha copiato diversi mss. giunti fino a noi, perché da questa circostanza si
possono ricavare deduzioni anche importanti. Per esempio, se un copista ha copiato da un lato un codice non
datato e dall’altro uno o piú mss. datati, questi ultimi ci possono dare un’indicazione, sia pure generica, sulla
data del primo.
Scrive recentemente Luciano Canfora: «A ben vedere, è il copista il vero artefice dei testi che sono riusciti a
sopravvivere». Così fu, fino al tempo in cui la loro salvezza fu presa in carico dai tipografi.
I MONACI AMANUENSI
Amanuense deriva dal latino servus a manu, che era il termine con il quale i romani definivano gli scribi. Questi
monaci vivevano molte ore della giornata nello scriptorium. All'attività degli amanuensi si lega il personaggio
romano Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, che fondò a Squillace, in Calabria, il monastero di Vivario dedicato
allo studio e alla scrittura. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e la riproduzione di manoscritti, che fu il
modello a cui successivamente si ispirarono i monasteri medievali.
LO SCRIPTORIUM
Con le parole centro scrittorio si indica nel linguaggio della paleografia e codicologia il luogo definito in latino
come scriptorium, parola latina che deriva dal verbo scribere.
Posto dove si scrive e per estensione ogni luogo dove era effettuata l'attività di copiatura da parte di scribi,
soprattutto durante il Medioevo.
Nella terminologia corrente di solito si intende quella parte del complesso monastico dedicata alla copiatura dei
manoscritti, frequentemente in stretta connessione con una biblioteca.
Spesso tali ambienti ebbero grande importanza culturale sia per l'azione di salvaguardia della cultura greca e
latina, sia perché costituirono ambiti di pensiero e sviluppo di nuova cultura.
L'attività propriamente di copiatura prevedeva tutte le fasi della lavorazione del libro.

• preparazione della pergamena per la scrittura (taglio dei fogli, foratura, rigatura, levigazione).
• Fasi della scrittura vera e propria: il monaco amanuense copiava il testo sulla pagina rigata (che recava
già stabiliti gli spazi dove sarebbero state realizzate le miniature).
Non sempre si limitava alla copia di testi antichi; molto spesso venivano scritte anche opere originali.
L'attività dello scriptorium era diretta da un armarius che forniva i monaci del necessario per scrivere
(penne, inchiostro ecc.) e che aveva inoltre anche altri incarichi.
Spesso gli scriptoria svilupparono usi grafici caratteristici diversi e indipendenti fra loro (si pensi alle lettere
a e b caratteristiche dello scriptorium di Corbie o alle lettere a e z caratteristiche di quello di Laon varianti
della scrittura definita in paleografia come merovingica).

• La miniatura era invece eseguita separatamente dopo la redazione del testo (ma prima della
legatura del libro) in ambienti non necessariamente connessi allo scriptorium.
Gli scriptoria fornivano libri per i monasteri, sia per uso interno sia come manufatti di scambio.
Producevano inoltre i libri destinati alla ristretta fascia di laici alfabetizzati. T
alla metà del XIII secolo, la concorrenza di botteghe scrittorie laiche cittadine era diventata molto forte sia per il
tipo di letteratura proposta (non più soltanto edificante o di preghiera) sia per la lingua con cui era scritta (non
più in latino). Avevano sistemi di copiatura più rapidi (per esempio il sistema della pecia in ambito universitario).
Comunque, per vari secoli ancora gli scriptoria monastici rimasero il perno della produzione di testi liturgici per
i monasteri stessi, almeno fino alla diffusione della stampa

ALTO MEDIOEVO
Centri scrittori storicamente rilevanti
Fin dal VI secolo le prime regole monastiche inclusero la scrittura tra le attività che l'uomo umile doveva
compiere per condurre una pia vita.
Vivarium

• primo scriptorium di cui si abbia precisa testimonianza storica.


• parte del complesso monastico costruito da Cassiodoro nel VI secolo.
• grande cura nella trascrizione dei testi sacri.
• copiare testi di autori pagani.
• Il centro scrittorio fu attivo almeno fino al 630.
Montecassino

• La regola monastica di san Benedetto da Norcia specifica le varie mansioni e attività dei monaci, tra
le quali quella della scrittura.
• abbazia di Montecassino,
• fondata nel 529
• scriptorium attivo fino al XV secolo.
Bobbio

• istituito nel VII secolo presso l'abbazia fondata a Bobbio dal monaco irlandese san Colombano, dal
successore del fondatore, l'abate Attala (615- 627).
• maggior centro di produzione libraria dell'Italia centro-settentrionale tra il VII e il IX secolo, in età
longobarda e carolingia, al centro di una rete di scriptoria esistenti nei vari monasteri dell'ordine.
• I monaci irlandesi che vi lavorarono all'origine introdussero lo stile dell'arte insulare per le miniature e
un particolare sistema di abbreviature.
San Gallo

• Abbazia di San Gallo, in Svizzera.


• Una pianta dell'abbazia della prima metà del IX secolo mostra lo scriptorium presso l'angolo a nord
dell'edificio della chiesa.
Citeaux

• Con il venir meno della regola benedettina anche la posizione e la struttura degli scriptoria nei
monasteri cambiò: da spazi concepiti come semplici stanze coperte furono sempre più protetti e
riscaldati.
• In reazione a questo rilassamento a Citeaux (Cistercium) Bernardo di Chiaravalle impartì disposizioni
più severe, che giunsero a riguardare le decorazioni dei manoscritti.
• Un'ordinanza dell'inizio del XII secolo impone che nei libri vi fossero lettere di un solo colore e non
decorate. Sempre nello stesso periodo i monaci furono tenuti al silenzio nello scriptorium.
• Due secoli più tardi fu tuttavia loro concesso di eseguire il lavoro di scrittura anche nelle proprie
celle.
Certosini

• Lavoro nella solitudine della cella. Anch'essi quindi si dedicarono all'attività di copiatura.
• Giovanni Tritemio, abate di Sponheim, scrisse un breve opuscolo De laude scriptorum (Elogio degli
scribi) nel 1492 per celebrare le glorie di un'attività sempre più insidiata da vicino dalla diffusione
delle opere a stampa su carta.
• La scrittura è qui vista come la più alta delle attività manuali da conservarsi per ragioni storiche e di
disciplina religiosa.

IL BASSO MEDIOEVO
Durante il XIV secolo e il XV secolo, l'arte della copia degli antichi testi aveva raggiunto il suo culmine: i libri,
erano controllati sul piano grammaticale e ortografico dai correctores (questo avveniva perché in quei tempi,
dato l'ottimo salario degli amanuensi, molti semianalfabeti si dedicavano a questa attività) per poi essere miniati
dai miniatores.
Presso le università, gli allievi copiavano, traducevano e miniavano molti codici.
Per dimezzare i tempi di produzione un codice talvolta veniva dato da trascrivere dividendolo fra due
amanuensi: metà ciascuno e poi riunite.
Nelle botteghe scrittorie laiche esistevano sistemi di copiatura più rapidi: i maestri depositavano un esemplare
autenticato dei testi: tale esemplare, diviso in pecie sciolte, era a disposizione dei copisti presso i librai, sicché
un medesimo testo poteva essere copiato in più pecie da mani
differenti. Il
sistema della pecia si attiva nel XIII secolo ed è la risposta commerciale del mercato librario medievale alle
esigenze legate alla nascita delle università. È un sistema fortemente strutturato poiché gli Statuti universitari ne
fissano in modo normativo le procedure e le fasi di produzione.

• L’Università si impegna a garantire, attraverso una commissione interna di petiarii, a sua


volta regolata da norme statuarie, l’autorialità e la correttezza del testo da mettere in
circolazione.
• L’originale dell’autore viene affidato ad exemplatores, che possono essere stazionari o
semplici copisti di fiducia dello Studium, per la trascrizione di un antigrafo che rispetti le
regole redazionali della suddivisione in pecie.
• l’Università deve ufficialmente correggere i testi che saranno depositati per dare origine
alle copie destinate agli studenti, ovvero all’edizione.
• La funzione dello stazionario è di assoluta preminenza nell’avviamento del circuito
editoriale. È lui che investe materialmente il denaro sull’exemplar corretto e autorizzato al
commercio, sulla gestione del deposito e del prestito.
I suoi guadagni sono garantiti dall’affitto contemporaneo a più persone dello stesso exemplar.
Dal suo lavoro dipende quello dei copisti incaricati a pagamento, pro pretio, per una copiatura
che si esegue in base alla partizione in pecie. Nonostante lo smembramento in fascicoli, il
valore commerciale dell’opera rimane unitario: la tariffazione per l’affitto e i contratti di
copiatura stimano un prezzo complessivo e mai per singola pecia.

• Lo studente, con il suo investimento finale e con la traduzione di questo in “sapere” da


restituire all’Università, chiude il sistema.
Ma il sistema della pecia diviso fra due polarità, quella culturale e quella commerciale, ha come filo conduttore
l’attenzione costante alla serialità e all’omologazione redazionale, che al tempo stesso sono garanzia di
controllo testuale e metodologia di lavoro da tradurre in guadagno . La pecia è anche la configurazione del
legame tra il nuovo sistema culturale e comunicativo basato sulla lettura con le tecniche che materialmente
attendono a costituire un testo; è l’attivazione di una rete di relazioni significanti del “sottotesto” che assicurano
la comunicazione visiva, oltre che quella contenutistica.
La riproduzione di libri per exemplar e pecia rompe l’unità del manoscritto, precedentemente considerato
sempre e solo nella sua interezza testuale, per scomporre il testo in parti più piccole dove il fascicolo, ovvero la
pecia, diventa la nuova unità di misura. Questa intuizione, che agevola e velocizza la riproduzione, si basa sul
medesimo principio che porterà Gutenberg all’ulteriore scomposizione di un testo nella trentina di segni base
dell’alfabeto.

SCRITTURA E RILEGATURA
I libri venivano solitamente scritti in quattro modi, mediante:

• La scrittura onciale, usata in Irlanda e in Inghilterra.


• La scrittura beneventana, che si sviluppò nell'abbazia di Monte Cassino.
• La scrittura carolina, che si sviluppò all'epoca di Carlo Magno.
• La scrittura gotica, che si diffuse dopo la nascita delle università, quando aumentò la
richiesta dei libri.
Dopo aver finito il processo di scrittura, gli amanuensi rilegavano le pagine e creavano una copertina: essa
poteva essere tutta in oro battuto, in lamine di bronzo e angoli d'argento, o semplicemente in materiale
cartaceo
UNITA’ 2B
LA TRASMISSIONE VERTICALE MANOSCRITTA E LA FENOMENOLOGIA DELL’ERRORE
Partiamo dall’atto di codificazione e trasposizione manoscritta.
Ogni errore che si produceva in un manoscritto durante la trascrizione si trasmetteva al manoscritto successivo,
di cui il primo diventava il modello.

• L’errore iniziale, detto errore diretto, tendeva, quindi - nel ripetersi - a complicarsi in modo
esponenziale, dando origine ad altri errori cosiddetti indiretti, che si diffondevano nella tradizione.
• Peggio accadeva quando il copista, più disposto a intendere il testo (secondo un atteggiamento di
riproduzione attiva piuttosto che meccanica del modello), aveva la pretesa di correggere l’errore, o
presunto tale (semmai introducendo varianti), allontanandosi ancor di più dal testo originario (errore
critico).
Dinanzi a una copia manoscritta, dunque, il filologo è portato a supporre che essa sia la trascrizione o
riproduzione fedele (o intenzionalmente fedele) di un altro manoscritto (o esemplare o modello o antigrafo), del
quale la copia riprodurrebbe puntualmente il dettato, conservando gli errori e inevitabilmente aggiungendone di
propri (compresi, tra questi, come detto, gli eventuali interventi correttori e di restauro apocrifo del trascrittore
cosiddetto conciero, che abbia scorto o creduto di scorgere un guasto nell’esemplare da cui copia).
Possiamo dire, perciò, che l’errore è un evento quasi inevitabile. Errori che, come si dirà più avanti, possono
essere però per il filologo preziosi, soprattutto quando si rivelano utili a ricostruire, induttivamente, i rapporti
genetici tra i testimoni.
Un testo senza errori equivarrebbe ad una pista senza impronte per una guida, ad un sito senza reperti per un
archeologo, a un luogo del delitto senza tracce o indizi materiali per un investigatore.
L’errore è dunque la guida che consente all’editore di ritrovare a ritroso il sentiero della «verità» nel ginepraio
dei testi che in vario modo hanno tramandato una data opera.
Se due o più testimoni fossero, per ipotesi, del tutto identici e privi di errori se non vi fossero segnalati né tempi
né modi di composizione e di stesura, e se anche la loro cronologia fosse aleatoria, noi non avremmo elementi
utili a fissare i loro rapporti di parentela e neppure un loro ordine, pur approssimativo. La correttezza di due
testimoni, difatti, permette di constatarne la reciproca identità, non la loro affinità genetica (cioè la provenienza
dal medesimo scrittoio, o la dipendenza dallo stesso esemplare). L’errore certo e comune fornisce quindi al
filologo la prova che due copie sono vicine l’una all’altra.
ERRORI E VARIANTI
Tanto l’autore quanto i trascrittori, dunque, nell’atto della codificazione e della duplicazione di un testo
possono compiere errori oppure introdurre varianti.
La distinzione fra varianti ed errori è, per l’ecdotica, essenziale .
ERRORE COME ALLONTANAMENTO DALLA VOLONTÀ DELL’AUTORE
Se, come scrive Firpo, compito del filologo è ricostruire «il certo dei testi» piuttosto che «il vero delle cose»,
possiamo concludere che in filologia la verità coincide con la certezza data del testo, e viceversa.
La verità testuale è quella esprimente la volontà dell’autore.
Sarebbe errore qualsiasi luogo del testo che si allontani dalla volontà dell’autore. Esso, perciò, quando
individuato è da emendarsi.
L’ERRORE PALESE ED ERRORE MASCHERATO D’AUTENTICITÀ
è errore ogni alterazione e corruzione dal testo originale. Il termine errore così inteso comprende:

• sia lo sbaglio, palese, incontestabile, in quanto di per sé non ha senso e non ne conferisce alcuno al
contesto linguistico in cui è inserito,
• sia l’errore cosiddetto mascherato, mimetico, la lezione apparentemente ammissibile, accettabile,
corretta, autentica (e con parvenza di autenticità proprio perché corretta, fino a prova contraria), che ha
un senso proprio e che nel contempo ne conferisce uno plausibile al contesto in cui è inserita, pur non
corrispondendo alla reale volontà dell’autore.
Questo secondo caso è, per l’editore critico, ovviamente il più insidioso perché l’errore ha l’apparenza
dell’autenticità, anche se in realtà si allontana da quanto l’autore ha scritto: solo il confronto e la divergenza
rispetto ad altri testimoni potrebbero mettere in dubbio o addirittura smascherare.
VARIANTE COME DIFFORMITA DI LEZIONE
La variante invece è in filologia ciascuna lezione dotata di senso che si presenta in forma diversa, divergente,
rispetto a un’altra lezione nello stesso luogo dello stesso testo o di un altro testo, manoscritto o a stampa .
In linea teorica, quindi, ogni variante ed ogni divergenza o difformità di lezione presentata da un testimone
potrebbe essere, sia un errore, in quanto deviazione dal testo originale, sia una lezione autentica esprimente la
volontà dell’autore, in quanto derivazione dal testo originale.
Per sapere ciò, però, ci sarebbe bisogno del testo autentico come termine di riferimento; testo in base al quale
si possa definire con certezza cosa sia errore e cosa invece variante d’autore, cosa allontanamento dalla verità
testuale determinata da un copista e cosa divergenza di lezione frutto di innovazione o volontà autorale. In
filologia il confronto si dovrebbe effettuare, dunque, con l’originale del testo.
È opportuno, quindi e prima di tutto, distinguere le situazioni in cui l’originale è perduto (e pertanto da
ricostruire attraverso le sue copie o testimoni) e quelle in cui l’originale è conservato.
QUANDO L’ORIGINALE È ANDATO PERDUTO
Quando l’originale di una data opera è andato perduto - come nel caso delle letterature classiche (si pensi
all’Iliade) di buona parte della letteratura italiana antica (si pensi alla Comedìa) e di alcune situazioni di quella
contemporanea, l’individuazione dell’errore diventa per l’editore critico un compito talvolta ardimentoso, non
essendoci il termine di riferimento per valutare la reale autenticità della lezione.
In questo caso il filologo deve scandagliare e recensire la TRADIZIONE di tale opera, raccogliendo e
confrontando tra loro le copie - ossia i testimoni che l’hanno trasmessa (tràdita, tramandata) - e interrogarla con
metodo induttivo per cercare di ricostruire la forma più fedele possibile del testo originale, per tentare di
restituire, tramite congettura, la redazione ritenuta espressione più vicina alla reale volontà codificatoria del suo
autore.
Il lavoro si complica quando la tradizione è a testimone unico (codex unicus), perchè si riducono notevolmente
le possibilità di scoprire le eventuali innovazioni o violazioni del copista la cui erroneità non sia evidente.
Il processo di ricostruzione dell’ultima volontà dell’autore rispetto alla sua opera, qualora di questa non ci sia
pervenuto l’originale, attiene a quello che d’Arco Silvio Avalle ha definito «fenomenologia della copia».
QUANDO ESISTE L’ORIGINALE
Ciò non significa, beninteso, che la presenza dell’originale di per sé risolva tutti i problemi del filologo,
spesso li complica,:

• autografi costellati di errori d’autore, di correzioni e di varianti alternative


• uno o più autografi accompagnati da copie manoscritte o da edizioni a stampa non autorizzate, che
presentano redazioni tra loro differenti.
CRITICA DEL TESTO ED EDIZIONE CRITICA
L’ambito di pertinenza è quello proprio della critica del testo (o critica testuale, o verbale, o ecdotica, secondo la
definizione datane da Henry Quentin nel 1926) da intendersi come insieme dei mezzi e degli strumenti per la
ricerca e la ricostruzione (o restituzione o fissazione) del testo originale in presenza di sole copie, e quindi
l’insieme dei mezzi e degli strumenti atti ad approntare un’edizione critica.
L’edizione critica ha dunque lo scopo di restituire il testo tradito privo degli errori che possono indurvi le
vicende della diffusione e della trasmissione di un’opera nel tempo e nello spazio, e di fornirlo nella «forma più
vicina che sia possibile a quella voluta e considerata definitiva dall’autore».
In questo senso la «fenomenologia della copia» attiene all’edizione critica da intendersi come edizione
ricostruttiva.
ERRORE D’AUTORE E ERRORE DEL COPISTA
L’errore può essere provocato

• direttamente dall’autore, nell’atto della codificazione del suo testo


• oppure provocato indirettamente dal copista nell’atto della riproduzione, ricopiatura o trascrizione del
testo (trasmissione) direttamente dall’originale (apografo) oppure da altra copia che serve da modello
(antigrafo).
Dimostrare, con assoluta certezza che innovazioni, mende, sbagli, mancanze, imprecisioni, lacune, errori presenti
nella tradizione risalgano direttamente all’originale perduto, è in linea di massima molto difficile.
Risulta difficile anche perché, come si vedrà più avanti

• gli errori poligenetici – cosiddetti perché presenti in diversi testimoni e soprattutto perché prodotti in
ciascuno di essi indipendentemente l’uno dall’altro – in quanto tali non hanno alcun valore dimostrativo
dei rapporti stemmatici (rapporti genetici tra testimoni che permettono, appunto, di risalire all’originale).
• per gli errori monogenetici, perché essi sono spesso talmente palesi e marcati per pensare sia a
un’origine poligenetica sia, per la loro evidenza fenomenologia, a un’origine autorale.
Per altro sarebbe sbagliato credere che un poeta o uno scrittore difficilmente possano commettere errori. È vero
semmai il contrario: è molto più improbabile incorrere in un testo senza mende, sviste, errori più o meno banali
di forma o di contenuto, soprattutto quando si tratta di un’opera di ampie dimensioni.
ERRORI «POLARI»
Quando, ad esempio, Giovanni Boccaccio, a tarda età esemplò, in littera textualis su due colonne (con postille
interlineari e marginali di più mani, compresa quella del Boccaccio stesso), il codice Hamilton 90 trascrivendolo
da un manoscritto non identificato, agì nel contempo da autore e da copista di una sua opera. All’atto della
ricopiatura trasmise al suo Decameron – oltre che lezioni alternative, sviste e lacune codificatorie di vario tipo,
indipendenti dalla sua volontà – anche innovazioni ed errori frutto di una chiara volontà autorale e la cui
emendazione, perciò, richiederebbe la massima cautela.
Franca Brambilla Ageno, ad esempio, definisce questo tipo di guasti «errori polari», avvertendo che «non è del
tutto pacifico che si debbano rettificare».
ERRORE D’AUTORE
Il problema successivo, infatti, risiede nel non sempre facile compito di decidere se, una volta riscontrata la
presenza di un errore d’autore, si debba emendare oppure non.

• Molto dipende dalla accertata assenza di volontà dell’autore nel compiere l’errore; ossia: egli non
avrebbe voluto scrivere quello che ha scritto per sua distrazione, o negligenza, o per accidente fisico o
condizione situazionale, oppure per cause indipendenti dalla sua volontà, e allora l’errore potrà, in linea
teorica, essere emendato.
• Oppure, dalla accertata presenza di volontà, o «volontà errante» nel compiere lo stesso errore; ossia:
egli ha voluto scrivere ciò che ha scritto, o per ignoranza o per voluta negligenza o indifferenza, o altro,
nonostante si tratti di qualcosa di sbagliato, e allora in linea di principio, in quanto «intangibile», dovrà
essere conservato.
Nel secondo caso, a rigor di logica, non si dovrebbe parlare filologicamente di errore, proprio perché comunque
è espressa una volontà autorale, ancorché «errante». Ed in quanto corrispondente a tale volontà, in linea di
principio, non emendabile.
EMENDAZIONE DELL’ERRORE D’AUTORE
Poniamo il caso, ad esempio, di leggere in un manoscritto autografo la forma tronca dell’aggettivo (o pronome o
sostantivo) «poco» reso con l’errata grafia «pò» anziché «po’».
La prima mossa del filologo sarebbe, in questo caso, quella di verificare – attraverso un’operazione di spoglio
delle relative occorrenze della forma tronca dell’aggettivo –

• se trattasi di svista materiale, di imprecisione dovuta alla distrazione o alla fretta, di pecca comunque
indipendente dalla volontà dell’autore
• oppure se di errore ortografico dovuto alla effettiva incompetenza, impreparazione o ignoranza dello
scrivente.
Infatti, se si dovesse constatare che

• la forma grammaticalmente corretta «po’» occorresse in tutto il manoscritto per ottanta volte contro
un’unica forma «pò», allora sarebbe lecito pensare ad una verosimile disattenzione autorale.
• Ma se, invece, anziché una volta sola, la forma «pò» occorresse, poniamo, trenta volte contro le
cinquantuno di «po’», allora sarebbe più ammissibile pensare a un’effettiva incertezza codificatoria
dell’autore (o del proprio tempo), che, in quanto tale, paleserebbe una chiara volontà espressa,
ancorché parzialmente «errante». In questo caso, quindi, sarebbe meglio conservare e salvaguardare
entrambe le forme.
Come si vede molto dipende dalla accertata assenza di volontà dell’autore nel compiere l’errore, oppure dalla
accertata presenza di volontà (o «volontà errante») nel compiere lo stesso errore.

• Nel primo caso, l’autore non avrebbe voluto scrivere quello che ha scritto per sua distrazione, o
negligenza, o per accidente fisico o condizione situazionale, oppure per cause indipendenti dalla sua
volontà, e allora l’errore potrà, in linea teorica, essere emendato.
• Nel secondo caso egli ha voluto scrivere ciò che ha scritto: L’errore di fatto è intangibile, perché
appartiene all’unica concreta realtà storica che qui interessi: quella della mente di colui che credette
vero quel falso.
E in ogni caso non è compito della filologia ricostruire il vero delle cose, bensì il certo dei testi.
Emendabile, insomma, per Firpo, è l’errore che nasce da assenza di volontà non quello che nasce da volontà
errante.
L'uso, ad esempio, di un termine incongruo, omofono con altro che renderebbe senso plausibile, può essere
frutto di svista materiale, oppure di effettivo equivoco, cioè di vera e propria ignoranza: nella prima ipotesi il
restauro è doveroso, nella seconda arbitrario, anche se la soluzione del dilemma può presentarsi ardua,
dovendosi fondare su una valutazione complessa della personalità dell'autore [...]. Pure la soluzione dovrà
essere in ogni caso acquisita, perché è altrettanto doveroso per il filologo risarcire l'errore derivato da assenza
dì volere, quanto rispettare e perpetuare quello che nacque da volontà errante, da mancata conoscenza di
elementi effettuali che avrebbero potuto indurre quella stessa volontà a determinarsi in altra guisa
Un caso a sé è costituito da errori dovuti a difetto di memoria: in questo caso bisognerà infatti distinguere se i

• l ricorso alla sola memoria è volontario (se, cioè, l'autore è indifferente nei confronti della possibile
erroneità del dato recuperato mnemonicamente);
• o se, al contrario, tale ricorso è determinato da circostanze esterne: in questo caso, potendosi
ragionevolmente supporre che i dati inseriti a testo sarebbero stati diversi se l'autore avesse potuto
disporre del materiale necessario (libri, ad esempio),
sarà legittimo procedere, solo in certi casi e con estrema cautela, all'emendamento. Qualunque sia la natura e
l'estensione degli interventi, comunque, al filologo incombe l'obbligo di registrare con assoluta fedeltà quanto
attestato dall'autografo, e di rendere conto dei motivi che lo hanno spinto a intervenire.

▪ Frequente è l'errore d'autore in presenza di parole tecniche, o, comunque sia, non usuali, esposte a scambio e
storpiatura.

▪ Altri errori legati alla cultura dell'autore dipendono dalle sue fonti, dai libri che cita, da inesattezze nel tradurre
ecc.
Tutto ciò va scrupolosamente conservato e accompagnato da note esplicative; correggere vorrebbe dire
falsificare, in quanto si sostituirebbero, a dati storicamente certi, dati astrattamente veri, venendo meno ad una
funzione istituzionale di qualsiasi filologia:
per esempio la toponomastica del De montibus (1360, è un repertorio ordinato alfabeticamente dei nomi
geografici ricorrenti in opere classiche latine) è spesso autenticamente boccacciana, anche se sbagliata, e spinosi
problemi si pongono di fronte a lezioni in astratto giuste che potrebbero essere dovute a emendamento di dotti
copisti. Capita anche che si trovino autori citati in forma diversa da quella che ci è oggi familiare, e magari in
modo sicuramente scorretto; di qui possono aver avuto origine interpretazioni, commenti, suggestioni che non
si spiegherebbero qualora si adeguasse la citazione al testo critico attualmente in uso. Altre volte un modo
particolare di citare è significativo di gusti e inclinazioni, come succede per De Sanctis, che nei saggi e nelle
lezioni su Manzoni faceva uso della ventisettana dei Promessi Sposi; in perfetta coerenza col giudizio negativo
espresso nei confronti della revisione linguistica successiva: «La ritocca nelle parti esterne, togliendo qualche
lombardismo, aggiungendo qualche toscanismo, e facendo male, perché questi lavori sovrapposti, aggiunti,
guastano la primitiva creazione». A criteri conservativi occorre attenersi anche di fronte a citazioni fatte a
memoria e quindi approssimative, come capita spesso nei carteggi. Insomma non è certo il caso di correggere
Machiavelli che in una lettera a Guicciardini del 19 dicembre 1525 cita storpiandoli i vv. 133-35 del VI del
Paradiso: «Quattro figlie hebbe, et ciascuna regina / della qual cosa al tutto fu cagione / Romeo, persona humìle
et peregrina»; l'esatta lezione del v. 134 («Ramondo Beringhiere, e ciò li fece») sarà additata dall'editore in una
apposita nota.
L’ERRORE DEL COPISTA E EZIOLOGIA DELL’ERRORE INVOLONTARIO

L’errore del copista è quello provocato appunto dal copista nell’atto della ricopiatura o della trascrizione del
testo (trasmissione).

Come e soprattutto perché nasce un errore?

Nell’atto della lettura, memorizzazione, autodettatura si sbagliava per distrazione, negligenza, cattiva lettura
dei codici, fraintendimenti e banalizzazioni dei termini, ignoranza del trascrittore e interferenze varie,
condizioni ambientali e culturali e contesti situazionali.

È pressoché inevitabile che copie non autografe di un testo contengano errori.

Il benedettino che copia nella sua cella spesso agisce in condizioni di lavoro pessime: scrive seduto con il
codice sulle ginocchia, talora su una tavoletta che gli serve da scrittoio e solo nel Basso Medioevo usa un
leggìo o un tavolo. Spesso si lamenta della sofferenza.

Il rapporto scrittura-trascrizione

Egli legge una pericope, la memorizza, la copia e torna al modello per leggere la pericope successiva.

La pericope non ha un’ampiezza predeterminata ma corrisponde a quello che in ogni determinata circostanza
il copista sceglie di leggere, ritenendo fattibile trattenerlo a mente.

L’operazione sommariamente descritta nel comma precedente, in apparenza assai semplice, è in realtà
estremamente complicata.

In ogni modo la lettura procede con successivi salti dell’occhio e momentanee fissazioni, in modo da non
leggere tutte quante le lettere, ma solo (in genere) quelle iniziali e quelle finali della parola, mentre il resto
viene come indovinato; questo può dar luogo anche a curiosi fraintendimenti, per cui magari una parola come
gestazione, letta nel modo sopra descritto (gest...ione) può diventare gestione.

Se la lettura fosse poi piú rapida (ma non è il caso della fenomenologia della copia medievale) si tende a
scorrere soprattutto il centro della pagina indovinando la periferia del campo di scrittura. Il tipo di lettura
vagamente descritto in questo comma si suole chiamare “lettura globale”.

▪ il copista legge una perícope dell’antigrafo (diciamo la perícope “a” del codice A) e se ne forma quella che
possiamo chiamare un’immagine visiva, dove riconosce i segni attraverso un confronto con un “magazzino”
di immagini visive che è allocato nella sua mente;

▪ quindi detta a sé stesso la perícope, in silenzio o molto piú facilmente bisbigliando o comunque facendo
vibrare le corde vocali; questa dettatura interiore che si serve dell’azione degli organi fonatori dà luogo a
un’immagine auditiva, che lo scriba pure interpreta attraverso il suo magazzino d’immagini auditive.

▪ probabilmente a questo punto, se non prima, il copista associa a questa immagine auditiva un’immagine
concettua le, pescando nella sua competenza linguistica (la sua langue);

▪ finalmente manda a memoria la perícope “a”, realizzando un’immagine mnemonica.

Qui si ha lo spartiacque dell’operazione: ossia fin qui si ha il percorso dalla perícope “a” del modello alla
memoria del copista; ora si passa dalla memoria del copista alla trascrizione della perícope “a”. Quindi:

▪ una volta memorizzato il testo, lo scriba passa a trascriverlo, dettandolo di nuovo a sé stesso e dando vita
a una nuova immagine acustica, fino a quando qualcosa mette in moto la mano (jeu de main) che
materialmente scrive la perícope “a” nell’apografo, ossia nel codice B;
▪ finita questa operazione, torna con gli occhi sull’antigrafo cercando di recuperare il testo che segue
immediatamente la fine della perícope “a”, per passare a leggere la perícope “b”, che trascriverà con lo stesso
iter prima descritto.

Ai già esistenti e non infrequenti errori d’autore, quindi, durante l’opera di ricopiatura (trasmissione),
inevitabilmente venivano commessi e si aggiungevano altri errori di vario tipo che modificavano, seppur
lievemente, l’identità linguistica dell’originario sistema testo, testimone ‘autentico’ della volontà autorale.

Errore volontario o critico

Altre volte si sbagliava “volontariamente” (errore volontario o critico), per vera e propria volontà di un copista
(spesso colto) impegnato a intendere il testo in modo ‘aperto’ e a darne una interpretazione e operando
interventi a volte arbitrari (tradizione attiva).

L’errore volontario (o critico) è, quindi, quell’errore commesso dal copista che spesso per eccesso di zelo,
mosso dall’intenzione di migliorare il testo laddove gli appaia guasto, introduce di propria iniziativa una
innovazione rispetto al testo tramandato.

La pericolosità di questi concieri sta proprio nella verosimiglianza, nel fatto che sono errori mimetizzati, non
evidenti.

Da un esemplare venivano tratte singole o più copie simultaneamente (con il sistema della pecia, cioè della
divisione dell'exemplar in fascicoli).

Ed ecco tagli o raddoppiamenti di lettera o di parole; scambio di una parola con una simile o opposta di senso;
fraintendimenti e banalizzazioni dei termini; inversione nell'ordine degli elementi della frase ecc.

Tipologie di errori

Quali sono gli errori più comuni e più frequenti? Quale classificazione?

1. Ci sono quelli per semplificazione grafica e per omissione del copista; omissione di segni diacritici.
2. L’aplografia consiste appunto nel copiare una parola o più parole, contigui ad altri uguali che
pre cedano o seguano una frase, una sola volta al posto di due:

filogia per filologia;

polo per popolo;

statale ridotto a stale,

sperperare diventa sperare ecc.

3. L’errore opposto alla aplografia è la dittografia, ossia scrivere due o più volte ciò che andava scritto
una sola volta;
popolo per polo;
sperare per sperperare,
notte per note ecc.
4. L’errore d’anticipo è invece l’errore che commette il copista quando, inserisce una parola che è alla
fine della frase letta o che si presenta più oltre, al posto di una parola che è al principio o che è più
indietro.
5. L’omeoarchia lo scambio tra parole che iniziano allo stesso modo e proseguono in modo simile.
diagramma per digramma;
traduzione per tradizione.
6. L’omeoteleuto quando si susseguono a breve distanza nel testo due parole che hanno la stessa fine,
è facile l’errore del copista che unisca l’inizio della prima con la fine della seconda, saltando tutto ciò
che è in mezzo.
parenti – attenti = patenti

Sappiamo che errori identici si possono a volte produrre in copie diverse in via del tutto indipendente l’una
dall’altra parleremo allora di errori poligenetici.

L’ERRORE POLIGENETICO è, dunque, quell’errore che, presente in diversi testimoni, può essersi prodotto in
ciascuno di essi del tutto indipendentemente dall’altro o dagli altri, risultando così privo di autonomo valore
dimostrativo dei rapporti stemmatici. L’ERRORE MONOGENETICO è, viceversa, quell’errore che, presente in
due o più testimoni, ha caratteristiche tali da renderne altamente improbabile l’origine poligenetica.

L’ERRORE CONGIUNTIVO assume valore dimostrativo della connessione e della parentela tra questi.

L’errore congiuntivo è anche monogenetico.

L’ERRORE SEPARATIVO è, invece e per converso, l’errore che, presente in un testimone e assente in un altro,
può far escludere che quest’ultimo sia copia del primo, assumendo così valore dimostrativo
dell’indipendenza dell’un testimone dall’altro. Diverse copie di un testo che presentino uno o più errori
separativi e non errori congiuntivi che non siano riconducibili all’archètipo o ai piani alti dello stemma, si
definiscono copie reciprocamente indipendenti.

Le varianti

Con variante si indica ogni divergenza di lezione presentata da un testimone rispetto a uno o più testimoni;
ossia, una lezione in forma diversa rispetto a un’altra e dotata di senso.

Nei testimoni antichi sono difatti frequenti minime o più estese innovazioni testuali di solito imputabili ai
copisti: esse appaiono a prima vista accettabili, se non autentiche, e vengono identificate come tali nel corso
del confronto fra lezioni omotetiche di testimoni diversi.

Le denominiamo appunto VARIANTI.

Varianti formali e sostanziali

Si distingue tra variante formale e variante sostanziale. Le varianti formali riguardano solo la forma di una o
più parole del testo;

1. Varianti grafiche
2. Fonetiche
3. Morfologiche

Le varianti sostanziali sono quelle che riguardano la sostanza della lezione. Per esempio casi di sinonimie:
vicolo scuro e vicolo buio; strada buia e via buia.

Sempre sostanziali sono le varianti che mostrano spostamenti di frasi o di sezioni, aggiunte o eliminazioni di
testo (se riguardano porzioni ampie del testo si parlerà di macrovarianti).

Varianti di tradizione e varianti d’autore

Quindi, la variante di tradizione è quella portata dalla tradizione del testo, che almeno in via di presunzione
è da imputare a svista o iniziativa del copista o dello stampatore, pertanto indiziata di errore.

La variante d’autore o variante redazionale, invece, è quella imputabile all’autore.

La variante d’autore attiene alla filologia d’autore.


La trasmissione orizzontale: la contaminazione

Una trasmissione è normale quando da un codice derivano uno o più altri codici, i quali si limitano a
trascrivere il loro antigrafo riprendendone le innovazioni e gli errori e aggiungendo innovazioni proprie.

In ogni altro caso la trasmissione è anomala e questo avviene fondamentalmente quando un codice non si
limita ad avere un unico modello, ma dipende da più fonti. La trasmissione anomala per eccellenza è
rappresentata dalla contaminazione.

In ecdotica il termine ha un significato tecnico particolare e si riferisce appunto all’uso di più modelli da parte
di una copia. Nell’opera di ricopiatura, infatti, poteva accadere che il copista di fronte a più esemplari di uno
stesso testo, anziché scegliere di trascrivere da un unico esemplare di copia.

Trascrivesse attingendo contestualmente e più o meno contemporaneamente da due o più testimoni


(trasmissione orizzontale), risultato di una mescolanza.

Il correttore emenda dopo che è stata ultimata la copia; quindi dovrà lasciar traccia del suo intervento
trascrivendo le lezioni del secondo antigrafo negli in-terlinei o nei margini della copia.

Se dunque il nostro P presentasse varianti, negli interlinei o nei margini, che sono alternative a quelle del
testo-base, siamo sicuri che è un codice contaminato. Ma se un manoscritto T copia da un P così descritto e
a volte trascrive il testo-base (quello che P eredita da A ) e a volte preferisce, senza avvertire, il testo che in
P proviene da S, noi ci troviamo di fronte a un manoscritto privo di corre zioni apparenti, ma in effetti
contaminato.

Editio variorum

Un manoscritto che più o meno sistematicamente annoti, nei margini e negli interlinei, le varianti di uno o
piú altri modelli, si chiama collettore di varianti o editio variorum.

Le editiones variorum sono rarissime.

Il testo contaminato iniziava a circolare e a riprodursi nel tempo e nello spazio, trasmettendo nei passaggi
successivi le proprie alterazioni alle quali si aggiungevano, in maniera spesso esponenziale, nuove forme di
corruzione e contaminazione.

Si tenga conto che la circolazione di un testo significava trascrizioni manuali nell’età antica, medievale e
umanistica e stampe e ristampe in quella moderna, quindi occasioni continue di errori.

La trasmissione: danni laterali

Agli errori commessi dai copisti si devono inoltre aggiungere i danni materiali che i manoscritti subivano lungo
i secoli: usura, lacerazioni, mutilazioni, distruzioni.

In presenza di queste difficoltà il copista può reagire in vario modo. Può lasciare uno spazio bianco più o
meno corrispondente alla grandezza della lezione “opaca”; tale spazio bianco si chiama finestra. Oppure
preferisce tentar di interpretare quella lezione e, nella stragrande maggioranza dei casi, introdurrà
un’innovazione inautentica.

La trasmissione e la tradizione del testo

Dal libro manoscritto alla stampa: Gutenberg

Secondo lo scrittore Victor Hugo il più grande avvenimento della storia umana è stata l’invenzione della
stampa a caratteri mobili del tedesco Johannes Gänsfleisch Gutenberg.
Nel 1998 una giuria di giornalisti americani lo eleggerà «man of the millennium», la persona più importante
del millennio.

La Bibbia a 42 linee o Bibbia Gutenberg.

Eziologia dell’errore nella trasmissione dei testi a stampa

Può capitare cioè che anche in opere a stampa curate dall’autore, o per sua negligenza o per un qualsiasi
accidente tipografico, si produca un errore.
La cinquecentina

Sa Vitta et sa Morte, et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Janvariu, il più antico testo letterario in lingua
sarda fino a oggi conosciuto, è un’edizione a stampa senza note tipografiche e con la sola indicazione nel
colophon: «Sanu de sa incarnatione.

L’intera numerazione, a stampa, la cui sequenza in un’unica serie è in cifre arabe nel recto, riguarda le carte
e non le pagine come del resto era consuetudine nei libri più antichi.

Poiché l’edizione è priva di note tipografiche (la nota tipografica è ciascuna delle indicazioni relative a luogo
di pubblicazione, editore e data di pubblicazione di uno stampato), si pone il problema della provenienza e
dell’individuazione del luogo di stampa.

Un indizio, secondo Alziator, sarebbe la M maiuscola, considerata dallo studioso lettera fra le più
caratterizzanti e rivelatrici.

Una verifica del Typenrepertorium di Haebler, relativo agli incunaboli (con incunabolo si intende un libro
stampato con la tecnica a caratteri mobili tra la metà del XV secolo e l'anno 1500 incluso. A volte è detto
anche quattrocentina) stampati in Europa, conferma che il carattere usato nella stampa del libro è quello
classificato come M 22; carattere, questo, utilizzato da stampatori francesi, spagnoli, ma anche italiani: di
Lione (quattordici), Valladolid (due), Saragozza, Tolosa, Napoli, Roma, Venezia (uno).

Ciononostante, se si pensa all’alto numero di tipografie e tipografi esistenti in Europa già fra la fine del XV e
la prima metà del XVI secolo, ci si rende conto che l’indicazione rimane, per un’esigenza di identificazione,
fuorviante e oltremodo generica per tre ragioni fondamentali:

1. perché il repertorio di Haebler fa esclusivo riferimento agli incunaboli;


2. perché l'identificazione di un carattere non equivale all’identificazione di una tipografia (questa
corrispondenza viene a mancare, poiché i caratteri diventano quasi da subito oggetto di scam bio
tra varie officine e le stesse aziende produttrici iniziano a rifornire molti stampatori sparsi un po’
ovunque in varie parti d’Europa)
3. perché, fra le oltre centocinquanta località, solo in Italia, dove la stampa era presente nel XVI secolo,
un buon numero di queste «testimoniavano soltanto l’isolata attività di un unico stampatore
itinerante»; e, fra Cinquecento e Seicento, sarebbero state quarantasei le località che conoscevano
la presenza di un solo tipografo.

Quello che viene considerato il primo libro stampato in Sardegna, lo Speculum Ecclesiae di Hugo de Santo
Charo, fu, ad esempio, opera, con ogni probabilità, di un tipografo ambulante.

Tutto questo potrebbe voler dire che il committente (verosimilmente un’istituzione ecclesiastica)
potrebbe aver affidato la stampa o a una officina non locale o appunto a un tipografo itinerante che
risiedeva in quel periodo in Sardegna. Il diplomatico ed erudito catalano Toda y Guëll, bibliofilo di fama
europea, pensò viceversa a una possibile stampa a Sassari.

Ma, ci si è chiesto, chi poteva avere interesse a commissionare la stampa del poemetto quasi un secolo
dopo la sua composizione? Per quale pubblico? In quale contesto avrebbe avuto un senso la circolazione
di un’opera in lingua sarda di argomento agiografico?

Siamo partiti da un ben preciso fatto storico. Durante il sinodo celebrato a Sassari il 26 ottobre 1555,
l’arcivescovo Salvatore Alepus propose che venisse rimessa in vigore l’antica consuetudine che obbligava
i vescovi suffraganei della provincia ecclesiastica turritana a intervenire alle feste di san Gavino.
Lo stesso consegnò al clero dell’arcidiocesi, con l’autorizzazione della Santa Sede, un nuovo testo liturgico
sui martiri turritani, in sostituzione dell’Officium pubblicato a Venezia nel 1497 da Pietro de Quarengiis e
composto della Passio e dell’Inventio corporum sanctorum.

Da alcuni anni furono avviate a Sassari una serie di iniziative volte a riportare all’antico splendore le feste
dei martiri turritani Gavino, Proto e Gianuario e «a valorizzare – salvandola dal degrado – la loro basilica
posta vicino al mare, ai margini del sito dove prima sorgeva l’antica Torres».

Questo accresciuto interesse, in pieno Cinquecento, nei confronti della produzione agiografica ha
spiegazioni molteplici. La valorizzazione del modello martiriale fu prima di tutto funzionale a un più
generale disegno di lotta alla Riforma protestante la cui dottrina non riconosceva la figura del santo, né,
in virtù di ciò, accettava la trasposizione in finzione letteraria della sua esistenza a modello di vita
cristiana, ciò non poteva non avere ricadute anche nell’isola. Nel Cinquecento e nel Seicento, pertanto,
dovettero certamente circolare in Sardegna numerose vitae e passiones. Diversi autori cercarono di
ridare dignità al sardo-logudorese e recuperare un tema nazional-religioso come quello martiriale.

Dopo la profondissima crisi quattrocentesca dunque, si lavorò per recuperare, in un contesto mutato, la
feconda tradizione liturgica e agiografica medievale. Interesse, questo, collaterale a quello legato alla
circolazione delle reliquie e al ritrovamento dei corpi santi, che rinfocolò, fra XVI e XVII secolo, l’antica
polemica fra Cagliari e Sassari per il primato ecclesiastico nell’isola.

Ma c’è di più. Nel periodo che va dal 1546 al 1563, durante il quale venne celebrato il concilio di Trento,
furono indetti i «giubilei» del 1550, 1552, 1556, 1560, «che diremo ‘tridentini’ per il loro legame
cronologico e ideologico al concilio». Attenzione particolare merita la figura dell’arcivescovo turritano
Alepus, che aveva partecipato da protagonista ai primi due periodi del concilio, distinguendosi quale
esperto in teologia e diritto. Egli governò la diocesi turritana per più di quarant’anni e iniziò l’opera di
restaurazione della vita religiosa e di introduzione dei decreti dei concilio del Trento.

Tra le visite pastorali qui si ricorda proprio quella che, iniziata nel febbraio del 1553, ebbe il suo epilogo
nel succitato sinodo celebrato il 26 ottobre del 1555 (in occasione della festa di S. Gavino) per la riforma
della diocesi. Quanto l’Alepus fosse legato al culto dei martiri turritani si è già detto.

Fu però l’arcivescovo sardo-ispanico che scrisse l’Ufficio liturgico del 1555 in sostituzione di quello
riportato nell’incunabolo stampato a Venezia, fu lui che chiese e ottenne dalla Sede apostolica (papa
Paolo III), in contrasto con il capitolo di Cagliari e forse per affermare davvero il primato ecclesiastico
della sede turritana, il privilegio di usare nelle processioni il «vexillum, seu dictum Confallonem» di San
Gavino.

L’azione riformatrice e l’opera di evangelizzazione della Chiesa in Sardegna non potevano non passare
attaverso una riconsiderazione dei canali, ma soprattutto dei codici, per una comunicazione che si voleva
immediata ed efficace e per un pubblico in prevalenza sardofono. Ci si pose dunque l’importante
questione della lingua. I vescovi sapevano che non ci sarebbe stato rinnovamento del popolo se non
tramite l’azione del clero, che viveva a diretto contatto con la gente. Per questa ragione si approntarono
dei catechismi in lingua sarda, affinché i chierici, prima di ogni altra cosa, fossero in grado di insegnare
almeno i rudimenti della fede.

A questo punto non ci pare improbabile che all’interno della serie di iniziative volte a riportare all’antico
splendore le feste dei martiri turritani avesse trovato posto la pubblicazione del nostro poemetto, che la
commissione della stampa fosse dello stesso arcivescovo Alepus e che questa fosse stata affidata
dall’istituzione ecclesiastica o a un’officina non locale o appunto a un tipografo itinerante che risiedeva
in quel periodo in Sardegna.
LA TRASMISSIONE E LA TRADIZIONE DEL TESTO

La tradizione di un testo consiste nell’insieme delle testimonianze di un testo, conservate o perdute, che lo
hanno tramandato nel tempo e nello spazio. Essa può essere distinta:

▪ a - in base alla tipologia, quantità e qualità dei testimoni che complessivamente costituiscono la tradizione;
▪ b - in base alle modalità in cui la tradizione si è sviluppata nel tempo;

▪ c - in base alla qualità del testo portato dalla tradizione.

TRADIZIONE ORALE O TRADIZIONE DI MEMORIA

La stragrande maggioranza degli originali delle opere giunteci attraverso la trasmissione manoscritta è andata
perduta.

Dell’antichità greca e latina, ad esempio, non conserviamo nessun originale. L’Iliade è tràdita da ottantotto
manoscritti medievali, copie di antichi codici perduti.

Per il filologo il discorso si complica anche perché molte civiltà, come quella greca appunto, inizialmente non
si servirono della scrittura ma si fondarono sulla trasmissione orale dei testi e quindi sulla memoria. Il testo,
prodotto secondo le modalità della circolazione orale, era generalmente fruito e utilizzato non come opera
individuale, ma come parte di un insieme intertestuale, espressione di una cultura comune. Non si conosceva
il concetto della proprietà letteraria.

Per questa ragione in molte opere dell’antichità spesso mancava l’attribuzione e la loro circolazione avvenne
per lungo tempo nell’anonimato. Infatti, ciò che contava non era tanto l’auctor e l’originalità di un suo
contributo, quanto l’auctoritas di una tradizione, quindi il testo stesso, la sua fruizione.

Per un Greco del VII secolo non costituiva motivo di scandalo aggiungere versi all’Odissea, perché considerata
opera ‘aperta’, proprietà non del poeta ma di tutta la comunità che ne faceva il veicolo del proprio patrimonio
di valori e conoscenze.

La tradizione orale è, dunque, quella affidata prevalentemente alla memoria, attraverso la recitazione o il
cantoui la trasmissione mnemonica del testo abbia interferito con la tradizione scritta (come potrebbe essere
inciden talmente accaduto, ad esempio, per la Commedìa di Dante).

TRADIZIONE MANOSCRITTA E A STAMPA

Da un punto di vista qualitativo, gli esemplari che costituiscono il complesso delle testimonianze (tradizione),
conservate o perdute, che hanno tramandato un testo scritto dall’autore sino a noi (e costituiscono il dato di
partenza per il filologo nel suo tentativo di ricostruzione e di edizione critica del testo stesso), concretamente
e materialmente possono essere:

➢ manoscritti

➢ edizioni a stampa

➢ manoscritti e edizioni a stampa insieme.

Il manoscritto

Il manoscritto è ogni documento scritto a mano. Esso può essere:

▪ un autografo (di mano dell’autore);

▪ un idiografo (scritto da mano diversa da quella dell’autore, ma redatto sotto la sua sorveglianza);
▪ un apografo, manoscritto che è copia diretta dell’originale, oppure detto di copia esemplare che serve da
modello, o comunque di copia da cui viene tratta altra copia;

▪ un antigrafo, manoscritto che è copia diretta di un’altra copia;

L’edizione a stampa L’edizione a stampa è propriamente la pubblicazione di un testo, che dall’invenzione


della stampa avviene normalmente con procedure tipografiche, capaci di garantirne una molteplicità di
esemplari, a volte con introduzione di modifiche nelle successive tirature. Si parla generalmente di ristampa
nel caso di nuova tiratura identica alla precedente. Di nuova edizione – seconda, terza, ecc. – nel caso di
nuove tirature con modifiche più o meno sostanziali. Nel caso di un’opera trasmessaci da edizione a stampa,
es sa potrà essere stata:

▪ originale, realizzata sotto la cura diretta dell’autore e il suo personale controllo o di persona da lui
autorizzata, o anche postuma, ma in qualche modo garantita da chi poteva rappresentare l’ultima volontà
dell’autore;

▪ postuma, pubblicata dopo la morte del suo autore;

▪ pirata, tirata non solo senza la sorveglianza, ma addirittura senza il consenso dell’autore;

▪ accresciuta, che presenta aggiunte, generalmente d’autore, rispetto all’edizione precedente;

▪ anastatica, che riproduce in facsimile un’edizione precedente;

▪ ancipite, che risulta priva di note tipografiche, data e luogo di stampa, nome dell’editore o dello stampatore
(edizione dubbia, incerta);

▪ autorizzata, realizzata sotto il controllo o comunque con il consenso dell’autore o di persona da lui delegata;
▪ clandestina, realizzata senza il consenso e l’imprimatur delle autorità;

▪ corretta, che dichiara un intervento di revisione e rettifica di eventuali errori filtrati nella precedente;

▪ critica, edizione in cui il testo viene presentato a stampa quale prodotto di un attento e rigoroso processo
di ricostru zione, mirato al recupero della lezione originale – o di una lezione vicina quanto possibile a quella
originale -, in cui il curatore (editore critico) abbia seguito un metodo scientifico, dando puntualmente conto
e ampia documentazione del lavoro compiuto;

▪ diplomatica, edizione che trascrive il testo con criteri di fedeltà diplomatica, senza che abbia luogo, da parte
dell’editore, il benché minimo intervento, né per sanare lacune ed errori anche manifesti, né per
regolarizzare la divisione delle parole e alterare l’usus grafico-fonetico, compresi particolari anche minimi
come segni d’interpunzione, capoversi, e simili;

▪ diplomatico-interpretativa o interpretativa, quella che, operando una trascrizione diplomatica del testo, ne
produce anche una cauta interpretazione procedendo alla modernizzazione di alcune particolarità grafiche
del manoscritto, introducendo, ad esempio, la separazione delle parole e una interpunzione essenziale,
sciogliendo le abbreviazioni, distinguendo la u e la v, disciplinando l’uso delle maiuscole e minuscole, ecc.;

▪ facsimilare, duplicato di un antico codice, consiste in una fedele riproduzione fotografica o su base
fotografica (per le stampe si preferisce la forma anastatica);

▪ integrale, senza tagli censori;

▪ limitata, in un ristretto numero di esemplari;

▪ numerata, limitata a copie numerate progressivamente;


▪ purgata, edizione in cui dal testo sia stato espunto ogni elemento che risulta inconciliabile con esigenze di
ordine morale o politico.

L’originale e la copia Alla luce e sulla scorta di quanto appena scritto, gli esemplari (manoscritti o edizioni a
stampa) - che, come detto, costituiscono il complesso delle testimonianze (tradizione), conservate o perdute,
che hanno tramandato un testo dall’autore sino a noi - possono inoltre essere:

▪ originali

▪ copie. L’originale è il testo autentico esprimente la volontà dell’autore. È il testimone, conservato o da


ricostruire, che è all’origine di tutta la tradizione. Il testo originale può, a sua volta, essere:

▪ un autografo

▪ un idiografo

▪ un’edizione a stampa controllata e approvata dall’autore. La copia è quel manoscritto diverso dall’originale
che rechi una testimonianza del testo, indipendentemente dal fatto che sia esemplato direttamente su quello
(apografo) o su altre copie (antigrafo)

È copia anche un singolo esemplare di una stampa, considera to come individuo, diverso e distinto dagli altri
esemplari della medesima tiratura. Riepilogando quanto già detto, la copia può, dunque, essere: ▪ un
apografo

▪ un antigrafo

▪ un singolo esemplare di una stampa. Nell’uso pratico si parla anche di:

▪ copia autografa, quando è l’autore stesso che trae copia dal proprio originale, o da un suo apografo. Essa è
più che una copia un originale;

▪ copia di lavoro, con riferimento al manoscritto su cui l’autore ha lavorato, quando sia conservato e
riconoscibile come tale, che dunque è a rigore, come la copia autografa, non una copia ma un originale;

▪ copia di servizio, sostanzialmente lo stesso che copia di lavoro, quando sia prodotto d’autore, ma può anche
essere un esemplare non d'autore su cui l’autore interviene, oppure una copia libera, manoscritta o a stampa,
utilizzata da un qualsiasi terzo per propri fini (ad es., la preparazione di una nuova edizione del testo);

copia di tipografia, nei rari casi in cui sia conservato (ma più spesso si presume), un esemplare preparato per
l’inoltro in tipografia, con gli ultimi interventi dell’autore o del curatore (o del revisore di tipografia, di varia
competenza e diligenza), che può dunque avere diversa rilevanza, ai fini dell’edizione del testo, secondo
l’origine - e l’autorevolezza - delle varianti di cui è portatore.

TRADIZIONE UNICA E PLURIMA

Un testo scritto può essere trasmesso da uno o più esemplari. Quanto al numero dei testimoni, dunque, esso
può variare sensibilmente: accanto a tradizioni assai folte si danno casi in cui un'opera ci è trasmessa da pochi
o pochissimi testimoni, e, al limite, da uno solo (codex unicus): sarà bene, comunque, tenere presente
dall'inizio che il numero dei testimoni non è mai (e comunque potremo avere la certezza che lo sia)
corrispondente al numero reale di copie che effettivamente e storicamente sono esistite, che hanno circolato
nel corso del tempo. Le modalità di tradizione In base alle modalità in cui la tradizione si è sviluppata nel
tempo e ai suoi riflessi nelle procedure della critica del testo, si distinguono:

▪ tradizione diretta

▪ tradizione indiretta,
▪ tradizione extravagante

▪ tradizione ramificata

▪ tradizione lineare.

LA TRADIZIONE DIRETTA

La tradizione diretta è quella costituita dai testimoni che hanno trasmesso direttamente l’opera o parte di
essa;

LA TRADIZIONE INDIRETTA

Per tradizione indiretta si intende invece l’insieme costituito da citazioni, rifacimenti, commenti, traduzioni,
e, più in generale, da «tutte le testimonianze che possiamo definire di seconda mano;

La tradizione indiretta è dunque molto più varia.

Rientrano in essa:

➢ citazioni di brani di un testo entro opere diverse

➢ traduzioni e versioni dell’opera in altre lingue e dialetti

➢ imitazioni e allusioni.

➢ persino modelli dell’opera

LA TRADIZIONE EXTRAVAGANTE O INORGANICA

È la tradizione rappresentata da riproduzioni di frammenti o brani di testi, estrapolati dall’opera di


appartenenza

TRADIZIONE ATTIVA, QUIESCENTE

Nella tradizione quiescente il copista si sente in qualche modo estraneo al testo su cui lavora e ne ha rispetto
al fine di un restauro conservativo.

Nella tradizione attiva, invece, il copista si crea il suo testo considerandolo attuale e «aperto».
La fenomenologia della copia – riassunto
Quando l’originale è andato perduto

Il processo di ricostruzione della volontà ultima di un autore rispetto alla sua opera, qualora di questa non
sia a noi giunto l’originale, attiene a ciò che D’Arco Silvio Avalle definisce la fenomenologia della copia.

Quando l’originale è andato perduto e il testo è conservato da una o più copie, manoscritte o a stampa,
queste si designano col termine di testimoni. Il complesso dei testimoni costituisce la tradizione del testo,
ricostruita attraverso la recensio. Tradizione in quanto i testimoni sono appunto i mezzi che l’hanno tràdito
(dal lat. TRADǏTUS, ‘trasmesso, tramandato, portato dalla tradizione’) nel tempo e nello spazio.

Testimonianza plurima o singola

Quando l’originale è andato perduto, si è detto, la testimonianza può essere plurima o singola.

La testimonianza plurima può essere costituita da:

▪ due o più manoscritti

▪ due o più edizioni a stampa

▪ due o più manoscritti ed edizioni a stampa insieme

La testimonianza singola può essere costituita da:

▪ un manoscritto

▪ un’edizione a stampa

Quando l’originale è andato perduto e la testimonianza è plurima, quale metodo?

Entriamo ora nel vivo della prassi di pubblicazione di un testo (o ecdotica).

Ogni copia manoscritta (o a stampa) si presume trascrizione o riproduzione fedele di un altro manoscritto, di
cui in genere riproduce diligentemente il dettato, conservando dunque tutti gli errori di cui è portatore e
inevitabilmente aggiungendone di propri, che offriranno poi all’editore moderno la traccia per la
ricostruzione dei rapporti genetici tra i testimoni. Ma come si ricostruisce il testo originale, partendo dalle
copie?

Il metodo di Lachmann – Karl Lachmann (1793-1851), filologo classico e editore

Indichiamo con metodo di Lachmann proprio una serie di operazioni che hanno lo scopo di pubblicare l'opera
a partire da ciò che resta della sua effettiva diffusione nella storia (tradizione).

Lachmann nel 1850 pubblica a Berlino l'edizione critica del De rerum natura di Lucrezio, adottando per la
prima volta in modo sistematico criteri meccanico-probabilistici che consentivano - partendo da un certo
numero di varianti - la scelta per induzione della lezione originale del testo.

➢ recensere

➢ emendare

➢ originem detegere

Ancor oggi tale metodo, detto appunto metodo di Lachmann, è alla base della moderna scienza filologica, è
stato poi recuperato, pur con alcune significative innovazioni, verso gli anni Trenta del Novecento grazie
all'opera del filologo classico italiano Giorgio Pasquali (1885 – 1952). Con Storia della tradizione e critica del
testo nel 1934 teorizzò una nuova forma di filologia che accoglieva i criteri meccanici propri del metodo di
Lachmann recuperando tuttavia parte delle osservazioni di Joseph Bédier, che miravano a dare maggiore
peso alla storia della trasmissione manoscritta e alle fonti come oggetti individuali e storicamente definiti.

Recensio ed emendatio

È con Lachmann, dunque, che si instaura la canonica suddivisione della critica testuale in due fasi distinte:

➢ la RECENSIO cioè raccogliere e descrivere i testimoni superstiti di un testo/confrontarne attentamente la


lezione/classificarli con uno stemma codicum.

➢ l’EMENDATIO cioè individuare le lezioni che è lecito ritenere autentiche in base a un’operazione
meccanica di calcolo di maggioranza/risalire infine all’archètipo (il vertice della tradizione conosciuta) ed
esaminarlo attentamente per rimuovere così gli ultimi errori e restaurare così l'originale tramite divinatio (o
congettura).

La raccolta (recensio)

La necessità del reperimento di tutte le testimonianze in nostro possesso è un principio irrinunciabile,


«l’autorità di un testimonio è indipendente dalla sua antichità».

Operazione preliminare e fondamentale, connessa alla necessità di porre alla base dell'edizione di tipo
lachmanniano tutti i testimoni di una data opera, è dunque la loro raccolta (censimento) completa ed
esaustiva che sia possibile. Il filologo la conduce avvalendosi di cataloghi, inventari e repertori generali o
parziali, dedicati a singole biblioteche, a singoli generi letterari, e così via.

Di solito, dunque, il filologo muove da una buona conoscenza delle opere, della lingua e della cultura non
solo dell'autore di cui intende occuparsi, ma anche dell'età e degli ambienti in cui egli visse; largamente nota
dovrebbe, perciò, essergli anche la bibliografia sull'argomento.

Di qualche utilità potrà essere la consultazione delle storie letterarie di maggior ampiezza.

A seconda dei casi, buoni servigi potranno inoltre rendere le varie opere enciclopediche e le opere
collettanee.

Per i principali movimenti letterari e i più grandi autori disponiamo di apposite storie della critica di specifiche
bibliografie e di riviste specializzate. E s'intende, più in generale, che doverosa sarà, per i filologi italiani, la
consultazione delle riviste che si occupano istituzionalmente di critica testuale o di settori affini.

Obbligatoria, infine, sarà la conoscenza delle edizioni, talora fornite di commento e introduzione, anche
dedicate a opere e autori variamente collegati con quello che ci si propone di studiare. Ma vogliamo anche
ricordare che nessuna bibliografia può risultare esente da lacune e che di nessuna è lecito fidarsi alla cieca,
esimendosi da tutti i possibili controlli personali.

Aggiungiamo infine:

➢ Archivi della tradizione letteraria del Novecento;

➢ Le edizioni digitali e le banche dati testuali.

La descrizione

Dopo l’operazione preliminare e fondamentale di raccolta (censimento) si procede alla descrizione:

▪ innanzitutto a siglare i testimoni, avendo cura che la sigla evochi il più possibile perspicuamente il testimone
cui si riferisce e soltanto quello;
▪ poi a stilare un elenco citando:

➢ prima i manoscritti (ordinati secondo l'ordine alfabetico delle città sede delle biblioteche che li con
servano, e, all'interno di ogni città, secondo l'ordine alfabetico delle varie biblioteche);

➢ poi le stampe (in ordine cronologico).

▪ infine a descriverli. Nell'elenco, ciascun testimone deve essere accompagnato, oltre che dalla propria sigla
dalla sua accurata descrizione.

Per i manoscritti si è soliti indicare:

-La segnatura, nei manoscritti e nei libri conservati nelle biblioteche indica numero, lettera, o combinazione
di vari segni distintivi, corrispondente al luogo, la stanza, lo scaffale, dove sono conservati, registrata sul
manufatto e richiamata comunemente per identificare l’esemplare da essa contraddistinto;

-Il materiale di cui è fatto, cioè se il ms. è cartaceo, membranaceo o misto;

-L’età, deducibile in base alle indicazioni contenute nel codice oppure, nel caso esse non siano presenti, si
deduce il secolo d’appartenenza dalla grafia o dalla filigrana della carta ( ex.=exuente cioè inizio secolo,
in.=insuente cioè fine secolo);

-La misura in millimetri o l’indicazione del formato;

-Il numero delle carte, dunque non delle facciate, segnando r (recto) o v (verso), precisando se la
numerazione è stata stilata dall’autore o postuma oppure se non è proprio presente;

-Il numero dei fascicoli che compongono il codice e il numero di fogli contenuti in esso;

-Notizie sulla grafia (gotica, mercantesca, minuscola cancelleresca, umanistica rotonda o lettera antica,
umanistica corsiva), segnalando eventuali alternanze di mano, e se la scrittura sia a piena pagina o a colonne;

-Indice del contenuto, con l’indicazione delle carte occupate da ciascuna opera e del suo titolo e le indicazioni
di paternità;

-Notizie sulla presenza di rubriche (titoli e sommari);

-Indicazioni relative ad eventuali scritti anche non attinenti al contenuto del codice;

-Segnalazione e descrizione di eventuali MINIATURE, FREGI O DISEGNI contenuti nel codice;

-Notizie sulla legatura;

-Notizie relative allo stato di conservazione del codice (può essere acefalo, mutilo o lacunoso);

➢ Per le STAMPE MODERNE, sono sufficienti indicazioni essenziali (autore, titolo, data e luogo di stampa),
mentre una più dettagliata descrizione richiedono quelle antiche (cinquecentine o incunaboli) e rare in
genere.

Si tratta in questo caso di indicare:

- il titolo per esteso, rispettando le caratteristiche tipografiche della stampa e segnalando con barre verticali
gli a capo e i salti di rigo;

-formula collazionale;

-caratteri tipografici;

-numero di righe o linee e colonne contenute in ogni pagina;


-trascrizione diplomatica dell’incipit e dell’explicit;

-il numero e la natura dei fascicoli;

- nel caso in cui la stampa manchi del luogo di edizione, del nome dell’editore (tipografo), o della data di
edizione, ciò viene segnalato usando rispettivamente le abbreviazioni s.l., s.t., s.d.

La collatio

La collazione è il confronto tra due o più testimoni della tradizione di un’opera effettuato su ogni particolarità
del testo per coglierne errori e varianti (voce di origine latina collātio, da conferre, «portare insieme,
confrontare»).

È operazione preliminare alla costituzione di uno stemma e nell’allestimento della edizione critica di un testo.

Una volta che i testimoni sono stati raccolti, siglati e ordinati, il filologo procede al loro confronto
(COLLATIO). È necessaria a questo scopo la scelta di un TESTO-BASE (cioè il testo che costituirà il termine
costante di confronto; si opterà di solito per l’edizione ritenuta migliore), che nel caso di inediti è costituito
dalla fedele trascrizione di un codice completo e attendibile, nel caso di opere stampate dalla migliore
edizione. Confrontando poi sistematicamente il testo portato dai vari testimoni con quanto si legge nel testo-
base, il filologo trascrive diplomaticamente tutti i punti di divergenza (VARIANTI).

Questa operazione ha lo scopo di registrare tutte le disomogeneità tra i testi prodottesi nel corso della
tradizione.

Il testo (per ragioni pratiche) va diviso in segmenti relativamente brevi. Tale divisione si impone da sé quando
si tratti di versi, mentre per i testi in prosa si procede a una preliminare paragrafatura.

Quando il numero dei testimoni da collazionare è cospicuo, diventa importante trovare un sistema funzionale
per incolonnare le varianti via via reperite, così che in un secondo tempo ne risulti agevolato il
raggruppamento. (vd. esempio pag. 28).

Nel segnare le varianti occorre attenersi sempre all’esatta grafia del codice e ciò sia perché, a questo punto,
non sono ancora decisi i criteri di trascrizione che si seguiranno nel costituire il testo, sia perché, in apparato,
le varianti devono figurare esattamente come i codici le attestano, sia perché, come sappiamo, proprio la
grafia originaria spiega in molti casi la genesi degli errori e ne agevola la correzione.

Bisogna decidere che cosa può essere tralasciato, tenendo conto che, nel dubbio, è sempre preferibile
abbondare, ma anche, e viceversa, che registrare varianti superflue complica poi - specie se i mss. sono molti
- il lavoro di raggruppamento e classificazione.

Ovviamente saranno fondamentali le varianti sostanziali, quelle cioè che riguardano la sostanza della
lezione:

▪ casi di sinonimie (es. vicolo scuro e vicolo buio)

▪ le differenze di senso

▪ le lacune

▪ le interpolazioni

▪ gli spostamenti nell’ordine delle parole, delle strofe, dei capitoli, ecc. (es: né mai m’udrò chiamare figlia
vostra e né m’udrò mai chiamare figlia vostra);

Potranno invece essere considerate superflue, le varianti formali che riguardano solo la forma di una o più
parole del testo, la forma linguistica della lezione, la sua superficie, e si possono suddividere in:
varianti grafiche (umano e humano)

varianti fonetiche (buono e bono)

morfologiche (questo e chisto)

Ma anche qui occorre estrema cautela, in modo da non giudicare elemento grafico una particolarità che può
rivelarsi utile per stabilire il colorito linguistico (e quindi la provenienza) del manoscritto o addirittura
dell'originale.

I loci critici invece («luoghi critici») sono quei luoghi del testo dove si verifica il concentrarsi di errori
significativi. Luoghi che possono essere utili per eseguire un sondaggio ristretto della tradizione.

Nella prassi ecdotica è un metodo di indagine che si adotta nel caso di opere che hanno una tradizione molto
vasta, con un numero altissimo di testimoni, per cui sarebbe difficile una collazione estesa alla totalità delle
testimonianze disponibili. Nel caso di tradizioni particolarmente folte è senz’altro legittimo e fruttuoso
operare una collazione non completa ma parziale dei testimoni, mediante appunto il ricorso ai loci critici.

Un esempio famoso è stato, come detto, proprio il censimento dei codici danteschi e di interesse dantesco
in Italia e nel mondo.

La classificatio

La classificazione è la determinazione dei rapporti genetici intercorrenti tra testimoni conservati; testimoni
che trovano poi rappresentazione grafica nello STEMMA CODICUM.

Una volta raccolti, descritti e iniziati a collazionare tutti i testimoni con la determinazione della varianti
intercorrenti tra loro si procede, dunque, proprio a partire dall’analisi di tali varianti, a classificare i testimoni,
cioè a determinare le loro relazioni reciproche, i loro legami di parentela.

Solo il conoscere tali relazioni permetterà di stabilire, infatti, che autorità abbia la singola lezione e di
ricostruire, risalendo la tradizione gradino per gradino, la forma del testo che presentavano il più antico o i
più antichi antenati delle copie esistenti.

1) Si stabiliscono i rapporti fra i testimoni esistenti sulla base degli errori e delle lacune evidenti ed
indubitabili, tenendo presenti due principi:
➢ un errore non facile a commettersi (per es., non suggerito dalla struttura del testo) o una lacuna
(preferibilmente non nata da omioteleuto), comune a due o più testimoni, denuncia che fra tali
testimoni vi è un legame di parentela (errore congiuntivo);
➢ un testimone che in un determinato punto presenta un testo indubbiamente integro e sano, non
può derivare da un altro che in quel punto ha un'omissione o lacuna non facile da colmare, o un
errore certo e non facile da correggere (errore separativo);
2) Riconosciuti i rapporti fra i testimoni, essi si rendono visivamente percepibili mediante la costruzione
di uno stemma o albero genealogico. Tenendo conto delle relazioni fra i testimoni, visivamente
rappresentate dallo stemma, si procede all’eliminazione, in ogni punto del testo, delle varianti
adiafore o indifferenti.
Alla ricerca dell’affinità genetica tra testimoni

Compiute, come detto, anche le operazioni di raccolta, descrizione e di prima collazione, si passa quindi a
determinare le relazioni reciproche dei manoscritti (o stampe) che non risultano copie di originali conservati.

Per l’aggruppamento conviene partire da concordanze in errori.


Diffrazione: si definisce diffrazione la generale discordanza delle testimonianze in un dato luogo del testo, o,
con altre parole, il luogo che, nella tradizione di un testo, presenta la concorrenza di lezioni tutte diverse l’una
dall’altra.

➢ a - tutte le lezioni differenti sono varianti adiafore, risultano cioè lezioni accettabili, plausibili, equipollenti,
di per sé non denunciano nel loro aspetto la loro autenticità o la loro erroneità. Dunque, non potendo
nessuna lezione essere ritenuta erronea con certezza assoluta, potrebbero anche risalire al testo originale;

➢ b - benché diverse, le lezioni corrispondono tutte ad altrettanti errori (diffrazione in absentia);

➢ c - una sola tra le lezioni differenti è la lezione esatta, l’altra (o le altre) testimoniano un errore (diffrazione
in praesentia).

Lezioni differenti da rifiutare

Non tutte le lezioni differenti costituiscono, pertanto, prove veramente utili e certe per poter costruire lo
stemma codicum. Possono trattarsi infatti di:

➢ lectiones singulares, dovute esclusivamente agli arbitri e alle disattenzioni di un singolo amanuense, la cui
copia non ha avuto seguito, non è diventata cioè - almeno per quanto risulta dalla tradizione a noi nota -
antigrafo di successivi esemplari;

➢ o infine di errori involontari per i quali non si può tassativamene escludere l’ipotesi poligenetica;

➢ oppure, appunto, di lezioni adiafore, che possono anche essere il prodotto di interventi indipendenti e
che non permettono di identificare un vero e proprio errore;

Gli errori poligenetici

Non tutte le lezioni differenti costituiscono, pertanto, prove veramente utili e certe per poter costruire lo
stemma codicum. Ma anche tra gli errori, non tutti sono utilizzabili per la costituzione dello stemma.

Sappiamo che errori identici si possono a volte produrre in copie diverse in via del tutto indipendente l’una
dall’altra (errori meccanici, banalizzazioni, trivializzazioni), parleremo allora di errori poligenetici. L’errore
poligenetico è, dunque, quell’errore che, presente in diversi testimoni, può essersi prodotto in ciascuno di
essi del tutto indipendentemente dall’altro o dagli altri, risultando così privo di autonomo valore dimostrativo
dei rapporti stemmatici.

La classificazione attraverso la determinazione degli errori significativi

I rapporti di connessione o di indipendenza esistenti fra diversi testimoni si possono invece individuare con
sicurezza solo sulla base degli errori guida o direttivi o significativi.

La dipendenza di un testimonio da un altro di regola non è dimostrabile direttamente, ma solo attraverso


l’esclusione della loro indipendenza.

È dimostrabile di regola direttamente soltanto:

▪ la indipendenza di un testimonio da un altro;

▪ la connessione di due testimoni di contro a un terzo.

In altre parole, è sui soli errori monogenetici che l’editore deve concentrare la propria attenzione, perché
solo questi gli forniranno gli strumenti per andare oltre, sulle tracce dell’originale.
Sono proprio gli errori, intatti, e nella fattispecie quelli più evidenti e inconfutabili (i cosiddetti errori
significativi o errori guida), a indicare al filologo i rapporti di parentela fra i testimoni dell’opera, a guidarlo
nella classificazione.

▪ L’autore non può avere scritto una cosa apertamente assurda e contraria alla logica e al buon senso», o che
appaia palesemente contraddittoria rispetto a quanto risulta dal contesto (per es. rispetto allo sviluppo della
vicenda, se si tratta di un’opera narrativa);

▪ Lo scrittore non può, in linea di principio, avere scritto una frase che violi le leggi della lingua che gli è
propria;

▪ Possiamo ritenere che nasca da errore della tradizione un'affermazione discordante da quanto consta che
l’autore pensava, credeva, sapeva.

Gli errori significativi (o errori-guida, o errori direttivi) consentono dunque di stabilire rapporti di parentela
tra i testimoni in nostro possesso: le relazioni che tra essi si stabiliscono si rappresentano graficamente
attraverso lo STEMMA CODICUM o ALBERO GENEALOGICO, e si definisce famiglia o gruppo un insieme di
testimoni che sulla base di uno o più errori contemporaneamente congiuntivi e separativi si possano a buon
diritto considerare discendenti da uno stesso capostipite. Con capostipite (antenato, ascendente), si intende
il testimone cui risale un gruppo di testimoni costituenti famiglia.

➢ se esso ci è pervenuto, i suoi derivati saranno codices descripti, e dunque da eliminare in sede di
constitutio textus;

➢ se esso è invece perduto (e si definisce in questo caso codex interpositus), i testimoni e le varianti da essi
attestate serviranno a ricostruirne la fisionomia.

Se il codex interpositus risulta essere il capostipite comune di tutti i testimoni in nostro possesso, esso si
identifica con l’archetipo. Se esso è invece comune a una sola famiglia, si definisce con il termine di
subarchetipo;

Nello STEMMA:

▪ con O si indica l’originale;

▪ con X, A, χ o con ω l’archetipo;

▪ con lettere greche (α, β, γ ecc.), o con latine minuscole, i codices interpositi;

▪ per i codici pervenuti si impiegano le sigle che li contraddistinguono nell'elenco premesso all'edizione.

UNITÀ – 3C

LA FENOMENOLOGIA DELLA COPIA LA EMENDATIO

L’emendatio è il complesso delle operazioni di restauro critico di un testo alterato dalla tradizione.
È la fase più delicata e impegnativa, volta alla eliminazione di tutti gli errori con gli strumenti della tradizione
(ope codicum) o della congettura (ope ingenii). Appartengono generalmente e per estensione alla fase della
emendatio le seguenti operazioni:

 EMENDATIO OPE CODICUM: ricostruzione, sulla base dello STEMMA CODICUM, di un testo che sia
il più vicino possibile a quello dell’originale perduto in base a un’operazione meccanica di calcolo
di maggioranza → emendatio ope codicum (restauro filologico di un testo effettuato con lo
scrutinio critico dei testimoni)
 EMENDATIO OPE INGENII: l’EXAMINATIO, cioè l’analisi del testo ricostruito, per vedere se esso può
essere considerato come corrispondente in ogni sua parte all’originale, o se, invece, anche a
recensio conclusa, restino dei guasti manifesti. In caso affermativo si procederà alla correzione
congetturale, o → emendatio ope ingenii o divinatio (restauro filologico di un testo effettuato
mediante congettura).

 L’EMENDATIO OPE CODICUM Facciamo un altro passo avanti. Una volta fissato lo STEMMA, o
albero genealogico, l’editore dispone dello strumento (del canone) per operare all’interno della
tradizione.

ELIMINATIO CODICUM DESCRIPTORUM

Consiste nell’esclusione dei testimoni descritti, ossia quelli che risultano copia di altri conservati. Il codex
descriptus (codice descritto) è infatti il manoscritto che è copia di altro manoscritto conservato, il quale
rispetto a quest’ultimo non offre nulla di più della sua testimonianza. Nella costituzione del canone, dunque,
il codex descriptus viene eliminato.

LEZIONI EVIDENTEMENTE ERRATE

Passando poi al testo, il filologo si libererà delle lezioni evidentemente errate, grazie al ricorso alle lezioni
vere documentate dagli altri testimoni. L’errore ha in sé evidenza fenomenica, e costringe all’emendamento;
ma anche la lezione apparentemente «buona» potrebbe essere il frutto di un restauro, ingannevole e non
corrispondente alla volontà dell’autore. Questo restauro apocrifo è normalmente definito conciero.

ELIMINATIO LECTIONUM SINGULARIUM

In una tradizione di copia molto ricca e pluriarticolata, la lectio singularis («lezione singolare») è la lezione
portata da un singolo testimone, non avallata da altri testimoni, e come tale – se quello non rappresenta
da solo un ramo indipendente della tradizione – indiziata di essere prodotto dell’errore del singolo copista,
perciò in linea di principio eliminabile (eliminatio lectionum singularium).

SCELTE MECCANICHE TRA VARIANTI ADIAFORE

Come già detto, le varianti adiafore risultano essere (per plausibilità semantica, stilistica, ecc.) lezioni
accettabili, ammissibili, plausibili, equipollenti, indifferenti, lezioni che di per sé non denunciano nel loro
aspetto la loro autenticità o la loro erroneità (il che non significa ancora autentiche a meno che non si possa
dimostrare che si tratta di varianti d’autore), e che quindi potrebbero anche risalire al testo originale.

LA LEGGE DELLA MAGGIORANZA

Il fìlologo sarà messo in grado di scegliere meccanicamente tra varianti adiafore se si verificano le
condizioni che seguono:

➢ lo stemma sia a più rami (o i rami principali siano almeno più di due);

➢ e comunque sia sempre possibile mettere a frutto la cosiddetta legge di maggioranza, ovvero il principio
in base al quale, a parità di livello stemmatico, verrà considerata autentica la lezione che può contare sul
maggior numero di ramificazioni:

A Y

BCDE
Esaminando lo stemma qui sopra riportato, per esempio, dovremo concludere che la lezione di Y è data
dall’accordo ai tutti i suoi derivati, oppure del maggior numero di essi, che impongono dunque l’abbandono
delle lezioni minoritarie:

➢ - B C D contro E

➢ - oppure C D E contro B

➢ - oppure B D E contro C

➢ - oppure B C E contro D

Mentre è da avvertire che la lezione dell’isolato A vale quanto la somma di B C D E, che dipendono da un
comune ascendente Y. In tal modo, un mero procedimento meccanico di cernita consente di eliminare via
via le lezioni spurie, false, inautentiche: in altre parole, le molte varianti che il secolare procedimento di copia
ha prodotto saranno fatte oggetto dl una scelta non soggettiva né meramente quantitativa, ma affidata alla
ricostruzione completa del rapporti fra i testimoni all’interno della tradizione. In sintesi, è la CLASSIFICAZIONE
a guidare oggettivamente la scelta dell’editore, orientandolo verso quella lezione che, a parità stemmatica,
è garantita dal maggior numero di ramificazioni.

CRITERI INTERNI DI SCELTA TRA VARIANTI

Se non è possibile operare una scelta fra varianti su base stemmatica (se cioè due o più lezioni si fronteggiano
su piani tradizionali equivalenti), l’editore dovrà ricorrere all’uso dei cosiddetti criteri interni, riassumibili
nelle formule, ormai invalse, di usus scribendi e lectio difficilior. In realtà i due momenti sono più simili tra
loro di quanto non appaia a prima vista, se non altro perché entrambi presuppongono, da parte dell’editore,
una conoscenza approfondita dello statuto linguistico, formale, ideologico dell’autore. Si concentri
l’attenzione, per esempio, sul caso fra le varianti «mondo» e «moto» di Inf. II 60. Giorgio Petrocchi ha
privilegiato la prima lezione, ritedendola «tanto più conchiusa e naturale» in quanto «basata sull’istituto e la
tecnica della replicazione, secondo un accorgimento retorico diffuso in tutto il poema». L’editore si è perciò
affidato a parametri di gusto e di proprietà espressiva, promuovendo il proprio iudicium a criterio decisivo di
scelta fra le varianti.

USUS SCRIBENDI E LECTIO DIFFICILIOR

Fra due (o più) lezioni di uguale peso stemmatico, l’editore sceglierà dunque (il procedimento è appunto
denominato selectio da Maas) quella che meglio corrisponde alla tipologia formale e culturale dell’autore
(usus scribendi). Tale usus può essere accertato anche grazie allo strumento, oggi molto diffuso, delle
concordanze. Nel caso della lectio difficilior, invece, si dovrà promuovere fra due varianti quella che risulterà
più difficile dell’altra, cioè quella che presenta caratteri di maggiore complessità (per esempio linguistica o
concettuale). Una lezione difficile si presta difatti alla banalizzazione e alla semplificazione (e dunque può
trasformarsi in lezioni più triviali), e nello stesso tempo fornisce qualche garanzia di essere conservata da un
copista particolarmente scrupoloso (o viceversa passivo, cioè riproduttore diligente del testo).

L’examinatio

L’examinatio consiste nell’esame di tutte le lezioni del testo tràdito (ossia il testo quale risulta dall’esame
critico di tutte le fonti conosciute), alla ricerca di eventuali errori da sanare tramite emendatio ope ingenii (o
divinatio).

Nella prassi ecdotica l’examinatio è la fase della constitutio textus che segue quella preliminare della recensio
e della emendatio ope codicum.
È possibile che il testo tràdito risulti, all’esame delle sue lezioni (ossia all’examinatio), sostanzialmente
corretto. Se non vi si riconoscono errori esso potrà coincidere, in forma più o meno diretta, con il testo
dell’originale.

L’assenza, teorica o reale, di ogni mediazione fra l’originale e la tradizione conosciuta è desunta proprio dalla
mancanza di errori significativi condivisi da tutte le copie dell’opera.

Se invece nel testo tràdito è possibile individuare almeno un errore monogenetico, fra l’originale e la
tradizione postuliamo un intermediario (X), vale a dire un’incognita denominata archetipo.

L’archetipo

L’archetipo è la più antica e perduta copia dell’originale, ricostruita induttivamente dalle operazioni di
recensio e di emendatio ope codicum, da essa soltanto si fa discendere tutta la tradizione conosciuta.

La presenza in questa copia di almeno un errore significativo permette di inferire che appunto di archetipo
non di originale si tratta.

L’archetipo (dal lat. archetypum, «primo esemplare», gr. archétypon) è il capostipite perduto della tradizione
superstite, dimostrato dall’esistenza di almeno un errore significativo di tipo congiuntivo, comune a tutta la
tradizione; con altre parole, per archetipo si suole indicare l’antenato comune all’intera tradizione, la copia
non conservata – distinta dall’originale, dalla quale si presume che derivi tutta la tradizione successiva –
caratterizzata da errori di un primo copista recepiti da tutti gli altri.

Emendatio ope ingenii

L’emendatio ope ingenii (o divinatio) è il restauro filologico di un testo effettuato mediante congettura.

Quando procediamo a sanare l’archetipo non possiamo più ricorrere alla cosiddetta emendatio ope codicum
né a criteri interni come la lectio difficilior, che comportano comunque un confronto, una cernita fra
possibilità di lettura differenti.

Occorre congetturare, indovinare la lezione originale sottesa all’errore che, già presente nella copia più
antica dell’opera (appunto l’archetipo), si è poi propagato in tutta la tradizione, contrassegnandola come un
marchio di riconoscimento.

Il cerchio si chiude: l’originale

Una volta identificati, dunque, tramite l’EXAMINATIO, tutti i guasti dell’archetipo (già evidenziati in parte,
per altro, nel corso della recensio), la loro correzione avviene per emendatio ope ingenii (ossia, appunto, per
congettura): le operazioni necessarie all’emendatio ope ingenii sono tradizionalmente indicate con i termini
latini, cioè i cinque gradi della critica congetturale:

 interpungere cioè mettere le interpunzioni, che nei testi antichi mancano e che pure nei testi anche
di un secolo fa, o poco più, non erano quali ora desidereremmo; ma specialmente l’editore di testi
antichi è messo a dura prova, perché si interpunge dopo aver capito, o si interpunge in un modo o in
un altro a seconda che, in luoghi dubbi, si è capito in un modo o in altro;
 delere vuol dire sopprimere quelle parole o quelle righe che non dovettero essere dell’autore ma di
qualche annotatore, e che i copisti successivi, o gli editori, credettero di dover introdurre nel testo;
 supplere ossia completare ciò che è ora lacunoso, ed è, questo, il grado più difficile, più rischioso e
compromettente, sia per i testi antichi sia per i testi moderni;
 transponere ossia disporre le parole del testo in altro ordine, che paia più richiesto dal senso del
passo o dallo stile dell’autore;
 mutare cioè cambiare quelle date lettere che vanno, a sproposito, a formare parole che nel
contesto non han senso, ed occorre cambiarle con altre lettere si da formare parole che rispondano
al senso giusto;

L’eziologia dell’errore

Risalire all’eziologia dell’errore, cioè alla sua origine, significa comunque porsi sulla strada per sanarlo,
scoprendo le cause delle innovazioni o dei fraintendimenti che hanno corrotto il testo.

A volte saranno spie presenti nell’opera, di natura linguistica, stilistica, metrica (e tornerà allora utile
richiamare l’usus scribendi dell'autore), a orientare il filologo nel restauro dell’originale. In altre circostanze,
invece, l’editore potrà soppesare a lungo la lezione dell’archetipo, ritenerla accettabile, e dubitare tuttavia
che sia vera. È plausibile infatti che essa sia stata alterata (e cioè modificata rispetto all’originale),
conservando un’apparenza di legittimità.

Più difficile ancora recuperare una lezione venuta meno per lacuna, che andrà di norma segnalata con
apposite indicazioni tipografiche (come le parentesi quadre o acute).

Se l’editore si dovrà arrendere alla indecifrabilità dell’errore, lo accompagnerà con una convenzionale crux
desperationis (†).

La crisi del metodo di Lachmann:

tipologie della tradizione irriducibili al metodo di Lachmann

Non sempre il filologo può contare su dati così favorevoli, cioè interpretabili in modo oggettivo e univoco.
Nella realtà dei fatti, la geometrica disciplina lachmanniana deve spesso cedere il passo a «un’arte nella quale
il metodo s’improvvisa volta per volta, commisurato all’oggetto e non a un prestabilito codice di norme»
(Giunta).

Dove la prassi lachmanniana denuncia aporie e insufficienze, si affermano altre regole del gioco, e altri modi
di pubblicare il testo. Tali operazioni si fondano su una lunga riflessione teorica, sviluppatasi in Italia nel corso
del XX secolo a contatto con le grandi opere della nostra letteratura. (Barbi, Pasquali…).

Anche la Francia partecipa al rinnovamento del metodo. Pensiamo al rifiuto della nozione di errore, e alla
proposta di classificazione tramite variante avanzata da dom Henri Quentin e pensiamo soprattutto alla selva
degli alberi a due rami (tradizioni bipartite) messa sutto accusa da Joseph Bédier.

Gli stemmi bipartiti e il bon manuscrit

Gli stemmi bipartiti rendono di solito inoperoso il processo di emendatio ope codicum, non è possibile
scegliere meccanicamente fra due o più lezioni che si fronteggiano con pari autorità stemmatica e critica.
L’aporìa è risolta dal Bédier mediante il ricorso a un solo manoscritto, depurato soltanto degli errori evidenti:
più esattamente il “miglior” manoscritto.

Pasquali invece non si trovava d’accordo col metodo di Bèdier, e si rifaceva sempre al metodo lachmanniano.

Un approccio alla prassi bédieriana in Italia è, per esempio, nelle due più recenti edizioni della Comedìa di
Dante. La prima, curata da Antonio Lanza, la seconda da Federico Sanguineti.

Dante e il suo tempo

Nel Medioevo il primo passo per superare la miriade di parlari italici, come si sa, fu compiuto dai poeti della
Scuola siciliana, grazie a un’opera di nobilitazione linguistica passata anche attraverso il confronto costante
con il latino e con le forme e i contenuti della coeva lirica occitanica.
Dante, che aveva letto i testi in volgare «aulico» siciliano prodotti presso la corte federiciana, vedeva nella
frammentazione un ostacolo alla creazione di una lingua sovracomunale che sarebbe dovuta essere,
«illustre», «cardinale», «aulica» e «curiale».

In realtà il poeta fiorentino non pensava tanto a una lingua nazionale, quanto a un volgare «illustre».

Petrarca ne continuò l’opera nella direzione di un più selettivo ed esclusivo monolinguismo.

Dante può essere considerato, dunque, il capostipite di un’autorevole tradizione linguistica e letteraria
toscanocentrica, che seppe dare al plurilinguismo una unità, basata sul volgare fiorentino «illustre», forte e
legittimante.

Questa dinamica centripeta, però, paradossalmente determinò – soprattutto a partire dalla proposta
normativa del Bembo (più vicina al monolinguismo petrarchesco che al mistilinguismo dantesco) – condizioni
di esclusione dalle patrie lettere di altre lingue e altre produzioni.

Una tale questione di portata nazionale non poteva non trovare scaturigine anche dallo scarto esistente tra
oralità e scrittura.

Leggere Dante significa leggere il Medioevo e viceversa. Divenuta dopo il crollo dell’impero romano magistra
et domina della cultura e unica depositaria della tradizione classica, la Chiesa, una delle grandi istituzioni
medievali, aveva continuato nelle comunità monastiche – principali centri di conservazione, elaborazione e
diffusione del testo scritto – l’insegnamento della retorica prendendo a modello di stile gli autori greci e latini.

Si era pensato di reinterpretare il meglio del patrimonio culturale e letterario dell’antichità alla luce della
nuova verità rivelata e di ricollocare gli orientamenti di pensiero e i valori propri dell’età pagana dentro le
inedite coordinate di un’età cristiana, che si fondava su una visione finalistica della storia, una concezione
trascendente della vita, concepita come preparazione alla beatitudine eterna. L’idea della cultura privilegiava
la sapientia (conoscenza delle cose divine) rispetto alla scientia (conoscenza delle cose temporali).

Esclusivamente gravitante intorno alla concezione teocentrica, la visione dell’arte venne articolandosi nel
Medioevo in tre differenti orientamenti di senso:

1) l’arte come un mezzo, attraverso la rappresentazione del mondo e della natura , per arrivare a Dio
stesso e poterne contemplare la sua bellezza;
2) utilità pratica, coniugare il bello col buono, il bene dicere con un fine didattico-morale (naturalmente
morale cristiana).
3) Il terzo orientamento, ispirato al Platone che aveva bandito la poesia dalla Repubblica come
suscitatrice di passioni e in quanto ritenuta priva di verità e pericolosa per l’equilibrio affettivo
dell’uomo, la considerò incompatibile con l’etica cristiana.

Esemplare fu, a tal riguardo, il trattamento riservato dalla Chiesa al teatro e alle sue forme espressive.
Sebbene negli scriptoria dei monasteri gli amanuensi continuassero a esemplare le commedie e le tragedie
della latinità classica, con la fine del mondo romano l’istituzione teatrale dell’antichità, con la sua complessa
struttura organizzativa, quasi scomparve.

Il teatro come istituzione in sé cessò di esistere, ma continuarono a esistere i teatranti e i musici e comunque
una teatralità diffusa (joculatores, mimi, scurre, histriones, saltatores, balatrones, thymelici, nugatores,
menestriers, troubadors), considerata espressione della cultura pagana (quindi «diabolica»), perché si
fondava sull’allettamento formale e sensuale e su un’estetica edonistica finalizzata all’intrattenimento e al
divertimento (l’attore, che non di rado – fatto riprovevole – non aveva né casa né famiglia, era considerato
un vagabondo, senza status, fuori della società, frivolo e ambiguo, votato al piacere e al godimento, la cui
vanità e il cui sollazzo si contrapponevano alla serietà della catechesi e dell’insegnamento).
Furono ritenute blasfeme quelle rappresentazioni in cui gli attori modificavano artificiosamente il loro corpo
con trucchi, mascheramenti, smorfie, caricature facciali in quanto trasformava l’immagine naturale, opera di
Dio.

Nel basso Medioevo la tradizione dei generi antichi venne utilizzata con grande libertà sia nelle corti
provenzali sia nelle nuove realtà comunali.

Si affermarono generi nuovi come la narrativa in versi di argomento cavalleresco, i fabliaux e, nel campo del
teatro, la sacra rappresentazione e la farsa.

L’ars, l’arte, era tèchne, tecnica della costruzione, cultura del fare e del saper fare, l’artista era innanzitutto
considerato un artigiano che con gli strumenti del proprio mestiere dava forma alla materia, fosse essa pietra,
legno, ferro, cuoio, seta, lana, colore, parola.

Dante considerava, dunque, il poeta (l’auctor, da augeo, io creo) un artigiano qualificato della parola e della
lingua, che nella sua officina letteraria sapeva coniugare il bello col buono.

Con la nascita di una letteratura in volgare anche di tematica profana e l’avvio di un processo irreversibile di
laicizzazione degli intellettuali e di riconoscimento dei letterati in contesti storici, sociali ed economici mutati.

Si iniziò a riconoscere e legittimare sia un’estetica prevalentemente edonistica, di intrattenimento e di


piacere fine a se stesso, sia una letteratura capace di coniugare il bello a una utilità pratica, non
necessariamente legata ai modelli etici cristiani.

A partire dall’XI secolo iniziarono ad essere redatti manuali di artes dictandi, corpus normativi di arte dello
scrivere e del comporre.

Fu Giovanni di Garlandia, uno dei maggiori retori del Medioevo che distinse quattro stili prosastici:

 Romano, tipico della curia romana, venne utilizzato dai notai del papa, dai cardinali, dagli arcivescovi,
dai vescovi, dai monaci, dai predicatori e liturgisti sino ai funzionari imperiali e si caratterizzò per la
presenza del cursus, ossia di clausole, di schemi ritmici fissi che dovevano chiudere il periodo o l’unità
ritmica.
 Ilariano da Ilario di Poitiers, vescovo e dottore della chiesa, si caratterizzò anch’esso come il romano
per una prosa regolata dal cursus e per una struttura ritmica che riprendeva il verso dell’inno.
 Tulliano da Marco Tullio Cicerone, preferito dai maestri di retorica e dai poeti quando scrivevano in
prosa, si caratterizzò per la presenza insistita di figure retoriche di parola e di pensiero.
 Isidoriano da Isidoro di Siviglia, vescovo e dottore della chiesa, si caratterizzò per una prosa poetica,
versificata, ritmata e rimata con presenza insistita di figure retoriche del significante,
prevalentemente di ripetizione: rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, anafore, antitesi,
frequentatio.

Il Medioevo conservò in larga misura la teoria degli stili elaborata dagli antichi e che si basava su tre grandi
livelli: l’alto (grave o tragico), il medio (mediocre o comico), il basso (umile o elegiaco).

Lo stile tragico, più confacente a raccontare gli argomenti eccezionali e le gesta di guerrieri ed eroi, richiede
un «volgare illustre», una «magnificenza dei versi» e una «eccellenza dei vocaboli». Lo stile comico, più
consono a rappresentare gli argomenti della quotidianità e le vicende delle persone comuni, può attingere a
un contingente lessicale meno selezionato e più variegato. Lo stile elegiaco, aperto agli argomenti più vari
ma che si nutre di un’ispirazione patetica e malinconica, è per Dante «lo stile degli infelici», cioè, appunto,
patetico.
Nel De vulgari eloquentia, ad esempio, Dante, che distingue per la poesia tre stili (il tragico, il comico e
l’elegiaco), non disgiunge gli aspetti di contenuto dagli aspetti formali, la materia trattata dalle scelte
linguistiche e formali.

La filologia d’autore

Con «FILOLOGIA D’AUTORE» si designa proprio l’insieme di metodi e problemi relativi all’edizione di opere
conservate da uno o più ORIGINALI, cioè come detto:

✓ manoscritti autografi

✓ manoscritti idiografi

✓ stampe sorvegliate dall’autore

Ci si sposta, questa volta, su testi prevalentemente moderni e contemporanei.

È di fatto impensabile che un’opera letteraria, generalmente destinata alla pubblicazione e nata con precisi
intenti artistici (o anche solo culturali), sia scritta di getto, senza pentimento alcuno e senza essere poi
sottoposta a un più o meno capillare e determinante processo di revisione.

Revisione anzi che - ponendo l’autore in condizioni ben diverse - potrà avvenire:

➢ sia nel corso stesso della stesura

➢ sia in sede di controllo finale, immediatamente e una tantum.

➢ oppure (accrescendo di molto le tentazioni correttorie) a più riprese e a notevole distanza di tempo.

Soprattutto se si tratta di opera non breve e di una certa complessità tecnico-strutturale, il fatto che la
composizione non abbia anche comportato un certo numero di fasi intermedie rappresenterà dunque
l’eccezione (o addirittura un’ipotesi astratta) e non la norma.

Dal punto di vista del filologo, la questione si pone in termini pratici, bisogna comprendere:

✓ se e in quale forma tali varianti siano attestate dalla TRADIZIONE in nostro possesso

✓ come e con quali garanzie sia possibile individuarle

✓ come si possa stabilirne la successione cronologica

✓ come, infine, convenga darne conto nell’edizione critica

La filologia moderna

Contrariamente a quanto accade al filologo classico, che non opera mai (o quasi mai) in presenza
dell’AUTOGRAFO, il filologo moderno si trova spesso, e da un certo punto in poi quasi costantemente, ad
operare in presenza di materiale autografo.

Se da un lato ciò segna il vantaggio della FILOLOGIA MODERNA, dall’altro costituisce la sua crux, infatti
l'analisi dei rapporti genetici fra varianti, stesure, redazioni, si presenta frequentemente altrettanto se non
più difficile e delicata della RECENSIO ed EMENDATIO, perché più spesso sottoposta a IUDICIUM o se si vuole
a DIVINATIO soggettiva.

Proprio come nella storiografia, l'abbondanza di documenti complica la ricerca.

La filologia in presenza di materiale autografo, è, insomma, prevalentemente, una filologia redazionale, che
privilegia, su quello statico, il momento dinamico (elaborativo) dell’opera d’arte, il che comporta, e ha
comportato, la messa a punto di approcci e strategie sempre nuove, non è merito minore, ad aver saldato
irreversibilmente quel nesso tra FILOLOGIA e CRITICA. Soprattutto nel caso delle varianti d’autore la
distinzione tra un filologo e un critico è pressochè fittizia.

Contis e De Robertis mostrarono uno spiccato interesse per la variantistica d’autore, il cui studio avrebbe
portato a conoscere in maniera profonda la personalità, appunto, dell’autore, lo sviluppo del suo pensiero e
le sue attitudini artistiche.

Alla base della critica variantistica di un Contini e di un De Robertis stanno dunque ascendenze tardo e
postsimbolistiche.

L’opposizione di Roberto Croce

Ora, l’interesse verso il «farsi» della poesia; l’idea che essa sia «un continuo divenire, una lenta e faticata
conquista, l'idea insomma, per usare la polemica espressione del Croce, che la poesia sia «qualcosa che si
fabbrichi raziocinando e calcolando», non poteva piacere, com'è ovvio, alla filosofia neo-idealistica.

Quest’ultimo modo di trattare i materiali scartati dall’autore non tiene conto del loro carattere puramente
servile, della loro natura, insomma, di appunti buttati giù sveltamente per memoria o come semplice
canovaccio».

L’opposizione, in sostanza, era tra la considerazione dell'opera d'arte come ‘fatto’ (una critica cioè, legata
alla staticità del testo, una critica del ‘testo fisso’) e la considerazione dell'opera d'arte come ‘atto’.

Peraltro lo stesso Contini si premurava fin dal 1937 di chiarire la non incompatibilità dei due approcci.

La fenomenologia dell’originale e l’edizione genetica

Autografo unico

Nel caso in cui il censimento consenta di accertare l’esistenza di UN SOLO TESTIMONE AUTOGRAFO, si pone
un primo problema legato all’accertamento dell'autenticità.

Nel caso in cui il censimento consenta di accertare l’esistenza di un SOLO TESTIMONE AUTOGRAFO, esso può
essere rappresentato:

➢ da un esemplare pulito, che comporta le sole azioni della trascrizione, che deve essere condotta nel
rispetto più assoluto degli usi grafici dell’autore ed emendazione degli eventuali errori contenuti nel testo.

➢ da un esemplare con varianti cioè un ESEMPLARE AUTOGRAFO con correzioni, aggiunte, varianti marginali
o interlineari che attestano un processo elaborativo svoltosi (senza varianti alternative) o in svolgimento
(con v. a.); dato un unico manoscritto autografo costellato di cancellature, sostituzioni, spostamenti ecc., si
pubblica integralmente il testo risultante da tale processo correttorio e si segnalano a parte le VARIANTI
ricostruendo la trafila che dalla lezione originaria arriva a quella finale. Una buona edizione critica non deve
limitarsi a registrare staticamente il risultato terminale, ma, partendo da esso, deve ricostruire il movimento
che l'ha prodotto.

Tipi di varianti

➢ varianti realizzate cioè aggiunta, sostituzione, permutazione, sopressione;

➢ varianti non realizzate (cioè annotate senza cancellare il corrispondente segmento). Si riserva soltanto
alle prime (che, di solito, sono la stragrande maggioranza) la qualifica di varianti senza ulteriore
specificazione; le seconde, quelle non realizzate, si designano come varianti alternative.
Inoltre, in base ai tempi di esecuzione possono essere immediate o non immediate (tardive), creando degli
strati di varianti. Per riconoscerle si fa ricorso agli indizi tipografici e al contesto.

Apparato sincronico e diacronico

Sincronico perché, pur accogliendo lezioni prodotte dalla tradizione che può essere anche di molti secoli,
l’apparato accoglie varianti che non rappresentano alternative dello scrittore relative alla storia interna del
testo, ma indicano invece gli interventi postumi dei trascrittori, dunque fuori dal circuito vitale della creazione
poetica.

Diacronico perché rappresentativo della evoluzione del testo nel tempo ad opera dell’autore. Ci fornisce la
storia della formazione dell’opera.
PROCESSO ELABORATIVO: ASSENZA DI VARIANTI ALTERNATIVE

L’assenza di VARIANTI ALTERNATIVE indica, ovviamente, che, pur se in modo disordinato, ed esteticamente
tutt’altro che ineccepibile, all’autografo è consegnata una forma dell’opera che l’autore considerava per il
momento definitiva.

Dal punto di vista della MESSA A TESTO, dunque, il caso è in tutto assimilabile a quello dell’AUTOGRAFO IN
PULITO. Ciò non toglie, tuttavia, che le varianti rifiutate conservino un loro interesse e una loro funzione
precisa, e che pertanto sia doveroso fornirne la documentazione esaustiva.

PROCESSO ELABORATIVO: PRESENZA DI VARIANTI ALTERNATIVE La presenza di VARIANTI ALTERNATIVE è


invece di per se stessa sufficiente a indicare uno stato di incompiutezza del testo, una fase, insomma, in cui
non tutte le decisioni relative all'assetto dell'opera sono state prese: e non importa, per questo rispetto, se
l'incertezza riguardi porzioni esigue, o minime, del testo, o se invece coinvolga settori assai estesi, o
addirittura l'opera nel suo complesso.

Si tratta pur sempre, per l'editore, di farsi esecutore testamentario non più di un'ultima (e quindi unica)
volontà dell'autore, ma, all'opposto, di una volontà non ancora definita.

Nell'un caso e nell'altro ciò che preme è che il lettore sia messo in condizione di ripercorrere agevolmente i
vari momenti della elaborazione dell'opera secondo la sua più probabile linea di sviluppo.

AUTOGRAFO UNICO e COPIE MANOSCRITTE NON AUTOGRAFE (e/o di STAMPE NON AUTORIZZATE)
ACCERTAMENTO DEI LORO RAPPORTI RECIPROCI

Se il censimento ha permesso di accertare l’esistenza di un unico AUTOGRAFO e di una o più copie, siano esse
a stampa o manoscritte, il problema preliminare da risolvere è quello relativo all’accertamento dei loro
rapporti reciproci. Tornano perciò ad essere indispensabili, in primo luogo, le operazioni di COLLATIO.

REDAZIONE AUTOGRAFA COMPIUTA

Nel caso in cui l’AUTOGRAFO contenga una redazione in sé compiuta, si dovrà stabilire:

➢ se essa rappresenta la stessa redazione rispetto agli altri esemplari

➢ oppure una redazione diversa rispetto agli altri esemplari

LA STESSA REDAZIONE TRA AUTOGRAFO E TESTIMONI NON AUTOGRAFI

Nel primo caso, quello cioè di identità redazionale, le risultanze della COLLATIO denunceranno un testo
praticamente conforme all’originale, e pertanto all’editore spetterà il compito di procedere a una nuova
edizione dell’AUTOGRAFO condotta secondo i criteri di cui sopra, trascurando i testimoni non autografi in
quanto DESCRIPTI.

REDAZIONE DIVERSA TRA AUTOGRAFO E TESTIMONI NON AUTOGRAFI

Se i dati emersi in sede di COLLATIO parlano invece a favore di diversità redazionale dei TESTIMONI non
autografi, sarà in primo luogo necessario appurare se tale diversa redazione (o tali diverse redazioni) può (o
possono) risalire all’autore.
PLURALITÀ REDAZIONALE RISALENTE (O NON RISALENTE) ALL’AUTORE

Poter escludere che si tratti di innovazioni tradizionali

A tal fine, è necessario poter escludere che le disomogeneità registrate tra i testi in sede di collatio risalgano
a iniziativa personale dei copisti e/o tipografi.

È necessario, insomma, poter escludere che si tratti di innovazioni tradizionali.

La volontà dell’autore Ma è anche possibile che l’innovazione travalichi i limiti della categoria del livellamento
formale: in questo caso, particolari, pur se non assolute, garanzie di effettiva autenticità offrono i testimoni
la cui costituzione si sappia con certezza sorvegliata dall'autore. Se tali testimoni presentano
rimaneggiamenti cospicui, o, più in generale, modificazioni rispetto all’autografo di natura ed estensione tali
da rendere inverosimile la possibilità che siano sfuggiti all'autore in sede di revisione del codice o di
correzione (magari ripetuta) delle bozze di stampa, è ovvio che tali rimaneggiamenti e tali modifiche
dovranno esser fatte risalire alla volontà dell'autore.

Le varianti sinonimiche, piccole lacune o inversioni

Più insidioso è il caso di varianti minori o minime: niente di male se tali varianti sono errori meccanici; più
complesso il caso di varianti sinonimiche, di piccole lacune o inversioni ecc.; di tutte quelle varianti, insomma,
che, ove sia dimostrato che esse risalgano direttamente all'autore, potrebbero ben chiamarsi «di
aggiustamento», ma che possono anche essersi insinuate nella copia a dispetto dell'autore ed esservi rimaste
inavvertitamente.

In tali casi, esse avranno, pur essendo tutt'altro che d'autore, dell'autore, per così dire, l'autorevole
imprimatur: e il critico testuale sarà indotto a pensare a una revisione d'autore, laddove di una sola visione
si tratta, magari distratta e affrettata.

SE LA PLURALITÀ REDAZIONALE NON RISALE ALL’AUTORE

Se, tenuto conto di tutto questo, il filologo è in grado di concludere che si tratta di una pluralità redazionale
non risalente all’autore, egli nient’altro dovrà fare se non mettere a testo l’AUTOGRAFO (depurato dagli
eventuali ERRORI), destinando all’APPARATO (o ad altra apposita sezione), a puro titolo documentario,
quanto trasmesso dai TESTIMONI non autografi.

SE LA PLURALITÀ REDAZIONALE È D’AUTORE

Altro invece sarà il discorso, nel caso in cui il filologo sia in grado di concludere che si tratta di diversità
redazionale d’autore. Problema fondamentale è a questo punto quello di:

✓ stabilire il RAPPORTO CRONOLOGICO tra le varie redazioni. Relativamente agevole, ove si disponga di dati
certima, ove a dati certi non sia possibile far ricorso, il problema è assai più complesso, e destinato fatalmente
ad essere risolto sulla base di elementi iudiciali, dovendo beninteso restare escluso il già deprecato giudizio
di valore.

STABILITA LA SUCCESSIONE CRONOLOGICA TRA LE VARIE REDAZIONI: L’ULTIMA REDAZIONE

Ammesso comunque che, in un modo o in un altro, sia stato possibile stabilire una successione cronologica
tra le redazioni, nuovi problemi suscita la scelta della redazione da METTERE A TESTO: si suole
tradizionalmente privilegiare l’ultima redazione, considerandola il punto d’arrivo del processo compositivo,
la fase che supera per ciò stesso tutte le precedenti, e cui è consegnata l'ultima e definitiva volontà
dell'autore.
ALCUNE ECCEZIONI ALLA REGOLA DELL’ULTIMA REDAZIONE

La regola generale, che vuole tradizionalmente privilegiare l’ultima redazione, ammette però alcune
eccezioni:

➢ per prima cosa, è necessario avere elementi sufficienti per stabilire che l’ultima redazione fu
effettivamente pubblicata, o che, se non lo fu, ebbe tuttavia l’approvazione dell’autore. Si faccia, ad esempio,
il caso di un’opera trasmessa da più STAMPE, tutte datate, tutte uscite vivente l’autore e tutte da lui
controllate, e da un AUTOGRAFO che rappresenti una diversa e compiuta fase redazionale; si supponga che
tale AUTOGRAFO risalga a un periodo successivo alla data dell’ultima STAMPA, rappresenti cioè una fase
ulteriore rispetto all'ultima redazione edita, e ammettiamo anche che niente risulti aver ostato alla
pubblicazione di questa fase ulteriore: è chiaro che, poiché dopo l’invenzione della stampa «pubblicare»
equivale a «stampare», tale redazione, pur essendo l’ultima, dovrà essere considerata un tentativo di
revisione-rielaborazione non riuscito, e tale a ogni modo giudicato dall'autore, che si è infatti astenuto dal
pubblicarlo;

➢ tutto questo, beninteso, ammettendo, come si è ammesso, che niente risulti aver ostato alla pubblicazione
di questa fase; ammettendo cioè che la non pubblicazione sia dipesa solo ed esclusivamente dalla libera
scelta dell'autore. Non sempre, tuttavia, è così. La mancata pubblicazione di un’opera può anche dipendere
da fattori estranei alla volontà dell'autore, ad esempio:

▪ la sua morte

▪ l’opposizione della censura (politica, religiosa ecc.)

▪ i rifiuti opposti dagli editori.

Nel caso in cui, dunque, sia dimostrato che al nostro AUTOGRAFO è consegnata una redazione cui solo motivi
esterni hanno impedito di vedere la luce, sarà essa a dover essere considerata a tutti gli effetti depositaria
dell’ULTIMA VOLONTÀ DELL’AUTORE.

➢ gli elementi esterni di cui sopra possono determinare dunque, lo si è appena visto, la mancata
pubblicazione di un'opera, ma possono anche spingere l’autore ad apportare modifiche al proprio testo, pur
di vederlo pubblicato. Si tratta in questo caso di una PLURIREDAZIONALITÀ COATTA.

REDAZIONE AUTOGRAFA NON COMPIUTA Ma può anche darsi che la testimonianza autografa accolga una
redazione non compiuta. Tale redazione, rispetto a quanto attestato dalle copie non autografe, può
rappresentare:

➢ una fase di lavorazione della redazione (o delle redazioni) attestata dalle copie

➢ una fase primitiva o intermedia di elaborazione di una redazione non attestata dalle copie.

➢ una fase successiva di elaborazione di una redazione rispetto alle copie. Nel primo caso, si tratta di
materiale attinente al processo evolutivo che ha avuto sbocco e concretazione effettiva nelle redazioni
definitive o compiute giunte fino a noi.

Nel secondo caso può trattarsi di tentativi variamente abortiti e mai giunti ad effettiva concretazione, sia che
essi rappresentino una fase primitiva abbandonata e mai più recuperata, sia che testimonino fasi intermedie
rimaste senza sviluppo nel corso del processo elaborativo. Altro è il discorso se la redazione autografa segue,
invece, tutte le copie rappresentanti le altre redazioni: si tratta allora di un mutamento ulteriore, e
l’AUTOGRAFO starà in rappresentanza (laddove sia possibile accertare, come si è detto, che il suo stato di
incompletezza non dipende da scelta dell'autore, ma da fatti contingenti: morte sopraggiunta, abbandono
forzato ecc.) dell’ultima volontà dell'autore. Bisognerà però distinguere:
➢ se le correzioni si organizzano in un insieme compiuto

➢ se le correzioni non si organizzano in un insieme compiuto Nella prima eventualità, esse andranno
trasferite A TESTO; nella seconda, se ne dovrà dar conto in APPARATO. Ma può anche darsi un altro caso:
che, cioè, siano i TESTIMONI NON AUTOGRAFI a presentare redazioni non compiute: e questo accade tutte
le volte che un esemplare non autografo, sia esso rappresentato da un manoscritto o da bozze di stampa o
da un esemplare a stampa, contenga correzioni, sostituzioni e aggiunte di mano dell’autore. In questi casi,
anche i TESTIMONI NON AUTOGRAFI rappresentano dunque, al pari dell’AUTOGRAFO e con casistica non
dissimile, una fase di elaborazione testuale.

AUTOGRAFI MULTIPLI

Può anche darsi, infine, che il CENSIMENTO conduca all'accertamento dell'esistenza di più AUTOGRAFI,
ciascuno dei quali può, come al solito, attestare:

✓ una redazione compiuta

✓ una redazione in fieri.

I problemi che una situazione di questo tipo presenta all'editore non sono dissimili da quelli via via prospettati
nelle pagine precedenti. Con questa differenza, naturalmente: che trattandosi di TESTIMONI AUTOGRAFI
tutte le innovazioni, tutte le modificazioni potranno essere fatte con certezza risalire all’autore, mentre, lo si
è visto, tale sicurezza manca nel caso di pluriredazionalità affidata, oltre che ad autografi, a copie, pur quando
esse siano assai affidabili. Se poi il materiale autografo appartiene a tempi in cui pubblicare equivale a
stampare, è intuitivo che, laddove non sia dimostrato che la mancata pubblicazione non è dipesa dalla
volontà dell'autore, tale materiale può anche testimoniarci le fasi compositive di un'opera che, se condotta
a termine, l'autore stesso ha poi considerato impubblicabile, o che, se rimasta incompiuta, l'autore ha
creduto di dover interrompere giudicandola un tentativo mancato e non destinato a esito positivo.
Filologia della Letteratura Italiana – P. Stoppelli
Riassunto
1. Concetti generali
La scrittura
L’attività filologica si esercita su testi scritti, anche se la fonte è orale.
La scrittura è un codice in grado di trasporre l’espressione linguistica nei segni di un alfabeto, che a
differenza della lingua, tende a mantenersi stabile; i rapporti tra suoni e segni possono però cambiare.
Ad esempio, nella poesia di Giacomo da Lentini “Meravigliosamente” abbiamo tre incipit diversi, uno per
ognuno dei tre manoscritti che tramandano:
-Marauilgliosa mente;
-Merauiglozamente;
-Meravilliosa mente;
Le grafie -lglio -glo -llio rappresentano però un identico contenuto fonetico, che nel XIII secolo non poteva
esistere in quanto non esisteva un modo riconosciuto per scrivere la laterale palatale; quindi ognuno
dei copisti fa come è suo uso.
Da Petrarca in poi, sono inserite delle grafie modellate su latino che non hanno valore fonetico, ma
solo culturale (aspecto, nel Canzoniere, va letto come aspetto).
L’uomo ha sempre cambiato i supporti su cui scrivere: la stele di Rosetta, II secolo a.C., è una pietra
di granito su cui sono incise tre versioni dello stesso testo in geroglifico, egizio demotico, greco; nel mondo
antico, si usavano anche superfici metalliche, cocci, tavolette di argilla o di legno, foglie di palma, strato
interno della corteccia degli alberi (liber- libro). I materiali utilizzati più largamente erano:
-papiro: coltivato nelle zone paludose del Nilo e si creavano fogli che venivano poi avvolti in rotoli
(volumen, da arrotolare, volvere);
-pergamena: pelle di pecora, capra o vitello conciata, già utilizzata ampiamente prima del 1000;
-carta: nel VIII secolo gli arabi importarono dalla Cina la tecnica per fabbricarla, si trattava di un materiale
economico e meno deperibile degli altri. Si riproduceva dalla macerazione degli stracci di fibre vegetali; con
l’introduzione della stampa si iniziò ad usare solo la carta.
Oggi vediamo una trasformazione radicale: il trasferimento del testo dalla carta al supporto digitale, grazie
alla memoria elettronica.
Se scriviamo al computer vediamo molte funzioni:
-font: il disegno del testo;
-stile: tondo, corsivo, grassetto, ecc… .
Entrambe le opzioni hanno un valore comunicativo e permettono di scegliere le forme più idonee per
un testo. Per lo studio filologico dei testi è fondamentale avere una cognizione di questi elementi
(materiali, stile, impaginazione) e la disciplina che studia i testi in relazione alle forme della loro
scrittura è la paleografia, indispensabile per la filologia dei manoscritti.
È con la stampa che le forme della scrittura si sono standardizzate, prima esistevano stili diversi.
-Carolina: con la dissoluzione dell’impero romano, gli stili grafici divennero sempre più diversi tra loro, fino a
che non si costituì l’impero carolingio; con la ricostruzione di un sistema culturale europeo, si affermò
in tutto l’impero uno stile di scrittura tendenzialmente unitario, che prende nome da Carlo Magno.
Questo tipo di scrittura è chiara ed elegante, ha un andamento tondeggiante e le lettere e le parole sono
tracciate separatamente. È grazie a Carlo Magno che si preservarono molte opere della tradizione letteraria
classica.
-Gotica: si passa ad un nuovo stile nella seconda metà dell’XI secolo e si afferma nel XII; inizialmente il suo
nome era “littera moderna”, ma in età rinascimentale prese il nome di gotica come dispregiativo,
perché attribuita al Medioevo barbarico. Si inizia ad usare questo stile perché si inizia ad usare un nuovo
mezzo scrittorio: una penna dal taglio obliquo (a punta mozza), che cambiava il tratteggio. Con la gotica siha
una compattezza di scrittura, l’avvicinamento delle righe tra loro e lo scarso sviluppo delle line
ascendenti/discendenti. Era la scrittura tipica del libro universitario medievale perché più funzionale
(abbreviature). La gotica italiana è anche detta “gotica rotunda” per le sue forme più morbide.
-Semigotica: è la scrittura usata da Petrarca ed è una gotica dal tratto addolcito. Con la riscoperta
dei manoscritti classici, scritti in grafia carolina, si cerca di riprodurre uno stile chiaro come il gotico
ed elegante come la grafia dei manoscritti. Si pensava però che quella fosse la grafia degli antichi e
che dovesse essere imitata; non pensavano appartenesse anche quella ad un’epoca medievale. Le figure più
importanti dell’Umanesimo italiano contribuirono quindi ad innovare la grafia gotica, fino a cancellarne i
tratti spezzati.
-Cancelleresca: versione corsiva della gotica e semigotica librarie; le lettere hanno continuità di tratto ed è
ricca di legature. Le aste ascendenti creano occhielli e svolazzi ed è usata nelle minute delle
corrispondenze private, anche se verrà usata nell’uso delle cancellerie e della pratica notarile in genere.
-Mercantesca: tra il ‘200/‘300 nasce la necessità tra banchieri, mercanti, artigiani, di uno stile do scrittura
rapido, per motivi pratici. Questo stile ha un tratteggio largo, delle forme tondeggianti ed è destinato solo al
volgare ed ai manoscritti cartacei; può anche essere usato per corrispondenze e memorie private, ma è anche
usata per trascrivere opere di grande fortuna in ambienti m-Umanistica: deriva dall’evoluzione della
semigotica, in stile minuscolo e modellato sulla carolina. Le sue forme sono armoniche, fluide nel tratteggio,
tondeggianti ed eleganti; il suo uso principale era quello della trascrizione dei grandi autori latini. Fu Poggio
Bracciolini a farla rinascere, è chiamata anche “minuscola umanistica” e fu rapidamente diffusa in tutta Italia.
-Umanistica: deriva dall’evoluzione della semigotica, in stile minuscolo e modellato sulla carolina. Le sue
forme sono armoniche, fluide nel tratteggio, tondeggianti ed eleganti; il suo uso principale era quello della
trascrizione dei grandi autori latini. Fu Poggio Bracciolini a farla rinascere, è chiamata anche “minuscola
umanistica” e fu rapidamente diffusa in tutta Italia.
-Caratteri di stampa: la nascita della stampa avviene con la pubblicazione della Bibbia di Gutenberg tra il 1455
ed il 1456; la prima grande tipografia italiana è nel Lazio ed è dei tedeschi Sweynheim e Pannartz, che
pubblicarono un’opera di Cicerone e delle opere di Lattanzio. Lo stile su cui si basarono fu l’umanistico
minuscolo e prese il nome di “romano” (“Times New Roman”). Ma nei primi decenni della stampa furono
riprodotti anche testi in gotico, ma non furono perlopiù indirizzati ad un pubblico popolare. È Aldo Manuzio,
infine, che inventa il corsivo nella stampa. Dal X secolo in poi, nella scrittura medievale, si iniziano ad
introdurre delle abbreviazioni per poter permettere di velocizzare il lavoro degli amanuensi, che spesso
scrivevano sotto dettatura. La scrittura stenografica risale all’età romana: fu inventata dal liberto Tirone,
segretario e scrivano di Cicerone; alcuni segni abbreviativi sono ancora detti “note tironiane”.
Il testo
Il termine testo deriva dal latino textus, ovvero tessuto e questo ci può indicare che le parole di un testo si
tengono tra di loro come l’intreccio dei fili di una tessitura. La scrittura letteraria è la più complessa, perché
non ha solo i significati posti dalle parole: ad esempio, in Inferno XXXIII vediamo il conte Ugolino che
inizia il racconto della sua morte; ma se ci spingiamo oltre, vedremo che la frase usata da Dante è in realtà
un eco a quella di Virgilio nell’Eneide, quando Enea inizia a commentare la sua storia alla regina Didone. Il
passato però, nonostante sia importante, può essere conosciuto solo per approssimazione, in quanto
la distanza cronologica corrisponde sempre alla distanza culturale.
La comunicazione letteraria ha bisogno di un emittente- autore e di un ricevente- lettore. Oggi, il
lettore riceve ciò che l’autore vuole dire tramite libro stampato, che però fa parte di un numero maggiore di
passaggi testuali che non sono quasi mai noti, che si collegano alla creatività del testo.
Non sempre è stato così: nel Medioevo, l’unico autore era considerato Dio (sacre scritture e libro
del mondo); l’uomo quindi non poteva aggiungere altro di originale alla creazione divina, per questo le
scritture medievali sembrano un commento perpetuo.
Nel XIII secolo Bonaventura da Bagnoregio identifica 4 modi di scrivere:
-scriptor: scrive testi altrui senza cambiare niente;
-compilator: scrive testi facendovi aggiunte non sue;
-commentator: combina scritti altrui con i suoi testi;
-auctor: trascrive cose sue e altrui, ma le sue hanno più rilievo.
Il lavoro dello scriba era considerato quello più alto e importante.
La composizione letteraria come atto creativo individuale ritorna nella cultura occidentale con Petrarca, che
la utilizzerà in modo consapevole; nasce infatti anche il libro d’autore. Queste idee saranno diffuse
dall’Umanesimo in poi.
Bisogna tenere a mente che ogni passaggio di copia corrisponde ad un allentamento progressivo
dall’originale e questo può accadere per vari motivi. La filologia lavora sui documenti sopravvissuti del testo
e quindi la sua tradizione, studiandone i testimoni (ogni manoscritto sopravvissuto).
-tradizione diretta: testo trascritto in quanto tale (Canzoniere di Petrarca di Pietro Bembo del 1501);
-tradizione indiretta: se riportato o tradotto all’interno di un altro testo (citazioni dei versi di Petrarca nelle
Prose della volgar lingua);
-tradizione plurima: numero molteplice testimoni;
-tradizione manoscritta;
-tradizione a stampa;
-tradizione mista (sia manoscritti che stampe);
-tradizione ramificata (più famiglie);
-tradizione quiescente (passaggi di copia non si evidenziano intenzioni innovative);
-tradizione attiva (contrario).
Quando gli originali non sono conservati è importante cercare di ricostruire il testo in modo più
vicino possibile all’originale: è la filologia di tradizione che si occupa di ricercare a ritroso nella tradizione.
Quando invece si conserva la documentazione d’autore, si può parlare di filologia d’autore, che cerca
di ricostruire il percorso genetico del testo fino alla forma definitiva
L’edizione
Il concetto di edere corrisponde, nell’antichità, alla volontà dell’autore di divulgare la sua opera,
quindi riguarda la sua pubblicazione. Una volta che il testo usciva dallo scrittoio dell’autore, questo non ne
aveva più controllo; con la stampa però la pubblicazione corrispondeva alla divulgazione di un gran
numero di copie perlopiù identiche tra loro.
L’editore era lo studioso che curava l’edizione di un testo.
L’edizione critica equivale ad un’azione di restauro: prima bisogna analizzare l’intera tradizione, per
pubblicare poi in una forma che sia ritenuta più possibile vicina a quella che si pensa corrispondere
alla volontà d’autore.
L’ecdotica è la teoria e la tecnica dell’edizione critica, mentre l’esame critico della tradizione è detto critica
del testo/testuale. Il testo che ne verrà fuori è un testo critico; per creare un buon testo critico è
fondamentale dichiarare la fonte da cui si è preso il testo.
La qualità del testo critico di un’opera è in relazione con la qualità dei testimoni conservati:
Tc=f (t1+ t2+ t3 ecc…)
Dove f corrisponde alla valutazione del filologo sulla natura dei testimoni e delle loro relazioni. Possiamo dire
che il testo critico è dato dal rapporto tra la funzione (opinione del filologo) ed i testimoni rinvenuti.
La Mandragola di Machiavelli è stata pubblicata fino al 1965 da un’edizione cinquecentina, fino a che
Roberto Ridolfi non scoprì il testo trasmesso dal manoscritto Laurenziano Redi 129 della Biblioteca Medicea
di Firenze. Questo comportò una diversa valutazione del testo.
L’edizione critica è possibile riconoscerla, la maggior parte delle volte, dal frontespizio. Trattandosi di una
pubblicazione di un testo scientificamente ricostruito, deve avere per forza una nota al testo ed un apparato
critico.
La nota al testo si definiscono le linee programmatiche che ha usato l’editore per ricostruire il testo, in modo
generale, mentre nell’apparato critico ci si sofferma sui singoli luoghi del testo.
Con le tecnologie digitali ed Internet è possibile parlare di edizioni fotografiche/meccaniche; molte
biblioteche hanno avviato programmi di digitalizzazione dei loro libri antichi al fine di mettere in rete
le riproduzioni.
Con l’avvento di questa tecnica si può anche ricreare un libro già impaginato e di nessun pregio: queste copie
sono dette facsimile.
L’edizione diplomatica è una via di mezzo tra la rappresentazione fotografica del documento ed il
testo ricostruito in forme moderne, secondo l’edizione fotografica e critica. Il nome deriva dalla
modalità caratteristica con cui si pubblicano documenti storico-giuridici delle antiche cancellerie degli Stati
(diplomi).
Si ha quindi una riproduzione fedele con i caratteri di stampa moderni del contenuto di un esemplare
manoscritto. Ha per questo determinati simboli per rendere alcuni aspetti particolari della fonte manoscritta.
L’edizione diplomatico-interpretativa rispetta invece le particolarità grafiche del documento ponendo
alcuni accorgimenti e modernizzazioni (distinzione u/v, segni paragrafematici, ecc…)
La nota al testo si definiscono le linee programmatiche che ha usato l’editore per ricostruire il testo, in modo
generale, mentre nell’apparato critico ci si sofferma sui singoli luoghi del testo.
Con le tecnologie digitali ed Internet è possibile parlare di edizioni fotografiche/meccaniche; molte
biblioteche hanno avviato programmi di digitalizzazione dei loro libri antichi al fine di mettere in rete
le riproduzioni.
Con l’avvento di questa tecnica si può anche ricreare un libro già impaginato e di nessun pregio: queste copie
sono dette facsimile.
L’edizione diplomatica è una via di mezzo tra la rappresentazione fotografica del documento ed il
testo ricostruito in forme moderne, secondo l’edizione fotografica e critica. Il nome deriva dalla
modalità caratteristica con cui si pubblicano documenti storico-giuridici delle antiche cancellerie degli Stati
(diplomi).
Si ha quindi una riproduzione fedele con i caratteri di stampa moderni del contenuto di un esemplare
manoscritto. Ha per questo determinati simboli per rendere alcuni aspetti particolari della fonte manoscritta.
L’edizione diplomatico-interpretativa rispetta invece le particolarità grafiche del documento ponendo
alcuni accorgimenti e modernizzazioni (distinzione u/v, segni paragrafematici, ecc…).
La scrittura volgare è molto diversa dalla nostra:
-le parole non sono rappresentate nella loro individualità (univerbazione); in grafia viene rappresentato
tutto ciò che cade sotto lo stesso accento tonico (addue, nellaprimavera, ecc…).
Nel parlare non si mette una pausa alla fine di ogni parola e vediamo quindi che c’era l’idea di una scrittura
come rappresentazione di un contenuto sonoro, non riconosce autonomia al testo scritto. Si tratta di
una scrittura da sentire. La scrittura inizierà ad acquisire sempre più autonomia (Petrarca, sonetto 96 Vat.
Lat. 3195).
2. La filologia del manoscritto
Il manoscritto
Con il termine manoscritto si intende, in filologia, un libro cartaceo o pergamenaceo scritto a mano,
realizzato a penna. Inizialmente si usufruivano dei rotoli, detti codex, che giungeranno all’italiano codice,
usato come sinonimo per libro manoscritto.
È la codicologia che studia i manoscritti nel loro aspetto materiale.
Il manoscritto è una legatura di più fascicoli di carta o di pergamena, raggruppati da una coperta/fogli di
guardia all’inizio ed alla fine; i fascicoli sono costituiti da fogli piegati in due e tenuti insieme da una
cucitura.
La nota al testo si definiscono le linee programmatiche che ha usato l’editore per ricostruire il testo, in modo
generale, mentre nell’apparato critico ci si sofferma sui singoli luoghi del testo.
Con le tecnologie digitali ed Internet è possibile parlare di edizioni fotografiche/meccaniche; molte
biblioteche hanno avviato programmi di digitalizzazione dei loro libri antichi al fine di mettere in rete
le riproduzioni.
Con l’avvento di questa tecnica si può anche ricreare un libro già impaginato e di nessun pregio: queste copie
sono dette facsimile.
L’edizione diplomatica è una via di mezzo tra la rappresentazione fotografica del documento ed il
testo ricostruito in forme moderne, secondo l’edizione fotografica e critica. Il nome deriva dalla
modalità caratteristica con cui si pubblicano documenti storico-giuridici delle antiche cancellerie degli Stati
(diplomi).
Si ha quindi una riproduzione fedele con i caratteri di stampa moderni del contenuto di un esemplare
manoscritto. Ha per questo determinati simboli per rendere alcuni aspetti particolari della fonte manoscritta.
L’edizione diplomatico-interpretativa rispetta invece le particolarità grafiche del documento ponendo
alcuni accorgimenti e modernizzazioni (distinzione u/v, segni paragrafematici, ecc…).
La scrittura volgare è molto diversa dalla nostra:
-le parole non sono rappresentate nella loro individualità (univerbazione); in grafia viene rappresentato
tutto ciò che cade sotto lo stesso accento tonico (addue, nellaprimavera, ecc…).
Nel parlare non si mette una pausa alla fine di ogni parola e vediamo quindi che c’era l’idea di una scrittura
come rappresentazione di un contenuto sonoro, non riconosce autonomia al testo scritto. Si tratta di
una scrittura da sentire. La scrittura inizierà ad acquisire sempre più autonomia (Petrarca, sonetto 96 Vat.
Lat. 3195).
2. La filologia del manoscritto
Il manoscritto
Con il termine manoscritto si intende, in filologia, un libro cartaceo o pergamenaceo scritto a mano,
realizzato a penna. Inizialmente si usufruivano dei rotoli, detti codex, che giungeranno all’italiano codice,
usato come sinonimo per libro manoscritto.
È la codicologia che studia i manoscritti nel loro aspetto materiale.
Il manoscritto è una legatura di più fascicoli di carta o di pergamena, raggruppati da una coperta/fogli di
guardia all’inizio ed alla fine; i fascicoli sono costituiti da fogli piegati in due e tenuti insieme da una
cucitura.
Un fascicolo formato da due fogli si chiama duerno, da tre fogli terno, da quattro quaterno, ecc… . Le pagine
dei manoscritti sono chiamate carte. La numerazione delle carte avviene numerando ciascuna carta
con i termini recto per il lato A e verso per il lato B.
Ogni manoscritto è un unicum ed ha un nome, questo nome è detto segnatura, che ha due parti:
-nome di dove è posto;
-numero di ordine interno;
-etichetta con il tipo di alfabeto;
La segnatura associa sempre il nome della biblioteca o archivio assieme alla città in cui il manoscritto si trova.
Le descrizioni dei manoscritti iniziano già nel ‘400, quando gli umanisti sentirono il bisogno di descriverne il
contenuto, e si andò specializzando nel ‘500; tutto ciò ha dato vita a molti cataloghi che descrivono
e registrano i manoscritti di biblioteche e archivi. L’edizione critica di un testo deve avere una
descrizione preliminare dei manoscritti e delle stampe su cui l’editore si è basato.
Descrizione esterna:
-Segnatura: il nome del manoscritto;
-Materia scrittoria: se membranaceo o cartaceo;
-Età: in che anno è stato scritto;
-Dimensioni;
-Legatura: il materiale di cui è fatto e se è antico o moderno;
-Numero carte;
-Costituzione dei fascicoli: se duerni, ecc… ;
-Disposizione della scrittura per carta: come è impaginato;
-Tipo di scrittura: lo stile e se scritta da una o più mani;
-Ornamentazione;
-Storia del manoscritto;
Descrizione interna:
-Autore;
-Titolo dell’opera;
-Contenuto;
Notizie bibliografiche.
Fino al XII secolo la produzione manoscritta si svolgeva principalmente nei centri scrittori dei conventi-
scriptoria. Ma con la rinascita delle città, queste divennero i luoghi più avanzati della vita culturale europea;
vediamo quindi la nascita delle università, che rispondono al bisogno di acculturarsi della borghesia in ascesa
economica e sociale. Per questo, attorno agli studia si svilupparono corporazioni di copisti professionisti.
La lingua del sapere rimane il latino, ma il libro universitario ha delle precise caratteristiche:
-formato grande;
-disposto su due colonne+ ampi margini;
-rubriche in rosso;
-scrittura gotica;
-molte abbreviazioni
-Numero carte;
-Costituzione dei fascicoli: se duerni, ecc… ;
-Disposizione della scrittura per carta: come è impaginato;
-Tipo di scrittura: lo stile e se scritta da una o più mani;
-Ornamentazione;
-Storia del manoscritto;
Descrizione interna:
-Autore;
-Titolo dell’opera;
-Contenuto;
Notizie bibliografiche.
La lingua del sapere rimane il latino, ma il libro universitario ha delle precise caratteristiche:
-formato grande;
-disposto su due colonne+ ampi margini;
-rubriche in rosso;
-scrittura gotica;
-molte abbreviazioni.
Petrucci parla di libro scolastico; lo allestivano copisti di mestiere e questa tipologia sarà adottata anche per
il libro in volgare e quando sarà inventata la stampa.
Con la riscoperta degli autori latini (XIV secolo) si ha un’altra tipologia di libro, più piccolo di dimensioni e
prodotto solitamente per singoli intellettuali: si tratta del libro umanistico, o da bisaccia, per la sua
portabilità che può essere creato sia da scribi professionisti che dallo studioso.
Con la diffusione della cultura anche tra i ceti popolari, nasce l’esigenza di un libro a basso costo e detto per
questo libro popolare, di piccole dimensioni e detto “da mano”. La realizzazione di questi libretti non era
svolta da copisti professionali.
La concezione di stampa come nuova ed importante tecnologia, giungerà solo nel XVI secolo.
I manoscritti sono classificabili in:
-Autografo: quando è scritto dall’autore;
-Idiografo: se è stato scritto da un altro, ma supervisionato dall’autore;
-Adespoto: senza l’indicazione dell’autore;
-Anepigrafo: non si sa il titolo;
-Apocrifo: attribuito a chi non è autore;
-Miscellaneo: riunisce testi eterogenei;
Per quanto riguarda la scrittura:
-Acefalo: cadute una o più carte dall’inizio;
-Mutilo: lacunoso, mancano carte all’interno;
-Composito: rilegati più codici inizialmente indipendenti;
-Misto: riunisce materiali pergamenacei e cartacei;
L’originale
Per originale si intende il testo autografo o idiografo da cui deriva tutta la tradizione, ma può essere originale
anche il testo controllato e basta dall’autore.
Se manca l’originale, interviene l’edizione critica, che cercherà di riportarlo il più vicino possibile alla sua
forma originaria. La relazione che intercorre è tale:
Tc > O
Il testo critico esiste grazie all’originale, ma non può essere/coincidere con l’originale, in quanto l’originale
ha uno statuto incerto e nessuna copia può essere mai fedele del tutto all’originale: ogni copia può contenere
errori.
Inoltre, la volontà dell’autore è un riferimento dinamico, quasi mai statico: la creazione letteraria è
un processo a cui è difficile porre dei limiti, in quanto il rapporto tra scrittore e testo non si chiude quasi mai
in modo definitivo:
“A Silvia”: il testo autografo di Leopardi si trova nella Biblioteca Nazionale di Napoli ed ha la data 18-20
aprile 1828; il testo della poesia non appare ancora in forma definitiva, in quanto sono presenti
molte varianti, per questo possiamo dire che non è un originale, dato che il testo ha altre fasi di elaborazione.
Possiamo invece chiamare originale il testo nell’edizione dei Canti pubblicato nel 1831 dall’editore
fiorentino Piatti. Nel 1835 però Leopardi pubblica una nuova versione della poesia, dove vediamo ritocchi di
stile e cambia “rammenti” in “rimembri”. Antonio Ranieri, amico e custode delle sue carte, pubblica
un edizione postuma dei suoi Canti nel 1845; questa versione non ha un’originale dietro di sé, ma solo quello
che l’amico del poeta dice fosse la volontà di Leopardi.
Non sempre i testi hanno continue rielaborazioni:
-“I promessi sposi” del Manzoni sono stati pubblicati definitivamente nel 1840-2 e lui muore oltre 30 anni
dopo; questo ci indica che non ha più fatto modifiche.
-Nel “Canzoniere” di Petrarca vediamo un testo concluso, anche se la sua definizione è molto vicina alla morte
del poeta e quindi non possiamo sapere se voleva modificarlo.
Un testo originale indica quindi quando l’autore ritiene concluso il processo creativo e decide di
rendere pubblico un testo.
Se invece questa volontà non venisse mai espressa? Ad esempio, Virgilio non avrebbe voluto che l’Eneide
fosse divulgato e lo chiese espressamente ad un suo amico, Rufo. Alla morte dell’autore, Augusto ordinò il
completamento e la divulgazione dell’opera. Possiamo quindi dire che l’originale dell’Eneide non è
mai esistito.
Lo stesso possiamo dire dei testi privati, ovvero quelli che non erano indirizzati alla pubblicazione, come
lettere, appunti, note, ecc… . Un esempio può essere lo Zibaldone.
La Gerusalemme liberata di Tasso è un altro esempio: fu messa a stampa senza l’autorizzazione dell’autore
da due stampatori ferraresi tra il giugno ed il luglio del 1581; queste stampe e le successive ebbero molto
successo.
Per quanto riguarda la volontà dell’autore, è la Gerusalemme conquistata, stampata nel 1593 che
rispecchierà ciò che Tasso approvava.
È di fondamentale importanza nella filologia l’originalità del testo, come lo voleva l’autore. Però è successo
che i testi fossero letti secondo la tradizione; in questo caso, si parla di vulgata, che è determinata da ragioni
storiche.
Per Vulgata si intende la tradizione latina della Bibbia realizzata da san Girolamo nel V secolo, che è stata
usata come testo ufficiale per la chiesa cattolica fino al Concilio ecumenico Vaticano. Lo stesso vale anche
per i testi volgari, come è capitato per la Commedia di Dante, che per secoli si è fondata sulla vulgata di
Boccaccio, anche se molto lontana dall’originale.
Per quanto riguarda la volontà dell’autore, è la Gerusalemme conquistata, stampata nel 1593 che
rispecchierà ciò che Tasso approvava.
È di fondamentale importanza nella filologia l’originalità del testo, come lo voleva l’autore. Però è
successoche i testi fossero letti secondo la tradizione; in questo caso, si parla di vulgata, che è determinata
da ragioni storiche.
Per Vulgata si intende la tradizione latina della Bibbia realizzata da san Girolamo nel V secolo, che è stata
usata come testo ufficiale per la chiesa cattolica fino al Concilio ecumenico Vaticano. Lo stesso vale anche
per i testi volgari, come è capitato per la Commedia di Dante, che per secoli si è fondata sulla vulgata di
Boccaccio, anche se molto lontana dall’originale.
La copia
Fare il copista era una vera e propria professione e non serviva solo saper leggere e scrivere, ma anche abilità
tecniche specifiche. Nel ‘300/‘400 esistevano scrittori legati a istituzioni, ma anche privati (storia di
ser Nando da Barberino, che solo trascrisse oltre 100 copie della Commedia).
Quando nel XV secolo la stampa stava diventando sempre più usata, molti signori si rifiutavano di tenere
nelle proprie librerie testi stampati, che erano ritenuti rozzi. Ricordiamo Vespasiano da Bisticci, che ebbe
una bottega a Firenze dal 1440 al 1480, che forniva manoscritti di grande qualità ai signori di tutta Italia.
Era praticata anche la tecnica del “fai da te”: i testi volgari venivano copiati da chi li volesse tenere
e trasmessi.
Il lavoro dei copisti comprendeva un aspetto mentale ed uno materiale, sommati alle condizioni del momento
in cui si copiava (illuminazione, vista, stanchezza, ma anche provenienza e motivazioni personali). Ecco i
passaggi principali del lavoro del copista:
1. Lettura del modello: per prima cosa si dovevano leggere stringhe di testo contenenti più parole; la
psicologia della lettura ci dice che percepiamo la parola a seconda della lunghezza di essa e la
ricostruiamo sulla base del contesto. Per questo sono generati errori di lettura che possono provenire
anche dai motivi sopra elencati. Un’altra difficoltà deriva anche dallo stile grafico, che può far
equivocare il copista. Ma esiste anche l’errore dovuto alla paleografia. Gli errori di lettura sono chiamati
anche banalizzazioni, che risultano un’interferenza tra la cultura del copista e quella dell’autore.
2. Memorizzazione: avviene quando l’occhio del copista si stacca dalla pagina per portarsi alla pagina da
scrivere. Questo richiede di imparare a memoria una porzione di testo; in questo passaggio, si rischia
l’omissione di parole brevi.
3. Dettato interiore: la lettura trova una rappresentazione acustica nella mente del copista; importanti
saranno le abitudini di pronuncia del copista, che possono provocare un’alterazione fonetica del testo
(ragione- rason- razon- raxon).
4. Esecuzione: corrisponde al momento in cui il copista scrive quanto letto, qui possono avvenire errori
come salti/duplicazioni di lettere, sillabe, fusioni di parola, ecc… .
5. Ritorno al modello: si ritorna alla pagina letta, cercando l’ultima parola trascritta e può avvenire che si
riprende dalla seconda e non dalla prima a cui ci si era fermati; questo errore è detto salto dallo stesso allo
stesso, ovvero saut du même au même ed i testi più a rischio sono quelli che hanno ritorni frequenti sulle
stesse parole.
Gli errori commessi dai copisti sono detti trascorsi di penna, oppure lapsus calami:
-Aplografia: omissione sillaba/parola perché consecutive e identiche (mercante per mercatatante);
-Dittografia: duplicazione impropria sillaba/parola (biolologia- biologia);
-Omeoteleuto: due parole contigue sono fuse in un’unica parola (abbindol+ ato);
-Omeoarto: due parole contigue sono fuse in un’unica parola;
-Errore di anticipazione;
-Errore di ripetizione;
-Errore polare: sostituzione di una parola con un’altra che ha concetto opposto;
Il copista migliore è quello che svolge il suo lavoro il più passivamente possibile, persino giungendo
a disegnare la parola in caso non riesca a leggerla e che quindi cerca di mantenere il testo il più immutato
possibile.
Il copista peggiore per il lavoro del filologo è invece quello che corregge e lavora attivamente al testo, con
aggiunte e correzioni che potrebbero essere attribuite all’autore.
L’autorevolezza del testo coincide con il modus operandi del copista: più un testo è autorevole (testo
giuridico, sacre scritture) più non si attueranno modifiche. Lo stesso vale per le opere letterarie; per quanto
riguarda la Commedia dantesca, l’uniformità strutturale del testo è data dallo schema metrico della terzina,
che impedisce l’alterazione di ogni parola-rima. Lo stesso vale per il Canzoniere petrarchesco, che ha
riscosso un prestigio enorme.
Differentemente, i testi di circolazioni popolare, erano oggetti di molte modificheAll’epoca manoscritta,
poteva capitare che l’autore volesse scrivere per determinate ragioni una copia delle sue opere e
ricopiandola, ne uscissero fuori alcuni errori: questo non vuol dire che si tratti di una seconda edizione, ma
in assenza dell’originale, queste copie d’autore sono molto importanti.
La copia d’autore più celebre nella tradizione italiana è l’autografo del Decameron (ms. Hamilton 90
biblioteca di stato di Berlino). Fu forse concepito inizialmente come regalo, ma durante la scrittura perde
questa prerogativa e giunge a sembrare una copia di servizio.
Oggi, leggiamo il Decameron grazie al ms. Hamilton e il Laurenziano XLII della Biblioteca Medicea
Laurenziana di Firenze, conosciuto anche come codice Mannelli. Un altro codice importante riportante
il Decameron è il ms. Parigino Italiano 482 della Biblioteca Nazionale di Francia, del XIV secolo.
3. L’edizione unitestimoniale
Il censimento delle testimonianze
Per iniziare l’edizione critica di un testo è necessario censire tutte le testimonianze manoscritte o a stampa
che lo trasmettono, per fare ciò bisogna partire dalla bibliografia disponibile, ovvero ciò che si sa sulle fonti
del testo. Una volta raccolte le notizie, si dovranno integrare con le ulteriori ricerche svolte su biblioteche e
cataloghi, per cercare di trovare documenti nuovi, ma che potrebbero far parte della produzione di un autore.
Ci sono più tipi di cataloghi:
-cataloghi generali: registrano manoscritti di contenuto e provenienza diversi;
-cataloghi speciali: censiscono solo manoscritti con caratteristiche comuni dello stesso fondo o fondi
diversi:
Tra i cataloghi manoscritti più importanti vediamo la serie degli Inventari dei manoscritti delle Biblioteche
d’Italia di Giuseppe Mazzantini (1890, pubblicata in 112 volumi); poi vediamo l’Iter italicum di Kristeller, un
catalogo dei manoscritti rinascimentali.
Importanti sono anche i progetti Manus e BibMan del Ministero per i beni culturali e l’Archivio del ‘900 per
l’Università di Roma “La Sapienza”.
Ogni manoscritto è un unicum, a differenza degli esemplari a stampa, che sono approssimativamente uguali:
infatti, i manoscritti sono censiti individualmente, i testi a stampa invece l’edizione nel suo insieme;
cambiano anche in base agli esemplari da cui sono stati stampati.
-Un libro stampato dal 1455 fino al 31 dicembre 1500 è detto incunabolo (ovvero libro in cuna, culla, degli
esordi);
-Un libro stampato dal 1 gennaio 1501 al 31 dicembre 1600 è detto cinquecentina;
Entrambi fanno parte di un insieme autonomo. Anche le seicentine e settecentine hanno dei cataloghi
speciali rispetto agli altri esemplari.
L’edizione unitestimoniale si ha quando abbiamo un solo testimone utile alla ricostruzione critica e
filologica. Si tratta di un’edizione più semplice da studiare, ma nel caso questa abbia un qualsiasi tipo di
errore, non si ha la possibilità di correggerlo in base ad altre testimonianze.
Per prima cosa l’editore dovrà trascriverlo in modalità diplomatica, oggi in formato digitale, che serve
a trasformare il testo in testo critico. Queste sono le operazioni fondamentali:
1. Interpretare/interpretatio: è l’attività che porta alla piena comprensione del significato di ogni luogo del
testo; ad esempio, se il documento è antic, bisogna fare in modo che corrisponda ai valori che
abbiamo oggi in uso. Un problema ricorrente è la punteggiatura, importante per definire i significati;
ecc… . L’intervento del filologo, con commenti ad esempio, deve essere il più limitato possibile.
2. Emendare/emendatio: se il testo ha degli errori sta all’editore correggerli, ma se si tratta di un unico
testimone, la correzione avviene solo per congettura, intuizione. In filologia viene detta emendatio ope
ingenii, che si contrappone all’ope codicum (Giovanni Malpaghini, anche se sotto la supervisione di
Petrarca, scrive “addolcisse” al posto di “addolcisce”). In caso non fosse possibile una proposta
correttiva, l’editore apporrà una crux philologica [†].
Il problema della grafia
I testi in italiano antico possono risultare illeggibili, per questo è necessaria un’operazione di transcodifica,
che non modifica il testo né foneticamente né grafematicamente. Si tratta di ammodernare la grafia
delle parole, ricondurla all’ortografia moderna, senza compromettere la sostanza fonetica del testo.
La norma Barbi-Parodi, applicata all’edizione della Commedia dantesca del 1921, consiste proprio in questo:
bisogna adottare un sistema di rappresentazione che consenta a tutti di intendere il fenomeno
fonetico e morfologico (actione> azione: si cambia la grafia originale, ma si rispetta il suono). È
importante la l’esigenza di leggibilità, che comprende quindi l’ammodernamento di testi antichi.
È dal ‘600 in poi che si stabilisce una norma ortografica, fino a giungere ai testi ottocenteschi, molto più
comprensibili.
I testi oggetti di ammodernamento appartengono ai primi quattro secoli della tradizione letteraria italiana.
Questo ha fatto sì che si creasse una prassi sostanzialmente omogenea.
Il criterio fondamentale è distinguere i tratti grafici che portano specifici contenuti fonetici/culturali da quelli
che rispondono a pratiche scrittorie prive di significatività (cha/cho/chu per che/chi, nessi latineggianti,
trigrammi).
Se si pubblica un testo per la sua importanza documentaria sui vari aspetti della lingua, l’edizione
deve essere diplomatico-interpretativa; quindi la grafia del documento è di basilare importanza.
Esempio: Ludovico Ariosto pubblica la prima edizione dell’Orlando Furioso a Ferrara nel 1516 presso lo
stampatore Giovanni Mazzocco (poi ripubblicherà nel 1521 e 1532). Il testo che leggiamo è dell’ultima
edizione del 1532, corrispondente all’ultima volontà dell’autore. Nel 2006, Dorigatti ha pubblicato un’ottima
edizione critica della prima stampa del 1516: ha creato un’edizione conservativa, ma non è intervenuto nelle
grafie etimologiche ed ha conservato l’uso delle maiuscole.
4. Il metodo di Lachmann
La recensio
Se i testimoni sono numerosi, si va nella filologia di tradizione, un’operazione di maggiore complessità che si
appoggia molto ad una metodica sviluppata nell’Ottocento da Karl Lachmann. I principi del suo metodo
furono esposti in una sua edizione di Lucrezio pubblicata a Berlino nel 1850. Per prima cosa bisogna ricercare
tutti i testimoni per farne un esame approfondito: solo con la comparazione delle differenze tra i testi è
possibile la ricostruzione di un testo originale. Bisogna confrontare i testi parola per parola: collazione (lat.
collatio, da conferre: riscontrare, confrontare). Per collazionare i testi A e B si può trascrivere
diplomaticamente il testo A ed apporvi le differenze di B rispetto ad A. In caso si possedesse una copia
stampata del testo, si può utilizzare quella per trascrivere tutte le differenze tra A e B.
La collazione serve al filologo per stabilire un contatto microanalitico col testo e farsi una prima idea di quali
siano i rapporti di parentela tra i testimoni. Più i testi sono eterogenei, più la collazione avrà come risultato
una lista con molte divergenze testuali, che possono essere di natura grafica, grafico-culturale, fono-
morfologica, sostanziale. C’è una netta differenza tra variante ed errore:
-variante: possibilità alternativa del testo, che non ne turba il senso;
-errore: lezione che si giudica estranea all’autore, perché inaccettabile o incompatibile con quanto l’autore
poteva sapere;
È difficile stabilire quando una lezione debba essere considerata variante o errore. Nel metodo Lachmann
per stabilire i rapporti tra testimoni si punta tutto sugli errori considerati significativi e per questo detti errori-
guida, che possono essere classificati in:
-errore congiuntivo: errore comune a più testimoni, che possono essere ereditati da un precedente comune;
-errore separativo/disgiuntivo: è un errore presente in un testimone ed indica estraneità;
Sono quindi gli errori-guida che ci aiutano a ricostruire i rapporti genetici dei testimoni; quest’operazione si
fonda su due postulati:
-l’originale è per definizione privo di errori;
-non esiste passaggio di copia che non inserisce almeno un errore significativo; Le lettere dell’alfabeto latino
maiuscolo indicano gli esemplari esistenti, quelle dell’alfabeto greco o latino minuscolo quelle che si
suppongono essere esistiti in base al riscontro di quelle disponibili.
A = B; B ≠ A
A non è l’originale, quindi ha degli errori, che passano in B (copia di A). B introdurrà a sua volta degli errori,
per questo A non avrà nessun errore separativo rispetto a B.
A = B; A ≠ B
I ruoli sono invertiti.
A ≠ B; B ≠ A
Sia A che B discendono dall’originale, se questo non ha errori, allora non possono avere errori-guida comuni.
A = B; A ≠ B; B ≠ A
Se A e B discendono dallo stesso antecedente comune, x: archetipo (che discende a sua volta dall’originale),
entrambi avranno almeno un errore-guida derivato da x, però, essendo copie, avranno errori specifici
che sono separatori.
Lo stemma dei codici è l’albero genealogico della tradizione attestata (da lat. stemma codicum). Si parte dal
rilevamento degli errori per poter definire lo stemma:
1: A ≠ B,C; B ≠ A,C; C ≠ A,B
Non esistono testi congiunti tra i tre testimoni perché c’è dipendenza diretta dall’originale.
2: A = B = C; A ≠ B,C; B ≠ A,C; C ≠ A,B
Derivano tutti da un archetipo, che deriva direttamente dall’originale; c’è almeno un errore congiuntivo
tra i tre manoscritti.
3: A = B = C; A = B; A ≠ B,C; B ≠ A,C; C ≠ A,B
Tutti e tre i manoscritti derivano da un antecedente comune, ma solo A e B hanno degli errori comuni che
rimandano quindi ad un intermediario tra questi e x, ovvero y.
4: A = B; A ≠ C; B ≠ A,C; C ≠ A,B
Non esistono errori in comune, quindi non ganno un antecedente in comune tra loro e l’originale;
B però ha degli errori separativi rispetto ad A, quindi tutti gli errori di A si trovano anche in B. C è estraneo ad
entrambi. B deriva quindi da A.
-Archetipo: l’esemplare da cui si pensa derivi tutta la tradizione conosciuta (tutti i testimoni hanno almeno
un errore significativo in comune);
-Subarchetipo: manoscritto capostipite di una famiglia di manoscritti;
-Apografo: può essere o una copia dell’originale o un manoscritto che è copia di un altro;
-Antigrafo: manoscritto da cui è stato preso un altro manoscritto;
-Codice descritto (codex descriptus): è la copia di un altro manoscritto posseduto;
Lo stemma rappresenta il rapporto genetico tra i manoscritti/stampe esistenti e conservate. Per prima cosa,
dopo aver definito il rapporto genetico tra i testimoni, si eliminano i testimoni descritti (eliminatio codicum
descriptorum); nel caso sia possibile attuare una scelta, si parlerà di recensio chiusa.
In caso sia necessario prendere a studio tutte le varianti, allora saremo di fronte ad una recensio aperta.
In caso la recensio sia aperta, la scelta della variante va fatta in base ad un criterio stilistico, che
può suddividersi in una lectio facilior o lectio difficilior. Bisogna partire dalle fenomenologie dell’atto di copia:
si suppone che le innovazioni verificatesi sono sempre banalizzazioni della lezione originaria, quindi la
lezione meno ovvia e più significativa deve essere riconosciuta come d’autore.
Se l’uso delle due lectio non sono utili, allora si utilizza il criterio dell’usus scribendi: si valuta quali delle due
lezioni siano più vicine agli usi stilistici dell’autore/genere a cui appartiene l’opera.
In caso nemmeno questo criterio serva, si utilizza l’adiaforia (indifferenza): tutte le lezioni attestate sono
equivalenti.
L’examinatio e l’emendatio
Dopo la recensio segue la costituzione del testo (constitutio textus), che prevede il suo esame (examinatio)
parola per parola; da questa pratica si capisce quale lezione è originale e quale è un errore o una variante di
tradizione.
Se tutte le lezioni sono valutate come erronee, si procede nei limiti del possibile a correggere il testo
(emendatio) secondo l’ope ingenii.
L’emendamento è una proposta integrativa:
-il testo aggiunto va tra parentesi uncinate <…>;
-il testo espunto va tra parentesi quadre […];
In caso la valutazione delle lezioni divergenti porti a ipotizzare che tutte le lezioni partono da una forma non
attestata si parla di diffrazione.
L’apparato critico consiste in una serie di note che si trovano parallelamente al testo con il fine di
documentare e giustificare luogo per luogo le scelte dell’editore. L’apparato può essere:
-apparato critico negativo: sono indicate le lezioni non accolte, con riferimenti al testimone cui
appartengono;
-apparato critico positivo: nel caso ci siano più testimoni, si mette in apparato il testimone o la famiglia del
testimone che portano la lezione messa a testo. Non sempre la lezione in apparato è quella corrispondente
all’ultima volontà dell’autore, si basa tutto su un criterio di probabilità.
Un esempio di edizione critica (pag. 74-86)
Meravigliosamente di Giacomo da Lentini è un testo del XIII secolo scritto originariamente in volgare
siciliano, anche se noi lo conosciamo nella sua versione toscana.
I manoscritti fondamentali in cui viene attestata la poesia sono tre:
-Vaticano latino 3793, Bibl. Apostolica Vaticana, città del Vaticano;
-Laurenziano Redi 9, Bibl. Medicea Laurenziana, Firenze;
-Banco Raru 217, Bibl. Nazionale Centrale, Firenze;
5. Limiti del metodo di Lachmann
Oggettività vs soggettività
Il metodo Lachmann inizialmente permise di superare metodi obsoleti per l’edizione dei testi:
-codices plurimi: si sceglie la lezione attestata dal maggior numero di manoscritti, senza contare la loro
classificazione;
-codex vetustissimus: dare fiducia al manoscritto più antico tra tutti quelli presenti, secondo il criterio cui un
manoscritto è valido in base a quanti passaggi di copia ha avuto (recentiores non deteriores: i
manoscritti più recenti non sono per forza peggiori di quelli più antichi);
-codex optimus: la scelta viene fatta in base alla soggettività del critico, che sceglie il manoscritto più
affidabile;
-textus receptus: si basa sulla vulgata, quindi da ragioni storiche e da una casualità che ha fatto che quel
manoscritto prevalesse nel tempo; non sempre però è fedele all’originale.
Il metodo di Lachmann diventa famoso nel periodo del Positivismo, secondo cui si pensava di costruire il
passato in base a dati oggettivi, più possibile svincolati dal dato soggettivo. In questo campo però le scelte
devono essere soggettive: il giudizio del filologo è di basilare importanza.
Per impiegare il metodo di Lachmann è necessario che la tradizione abbia certe caratteristiche
-i testi devono essere quiescenti, di modo che gli elementi innovativi appartengano solo all’errore di copia,
per sapere i procedimenti che hanno portato ai cambiamenti nel testo;
-devono avere un archetipo, senza questo è più probabile che la tradizione non abbia lezioni d’autore
differenti;
-i rapporti di derivazione devono essere solo verticali;
Un’altra cosa che mette in difficoltà il metodo di Lachmann è la contaminazione: quando un testimone è
scritto con il ricorso a più fonti contemporaneamente.
Un grande cambiamento nei modi della trasmissione del testo si ha dal XV secolo in poi, con l’introduzione
della stampa. Il metodo di Lachmann solitamente fallisce di fronte ai testi di era pre-tipografica, in quanto
hanno un carattere tendenzialmente innovativo, relazioni plurime e contaminazioni. Per quanto riguarda le
tradizioni dei testi classici, soprattutto latini, il metodo lachmanniano è adatto: risalgono soltanto ad
un archetipo medievale, che azzera tutte le tradizioni dietro di sé.
È impossibile, in ambito volgare, ricostruire attraverso il metodo di Lachmann.
Dopo Lachmann
L’immagine riflessa o il Lai de l’Ombre (Jean Renart, tra il 1217 ed il 1219) è un testo narrativo in antico
francese di un migliaio di versi e tramandato da 7 manoscritti contenenti intorno alle 1700 varianti.
Il filologo Joseph Bédier lo recensì nel 1890 secondo il metodo Lachmann e cercò di definire uno stemma:
Cambiano le coincidenze tra D, F ed E.
Bédier ritornò sulla questione nel 1913 con un nuovo intento metodologico: tornando sui due stemmi che
fecero lui e Paris nel 1890 capì che entrambi erano plausibili, ma indimostrabili. Questo mise in crisi
la stemmatica: quindi Bédier esaminò tutte le 110 edizioni condotte tramite il metodo Lachmann e osservò
che 105 avevano degli stemmi bipartiti: le tradizioni dei testi erano sempre a due rami.
Nel 1928 Bédier scrisse un saggio nel quale propone un metodo alternativo a Lachmann, secondo cui dopo
aver analizzato a fondo la tradizione ed aver fatto delle ipotesi sui rapporti di derivazione dei testimoni, sta
al filologo stabilire quali di essi debba essere scelto a fondamento della propria edizione (bon manuscrit).
Così facendo il testo pubblicato avrebbe avuto fondamento storico e il filologo avrebbe avuto maggiore
certezza.
Insomma: il metodo di Lachmann è praticabile fino al momento della costituzione dello stemma, poi
è necessario prendere la strada del buon manoscritto.
Secondo Bédier il metodo d’edizione più raccomandabile è quello che presuppone un senso di sfiducia in sé,
atteggiamento di prudenza; inoltre, tutte le correzioni devono essere aggiunte solo in appendice.
Bédier non fu l’unico a vedere i limiti di questo metodo:
-Ulrich von Willamowitz-Moellendorff;
-dom Henri Quentin;
-Paul Maas nel 1927 invece ha revisionato, non accusato del tutto, il metodo Lachmann ed ha scandito i tre
momenti del testo critico (recensio, esaminato, emendatio) e di affidarsi solo agli errori significativi;
Giorgio Pasquali recensì nel 1929 il testo di Maas e da quella recensione nacque un libro (Storia
della tradizione e critica del testo), che rimane il contributo italiano in ambito filologico più importante del
secolo scorso.
Secondo Pasquali non bisognava abbandonare il metodo, ma proponeva di applicarlo senza rigidità, in base
a cosa richiedeva il caso in questione. Per Paquali era fondamentale studiare prima la storia della tradizione,
tutti i documenti, le condizioni, gli ambienti da cui sono usciti ed anche la loro natura di oggetti materiali.
La qualità di un esercizio critico dipende quindi dalle informazioni che si riuscivano a raccogliere intorno a
tutti i testimoni che trasmettevano il testo: importanti erano quindi tutte le discipline storiche.
Studioso importante della prima metà del ‘900 è Michele Barbi che scrisse verso la fine degli anni ’30 La
nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante a Manzoni; questo testo serviva da difesa
alle critiche verso la disciplina filologica della critica estetica.
Anche Barbi intuiva l’insufficienza del metodo lachmanniano; secondo Barbi infatti ogni caso era un caso a
parte e bisognava quindi risolvere il problema critico in base al testo che si ha davanti ed in base alle sue
problematiche.
Possiamo giungere alla conclusione che non ci sono metodi di critica testuale universalmente buoni a tutti gli
usi, ma dipende dai casi. La critica testuale è un’attività creativa, ma non per questo si può inventare degli
elementi. Fondamentale è per la critica il criterio di probabilità.
6. Filologia dei testi a stampa
Il testo in tipografia
Siccome la riproduzione a stampa comporta una lavorazione di tipo industriale, riproduce un testo in
un elevato numero di copie. È la bibliografia che studia tutti gli aspetti presenti in un libro a stampa; negli
studi filologici anglosassoni ala filologia e la bibliografia hanno dato vita alla bibliografia testuale, questo
perché le tradizioni letterarie inglesi sono principalmente a stampa. Consiste nello studio dei libri stampati
nella loro materialità.
Il trasferimento del testo dal manoscritto alla stampa comporta determinate attività ormai mutate
con l’avanzare delle tecniche di riproduzione.
-stampatore: responsabile dell’intero processo produttivo;
-compositore: seguendo il testo manoscritto, sceglie i caratteri (piccoli pezzi di piombo con una lettera) e li
allinea in un attrezzo (compositoio), fino a formare la pagina da stampare. Una volta completata la pagina, si
blocca in una gabbia che costituisce la forma di stampa;
-correttore-revisore;
-torcoliere;
Queste procedure non cambieranno fino all’Ottocento, quando saranno introdotte macchine da stampa.
Il problema principale era che una volta composto il foglio, bisognava disfare tutto e iniziare da capo; infatti,
nei primi secoli della stampa, si stampavano libri solo se commissionati dall’acquirente.
La fascicolazione del libro a stampa ha maggiore regolarità: ad ogni fascicolo è attribuita una lettera
dell’alfabeto, le carte sono indicate con numeri progressivi e l’indicazione di recto e verso: a1r[1], a1v[2],
ecc… . La numerazione delle pagine si impone dal Cinquecento in poi. Il colophon aveva solitamente il
nome dello stampatore, luogo e data pubblicazione, a volte anche il registro del libro, che a sua volta aveva
la formula di collazione che descrive la marcatura dei fascicoli con il numero di carte per fascicolo.
Nella descrizione del libro si mettevano: trascrizione del frontespizio, colophon, formato, formula di
collazione e tipo di carattere. La prima edizione di un libro si chiama editio princeps.
I compositori nei primi secoli della stampa hanno una formazione meno letteraria rispetto agli amanuensi,
sapevano leggere latino e a volte greco, ma il loro lavoro era meccanico rispetto a chi lavorava con la penna.
Anche i compositori però potevano introdurre modifiche nei testi, anche se involontarie, e c’era sempre la
correzione delle bozze, che teneva tutto sotto controllo.
Gli errori nella stampa sono quelli che non sono stati notati durante la correzione delle bozze. Una grande
differenza tra stampa e manoscritto sta nella velocità di esecuzione: l’amanuense scrive molto più in
frettadella composizione tipografica ed anche la composizione, parola per parola, è meno veloce della
memorizzazione dell’amanuense. Questo ritornare più volte sulla parola porta anche a degli errori come il
saut du même au même. Nella stampa quindi vediamo degli errori specifici.
Nelle tipografie del ‘400-‘500 la disponibilità di caratteri era scarsa: per questo si avviava la tiratura anche
prima di aver corretto le bozze; quando si vedeva un errore, si fermava la tiratura e si correggeva, per poi
proseguire. I fogli ormai stampati però venivano comunque utilizzati. Questo fa sì che dalla tipografia
uscivano fogli di stampa con delle varianti (varianti di stato): non tutte le copie erano identiche tra loro.
È dall’analisi delle varianti di stato che si dovrebbe arrivare al testo che doveva essere stampato inizialmente
(esemplare ideale) ed al suo interno troviamo lezioni non autentiche o errori non intercettati.
Si prende coscienza, verso la fine del ‘400, che con la stampa si stavano cambiando anche i mezzi
di comunicazione: nasce l’esigenza/principio dell’uniformità e della regolarità, dato che il libro era divenuto
un’esigenza diffusa. Allo stesso modo, nasce il bisogno di una lingua il più possibile standardizzata,
che porta all’abbandono progressivo delle koiné regionali ed il formarsi di una tendenza unitaria.
Per questo nasce la figura professionale del correttore editoriale, che si divide in:
-correttore filologo: le scelte editoriali rispettano le posizioni retorico-grammaticali;
-mestierante: pratica priva di coerenza teorica e tendente a soluzioni semplicistiche;
Entrambe le figure hanno degli obiettivi comuni: l’abbandono delle forme linguistiche troppo marcate
regionalmente, semplificazione della sintassi, chiarificazione di passi non compresi. Dopo la pubblicazione
delle Prose della volgar lingua di Bembo si presero a modello i grandi trecentisti toscani. Figure di
correttori importanti possono essere: Giuseppe Betussi, Francesco Sansovino, ecc… .
Alcuni autori lavorarono sulla normalizzazione del testo per la stampa, come l’attività di Giunti a Firenze, che
tentava di dare alle opere il loro aspetto originale e quindi scrisse la Giuntina delle rime antiche nel 1527 con
i testi dei poeti toscani antichi.
Riflessi filologici
Le trasmissioni di testi a stampa sono tendenzialmente lineari: infatti, se il testo era già stato stampato, il
tipografo non usava come base un altro manoscritto, bensì un testo già stampato. Questo criterio è valido
anche se un l’autore intende revisionare il testo già pubblicato.
Se sono apportate modifiche dall’originale manoscritto alla princeps però difficilmente ce ne rendiamo
conto; nel caso si abbiano delle stampe indipendenti, senza avere nessuna informazione interna o esterna, il
lavoro filologico è più difficile.
Quando nelle stampe avviene una correzione, si tratterà quasi sempre di una banalizzazione; ad esempio, se
l’amanuense non capiva quello che era scritto sul manoscritto, poteva ricopiare il testo così com’era,
ma questo non poteva essere fatto con la stampa.
La Trappolaria di Giovan Battista della Porta è una commedia che ha tre stampe significative:
-1596: bergamasca B;
-1597: veneziana V;
-1615: ferrarese F;
Il testo V per quanto riguarda lingua e stile appartiene di più agli usi dellaportiani, sono attuati però dei tagli
di censura; anche F condivide la censura, anche in altre parti. Il testo B è integro dove F e V sono censurati,
ma sembra rimaneggiato sul piano linguistico. Anche F ha dei maneggiamenti su piano linguistico. L’editore
della Trappolaria da maggiore autorità a V, che è compensata attraverso le parti di B.della composizione
tipografica ed anche la composizione, parola per parola, è meno veloce della memorizzazione
dell’amanuense. Questo ritornare più volte sulla parola porta anche a degli errori come il saut du même au
même. Nella stampa quindi vediamo degli errori specifici.
Nelle tipografie del ‘400-‘500 la disponibilità di caratteri era scarsa: per questo si avviava la tiratura anche
prima di aver corretto le bozze; quando si vedeva un errore, si fermava la tiratura e si correggeva, per poi
proseguire. I fogli ormai stampati però venivano comunque utilizzati. Questo fa sì che dalla tipografia
uscivano fogli di stampa con delle varianti (varianti di stato): non tutte le copie erano identiche tra loro.
È dall’analisi delle varianti di stato che si dovrebbe arrivare al testo che doveva essere stampato inizialmente
(esemplare ideale) ed al suo interno troviamo lezioni non autentiche o errori non intercettati.
Si prende coscienza, verso la fine del ‘400, che con la stampa si stavano cambiando anche i mezzi
di comunicazione: nasce l’esigenza/principio dell’uniformità e della regolarità, dato che il libro era divenuto
un’esigenza diffusa. Allo stesso modo, nasce il bisogno di una lingua il più possibile standardizzata,
che porta all’abbandono progressivo delle koiné regionali ed il formarsi di una tendenza unitaria.
Per questo nasce la figura professionale del correttore editoriale, che si divide in:
-correttore filologo: le scelte editoriali rispettano le posizioni retorico-grammaticali;
-mestierante: pratica priva di coerenza teorica e tendente a soluzioni semplicistiche;
Entrambe le figure hanno degli obiettivi comuni: l’abbandono delle forme linguistiche troppo marcate
regionalmente, semplificazione della sintassi, chiarificazione di passi non compresi. Dopo la pubblicazione
delle Prose della volgar lingua di Bembo si presero a modello i grandi trecentisti toscani. Figure di
correttori importanti possono essere: Giuseppe Betussi, Francesco Sansovino, ecc… . Alcuni autori
lavorarono sulla normalizzazione del testo per la stampa, come l’attività di Giunti a Firenze, che tentava di
dare alle opere il loro aspetto originale e quindi scrisse la Giuntina delle rime antiche nel 1527 con i testi dei
poeti toscani antichi.
Riflessi filologici
Le trasmissioni di testi a stampa sono tendenzialmente lineari: infatti, se il testo era già stato stampato, il
tipografo non usava come base un altro manoscritto, bensì un testo già stampato. Questo criterio è valido
anche se un l’autore intende revisionare il testo già pubblicato.
Se sono apportate modifiche dall’originale manoscritto alla princeps però difficilmente ce ne rendiamo
conto; nel caso si abbiano delle stampe indipendenti, senza avere nessuna informazione interna o esterna, il
lavoro filologico è più difficile.
Quando nelle stampe avviene una correzione, si tratterà quasi sempre di una banalizzazione; ad esempio, se
l’amanuense non capiva quello che era scritto sul manoscritto, poteva ricopiare il testo così com’era,
ma questo non poteva essere fatto con la stampa.
La Trappolaria di Giovan Battista della Porta è una commedia che ha tre stampe significative:
-1596: bergamasca B;
-1597: veneziana V;
-1615: ferrarese F;
Il testo V per quanto riguarda lingua e stile appartiene di più agli usi dellaportiani, sono attuati però dei tagli
di censura; anche F condivide la censura, anche in altre parti. Il testo B è integro dove F e V sono censurati,
ma sembra rimaneggiato sul piano linguistico. Anche F ha dei maneggiamenti su piano linguistico. L’editore
della Trappolaria da maggiore autorità a V, che è compensata attraverso le parti di B.
Per quanto riguarda le tradizioni miste: la Mandragola di Machiavelli giunge a noi attraverso un manoscritto
fiorentino (Redi 129 Bibl. Medicea Laurenziana di Firenze= R) del 1519, assieme a delle stampe
cinquecentine, la più antica ha sul frontespizio un centauro che suona la lira ed il commento Commedia di
Callimaco e di Lucrezia. Questa stampa è detta del Centauro (=C) ed ha delle caratteristiche di un’edizione di
bassa qualità. Tutte le altre stampe hanno una filiazione estranea rispetto al manoscritto, ma R e C hanno
errori comuni e quindi possono essere collegate ad un archetipo. Il testo C è quindi una ripulitura
conseguente del passaggio in tipografia.
Penultima battuta della seconda scena del primo atto, Nicia chiede a Ligurio di chiedere a dei medici:
-R, babuassi: babbuini, sciocchi, scemi;
-C, babuassi: sostituita con maestri;
C’è un appiattimento di senso.
L’Orlando furioso del 1532
-Prima edizione: 1516, stampata a Ferrara in 40 canti presso Giovanni Mazzocco;
-Seconda edizione: 1521, sempre a Ferrara, dopo una revisione linguistica attuata da Giovanni Battista
della Pigna;
Dal 1524 inizia a circolare l’opera senza autorizzazione (non esisteva una legislazione sul diritto d’autore); nel
1525 Bembo pubblica le Prose della volgare lingua, che indicava come modelli letterari il Canzoniere del
Petrarca e il Decameron di Boccaccio: Ariosto si vede diviso tra una lingua toscana e la lingua padana di koiné.
L’insoddisfazione perenne e questi avvenimenti portarono Ariosto a tornare sulla sua opera:
-Terza edizione: 1528, chiede al doge di Venezia il permesso di riscrivere la sua opera, che porta a
compimento del 1532 presso lo stampatore ferrarese Francesco de’ Rossi. Il testo aveva sei canti in più;
Dell’ultima edizione del Furioso ne conosciamo 24 esemplari (5 stampati su pergamena, 16 su carta, 3 su
carta grande). I fogli utilizzati sono 62 e le forme 124. Ogni fascicolo ha 8 carte.
La filigrana è il marchio di fabbrica della cartiera da cui è uscito il foglio e consiste nel disegno di una figura
araldica o di un altro soggetto ed è sempre collocata al centro della metà del foglio, mentre dalla
parte opposta si trova una contromarca; il disegno che ritrae la filigrana può dare informazioni sul luogo e
data di produzione della carta/libro.
È grazie alla filigrana che si può intuire il formato del libro.
Conor Fahy ha riscontrato la presenza di più di 250 varianti di stato distribuite su più di due terzi dell’opera,
ciò ci dice che le correzioni continuarono anche a tiratura avviata.
Nella costituzione di ogni esemplare, i fogli non venivano assemblati secondo l’ordine con cui erano usciti dal
torchio, quindi le varianti si distribuiscono in maniera del tutto casuale. L’unità filologica da prendere aesame
è invece data dalle pagine stampate da ciascuna forma.
L’edizione del 1532 giunse inizialmente alla tipografia di Francesco de’ Rossi come correzione a penna su
un’edizione del 1521; le correzioni erano molte, sia stilistiche che linguistiche e c’era un’alta possibilità di
fraintendere il testo. Dopo aver creato la bozza, si sottoponeva all’esame dell’autore, che continuava
a correggere ed intervenire. Dopodiché si avviava la tiratura e se l’autore interveniva ulteriormente, si
fermava la tiratura, si correggeva e si riprendeva. Per questo si hanno molte varianti di stato dell’edizione del
Furioso del ’32. Del fascicolo A abbiamo però due versioni, una successiva all’altra:
-cancellans: foglio sostituito;
-cancellandum: foglio da sostituire;
La versione dell’Orlando Furioso che noi leggiamo oggi è quella stabilita da Debenetti e poi aggiornata da
Segre ed hanno tutte le varianti di stato che corrispondono alla volontà ultima dell’autore. Debenetti lavora
su una versione in carta grande; l’impressione dei fogli su carta grande veniva fatta alla fine della tiratura di
ogni forma, quando l’assetto del testo era definitivo, quindi nella forma corretta.
Le edizioni d’autore della Locandiera
Le edizioni settecentesche delle commedie di Goldoni sono molte e articolate; quelle supervisionate
dall’autore sono:
-Bettinelli;
-Pitteri;
-fiorentina Paperini (1753-1754);
-veneziana Pasquali (1761-1780);
Troviamo il testo della Locandiera (prima rappresentazione 1753) nel secondo tomo dell’edizione Paperini e
successivamente nel Pasquali, anche se risulta modificato.
Seguendo quindi l’ultima volontà dell’autore, dovremmo dire che è rappresentata dall’edizione Pasquali,
però, se prendiamo in esame un’edizione intermedia di Fantino e Olzati (1756) si vedono delle varianti di
sostanza e di forma, le stesse che si vedono anche nella Pasquali. È probabile che quest’ultima edizione sia
stata usata come base per la Pasquali e che Goldoni, lavorando su questa, non si sia accorto degli errori e
delle manchevolezze. Nonostante questo non possiamo reputare la Paperini come ultima volontà dell’autore,
perché non sappiamo se Goldoni abbia voluto in realtà mantenere queste lezioni.
In questo caso, possiamo citare il metodo proposto da Walter W. Geg per i testi di Shakespeare, delle quali
non abbiamo manoscritti; nel 1632 viene realizzata un’edizione complessiva in-folio (First Folio) e fu fattasulla
base degli in-quarto precedenti. È probabile che questo lavoro abbia interessato solo le lezioni
sostanziali (le “parole” del testo) e non quelle accidentali (tessuto grafico, maiuscole, minuscole, ecc…).
Greg proponeva:
-in-quarto per gli accidentali, perché più vicini alla volontà d’autore, prenderli come testo base, copy-text;
-in-folio per i sostanziali, che si dovevano trasferire sul copy text;
La quarantana dei Promessi Sposi
Nei primi mesi del 1821 Manzoni era indeciso tra:
-romanzo che narrasse una storia milanese del ‘600;
-terza tragedia Spartaco dopo Il conte di Carmagnola e Adelchi;
Già nell’autunno del 1823 la stesura del romanzo era completa. L’autografo, senza titolo e diviso in quattro
parti, aveva il testo solo nella parte destra, mentre nella sinistra c’era lo spazio per correzioni e revisioni.
Questa redazione fu intitolata Fermo e Lucia. Alla fine dello stesso anno avvia una riscrittura nella quale
attua molte modifiche strutturali, tra cui attuerà il tentativo di scrivere in toscano vivo ottocentesco. Questo
lavoro durò tre anni e finì a luglio 1827; il romanzo fu pubblicato dall’editore milanese Vincenzo Ferrario e fu
intitolata “I promessi sposi”, che costituiscono la ventisettana.
Tra il 1838 ed il 1840 però riprende in mano la lingua del romanzo, per renderla ancora più toscana e lavorò
a penna su un’edizione della ventisettana. Quest’ultima edizione fu stampata a Milano da Guglielmini
e Redaelli, come dispende quindicinali dal 1840 al 1842; l’edizione prenderà il nome di quarantana.
Nel 1840 per stampare si usava già un nuovo metodo: torchio in ghisa, Stanhope, che era capace di
imprimere aree di stampa più grandi e quindi velocizzare i ritmi di produzione. Per evitare che il
libro venisse contraffatto, aveva ordinato che vi fossero illustrazioni xilografiche, incise da Luigi Sacchi
e disegnate da Francesco Gonin: si tratta di un’edizione illustrata. Questa nuova edizione è fatta con il metodo
della sottoscrizione e a dispense, per invogliare i lettori a finanziare quella stampa che si realizzava passo per
passo. Si decise di stamparne 10.000 contro i soli 4.600 e così almeno 5.000 copie restarono invendute.
Il formato era in-quarto ed i fascicoli 108.
Manzoni firmò un contratto che gli permettesse di avere un’ampia facoltà nella correzione delle bozze ed
infatti abbiamo molti materiali (bozze, prove di stampa per disegni, ecc…) che si trovano nel “Tesoro
manzoniano” della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano. Per la continua correzione del testo, abbiamo
oggi molte varianti di stato.
Nel 1934 Michele Barbi vi dedicò un saggio, nel quale indica delle linee guida, secondo cui è necessario
paragonare foglio per foglio, fino a giungere a quello tirato per ultimo e quindi corrispondente all’ultima
volontà dell’autore. Barbi ipotizza il concetto di “esemplare ideale”.
Oggi leggiamo il romanzo del 1954 di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, allestito sul fondamento di Barbi;
infatti i due editori lavorano molto sui materiali delle bozze.
7. Filologia d’autore
L’autore e le sue carte
Il lavoro del critico sta nella ricerca della volontà d’autore. Se la volontà d’autore è nota perché scritta in
documenti autografi di questo, allora il compito del critico è un altro: mettere in ordine e documentare quelle
carte, per mostrare il processo evolutivo attraverso cui il testo giunge alla sua forma definitiva.
Si tratta sempre di un’edizione critica, ma la parte fondamentale sarà l’apparato, che documenta le varie fasi,
e non il testo.
La filologia d’autore è comune nelle filologie moderne, in quanto il materiale autografo aumenta quanto più
gli autori sono vicini alle epoche moderne. Lo stesso apparato critico cambia in base alla natura dei materiali
di cui si dispone, anche se il fine sempre quello di rappresentare i dati con il massimo di chiarezza
e leggibilità.
La critica degli scartafacci: questo termine è stato creato da Gianfranco Contini ed esprime le finalità della
filologia d’autore; ovvero riordinare le carte, ricostruire il percorso genetico di un’opera, che ci permette di
entrare nella “mente” dello scrittore ed avere un contatto stretto con l’opera.
Da qui ne deriva un esercizio critico detto critica delle varianti.
Il libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione:
-ricca documentazione d’autore: la prima stesura è stata fatta nel 1513-14 e si trova presso l’Archivio di Stato
di Mantova tra gli Abbozzi di casa Castiglione (A);
-stesura di idrografo, Vaticano lat. 8204 (B);
-Vaticano lat. 8205, che ha molti interventi d’autore (C) ed è considerato il portatore della prima redazione
dell’opera;
-tra 1518-20 nasce la seconda redazione del Cortegiano e si trova nel Vaticano lat. 8206 (D);
In D troviamo il lavoro di revisione realizzato in C, ma confluiscono anche osservazioni postegli da amici
letterari, che avevano già letto il testo.
Nel maggio del 1524 viene portato a termine il manoscritto del Cortegiano, Laurenziano Ashburniano 409 (L)
che ha molte varianti rispetto a D e che sarà portato dall’autore a Madrid. È il manoscritto L che viene
mandato a Venezia per essere stampato; il correttore tipografo Giovan Francesco Valier normalizzò la lingua.
Essendo L il manoscritto stampato riusciamo a vedere sia le correzioni dell’autore a Madrid sia quelle del
correttore veneziano. Grazie alla mole di carte, è possibile esercitare la critica degli scartafacci.
Il Canzoniere di Petrarca
I manoscritti autografi che conserviamo di Petrarca sono due:
-Vaticano latino 3195, che ha la redazione definitiva del Canzoniere;
-Vaticano latino 3196, ovvero il “Codice degli abbozzi”. È in realtà una rilegatura di età rinascimentale di
minute del Petrarca;
Si trovano entrambi alla biblioteca Apostolica Vaticana. Nel 3196 troviamo delle redazioni precedenti
al 3195 e questo ci rende possibile seguire un iter compositivo del Canzoniere, anche grazie ad altri
manoscritti. Già nel XV secolo veniva chiamato Canzoniere, anche se Petrarca voleva dargli il titolo
di Rerum vulgarium fragmenta (frammenti di cose volgari, proprio per distanziarsi dalle altre sue opere
in latino). Le sue poesie erano chiamate dall’autore nugae, cose di poco conto.
Nel Canzoniere troviamo 366 componimenti (proemiale più 365) ed è diviso in due parti:
-prima parte: 262 poesie;
-seconda parte: 103 poesie;
Prende avvio il giorno dell’innamoramento del poeta (6 aprile 1327) e aggiungendo le 262 poesie si arriva al
25 dicembre, il giorno della nascita di Cristo. gli ultimi 103 componimenti portano al giorno di partenza.
L’opera è meticolosamente strutturata e dobbiamo dire che nel significato dell’opera conta anche la struttura
ed è anche con la ricostruzione delle tappe dell’opera che si giunge al suo assetto definitivo.
Il Vaticano latino 3195 è un manoscritto pergamenaceo di 72 carte più 2 iniziali; i componimenti 1-190 e 264-
318 furono ricopiati da Giovanni Malpaghini, copista del poeta, sotto il suo controllo. I restanti dal
Petrarca. Si tratta di un manoscritto in parte autografo ed in parte idiografo.
Alla morte di Petrarca (luglio 1374) i suoi libri furono trasferiti nella biblioteca di Francesco da Carrara,
alcuni rimasero dal suo genero Francescuolo da Brossano; a lui rimasero principalmente materiali autografi
che furono affidati alla gestione di Francescuolo a Lombardo della Seta, ultimo collaboratore di Petrarca.
Quando quest’ultimo morì iniziò la dispersione di questo materiale: il Vaticano latino 3195 passò ad un suo
erede, il padovano Daniele Santasofia e rimase a Padova per tutto il XV secolo.
Intanto, Bernardo Bembo, padre di Pietro, aveva creato una grande collezione di autografi del Petrarca ed in
futuro sarà proprio il figlio ad aggiungere alla collezione le carte che costituiranno il Vaticano latino 3196.
Alla sua morte, la dispersione delle carte petrarchesche sarà ancora più grave, tanto che Gianvincenzo
Pinelli, nella lista delle cose petrarchesche, riscontrerà che si erano trovati fogli di rime anche in mano a
pizzicaruoli.
Quando nel 1539 Bembo ricevette la nomina a cardinale, si trasferisce a Roma, e continua intanto a cercare
il manoscritto petrarchesco. Nel 1544 Girolamo Quirini gli dà la notizia di un suo ritrovamento e lo avrebbe
spedito a Roma. Nel 1547 Bembo muore a Roma e lascia erede di tutti i suoi averi il figlio Torquato, che non
era interessato ai libri; fu così che tra il 1574 ed il 1584 Fulvio Orsini acquista i manoscritti più pregiati della
biblioteca dei Bembo e questo portò alla proposta di papa Gregorio XIII, che aveva concesso a Fulvio una
rendita in denaro con la promessa di lasciare tutti i suoi libri alla Biblioteca Vaticana alla sua morte. Nel
maggio 1600 muore l’Orsini ed i manoscritti verranno trasferiti nella Biblioteca Vaticana, dove si trovano
tutt’ora.
-Almo sol, quella fronde ch’io sola amo: è il sonetto 188 del Canzoniere ed è descritto in due distinte
redazioni nel Vat. lat. 3196.
La seconda redazione è ricopiata da Malpaghini senza alcuna modifica (dal Vat. lat. 3196 al 3195). Cesare
Segre ha compiuto uno studio su questo componimento: c’è un’equivalenza tra l’amore tra Dafne e Apollo e
Francesco e Laura, che rende il loro amore ancor più unico, sublime. Anche le fronde hanno legami bivalenti
tra Apollo e Petrarca.
Le due coppie viste costituiscono il nucleo dell’espressione poetica, che nella I redazione non è così evidente
come nella II.
È possibile che Petrarca abbia pensato ad un libro di liriche come romanzo autobiografico già nel 1350 ed ha
come modello la Vita Nova di Dante, ma inizierà a mettere insieme le sue rime solo nel 1358. Il manoscritto
è dedicato al signore di Parma Azzo da Correggio ed in poco più di 15 anni si arriverà all’assetto definitivo del
libro, che si pensa avesse i componimenti 1-142 e 264-292 (poesie che rimasero stabili negli anni).
Ad aprile 1363 Boccaccio fece visita a Petrarca a Venezia ed in quei mesi, Boccaccio ebbe occasione di
vedere e copiare i versi del Canzoniere, tanto che tornato a Firenze ne redasse uno di sua mano
che conteneva: biografia di Dante, Vita Nova, Donna me prega di Cavalcanti, un suo carme, quindici canzoni
di Dante, le poesie di Petrarca e la Commedia. Venne poi diviso in due:
-prima parte: Chigiano L V 176;
-Commedia: Chigiano L VI 213;
I componimenti che ci sono del Canzoniere formano la redazione Chigi del Canzoniere, la prima attestata.
Nel 1366 inizia la storia del Vaticano Latino 3195, scritto dall’amanuense ravennate Giovanni Malpaghini, che
nel 1367 abbandonò il lavoro da copista, dopo aver concluso l’impegno affidatogli da Petrarca, che non si
affidò più a nessun altro copista e finì il lavoro da solo. Le redazioni attestate sono:
-Redazione Correggio;
-Redazione Chigi;
-Redazione di Giovanni;
-Redazione Malatesta, il manoscritto fu donato al signore Pandolfo Malatesta;
-Redazione Queriniana, un’altra copia è conservata alla Biblioteca Queriniana di Brescia;
-Redazione Vaticana;
Il poeta ebbe un ripensamento riguardo l’ordinamento delle poesie nell’ultimo anno della sua vita, ma ormai
i testi erano già stati scritti.
I Canti di Leopardi
Ogni poesia che troviamo nel libro dei Canti ha una storia e di alcune conserviamo sia materiali manoscritti
che redazioni a stampa. La stessa raccolta dei Canti ha una sua storia indipendente; i Canti nascono nel 1831.
Grazie alle molte testimonianze che abbiamo, possiamo seguire il processo di elaborazione che porterà alla
forma definitiva. La maggior parte degli autografi sono conservati nella Biblioteca di Palazzo Leopardi a
Recanati (Ar) e nel comune di Visto (Av); gli altri si trovano presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (An).
Leopardi annota sui margini dei fogli delle varianti alternative (Alla primavera: ripari/ristori). Il fare poesia di
Leopardi è da filologo, perché accompagna il testo con degli appunti di commento e le sue varianti sono
solitamente progressive, in quanto non torna indietro su lezioni già scartate. Altri tipi di annotazione
riguardano le scelte lessicali e sintattiche.
Sarà a partire dagli Idilli che Leopardi inizierà a lavorare da poeta e non più da filologo.
La seconda redazione è ricopiata da Malpaghini senza alcuna modifica (dal Vat. lat. 3196 al 3195). Cesare
Segre ha compiuto uno studio su questo componimento: c’è un’equivalenza tra l’amore tra Dafne e Apollo e
Francesco e Laura, che rende il loro amore ancor più unico, sublime. Anche le fronde hanno legami bivalenti
tra Apollo e Petrarca.
Le due coppie viste costituiscono il nucleo dell’espressione poetica, che nella I redazione non è così evidente
come nella II.
È possibile che Petrarca abbia pensato ad un libro di liriche come romanzo autobiografico già nel 1350 ed ha
come modello la Vita Nova di Dante, ma inizierà a mettere insieme le sue rime solo nel 1358. Il manoscritto
è dedicato al signore di Parma Azzo da Correggio ed in poco più di 15 anni si arriverà all’assetto definitivo del
libro, che si pensa avesse i componimenti 1-142 e 264-292 (poesie che rimasero stabili negli anni).
Ad aprile 1363 Boccaccio fece visita a Petrarca a Venezia ed in quei mesi, Boccaccio ebbe occasione di
vedere e copiare i versi del Canzoniere, tanto che tornato a Firenze ne redasse uno di sua mano
che conteneva: biografia di Dante, Vita Nova, Donna me prega di Cavalcanti, un suo carme, quindici canzoni
di Dante, le poesie di Petrarca e la Commedia. Venne poi diviso in due:
-prima parte: Chigiano L V 176;
-Commedia: Chigiano L VI 213;
I componimenti che ci sono del Canzoniere formano la redazione Chigi del Canzoniere, la prima attestata.
Nel 1366 inizia la storia del Vaticano Latino 3195, scritto dall’amanuense ravennate Giovanni Malpaghini, che
nel 1367 abbandonò il lavoro da copista, dopo aver concluso l’impegno affidatogli da Petrarca, che non si
affidò più a nessun altro copista e finì il lavoro da solo. Le redazioni attestate sono:
-Redazione Correggio;
-Redazione Chigi;
-Redazione di Giovanni;
-Redazione Malatesta, il manoscritto fu donato al signore Pandolfo Malatesta;
-Redazione Queriniana, un’altra copia è conservata alla Biblioteca Queriniana di Brescia;
-Redazione Vaticana;
Il poeta ebbe un ripensamento riguardo l’ordinamento delle poesie nell’ultimo anno della sua vita, ma ormai
i testi erano già stati scritti.
Nel 1819 lo stampatore romano Bourlié pubblica le prime due canzoni di Leopardi (Sull’Italia, Sul
monumento di Dante che si prepara a Firenze). Nel 1820 compone Ad Angelo Mai, che esce a Bologna.
Gli anni successivi sono molto proficui per Leopardi e le nuove canzoni sono uscite a Bologna nel 1824
dall’editore Nobili col titolo Canzoni del conte Giacomo Leopardi (B24). La disposizione delle canzoni
segue l’ordine cronologico della composizione, che ha come elemento unificante il metro.
Intanto, aveva composto anche gli Idilli, che saranno pubblicati nel Nuovo Ricoglitore e che uscirà poi nel
1826 in una pubblicazione bolognese alla Stamperia delle Muse (Versi del Conte Giacomo Leopardi- B26).
Quest’ultima è una raccolta eterogenea. Dopo B24 segue un periodo di silenzio della poesia leopardiana,
che riprende nel 1828 con un componimento dal titolo Il Risorgimento, che insieme all’Epistola al conte
Carlo Pepoli del ’26, forma una metapoesia.
Nel 1830 si prepara la stampa per i Canti, presso l’editore Piatti di Firenze, dove usciranno nel 1831 (F), che
vede la dislocazione dei canti rispetto ad A24, A26 per le quali non possiamo darci una spiegazione.
Nel 1833 Leopardi si trasferisce a Napoli, dove matura l’idea di un’edizione complessiva delle sue opere in
sei volumi (prima Canti, seconda e terza Operette morali). Nel 1835 firma un contratto con l’editore Saverio
Starita, dal quale uscirà il progetto editoriale dei Canti (N) e il primo delle Operette. Questo fallimento
spinge Leopardi a creare un’edizione complessiva delle sue opere a Parigi; Leopardi continua a lavorare sui
una copia dei Canti (N), che diventa la Starita corretta (Nc).
Quando il poeta muore nel 1837, affida Nc, lo Zibaldone e le carte leopardiano all’amico napoletano Antonio
Ranieri, che utilizzerà per l’edizione Le Monnier dei Canti del 1845 e che rispecchierebbe l’estrema volontà
dell’autore.
Prima sezione: canzoni, con strutture argomentativi complesse e di argomento pubblico.
Ultimo canto di Saffo: l’ultima canzone della raccolta, che serve a introdurre la seconda sezione della
composizione, quella del momento privato e sentimentale degli Idilli.
Seconda sezione: è suddivisibile in tre parti
- Il risorgimento: ricordanza (pessimismo cosmico);
-Ars amandi: (amore e morte);
-Sepolcrali: meditazione sulla morte e sulla natura, poesia pubblica;
1. La tradizione della Commedia
Di Dante non abbiamo nessuno scritto originale e questo rende difficile la ricostruzione di tempi di
composizione della Commedia.
La stesura, secondi alcuni, è iniziata nel 1304, ma secondo altri è intorno al 1306-1307, in quanto
nell’Inferno non si citano fatti accaduti dopo il 1309 e nel Purgatorio, fatti accaduti dopo il 1313; per quanto
riguarda il Paradiso, fu iniziato intorno al 1316 e finito poco prima la morte dell’autore.
Non abbiamo notizie certe sulla modalità di diffusione delle cantiche, anche se un’ipotesi probabile è quella
che i canti siano stati messi in circolazione per blocchi.
L’attestazione più antica è quella dei versi dell’Inferno e risale al 1317: sono riportati tra i Memoriali
bolognesi, registri del comune di Bologna su cui si trascrivevano atti pubblici o privati e sui quali venivano
copiati versi negli spazi bianchi.
Nel Trattatello in laude di Dante, composto da Boccaccio nel 1351-1355, viene raccontato un episodio
successivo alla morte di Dante e va a formare la leggenda dantesca (pag. 142).
I più antichi manoscritti sono posteriori di minimo un decennio dalla morte di Dante e vi vediamo
le caratteristiche che saranno proprie dell’opera:
-moltissimi esemplari;
-compattezza strutturale del testo (terzina);
-diffusione in tutti gli strati sociali e culturali;
Il testo viene diffuso inizialmente in area emiliano-romagnola, anche se il numero di copie è molto alto a
Firenze già dalla prima metà del secolo. Questi fattori favoriscono un contatto orizzontale tra codici,
ma rendono anche possibile la contaminazione del testo.
Iacopo, figlio di Dante, già nel 1322 un’attività di commento sull’opera, seguito poi da Graziolo
Bambagliuoli, il commento di Iacopo della Lana e quello sulla prima cantica di Guido da Pisa. Questi
commenti però riportano testi che non corrispondono e creano altra confusione.
I manoscritti più antichi formeranno l’antica vulgata e quelli a noi pervenuti sono:
•Area toscana:
-Triv = Trivulziano 1080;
-Gv = ms. C 5
-Ash = Ashburnhamiano 828;
-Ga = Gaddiano 90;
-Ham = Hamilton 203;
-Co = ms. 88;
-Cha = ms. 597;
-Pr = Italiano 539;
-Parm = Parmense 3285;
-Vat = Vaticano latino 3199;
•Area settentrionale:
-La = ms. 190;
-Rb = ms. 1005;
-Urb = Urbinate lat. 366;
-Mad = ms. 10186;
•Testimonianze più tarde:
-Marr = edizione aldina;
-LauSC = Laurenziano Sante Croce XXVI;
Il Vaticano latino 3199 è molto importante per la tradizione della Commedia, in quanto è il manoscritto copia
di una serie di codici danteschi che Boccaccio allestirà dopo il 1350; oggi se ne conservano tre:
-To = Toledano 104 6;
-Ri = Riccardiano 1035;
-Chig = Chigiano L VI 216;
Boccaccio quindi scriveva sulla base di una copia di servizio da cui era già derivato il Vaticano lat. 3199; il suo
comportamento non fu passivo, ma interveniva ampiamente sul testo per cercare di recuperare la lezione
che secondo lui era migliore. Padoan scrive infatti che come editore, Boccaccio non fu all’altezza dell’amico
Petrarca. Le sue edizioni, anche se sbagliate, sono importanti per la storia della tradizione della Commedia
ed i testi da lui creati formeranno la vulgata che rimarrà per più di cinque secoli.Fu Giovanni Numeister a
stampare nel 1472 la Commedia per la prima volta, a Foligno; poi la seguirono un’edizione veneziana ed una
mantovana. Il testo di queste edizioni non è fondato su manoscritti autorevoli.
A porsi il problema per la prima volta sarà Pietro Bembo: nella biblioteca del padre si trovava anche il ms.
Vaticano lat. 3199, dal quale Pietro trascrisse la copia (Vat. lat. 3197) e attuò revisioni e congetture.
Fu questa lezione, dal Cinquecento in poi, ad avere più autorevolezza.
Il titolo nasce nell’edizione del 1555 con Ludovico Dolce, che pone sul frontespizio del poema Divina
Commedia.
La moderna filologia dantesca
Inizialmente, i tentativi di ricostruire il testo della Commedia si affidavano solo sul gusto e senso dello stile
dei curatori.
-erudito veronese Bartolomeo Perazzini: mette insieme un gruppo di studiosi danteschi che si
proponevano di studiare il testo della Commedia con l’ausilio delle testimonianze manoscritte classificate per
famiglie e aree di provenienza. Privilegiano la lectio difficilor e nel 1775 esce Correctiones et
adnotationes in Dantis Comediam.
Anche Ugo Foscolo utilizzò quest’edizione per lavorare sulla Commedia.
-una vera svolta si ha con Karl Witte: che per primo notò l’impossibilità di definire un albero genealogico della
tradizione dantesca per la copiosità di contaminazioni;
-Edward Moore: collaziona in base ai loci critici: collazione, descrizione, localizzazione, riconoscimento
dell’impossibilita di giungere ad uno stemma, scelta della lectio difficilor;
Criterio dei loci critici: va applicato a tradizioni estese e che sarebbe impossibile collazionare integralmente,
in quanto i risultati sarebbero difficilmente gestibili. Quindi si limita la collazione ad un numero più ristretto
di luoghi del testo dove gli esiti sono più diversi, lavorando per poter stabilire le relazioni di parentela.
Nel 1888 viene fondata a Firenze la Società Dantesca Italiana, che fece tra le sue prime operazioni quella di
avviare una nuova edizione critica della Commedia.
La SDI ha creato: un’edizione del De vulgari eloquentia del 1896 di Pio Rajna ed una della Vita Nuova di
Michele Barbi nel 1907. Entrambe le edizioni presentano le prime applicazioni del metodo di Lachmann per
testi di un autore italiano.
Barbi, per quanto riguarda la Commedia, ha formulato un canone di 396 loci critici sui quali tenta di stabilire
la relazione tra i codici; il suo lavoro uscì nel 1921, pubblicato dalla Società Dantesca, che ne affidò una sintesi
a Giuseppe Vandelli. Si accorse che non poteva giungere ad una soluzione, quindi utilizzò Triv per toscanizzare
il testo e risolvere i dubbi critici singolarmente.
Mario Casella cerca una maggiore oggettività e cerca di applicare parzialmente il metodo di Lachmann; il suo
saggio critico uscì nel 1923.
Carlo Negroni, in un saggio Sul testo della Commedia, aveva ideato l’opportunità di ricostruire il testo del
poema basandosi solo su manoscritti anteriori al 1350, che rappresentano la loro prima circolazione. Questo
criterio sarà adottato da Petrocchi nella sua edizione critica della Commedia nel 1965: LaDivina Commedia
secondo l’antica vulgata. Quindi Petrocchi poneva come linea di confine il 1355, ovvero l’anno in cui nasce
l’antica vulgata sulla base degli scritti di Boccaccio. I manoscritti danteschi a questo modo diventavano solo
27 e quindi era possibile proseguire tramite Lachmann dai quali si dividevano due famiglie: alfa e
beta (toscana e settentrionale).
2. L’edizione dei testi non-finiti
Problemi generali
Il fine ultimo della ricostruzione testuale è quello di rappresentare nella maniera più fedele l’ultima volontà
dell’autore. È possibile che questa non venga mai definita dall’autore. Vittorio Alfieri pensa che il
manoscritto non è un libro e quindi non si può raggiungere l’ultima volontà dell’autore tramite un
lavoro che non sia stampato. Un testo può essere incompiuto su due piani:
-piano sintagmatico: il testo anche se incompiuto ha una sua organicità e continuità;
-piano paradigmatico: non si riesce a scorgere una precisa volontà d’autore;
È comunque impossibile pubblicare dei testi letterari che non presentano uno stato di elaborazione vicino
alla volontà di autore; l’unico modo in cui si possono stampare è sotto forma documentaria o tramite uno
studio di questa (farsi co-autori).
-esempio non finito su piano sintagmatico: pubblicazione a stampa a Venezia de L’innamoramento di
Orlando di Matteo Maria Boiardo, nel 1495; le Stanze della giostra di Angelo Poliziano, pubblicato per la sua
importanza come autore;
-esempio non finito su piano paradigmatico: non si riesce a vedere nemmeno il disegno generale
dell’opera;
Le Grazie di Foscolo
Le Grazie di Foscolo sono insiemi di testi stilisticamente unitari, che hanno una loro continuità; il progetto
dell’autore muta continuamente nella stesura del testo, ma non giunge mai ad un disegno compiuto.
Il nucleo più definito è quello delle Grazie fiorentine (1812-1814); le varianti non sempre sono migliorative,
ma recupera anche a distanza lezioni rifiutate in precedenza; per questo non è possibile rimettere in ordine
tutte le sue carte per via stilistica. Le scelte editoriali vedono due esigenze:
-ragioni della filologia: rispettano i documenti e tendono a lasciarli invariati;
-esigenza del lettore: vuole leggere i testi secondo modalità a lui consuete;
Francesco Saverio Orlandini pubblica nel 1848 il testo delle Grazie, ricomponendo i testi che aveva a
disposizione ed attraverso le sue intuizioni, anche compilando versi nuovi dove mancavano. Questo era il
modo di operare che descrisse:
-leggere tutti gli scritti di Foscolo;
-imparare a memoria i versi degli Inni e le loro varianti;
-distaccarsi dalle edizioni dei precedenti editori;
-non farsi tentare dalle altre varianti;
Nonostante la passione che Orlandini mise per costituire il testo delle Grazie, non si può valutare
come un’edizione filologica consona ai nostri tempi.
Giuseppe Chiarini farà tre edizioni delle Grazie, dal 1882 al 1904. Utilizza solo versi che ha e non ne altera la
loro posizione o struttura, esibendo una linea di sviluppo e mantenendo i caratteri dell’incompiutezza. Mario
Scotti, nel 1985, crea il volume Poesie e carmi: non vuole dare un’idea unitaria dell’opera, ma cerca di porre
sotto gli occhi del lettore le fasi del lavoro manoscritto di Foscolo. Ci da l’idea di una raccolta di testi che
fanno parte di un progetto incompiuto per un’opera che doveva intitolarsi Le Grazie.
Non cerca più l’idea dell’opera unitaria e cambia tipologia di edizione: ogni brano è considerato un testo a sé
in quanto i testi sono trattati come documenti; non c’è infatti continuità strutturale che sembra darci
una lettura di un testo letterario.
Il Giorno di Giuseppe Parini è un altro caso editoriale molto complesso, se non per il fatto che le prime due
parti (Mattino e Mezzogiorno) del poema sono state stampate nel 1763 e 1765, fissando una volontà
d’autore.
Francesco Reina fu un grande raccoglitore delle carte del Parini e nel 1801 fu editore del Giorno, ma
rimaneggiò le carte per dare un’unità al poema. Mazzoni fece lo stesso errore, fino a che Dante Isella non
interviene e crea un’edizione valida.
Lo Zibaldone di Leopardi
Lo Zibaldone è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli e consiste in 6 volumi rilegati in
pergamena che Leopardi aveva lasciato all’amico Antonio Ranieri. Inizialmente, queste carte erano molte ed
in condizioni ottime, ma alla morte del notaio, lui lasciò le carte alla Regia Biblioteca di Napoli con
la clausola che i manoscritti dovevano rimanere a due domestiche fino alla loro morte. Lo Stato Italiano però
rivendicò la presa sui manoscritti con un processo.
Lo Zibaldone ha 4.256 pagine con scritte molto fitte e a volte confuse, inoltre troviamo molte aggiunte al
testo inserite in un secondo momento al testo dall’autore, per questo non ha un’organizzazione sequenziale.
Questo perché Leopardi aveva scritto il testo a suo uso e non perché fosse pubblicato; si tratta di un unicum
nel suo genere, non ha altri esempi letterari, se non qualche analogia col diario. La sequenza degli argomenti
è delimitata dallo studio ed i ragionamenti leopardiani: lo Zibaldone ha all’interno tanti libri, ma rimane un
non-libro.
Per poter allestire un’edizione dello Zibaldone, bisogna avere un punto di mediazione tra:
-rispetto all’originale;
-riuscire a renderlo in forma di stampa anche se non sequenziale;
Emilio Peruzzi ha edito un’edizione dello Zibaldone in facsimile di 10 volumi, ma non si può valutare come
edizione filologica.
La miglior edizione dello Zibaldone è curata da Giuseppe Pacella: mantiene la fedeltà all’originale e media il
testo in modo che sia il più comprensibile al lettore: vitalizza la funzione dell’apparato, inserendo solo
informazioni utili; inoltre, utilizza anche i margini (indici).
3. Altre tipologie testuali
I testi folclorici
I testi di tradizione popolare hanno una tradizione primigenia, ma la circolazione orale accresce la mobilità.
Il testo orale si adatta al luogo/tempo in cui si trova, perdendo ed acquisendo elementi. I testi folclorici hanno
un alto indice di variabilità e sono tutti genuini, originali.
Ogni testo di questo tipo, nell’edizione filologica, è da prendere a sé e l’edizione scientifica di un
testo folclorico consiste nella pubblicazione di più attestazioni.
Negli studi filologici può essere interessante il rapporto di interscambio tra testi popolari e letteratura
d’autore, che può appropriarsene e riscriverla (Calvino- Fiabe italiane/ Boccaccio- novella di Griselda).
I cantari
Sono componimenti di contenuto narrativo in ottava rima, che venivano cantati/recitati da canterini
girovaghi, in particolare XIV e XV secolo. È una poesia performativa e la lunghezza dei testi si aggira
attorno alle 50 stanze.
I soggetti potevano essere fatti storici o leggendari, episodi mitologici, racconti cortesi, episodi evangelici o
agiografici. A Firenze, il più celebre autore di Cantari fu Antonio Pucci (metà ‘300). Si trovano su fonti
manoscritte, ma vengono riprodotti in grande quantità con la stampa.
Allo stesso modo dei testi folclorici, per i cantari è difficile riscoprire l’originale, in quanto sono trasmessi
oralmente e per questo soggetti ad un alto indice di variabilità. Ogni redazione ha valore autonomo, quindi
si editano in edizioni unitestimoniali.
La poesia per musica
Le forme poetiche dei primi secoli della nostra letteratura sono connesse alla musica (canzone, ballata,
sonetto), ma la poesia per musica è fatta da forme poetiche di genere che diedero vita a tradizioni musicali
variegate già nella seconda metà del ‘200.
Abbiamo sia codici musicali che codici che documentano solo i testi nelle tradizioni trecentesche.
-Rossiano 215;
-Mediceo Palatino 87 (codice Squarcialupi);
Questa è una poesia di matrice principalmente fiorentina (Soldanieri, Sacchetti, Rinuccini). Ogni attestazione
ha valore autonomo.
-I laudari: si chiamano così dai repertori manoscritti in laude, che usavano le confraternite di laudesi
(associazioni di laici che si riunivano per il canto in comune); la lauda è una poesia per musica di
argomento religioso sul metro della ballata. Questa pratica ha origine in Umbria nel XIII secolo e si
sviluppa nel XIV in Toscana, continuando fino al XVI. I principali laudari sono due: Laudario di Cortona e Banco
Rari 18. Le edizioni sui laudari si fanno in base alla spiritualità della confraternita che ne faceva uso;
-Il madrigale cinquecentesco: tra ‘500 e ‘600 cambia il rapporto tra poesia e musica. Il madrigale è un genere
polifonico vocale, che metteva in musica testi poetici di autori volgari considerati classici, ma anche
contemporanei;
-Il melodramma: il madrigale evolve poi nelle forme del teatro musicale. Nel dramma per musica, c’è la
creazione di un libretto che usa il musicista per la partitura musicale. Nel ‘700 il poeta musicale più
importante è Metastasio: proprio per questo l’italiano diventa un’idioma sovranazionale per la lingua della
musica. Con il melodramma ottocentesco cambia il rapporto tra parole e musica: si separano le figure del
librettista e musicista;
Le lettere
-I carteggi: sono raccolte di lettere private di un poeta, con risultato finale quasi sempre provvisorio.
Quando si pubblicano le lettere, il rispetto per l’originale deve essere assoluto;
-L’epistolario: si definisce un genere letterario che consiste nel mettere insieme da parte di un autore un
corpus di lettere realmente inviate e farne poi un libro. Questa tipologia testuale ha origine classica. Nel
Medioevo il genere epistolografo è riconducibile a Petrarca (forma in prosa e versi) e divenne un genere
specificatamente umanistico;
4. La filologia attributiva
Alla ricerca dell’autore
La filologia ha il compito di riconoscere la paternità di un testo, ciò diventa difficile quando un testo
è anonimo e le fonti lo attribuiscono a più autori. La paternità di un testo può essere desunta da
elementi esterni quali: attestazioni, documenti, lettere, ecc… . Un testo può anche contenere elementi
interni che suggeriscono con evidenza la paternità con un certo autore. L’attribuzione testo-autore deve
essere comunque congruente.
Le messe in circolazione di testi con false attribuzioni sono a volte intenzionali.
Ci sono Anonimi che resistono a qualsiasi tentativo di identificazione, mentre altri hanno una paternità
parziale come:
-Discorso sulla lingua;
-la Novella di Belfagor: Machiavelli manipola la novella di un autore sconosciuto;
Esistono anche autori conosciuti solo attraverso un nome o uno pseudonimo, di cui non conosciamo
l’identità; le questioni attributive sono affrontate solo in presenza di prove interne ed esterne, che non
sempre coincidono. Le prove interne hanno comunque più valore rispetto a quelle esterne.
La questione del Fiore
Il caso più importante di filologia attributiva riguarda la paternità del Fiore; è un poemetto di 232 sonetti del
XIV secolo e redatto in Francia, anche se da mano fiorentina. Il manoscritto del Fiore è legato al Roman de la
Rose. Il suo contenuto è una riduzione del Roman de la Rose ed il manoscritto che lo riporta deriva
dall’Ashburnhamiano 1234.
Castest nel 1881 attribuì il Fiore a paternità dantesca con due argomenti esterni:
-il nome dell’autore è Durante, quindi Dante;
-in un commento alla Commedia si attribuiscono i primi versi del Fiore a Dante;

Potrebbero piacerti anche