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Propedeutica

La filologia

Il termine filologia compare per la prima volta in Platone col significato di «amore del discorso», «amore
per il ragionamento e la discussione», più estensivamente «amore per la cultura».

La rivoluzione linguistica, estetica e antropologica del Novecento ci ha insegnato che il mondo fenomenico
non sarebbe che un oggetto per un soggetto conoscente e non esisterebbe se non per il soggetto
conoscente che lo «intenziona» nella sua coscienza.

Quel per è il ponte tra l’Io e il mondo, è l’insieme dei linguaggi, il «discorso del mondo»: il senso del mondo
è il nostro discorso del mondo e il «discorso del mondo» è possibile solo attraverso i linguaggi.

Tra tutti i linguaggi la LINGUA è il codice che veicola tutti i codici. Quindi, il «discorso del mondo» è possibile
innanzitutto attraverso una lingua.

Se, dunque, in principio è la parola (ossia la lingua), e se la lingua genera il testo, allora la mediazione tra
l’uomo e il mondo avviene tramite il TESTO. Tra tutti i testi il letterario è quello a più alta densità
comunicativa, risultato di un’alta elaborazione del codice.

Si può altresì affermare che soprattutto attraverso i linguaggi dell’arte un popolo effettui la transizione
modellizzante e simbolica dal piano della natura a quello della cultura (e che ogni cultura tenda a sua volta
a pensare e a descrivere se stessa in un certo modo, ossia a costruire un «automodello»).

Il rapporto dell’Io col mondo è mediato dai linguaggi ed è caratterizzato dall’interpretazione.

Qui si ritrova il fondamento epistemologico e la stessa ragion d’essere della FILOLOGIA, in quanto
ricostruzione e interpretazione dei TESTI, studio della loro tradizione. Il compito del filologo è stabilire la
verità del testo (esprimente cioè la volontà dell’autore) attraverso l’individuazione ed emendazione degli
errori legati alla sua trasmissione nel tempo e nello spazio. Verità del testo che può aiutare a comprendere
la verità delle cose.

Critica del testo e metodo ecdotico

La filologia è stata – a seconda dei tempi, dei luoghi e delle situazioni – variamente intesa e concepita sia
come insieme degli studi letterari ed eruditi sia come scienza che studia l’origine e la struttura di una lingua,
oppure come studio storico, oppure come complesso degli studi fondati sull’esame critico di fonti,
documenti e testimonianze al fine di fornire un’esatta interpretazione di vari fenomeni (storici, artistici,
filosofici, musicali ecc.). In senso lato è stata da taluni più estensivamente intesa come studio di un’intera
civiltà.

Col termine FILOLOGIA designeremo, stricto sensu, quella composita e variegata area disciplinare (o
multidisciplinare) che, mediante l’analisi linguistica e la critica del testo, si propone di RICOSTRUIRE e
INTERPRETARE, con metodo rigoroso e scientifico, i testi letterari scritti e la loro trasmissione nel tempo e
nello spazio.

La CRITICA DEL TESTO è l’esercizio stesso del metodo filologico ed ecdotico, pensato come insieme dei
mezzi che servono a ricostituire il testo originale attraverso l’individuazione ed emendazione di errori legati
alla riproduzione dei testi.

L’edizione critica

L’EDIZIONE CRITICA è la pubblicazione a stampa di un’opera letteraria presentata quale risultato di un


rigoroso lavoro di ricerca, raccolta e comparazione dei testimoni e delle fonti (manoscritte e a stampa), di
ricostruzione congetturale e induttiva del testo nella sua forma originaria (quando non è conservato alcun
originale) o di restituzione critica dell’originale (quando questo è conservato in una o più redazioni), grazie
alla scelta delle varianti interne al testo e intercorrenti tra testimoni, all’individuazione ed emendazione
delle interpolazioni e degli errori (o innovazioni) trasmessi dalla tradizione.

L’edizione critica si caratterizza, perciò, non solo per la fissazione del testo originale, ma anche per
l’esplicitazione del percorso ecdotico che ha condotto il filologo a tale restituzione. Il curatore (o editore
critico) rende edotto il lettore, infatti, del lavoro compiuto, del metodo seguito e dei criteri adottati durante
l’approntamento dell’edizione.

 l’apparato filologico (o critico),


 la nota al testo,
 l’introduzione,
 le note esplicative e di commento,
 l’appendice,
 la bibliografia

Al testo restaurato e fissato (TESTO CRITICO) si deve aggiungere, dunque, l’APPARATO FILOLOGICO, che ha
l’importante funzione di documentare lo stato della tradizione sia di copia (APPARATO SINCRONICO) che
d’autore (APPARATO DIACRONICO).

Lanfranco Caretti definì diacronico l’apparato nel quale sono allogate le varianti d’autore, sincronico quello
in cui trovano invece accoglienza le varianti di tradizione, innovazioni dei vari copisti portate dalla
tradizione del testo.

La NOTA AL TESTO rappresenta in sintesi la memoria storica dell’edizione, perché raccoglie in modo
essenziale e schematico molte delle informazioni e delle spiegazioni relative alla tradizione diretta e
indiretta del testo (raccolta, luogo di conservazione, talvolta descrizione e storia dei testimoni) alle più
importanti questioni filologiche e linguistiche incontrate e affrontate dall’editore in sede di allestimento e le
scelte metodologiche.

L’INTRODUZIONE è il saggio iniziale del volume (anche se in realtà si caratterizza per essere il momento
conclusivo di un articolato lavoro di analisi) e rappresenta la sezione nella quale l’editore espone e
commenta diffusamente e approfonditamente i contenuti ecdotici, esegetici ed ermeneutici dell’edizione,
calando nelle giuste coordinate, storiche e culturali, letterarie e linguistiche, l’opera restituita e indagata,
illustrando i risultati raggiunti.

La BIBLIOGRAFIA è l'elenco più o meno ragionato delle pubblicazioni utilizzate e citate per la e nella stesura
dell’edizione. In alcune edizioni può capitare di trovare, oltre alle menzionate, altre sezioni che aiutano a
offrire al lettore il quadro informativo ed argomentativo più completo.

Queste unità, non obbligatorie, sono: le NOTE ESPLICATIVE e di COMMENTO storico, linguistico, filologico e
letterario, l’APPENDICE, parte aggiunta, accessoria e integrante, collocata in cauda per spiegare meglio
tematiche, riflessioni e lezioni non completamente esplicitate nel testo, oppure per accogliere, in un
ulteriore apparato critico (in questo caso diacronico).

L’edizione critica, in quanto scientifica, spesso sancisce e rappresenta – per la sua alta affidabilità costitutiva
– l’ufficialità del testo restituito e per autorevolezza non di rado diventa la fonte, il modello testuale da
riprodurre, per tutte le altre edizioni, determinando di fatto la vulgata editio, l’edizione divulgata, il testo
fissato e adottato.

Le altre edizioni
FACSIMILARE consiste nella fedele duplicazione di un codice tramite fotografia, microfilm o microfiches
(mentre per la riproduzione meccanica dei testi a stampa si preferisce parlare di edizione ANASTATICA).

La DIPLOMATICA è, invece, l’edizione che, con mezzi tipografici, ripropone le peculiarità del testo
manoscritto secondo criteri rigorosamente descrittivi, di alta fedeltà, restituendo l’esatta configurazione e
forma attestata del codice.

L’EDIZIONE INTERPRETATIVA propone al lettore alcuni adattamenti e modernizzazioni grafiche per rendere
il testo più comprensibile. Il curatore, facendo appunto opera di interpretazione, separa le parole,
introduce i sintagmi di legamento, gli accenti e gli apostrofi, scioglie le abbreviazioni, se necessario
normalizza l’ortografia, distingue la u e la v, regolarizza l’uso delle maiuscole e delle minuscole, uniforma
alcune grafie (i e j), segnala a testo con segni diacritici (parentesi tonde, quadre, aguzze) eventuali lacune,
integrazioni e cancellature, correda il tutto di note esplicative e di commento.

L’edizione ANASTATICA consiste invece nella fedele e inalterata riproduzione tipografica di antiche e
importanti edizioni a stampa.

Ricostruzione e interpretazione del testo letterario

La FILOLOGIA mira alla ricostruzione e alla corretta interpretazione dei testi e dei documenti linguistici
scritti (nel nostro caso letterari), antichi e moderni.

ll FILOLOGO è, dunque, colui che studia la loro trasmissione e la loro tradizione per riportarli – attraverso
l’individuazione e l’emendazione degli errori – alla lezione autentica, per spiegarli, discuterli e, appunto,
interpretarli.

Fra i vari compiti della filologia ricordiamo:

1. stabilire il testo più sicuro e autentico possibile al fine di risalire a quello archetipo o iniziale;
2. identificare il corredo eventuale di varianti del testo e studiarle dall’interno per motivare le
preferenze;
3. considerare la tradizione testuale come veicolo attivo e caratterizzante per la definizione di un
testo; analizzare la vita di un’opera, la sua fortuna, i modi di trascrizione e di circolazione,
l’accoglienza da parte del pubblico, le reazioni che essa ha determinato e via dicendo;
4. procedere a una valutazione globale del testo, nella sua realtà complessa (culturale, storica,
psicologica, formale), in un’ottica necessariamente interdisciplinare.

Declaratoria della disciplina

Il macro settore scientifico-disciplinare della LINGUISTICA E DELLA FILOLOGIA ITALIANA si interessa da un


lato all’attività scientifica e didattico-formativa nel campo degli studi di filologia della letteratura italiana,
dall’altro all’attività scientifica e didattico-formativa nel campo degli studi sulla lingua italiana e sui dialetti
parlati in Italia.

Col De Sanctis si è soliti far cominciare la storia della critica contemporanea. Nel suo pensiero confluiscono i
motivi più significativi della cultura romantica, proprio in un periodo in cui lo storicismo idealistico stava
lasciando il passo alla ricerca filologico-erudita, del cui influsso risentirà in modo particolare il Carducci.

La sua Storia della letteratura italiana nasce con l’intento di fornire alla nazione, che si avvia a divenire
Stato, il segno di una identità necessaria per saldare in un blocco unico il policentrismo di piccoli stati e di
relative letterature che le lotte risorgimentali hanno finalmente unificato.

Il critico campano è contrastato dal positivismo e soltanto con Croce avrà inizio quella rivalutazione che,
attraverso Gramsci, troverà importanti sviluppi nella critica di ispirazione marxista.
Molte delle storie letterarie novecentesche per lungo tempo hanno ricalcato lo stesso schema storiografico,
un modello ottocentesco, nato in un particolare contesto storico di superamento degli stati regionali, che
proponeva – secondo criteri toscano-centrici e dinamiche centripete – un’idea astratta, monolitica,
falsamente unitaria della produzione testuale e letteraria degli italiani.

Il criterio di inclusione ed esclusione si fondava, infatti, sul toscano letterario scritto senza considerare il
rapporto tra oralità e scrittura, come se gli italiani avessero parlato e scritto per secoli la stessa lingua e
avessero da sempre prodotto una testualità omogenea nello spazio e nel tempo per modalità di
trasmissione, codici, convenzioni e generi utilizzati e per destinatari coinvolti.

A differenza di quanto era accaduto per altre grandi lingue di cultura, la fisionomia dell’italiano era stata
determinata soprattutto dallo stretto legame con la tradizione letteraria di matrice toscana, per altro
avviata, soprattutto a partire dalla proposta normativa del Bembo, sui binari della compattezza e
dell’arcaismo classico. Una tradizione che si era dimostrata lontana dalla lingua d’uso quotidiano,
riccamente rappresentata dai dialetti parlati nelle varie regioni. Un tale scarto avrebbe provocato col tempo
il declino della stessa lingua italiana, appresa, come una lingua straniera, in modo libresco, attraverso lo
studio delle grammatiche, dei vocabolari e delle opere dei classici e sentita, parafrasando Isella, «estranea e
inamabile».

Da una parte, quindi, un’élite di intellettuali, scrittori e poeti proiettati verso un modello alto e sublime
informato in poesia sul monolinguismo petrarchesco e in prosa sul ‘bello stilo’ boccacciano, dall’altra i tanti
parlari e parlanti italici con i numerosi autori, cosiddetti periferici, esclusi da quella minoranza di eletti del
Parnaso, non disposti ad adeguarsi a un sistema linguistico allotrio. Si era attivata cioè una dinamica
centripeta, che più che a includere tendeva a escludere dal diritto di cittadinanza.

Ciò spiega, per converso, perché nel Cinquecento, accanto alla codificazione di una lingua letteraria italiana
si fosse consolidata, contestualmente, una prestigiosa e solidissima produzione poetica, narrativa e
soprattutto teatrale in dialetto.

Una produzione di testi ricca e, non infrequentemente, di alto valore estetico – con propri canali, propri
codici, proprio pubblico, e una circolazione orale e scritta diffusa più scritta che parlata; e tra le scritte, la
meno rinsanguata dal parlato, la più costante nel tempo quasi una lingua di cerchie ristrette di persone
socialmente privilegiate; «lingua di cultura», non «lingua di natura» per la totalità di una nazione (salvo la
Toscana). Ancora nel secondo Ottocento, a unificazione politica avvenuta, un piemontese, un lombardo, un
siciliano continuano a esperimentare la drammatica scelta tra dialettale e libresco.

Il che permetterebbe di scrivere, con tutta legittimità, una storia della lingua letteraria italiana prendendo a
principio direttivo le difficoltà di adattamento degli scrittori periferici a calarsi in un sistema linguistico
espressivo ad essi naturalmente estraneo.

In letteratura la linea seguita dal Manzoni andò affermandosi incontrastata per quasi tutta la parte centrale
del secolo sul fronte del monolinguismo letterario.

Dalla seconda metà dell’Ottocento sino a buona parte del Novecento l’architettura regionale endemica
torna ad emergere vistosamente; a tutto ciò si deve aggiungere il fatto che in Italia, per molti decenni, nella
critica letteraria il mainstream filosofico è stato ideal-crociano.

L’arte, per Croce, è intuizione pura, produzione spirituale di un’immagine animata dal sentimento distinta
dalla conoscenza razionale-filosofica e non riducibile a un fatto pratico-utilitaristico o a un valore morale.

Parte da qui il rifiuto di ogni analisi degli aspetti tecnici e retorici, di tutto ciò che riguarda la struttura
dell’opera, delle caratteristiche della società o delle vicende della vita del poeta. Il poeta è nient’altro che la
sua poesia.
A partire dal secondo dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta la cultura italiana fu, nel bene e
nel male, egemonizzata dal pensiero crociano, nel campo della letteratura della critica musicale, d’arte e
cinematografica, della storiografia.

riflessione di Carlo Dionisotti, che nel 1951 con Geografia e storia della letteratura italiana ripensa in
prospettiva diacronica e diatopica la produzione testuale dello stivale letterario, per il recupero di autori
fino ad allora considerati a torto minori e periferici (anche dialettali), sottolineando il carattere policentrico
del nostro Paese e ponendosi così in aperta polemica rispetto alle idee unitarie proposte da De Sanctis.

Oggi, sappiamo bene che, a partire dal Corso di linguistica generale di Saussure (peraltro tradotto in Italia
da De Mauro solo alla fine degli anni Sessanta, in ritardo rispetto ad altri paese europei), si poterono
precisare meglio nel Novecento i concetti di natura, funzione e ruolo della comunicazione letteraria. Il
concetto stesso di langue aprì alla rivalutazione della comunicazione orale del testo e alle sue e modalità di
trasmissione (bocca-orecchio), legittimando tutte le culture minoritarie (come quella sarda).

Il segno letterario non può, infatti, prescindere dal suo sostrato, che è il codice linguistico. Tutto ciò
permise, inoltre, di rivalutare tutte le lingue naturali e di studiare con maggiore competenza le lingue e le
letterature delle minoranze post-coloniali di area ispanofona, anglofona e francofona. La rivoluzione
culturale novecentesca ha inevitabilmente messo in crisi, l’idea stessa di letteratura nazionale monolitica e
monolingue.

Oggi non ha più senso parlare di letteratura italiana, quanto semmai di comunicazione letteraria degli
italiani, ossia di sistemi letterari policentrici la cui identità si è storicamente e geograficamente affermata
grazie al contributo di più lingue e di più culture.

Si parla di storia e geografia della comunicazione letteraria studio cioè della produzione ma anche della
circolazione e della ricezione dei testi – intesi e studiati prima di tutto per la loro natura linguistica – in uno
spazio storicamente circoscritto e in situazioni complesse di plurilinguismo e di pluriculturalismo.

La questione della lingua e delle lingue degli italiani

Nessuna nazione dell’Europa è stata attraversata, come l’Italia, da un’eterna questione della lingua.

La penisola italiana, a differenza delle altre nazioni, non ha mai avuto un centro culturale veramente
predominante, come per esempio Parigi in Francia. Ma soprattutto che, a partire dall’invasione longobarda
per arrivare al 1861, l’Italia è esistita, per circa 1200 anni, solamente come un’espressione geografica. Gli
stati regionali italiani, infatti – che si erano formati sulle ceneri di signorie e principati proprio quando le
grandi monarchie feudali compivano, a prezzo di guerre sanguinose, la formazione dei primi grandi stati
nazionali – dopo quasi cinque secoli di lotte, ostilità e divisioni giunsero all’unità politica e territoriale solo
nel XIX secolo.

Una unità che non si conosceva, nella forma particolare in cui si era realizzata nell’ambito dell’impero
romano, proprio dall’età gotico-giustinianea, prima che si infrangesse definitivamente dinanzi all’avanzata
dei modesti eserciti longobardi. Non avendo avuto mai un centro culturale che dettasse legge, la penisola
italiana nella sua diversità e nel suo policentrismo, ha avuto, però, il privilegio di poter contare sempre su
uomini di grandissima intelligenza ed immensa cultura, che, a loro volta, sono stati il prodotto di una civiltà
storica.

Quando sul grande ceppo latino, tra i secoli IX e XII d. C., sorsero le lingue romanze o neolatine, l’Italia tra i
secoli XII, XIII e XV subito si distinse dando vita ad una civiltà che non aveva l’eguale in Europa.

Volgari, dialetti e lingue nazionali


Una lingua nazionale è, di norma, un antico dialetto parlato in un'area geograficamente ristretta che è
riuscito a imporsi su altri dialetti.

Dalla frammentazione linguistica seguita al crollo dell'Impero romano nacque, nell'Europa neolatina, una
serie di parlate locali, che si è soliti chiamare “volgari". Quando - secoli più tardi - presero a formarsi gli stati
nazionali, accadde che uno di questi volgari - quasi sempre quello parlato nella città più importante -
prevalse sugli altri, diventando la lingua di quel paese.

Così è stato in Francia, Portogallo e Spagna.

In Italia, questa sorte è toccata, in séguito a un processo molto meno lineare, al volgare di Firenze. L'italiano
che oggi parliamo e scriviamo è, nella sua struttura grammaticale, il fiorentino letterario del Trecento. Dalla
metà del Cinquecento, questa varietà di fiorentino si affermò come lingua letteraria comune ai diversi stati
italiani. Da quel momento le altre parlate locali, pure usate fino ad allora anche in testi ufficiali e letterari,
cominciarono a essere retrocesse al rango di dialetti.

La distinzione tra "dialetto" e "lingua" consiste soltanto nella più limitata diffusione del dialetto, nella sua
ridotta importanza politica e nel suo minore prestigio sociale.

Capitale politica e capitale linguistica

Altre grandi lingue europee, dunque, come il francese, lo spagnolo, l'inglese, si sono modellate sulla lingua
della capitale politica e amministrativa. In Germania, l'affermazione del tedesco moderno si deve alla
riforma di Lutero che, traducendo la Bibbia, promosse una particolare varietà linguistica a lingua della
società civile.

Nulla del genere per l'Italia. La lingua che oggi adoperiamo in ufficio, in autobus, nei negozi, nelle
conferenze è, come detto, il dialetto fiorentino trecentesco, con le inevitabili modificazioni (massime nel
lessico, minime nella fonetica).

Ma Firenze non è stato mai un centro politico con ambizioni superregionali; e la religione si è espressa fino
ad anni recenti o nel latino liturgico, ovvero nell'italiano più o meno intriso di dialetto che il prete
adoperava nei contatti con i fedeli e anche nella predicazione. La ragione è un'altra: Firenze è stata la città
che ha dato vita a una grande letteratura, presto diffusa ed emulata altrove, l'eccellenza dei grandi scrittori
fiorentini.

Dante, autore della Comedìa può essere considerato il capostipite di una tradizione linguistica e letteraria
che costituisce oggi, a distanza di secoli, uno dei patrimoni culturali più ricchi del mondo.

Il contingente lessicale dell’italiano

Col passare del tempo, il numero delle parole presenti in italiano e la varietà dei loro significati tendono ad
accrescersi. Il contatto con altre lingue, la scoperta di nuovi oggetti, la messa a fuoco di nuovi concetti fanno
sì che vengano usate nuove parole o che le vecchie parole assumano nuovi significati.

La lingua italiana odierna è, dunque, il risultato di un processo di formazione che si è protratto per secoli.
Le parole che usiamo quotidianamente per farci capire sono circa diecimila e costituiscono una parte molto
piccola, ma importantissima, del vocabolario italiano. La maggior parte di questo vocabolario "di base"
dell'italiano risulta attestato già dal XIII e dal XIV secolo.

Molti altri vocaboli, però, sono entrati nell'uso successivamente: depositati sul solido fondo preesistente,
Sono voci cólte, prelevate dal latino e dal greco parole provenienti da altre lingue europee o da lingue
esotiche come l'arabo; nuove parole formate a partire da vocaboli italiani già in uso.
Fino al raggiungimento dell'unità politica (1861), la lingua italiana sia stata appresa quasi come una lingua
straniera: attraverso lo studio delle grammatiche, dei vocabolari e delle opere dei classici.

Il modello toscano

Impostosi essenzialmente come lingua della letteratura grazie al prestigio di Dante, Petrarca o Boccaccio,
quello che oggi è l'italiano costituì per secoli - fuori di Toscana- una lingua distinta da quella parlata.

Nel Cinquecento, il fiorentino trecentesco si affermò come lingua letteraria comune; ma appropriarsi delle
sue norme richiedeva - a chi avesse voluto servirsene - un continuo esercizio.

Con Dante, il vero e grande padre della lingua italiana, il quale aveva saputo dare al plurilinguismo un’unità
linguistica di altissimo livello, basata sul fiorentino, cominciò, dunque, in Italia la questione della lingua.

Nel De vulgari eloquentia (1304) fissò le regole dell'uso letterario del volgare: la questione si poneva per lui
nella creazione, mediante raffinamento, di una lingua 'illustre', 'cardinale', 'aulica' e 'curiale’.

Dante tuttavia vedeva nella frammentazione politica d'Italia un ostacolo insormontabile alla creazione di
questa lingua. Petrarca ne continuò l’opera, arrivando, però, a rivedere il plurilinguismo dantesco per
giungere ad un raffinatissimo monolinguismo. Liberò la lingua poetica dantesca da tutti i suoni realistici e
duri per arrivare ad una dolcezza melodica raffinatissima.

L’egemonia del latino

Il XV secolo fu il secolo dell’Umanesimo.

I grandi scrittori del Quattrocento cominciarono a sentire, così, il disagio di scrivere senza essere letti, se
non dagli addetti ai lavori. Cominciarono essi, in qualche modo, ad ammettere nella loro scrittura qualche
parola del linguaggio usato dal popolo.

Fino al Cinquecento e oltre, il latino fu - in Italia e in Europa - non solo la lingua della religione, ma anche la
lingua della comunicazione in tutti gli àmbiti della cultura alta (diritto, medicina, scienze, filosofia). Parole
latine - spesso attraverso la mediazione di una lingua moderna - hanno continuato per secoli ad arricchire il
vocabolario intellettuale, oltre che delle lingue romanze, anche delle altre grandi lingue di cultura
occidentali che non derivano dal latino (come l'inglese o il tedesco).

La familiarità degli italiani con il latino si deve anche alla tradizione scolastica: fino al pieno Settecento era
questa l'unica lingua insegnata (e quella in cui si svolgeva l'insegnamento) anche nelle scuole primarie.

La rivoluzione dei canali: “la galassia Gutenberg”

Dall’VIII secolo nell’Asia orientale si ha notizia delle prime possibilità di riprodurre testi mediante xilografia.

In Europa solo l’invenzione di Gutenberg, la stampa, diede l’inedita possibilità di diffondere testi
comparabili per bellezza all’arte dei manoscritti e, nello stesso tempo, in una quantità di copie fino allora
sconosciuta.

Le prime testimonianze di stampa datate furono del 1454 e del febbraio del 1455.

Da questo momento in poi testi di qualsiasi natura poterono essere pubblicati in modo più veloce ed
economico e in maggiore quantità. Le possibilità della nuova stampa libraria favorirono in Europa i processi
culturali e lo sviluppo delle università nel XV e XVI secolo (con un contributo decisivo all’alfabetizzazione e
alla crescita quantitativa e qualitativa del pubblico dei lettori), promuovendo la diffusione delle idee
dell’Umanesimo rinascimentale e creando nel contempo le premesse per la riforma della Chiesa e la
divulgazione dei contenuti dottrinari nella lingua del popolo.
Si aprì una nuova epoca dello sviluppo della comunicazione umana.

La questione della lingua nel Cinquecento

Dopo il ritorno al latino promosso dall'Umanesimo, il problema tornò di attualità tra la fine del
Quattrocento e il Cinquecento. Si fronteggiarono allora tre correnti principali: la «cortigiana», la
«fiorentina», la «classica» o «arcaizzante».

La corrente «cortigiana» che trovò i maggiori sostenitori in Vincenzo Colli, Baldassarre Castiglione e Gian
Giorgio Trissino, si ispirava a un ideale di lingua eclettico, come l'idioma usato nelle corti italiane dell'epoca,
nel quale, su una base genericamente toscana, si inserivano parole e costrutti mutuati da altre parlate
italiane o di altri paesi (soprattutto il provenzale), purché raffinati e 'aventi qualche grazia nella pronuncia'.

La corrente «fiorentina» sostenuta fra gli altri da Niccolò Machiavelli, Pierfrancesco Giambullari e
Benedetto Varchi, proponeva l'adozione del fiorentino come era parlato all'epoca.

La proposta del Bembo, la corrente arcaizzante, che nelle Prose della volgar lingua (1525) si oppose
all'ipotesi di fondare l'italiano sull'uso linguistico comune delle corti rinascimentali, la cosiddetta 'lingua
cortigiana', perché non si può, affermava, considerare vera lingua letteraria una parlata che non sia
nobilitata dall'opera di grandi scrittori. Per lo stesso motivo si dichiarò contrario all'adozione del fiorentino
parlato, perché non era lingua abbastanza elaborata. Propose dunque l'adozione della lingua fiorentina del
Trecento, in particolare quella di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa; Dante non venne
considerato sufficientemente esemplare, perché aveva accolto nella Divina Commedia voci provenienti da
dialetti o lingue diverse. La proposta del Bembo fu accolta immediatamente dai più illustri letterati
dell'epoca: Ludovico Ariosto (che apportò correzioni all’Orlando Furioso).

L'opera di Bembo ebbe immediata risonanza e decretò il successo della corrente arcaizzante, che divenne
preponderante dalla metà del secolo grazie anche all'opera di Leonardo Salviati e alla fondazione
dell'Accademia della Crusca.

Lo scarto tra la lingua letteraria e la lingua d’uso

La lingua letteraria italiana si avviò dunque sui binari dell'arcaismo e del preziosismo, staccandosi dalla
lingua d'uso quotidiano, per il quale si continuarono a utilizzare i dialetti.

A questo punto, infatti, si aprì uno iato incolmabile tra la lingua letteraria italiana e i molteplici registri
regionali parlati dalle masse popolari delle varie regioni italiane. Per alcuni ciò determinò il declino della
lingua italiana, che si potrarrà per tutti i secoli della sua storia; da una parte uomini di grande, sublime e
raffinata cultura, e dall’altra una massa di popolo delle varie regioni italiane, che parlavano altre lingue e
che non sapevano leggere e capire quel pugno di uomini addottrinati.

Veniva penalizzato Dante, perché la sua lingua - composita e variegata - non possedeva quei caratteri di
compattezza e di classicità ricercati dal Bembo.

Ciò spiega, inoltre, che proprio all’inizio del Cinquecento, insieme con la lingua letteraria, comincia a farsi
largo la creazione artistica in dialetto.

Monti, Cesari e i puristi

Come si vede, a cominciare dal Cinquecento, la letteratura italiana si sviluppa percorrendo due strade:
quella della lingua italiana letteraria di matrice toscana e quella delle lingue dialettali di non meno alto
livello. Non mancarono, come accennato, voci contrarie; in particolare durante l'Illuminismo si criticò
l'eccessiva astrattezza e complicazione della lingua, proponendo come modello la chiarezza del francese.

Si ricorda fra tutti il poeta arcade-illuminista Vincenzo Monti che si mise in polemica col Cesari e i puristi, e
compose la famosa Proposta di alcune correzioni, ed aggiunte al Vocabolario della Crusca.

Il Monti in Italia fu il primo a difendere la lingua dell’uso, vale a dire che non ci debba essere differenza tra
la lingua che si parla e quella che si scrive.

Alessandro Manzoni

Fu, però, all’inizio del secolo XIX che si accese la polemica tra i seguaci del Classicismo e i seguaci del
Romanticismo. Vinsero i romantici con a capo Alessandro Manzoni.

Quale lingua usò nell’edizione de I Promessi Sposi del 1840 il grande romanziere?

Egli esordì sotto l’influenza del Monti.

I componimenti giovanili, furono da lui scritti con un linguaggio classicheggiante.

L’edizione de I Promessi Sposi del 1827, dunque, risente della sua educazione linguistica. Diversa è, invece,
la lingua dell’edizione de I Promessi Sposi del 1840.

La ragione fu soprattutto politica. L’Italia si avviava al Risorgimento politico nazionale.

Il poeta, come patriotta e, nonostante fosse un cattolico, non seguì la posizione della Chiesa, la quale si
opponeva all’indipendenza e all’unità politica dell’Italia. Era convinto che fosse necessario che tutti gli
italiani parlassero la stessa lingua. Il popolo, come detto, parlava il dialetto e l’italiano lo parlavano solo
pochi letterati. Ecco perchè, diceva il nostro Lombardo, bisognava inventare una lingua italiana, la quale
potesse essere intesa da tutte le genti italiche.

Di qua la sua scelta di “sciacquare i panni nell’Arno”, vale a dire di correggere la lingua de I Promessi Sposi
del 1827, adattandola alla lingua fiorentina parlata dalla media borghesia ottocentesca, perché, solo a
Firenze il popolo e la borghesia avevano parlato sempre l’italiano. Ma il problema della creazione unitaria
della lingua italiana era molto più complesso di quanto ritenesse il Manzoni.

Far parlare ad un veneto o ad un siciliano o ad un pugliese o a un lucano o a un sardo la lingua che si


parlava a Firenze era lo stesso che gli si volesse far parlare l’inglese o il francese o il tedesco o la lingua che
parlavano i letterati colti italiani.

Graziadio Isaia Ascoli

Chi cercò di avviare a soluzione, su una base realistica e scientifica, la questione della lingua in Italia fu il
glottologo Graziadio Isaia Ascoli, grande studioso di lingue sanscritiche.

Egli sosteneva che nessuna lingua può avere una vera base se non si fonda su ciò che essa è stata capace di
creare nei secoli per via della scrittura. Perciò, secondo lui, la lingua unitaria italiana doveva avere per
fondamento, la scrittura che tutti gli scrittori italiani, in qualunque regione fossero nati e avessero operato,
avevano lasciato ai posteri. Quindi era un falso problema quello di dire che la lingua italiana dovesse essere
popolare e colta perché non poteva essere che quella che gli scrittori italiani avevano creata lungo i secoli.

Egli giunse alla conclusione che l’unità linguistica potesse derivare solamente dal generale innalzamento
culturale degli italiani.

L’italiano e la norma
Questa impostazione basata sui modelli letterari dominerà la nostra tradizione grammaticale fino agli inizi
del Novecento. Solo nel secondo dopoguerra si affermerà una posizione diversa, più attenta all'uso, meno
rigida nel fissare i confini tra norma ed errore. La norma, infatti, non è statica, ma è la risultante di forze
contrastanti: da una parte i fattori di evoluzione e innovazione linguistica (per esempio il parlato), dall'altra i
fattori di stabilizzazione e appunto di normatività: la scuola, le grammatiche, i dizionari, i modelli scritti.

I dizionari

Accanto alle grammatiche e ai testi letterari, anche i dizionari hanno rappresentato uno strumento
indispensabile per la formazione dell'italiano.

Ricordiamo il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), fondato essenzialmente sul fiorentino del
Trecento.

Tra Sette e Ottocento, la porzione del lessico italiano accolta nei vocabolari si amplia moltissimo ed entrano
in grande quantità parole fino a quel momento escluse, come quelle tecniche, legate alle scienze e ai
mestieri.

Così ai dizionari generali si sono affiancati, nel tempo, dizionari dei sinonimi, raccolte di neologismi e di
tecnicismi, dizionari etimologici.

L’italiano parlato

«La lingua italiana non è stata mai parlata ... è lingua scritta, e non altro», scriveva Ugo Foscolo nel 1826. In
effetti, fu proprio per soddisfare le esigenze degli scrittori, in cerca di uno strumento espressivo comune,
che nel 1525 Pietro Bembo propose come modello il fiorentino letterario trecentesco. La sua proposta era
destinata ad affermarsi abbastanza rapidamente, ma solo nella lingua scritta.

Ancora per quattro secoli, la situazione linguistica dell'Italia sarebbe stata caratterizzata da una netta
separazione fra i due campi: si scriveva in italiano, ma si parlava in dialetto.

Verso la sofferta unità

Il 2 ottobre 1870 si svolse nel Lazio il plebiscito per l’annessione al regno d’Italia.

Qualche mese dopo, il 23 dicembre, a Firenze, la Camera approvò la legge per il trasferimento della capitale
a Roma.

Gli stati regionali italiani, dunque – che si erano formati sulle ceneri di signorie e principati proprio quando
le grandi monarchie feudali compivano, a prezzo di guerre sanguinose, la formazione dei primi grandi stati
nazionali – dopo quasi cinque secoli di lotte, ostilità e divisioni giunsero all’unità politica e territoriale. Una
unità che non si conosceva, nella forma particolare in cui si era realizzata nell’ambito dell’impero romano,
dall’età gotico-giustinianea, prima che si infrangesse definitivamente dinanzi all’avanzata dei modesti
eserciti longobardi.

L’eterogeneità e la frantumazione dal punto di vista economico, politico-amministrativo e culturale e il


complessivo ritardo nello sviluppo economico aggravarono il compito di una classe dirigente figlia del
moderatismo centro-settentrionale maturato negli ambienti della grande proprietà terriera, della nobiltà
sabauda e della borghesia imprenditoriale lombarda. Ognuno dei vecchi stati aveva le sue leggi, i suoi
sistemi commerciali, il suo sistema di tassazione, le sue monete, le sue unità di misura, la sua lingua. Solo
venticinque italiani su cento sapevano leggere e scrivere; solo tre italiani su cento usavano correntemente
la lingua italiana: tutti gli altri si esprimono nei dialetti e nelle lingue locali più diversi. L’agricoltura e
l’industria, salvo che in alcune zone del nord e della Toscana, soffrivano condizioni di grave arretratezza
infrastrutturale e di modesta virtù espansiva. Le generali condizioni di vita delle popolazioni soprattutto
rurali.
Furono segnate pesantemente dall’insufficiente alimentazione e dalle cattive condizioni igienico-sanitarie;
tifo, colera, vaiolo, malaria e pellagra colpivano ogni anno decine di migliaia di persone, soprattutto
lavoratori delle campagne.

Il sistema formativo: “fare gli italiani”

Bisognava, quindi, ricostruire il paese rinnovando non solo le istituzioni ma anche le coscienze. Scienziati,
intellettuali, studiosi, ricercatori, docenti si trovarono a dover affrontare la spinosa questione, cioè come
«fare gli italiani» una volta «fatta l’Italia».

Si dovette innanzitutto ripensare e riorganizzare il sistema formativo la cui frammentazione economica e


sociale si rifletteva ancora – non poteva essere altrimenti – in differenti livelli di alfabetizzazione.

Sostanzialmente su ciò si concentrò l’attenzione di Terenzo Mamiani, Francesco De Sanctis, Carlo Matteucci
e Cesare Correnti che ressero il ministero della Pubblica istruzione e guidarono l’azione educativa dello
stato tra il 1860 e i1870. Del resto la formazione scolastica sino a quel momento (se si esclude l’avanzato
Lombardo-Veneto, lì dove sin dal 1818 il governo austriaco aveva imposto ai bambini fra i sei e i nove anni
l’obbligo di frequentare le scuole statali) era stata appannaggio di pochi e in molte realtà regionali
responsabilità esclusiva delle istituzioni private e confessionali che non poterono ovviamente più affrontare
da sole la nuova situazione.

Il primo dato nuovo nel panorama culturale dell’Italia postunitaria fu, dunque, l’introduzione dell’istruzione
elementare obbligatoria.

L’università e il modello centralistico

L’opera di riorganizzazione e riunificazione della intricata struttura universitaria. Si trattò di costruire un


sistema unitario ed efficiente partendo da una realtà contrassegnata dalla eccessiva ed onerosa
frammentazione nel territorio degli istituti e dei centri di ricerca.

Due possibili modelli di riferimento esistevano in Europa. Quello francese, centralistico, basato su pochi
grandi istituti rigidamente controllati dal potere centrale; quello tedesco, e in parte inglese, federalista,
centrifugo, caratterizzato da un alto numero di centri fortemente autonomi.

In Italia prevalsero, come in altri settori della vita pubblica, le tesi accentratrici pur permanendo un
policentrismo culturale.

L’Italia dei dialetti e delle lingue

Nel 1861, all'atto della proclamazione del Regno d'Italia, dunque, non più del 10% della popolazione era in
grado di parlare in italiano e ben il 75% era analfabeta.

Con l'Unità d'Italia si avviò un lento processo di unificazione linguistica, che vide dapprima nella scuola e
nella letteratura di consumo, poi anche in altri mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, cinema)
i maggiori veicoli di diffusione dell'italiano.

Il processo può dirsi concluso solo nella seconda metà del Novecento: gli italiani che oggi usano soltanto o
prevalentemente il dialetto in ogni tipo di conversazione sono meno del 7%.

L'italiano è diffuso oggi in tutte le classi sociali e in tutte le aree del paese anche se ancora risente
sensibilmente delle differenze geografiche. La provenienza geografica non emerge soltanto nelle diverse
parole usate, ma anche nel modo in cui vengono pronunciatela "prosodìa". Quando un italiano parla, se
non è un doppiatore o un attore di teatro, la dizione tradisce inevitabilmente la sua provenienza.

Confini politici e confini linguistici: Chi guarda una carta geografica dell’Europa e si chiede quale sia il
rapporto tra i confini politici dell’Italia e i confini linguistici dell’italiano, si accorge che essi coincidono
abbastanza bene, ma non sono affatto identici. L’Italiano è parlato entro i confini dell’odierna repubblica
Italiana e, fuori dei confini politici. È facile incontrare persone che lo comprendono, nel Nizzardo e nel
Principato di Monaco, nei territori delle ex colonie italiane, nell’ex protettorato di Rodi, in Istria, in alcune
località della Dalmazia e a Malta. Alla televisione si deve anche la recente influenza dell’italiano in Albania.
L’italiano è parlato da circa 58 milioni di persone, quindi, e da oltre 300.000 in Svizzera.

Letteratura e dialetto

L’uso del dialetto ha costituito una robusta alternativa di carattere espressivo, quando non, addirittura, una
sovversione della sicurezza nel linguaggio unico (il toscano), immobile, onnicontestuale. La storiografia
recente ha difatti giustamente inglobato nel canone dei valori, a parità di livello degli scrittori in lingua, i
grandi dialettali come Ruzzante, Basile, Maggi, Porta e Belli.

La scelta dialettale è stata una scelta di cultura che ha inteso porsi in antinomia rispetto alla tradizione
letteraria nazionale e ha potuto spesso esprimere una esperienza letteraria derivante da suggestioni di
cultura diverse da quelle fissatesi nella letteratura in lingua.

L’Europa Una situazione dunque eccezionale rispetto ad altri paesi. L’assenza in Francia di una letteratura
dialettale riflessa fu dovuta al prestigio di una lingua nazionale affermatasi assai presto: il dialetto dell’lle-
de-France che già nel sec. XIV sottomette il rivale piccardo, e dal Cinquecento in poi è l’unico volgare in
Francia che serva per l’espressione letteraria. Anche in Spagna la centralizzazione della vita culturale ha
ostacolato vitalità e sviluppo di una letteratura regionale. In Inghilterra la lingua nazionale ha potuto
soppiantare sin dal Medioevo i dialetti, che dal Quattro al Settecento scompaiono addirittura dall’uso
scritto. In Germania la Bibbia di Lutero e l’autorevolezza e la popolarità ad un tempo della sua lingua hanno
emarginato sin dal sec. XVI i dialetti basso-tedeschi dall’uso pubblico e dall’uso letterario.

Le corti di Parigi, Londra, Madrid, le rispettive amministrazioni statali, sono state strumento di unificazione
politica, culturale, linguistica.

La diversità italiana In Italia è mancata una capitale linguistica e culturale accentratrice.

I prosatori dell’Ottocento Gran parte dei nostri prosatori dell’Ottocento hanno sentito l’italiano come
lingua di Stato, grigia e scolorita, quasi entità burocratico-scolastica «estranea e inamabile» ; ora come
lingua di una élite culturale, ora come lingua della borghesia, La storia della lingua letteraria italiana va
dunque rivisitata e disegnata a rovescio, rivoltando lo schema storiografico invalso in cui tutto tende
all’unità nazionale e dove il vivacissimo regionalismo ha corso il rischio di esser prospettato come momento
negativo, o rallentante.

Il Medioevo Il primo passo per uscire dalla frammentarietà del dialetto è compiuto in Italia dalla scuola
poetica siciliana: essa assume tematica e forme metriche dalla poesia occitanica attraverso un’opera di
nobilitazione, il dialetto è reso «illustre», privo di caratteri locali e plebei, nettamente rescisso dall’uso
pratico.

Dante e il volgare «illustre» Dante riconoscerà che quell’ideale di volgare illustre nel De vulgari eloquentia
tra la selva dei dialetti italiani, è realizzato, la prima volta, nella lirica dei Siciliani (nei Siciliani a lui noti,
sappiamo, attraverso le trascrizioni dei copisti toscani).

A Dante sta a cuore non la ricerca e la definizione di una lingua italiana nazionale, sopradialettale, ma la
definizione di quel volgare che poeticamente aveva trovato applicazione nello «stile sublime» dei buoni
dicitori siciliani e stilnovisti; un volgare «illustre» che però non sarà quello cui aderisce lo stile comico (cioè
opposto al superiore, tragico) della Commedia, ; il tutto inserito in una lingua che accoglie pienamente lo
stile « sublime », il latinismo più evidente, la soavità dell’elegia, il tecnicismo delle scienze, le altezze della
filosofia e della Scrittura. Nella Commedia l’intera gamma delle possibilità espressive è esaurita. L’elemento
anche dialettale è assunto in una sostanza mistilingue che va dall’umile al sublime. Dante realizza, con
libertà non più osata per i secoli a venire, una lingua letteraria sopradialettale. L’appello già umanistico del
Petrarca richiamerà sulla linea vincente la scelta opposta, monolinguistica, il ritorno al sublime.

Tradizioni dialettali: le Origini Tradizioni dialettali si erano comunque costituite sin dal Duecento,
parallelamente allo stilnuovo. Ma non hanno capacità di irradiarsi; chiudono il loro ciclo soccombendo alla
tradizione più ricca di prestigio e più vitale, il toscano, che tra l’altro si normalizzava in istituzioni stabili
valide per scrivere non soltanto poesia, ma per trattare, come in Dante, ogni argomento: l’epistola, il
trattato, la prosa narrativa e didascalica, il componimento lirico. Nel Trecento il toscano si espande fuori dei
confini regionali.

Tradizioni dialettali: l’età umanistica Nel Quattrocento i poeti si adeguano al modello Petrarca. Il
Canzoniere è utilizzato come miniera di modi stilistici e lessicali. Il modello non consente l’ingresso di
elementi dialettali nel lessico, mentre il settore fonomorfologico, meno controllabile dallo scrittore, è
ancora largamente aperto all’infiltrazione. Quanto alla prosa, dopo Boccaccio il dialetto è accettato in
posizione subalterna, come macchia umoristica e lingua del comico.

La proposta normativa di Bembo Né si può dire che la posizione del Bembo fosse reazionaria ed astorica. Si
appoggiava invece su una solida ideologia emersa dal pensiero umanistico che proponeva il concetto di
imitazione dell’antico come atto creativo.

La dialettalità plurima della commedia Perciò un genere «popolare» come la commedia ad esempio è
commedia di dialetti con personaggi schematizzati in maschere che parlano dialetto, oppure è commedia
colta aperta al termine dialettale, rapporto cosciente tra livelli diversi della lingua. L’uso di forme dialettali
non intacca il sentimento dell’unità linguistica insita nella coscienza di chi scrive.

Ruzzante Il Cinquecento: Per un Ruzzante invece il dialetto non è evasione letteraria, ma luogo in cui lo
scrittore trova una libertà espressiva, per comunicare ad un pubblico reale; è scelta del naturale.

Il teatro di Ruzzante è rappresentazione autentica che si innesta su una tradizione viva e vissuta
nell’ambiente veneto.

Il Settecento Nel Settecento si allarga il fronte della poesia milanese in dialetto; nel sec. XVIII il più celebre
tra i poeti in dialetto è il siciliano Giovanni Meli. Egli traduce in dialetto temi della poesia in lingua, e scrive
in un dialetto nobilitato e dirozzato ad uso di lettori colti.

L’Ottocento I romantici cercano di rompere questo mondo chiuso e raffinato; vagheggiano una lingua viva,
parlata dal popolo. La nuova situazione culturale induce e giustifica scelte apparentemente opposte di un
Porta (che si «chiude» nel dialetto) e di un Manzoni (che si apre alla lingua collettiva).

Porta opta per il dialetto a fini di popolarità appunto, e di realismo. Anche in Toscana si comincia ad
attingere a piene mani dal parlato fiorentino o lucchese. Sia Manzoni sia Nievo cercano di trasferire il
carattere di lingua parlata e familiare dai dialetti alla lingua, di strappare ai dialetti il privilegio
dell’immediatezza e della spontaneità. Nievo opta per un italiano venato di regionalismi. Manzoni, nel
Fermo e Lucia, usa un vocabolario più milanese che toscano.

Manzoni aveva inteso con i Promessi Sposi raggiungere un linguaggio collettivo, superiore al tempo e ai
personaggi.

L’uso fiorentino cui egli affidava la funzione regolatrice della lingua era un additamento (non da purista e da
passatista) ad una lingua popolare e d’uso, ad una lingua di conversazione e di comunicazione che
trascendesse i limiti geografici e culturali del regionalismo e potesse garantire con la propria medietà la
«popolarità» della letteratura.

Le correzioni al testo del ‘27 sono apportate non già per ripulire il romanzo dai lombardismi (al modo degli
scrittori del Cinquecento), ma per sostituire con espressioni della parlata « media» fiorentina le
corrispondenti toscane;

La sciacquatura in Arno, il soggiorno a Firenze e la frequentazione degli amici fiorentini lo portano a


contatto non con il fiorentino popolare, ma con la lingua dei fiorentini colti. Quel parlato, non troppo alto
né troppo basso vi riconosce spontaneità e comprensibilità insieme, al cospetto di una unità nazionale.

L’Ascoli e il Manzoni Proporre un discorso comune che avesse centro in una sola città o regione, in una
classe sola, senza coinvolgere aree sociali e geografiche diverse, fu “errore” del Manzoni. L’unificazione
della lingua della prosa e della conversazione che fosse insieme un fatto civile e politico non poteva che
basarsi sul contributo delle varie regioni ed essere il risultato di una elaborazione collettiva, compiuta dalla
storia, non da una scelta individuale. L’Ascoli, di sorprendente modernità, capì benissimo che la questione
dell’unità della lingua e della sua vitalità non si poteva risolvere indicando semplicemente un nuovo
modello di perfezione formale. La rivoluzione manzoniana in certo senso falliva, se si pensa a quanto la
snaturassero immediatamente in applicazioni meccaniche i linguaioli, sentendosi autorizzati al ribobolo. Ma
era un fallimento relativo, quanto ad indicazioni future. Manzoni aveva mostrato che si poteva scrivere
guardando, finalmente, fuori della tradizione letteraria. Soltanto a quel modo e da quel momento in poi si
potranno scrivere romanzi in Italia. In materia di lingua toccava legiferare non più soltanto, come in
passato, alla letteratura, ma al linguaggio vivo e alla lingua collettiva. Familiare e popolare acquistavano per
sempre diritto di cittadinanza nella letteratura. Si poteva tornare alla provincia; o alla Toscana, ma come ad
una delle provincie.

Dopo Manzoni, dalla seconda metà dell’Ottocento sino ad oggi, la struttura regionale endemica e
connaturata alla cultura italiana, torna ad emergere vistosamente; il momento centripeto e l’evasione
centrifuga riprendono la secolare alternanza.

Gli scapigliati lombardi, Dossi innanzitutto, ricercano l’eccezione alla norma, alla scoloritura dell’uso: il
dialetto è posto fìanco a fianco al toscanismo e alla forma arcaica. Faldella svaria tra poli opposti del
purismo e del dialetto, in una tensione espressiva di esito espressionistico. Vittorio Imbriani, scrittore
antiaccademico, carica la propria prosa, per avversione alla banalità, di preziosismi letterari, di forme
vernacolari, di « goffaggini fiorentine». L’uso del dialetto non è più recupero romantico della parlata
popolare, né debito pagato al naturalismo. In Dossi e in Faldella l’uso del dialetto è antitetico a quello dei
veristi. Sia Verga sia gli espressionisti scapigliati intendono uscire dai binari del linguaggio ordinario: Verga,
grazie al dialetto, dalla «solita nenia delle frasi lisciate da cinquant’anni». Ma per i veristi l’ordinario è la
tradizione letteraria; per gli espressionisti il conformismo dilagante nel neutro italiano comune in via di
formazione. Lo scopo degli ‘irregolari’ scapigliati è la fuga dalla media; il risultato il pastiche. Il dialetto
diventa uno dei magazzini d’eccezione (al parlare corrente e neutrale), dove si può attingere con libertà.
Verga, tramite il dialetto, persegue un mimetismo realistico; la sintassi corale, il colorito provinciale, la
sgrammaticatura, il dialettismo sono assorbiti in un’alta e classica ‘monotonia’, in una sostanziale unità
stilistica. Per Dossi e Faldella il dialetto è invece tessera di un mosaico stilisticamente plurimo;

Il ventaglio delle possibilità epressive; s’innestano nel filone « macaronico» e «plurilinguistico» della
dialettalità plurima che, inaugurata da Dante comico, è tornata ciclicamente nelle nostre lettere;

La geniale soluzione del Verga, la sua discesa verso il basso, verso le classi che non hanno mai avuto
menzione letteraria, aiutava intanto a superare la barriera del naturalismo, l’impiego cioè «caratterizzante»
del dialetto entro opere in lingua, il dialettismo d’ambiente diretto e immediato, quasi citazione senza
elaborazione.
Nei Malavoglia il dialetto non è, semplicemente, inserito, ma tutto il romanzo è scritto in lingua italiana
pensata in siciliano. Il dialetto non è posto in subordine rispetto all’italiano letterario come nel bozzettismo
ottocentesco toscano.

Il Novecento Il dopo D’Annunzio segna una varia soluzione di ritorni a Verga. Vi ritorna, per
antidannunzianesimo, Federico Tozzi. Il suo linguaggio fitto di toscanismi riesce a dare un singolare senso
realistico alla narrazione, che ritrae con forza la vita di provincia.

Il fatto che l’assunzione dialettale spesso coincida con l’arcaismo fa sì che il recupero del lessico e della
sintassi popolare recuperi insieme la solennità arcaicizzante peculiare delle parlate toscane, gravide di
letteratura due-trecentesca. A nessun periferico era consentita l’asciuttezza e l’ascetismo evocati dal
toscano; manca allo scrittore toscano la coscienza del distacco fra lingua e dialetto, l’uso di forme dialettali
è perciò più indifferenziato.

Per Pavese e Fenoglio, così per Verga, la forma dialettale risponde ad una fase non più arretrata di civiltà,
ma più elementare, o mitica.

Pirandello è immune da tali ansie di primordiale e di epico; si muove a suo agio nell’attualità e nel grigiore
del mondo borghese. Ai dialettali si associa, al massimo, per la comune volontà di mettere a fuoco ogni
elemento capace di concorrere all’andamento «parlato» del periodo. E più che nel lessico, è nella sintassi
che la lingua di Pirandello ottiene i risultati più nuovi.

È duttilità che si avvicina ad un uso parlato di tipo medio, efficace per ritrarre con distacco e penetrazione
ad un tempo il mediocre della mediocrità borghese. Lo stesso lessico difatti è preso nei valori attuali, medi,
senza profondità storica, con un voluto «grigiore».

Ideologicamente è posizione radicalmente opposta all’evocazione, ricca di valori arcaici e popolari ad un


tempo, perseguita dalla poesia e dalla prosa nata in ambito « decadente». Al canone neopositivistico
dell’oggettività il decadentismo contrappone l’inattualità linguistica di linguaggi « inauditi», si pensi alla
dialettica « metaforica» di un Pascoli, all’arcaico e vergine friulano di un Pasolini, al monolinguismo quasi
‘petrarchesco’ di un Biagio Marin che scrive in una lingua remota (il dialetto di Grado) che pochissimi
parlano, e che si direbbe invenzione sua.

L’ultimo Pavese, approda appunto ad un « volgare» di misurata classicità.

Dopo la prima negazione vistosamente polemica contro il tono alto della lingua ermetica e post-ermetica e
la parola letteratissima della prosa d’arte, Pavese entra nelle linee di sviluppo della storia con un
rivolgimento più sottile ed attenuato, senza «trascrizioni» troppo crude del dialetto. Il dialetto è nobilitato
senza abbassare la lingua.

Comunque, a differenza dell’Ottocento, quando sembravano testimoniare una realtà genuina e ingenua,
nella stagione neo-realistica i dialetti sono assunti come testimonianza sociale. S’intende mimare dal di
dentro la vita e il linguaggio delle masse lavoratrici o delle classi emarginate, senza partire più da una
posizione di distacco critico: il popolo, oltre che soggetto della narrazione, si fa narratore di sé,
direttamente o attraverso un fedele mediatore. Pasolini vuole immedesimarsi, tramite il dialetto, negli
ambienti degli esclusi che non sono ancora arrivati a possedere la lingua.

C’è chi, come Davì, cerca la trascrizione quasi stenografica della vicenda.

Assistiamo dunque nella narrativa contemporanea a momenti dialettali puri, a momenti di lingua miscedata
con intenti ancora documentari; a momenti in cui l’italiano è riprodotto come lingua di incolti; a momenti in
cui il dialetto è qualcosa di fuso nel discorso, non troppo sollevato da esso.
Quanto a fortuna, vitalità e funzione, nel Novecento, della poesia in dialetto, c’è da tenere in conto, per una
corretta valutazione, la mutata situazione sociolinguistica, che ha fatto registrare in questi ultimi decenni la
diffusione sempre maggiore della lingua nazionale su tutta la penisola come lingua parlata.

Il poeta dialettale non è più il poeta popolare. L’uso parodistico tradizionale è subitamente decaduto. È
venuto a mancare di mano in mano l’interlocutore principale, cioè il pubblico della borghesia dialettofona.

È decaduto per lo stesso motivo il teatro vernacolare.

Occupa invece la posizione dello scrittore colto che regredisce ora, nelle prove più forti, in un’arcaicità
remota, le cose rievocate, con gusto nostalgico per il dialetto transeunte; in questi casi la poesia dialettale si
rifugia appunto nel registro minore sentimentale e intimistico, di matrice pascoliana.

Nel Settecento e nell’Ottocento (per un Goldoni, un Porta, un Belli) la scelta del dialetto fu scelta di cultura,
in antinomia e con autonomia culturale rispetto alla tradizione letteraria nazionale. Nel Novecento un poeta
dialettale, non può che situare la propria poesia nei confini di una quotidianità più angusta, intinta di
materia locale, di intimità familiare appartata e casalinga. Raramente il dialetto riesce ad uscire dall’ambito
della sua storia privata.

La diffusione dell’italiano a tutti i livelli e la proverbialità usurante raggiunta da una lingua letteraria
mediamente vulgata e banalizzata ha per così dire riserbato al dialetto lo statuto di lingua ‘alta’.

La neoavanguardia ha assunto difatti il dialetto come materiale di valore pari ai linguaggi tecnico-scientifici
ed ai cultismi, per tentare una disgregazione eversiva di un linguaggio ritenuto « merce» del
neocapitalismo, conformista e standardizzata.

Il dialettismo usato fuori dal contesto abituale, inserito cioè in una struttura che non gli è propria, avrebbe
la funzione di rottura dell’uso «medio». Se in passato il dialetto costituiva una scelta sociale o una scelta
espressionistica, nella pagina degli scrittori della neoavanguardia vi cade neutrale, come elemento
inutilizzabile; non macchia, ma elemento estraneo e pungente entro una scrittura impersonale e
meccanica.

Si spiega come l’audacia espressiva di autentica avanguardia di un Gadda, la sua mescolanza degli stili, sia
apparsa alla neoavanguardia «una specie di Arcadia espressionistica». I dialetti, condannati dalla
neoavanguardia, e in forte regresso come linguaggi parlati, continuano comunque nella narrativa anche
recentissima, al di fuori della dialettalità, del provincialismo, del preziosismo idillico.

In Gadda l’elemento dialettale immesso nel calderone delle espressioni astratte, sublimi ed enfatiche, dotte
e tecniche, è visto con distacco critico, lingua arbitraria.

Che cosa è la letteratura?

Il termine litteratura, (dal latino littĕra, lītĕra lettera dell’alfabeto, analogamente al greco grammatiké, da
grámma), designò originariamente l’atto stesso dello scrivere

Già per i greci grammatiké (tékhne) era stato «il mestiere delle lettere» e l'insieme delle competenze
necessarie per produrre testi scritti.

In epoca romana il termine si connotò di significati ulteriori e fu posto in relazione, oltre che con la
grammatica, con la retorica. Quintiliano, ad esempio, comprese nella nozione anche l’insieme delle
tecniche e dei modi del comporre.

Litteratus, aggettivo originariamente riferito all’oggetto andò successivamente a designare il soggetto-


scrivente, colui che sapeva scrivere, quindi, per estensione, la persona colta, dotta, istruita.
Nelle lingue romanze (littérature, literatura, letteratura) si conservò per continuazione la medesima
articolazione di senso conosciuta in ambito classico.4 Solo a partire dal XVII-XVIII secolo e sino ai giorni
nostri, la parola iniziò sempre più a indicare sia i testi di valore artistico sia le tecniche e le modalità
compositive che caratterizzano tali testi.

Che cos’è la letteratura, dunque? Cos’è quel quid così ineffabile che attraverso il linguaggio poetico e i
meccanismi del racconto sa trasferire e trasmettere al lettore, in ogni luogo e in ogni tempo, piacere
estetico, emozioni, vissuti, memorie individuali e collettive, orizzonti etici, paesaggi dell’anima e profondità
ontologiche, saperi antropologici, orientamenti di senso sull’uomo e sulla vita?

La letteratura è un dono o un mestiere? È genio o tecnica? Questioni queste irrisolvibili nel senso che la
letteratura rappresenta la sintesi di tutto ciò. Resta però un fatto: da sola, nessuna di queste caratteristiche
potrebbe spiegarla.

La letteratura ha rappresentato nella storia della cultura occidentale una delle espressioni più alte e
raffinate dell’attività intellettuale e artistica dell’uomo in società. Attraverso la riflessione sulla sua natura e
il suo ruolo, molti studiosi hanno cercato di rendere più chiara e intelligibile la complessità di un sistema
comunicativo che, per l’importante funzione formativa e informativa svolta, ha da sempre rivestito una
grande valenza sociale.

Questa concezione della poesia e dell’arte, il cui fine ultimo è la formazione umana e la crescita civile di un
popolo, ha trovato scaturigine, almeno in Occidente, dalla retorica classica, dalla Poetica di Aristotele,
dall’Ars poetica di Orazio, dall’Institutio Oratoria di Quintiliano (riprese e codificate nei numerosi trattati del
Medioevo); opere che hanno in modi diversi teorizzato il miscēre utile dulci e il docēre delectando, ossia il
conciliare finalità edonistiche e pedagogiche e il trattare argomenti utili sul piano morale dilettando e
sublimando.

La letteratura è stata dunque un’arte educatrice, con finalità essenzialmente etiche (oltre che estetiche),
che ha nei secoli mirato ad insegnare e a dilettare, a consolare e a far riflettere.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento iniziarono a precisarsi meglio due fondamentali opzioni
teoriche e metodologiche di approccio all’opera letteraria; opzioni tra il principio dell’«autonomia del
campo estetico dell’arte e quello dell’eteronomia di esso», che prepararono il terreno alla critica
successiva.

Su un versante si collocarono, infatti, tutte le interpretazioni che e – intendendo l’atto del soggetto
creatore, il prodotto letterario e più generalmente il mondo dell’esteticità dell’arte come fatti eteronomi
(dal greco hèteros, «altro», e nòmos, «legge»), riceventi da fuori di sé le norme e le cause del proprio agire
e del proprio svolgersi – cercarono di applicare al testo categorie interpretative altre rispetto allo specifico
letterario ed estranee alla sua natura linguistica; categorie senza le quali si riteneva non potesse essere
compiutamente compreso il testo stesso (la storia, la filosofia, la scienza, i fenomeni economici, la
sociologia, la psicanalisi, gli altri linguaggi). Su un altro versante si posero, invece, le teorie che – basandosi
anche sul principio dell’autonomia dell’arte (dal greco autòs, «stesso») – per converso studiarono il testo
nella sua peculiarità e affermarono che il fenomeno letterario trova in se stesso le leggi del suo
funzionamento e i principi della propria esistenza e del proprio sviluppo, risultando a volte irriducibile ad
ogni altra categoria interpretativa.

Prospettive e criteri di definizione

La vicenda di un’opera letteraria non rappresenta un fatto statico e immutabile, ma mobile e dinamico. Essa
nasce dall’incontro del risultato di un atto creativo (il «farsi» del testo) con le sue diverse interpretazioni e
la capacità del lettore e dello studioso di collegarlo con altri testi, di collocarlo dentro un sistema
comunicativo, di inserirlo criticamente in un reticolo di relazioni.
Il rapporto tra emittente e destinatario si fonda, infatti, sulla reciprocità e trova nel testo stesso il suo punto
d’incontro.

Nel momento in cui un autore si accinge a comporre un romanzo, ad esempio, stabilisce con il lettore una
sorta di intesa, di «patto» implicito, in base al quale egli propone una storia (il «che cosa», un contenuto
diegetico, dinamizzato da una successione di eventi e popolato di esistenti, che si colloca entro strutturali
coordinate crono-topiche) tradotta in finzione letteraria mediante un discorso (il «come») organizzato
secondo particolari strutture e tecniche narrative ed espresso attraverso specifiche modalità stilistico –
compositive.

Il lettore reale, dal canto suo, entra nel mondo fittizio, facendosi, per così dire, condurre per mano
dall’autore e impegnandosi a seguirlo nel suo avvincente percorso.

Di fronte a una tale opera dell’ingegno e della creatività vi sono diverse modalità di approccio. Esiste una
lettura ingenua, che si fa per evasione, passatempo, svago e che porta il lettore ad abbandonarsi al piacere
del racconto, a identificarsi con i personaggi, ad immedesimarsi nella storia proposta e soprattutto a
considerarla “vera”.

Una lettura critica che consiste, invece, nel fruire un’opera letteraria attivando abilità e capacità descrittive,
analitiche e decifratorie elevate e mirando – senza concedersi ai processi di immedesimazione, di finzione e
di “innamoramento” – ad avere piena coscienza delle strutture e dei percorsi di senso che sottendono il
messaggio e consapevolezza delle norme che governano il testo (pur stando al gioco del suo auctor).

Le due modalità di approccio naturalmente spesso coesistono. Del resto la fortuna di un’opera letteraria
dipende generalmente dal consenso che essa riscuote presso il suo diversificato e stratificato pubblico; un
pubblico composto sia dal fruitore ingenuo, emotivamente ed esteticamente coinvolto, che esprime il
proprio gradimento e apprezzamento mediante il giudizio di gusto, sia dal destinatario colto, specialistico,
critico, che formulando giudizi di valore e stabilendo per la produzione testuale criteri di inclusione ed
esclusione (critica, dal greco krínein, «giudicare», kríno, «separo», «distinguo» e quindi «giudico») concorre
a costruire il canone letterario di un’epoca.

Il canone letterario

Per canone letterario si intende il corpus di testi che una comunità storicamente e geograficamente
determinata considera esemplari, degni di studio, di memoria e di trasmissione, modelli da imitare, da
seguire e tramandare. È chiaro che entrambi i giudizi – di gusto e di valore – variano in relazione al contesto
storico e culturale in cui essi stessi vengono formulati e in base all’esperienza e al particolare orientamento
culturale e ideologico di chi li esprime. Si può dire, dunque, che non è data critica letteraria senza storia e
geografia letteraria e viceversa. Come si attiva, in un qualsivoglia scambio verbale, un processo di
codificazione del messaggio da parte di un soggetto locutore in un contesto dato, altrettanto e per converso
si attiva un’operazione di decodifica da parte di un soggetto interlocutore.

Come esiste un discorso della letteratura, così esiste un discorso sulla letteratura.

E i discorsi sulla letteratura – come discorsi critici sul testo, in quanto oggetto concreto, sull’intertesto,
come insieme delle relazioni tra testi, e sul contesto, come ciò che sta intorno al testo – concorrono a
costruire le varie teorie della letteratura, ossia i differenti orientamenti di studio e sistemi di pensiero
storicamente affermatisi e concernenti i fondamenti epistemologici.

Critica, metodo e teoria letteraria

Solo nel Settecento la critica letteraria diventa un genere autonomo.


Il discorso critico si è avvalso nella storia di idee, conoscenze, metodologie, parametri di giudizio, strumenti
teorici e pratici, finalizzati all’individuazione, alla classificazione, all’interpretazione e alla valutazione del
prodotto letterario, da intendersi sia come sistema-testo che come insieme di testi e di opere inserite –
diacronicamente e sincronicamente – dentro un più generale sistema integrato della comunicazione. Il
metodo è, dunque, la concretizzazione storica di un’idea e di una visione teorica figlia dei tempi.

Il contributo dato dalla critica, quindi, risulta fondamentale per la varietà delle riflessioni e dei contributi
messi in campo nell’arco di secoli.

In base alle metodologie di approccio e all’area storica e culturale in cui gli studiosi si sono collocati di
fronte all’oggetto di studio, si sono sviluppati percorsi differenti:

 Centralità dell’autore; Fra i tanti orientamenti critici alcuni si sono caratterizzati per aver
concentrato la loro attenzione investigativa precipuamente sulla fenomenologia dell’autore, sulla
sua psicologia (soggetto psicologico), sulla sua personalità storicamente e culturalmente
determinata (soggetto storico, l’uomo, l’intellettuale), sul soggetto creatore, sull’intenzionalità e
sugli scopi estetici del suo messaggio (soggetto lirico, l’artista, l’auctor, da augeo, «io creo»).
A seconda che dell’autore si privilegiasse l’universo psicologico, l’inconscio e le pulsioni celate cioè
il rapporto tra l’autore e le sue opere dal punto di vista del soddisfacimento che in esse si
determina delle pulsioni inconsce (critica psicologica e psicanalitica di orientamento freudiano),
oppure l’aspetto puramente creativo, soggettivo, l’atto spirituale dell’intuizione che si realizza
nell’espressione, ossia in un linguaggio che è perpetua creazione (critica crociana e idealistica),
oppure lo status economico e sociale, i rapporti con le istituzioni, la formazione culturale e morale,
l’ideologia e la visione del mondo, la maggiore o minore consapevolezza storica e/o tensione verso
il cambiamento.
 Centralità del testo; all’inizio del Novecento furono soprattutto i linguisti, impegnati a studiare il
funzionamento della comunicazione verbale, a riscoprire la centralità del testo per sottolinearne le
componenti linguistiche nella loro relativa autonomia. Testo come insieme strutturato di parole e
come sistema linguistico stratificato mirando a cogliere e a definire la «letterarietà», ossia quelle
condizioni intrinseche che farebbero letterario un testo.
A partire dai formalisti russi, iniziatori di questo indirizzo teorico, si cominciò ad affermare che il
linguaggio poetico costituisce uno «scarto dalla norma», una sorta di deviazione rispetto alla lingua
standard, e, secondo la teoria dell’arte come procedimento, soprattutto che l’identità semantica
dell’opera letteraria è indissolubilmente legata alla peculiarità della sua forma. A seconda degli
scopi che si propone di conseguire chi parla o scrive, infatti, la lingua viene usata in modi diversi (o
con funzioni diverse). La «funzione» è dunque il modo (forma) in cui la lingua viene adoperata in
relazione allo «scopo» (intenzione) per cui un dato dato messaggio è stato formulato.
Le teorie e il metodo dello strutturalismo linguistico, oltre che alla critica letteraria, si estesero
all'antropologia), alla psicoanalisi, alla psicologia, alla teoria sociale e all'epistemologia.
La letteratura venne concepita come un sistema segnico che, per dirla con Roman Jakobson,
costituisce una «violenza organizzata» commessa ai danni del linguaggio ordinario.
La consueta relazione tra segno e referente viene disarticolata e liberata dalla consuetudine della
percezione. Il segno acquista così un valore in sé. L’arte restituisce all’oggetto una nuova luce e una
rinnovata dimensione di sensibilità attraverso il procedimento dello «straniamento», ossia
mediante la sottrazione, appunto, dell’oggetto stesso dall’automatismo della percezione, dal suo
ordinario «riconoscimento», per essere riconvertito in «visione».
La rivoluzione linguistica, antropologica e filosofica novecentesca ha insegnato, come già scritto,
che il senso che diamo al mondo è il nostro discorso del mondo, il linguaggio è «la casa dell’essere».
Se in principio è la parola, e quindi la lingua, e se la lingua genera il testo, la mediazione tra l’uomo
e il mondo avviene tramite il testo. Il rapporto dell’Io col mondo è mediato dai linguaggi, cioè dal
simbolico.
Ma, per la psicanalisi, anche il rapporto dell’Io (centro della mente cosciente) con l’Altro Io
(l’inconscio) – entrambi costituenti il Sé (totalità psichica di elementi consci e inconsci) – è mediato
dal linguaggio, e il significato profondo dell’inconscio si nasconde, ad esempio, nelle immagini
simboliche dei nostri sogni.
Il sogno è una sorta trasformazione dei pensieri in immagini, il materiale onirico prende forma
attraverso i meccanismi della condensazione e dello spostamento, ossia della metafora e della
metonimia. Grazie al linguaggio artistico, ad alto tasso di figuralità e ad alta densità connotativa e
simbolica, si possono perciò aprire dinanzi al critico varchi insospettati e insospettabili attraverso i
quali poter scandagliare le profondità dell’inconscio. Attraverso l’analisi, ad esempio, dei temi e dei
motivi ricorrenti, delle isotopie sememiche, delle figure archetipiche, delle metafore ripetute, si
può scovare sotto il testo letterario, l’«altro testo», abitato dal rimosso e dalle pulsioni celate, per
recuperarne le verità nascoste e carpirne il significato profondo.
 Centralità del lettore; Un altro criterio utilizzato per comprendere e definire il letterario si è invece
fondato sul destinatario, sul lettore, sul pubblico, sulla «ricezione» del testo.
Ad introdurre un'originale riflessione teorica sui problemi dell’«estetica della ricezione»
(rezeptionästhetik) ponendo al centro il lettore - in un rinnovato rapporto in termini di biunivocità
tra destinatario e testo e tra letteratura e storia - furono prima Hans Georg Gadamer e poi gli
esponenti della cosiddetta Scuola di Costanza, Wolfang Iser e Hans Robert Jauss.
Secondo tale orientamento, per cercare di determinare il corpus dei testi letterari e tentare di
coglierne le stratificazioni di senso - poiché è illusorio sia sorprendere nella sua pienezza
l’intenzione dell’autore- ci si deve affidare alla competenza estetica ed ermeneutica di chi legge, o
meglio all’interazione tra esperienze storiche diverse, quella dello scrittore e quella del lettore. Non
essendo possibile una comprensione «oggettiva» di opere culturalmente e temporalmente lontane
da chi le fruisce, diviene metodologicamente inevitabile predisporsi alla soggettività relativa propria
di un farsi interpretativo dinamico, condizionato dalla situazione storica e culturale di chi legge.
Sarebbe dunque impossibile trovare caratteristiche «intrinseche» ad un testo che consentano di
accertare una volta per tutte e con sicurezza la sua natura letteraria (come invece avevano
sostenuto i formalisti). Quindi il problema non sarebbe più tanto di individuare ciò che farebbe
letteraria un’opera, quanto semmai di comprendere come, dentro il generale sistema della
comunicazione, essa storicamente funzioni ed agisca.
In questo rapporto comunicativo sarebbe il destinatario a mettere il messaggio in primo piano, non
il messaggio a porre al centro se stesso. Perché la letteratura prenda vita, il ruolo, la funzione e la
partecipazione del lettore non sono perciò meno importanti di quelle dello scrittore.
Si spiegherebbe in questo modo perché può capitare che si possa prendere per letteratura «quello
che non lo era nelle intenzioni dell’autore, o anche (ma più raramente) prendere per non letterario
un discorso inteso come letterario.
L’opera letteraria è quindi una sorta di microcosmo di significazione che si attiva solo nella pratica
della lettura, che a sua volta si sviluppa nel tempo e nello spazio, modalità attraverso cui il testo
viene storicamente fruito, definito e considerato.
L’ermeneutica ci ha insegnato che il destinatario, figlio del suo tempo, ha i suoi paradigmi, i suoi
pre-modelli o modelli interpretativi pre-costituiti (visione del mondo e della letteratura).
In tal modo i valori e le «verità» del testo scaturiranno dal rapporto e dal «dialogo» interattivo e
simbiotico tra passato e presente, tra il lettore e l’opera.
 Centralità del contesto e del referente; per quanto riguarda più specificatamente gli orientamenti
otto-novecenteschi, critica storicista, marxista e sociologica. Il presupposto di base del pensiero
marxista è che l’arte abbia una genesi storica; essa nascerebbe per motivi di necessità concreta in
un contesto ben definito. Questa concezione implica l’impossibilità di dare della letteratura una
definizione universale.
Secondo Marx ed Engels la produzione artistica apparterrebbe alla sovrastruttura ideologica di una
società storicamente determinata e sarebbe profondamente condizionata dalla struttura
economica, ossia dalla totalità dei rapporti di produzione e di potere tra le classi e dalle reali
condizioni di vita degli uomini. A sua volta la sovrastruttura, orientata e diretta dalla borghesia,
classe egemone che detiene i mezzi di produzione, concorrerebbe a formare la coscienza sociale.
Solo i radicali cambiamenti nella base economica e il conseguente rovesciamento dei rapporti di
forza tra le classi, produrrebbero una trasformazione della suddetta sovrastruttura.
Ma senza un’arte «realista», capace di disvelare le contraddizioni del sistema e di smascherare
l’opera mistificante delle ideologie dominanti, il proletariato non potrebbe prendere coscienza
della propria condizione di subalternità e di marginalità. Dentro una tale concezione ideologica e
prospettiva politica, si può ben comprendere quale «rivoluzionaria» funzione pedagogica e di
«verità storica» dovrebbe avere la letteratura e quale ruolo dovrebbero rivestire l’intellettuale e
l’artista. L’arte è riportata alla sua dimensione diacronica, a un contesto particolare inteso come
intreccio di rapporti economico-sociali e di potere tra classi.
Il grande pericolo starebbe nella deriva meccanicista e determinista di una teoria che a un certo
punto rischia di non tenere più conto delle complesse mediazioni che esistono tra arte e società,
l’autonomia della prima rende ab imis non meccanico il rapporto tra i due universi, come non
meccanici e non pre-determinati sono i rapporti di causa-effetto che ne deriverebbero.
Per Lukàcs, invece, l’arte è un prodotto della società ma è altresì e nel contempo il suo
«rispecchiamento».
 Realtà e finzione; un altro dei criteri utilizzati a latere per determinare, indagare e valutare il testo
letterario si è fondato sulla differenza tra realtà e fantasia. Più precisamente si tratta di un
approccio che si è orientato sullo studio e sulla valutazione della natura stessa del referente, sulla
situazione o sul contesto a cui il messaggio testuale rimanda, quindi sulla realtà extralinguistica. In
base a questo cosiddetto «criterio di verità» le opere scaturite dalla fantasia e dalla sensibilità
dell’autore sarebbero letterarie.
Quindi anche se la vicenda (si pensi ai Promessi sposi) è ambientata in un paesaggio reale e in
un’epoca storica ben precisa, in quanto prodotto di un atto di finzione (perché costituita di fatti
inventati) sarebbe da annoverarsi nell’ambito della letterarietà. Per converso, le opere che hanno
un referente cosiddetto «vero», il cui mondo rappresentato anziché fantastico è «reale», farebbero
invece parte di altre tipologie testuali. A tal riguardo, ad esempio, l’Origine delle specie di Charles
Darwin verrebbe catalogata nell’insieme dei testi non-letterari, perché è un trattato scientifico che
descrive leggi biologiche in parte dimostrabili e verificabili.
Il «criterio di verità» si dimostra, nel contempo, fuorviante e fallace.
Fuorviante quando si esca dall’esempio specifico e si decida di spostarsi e di calarsi dentro altre
coordinate spazio-temporali: Il Principe di Machiavelli e il Discorso sui massimi sistemi di Galilei, ad
esempio, sono entrambi dei trattati che però il pubblico del XVI e del XVII secolo avvertiva, sentiva
e concepiva come letterari. Ferdinand De Saussure nel Novecento ci ha insegnato che la lingua è
geneticamente estranea al referente; De Saussure si discosta dalle precedenti considerazioni
storico-naturalistiche della lingua che invece ponevano fra segno e cosa, fra segno e realtà, un
rapporto necessario e motivato, come se nella parola fossero implicite le caratteristiche stesse della
cosa.
Già Aristotele aveva criticato con la nota proposizione: «la parola “cane” non morde». Morde
l’animale cane. Detto questo, non c’è dubbio che nel leggere un’opera letteraria «noi
sottoscriviamo tacitamente un patto con l'autore, il quale fa finta di dire qualcosa di vero e noi
facciamo finta di prenderlo sul serio.
Nel fare questo ogni asserzione romanzesca disegna e costituisce un mondo possibile e tutti i nostri
giudizi di verità o falsità si riferiranno non al mondo reale ma al mondo possibile di quella finzione».

La letteratura: un sistema integrato della comunicazione

Si intende per sistema un insieme integrato di elementi coordinati e connessi tra loro tramite reciproche
relazioni di solidarietà e interazione. Ogni elemento (o sottosistema) concorre per proprio conto e in
rapporto simbiotico con gli altri, a determinare il senso globale e l’identità del sistema, che si comporta
come un’unità funzionale organicamente strutturata avente regole proprie. La modifica o l’ingresso nel
complesso integrato di un solo elemento, cambia l’equilibrio e l’identità del sistema stesso.

La comunicazione

Quotidianamente viviamo immersi dentro una quantità enorme di sollecitazioni e di informazioni che ci
provengono dall’esterno. Oggi più che mai siamo subissati da un flusso comunicazionale fatto di parole, di
immagini, di suoni, di odori, di sapori, di colori, di gesti, vera sostanza del nostro essere e del nostro
esistere.

Possiamo dire che senza comunicazione non è data vita di relazione, non è data conoscenza. Comunicare
(dal latino CUM, «con», e «MUNIRE», «legare», «costruire») significa, infatti, mettere insieme, mettere in
comune nello spazio e nel tempo esperienze, idee, sentimenti, informazioni.

La comunicazione, nel suo significato più generale, è dunque un passaggio di informazioni tra un
EMITTENTE, che codifica e invia un MESSAGGIO (o un SEGNALE), e un DESTINATARIO, che lo riceve
(EMITTENTE → MESSAGGIO → RICEVENTE).

Il messaggio, prodotto grazie alla selezione e combinazione di segni all’interno di un CODICE (linguistico,
verbale, gestuale, visivo, prossemico, cinesico, ecc.), utilizza un supporto fisico, un CANALE (o CONTATTO),
attraverso il quale passare (ad esempio, le onde sonore, un filo telefonico, un libro, ecc.). La scelta del
canale e del codice è strettamente legata alla natura e alle caratteristiche del messaggio, del contesto e del
ricevente. Una comunicazione rivolta ad un pubblico ufficiale, ad esempio, o ad un’alta carica istituzionale o
autorità religiosa richiederebbe, in linea di massima, la scelta di un canale scritto (versus orale), oltre che di
un codice adeguato al profilo dell’interlocutore. Qualora, invece, si volesse comunicare al buio con una
persona lontana, si dovrebbero adottare canali e codici sonori (versus visivi). Se volessimo, infine e per
converso, comunicare con un non udente, dovremmo escludere il canale sonoro e prendere in
considerazione quello visivo e tattile. Si definisce rumore (o disturbo o alterazione o interferenza) l’insieme
degli elementi che ostacolano il passaggio del messaggio. Il processo comunicativo può essere verbale e
non verbale, può avere una natura bidirezionale (i soggetti coinvolti possono essere, come in un dialogo, a
un tempo emittenti e riceventi) e, affinché si realizzi, è necessario che esista identità di codice (insieme di
regole di combinazione condivise) tra emittente e destinatario. L’emittente può essere umano o non umano
(ad esempio, un suono, una luce intermittente, un colore), un singolo o un gruppo, consapevole o non
consapevole. Il ricevente può essere distinto (IO → EGLI) o coincidente con l’emittente (scrittura di un
diario: IO → IO) e, da questi, previsto o non previsto, e anch’esso umano o non umano (si può comunicare
col cane), un singolo o un gruppo. Il messaggio che passa è l’atto di comunicazione.

I mezzi che servono per comunicare sono detti SEGNI. Il CODICE è, perciò, un sistema di segni e l’insieme
delle norme relative al loro uso. Possiamo dunque dire che si intende per comunicazione qualsiasi processo
in cui sono implicati dei segni, qualunque sia il rapporto tra emittente e ricevente.

Si avrebbe comunicazione solamente quando l’emittente invia, consapevole di farlo, delle informazioni a un
destinatario). L’atto comunicativo, per essere tale, deve concludersi con la ricezione del messaggio da parte
del destinatario.
Il contesto e il referente

Un atto comunicativo non si realizza nel nulla, e la sola conoscenza del codice non è sufficiente per
garantire la piena comprensione di un messaggio. Esso si inserisce semmai, sempre e comunque, dentro un
reticolo di relazioni, in un quadro di altre informazioni comuni all’emittente e al destinatario, linguistiche ed
extralinguistiche.

Questo reticolo di relazioni si chiama CONTESTO. Senza contesto, dato strutturale dal quale non si può
prescindere, non è data comunicazione.

Si parta dal CONTESTO LINGUISTICO, molto utile al filologo, ossia l’insieme delle frasi che precedono e
seguono una determinata unità di contenuto e il quadro delle informazioni che si trovano dentro il testo.

Le funzioni del co-testo nell’interpretazione linguistica possono essere molteplici. La conoscenza del
contesto è importante per l’identificazione dei referenti, in presenza di elementi deìttici che servono a
collocare l’enunciato nel tempo e nello spazio e a identificare atti locutori e prospettive dei protagonisti di
eventi verbali.

La conoscenza del contesto linguistico, soccorre infine, per la comprensione di parole o espressioni
polisemiche, ambigue, incomplete, implicite.

Per comprendere appieno il messaggio, inoltre, il destinatario deve, come già scritto, far ricorso a
informazioni relative alla situazione extralinguistica, alle condizioni ambientali e fisiche entro cui si svolge
l’atto comunicativo (CONTESTO SITUAZIONALE).

Il segno

Con il termine SEGNO si indica qualsiasi fenomeno, fatto, manifestazione, gesto, atto, parola, espressione
che significa o comunica qualcosa. Esso è un elemento minimo.

Diciamo che il segno è qualcosa che sta per qualcos’altro), al posto di qualcos’altro, ossia il REFERENTE,
l’oggetto o l’evento a cui il segno rinvia, esso rappresenta il fondamento della comunicazione stessa.

Il segno è formato dall’unione di un significante e di un significato.

Il significante è la forma materiale, cioè qualcosa che può essere ascoltato, visto, annusato, toccato o
gustato, mentre il significato è il concetto mentale ad esso associato.

Tra il segno e la cosa rappresentata può esistere un rapporto naturale di causa ed effetto o di causa
presente ed effetto futuro.

Esistono, dunque, diversi tipi di segni, NATURALI (INDICI) e ARTIFICIALI (SOSTITUTIVI e PRODUTTIVI). I segni
naturali non sono intenzionali, non presuppongono cioè una volontà di comunicare, per cui è il solo
destinatario («interprete») a desumere, interpretare, attribuire senso e nominare; quelli artificiali sono per
converso intenzionali (esiste la consapevolezza e la volontà del mittente a comunicare) e con essi si entra
perciò nella sfera del «linguaggio».

TRA I SEGNI NATURALI, gli INDICI sono segni riferibili a fenomeni al di fuori di una convenzione prestabilita
e sono basati sul rapporto causa-effetto.

Tra i SEGNI ARTIFICIALI i sostitutivi sono quelli che convenzionalmente stanno al posto di qualcos’altro,
mentre i produttivi sono quelli che si generano mediante le tecniche del riconoscimento. Tra i SOSTITUTIVI
ricordiamo i SEGNALI, la cui decifrazione è garantita dalla conoscenza, da parte del destinatario, del codice,
dei segni convenuti (segnali di fumo per comunicare la propria presenza in un luogo); i SEGNI ICONICI
(disegni, fotografie, carte geografiche, registrazioni, diagrammi, onomatopee, ecc.); i SEGNI VISIVI
ASTRATTI, come gli iconogrammi, gli emblemi, i simboli araldici; gli INDICI VETTORI, sorta di deittici, i
SIMBOLI, SEGNI LINGUISTICI.

Tra i PRODUTTIVI, che comprendono molti segni visivi, ricordiamo i SEGNI OSTENSIVI, estrinseci e intrinseci.
I CARATTERIZZANTI e i CARATTERIZZANTI.

Il modello più conosciuto e condiviso di SEGNO LINGUISTICO è quello teorizzato da Ferdinand de Saussure.
Esso si basa cioè sul dualismo (BIPLANARITÀ) proprietà costitutiva di tutti i segni, come precedentemente
scritto tra significante e significato.

Il SIGNIFICANTE, o «espressione», è la parte o la faccia fisicamente percepibile del segno.

La natura del segno linguistico è, dunque, astratta.

Significante e significato sono dunque due facce di una medaglia, sono inscindibili e si rinviano
continuamente a vicenda. Il loro legame nelle lingue storico-naturali è fondamentalmente arbitrario
(ARBITRARIETÀ), nel senso che non esiste alcun legame naturalmente motivato, o rapporto logico e
necessario fra significante e significato.

Non c’è nessun legame naturale né collegamento motivato logicamente tra, ad esempio, l’idea di ‘cavallo’ e
la catena di suoni e/o grafemi («c+a+v+a+l+l+o»).

Si distinguono quattro tipi di ARBITRARIETÀ: è arbitrario il rapporto tra SEGNO e REFERENTE (non esiste
alcun legame motivato né naturalmente né logicamente, né di derivazione dell’uno dall’altro, tra il segno
«cavallo» e l’animale cavallo); è arbitrario il rapporto tra SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO (non esiste alcun
legame motivato né naturalmente né logicamente tra la catena di suoni e di lettere «c+a+v+a+l+l+o» con il
significato «mammifero erbivoro di grossa taglia, con testa allungata, orecchie dritte e corte, collo slanciato
ornato di criniera, arti snelli, zampa con un solo dito ricoperto dallo zoccolo»); è arbitrario il rapporto tra
FORMA e SOSTANZA del significato (ogni lingua ha i propri criteri di estensione e/o circoscrizione di
senso);12 è infine arbitrario il rapporto tra FORMA e SOSTANZA del significante (in latino, ad esempio,
ĀNUS, vuol dire «anello», mentre ĂNUS, significa «vecchia»).

La natura del segno linguistico testimonia di un’altra caratteristica fondamentale della lingua: la
CONVENZIONALITÀ. Tutti i segni mediante i quali avviene la comunicazione sono convenzionali perché
risultato di un processo storico, culturale e di un accordo linguistico (LANGUE), stabilito all’interno di un
gruppo più o meno vasto di persone, in base al quale a determinati significanti è stato attribuito il compito
di esprimere determinati significati.

Langue e parole

Ferdinand de Saussure chiarisce il carattere di SISTEMA DELLA LINGUA come un tutto organico e solidale la
cui dinamica la SINCRONIA (la simultaneità) e la DIACRONIA (l’evoluzione storica) è garantita dal rapporto
tra sistema astratto e realizzazione concreta, tra sistema e uso, tra LANGUE (la lingua come struttura
astratta, arbitraria e convenzionale, come istituto, grammatica, sistema costante che vive e si attua nei
parlanti) e PAROLE (come produzione, atto linguistico concreto, materiale e contingente, come uso
particolare, individuale e mutevole che del sistema fa il parlante).

Un sistema di segni geneticamente estraneo al referente

Alla luce di quanto scritto precedentemente si può affermare che la lingua sia geneticamente estranea al
referente.

I segni assumono un significato nel sistema linguistico per la loro posizione rispetto agli altri segni, piuttosto
che per il legame con gli oggetti che designano o evocano.
La COMUNICAZIONE LINGUISTICA è un circuito verbale che si stabilisce tra due persone. Essa consiste in
uno scambio di parole tra un soggetto locutore e uno interlocutore.

La LINGUA è, infatti, il codice che veicola tutti i codici. Con essa è possibile parlare di tutto, attribuire
un’espressione a ogni contenuto (ONNIFORMATIVITÀ e ONNIPOTENZA SEMANTICA), tradurre qualsiasi
messaggio formulato con altri codici, codificarne di nuovi e di inediti.

Secondo Jakobson, ai sei fattori della comunicazione verbale corrispondono altrettante «funzioni» del
linguaggio:

 l’EMOTIVA (o ESPRESSIVA), s’incentra sugli stati d’animo;


 la CONATIVA si basa su una sorta di opera di imposizione esercitata dal mittente sul destinatario
con espressioni caratterizzate dalla presenza di vocativi, imperativi, esortativi;
 la POETICA pone al centro dell'attenzione la scelta e la disposizione delle parole, il loro valore
fonico, le peculiarità espressive, le figure retoriche del significante e del significato;
 la METALINGUISTICA riferita al codice, tende ad evidenziare le modalità di definizione e di
funzionamento della lingua stessa;
 la FÀTICA riferita al canale, al contatto, verifica il funzionamento del canale sul quale viene
veicolato il messaggio e assicura la continuità dell’attenzione del destinatario;
 la REFERENZIALE si basa sul referente o sul contesto, ossia su ciò di cui si parla, sull’oggetto del
discorso, e assolve lo scopo di fornire informazioni.

Le funzioni - quindi i modi (forme) con i quali si usa una lingua in base agli scopi - non si esplicano mai
singolarmente, ma sinergicamente.

Altre proprietà e funzionamento della lingua

La LINGUA si basano sui principi della COMBINATORIETÀ di tali unità, della LINEARITÀ, ossia della loro
realizzazione secondo una successione crono-topica, della DISCRETEZZA o DIFFERENZA dei segni e della
COMPLESSITÀ SINTATTICA.

Il significante è scomponibile a due livelli in parti più piccole: a un primo livello, in segni dotati di significato
(MORFEMI) a loro volta utilizzabili per codificare altre parole (cavall-o, cavall-i, cavall-a).

A un secondo livello, in più piccole unità di significante prive di significato (FONEMI) che combinandosi
costituiscono morfemi (c,a,v,a,l,l).

È l’EQUIVOCITÀ, che si fonda sulle relazioni e corrispondenze plurivoche tra significante e significato
(polisemia, omonimia, sinonimia).

Nell’atto della codificazione di un messaggio (atto di parole), infatti, il mittente si trova ad affrontare due
momenti: il momento della scelta delle parole e quello della loro combinazione secondo le regole della
grammatica. Quindi si definisce asse paradigmatico l'insieme dei segni verbali scelti tramite associazione dal
serbatoio della langue per comporre la catena di parole e asse sintagmatico il concatenamento degli
elementi comunicativi considerati nel loro rapporto di contiguità.

Le lingue ed il linguaggio

Una lingua fornisce la «facoltà del linguaggio») e fatto costitutivo della cultura di un popolo, trasmessa per
tradizione.

Il linguaggio è universale, in quanto capacità comune a tutti gli esseri umani di comunicare, le lingue
storiche-naturali sono particolari, in quanto sistemi segnici propri di una comunità di parlanti storicamente
e culturalmente insediata in un territorio.
Secondo Whorf, esponente del relativismo linguistico, il nostro modo di percepire e pensare sarebbe
condizionato dalla struttura linguistica che ci è peculiare.

La letteratura – un sistema integrato della comunicazione – 2

Il testo e le tipologie testuali

Il TESTO, dal latino TEXTUS (‘tessuto’, ‘trama’, ‘intreccio’), è un enunciato, un'unità logico-concettuale, un
insieme di parole, orali o scritte, connesse tra loro a vari livelli e organizzate secondo le regole di una
determinata lingua con l’intenzione e lo scopo di comunicare qualcosa. Possiamo dire che esso sia un
sistema realizzato di segni linguistici.

Le sue caratteristiche sono l’intenzionalità, la coesione, la coerenza.

Esistono varie tipologie testuali. In base all’intenzionalità e allo scopo dell’emittente, alle sue capacità
linguistiche e concettuali, al tipo di destinatario, al patto comunicativo, alle circostanze, ai canali di
trasmissione, cambiano le funzioni della lingua, le modalità compositive, i generi di discorso e le
caratteristiche costitutive di un testo.

Sulla loro classificazione esistono quattro fondamentali orientamenti: il primo, di tipo funzionalistico-
cognitivo, si basa su tre variabili extralinguistiche (lo scopo che ci si prefigge nell’atto comunicativo, il
destinatario a cui ci si intende rivolgere, il contesto situazionale in cui avviene la comunicazione) che
condizionano le scelte linguistiche e su cinque tipologie (testo descrittivo, narrativo, regolativo, espositivo e
argomentativo);

il secondo, di tipo pragmatico, classifica i testi, sulla base di criteri di tipo linguistico (materia da trattare,
genere di discorso, forma testuale) e soprattutto in base ai diversi gradi di esplicitazione e costrizione
comunicativa in tre categorie principali: con discorso molto vincolante, con discorso mediamente vincolante,
con discorso poco vincolante (i meno espliciti e più ambigui, ossia i testi letterari); il terzo, di tipo didattico,
classificando i testi in base alle capacità linguistiche e concettuali richieste per la loro codificazione,
distingue tra testi autonomi e testi mimetici; il quarto orientamento, di tipo diamesico, preferisce
differenziare tra testi orali e testi scritti.

I TESTI NARRATIVI raccontano storie, eventi ed esistenti in una dimensione diacronica, verticale,
cogliendone le connessioni temporali ed i rapporti di causa ed effetto, secondo un ordo naturalis
(successione logico-cronologica degli eventi) oppure secondo un ordo artificialis (libera dinamica degli
eventi, con rotture e/o distorsioni temporali, analessi e prolessi). Testi narrativi letterari sono i racconti, le
novelle, le fiabe, i romanzi; non letterari sono gli articoli di cronaca, le cronache storiche, le biografie e le
autobiografie, le relazioni di viaggio, gli aneddoti, i verbali ecc.

I TESTI DESCRITTIVI rappresentano la realtà con una visione sincronica, colta nella sua orizzontalità spaziale,
dettagliata o d'insieme, di oggetti, ambienti, situazioni, persone, stati d’animo. Sono testi descrittivi le guide
turistiche, i cataloghi delle mostre e dei musei, i bollettini meteorologici, le descrizioni letterarie di luoghi e
personaggi ecc.

I TESTI ARGOMENTATIVI sono quelli in cui l'autore, intenzionato a sostenere le proprie opinioni su una
determinata questione, vuole convincere il destinatario della bontà e della giustezza di una tesi, attraverso
l'impiego di una strategia che si basa sul ragionamento e sull’analisi degli elementi utili ad
un’argomentazione volta alla difesa delle proprie ragioni e alla confutazione delle teorie e/o ipotesi
contrarie. Sono testi argomentativi tutti quei saggi in cui l'autore espone e motiva una sua personale ipotesi
interpretativa, gli articoli di fondo, gli scritti d'opinione, le arringhe degli avvocati, i discorsi politici, il tema
scolastico ecc.
I TESTI ESPOSITIVI (o INFORMATIVI) presentano idee e illustrano argomenti, spiegandoli e mostrandone
l'organizzazione con chiarezza, organicità e coerenza. Sono testi espositivi i manuali scolastici, le
enciclopedie, le opere o gli articoli di divulgazione scientifica, i trattati letterari, le guide turistiche ecc.

I TESTI REGOLATIVI (O IUSSIVI), infine, sono quelli che trasmettono leggi, norme e prescrizioni, forniscono
istruzioni, danno ordini, invitano o incitano a fare qualcosa e presuppongono che il destinatario riconosca
l'autorità dell'emittente. Vi prevalgono le formule conative, gli imperativi, i congiuntivi esortativi. Sono testi
regolativi i testi giuridici, i regolamenti, le avvertenze, i manuali di manutenzione e d’istruzioni per l'uso, le
ricette, molti volantini e manifesti ecc.

Quid est litteratura?

«la letteratura è quell’insieme di TESTI del PASSATO E DEL PRESENTE che OGNI EPOCA RITIENE LETTERARI».

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