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Critica letteraria

La ragione in contumacia

• Capitolo 1: una premessa e qualche domanda (da pagina 3 a pagina 13)


C’è un limite oltre la quale la critica letteraria diventa critica della vita? C’è un punto in cui l’interpretare un’opera
può diventare notizia del mondo ben oltre la letteratura?

Personaggio importante fu Franco Brioschi che nella sua opera nella Mappa dell’impero del 1983 distinse tra: opera e
testo.

L’opera è una “costruzione simbolica” attuata dal lettore con l’atto della lettura. Il testo invece ci rappresenta solo un
“insieme di tracce di inchiostro”.

Altro personaggio importante fu Marcel Proust che ad inizio secolo aveva drasticamente distinto l’Io che vive dall’Io
che scrive. Oggi, però, le cose non sono così semplici: l’autore si è rivelato come un’entità NON riconducibile né alla
vita, né alla scrittura, MA come risultato della loro misteriosa contaminazione. Benché l’Io che scrive torni a
moltiplicarsi/polverizzarsi nella fama infinita dei personaggi di un’opera, chi legge sarà piuttosto interessato a ciò che
quel personaggio avrà da confessargli. Il vero nodo da sciogliere NON riguarda il lettore in carne ed ossa, quello che
mentre leggere continua a vivere. Si deve vedere la distinzione tra:

- Lettore implicito: detto anche archilettore o lettore modello. È una vera funzione semiotica che lo stesso testo
postulerebbe.
- Lettore: che legge mentre vive e proprio perché vive mangia, dorme e sogna.

La figura del Critico Militante: ha una funzione di servizio! Al lettore dal volto umano non interessa la critica
letteraria, se non in quanto critica della vita. Esempio noto: Benedetto Croce.

C’è una contrapposizione tra critico letterario e critico militante. La differenza si basa su:

- Critico letterario: in quanto critico della vita. Per lui la vita è tutto ciò che abbiamo, quindi valore massimo e
inalienabile, ma che comporta anche dei patimenti e delle sconfitte che dobbiamo accettare. Se si rivolge al
lettore lo fa solo per una funzione basata sulla letteratura consolante, ma non consolatoria.
- Critico militante: è solo un critico della vita che indossa la divisa d’ordinanza delle letterature: quindi, si può
definire come un empirico che non potrebbe mai rinunciare alle disordinate occasioni della vita di tutti i giorni.
Infatti, esso, ama sorprendersi e cambiare sempre idea. Egli non fa teoria, ma non può non avere una propria
teoria, o almeno, una di riferimento e ispirazione (si tocca il campo della filosofia).

 Capitolo 2: Perché la critica? (da pagina 13 a pagina 37)

Nel secondo capitolo si inizia parlando di Ronald Barthes, più propriamente del suo saggio del 1966, dove l’autore
risponde al suo accusatore Raymond Picard che individuava i suoi idoli polemici:

- La soggettività: parte che avrebbe compromesso tutta la storia della critica prima della rivoluzione linguistica
attuata da Saussure.
- Nozioni di giudizio e gusto
- Concetti di verosimile, oggettività e chiarezza

Barthes quando parla di scrittura pensa alla nozione fornita da Jacques Derrida, ossia: “puro spazio significante,
volume d’iscrizione, di citazioni”. È lo spazio dell’infinito intrattenimento: quello in cui – per citare Maurice
Blanchot- l’autore trova la sua morte. Dentro questo spazio molto impersonale, la letteratura è sottoposta ad un
processo di svuotamento di ogni ideale morale, ideale e umanistico. Inoltre, è il regno dell’ipertestualità dove la critica
diviene citazione. Tutto è anonimo. Quando la teoria comincia a imporre la propria legislazione, dei critici non c’è quasi
più traccia. In Italia la situazione è differente, in quanto, grazie al gruppo dei giovani sabotatori: Brioschi,
Berardinelli e Di Girolamo, si lavorava alla decostruzione della teoria, che possiamo definire come la crisi della teoria
che implicò il ritorno ad una concezione soggettiva della Critica, ritorno a quel saggismo di cui proprio Berardinelli,
diversi anni dopo avrebbe tracciato la storia con il libro “La forma del saggio” (2002). Barthes fu tra i fondatori più

autorevoli ed ottenne diversi incarichi di governo. Per arrivare al nocciolo della questione purtroppo bisogna operare
una drastica schematizzazione: la teoria della letteratura del ‘900, in massima parte è stata variante autoritaria di
platonismo, di un Platone coniugato con Saussure, Freud e Marx, per arrivare alla conclusione che il lettore ingenuo
(colui non ancora abituato ed addestrato ai misteri del metodo della scienza della letteratura, viva la sua vita come
<sottosopra> dentro una realtà che rimane sempre la stessa, che non cambia, monolitica e inossidabile, del capitalismo
conclamato. Il lettore a cui i teorici della letteratura si rivolgono è quell’ “uomo incatenato” nella caverna del mito
platonico della Repubblica, colui che scambia ritenendole vere, le ombre che vede nel fondo dalla nascita rispetto alle
figure che gli passano dietro nella luce dell’aperto e quelle ombre che proiettano. Alla teoria della letteratura lasciamo il
compito di ricondurre l’idea di questa condizione di servitù e di spezzare i lacci e le catene, di riportare il lettore
ingenuo alla luce della verità, di emanciparlo dai falsi idoli, quali senso comune, la disposizione al giudizio, la necessità
del gusto. Strumentario al quale il lettore si avvicina cercando notizie di sé o del mondo.

Notevole importanza continua ad assumere la figura del critico militante perché esso analizza questa visione quindi:

- Non crede che al mondo si possa dare qualcosa di più stabile di quelle ombre proiettate nella caverna
- Lavora per conservare le penombre del mondo delle apparenze, si affida all’incerto e vacillante
movimento delle opinioni
- Non crede che la verità stia sempre e comunque nel sovvertimento del senso comune
- Non disprezza le istanze della verità e bellezza, che però vengono collegate al gusto e al giudizio (pensare
è giudicare) che inizia nel ‘700 con l’Illuminismo
- Non aspira a fare la guida del lettore, ma è piuttosto un lettore che vuole vederci più chiaro

- Conserva un’unica suprema illusione, quella che la ragione sia l’unico luogo possibile d’una
condivisione, intersessuale e interculturale, interclassista e internazionale.
- Per lui la ragione è l’unico luogo possibile di una condivisione (il suo è un illuminismo trascendentale) in
questa parte assume notevole importanza il concetto trascendentale di Immanuel Kant. Per lui
L’ALTRO non può e non deve essere unitizzato, l’altro siamo noi.
Zeev Sternhell, con il volume ‘Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda (2006) anche con una mole
non indifferente di dati è riuscito a dimostrare che dal ‘700 ad oggi non c’è stata una lotta tra modernità e reazione ma
due forme diverse di modernità: da una parte la modernità portatrice di valori universali, diritti naturali e di un’idea di
ragione come unico criterio di legittimità con cui giudicare ogni istituzione umana, sostenitrice della grandezza
dell’uomo padrone del proprio destino; dall’altra invece una modernità >comunitaria, storicista, nazionalista> secondo
cui l’individuo è determinato e limitato dalle origine etniche, dalla storia, dalla lingua e dalla cultura. Diciamola tutta, la
sua ricostruzione funziona, salvo che per l’ovvio livello d’ astrazione sul piano della storia e delle idee, ma quando si
sposta da un piano descrittivo ad uno prescrittivo finisce per cadere nello stesso errore dei detrattori dell’illuminismo, la
troppa disinvoltura forza le posizioni.

Perché è importante la critica? La risposta è semplice, la critica è fondamentale per spingere sempre più avanti il
processo di autocomprensione e di autocoscienza degli individui all’interno del proprio sistema culturale. La critica,
quindi, dirà che la nostra libertà è messa meno in gioco da ciò che affrontiamo, con più o meno coraggio, che dall’idea
che ci facciamo della nostra conoscenza e dei suoi limiti.

 Capitolo 3: Pensare la letteratura: del giudizio, del gusto e del genio. (da pagina 37 a pagina 73)

Questo capitolo si apre parlando della critica e dandone una vera e propria definizione: la critica quando è vera è
sempre militante e antagonista. La critica è sempre critica di qualcosa e nel passaggio da un dominio all’altro il discorso
potrebbe cambiare, non solo nella retorica dell’argomentazione, ma anche relativamente alle sue regole costitutive. La
critica vive sempre e comunque delle sue premesse trascendentali, non si esercita su qualcosa di astratto, ma solo nel
campo dove può avere un’applicazione reale. Possiede un’identità regionale e multipla, per dirla in altri termini. Questo
postulato è stato formulato da Foucault.

Abbiamo invece due visioni ben distinte con Roland Barthes e Mario
Lavagetto.
Roland Barthes, nel suo libro “Critica e verità”, entra in aperta polemica con la

“vecchia critica” e con il mito del primato della “lettera” nell’interpretazione dell’opera, poiché il lavoro della filologia
è fondamentale, ma è comunque preliminare, poiché la critica non è ancora tale. Mario Lavagetto invece, in
“eutanasia della critica” del 2005 dice che “la critica NON è (né può essere) una semplice constatazione, non può
limitarsi a descrivere e a catalogare: deve cercare qualcosa che c’è, che è nel testo e che ne determina il corretto
funzionamento”.
Ma in sostanza, di che cosa parliamo quando parliamo di giudizio di gusto? Per spiegare ciò dobbiamo fare una
bipartizione tra:

- Il giudizio in generale: è la connessione di un soggetto con un predicato


- Il giudizio di gusto o di valore: è la predicazione della bellezza relativamente rivolta ad un prodotto letterario,
abolire il giudizio di gusto significherebbe rinunciare alla critica. Un esempio di ciò si può cogliere dal
seguente enunciato: “i promessi sposi di Alessandro Manzoni sono un’opera d’arte bella.” (fai discorso
seguendo pagina 48-49-50)

Questo è dovuto dal fatto che il piacere del bello NON ha niente a che vedere col piacere del piacevole. Inoltre, il
piacere del bello NON ha niente a che vedere col piacere del “buono” dove il buono è ciò che ognuno apprezza e
approva. Ma che tipo di piacere è quello che tutti cerchiamo di congiungere all’incontro con un’opera d’arte bella?
Questo quesito è di facile risoluzione: NON è un piacere arbitrario e universalizzabile. Perfino per Kant l’opera
d’arte bella è “ciò che fa pensare molto”

Infine, si può parlare di bellezza letteraria che si basa su due fattori fondamentali:

- Non coincide con la chiarezza


- Vive della forza dei propri ossimori

Le opere d’arte belle aprono e fondano dei mondi. Così facendo si danno da sé stesse la propria regola, quella regola
che i critici ogni volta provano a identificare, accordandosi a ritmo della danza dei fantasmi interiori. La definizione di
genio invece ci viene data da Kant che definisce questa categoria come: “l’autore” di un prodotto che egli deve a sé
stesso e alla sua attività creatrice

Capitolo 4: fare letteratura la critica come genere letterario (da pagina 73 a pagina 99)

Si parte a studiare questo capitolo dal concetto di letteratura (intesa come complesso di scritti in prosa e in versi,
appartenenti ad una determinata lingua, o in riferimento a un certo periodo storico-culturale, che acquistano un qualche
valore artistico o aspirano ad esso). Diciamo che la nozione è recente nella storia della nostra civiltà. È un campo che ci
costringe sempre ad una riflessione trascendentale sulle sue condizioni di possibilità, ma è anche vero che ad essere
indicate come letterarie sono state le opere più diverse.

Vediamo ora la sostanziale differenza che esiste tra letteratura e critica.

- La letteratura: pur esistendo sempre come corpo di valori e disvalori, si modifica continuamente negli
elementi ce la vanno a costituire.
- La critica:< è uno strumento e un modo di conoscenza, ma anche un genere letterario> deve essere
considerata come un insieme aperto e variabile, non si può dare critica senza conoscenza. Il critico, quindi,
trova e ritrova ciò che nell’opera c’era già, ma che cos’è questa verità?

Analizziamo in questo capitolo il punto di vista dei seguenti personaggi: Barthes, Pamuk e Garboli.

Il primo nel suo saggio del 1968 “l’effetto del reale” dice che: la referenza è solo un’illusione del linguaggio. Il
realismo è il risultato di convenzioni testuali, non diverse da quelle che regolano la tragedia classica o il sonetto. Per
l’autore in letteratura noi non abbiamo a che fare con la realtà, ma con un effetto di reale.

Pamuk invece affermava che: “l’arte del romanzo è il talento di raccontare la propria storia come se non appartenesse a
sé stessi, ma fosse di un secondo individuo. L’arte della critica è anche il talento di riproporre e restituire quella storia,
la storia di un estraneo a misura del lettore, della sua esistenza e del suo destino.

Per Garboli esistono due tipi di categorie:

- Gli Scrittori- scrittori: che sono quelli deputati alla creazione, colui che lancia le sue parole nello spazio dove
cadono in un luogo sconosciuto
- Gli Scrittori- lettori: che sono quelli deputati ad inventare, vanno a prendere queste parole e le riportano a
casa.

Il critico, pur essendo a tutti gli effetti uno scrittore, NON è uno scrittore in competizione con un altro scrittore e
bisogna fare molta attenzione a non confondere i due ruoli che ricoprono.

Ma come possiamo rispondere alla domanda: come si può definire la critica? La critica sono i critici. Il critico, infatti,
realizza pienamente sé stesso, solo se sa tradurre la sua posizione in un duplice atto di responsabilità. Tra i critici
annoveriamo: Contini, Debenedetti, Garboli, Berardinelli, Fortini, Onofri e tanti altri…

Proprio quest’ultimo avanza una proposta di illuminismo militante e trascendentale, che serve a riformare i doveri di
una ragione, confortato dalla certezza che la critica resti l’unica possibilità dell’uomo e del cittadino per farlo uscire dal
suo stato di perenne minorità.

Capitolo 5: la critica, il canone e la democrazia (da pagina 99 a pagina 116)

Concetto fondamentale di questo ultimo capitolo è il canone. Per affrontarlo dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a
quello che affermava Bloom. Nel suo, discutibilissimo, saggio “canone occidentale” del 1994 scrive che il canone è
spiegabile come il “ministro della morte”. A lui risponde Onofri col saggio “il canone letterario” del 2001 dove si
chiede quale sia il rapporto e la connessione tra critica e democrazia.

Si parla di CORE CURRICULUM COURSES. Ma cosa sono quest’ultimi? La risposta è semplice, sono quegli
insegnamenti di base introdotti alla Columbia University che tutti gli studenti erano obbligati a frequentare.

2 sono i corsi di base:

- Literature Humanites: dedicato ai capolavori della letteratura antica e moderna


- Contemporary Civilization: testi principali della filosofia e scienze sociali. Il nostro focus ora si sposta
sull’analisi del canone nel 1900. Esso viene definito come:

o È un insieme di opere cui la tradizione egemonica conferisce un valore particolare e supremo, di


bellezza suprema e verità, ritenendone doverosa la salvaguardia, la conoscenza e la trasmissione.
o È un complesso di capolavori vari

Lo studioso Said definisce il canone come: un focus che ha il vantaggio di conoscere bene le tradizioni diverse da
quella occidentale. Da autentico umanista, l’autore, ritiene imprescindibile la categoria dell’estetico. Propone quindi un
approccio del tutto diverso, incentrato sul cosmopolitismo per un ritorno alla grande tradizione filosofica.

Onofri nel suo saggio “il canone letterario” afferma che è chiaro che il concetto di canone ha avuto due declinazioni:

- Il canone come regola (secondo ideali di razionalità e rigore)


- Il canone come autorità (si veda il corpus juns canonici)

Solo la democrazia, secondo Onofri, potrà rendere possibile quell’autorevolezza e quell’autorità.

Come si impostano però la scuola e il mercato nei confronti del canone? La risposta è la seguente:

 Scuola/università: sono fondamentali nell’allestimento del canone corrente. Due sono le vie: 1) come luogo
di trasmissione del sapere 2) come critica in quanto tale;
 Mercato: oggi in questo campo il canone determina l’orizzonte di attesa

Detto ciò, la critica è in crisi? La critica muore? La risposta a questo quesito è no. In quanto, il critico resta
per Onofri il più affidabile “addetto alla memoria selettiva della civiltà”. Ogni critico diventerà ciò che è solo
se resterà costitutivamente e liberamente polemico. Se quindi utilizza la Polemos, ovvero, la vera divinità della
critica.

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