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La morte

In un paper del 1970 il filosofo Thomas Nagel si pone una domanda a un tempo estremamente
banale e irricevibile: “dato che, come molte persone credono, la morte è l’inequivocabile e
permanente fine della nostra esistenza, si pone la questione se sia una brutta cosa morire”. La
morte è un male in sé oppure no? Posto che la morte sia la fine definitiva della nostra vita (non c’è
niente dopo), Nagel si chiede se essa sia un male in sé, che tipo di male e quanto grande.

L’argomento di Nagel parte da qui: se la morte è un male, deve esserlo non per le sue caratteristiche
positive, ma per quello di cui ci priva. Il bene di cui ci priva sarebbe ovviamente la vita e ciò che ne
consegue: percezione, desiderio, pensiero. Sembra tuttavia che il valore della vita non si riduca alla
mera sopravvivenza organica. L’asimmetria tra la vita e la morte è molto interessante: il vantaggio
della vita sta nello stato di essere vivi, mentre lo svantaggio della morte non sta nello stato di essere
morti, ma nella perdita del vantaggio di essere vivi. Secondo Nagel, la morte non è considerata
indesiderabile come stato di incoscienza. Se infatti quello stato di incoscienza fosse temporaneo,
come nel caso di un’ibernazione che mantenesse inalterato il numero di anni di vita, nessuno di noi
lo riterrebbe un male.

Se la morte è un male perché ci priva di un bene, cioè della vita, si pongono tre questioni. La prima
è che tutto può essere negativo per un uomo senza essere spiacevole per lui, perché per esempio non
se ne accorge. Il secondo problema è a quale soggetto si dovrebbe attribuire la morte come
eventuale male, se il soggetto in questione non esiste più (obiezione fatta da Epicuro). La terza
obiezione, sempre di matrice epicurea è l’idea di Epicuro che dolersi di non poter vivere dopo la
morte sarebbe insensato come dolersi di non aver potuto vivere prima di essere nati.

Nagel risponde a tutte queste obiezioni e conclude che la morte è un male perché, essenzialmente
“il tempo dopo la morte di qualcuno è tempo di cui la morte lo priva. È tempo in cui, se egli non
fosse morto, ci priverebbe”. La morte ci priva delle possibilità di un tempo futuro, della reiterazione
dei beni che la vita ci ha reso familiari. È per questo motivo che la morte precoce viene considerata
un male peggiore: una vittima giovane viene privata di molti più anni di vita e di molte più
possibilità rispetto ad una vittima anziana. Un male che per la nostra specie è inevitabile rimane
comunque un male? Il filosofo ammette che lo è dalla nostra prospettiva, non dall’esterno. Infatti
“osservati da fuori, gli esseri umani hanno un arco di vita naturale e non possono vivere più di cento
anni. Il senso che ha un uomo della sua stessa esperienza, invece, non incarna quest’idea di un
limite naturale. La sua esistenza definisce per lui un futuro possibile essenzialmente aperto, che
contiene la mistura usuale di beni e mali che egli ha trovato tollerabili nel passato”. È forse la stessa
idea di Heidegger in fondo? La possibilità ultima della morte ci rivela la nostra esistenza come
apertura alla possibilità, come esserci? Non so e non so se la morte sia un male, ma penso che
rifletterci non lo sia affatto.

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