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Nasce a Copenaghen nel 1813 , figlio di un ricco commerciante e di una cameriera, visse la sua infanzia in
maniera molto infelice, segnata dalla morte di cinque fratelli e da un’educazione particolarmente legata
alla fede cristiana. Pubblicò varie critiche nei confronti della Chiesa danese nel periodico Il Momento.
Muore a Copenaghen a soli 42 anni l’11 Novembre 1855.
LA CRITICA ALL'HEGELISMO
Diversamente da Hegel che considerava la Ragione la vera e unica realtà che si realizza in un processo
dialettico in cui gli opposti sono conciliano, per Kierkegaard le alternative possibili dell’esistenza non si
lasciano conciliare (aut-aut). Per cui non esiste la verità oggettiva, ma la verità del “singolo”, cioè la verità
è soggettiva in quanto è legata all’esperienza del singolo individuo. (e’ vero ciò che è vero per me)
Lo scopo della sua filosofia è proprio quello di inserire la persona singola, con tutte le sue esigenze, nella
ricerca filosofica.
Diversamente da Hegel che considerava il genere umano superiore al singolo individuo, Kierkegaard
invece pone l’attenzione sul singolo, sull’uomo concretamente esistente, affermando che il singolo è
superiore al genere umano.
Il singolo è la categoria propria dell’esistenza umana nel senso che l’esistenza corrisponde alla realtà di
ogni singolo individuo. Il filosofo stesso afferma che avrebbe voluto far scrivere sulla sua tomba solo
l’espressione “Quel singolo”.
Di conseguenza egli si oppone anche al panteismo idealistico che pretendeva di identificare Dio e uomo.
Egli, invece, afferma la differenza qualitativa tra Dio e uomo, cioè tra infinito e finito.
L'ANGOSCIA
L’angoscia, secondo Kierkegaard, fa parte dell’esistenza umana e nasce dall’incertezza, dal dubbio delle infinite
possibili alternative di scelte che l’uomo ha davanti a sé nella vita. E’ diversa dalla paura che invece si prova
davanti ad una situazione o un pericolo chiaro e preciso. L’angoscia è un sentimento che nasce dall’infinità o
dall’indeterminatezza delle possibilità ed è un sentimento tipicamente umano nel senso che viene provato solo da
chi ha spirito.
DISPERAZIONE E FEDE
La disperazione si riferisce al rapporto dell’uomo con se stesso, quindi riguarda il suo io. L’uomo infatti può volere
se stesso ma in questo modo sceglierebbe la propria insufficienza e finitezza e non sarebbe mai adeguato né averà
pace; oppure può non volere essere se stesso ma annullando così il rapporto con sé si distruggerebbe, ricadendo
nella disperazione. In ogni caso, ci si imbatte nella disperazione, che è un’autentica malattia mortale, poiché essa è
il vivere la morte dell’io, cioè è la negazione del tentativo umano di rendersi autosufficienti o di evadere da sé. Ma
se ogni uomo è malato di disperazione, l’unica terapia efficace contro di essa è la fede, ossia quella condizione in
cui l’io non si illude sulla sua autosufficienza, ma riconosce la sua dipendenza da Colui che lo ha posto e che, solo,
può garantire la sua realizzazione. L’uomo deve quindi «volere» la disperazione, poiché riconoscendosi in preda ad
essa egli può volgersi alla ricerca di una salvezza. La disperazione di cui parla Kierkegaard non è la disperazione
finita che discende dalla perdita di beni mondani (ad es. di una persona cara o di un patrimonio); ma la disperazione
infinita che discende dalla propria insufficienza esistenziale. Infatti, se la prima costringe l’uomo a “rinchiudersi” in
sé e nel finito, la seconda lo spinge ad uscire “fuori di sé” e ad aprirsi all’Assoluto. Di fronte all'instabilità radicale
dell'esistenza costituita dalla possibilità, la fede si appella alla stabilità del principio di ogni possibilità (Dio).