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Era danese e sin da piccolo si descriveva malinconico e profondo, parla di un terremto della sua vita

e di una gravissima colpa che lo perseguita. Si ritiene che questa colpa sia del padre, che un giorno
salì su un monte e maledì Dio per tutte le sue sventure. Da quel momento tutti i suoi figli tranne due
perirono e il padre inculcò questo senso di colpevolezza ai figli e introdusse Soren Kierkegaard alla
carriera ecclesiastica, ma questi poi scelse la filosofia. È possibile che Soren non avesse mai portato
a compimento un fidanzamento per paura di trasmettere la colpa a dei propri figli; potrebbe esser
anche una metafora della sifilide.
Kierkegaard poteva fare il prete ma scelse la filosofia perché non voleva stare alle dipendenze dello
Stato, in quanto le religioni nordiche sono tutte statali.

È in polemica con Schelling, che riteneva insopportabile da ascoltare, ed Hegel che, pur
rispettandolo, critica per la sua idea che il vero è l’intero e che il singolo si risolva sempre nello
Spirito universale. Dove Hegel finisce, lì comincia il Cristianesimo.
Kierkegaard critica entrambe queste idee. È il singolo a possedere la verità, la verità è sempre per
me, non esiste una verità universale. Ogni esperienza è singolare e unica e non può essere
ammucchiata con quella degli altri. L’uomo non può spiegare l’infinito perché tra finito e infinito,
tra uomo e Dio, esiste una differenza qualitativa oltre che quantitativa. Impossibile dunque questa
comprensione.
Critica la triade hegeliana: per lui i conflitti non si risolvono in una sintesi pacificatoria, bensì
l’uomo è riempito di scelte. Ogni scelta esclude tutte le altre per sempre e le perde per sempre; non
è possibile riacquistarle in un momento positivo o negativo. Per comprendere Kierkegaard bisogna
capire l’angoscia: non c’è nulla che spaventi di più l’uomo che prendere coscienza dell’immensità
di cos’è capace di fare e di diventare. Questa frase spiega appieno la filosofia di Kierkegaard.
Davanti all’uomo c’è un futuro, che è pieno di scelte possibili, potenzialmente infinite, e ogni
scelta non sappiamo a cosa condurrà. Condurrà a infiniti scenari imprevedibili e per ogni scenario
positivo ce ne sono 100 negativi. Di fronte all’uomo finito c’è un abisso infinito di possibilità e tutte
queste possibilità, una volta che viene fatta una scelta, collassano e resta solo quella che l’uomo
sceglie e tutti gli infiniti scenari differenti sono perduti per sempre. Questa è l’angoscia, il
sentimento dato dalla possibilità (Kant la chiamava capacità). L’uomo è chiamato dal peso
dell’infinito ed è schiacciato da questo potere enorme che ha di perdere tutto l’infinito ogni volta
che fa una scelta, di tutte le possibili eventualità del futuro. Il filosofo danese malinconico si
definiva per questo “discepolo del nulla” e manifestava per questo nella sua vita questa indecisione.
Kierkegaard non scelse mai, rimase sempre nel forse. Scegliere significa far collassare tutte queste
possibilità. “Ci sono uomini il cui destino deve essere sacrificato per gli altri, in un modo o
nell’altro, per esprimere un’idea. Ed io, con la mia croce particolare, fui uno di questi”. Per questo
usò molti pseudonimi, non era mai un solo uomo, voleva esserli tutti e nessuno, poiché gli era
impossibile attualizzarsi in uno solo, e tutte queste scelte non si risolvono in una dialettica
hegeliana, in cui scegli prima la tesi, poi passi all’antitesi e poi tutto ciò che è accumulato finisce
nella sintesi; ogni scelta esclude per sempre le altre.

Il libro più famoso di Kierkegaard si intitola Aut aut, ossia o così o così. Il libro ci mostra due dei
tre stili di vita che come uomini possiamo adottare e non c’è uno stile superiore, sono due modi che
Kierkegaard mostra nei loro pregi e difetti, è il lettore a scegliere da che parte stare.

Parte dalla vita estetica, rappresentata da Don Giovanni, che è colui che di fronte a tutte le scelte
non ne fa nessuna e vuole vivere in una eterna adolescenza e non scegliersi mai una vita adulta
definitiva. Ha mille donne ma non ne ama nessuna, vuole tutti i piaceri e bandire la noia, vive
nell’attimo fuggente, qui ed ora, tutto è fugace nella sua vita. Sceglie di non scegliere. Questo stile
di vita però genera la noia, perché nulla gli basta, e la disperazione, il non avere nulla veramente
che duri. L’uomo si trova quindi in questa situazione di disperazione e dalla disperazione può
scegliere la vita etica.
Tra la vita etica e quella estetica c’è un abisso. La vita etica è rappresentata dal giudice Guglielmo; è
una vita basata sulla durata, sulle cose stabili, continue, sul rispetto della legge, la vita in cui ci si
sposa, si lavora, si fanno figli, si fa una scelta e si rinuncia a tutte le altre. Si sceglie di confermare
quella stessa scelta per tutta la vita, fedele se stesso e al dovere, sottoporsi ad una forma e adeguarsi
hegelianamente ad un universale. Questa è la vita che la società vuole da te; tuttavia questo stile di
vita si basa sulla ricchezza della storia di una vita, una vita fatta di cose belle ma anche di errori, che
devono essere accettati in eterno e non si può tornare indietro. Questo porta al pentimento; se il
passato genera angoscia è perché si teme che possa ricapitare, se si è invece superato il peccato si ha
il pentimento. L’atto peccaminoso rimane nel passato, immutabile e che ci perseguita ed è per
questo che non si scappa dal pentimento. L’uomo deve affrontare il suo male e deve affrancarsene;
infatti il terzo stile di vita, spiegato in Timore e tremore (già il titolo non ci parla di felicità e
semplicità), è la vita religiosa.

La vita religiosa è ancora più lontana dalle prime due e richiede un salto della fede nell’abisso,
rappresentato da Abramo. Nella vita religiosa si ottiene il pentimento perché l’uomo religioso non è
più connesso alla società, ma è alienato dalla società (per questo vive nel deserto), ed è diverso da
tutti gli altri, connesso all’Assoluto, a Dio, all’Infinito.
Dio è un qualcosa di inconcepibile, di incomprensibile, che si manifesta solo a te come singolo e
solo tu puoi capirlo e nessun altro. Tutti gli uomini sono discepoli. Famoso è l’esempio di Abramo
che appunto deve sacrifricare il proprio figlio perché Dio gliel’ha chiesto. Non è un sacrificio come
quello di Agamennone,che è Re; sacrifica la figlia per aiutare il proprio popolo in guerra,
obbedendo all’etica ed è inserito nel tessuto sociale. Abramo fa qualcosa di orribile, qualcosa per
cui tutti lo odiano, qualcosa che sembra contraddire l’etica umana perché l’Infinito è un qualcosa
che va oltre l’umanità stessa ed è un rapporto da vivere personalmente nel silenzio (infatti lo
pseudonimo e De Silenzio). Non vive immerso nelle cose di questo mondo. Kierkegaard pone una
religione distaccata dalla logica e dalla morale; la religione per Kierkegaard non deve avere senso,
ma proprio il contrario. La fede è scandalo e paradosso, Dio non pensa, egli crea. Dio non esiste,
egli è eterno. La differenza tra finito ed infinito è tale che ogni categoria umana non basta per Dio.
L’esistenza implica il distacco (ex sistere= stare fuori).
Per Kierkegaard il passaggio biblico che indica l’umanità di Cristo è proprio ciò che tu fai
affrettalo, ovvero l’angoscia per il futuro, tipica di un umano. La religione è paradosso, l’infinito e
la trascendenza, l’invisibilità, il miracolo, si basa sulla fede. L’uomo fa peccato e riconosce la
propria dipendenza da Dio, che però è visto positivamente perché a Dio tutto è possibile e quindi la
fede è più importante della virtù (qui si vede l’ottica protestante: la fede è sopra le buone azioni). A
differenza di Socrate, da cui eredita l’ironia, per Kierkegaard la verità non è interna all’uomo (che
quindi dovrebbe tirarla fuori), viene invece da fuori, da Dio. L’uomo deve essere ricreato nel
battesimo. È importante l’idea di Epifania, ossia di come l’infinito si manifesta nel finito, nel tempo
presente in maniera folgorante, l’eternità si rende evidente al singolo qui ed ora e mai più, per cui
l’incarnazione è il massimo esempio. Tale manifestazione sarà diversa da ogni fedele ogni volta.

Kierkegaard distingue l’angoscia (ansia dovuta dalle scelte) e la disperazione (ansia dovuta a se
stessi perché o non ci accettiamo per come siamo e quindi crediamo in un qualcosa di falso e
rimaniamo delusi oppure ci accettiamo come esseri limitati e non autosufficienti, il che significa
disperarsi). Quando l’uomo si sente privo di possibilità, è come se gli mancasse il respiro, ha
bisogno di sapere che ha queste possibilità e la fede è la concettualità ultima con cui sente le infinite
possibilità. L’uomo privo di angoscia (il povero di spirito) vive felice, ma è schiavo delle
circostanze, come una palla che rimbalza senza avere potere su di sé. La disperazione è definita
come malattia mortale non perché conduce alla morte dell’Io, ma al vivere la morte dell’Io perché
l’Io è mancanza di necessità e mancanza di libertà. Credeva nell’apocastasi e che quindi tutti
saremmo finiti in Paradiso, cosa che crea il paradosso più grande di tutti: il piccolo (finito) è
importante perché destinato a diventare infinito.
Elogiò Feuerbach dicendo che attaccava i finti cristiani. È considerato come precursore
dell’esistenzialismo nel suo concentrarsi sulla condizione umana e come l’uomo si pone sui concetti
dell’esistenza.

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