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INTRODUZIONE
Il sistema dell’arte occidentale si trova oggi a misurarsi con altri modelli di sviluppo solo
in apparenza analoghi, ma invece portatori di grandi cambiamenti che potrebbero mettere
in discussione lo stesso sistema occidentale e il suo statuto di modello unico a cui
uniformarsi. I primi indizi sono emersi negli anni ‘80 quando l’arte è cominciata a diventare
un business economico di una certa rilevanza <- questa è stata una premessa del
fenomeno della globalizzazione e se si aggiunge la caduta in quel periodo del concetto
di avanguardia, si capisce come gli anni ‘80 siano stati lo spartiacque tra un prima e un
dopo, tra l’arte come fatto esclusivo ed elitario e l’arte come fenomeno globalizzato e
collettivo. Ci sono stati comunque indizi premonitori della situazione degli anni ‘80, sia per
quanto riguarda il cambiamento del modo di considerare l’arte sia per l’allargamento del
sistema dell’arte a culture e paesi prima non coinvolti nel modello occidentale > in
particolare fondamentale è stato il passaggio di capitale dell’arte da Parigi a New York
negli anni 50 e l’affacciarsi dell’arte giapponese sul mercato mondiale più o meno negli
stessi anni. Ciò nonostante, il cambiamento fondamentale si è innescato negli anni ‘80 e
corrisponde alla globalizzazione in arte, cioè l’attenzione sempre più evidente del
mercato per i paesi emergenti definiti con la sigla BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica). Per quanto riguarda il rapporto tra sistema dell’arte occidentale e nuove culture
che lo modificano, un ruolo importante l’ha giocato la Cina. Un’altra osservazione è che il
sistema dell’arte in via di globalizzazione e il sistema macroeconomico mondiale mostrano
similitudini evidenti: i comportamenti, le attitudini e le scelte sembrano ripercorrere lo
stesso percorso che il commercio e l’industria globalizzati hanno compiuto nei confronti di
tutte le altre merci. È di fondamentale importanza valutare attentamente le prospettive
future del sistema dell’arte globalizzato, che incidono non solo sulla diffusione dell’arte o
sulla sua produzione quantitativa, ma sul concetto stesso di arte -> un cambiamento
sostanziale del sistema dell’arte senz’altro non porterebbe alla morte dell’arte, ma alla fine
dell’arte come concepita oggi.
idea di arte dalla forza pervasiva e che si è diffusa in tutto il mondo con l’accettazione
globalizzata delle sue regole (culturali ed economiche) si gioca il rapporto tra Occidente ed
Oriente. La caratteristica principale dell’arte come si è sviluppata in Occidente è il fattore
“novità”, cioè l’idea che l’introduzione di elementi, forme e relazioni nuove all’interno
dell’opera sia un valore positivo > la possibilità di introdurre nei codici espressivi prestabiliti
elementi di novità è frutto della vocazione evolutiva della civiltà occidentale, sin dalle sue
prime formulazioni classiche. La storia dell’arte occidentale è caratterizzata da
cambiamenti di stile, tecnica, temi e concetti e quando questa attitudine si è misurata con il
sistema produttivo capitalistico (dopo il periodo di conflitto delle avanguardie storiche) si è
adattata perfettamente alle nuove esigenze produttive. Ciò che però ha dato un
dinamismo straordinario al sistema dell’arte dall’inizio del novecento è stata l’accettazione
del nuovo come valore principale del linguaggio artistico e nel mercato mondiale dell’arte
questo è divenuto un valore assoluto. Quando si parla di arte contemporanea si intende
un modello elaborato in Europa e negli Stati Uniti nel novecento, le cui regole si sono
sviluppate quindi in quel contesto -> il sistema dell’arte si può definire come un sistema
economico che ruota attorno a un prodotto, l’opera d’arte, la cui peculiarità sta nel
possesso di una qualità molto più difficile da quantificare rispetto ad altri prodotti e dove la
caratteristica della novità costituisce parte dei requisiti per il successo. Il sistema dell’arte
comprende la produzione, diffusione e collocamento di un prodotto, appartenente ai
cosiddetti beni di lusso, riconosciuto universalmente come espressione più alta di ogni
cultura. La capacità di imporre un modello artistico diventa un elemento strategico per ciò
che comporta l’interpretazione del mondo e lo stile di vita dei gruppi sociali che vi si
avvicinano -> per questo motivo l’arte ha una valenza politica non indifferente. Un esempio
significativo è stata la partecipazione statunitense alla biennale di Venezia del 1964,
quando gli artisti americani proposero la Pop Art come nuova tendenza e la biennale ne
sancì il trionfo immediato in tutto il mondo dell’arte. Il successo della Pop in
quell’occasione viene attribuito alla collaborazione della C.I.A., che aveva messo a
disposizione aerei per consentire l’arrivo in tempo delle grandi tele. Questo è un esempio
di come una potenza egemone miri pensi ad imporre un’immagine di sé come nuova
icona, non solo nella società civile, ma anche presso la cerchia degli intellettuali.
L’economia e la politica decidono le sorti dell’arte, soprattutto se questa si fa interprete e
portavoce dei loro stessi valori -> questa visione semplicistica è comunque quella diffusasi
in Occidente presso sistemi dell’arte di paesi non troppo avanzati (come l’Italia negli anni
‘80-90) e nei paesi emergenti come la Cina o l’India dove il fattore economico derivato dal
mercato rappresenta il movente di quasi tutti questi sistemi dell’arte. La questione che si
pone riguardo alla globalizzazione in arte è se il sistema reggerà all’impatto di nuovi
mercati, cioè se il sistema dell’arte occidentale possa costituire un modello valido per i
nuovi sistemi o se i nuovi mercati modificheranno il sistema iniziale inventato e sviluppato
in Occidente e il concetto stesso di arte. Un’altra ipotesi a lungo termine è che una
globalizzazione sempre più accentuata potrebbe anche rendere autonomi i sistemi dei
paesi emergenti e in futuro potrebbero valere nuovi valori artistici e nuovi modelli linguistici
non più legati al concetto occidentale.
Dal momento della nascita dell’arte moderna tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, con il
passaggio a un’epoca industriale dell’immagine (grazie alla fotografia e alle riviste) il
centro della cultura artistica mondiale era Parigi. Il suo primato non era mai stato messo in
crisi, tanto che quando la capitale dell’arte passerà a New York solo pochi europei si
accorgeranno del cambiamento. I motivi di questo mancato riconoscimento vanno cercati
nel senso di sicurezza dell’universalità e durata del sistema dell’arte europeo, concetto
comprensibile alla luce di una visione dell’arte molto eurocentrica. Nei due decenni tra la
prima e la seconda guerra mondiale Parigi era riconosciuta come la capitale unica e
indiscussa dell’arte. Se in passato il primato poteva essere minacciato da città come
Vienna e Monaco, nel primo dopoguerra Parigi non aveva rivali perché entrambe le città
appartenevano alle culture che avevano perso la guerra e quindi i loro modelli non erano
considerati attuabili. Inoltre l’affermarsi di ideologie totalitarie in Italia e in Germania aveva
lasciato Parigi senza rivali e la città si configurava come la meta di ogni viaggio di
formazione e conoscenza e come simbolo di libertà comportamentale. La libertà di
espressione e di costumi aveva fatto della città il centro del mondo artistico, anche
perché a partire dalla svolta impressionista erano state erette strutture operative e
commerciali fondamentali per il nascente mercato dell’arte. Negli anni ‘20-30 erano molti i
giovani americani che si riversavano a Parigi, ma se ciò denotava un maggior potere
d’acquisto e una ricchezza crescente negli Stati Uniti non rappresentava un’insidia
culturale. Dopo la prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano diventati un soggetto politico,
oltre che economico, di primaria importanza, ma la sfera della cultura sembrava ancora
dominio esclusivamente europeo.
Gli anni precedenti la seconda guerra mondiale videro Parigi accrescere ancora di più il
suo ruolo di meta degli artisti, soprattutto di quegli artisti che non si sentivano liberi nei
propri paesi d’origine causa dei totalitarismi. Alla vigilia della guerra a Parigi il surrealismo,
l’ultima avanguardia storica, non avevano ancora esaurito la sua carica e costituiva la
tendenza di riferimento della modernità. L’occupazione tedesca di Parigi e della Francia
durante la seconda guerra mondiale portò come immediata conseguenza per l’arte la fuga
di moltiartisti e il crollo delle relazioni internazionali del mercato dell’arte. Oltre il
rallentamento nella produzione di opere e una stasi nelle compravendite del mercato
artistico le conseguenze più profonde della guerra sull’arte furono quelle di una crisi ideale
difficilmente superabile. Nonostante il desiderio di ricostruire e le oggettive difficoltà
economiche, il conflitto aveva messo in crisi anche i modelli culturali vigenti, di cui Parigi
era la massima espressione. La guerra e il dopoguerra costrinsero gli artisti a interrogarsi
su un mondo che risultava totalmente cambiato nella sua essenza, mettendo in luce
l’orrore di cui l’uomo di era dimostrato capace. Nel mondo dell’arte il mercato è
sicuramente l’elemento più facilmente rinnovabile, perché il commercio si dirige dove ci
sono i mezzi > risulta facile comprendere come il sistema dell’arte si sia trasferito
nell’unico luogo in cui queste condizioni potevano manifestarsi: New York. I motivi di
questo spostamento sono evidenti: gli Stati Uniti erano la più grande potenza mondiale,
avevano vinto la guerra, erano tecnologicamente all’avanguardia, non avevano subito
distruzioni sul loro suolo e si proclamavano difensori della libertà. L’arte e la cultura
diventarono ben presto bandiere da sfruttare nel gioco politico: al blocco dell’Est che
controllava ogni espressione artistica sino a promuovere un’arte di stato, gli Stati Uniti
contrapponevano la massima libertà espressiva in campo artistico. Questa posizione di
libertà dell’arte sarebbe stata però vanificata se negli Stati Uniti non ci fossero stati
davvero le condizioni per una nuova spinta all’arte contemporanea < le condizioni che
favorirono gli Stati Uniti, come si è detto, sono state dettate dalla terribile situazione socio
politica europea, che va dall’ascesa del nazismo alla guerra civile in Spagna, dallo scoppio
della seconda guerra mondiale allo stalinismo. In una situazione in cui lo stalinismo
imponeva un’arte che fosse pura propaganda, il nazismo bollava “l’arte degenerata” e il
fascismo italiano adottava una politica autarchica anche in campo culturale, l’unica
possibilità per gli artisti era quella di emigrare l’elenco degli artisti che negli anni ‘30 si
stabilirono negli Stati Uniti è lunghissimo e comprende ad esempio Walter Gropius, Marcel
Breuer, van der Rohe, Josef Albers, Hans Hofmann, Matta, Yves Tanguy, Moholoy Nagy,
Duchamp a Picabia. L’elenco in realtà comprende due tipi di artisti:
- coloro che sono stati costretti ad emigrare, soprattutto artisti e architetti tedeschi - coloro
che scelgono gli Stati Uniti ritenendo la sua cultura più aperta verso la loro ricerca,
soprattutto artisti surrealisti o rivoluzionari del linguaggio (come Duchamp) -> sono proprio
gli artisti di estrazione culturale francese a trovare negli Stati Uniti la migliore accoglienza
grazie al rapporto privilegiato che gli intellettuali americani coltivavano con Parigi. Inoltre il
surrealismo incarnava quell’idea di modernità e novità artistica che si accordava bene con
la politica del New Deal
È passato come episodio marginale l’affacciarsi sulla scena dell’arte di artisti e movimenti
giapponesi, sin dalla metà degli ’50 > il riferimento è al gruppo Gutai, fondato nel 1954 da
Yoshihara e Shimamoto, ai quali si unirono poi altri artisti. Presente fin dal 1956 sulla
scena europea e americana, aveva una doppia anima: una performativa le cui azioni
avrebbero influenzato gli artisti americani che avrebbero dato vita agli happenings
(performances), e l’altra pittorica legata all’Informale con la ricerca sul gesto e sul segno.
La presenza del gruppo in Europa e America era la prima manifestazione di
un’espressione artistica “altra” e al contempo coerente rispetto al mondo dell’arte
contemporanea così come si stava strutturando dopo la guerra. La questione non
Gli anni ‘80 sono da ricordare per la caduta del muro di Berlino (1989) e il crollo dell’idea
socialista e comunista del blocco sovietico, collasso ideologico accompagnato dal
fallimento reale di quel modello di paese. Il collasso è avvenuto anche in virtù di un ideale
di vita, quello occidentale proposto negli anni ‘80, fatto di atteggiamenti, mode e oggetti di
consumo. Questi anni sono infatti caratterizzati da una distanza di comportamento tra i
due blocchi e in particolare dalla rinuncia da parte dell’Occidente a insistere su concetti
forti di libertà, per esaltare invece il raggiungimento di un benessere generico e ampio.
Alla fine è il modello di vita occidentale a vincere, con l’aumento
dei consumi, del benessere individuale e delle possibilità di divertimento > questo modello
culturalmente e tecnologicamente punta su una società fatta di elementi sempre più
immateriali, come le informazioni e la comunicazione; a questa “offerta” si aggiungono poi
gli elementi ideali e di comportamento che in quegli anni contribuivano al passaggio tra
modernità e postmodernità. Il passaggio dal pensiero della modernità al cosiddetto
“pensiero debole” postmoderno ha consentito una maggiore flessibilità sia del sistema
dell’arte sia dell’arte stessa: i concetti di “giusto” tipici della modernità sono stati sostituiti
da concetti post-moderni più deboli, ma più efficaci perché globalmente condivisibili. La
percezione, l’immagine di sé e del proprio mondo sono elementi evanescenti, ma anche
molto più facilmente comprensibili rispetto alla realtà e una volta liberati dalla concezione
del loro essere superficiali si stabilisce un’equivalenza tra immagine e cosa, percezione e
realtà questo fa parte della concezione che caratterizza il modello occidentale. Negli anni
’80 gli elementi macroeconomici o politici ovviamente hanno giocato il ruolo principale nel
porre le premesse della globalizzazione, cioè l’apparente riduzione del pianeta a modello
unico di pensiero e di sviluppo. I risvolti successivi testimoniano che l’adozione di un
modello unico non si è verificata, come dimostrano la prima guerra del Golfo nel ‘91 e le
grandi potenze asiatiche di oggi, Cina e India. Comunque, in quel momento si pensava ad
una transizione al modello di pensiero unico che avrebbe poi conquistato anche tutti gli
altri territori. La cultura degli anni ‘80, e soprattutto l’arte, ha contribuito all’allargamento
degli orizzonti > l’arte diventa in questo periodo anche un’opportunità economica, grazie
alla nuova popolarità raggiunta e dal suo ruolo di status symbol per le società civili ricche
che volevano dimostrarsi anche colte e alla moda. In quel decennio tutto è avvenuto così
rapidamente che non si può ipotizzare che ci fosse un vero e proprio progetto di
esportazione del sistema dell’arte occidentale, anche perché esso, solo in quel momento,
si stava strutturando come sistema articolato con ruoli definiti. Il mercato comunque ha
avuto un ruolo centrale grazie alla sua capacità di imporre modelli sotto forma di opere >
l’imposizione di modelli è stata possibile grazie all’ampia possibilità di scelta offerta dalla
produzione artistica che appariva come una sorta di supermarket delle idee, tradotte in
oggetto e quindi in merce.
All’inizio degli anni ’80 un’opera di Lucio Fontana costava pochi milioni di lire, alla fine del
decennio era venduta anche a 500 milioni di lire. Questo era sicuramente riconducibile a
dati oggettivi, come la maggiore circolazione di denaro, l’aumento di relazioni economiche
internazionali e l’aumento di nuovi ricchi attraverso la finanza, ma il motivo dominante è
che in quel momento l’arte contemporanea rappresentava l’idea di esclusività massima e
al contempo di popolarità l’arte contemporanea era diventata uno status symbol per
l’intero mondo occidentale. Ci sono un insieme di cause che hanno portato a questo
risultato. Nel passaggio dalla modernità alla postmodernità il desiderio di arte ha
conosciuto un’impennata: la postmodernità ha attribuito una maggiore importanza a
elementi immateriali, come le informazioni e l’arte, essendo l’esempio più sublime e
complesso di informazione, non è stata esente. L’arte e la cultura sono diventate così
parte di quel sistema di informazioni desiderate. Ci sono però indizi più concreti della
direzione presa dai desideri in una società complessa e ricca, come quella occidentale:
uno è l’aumento delle persone direttamente occupate nel settore terziario e in particolare
in quei settori dedicati al tempo libero > la gestione del tempo libero infatti è diventata una
delle prime industrie al mondo, che ha contribuito ad ampliare le possibilità di “coltivare lo
spirito”. Comunque, la frequentazione e l’ostentazione dell’arte rispondono a requisiti di cui
pochi altri “passatempi culturali” sono dotati, come per esempio l’idea di libertà assoluta
che circonda l’ambiente artistico o la visibilità che il mondo dell’arte garantisce a chi lo
frequenta queste sono le vere motivazioni che hanno creato lo status symbol per quella
società di nuovi ricchi in cerca di una veloce legittimazione. L’arte diventa dunque un
prodotto popolare e al contempo elitario, perché la frequenta ione è gratuita, ma il
possesso di no ed è quest’ultimo a conferire prestigio. Come tutti i prodotti di lusso, l’arte
deve essere infatti diffusa per essere conosciuta ma costosa per essere prestigiosa. La
vera novità che c’è stata riguarda il modo e la velocità con cui la vecchia struttura fatta di
conoscenza, studio e passione dell’arte è crollata di fronte all’irruzione del denaro in quel
settore > in pochi anni l’arte contemporanea è diventata un business, in cui il guadagno
su un singolo artista è stato all’incirca di 200 volte in neppure un decennio. Mai quanto
allora il valore di un’opera è stato associato al suo prezzo e anche se collezionisti come
Charles Saatchi sono pochissimi, il movimento internazionale che si è creato intorno a
queste figure fatto di seguaci delle mode lanciate da altri ha consolidato enormemente
l’idea dell’arte contemporanea come status symbol. Il motivo per cui è stata proprio l’arte
contemporanea a diventare status symbol delle società postmoderne è che l’arte
contemporanea è un prodotto molto più disponibile dell’arte antica ad esempio, e in più si
rinnova continuamente, consentendo di rispondere a una domanda sempre più vasta.
Un’altra novità di questi anni è l’inizio del passaggio dal collezionismo privato a quello
delle fondazioni o delle corporation, che lega l’idea di arte come status symbol a quelle di
art business e di speculazione economica. È proprio l’affermazione dell’arte come status
symbol a indurre tutto il ceto abbiente, anche in assenza di una passione particolare, a
interessarsi d’arte contemporanea, pena l’esclusione dal club dei detentori del gusto.
1) Dal 1985 il 1991 - prime aperture di Gorbacev e speranza del cambiamento > i segnali
d’attenzione dall’Occidente avevano contribuito a creare all’interno un clima di dibattito
sull’arte e sul sistema russi
2) anni ‘90 - fase di stagnazione economica e inflazione > il mondo dell’arte cerca di darsi
una struttura, imitando l’Occidente: nascono molte gallerie quasi tutte a Mosca, ma non si
sviluppa un solido mercato dell’arte. È un momento di quasi totale anarchia caratterizzato
da fervore culturale e produttivo e testimoniato dalla riunione in gruppo di artistici disposti
a interagire con le strutture di diffusione dell’arte senza alcun tipo di esclusività. Gli
intellettuali sono i promotori della nascita del sistema dell’arte, ma non hanno i mezzi per
svilupparlo ulteriormente
3) Dopo la crisi del 1997-1998 > la società si caratterizza per grandi ricchezze concentrate
in mani di pochi. Questa oligarchia deve però essere riconosciuta in patria e all’estero
come un’oligarchia illuminata e ciò può avvenire attraverso l’attività nel mondo dell’arte
contemporanea, e in particolare attraverso l’apporto di capitali con gli l’accettazione
acritica delle regole vigenti nella società capitalistica occidentale e il riconoscimento dei
suoi valori. In questa fase cambia però il soggetto alla guida del rinnovamento e del
dibattito, perché la guida viene tolta agli intellettuali e assunta dagli stessi finanziatori. Il
modello che si crea è
Con arte europea si intende l’arte continentale con l’esclusione dell’arte inglese, più affine
nel suo sistema al modello nordamericano. Le strutture espositive e di collezionismo
dell’Europa occidentale sono consolidate da tempo e ben radicate nelle singole culture
nazionali, ma nonostante ciò si avverte un declino dell’arte europea. Il fattore principale è
che l’arte europea stessa a suscitare minore interesse > la quantità di manifestazioni,
mostre e il movimento di denaro per il commercio di opere d’arte è ancora enorme in
Europa, rispetto ai mercati emergenti, ma è proprio alla considerazione che l’arte non è più
solo una faccenda occidentale ad aver mutato il modo di percepire l’arte soprattutto in
Europa. Il senso critico europeo, unito alla scarsa aggressività di atteggiamento
economico e mercantile, ha favorito la conoscenza di culture altre, ma al contempo ha
riconosciuto la perdita della propria centralità. Questa era già stata perduta in realtà nei
confronti del mondo inglese e americano, ma quel fenomeno era stato vissuto con uno
spostamento all’interno della stessa area culturale, linguistica e storica. Al contrario,
l’affacciarsi sulla scena dell’arte internazionale di altre culture, e soprattutto di altri modelli,
ha generato una percezione del declino dell’arte europea > l’arte e il sistema europeo, i
più aperti e i primi ad aprirsi alla globalizzazione, rischiano di rimanere emarginati dal
confronto tra vecchi concetti e nuovi comportamenti. A fronte di un’apertura delle frontiere
culturali si riscontra una mancanza di incisività dell’arte europea nel nuovo assetto
mondiale e un fattore che testimonia ciò è l’insieme delle grandi mostre istituzionali che
fanno il punto sulle tendenze dominanti e che dimostrano che dalla seconda metà degli
anni ‘80 l’arte europea ha perso continuamente quote di mercato, in favore del resto del
mondo. Da un lato si tratta di una naturale conseguenza dell’allargamento dei confini del
sistema dell’arte e dell’arrivo di nuovi soggetti sulla scena (arte cinese, indiana, brasiliana
etc), dall’altro sono proprio le motivazioni interne all’arte europea a risultare meno
interessanti su scala mondiale. L’arte europea oggi è globalmente percepita
come un’appendice del modello egemone anglosassone: nulla di diverso da quanto
accade anche sul piano economico e geopolitico. Tutto ciò è accentuato da fattori interni al
sistema europeo che, nonostante segnali di coesione, è ancora basato sulle singole
culture nazionali che risultano quindi svantaggiate trovandosi di fronte a culture più coese
(come quelle anglosassoni dove il fattore lingua e la matrice culturale le rendono più
compatte). La capacità delle nazioni di essere differenti all’interno del mondo globalizzato
non è un fattore positivo, ma penalizzante perché la differenza viene percepita e
considerata “minorità”. Si potrebbe obiettare che i valori nelle aste di artisti e opere
europee sono lievitati negli ultimi anni; ciò è vero in termini assoluti, perché per esempio il
mercato ha eletto a bene rifugio anche artisti italiani che hanno visto aumentare di molto il
loro valore (Fontana, Manzoni, Castellani e Boetti), ma non in termini relativi perché a
questi casi eccezionali fanno da riscontro tanti altri artisti di tutto il mondo e molto più
giovani che raggiungono o superano ampiamente gli stessi valori. Per un artista europeo
superare il milione di dollari in asta è qualcosa di eccezionale, mentre si assiste a
rendimenti assai maggiori di artisti extraeuropei -> ciò è segno di un declino dell’arte
europea! Inoltre è dalla metà degli anni ‘80 che non si afferma su scala mondiale nessun
movimento o tendenza proveniente da ambienti europei, perché l’attenzione del mondo è
rivolta a produzioni anglosassoni o extraoccidentali.
Quando si è affermato il concetto moderno di arte è emersa l’idea che il suo valore
dovesse essere basato sulla novità del linguaggio, dei soggetti del contesto e l’epoca
delle avanguardie e delle neoavanguardie ha esaltato questo concetto. A partire dal
Neoclassicismo la ricerca del nuovo è passata anche dall’idea di riscoperta di qualche stile
del passato mentre a partire dalla metà dell’ottocento la ricerca del nuovo si è configurata
come ricerca non più nel tempo ma nello spazio: è stato il caso ad esempio
del japonisme o della cosiddetta “arte negra” > in entrambi i casi si sono presi stilemi da
un modello lontano da innestare nel linguaggio artistico. Anche quando la fine delle
avanguardie ha decretato la possibilità che qualsiasi linguaggio funzioni, il desiderio del
nuovo non si è estinto, ma anzi si è accentuato e la sua ricerca è stata effettuata in culture
ritenute lontane e
svelano le dinamiche del mondo dell’arte a partire di solito dalla sfera della percezione
dell’opera da parte del fruitore e dell’attribuzione del valore. L’arte come metalinguaggio
oggi è quindi rivolta allo svelamento dei meccanismi che caratterizzano i rapporti interni tra
le varie componenti del sistema, anche se essa costituisce solo una minima parte
dell’intera produzione dell’arte.
Questi temi e andamenti dell’arte non fanno che accentuare quel senso di stanchezza che
pervade l’intero sistema e l’antidoto sarebbe un cambiamento deciso e un innesto di
nuove idee e forme. L’innesto di energie fresche non può che avvenire dal di fuori, da un
altrove che preme per entrare nel territorio codificato dell’arte; così il mondo dell’arte oggi
cerca apporti dalle nuove culture che si affacciano al suo mondo. Per accettare energie
fresche bisogna però per prima cosa riconoscerle > il concetto di fresco per molti aspetti
coincide con l’idea di naif, ingenuo, sempre però rapportato al livello alto del sistema
dell’arte occidentale. Poiché non è concesso a chi vive già in un sistema occidentale di
essere “ingenuo”, l’energia andrà cercata dove questo sistema non vige ancora o dove
una situazione di crisi ne ha sospeso le principali caratteristiche. La novità deve quindi
provenire da culture non ancora contaminate dalla storia del linguaggio o toccate da
avvenimenti straordinari da far pensare che a quella condizione eccezionale possano
corrispondere interpretazioni e risposte altrettanto uniche. Il contesto culturale e
geopolitico in cui l’arte viene prodotta diventa un elemento di novità e diventa il fattore
per definire nuova qualsiasi espressione artistica. Il sistema dell’arte maturo è disposto
quindi ad accettare anche espressioni artistiche già sperimentate in passato, purché
queste provengano da aree culturali nuove e desiderose di entrare a far parte del sistema
dell’arte occidentale. Questa “operazione d’accoglienza” è il risultato preciso di
un’operazione egemonica mirante a imporre un modello espressivo a tutto il globo.
All’inizio del novecento al di fuori del mondo occidentale tutto era “altro”, perché il pianeta
era per la maggior parte inesplorato nelle sue componenti culturali e perché il concetto di
egemonia culturale era molto radicato in Occidente. Dalla fine della guerra fredda (fine dei
blocchi Est-Ovest) il pianeta si allarga e contemporaneamente diventa più piccolo: non
esistono più confini, ma culture ed espressioni artistiche; interi continenti, come l’ex
Unione Sovietica, l’Asia non islamica, l’Africa, l’Oceania e il centro e sud America, sono
pronti per essere scoperti e inseriti nel sistema occidentale. Il sistema dell’arte si precipita
alla ricerca di nuove idee e artisti proprio in quei territori che promettono all’arte egemone
nuovi spunti e temi possibili, ma anche sbocchi mercantili ed economici. Negli anni ‘90 tale
ricerca si è svolta a tutto campo, coinvolgendo in maniera indifferenziata tutte le
culture altre e solo con il precisarsi dei nuovi assetti economici mondiali anche l’attenzione
del mondo dell’arte si è spostata verso quei paesi economicamente più promettenti.
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1) La tragedia dei Balcani con le guerre interne tra serbi e sloveni prima, poi serbi e croati,
serbi e bosniaci e infine serbi e albanesi. Tutte le etnie che si sono ribellate ai serbi sono
state gratificate di attenzioni da parte del mondo dell’arte, che ha contribuito così a
confermare i ruoli attribuiti alle controparti dalla politica, dall’economia e dal sentimento
comune. Manifestazioni come la Biennale di Tirana, di cui sono stato organizzato un paio
di edizioni, hanno goduto dell’attenzione mediatica. Ogni mostra dedicata alle espressioni
artistiche di quei luoghi era l’occasione per il mondo dell’arte occidentale per mostrare la
propria capacità di testimoniare la realtà in presa diretta e la volontà di schierarsi “dalla
parte giusta” (sostenendo gli artisti delle etnie che si erano ribellate). A essere esclusi in
realtà sono stati proprio gli artisti, ridotti al rango di testimoni momentanei e considerati
interscambiabili: essi erano presenti a queste manifestazioni più come rappresentanti
etnici, che non come artisti e il mondo dell’arte ha reso così visibile che la scelta di certe
espressioni artistiche era derivata da fattori geopolitici.
2) Il caso di Cuba > sono stati i sentimenti contrastanti nei confronti del regime di Fidel
Castro ad aver regolato tutti i rapporti con l’arte dell’isola, a partire dalla Biennale
dell’Avana fondata nell’84. L’alone romantico che circonda la rivoluzione caraibica e la
mitologia del Che hanno portato una ventata di interesse nei confronti di quanto di artistico
accadeva nell’isola.
Il fatto che aree geopoliticamente sotto i riflettori dell’Occidente attirino attenzione del
mondo dell’arte non è di per sé un fatto negativo, perché questo interesse conoscitivo
potrebbe persino portare un contributo alla comprensione di quanto sta accadendo in
quelle aree; tuttavia il mondo dell’arte ha escluso da ogni considerazione culture di grande
tradizione solo per il fatto di essere in quel momento poco interessanti dal punto di vista
politico e mediatico: un es. è l’arte dell’America Latina che è stata praticamente
cancellata da ogni manifestazione internazionale per il solo fatto di essere diventata terra
priva di ogni attrattiva mediatica (Allende e il Che erano già morti). Motivi di crisi ce ne
sono stati anche in quell’area, ad esempio la bancarotta dell’Argentina nel 2000, ma il
fallimento economico di un paese ha poco di mediatico e spettacolare. Stessa
considerazione vale per l’Africa esclusa dalle scelte del sistema dell’arte, salvo qualche
eccezione (si tratta soprattutto di artisti africani residenti in Occidente). Con l’Africa si
intende non la fascia a nord del Sahara (che appartiene culturalmente più all’Islam) e non
il Sudafrica, la cui storia recente e la forte presenza della cultura bianca ha prodotto
risultati unici, ma l’Africa nera. Il mondo dell’arte occidentale si è rivelato in questo caso
incapace di andare oltre gli stereotipi, a meno che l’interesse non venisse lanciato dal
mondo mediatico. Sono pochi gli artisti africani che hanno raggiunto una qualche visibilità
nel sistema dell’arte e nella percezione culturale l’Africa non ha oggi alcun peso la causa
di questa situazione non sono qualità artistiche, ma il fatto che non esiste reciprocità.
La reciprocità richiesta è di natura economica e a questa richiesta l’Africa non può
rispondere.
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L’incontro fra Occidente e Cina è caratterizzato da false partenze: basterà ricordare il gelo
decennale seguito alla strage di piazza Tienanmen e la paura sulle potenzialità odierne
della Cina per capire come essa venga vissuta da un lato come un’opportunità, dall’altro
come una minaccia. Per molto tempo la Cina è stata considerata come un serbatoio di
energie di tutti i tipi e soprattutto a buon mercato. La curiosità verso l’arte contemporanea
cinese, fino agli anni ‘90, si è configurata come l’interessamento nei confronti di una delle
tante culture altre che si stavano scoprendo, nel tentativo di consolidare il modello di
pensiero unico dopo il crollo dell’avversario sovietico. Per
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troppo tempo si è pensato che il flusso culturale, se non quello economico, potesse essere
unidirezionale, un ingresso di modelli di vita occidentali verso una cultura che si riteneva
devastata da quarant’anni di maoismo e ansiosa di ricostruire una propria immagine
internazionale sulle orme del modello occidentale. In arte questo fraintendimento ha
impedito di capire che cosa stesse maturando all’inizio del nuovo millennio, prima ancora
che nell’ambito del linguaggio, nel campo del mercato dell’arte cinese.
I rapporti tra Occidente e Cina sono molto antichi, soprattutto di tipo commerciale, e la
Cina è una delle poche nazioni che hanno mantenuto inalterati i propri confini per circa
due milleni; a dispetto delle numerose guerre contro di essa da parte di tutte le potenze
mondiali a partire dall’ottocento, l’integrità della Cina è rimasta intatta e nessuno è mai
riuscito a occuparla interamente né a dirigerla. Nel corso dei secoli il rapporto tra
Occidente e Cina è peggiorato, raggiungendo il culmine tra il declino dell’ultima dinastia
imperiale, i Qing, a metà ottocento e i disordini politici degli anni ‘30 del novecento: il
commercio estorto con la forza da parte delle potenze occidentali e il considerare la Cina
solo un grande serbatoio di manodopera a buon mercato hanno incrinato fortemente le
relazioni. C’è voluto un nemico più grande perché si cominciasse a stabilire qualche
alleanza tra Occidente e Cina: il Giappone imperialista degli anni ‘30 e della seconda
guerra mondiale. Poi con l’avvento del comunismo di Mao (1949) si è avuto un silenzio
durato trent’anni e quando cominciava l’epoca del disgelo è avvenuta la repressione di
piazza Tienanmen (’89) che ha rimandato di qualche anno l’epoca degli investimenti
occidentali in Cina e la crescita economica straordinaria del paese. L’ipotesi di poter
guidare lo sviluppo della Cina doveva apparire impossibile sin da subito: nonostante tutti i
cambiamenti epocali della fine degli anni ‘80, non solo in Cina non c’è stato alcun collasso
con vuoto di potere (come nell’ex unione sovietica), ma al contrario la leadership cinese ha
saputo realizzare quello che finora è il più riuscito esempio di pianificazione economica
socialista: è riuscita a coniugare il controllo politico centralizzato con lo sviluppo della
libera impresa a stampo capitalista. Questa capacità di inventare modelli di sviluppo nuovi
non è da sottovalutare sia in campo economico che in campo artistico. L’atteggiamento
occidentale non ha però tenuto conto della differenza e complessità tra il modello
cinese e quello vigente nel resto del mondo, ma ha preso in considerazione solo gli
elementi ritenuti utili al proprio immediato profitto. Ciò che differenzia la cultura cinese è
che essa è abituata a prefiggersi obiettivi (e a raggiungerli) attraverso il rispetto millenario
dell’autorità costituita (oggi rappresentata dal partito comunista) e nella mancanza quasi
totale di questioni e principi considerati fondamentali in Occidente (questioni relative alla
produzione, ad esempio salari, orari di lavoro, sicurezza, inquinamento etc). È soprattutto
l’atteggiamento culturale, ancora prima di quello economico, a porre la Cina in posizione
privilegiata rispetto al resto del mondo. L’Occidente non è riuscito a vedere e cogliere la
portata della reattività cinese, accecato dalla possibilità di produrre e vendere a costi
sempre minori. Persino il concetto di copia è stato sottovalutato e considerato un piccolo
danno collaterale rispetto agli enormi profitti di una produzione “autentica” a basso costo;
quando ci si è accorti dell’enorme potenziale, ricchezza e conoscenza raggiunto dalla Cina
grazie all’uso di tecnologie e sistemi fatti propri era impossibile tornare indietro. All’epoca il
libero mercato sembrava propendere per il maggiore profitto dell’Occidente come accade
in presenza di economie meno consapevoli, ma con la Cina il sistema non ha funzionato,
semplicemente perché è stato assimilato, studiato e riprodotto. Le mosse del sistema
dell’arte occidentale nei confronti di un’arte contemporanea cinese pressoché sconosciuta
attorno al 1990 non sono state inizialmente diverse da quelle attuate nei confronti di altre
culture; la Cina appariva soltanto come un mercato più vasto dove si sarebbero potuti
trovare nuovi linguaggi e dove si sarebbe potuto esportare, insieme agli artisti occidentali,
anche un preciso modello di pensiero e sviluppo.
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stesso, con l’arrivo dei beni di consumo americani in Europa, culminati con l’arrivo trionfale
della Pop Art. La Cina sembra aver subito lo stesso fascino per gli oggetti, la cui crescita
esponenziale è visibile, ma non sembra avere accolto completamente il modello sotteso a
quegli oggetti: sensibili al possesso di beni materiali e all’incremento del proprio
benessere, i cinesi appaiono però refrattari all’adozione dei modelli proposti da quegli
stessi oggetti. Per quanto riguarda l’arte, in Cina esiste ancora la censura per cui non si
possono esibire o trattare certi temi (legati alla sessualità o alla critica politica) ma la
creatività non sembra risentirne. Il primato della penetrazione dell’arte occidentale è quello
dell’arte americana e i motivi sono molteplici, primo fra tutti il canale privilegiato che esiste
tra Stati Uniti e Cina che mostra come la Cina abbia mirato sin da subito ad aprire
trattative con il paese più forte. Importanti sono anche le caratteristiche dell’arte americana
contemporanea che sono più facilmente comprensibili dal pubblico. Da queste
considerazioni emerge che non è un caso che tutta l’arte cinese abbia una connotazione
pop, che non deriva tanto dall’adozione totale del modello statunitense, ma dal
riconoscimento in quell’arte di certe caratteristiche proprie della nuova vita quotidiana
cinese. È a partire dal nuovo millennio che esiste un movimento di scoperta della giovane
arte cinese da parte soprattutto di galleristi desiderosi di concretizzare la ricerca della
novità in luoghi con fortissimo potenziale di sviluppo. Gli anni di preparazione all’esordio
mondiale sono i primi 4 del millennio, poi c’è stata qualche mostra generica e subito dopo
alcune aste che hanno segnato l’esplodere del fenomeno cinese; nel giro di tre anni, dal
2004 al 2007, le vendite di arte cinese contemporanea nelle aste di Hong Kong subiscono
un incremento dei prezzi di 14 volte e anche nelle aste newyorkesi la media dei prezzi
delle opere cinesi si incrementa di tre volte con punte di oltre il milione di dollari. Le scelte
dei collezionisti si concentrano su poche figure di artisti e quindi pochi diventano nel giro di
breve tempo i “maestri” dell’arte contemporanea cinese. Il boom dell’arte contemporanea
cinese, almeno in questa fase, è guidato e promosso da case d’asta occidentali, da
collezionisti, galleristi e musei internazionali. Nel giro di pochissimi anni la presenza cinese
nell’arte contemporanea, stando ai risultati delle aste, si è affermata a tal punto da
costituire il nucleo più forte e il più giovane. Il fenomeno cinese ha conosciuto numeri
vertiginosamente moltiplicati e tempi estremamente ridotti dell’affermazione sul mercato
mondiale. L’attenzione generale per la Cina e le potenzialità del suo mercato ha poi
rapidamente moltiplicato le aperture di gallerie occidentali nelle due città di Pechino e
Shanghai, le quali godevano già di rapporti privilegiati con i paesi occidentali.
L’avvicinamento tra Cina e Occidente risale alla morte di Mao (1976) e subisce
un’interruzione dopo la repressione dell’89, anche se il riavvicinamento è inesorabile e
passa attraverso l’intreccio dell’economia. Il fatto che gli Stati Uniti siano oggi debitori della
Cina e gran parte delle produzioni occidentali siano dislocati in quel paese pare sempre
che ciò sia determinato dalla volontà occidentale. Anche per il sistema dell’arte si è
pensato così e all’inizio i modelli di sviluppo e diffusione dell’arte cinese sono stati
promossi da occidentali, i quali si sono visti però scavalcare presto dai nuovi signori cinesi
del mondo dell’arte. Questi ultimi hanno assimilato il modello occidentale, ne hanno
imparato le regole e si sono affermati velocemente; a questa attitudine si aggiunge il forte
senso di identità nazionale che fa da muro alle troppe ingerenze esterne. Al contrario di
tante culture che hanno sentito la necessità di adottare modelli occidentali per sentirsi
parte del mondo internazionale, il sistema dell’arte cinese non si sente affatto debitore e
semplicemente applica regole diventate internazionali al proprio prodotto, con la
prospettiva di poter in futuro ideare e imporre le proprie regole alla globalità del pianeta.
Uno dei pilastri dell’unità e della forza della Cina è il rispetto dell’autorità centrale
sostanzialmente divinizzata. L’Occidente in generale ha sempre sottovalutato la Cina e
soltanto l’aspetto politico aveva destato preoccupazioni in Occidente, ma quando il
modello si è sgretolato in Unione Sovietica e aveva mostrato il suo lato repressivo in Cina
nell’89 il modello socialista sembrava aver perso e si credeva che se un modello del
controllo e del partito unico venivano meno si sarebbe dissolto anche il sistema produttivo
ad esso legato (produzione centralizzata e decisa dallo Stato). Ma il modello cinese non è
crollato: si è evoluto e adattato alle nuove esigenze, basandosi sulle richieste venute
dall’interno più che sull’adozione di un modello straniero. Così a partire dall’inizio degli
anni ‘90 è iniziata l’ascesa economica della Cina, la cui importanza è emersa soltanto del
nuovo millennio: quei 10 anni di incremento di produzione e ricchezza hanno posto la Cina
in una posizione inattaccabile. La Cina ha fatto della permeabilità a fattori esterni la propria
impermeabilità, creando
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Uno dei motivi della crescita continua della Cina è la vastità del suo mercato interno, tanto
più che a oggi la popolazione cinese non ha ancora completamente soddisfatto le proprie
necessità e desideri di benessere e di beni di consumo. La Cina è un paese
potenzialmente enorme di consumatori, ma anche di produttori e questo vale anche per il
mondo dell’arte. Nel campo dell’arte, il “grande numero” di potenziali artisti rischia di
cambiare completamente i modi della diffusione e fruizione dell’arte, e non solo all’interno
della Cina visto che il paese sta diventando un fulcro dell’attenzione mondiale. Facciamo
ora alcune considerazioni sullo stato attuale del pubblico e dei collezionisti cinesi > lo
sviluppo del gusto per l’arte contemporanea segue gli stessi passi che si sono riscontrati in
ogni società che da povera diventa affluente nel giro di pochi anni: dopo l’iniziale
attenzione per gli status symbol più banali e subito visibili (immobili, auto, oggetti di lusso)
si approda in un paio di genere ioni a strumenti più sofisticati, come l’arte contemporanea.
I milionari che in Cina sono diventati collezionisti hanno seguito lo stesso percorso
avvenuto in altre culture, ma con una differenza: in Cina, l’attenzione per l’arte e l’abitudine
a collezionare è molto più radicata che altrove e di conseguenza il collezionista cinese
possiede una consapevolezza del proprio gusto che si traduce in autonomia di scelte. Il
nuovo collezionista cinese d’arte contemporanea non è in totale balia di un gusto esterno
alla propria tradizione, ma è un soggetto deciso ad affermare il proprio gusto. Cosa sia il
gusto cinese non è semplice da definire, si tratta di un’attitudine che precede ogni scelta
specifica: la ricerca di una spettacolarità che esalti la maestria, la decorazione, il nuovo e
contemporaneamente la tradizione. Entro questi parametri si inserisce più o meno tutta la
nuova arte cinese, ma non l’arte internazionale e se a questo si aggiunge che il
collezionista mantiene una predilezione “patriottica”, si comprende come l’arte
internazionale non si trovi ad operare in un territorio facile. Un esempio sono le gallerie
straniere che hanno creato delle filiali in Cina, le quali sono più facilitate a esportare artisti
cinesi in Occidente che capaci di proporre artisti occidentali in Cina. Il sistema
cinese comunque è ancora carente e sta prendendo piede per ora solo a Pechino,
Shanghai e Hong Kong, mentre mancano del tutto musei d’arte contemporanea. È
singolare che in un paese così carico di storia i musei siano così scarsi e così poco ricchi
di reperti; tuttavia in quel paese e più in generale in Oriente il concetto di storia è molto
diverso da quello occidentale: il passato è ripetibile e il tempo è circolare > questa
concezione del tempo condiziona tutta la percezione del mondo: non è considerato infatti
troppo utile conservare il passato negli oggetti, i quali sono ripetibili, ma è sufficiente
conservarlo nella memoria questo atteggiamento spiega la generale scarsità di musei sul
territorio. I musei che sono stati creati recentemente hanno saltato tutta la fase borghese
e moderna, quella della conservazione del passato come monito per il futuro, e sono
approdati direttamente alla fase post-moderna del museo, inteso in maniera riduttiva come
grande contenitore di mostre temporanee. Così i musei che stanno sorgendo in Cina sono
soprattutto luoghi espositivi: nel 2005 è nato a Shanghai il MOCA che organizza un
numero impressionante di rassegne all’anno e che possiede una collezione di giovani
artisti cinesi. La caratteristica di ogni spazio espositivo cinese è la quantità delle
manifestazioni: come accade in
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ogni società che rapidamente si apre alla novità, l’ansia di “mettersi al passo” spinge a
moltiplicare le occasioni, a scapito della qualità. Sono infatti pochi gli spazi che
mantengono una linea coerente, perché la priorità è quantitativa e i luoghi espositivi sono
pensati per ospitare più mostre in contemporanea. Le mostre inoltre durano pochissimo,
proprio per l’urgenza di mostrare l’ultimissima novità e al contempo per la necessità di
manifestare la propria vitalità.
Per quanto riguarda l’arte, e anche altri beni, il comportamento sociale ed economico
cinese non differisce molto da quello statunitense: è sufficiente il mercato interno per
poter sostenere una domanda e un’offerta globali, nate dalla propria economia. Questo è
evidente per il sistema dell’arte: non solo il mercato interno degli Stati Uniti è sufficiente a
decretare il successo di un artista, ma al successo di un artista sul mercato statunitense
solitamente segue il suo successo internazionale, perché a quel sistema viene
riconosciuto un ruolo-guida per il mercato globale questo perché il mercato statunitense
è il più importante per movimento di denaro. Il sistema cinese dell’arte non ha certo quella
portata economica né una struttura così efficace, ma sicuramente ne ha potenzialità; la
sola “forza del numero” è già di per sé un indicazione di come l’arte contemporanea cinese
possa sopravvivere facendo affidamento solo sul proprio mercato interno. La Cina si
configura come un paese che si è affacciato al mondo senza negare i caratteri identitari
della propria cultura, ma accettando la sfida della globalizzazione in questo modo è
diventato più ricco e affronta il confronto da posizioni non più subordinate. È dunque
automatico che il paese non si accontenti di un mercato interno, ma che anche per l’arte
voglia misurarsi ad armi pari sul terreno internazionale, sia per una questione di strategia
culturale sia per un interesse economico. Il binomio arte/business, mitigato in Occidente
da una sovrastruttura idealistica che ha sempre considerato l’arte un prodotto speciale, in
Cina è stata invece assunta come legge cardine. Il binomio è certamente vero, come
dimostra il cambiamento avvenuto nel sistema dell’arte a partire dagli anni ‘80, ma la
cultura cinese ci ha aggiunto qualcosa di suo, due componenti che caratterizzano la sua
società: lo spirito pragmatico e il concetto per cui l’arte non è mai stata qualcosa di
speciale. Il rispetto manifestato l’artista non si spiega infatti come il rispetto per una voce
discorde ma forse profetica, quanto perché egli è considerato l’interprete più alto della
società e il suo valore viene calcolato attraverso il premio della fama, dell’onore e delle
ricchezza. In questo scenario si inseriscono i metodi di diffusione e commercio dell’arte di
cui il sistema cinese intende servirsi, imparandone i modi e proponendone di propri. È
presumibile che ben presto nascerà un gruppo di gallerie e musei cinesi d’elite, che il
sistema delle fiere verrà potenziato (per ora sono due, a Shanghai e a Hong Kong, mentre
le biennali si stanno già moltiplicando. Sono però i comportamenti e i metodi nuovi che
gruppi di collezionisti stanno sperimentando in Cina a costituire la novità assoluta per il
mercato globale: per esempio, la “borsa degli artisti” si sta affermando sempre di più > si
tratta di una vera e propria borsa dove però si punta su un artista: un gruppo di investitori
compra quote di un ciclo di lavori che si ritiene in ascesa, poi affida queste opere a un
gallerista affinché le venda e distribuisca i dividendi. L’operazione viene pubblicizzata
come il metodo per entrare nel mondo dell’arte pur non avendo grandi mezzi a
disposizione, anche se in realtà nessuno di questi investitori gode delle opere acquistate,
ma ricava semplicemente denaro da opere che non ha mai visto l’arte è ridotta a una
merce qualsiasi. Se si diffondesse questo modo di agire si potrebbe assistere all’ingresso
di grandi capitali mossi solo da un interesse speculativo. È presumibile che l’azione futura
dei collezionisti cinesi, pur seguendo parzialmente le regole del sistema dell’arte
occidentale, di fatto se ne discosterà sempre più, cercando di imporre il proprio punto di
vista per quanto riguarda il modo di diffondere, valorizzare e consumare l’arte.
L’altra grande potenza culturale asiatica è l’India, la cui cultura e arte sono profondamente
diverse siano dai modelli occidentali sia da quelli cinesi, mentre il sistema dell’arte – oggi
allo stato iniziale -sembra ricalcare il sistema occidentale. L’influenza inglese è stata
fondamentale per quanto riguarda le istituzioni indiane e l’atteggiamento degli artisti:
essere artista in India ha ancora un’aura vocazionale, forse anche perché il mercato e il
business artistici non sono così sviluppati. I centri della cultura e del mercato artistico sono
due: Nuova Delhi e Mumbai. Mentre è chiaro che la Cina aspira ad affiancarsi
culturalmente agli Stati Uniti, le attenzioni artistiche dell’India sono più sfumate,
comprendendo ancora un rapporto più che privilegiato con l’Europa e il suo collezionismo.
Il suo sviluppo artistico è stato più diluito nel tempo di quello cinese, la produzione artistica
indiana è più variegata di quella cinese, ma al tempo stesso meno
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riconoscibile. Il mercato dell’arte è meno efficace di quello cinese dal punto di vista della
sua influenza globale e nel futuro tale concorrenzialità probabilmente porrà in secondo
piano l’identità culturale e nazionale indiana, in favore di singoli artisti e delle singole
opere.
Spesso si enfatizza l’enorme progresso materiale in paesi come la Cina e l’India > questo
processo però è già difficile nei campi della produzione materiale, nonostante alcuni settori
d’eccellenza, e lo è ancor di più per quanto riguarda la creazione di un sistema dell’arte. In
questo caso l’India ha ancora un sistema a metà tra un’arte folcloristica e un’arte
contemporanea globalizzata. In realtà, in Europa a partire dal 2000 non sono mancate le
mostre sull’arte contemporanea indiana > l’interesse per l’India è emerso immediatamente
dopo l’analogo interesse per l’arte contemporanea cinese, ma gli artisti indiani non
possiedono quell’immagine di compattezza dei cinesi e inoltre il sistema e i mercati
internazionali non sembrano così sollecitati nel promuoverli -> questo è causato non tanto
dallo scarso valore degli artisti, ma dalla difficoltà di trovare in India un’interfaccia
istituzionale e privata all’altezza. Il sistema dell’arte indiana è molto diverso da quello
cinese anche nelle premesse storiche: la dominazione inglese finita nel ‘47 aveva già
introdotto un sistema dell’arte, basato sulle esigenze di una borghesia inglese emigrata e
una borghesia indiana nascente. Si era creato un sistema di musei e un’istruzione artistica
basata su accademie e scuole, che aveva favorito la nascita di gruppi artistici e di un
iniziale mercato privato. L’India, al contrario della Cina, è sempre stata aperta all’iniziativa
privata, concretizzatasi in qualche galleria d’arte a Nuova Delhi e Mumbai, sorte agli inizi
degli anni 60. Tuttavia, nei decenni successivi non si è verificata una crescita costante
della loro presenza o della loro importanza. È stata invece la crescita del Pil indiano
all’inizio del 2000 insieme alla produzione di semilavorati e di programmi d’alta tecnologia,
sostenuti da un mercato finanziario anglofono, a creare quelle che sono delle premesse
per il sistema dell’arte indiano. Un discreto gruppo di gallerie private è sorto tra Mumbai e
nuova Delhi, le quali si contendono il ruolo di principale città per l’arte contemporanea in
India. I collezionisti indiani però sono pochi, mentre la critica e il giornalismo d’arte sono
ancora agli inizi; inoltre ad essere molto carenti in India sono anche le istituzioni pubbliche
e private. Gli artisti indiani che hanno raggiunto una notorietà internazionale hanno al
massimo cinquant’anni e la prima spinta per entrare nell’arena mondiale è venuta loro
dalle gallerie indiane, che però sono state subito soppiantate da gallerie europee e
americane affermate. È quindi molto difficile che una galleria indiana riesca a imporre uno
o più artisti per questioni di forza contrattuale ed economica. Il collezionismo è ancora in
embrione: piccoli e medi collezionisti dell’epoca preglobale non si possono più permettere i
prezzi attuali, mentre i nuovi collezionisti indiani (appartenenti quasi tutti alla categoria dei
finanzieri) hanno assunto atteggiamenti da investitori; costoro non riescono però ancora
ad influire sul mercato internazionale, perché ci sono entrati da poco e senza possedere
fette significative di mercato (cioè opere molto richieste, o quote di gallerie). La
composizione del sistema indiano dell’arte appare dunque ancora debole perché ancora
due o tre componenti del sistema (artista, gallerista, istituzione, collezionista, critica) non
hanno ancora raggiunto gli standard minimi per poter competere nel mercato
internazionale.
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esclusività che una galleria oggi deve instaurare con un artista che vuole sostenere. La
curiosità che si è accesa nei confronti dell’arte indiana rischia così di spegnersi per
mancanza di investimenti di tutti i tipi e di tutti i livelli. Al momento attuale nessuno sembra
puntare davvero su questo paese, neppure gli stessi indiani, i quali non hanno ancora un
mercato artistico interno che li renda autosufficienti e comunque globali, mentre la Cina è
in grado di sostenere i propri artisti anche soltanto rivolgendosi al proprio interno. È vero
che il sistema dell’arte indiano vorrebbe giocare un ruolo maggiore sullo scacchiere
mondiale e che per questo alcune delle sue strutture si stanno adeguando, ma è il
rinnovamento avviene troppo lentamente rispetto alle necessità del sistema.
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La globalizzazione non ha fatto che accelerare i cambiamenti già in atto negli anni ‘80 in
Occidente; tra i più significativi troviamo quello relativo al contesto dell’opera, che alla fine
del Novecento, ha conquistato il primato tra i fattori decisivi nella definizione dell’arte.
Inoltre la presenza sempre più importante di nuove culture artistiche ha aggiunto nuovi
significati al senso stesso dell’arte, introducendo valutazioni relative al contesto
geografico, esotico e perfino etnico che giustificano il proporre in quel contesto concetti e
forme già superati altrove.
Gli anni ‘80 sono stati il momento di passaggio a una diversa visione dell’arte e
soprattutto alla sua diffusione globale. Negli anni ‘80 la struttura del sistema dell’arte
occidentale stava evolvendo per motivi intrinseci e al tempo stesso per una necessità di
adeguamento a un modello di pensiero (quello capitalista) sorretto da prodotti prima
ritenuti superflui, come l’arte, e che improvvisamente ne diventano i simboli. Una strategia
politica ha eletto l’arte a uno dei protagonisti culturali per evidenziare le differenze del
modello capitalista rispetto a quello socialista. Lo sviluppo del linguaggio dell’arte e del suo
sistema è stato usato politicamente, ma non generato dalla politica, quanto invece da
necessità più profonde, sociali e linguistiche. Ciò che è più evidente nel mutamento è
l’aspetto collegato i fenomeni di moda, a loro volta derivati dai fenomeni economici,come
l’aumento non tanto di valori quanto dei prezzi delle opere d’arte. Questi fenomeni hanno
innescato a loro volta un cambiamento che si è riflettuto sul linguaggio stesso dell’arte,
modificandolo; quest’ultimo si è aggiornato, mettendosi al passo con il cambiamento della
società postmoderna. Da quando alla condizione postmoderna della società occidentale si
è affiancata anche la globalizzazione, i cambiamenti sono diventati più radicali: l’affacciarsi
di nuovi soggetti nel sistema dell’arte, cioè di nuove culture coinvolte in un avvicinamento
al modello occidentale, ha creato un movimento in cui i valori in campo stanno
evolvendo in modo imprevedibile. I mutamenti degli anni ‘80 sono stati i segnali della
piega che avrebbe preso il sistema e che ora sta esprimendo il suo potenziale di
trasformazione. Il mutamento più notevole riguarda il contesto dell’arte, perché esso è
diventato uno dei fattori essenziali dell’arte contemporanea: gran parte della discussione
teorica dell’arte si è svolta attorno a questa nozione, da quando Duchamp ha “de-locato”
un orinatoio trasferendo in una galleria d’arte e ha provocato uno spostamento semantico
della definizione dell’oggetto il contesto è quell’elementi in mancanza del quale tutta
l’operazione concettuale non esisterebbe. Se prima si affermava che era anche il contesto
fare, ora si afferma tranquillamente che è solo il contesto a fare l’opera. Per compiere
questo percorso ci sono voluti circa ottant’anni e si è trattato di un cambiamento di
importanza attribuita al “luogo” nella definizione del valore di un’opera. All’interno di questa
situazione, in seguito è cambiato anche il concetto iniziale di contesto, che ha finito per
identificarsi con tutta quella serie di meccanismi di scambio che costituiscono la struttura
commerciale ed economica dell’arte -> il contesto è diventato l’insieme dei dispositivi
del mercato dell’arte. La sostituzione del contesto al concetto a partire dagli anni ‘80 è
stata dovuta allo strapotere del mercato che non solo ha affermato che è il contesto a fare
di un prodotto un’opera d’arte, ma che l’unico contesto deputato a farlo è l’ambito dello
scambio e del mercato. Con la globalizzazione si è aggiunto anche un altro tipo di
contestualizzazione dell’opera: il contesto geografico, esotico o etnico. Il successo degli
artisti risiede quindi anche nel contesto geografico di provenienza, per cui un artista cinese
viene considerato legittimato a proporre i medesimi concetti già proposti da tempo da
artisti occidentali si abolisce così quel primato di invenzione che costituiva il primo
criterio di giudizio e di valore per un’opera o un artista. Le conseguenze sono numerose >
la prima è una riguarda il rapporto tra arte contemporanea occidentale e arte
contemporanea dei paesi emergenti: se si guarda con indulgenza alle espressioni
artistiche di queste nuove culture, lasciando che percorrano tendenze e esperienze già
consumate in Occidente, ciò significa che esiste ancora la certa coscienza di superiorità
occidentale e di ruolo- guida nell’arte contemporanea. Giustificare un’esperienza artistica
ampiamente conosciuta con la sola scusante che questa è stata realizzata da qualcuno
che appartiene a nuove culture equivale alla posizione di chi desidera che i nuovi allievi
ripercorrano esattamente la strada.
È indubbio che il sistema dell’arte sia cresciuto negli ultimi 25 anni e che sia ancora nella
sua fase propulsiva. I nuovi fattori di sviluppo vengono dalla presenza di un pubblico
molto più ampio di quello selezionato degli anni ’70. All’aumento di interesse e di pubblico
per l’arte contemporanea degli anni ‘80, dovuto a elementi di moda, gusto e nuove
economie, è seguito un aumento oggettivo di pubblico dall’inizio del nuovo millennio grazie
alla diffusione mondiale dell’arte che ha
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stessa e infine determinare se si può ancora parlare di qualcosa che assomiglia a quella
struttura consueta. Il punto di equilibrio che tutti in qualche misura rimpiangono può
essere collocato tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80: il sistema era evoluto,
ciascun elemento manteneva il suo ruolo e ciascun ruolo possedeva confini riconosciuti e
rispettati. Oggi, i termini del sistema rimangono gli stessi: artista, critico, gallerista, museo,
collezionista e pubblico; certi nuovi soggetti, come le aste e le fiere, possono rientrare
nelle categorie che includono la galleria e il collezionista. Quanto è accaduto negli ultimi
trent’anni è che i soggetti che hanno più a che fare con il fattore economico sono diventati
molto più importanti mentre gli altri hanno perso influenza. Gallerie e collezionisti
sembrano aver conquistato il potere di decretare il successo di un artista, a scapito dei
soggetti tradizionalmente deputati a questo, cioè critici e musei, cui è rimasto il compito di
creare consenso attorno a certe scelte. Persino l’artista è più un ingranaggio che non è il
motore del sistema. Successivamente però quegli elementi usciti vincenti dalla
trasformazione postmoderna e globalizzata del sistema sono stati a loro volta quasi
soppiantati da altri fattori: fiere e aste hanno contribuito infatti alla crisi che sta investendo
oggi il ruolo della galleria. Oggi le transazioni d’arte si fanno soprattutto nel corso delle
fiere e nelle aste; è vero che le fiere sono fatte da gallerie, ma l’investimento necessario
per parteciparvi e il moltiplicarsi delle fiere ne escludono necessariamente alcune, ma
soprattutto riducono le gallerie partecipanti al ruolo di espositori, senza tenere conto della
loro funzione originaria di scoperta di nuovi talenti e promozione di artisti. Questa
funzione che è la più difficile viene sempre più ridimensionata: se infatti è indubbio che la
scoperta di un artista gradito al collezionismo fornisce guadagno e gloria alla galleria, è
anche vero che tutto questo svanisce non appena una galleria o un’organizzazione più
forti decidono di lavorare con quell’artista è la forza denaro che regola i meccanismi del
sistema. Le aste contendono alle fiere gran parte dei capitali destinati all’arte e in questo
caso il denaro è l’unico valore riconosciuto. La prima conseguenza della presenza
costante delle aste sul mercato è l’obbligo delle gallerie di rispettare quei prezzi; l’asta
diventa quindi un mezzo di pressione non solo sulle gallerie, ma sull’intero mercato
soprattutto se questo elemento smettesse il suo ruolo subordinato e decidesse di
diventare “protagonista”. Anche il collezionista, tradizionalmente considerato come punto
d’arrivo del sistema commerciale dell’arte, oggi non si accontenta più del suo ruolo, ma
tende a occupare tutti gli altri ruoli: critico, talent scout e guida del mercato. Questo accade
non solo vendendo o rivendendo opere della propria collezione per comprarne altre, ma
suggerendo alle galleria degli artisti graditi, utilizzando le proprie fondazioni per
promuovere le proprie scelte; infine ci sono quei pochissimi collezionisti, come Pinault o
Saatchi, in grado di spostare il gusto di intere società.
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2. Si è affievolito il ruolo di tutte quelle componenti del sistema la cui funzione è quella
della riflessione critica, storica, linguistica sull’idea di arte: il critico, il museo e persino il
pubblico.
In ogni epoca, l’artista è cosciente del contesto in cui opera e vi si adegua: ai tempi delle
committenze rinascimentali dei papi i canoni espressivi e stilistici entro cui muoversi erano
ben noti e più rigidi di quelli attuali, eppure ciò non ha impedito ai grandi geni di arrivare a
mettere in dubbio proprio quei canoni. La modernità ha allargato a dismisura il territorio di
possibilità dell’arte, facendo intendere che i confini non esistevano più e che la libertà era
piena. La postmodernità e la globalizzazione hanno costruito per l’arte un nuovo territorio
entro cui agire, senza confini linguistici, ma con precisi confini contestuali. Nel mondo
dell’arte ci sono alcune norme non scritte che influenzano molto non solo il modo di porsi
dell’artista nei confronti del contesto, ma addirittura il modo di proporre; per esempio, la
necessità per un artista di affermarsi da giovane, di approdare a una galleria nota in
campo internazionale, di produrre a sufficienza per accontentare il mercato e di avere una
cifra stilistica immediatamente riconoscibile. A ben vedere, non si tratta di regole così
inique o pesanti, né troppo nuove, ma il
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problema è l’esasperazione di queste regole dovuta all’accelerazione imposta dal sistema
e accentuata dalle caratteristiche della globalizzazione. Come una star, l’artista deve
essere sempre più giovane e sempre più nuovo e ciò significa non solo che le generazioni
si susseguono rapidamente, ma soprattutto che all’artista non è consentito prendersi
pause e militare troppo ambiguo; inoltre all’artista non è più concesso radicarsi nella
propria patria culturale, se non riesce contemporaneamente a imporsi in campo
internazionale. Nel sistema attuale globalizzato l’artista deve misurarsi immediatamente
con il resto del mondo e se gode di certi vantaggi datigli dal sistema ha molte più
possibilità, a parità di ricerca linguistica, di chi semplicemente non è nato nei centri del
potere artistico. È infatti in questi centri, sempre più ridotti, che si concentrano quelle
gallerie e istituzioni che possono garantire la visibilità internazionale > oggi tutto si
concentra tra Londra e New York, in attesa che si facciano avanti centri cinesi,
probabilmente gli unici che hanno caratteristiche tali da competere in futuro con questi; chi
non è vicino a quelle gallerie e istituzioni ha scarse possibilità di arrivare velocemente al
successo. Il successo e il denaro sono diventati pensieri talmente radicati che l’artista
globalizzato non è più in grado (e forse non interessa neanche più) di imporre il proprio
punto di vista ai poteri forti del sistema; il suo compito è relegato a quello di un creativo
capace di interpretare lo spirito del tempo, il qui e ora. Del resto, l’allargamento del
pubblico ha cambiato il modo di guardare all’arte e di conseguenza ha cambiato anche il
modo di fare arte. L’ingresso massiccio di nuovi collezionisti e nuovo pubblico privi di
conoscenza di ciò che l’arte è stata anche in tempi molto recenti ha davvero cambiato il
gusto, anche quello degli artisti. Gli artisti si devono adeguare a una risposta immediata
che soddisfi la maggior quantità di pubblico possibile, perché ormai è il numero a dettare
legge. La complessità linguistica moderna comunque appartiene ancora all’arte
occidentale, ma non fa parte dell’arte globalizzata che deve essere infinitamente più
semplice per essere apprezzata dal maggior pubblico possibile. Da questo deriva un
mutamento radicale del linguaggio artistico, che si traduce per esempio
nella spettacolarizzazione dell’arte, cioè la necessità di rendere stupefacente l’opera o
l’azione artistica attraverso il gigantismo dei mezzi, che in fondo non è altro che
l’estremizzazione della volontà di creare una “cifra” personale con l’aggiunta della
dimostrazione di possedere quei mezzi (vale a dire di appartenere a quell’oligarchia
economicamente e culturalmente egemone) > il gigantesco barboncino di fiori di Jeff
Koons, i film realizzati da Francesco Vezzoli come cover di altri film, il teschio di diamanti
di Damien Hirst, l’irriverente dito medio in marmo di Maurizio Cattelan e le strutture-
sculture sempre più grandi e percorribili di Anish Kapoor sono solo alcuni esempi di
spettacolarizzazione. Tutte queste operazioni identificano l’artista, né costruiscono la
“cifra” personale, ma ciò che li accomuna è il concetto di evento che porta con sé
qualcosa di spettacolare e che ne sancisce la monumentalizzazione mediatica. Ciò che è
scomparso dai linguaggi dell’arte globalizzata è quanto aveva fatto grande l’arte nella
Modernità: il rinnovamento linguistico > oggi l’innovazione linguistica è stata sostituita da
versioni gigantesche di concetti già sperimentati in discipline come l’arte, la comunicazione
e la pubblicità.
Il mondo dell’arte ha pensato di poter “aprire” al più selvaggio dei sistemi economici senza
cedere le proprie prerogative e concedere nulla ai nuovi soggetti del mercato. Il sistema
appare oggi sregolato e drogato perché coloro che, forti di una posizione di privilegio
all’interno del sistema, hanno creduto di poter gestire nella stessa maniera di sempre un
mutamento così radicale come l’immissione di grandi capitali dove prima non ce n’erano.
Questi soggetti possono essere paragonati a “apprendisti stregoni” che credono di
possedere la conoscenza delle leggi e delle
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strategie da adottare per gestire il sistema, ma che in realtà non riescono assolutamente a
controllarlo, finendo per condurlo ad una situazione di sregolatezza come quella attuale. Di
fronte a soggetti solitamente poco informati di cosa sia stato il mondo dell’arte, ma
perfettamente consapevoli di come si gestisca un sistema finanziario, si trovano anche
attori colti per quanto riguarda l’arte, ma inermi di fronte al potere economico -> in un
sistema come questo bisogna capire chi ci guadagna e chi ci perde. Una condizione
generale da evidenziare è che il divario tra i molti e i pochi si sta allargando: ciò significa
che a tutti i livelli le leve decisionali si stanno concentrando nelle mani di gruppi sempre
più ristretti. Fenomeni come quello delle archistar (pochissimi architetti noti a tutti,
sempre in gara per i concorsi più prestigiosi, mentre la professione è sempre più
depressa) stanno diventando la regola anche nel mondo dell’arte: pochissimi artisti viventi
costituiscono infatti il nucleo sempre presente ad ogni manifestazione importante;
pochissimi musei possono influenzare i musei di tutto il mondo; pochissime gallerie sono
in grado di determinare l’andamento di tutte le altre; infine, pochissimi collezionisti guidano
il gusto e il tutto è strettamente incrociato, nel senso che le influenze sono tra loro
intrecciate a formare una rete. C’è anche un’altra condizione generale valida almeno per le
culture dei paesi che si sono appena affacciati al mondo dell’arte contemporanea: in
questo caso il guadagno è collettivo, cioè riguarda tutte le componenti di quei sistemi, per
la semplice ragione che prima della globalizzazione il sistema non esisteva proprio. È
dunque comprensibile il grande fermento che anima quelle società che vedono crearsi dal
nulla una fonte di arricchimento culturale, di prestigio e di guadagno. La domanda su chi
guadagna e chi perde esclude quei pochi “privilegiati” che detengono il potere di influenza
e i sistemi delle nuove realtà culturali, ma interessa invece le fasce intermedie di quei
sistemi dell’arte maturi che percepiscono sulla propria identità i cambiamenti in atto. Oggi,
a perdere solo i produttori e a guadagnarci sono i mediatori -> la categoria
dei produttori è un gruppo trasversale, in cui rientrano gli artisti, i galleristi, i critici e quei
direttori di museo cui l’irrigidimento del sistema e le nuove regole economico-finanziarie
impediscono lo sviluppo dei propri progetti. Il produttore è dunque un sostanziale
innovatore; si potrebbe obiettare che il sistema dell’arte si basa sull’innovazione, ma in
realtà non è così: con il sistema attuale non solo è molto difficile riconoscere l’innovazione
(dispersa com’è in tutto il mondo), ma non è neanche più utile al mantenimento di un
sistema che ancora non ha sfruttato fino in fondo le potenzialità solo economiche e che ha
bisogno di standard immediatamente riconoscibili. È in questo strano paradosso che
i mediatori proliferano e guadagnano > essi si basano sull’assoluta equivalenza delle
merci di fronte al denaro, per cui un artista vale l’altro e l’unico compito è assecondare lo
status quo dell’arte, senza impegnarsi su nessun progetto se non quello di individuare il
gusto corrente e possibilmente anticiparlo, per sfruttare la differenza tra il costo d’acquisto
e quello di vendita. Anche l’artista può rientrare in questa categoria quando decide di
“confezionare” opere che vadano subito incontro al gusto del pubblico. La situazione
ideale si verifica quando il mediatore non è identificabile con un luogo preciso: è il caso di
fiere e aste > la loro è l’azione mediatrice più pura: senza radici in un luogo preciso, sono
punto di incontro per lo scambio economico con pochissime implicazioni territoriali.
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In alcuni paesi “nuovi”, soprattutto la Cina, la voglia di competere in ogni campo è tale che
le regole che disciplinano il mercato dell’arte sono del tutto differenti da quelle vigenti nel
resto del mondo. Questa mancanza di unità del sistema è un altro segno di sregolatezza.
Fino a quando il sistema di norme era accettato da tutte le sue componenti, il mutamento
era qualcosa di interno al sistema, ma se qualcuno abbastanza forte (Cina) utilizza regole
proprie, tutto il sistema rischia di dividersi in sistemi parziali. Inoltre, nei momenti di crisi ci
si appella a sistemi nuovi e più semplici e se a ciò si aggiunge la forza propulsiva di
energie nuove (come quelle cinesi) è ipotizzabile che anche il sistema dell’arte si
riformulerà su parametri più semplici e più chiari. In altre parole, non sarà più pensabile
non tenere conto dei nuovi fattori geografico-culturali immessi nel sistema dalla
globalizzazione. Come avviene in natura, è l’organismo più semplice ad avere maggiori
possibilità di sopravvivenza, forse poi questo sistema in futuro si evolverà fino a diventare
più complesso, ma oggi non siamo che all’inizio.
CAP. 12 – LA VARIABILE SOFFICE
Alla domanda “dove sta andando il mondo dell’arte?” si possono ipotizzare due scenari
diversi e opposti, che tuttavia si potrebbero intersecare in alcuni elementi: ipotesi soffice e
ipotesi apocalittica.
Ipotesi soffice > ci si può prefigurare uno scenario in cui l’agitazione che sconvolge il
sistema si placherà in un equilibrio che consentirà lo sviluppo armonico di tutti i
componenti. Innanzitutto, si deve escludere ogni possibilità di restaurazione del vecchio
sistema. Se la turbolenza che sconvolge il sistema fosse l’effetto di una fase iniziale piena
di energie non ancora canalizzate, si potrebbe pensare che la sua maturazione porterà da
un lato ad un regolamentazione e dall’altro ad una maggiore complessità e articolazione di
ruoli e funzioni (come è avvenuto con il vecchio sistema). L’armonia dovrebbe essere
ritrovata in una distribuzione di ruoli che sia soddisfacente per tutte le componenti del
sistema, tenendo conto delle esigenze dei nuovi mercati. Probabilmente un’uniformità di
comportamenti non sarà mai possibile e del resto esistono all’interno del sistema evidenti
differenze che risentono dei diversi atteggiamenti dei sistemi locali. Tuttavia qualche
difformità locale è perfettamente assorbibile dal più vasto sistema mondiale. L’aspetto che
crea più disequilibrio rimane comunque l’uso del sistema in senso puramente finanziario,
sia che ciò derivi dalla considerazione che l’arte è una merce come tutte le altre, oppure in
malafede dal fatto che il sistema dell’arte è un luogo perfetto per riciclare capitali di dubbia
provenienza. In ogni caso le chiavi del cambiamento sono nelle mani di chi manovra
questi capitali. Si è visto che la determinazione del gusto attraverso il controllo del mercato
dell’arte si è concentrata nelle mani di pochi, gruppi sempre più ristretti che dispongono di
capitali ma anche della conoscenza delle poche regole rimaste nel mondo dell’arte. È
probabile che il sistema possa attrarre molti altri soggetti in grado di agire in questo modo,
così come è probabile che soggetti per ora passivi, ad esempio grandi investitori russi,
cinesi, indiani etc, vogliano intervenire per proporre insieme al proprio denaro anche il
proprio punto di vista. Si avrebbe così la convergenza di altri soggetti con punti di vista
molto differenziati -> questa concorrenza è l’unica possibilità per creare un ambiente
artistico ricco e un dialogo tra le varie espressioni e linguaggi. Si arriverebbe quindi a un
sistema prettamente economico, ma dove l’aspetto intellettuale dovrebbe riacquistare
alcune prerogative, perché quando un sistema cresce diventa per forza più complesso >
oggi e per almeno un altro decennio stiamo vivendo la fase di decostruzione del vecchio
sistema e strutturazione del nuovo, basato sull’affermazione delle forze economiche, ma
domani questi soggetti non potranno più basare il confronto solo sulla forza economica,
ma dovranno proporre anche un progetto linguistico e di idee. In un futuro le generazioni
attuali di artisti, di linguaggi e di espressioni dovranno essere sostituite da altre, ed è a
questo punto che l’intellettuale potrebbe diventare indispensabile-> la presenza di una
forte concorrenzialità metterebbe al riparo sistema a un eccesso di potere economico.
Questa ipotesi soffice dovrebbe comunque essere accompagnata da alcune correzioni,
per esempio una condizione è l’educazione del pubblico, di coloro che godono dell’arte
senza possibilità di contribuire direttamente al suo business. È vero che questa condizione
di spettatore sembra passiva e in balia dei poteri mediatici, ma l’educazione ad avere
un’opinione crea le premesse per incidere sull’intero sistema e se questo esercizio diventa
opinione di massa, le capacità di condizionare il sistema diventano maggiori. Infine, gli
artisti, che sono paradossalmente l’anello debole del sistema, avrebbero maggiori
possibilità di emergere e di partecipare al confronto di idee. L’ipotesi soffice quindi prevede
più concorrenza, più soggetti, più artisti alla ribalta e in generale più arte.
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