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BREVE STORIA DELLA GLOBALIZZAZIONE IN ARTE – Marco Meneguzzo

CAP. 4 - DOVE CERCARLI: UNA GEOPOLITICA CULTURALE

All’inizio del novecento al di fuori del mondo occidentale tutto era “altro”, perché il pianeta
era per la maggior parte inesplorato nelle sue componenti culturali e perché il concetto di
egemonia culturale era molto radicato in Occidente. Dalla fine della guerra fredda (fine dei
blocchi Est-Ovest) il pianeta si allarga e contemporaneamente diventa più piccolo: non
esistono più confini, ma culture ed espressioni artistiche; interi continenti, come l’ex
Unione Sovietica, l’Asia non islamica, l’Africa, l’Oceania e il centro e sud America, sono
pronti per essere scoperti e inseriti nel sistema occidentale. Il sistema dell’arte si precipita
alla ricerca di nuove idee e artisti proprio in quei territori che promettono all’arte egemone
nuovi spunti e temi possibili, ma anche sbocchi mercantili ed economici. Negli anni ‘90 tale
ricerca si è svolta a tutto campo, coinvolgendo in maniera indifferenziata tutte le
culture altre e solo con il precisarsi dei nuovi assetti economici mondiali anche l’attenzione
del mondo dell’arte si è spostata verso quei paesi economicamente più promettenti.

4.1 I CONFINI SI SPOSTANO

Sino a quarant’anni fa il mondo dell’arte si identificava con i soli paesi occidentali e


occidentalizzati. La produzione artistica è infatti arrivata per ultima nel commercio
mondiale delle idee e delle merci, dietro anche alla letteratura che era sostenuta da una
tradizione e una pratica di diffusione affiancata da una vera e propria industria. Ciò è
accaduto anche perché quel che poteva sembrare uno scambio di idee e opere d’arte è
stato invece un’attività univoca da parte del dell’arte occidentale, nel senso che è soltanto
l’arte occidentale che si è sentita racchiusa entro confini stretti. Il senso di superiorità
dell’arte occidentale nel servirsi di idee e modelli altrui per adattarli ai propri e rinnovarli ha
fatto sì che il risultato di tutti i contatti con le altre culture tra la fine dell’ottocento e l’inizio
del novecento sia stato solo appannaggio della cultura occidentale, mentre le altre non
hanno ottenuto benefici. Un esempio è la passione tardo ottocentesca sviluppatasi a Parigi
per l’arte giapponese che ha prodotto scarsi risultati artistici in Giappone o la passione per
l’”arte negra” agli inizi del secolo che non me ha prodotto nessuno in Africa. In seguito i
confini hanno cominciato a spostarsi e con loro si è spostato l’interesse del mondo
dell’arte > l’apertura verso nuove culture consentiva di arricchire di nuova linfa quella
egemone, attraverso l’adozione delle loro novità. Al contrario di quanto era avvenuto un
secolo prima con il Giappone o l’Africa, esisteva però una contropartita che consisteva
nell’accogliere con interesse e riconoscimenti economici all’interno del sistema egemone
alcune manifestazioni artistiche delle culture altre. Il mondo ideale era il luogo ideale per
questa “adozione”: visibile, ricco, immediato nella ricezione del nuovo e che non
necessitava dell’esistenza di un sistema strutturato nei paesi “adottati”, perché era
sufficiente elevare singoli individui e singole opere ad artisti

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internazionalmente riconosciuti e accettati. Questa disponibilità veniva dalla certezza di


non avere interlocutori alla pari: si pensava che tutte le altre culture non aspettassero altro
che essere invitate a diventare parte del ricco Occidente e si riteneva che nessuna di esse
potesse essere così forte da metterlo in crisi  l’Occidente pensava di esportare un
modello importante nuove idee. All’inizio la ricerca del confine più lontano si è mossa in
maniera disordinata: negli anni ‘90 la curiosità verso la diversità è stata occasionale e
dettata da impulsi del momento. La ricerca era indirizzata verso le culture artistiche di quei
paesi che di volta in volta si affacciavano alla ribalta mediatica per qualche motivo e
spesso questo motivo era drammatico (una guerra, una tragedia umanitaria etc). Dopo
l’interesse per la cultura artistica russa si assiste a un forte interesse per tutti i Balcani, le
repubbliche baltiche, gli Stati dell’ex Urss, l’Egitto, alcuni paesi africani, l’Australia, la
Turchia e Cuba. Sulla Cina invece aggravava ancora la repressione di piazza Tienanmen
(1989), mentre l’India appariva ancora troppo esotica. È importante sottolineare che
l’interesse del mondo dell’arte non ha mai preceduto lo scoppio di una crisi o la
manifestazione economico-politica di un cambiamento, ma al contrario l’ha seguita
mostrando sempre di più il legame esistente tra l’interesse mediatico e il sistema
dell’arte. Non a caso quando l’informazione su quei luoghi veniva meno anche l’interesse
per le loro espressioni artistiche era destinato a scemare e soltanto quegli artisti che
avevano capito il meccanismo e si erano trasferiti verso i centri di potere dell’arte (New
York e Londra) hanno avuto la possibilità di superare il calo di interesse.

4.2 PAESI ALLA RIBALTA, CONTINENTI DIMENTICATI

L’attenzione del mondo dell’arte si è distribuita nel mondo secondo una scelta


geopolitica che tende ad assecondare l’interesse generale manifestato verso quelle
stesse aree. Ecco alcuni esempi:

1) La tragedia dei Balcani con le guerre interne tra serbi e sloveni prima, poi serbi e croati,
serbi e bosniaci e infine serbi e albanesi. Tutte le etnie che si sono ribellate ai serbi sono
state gratificate di attenzioni da parte del mondo dell’arte, che ha contribuito così a
confermare i ruoli attribuiti alle controparti dalla politica, dall’economia e dal sentimento
comune. Manifestazioni come la Biennale di Tirana, di cui sono stato organizzato un paio
di edizioni, hanno goduto dell’attenzione mediatica. Ogni mostra dedicata alle espressioni
artistiche di quei luoghi era l’occasione per il mondo dell’arte occidentale per mostrare la
propria capacità di testimoniare la realtà in presa diretta e la volontà di schierarsi “dalla
parte giusta” (sostenendo gli artisti delle etnie che si erano ribellate). A essere esclusi in
realtà sono stati proprio gli artisti, ridotti al rango di testimoni momentanei e considerati
interscambiabili: essi erano presenti a queste manifestazioni più come rappresentanti
etnici, che non come artisti e il mondo dell’arte ha reso così visibile che la scelta di certe
espressioni artistiche era derivata da fattori geopolitici.

2) Il caso di Cuba > sono stati i sentimenti contrastanti nei confronti del regime di Fidel
Castro ad aver regolato tutti i rapporti con l’arte dell’isola, a partire dalla Biennale
dell’Avana fondata nell’84. L’alone romantico che circonda la rivoluzione caraibica e la
mitologia del Che hanno portato una ventata di interesse nei confronti di quanto di artistico
accadeva nell’isola.

Il fatto che aree geopoliticamente sotto i riflettori dell’Occidente attirino attenzione del
mondo dell’arte non è di per sé un fatto negativo, perché questo interesse conoscitivo
potrebbe persino portare un contributo alla comprensione di quanto sta accadendo in
quelle aree; tuttavia il mondo dell’arte ha escluso da ogni considerazione culture di grande
tradizione solo per il fatto di essere in quel momento poco interessanti dal punto di vista
politico e mediatico: un es. è l’arte dell’America Latina che è stata praticamente
cancellata da ogni manifestazione internazionale per il solo fatto di essere diventata terra
priva di ogni attrattiva mediatica (Allende e il Che erano già morti). Motivi di crisi ce ne
sono stati anche in quell’area, ad esempio la bancarotta dell’Argentina nel 2000, ma il
fallimento economico di un paese ha poco di mediatico e spettacolare. Stessa
considerazione vale per l’Africa esclusa dalle scelte del sistema dell’arte, salvo qualche
eccezione (si tratta soprattutto di artisti africani residenti in Occidente). Con l’Africa si
intende non la fascia a nord del Sahara (che appartiene culturalmente più all’Islam) e non
il Sudafrica, la cui storia recente e la forte presenza della cultura bianca ha prodotto
risultati unici, ma l’Africa nera. Il mondo dell’arte occidentale si è rivelato in questo caso
incapace di andare oltre gli stereotipi, a meno che l’interesse non venisse lanciato dal
mondo mediatico. Sono pochi gli artisti africani che hanno raggiunto una qualche visibilità
nel sistema dell’arte e nella percezione culturale l’Africa non ha oggi alcun peso  la causa
di questa situazione non sono qualità artistiche, ma il fatto che non esiste reciprocità.
La reciprocità richiesta è di natura economica e a questa richiesta l’Africa non può
rispondere.

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Se la situazione a fine ottocento era che il linguaggio occidentale poteva appropriarsi di


linguaggi altrui senza concedere nulla, alla fine del novecento le esigenze erano
radicalmente cambiate. Un secolo fa erano stati gli artisti stessi ad andare alla ricerca di
nuovi linguaggi, mentre in seguito il protagonista è diventato l’intero sistema dell’arte che
insieme alle novità linguistiche ha cercato anche nuovi sbocchi per i propri prodotti. La
diffusione globale di un sistema dell’arte significa anche l’allargamento del mercato,
compreso quello culturale, per cui appare sempre più centrale la possibilità di sviluppare
una rete di scambi attraverso un sistema di musei pubblici, istituzioni e gallerie -> questa
condizione in Africa non esisteva e per questo motivo il mondo dell’arte se n’è
disinteressato. Al contrario, in alcuni paesi anche molto diversi tra loro (Turchia, Sudafrica,
Brasile e Messico) queste condizioni esistono: ricchezza crescente, città emancipate,
ambizioni dichiarate di entrare nel sistema occidentale, posizioni strategico-militari ne
fanno i soggetti ideali delle attenzioni di tutti i sistemi economici, politici, culturali e
mediatici. Turchia e Sudafrica sono due paesi emblematici gli un’ideologia globale e non è
un caso che una delle prime azioni di “adozione” sia stata la creazione di una biennale
d’arte: la biennale di Johannesburg fondata nel 1995 (durata solo due edizioni) e quella di
Istanbul nell’87. Grande accoglienza hanno poi avuto gli artisti dei due paesi nelle
manifestazioni internazionali, stabilendo quella reciprocità anche economica -per quanto
sbilanciata - attraverso presenze di artisti sudafricani e turchi nei mercati dell’arte di tutto il
mondo.

4.3 L’ISLAM COME NERO DELL’OCCIDENTE

L’inizio del nuovo millennio ha evidenziato l’importanza fondamentale della forza


economica anche per il prodotto artistico, ma esiste ancora una parte del mondo non
secondaria che risponde ad altri criteri: l’Islam. Le culture dei paesi che lo compongono
hanno caratteristiche comuni che vedono nel generico antioccidentalismo e nella
proposizione di un modello di pensiero alternativo i nuclei principali di discussione. Anche
le aperture a modi occidentali di concepire l’arte sembrano più improntate a una mossa
politica gestita dal potere, che non a un’esigenza culturale di confronto sentita dagli
intellettuali; se si pensa ai musei, frutto di accordi con il Guggenhiem di New York e il
Louvre di Parigi, che tra poco si apriranno a Dubai, queste operazioni sono il frutto di una
pianificazione politica precisa che mira alla costruzione di un’immagine culturale indirizzata
più all’esterno che all’interno del paese. Del resto, la figura dell’artista mantiene nei paesi
islamici un significato diverso e l’arte è considerata o come una vocazione trascendentale
vicina al divino o nella sua funzione decorativo-artigianale. La differenza tuttavia è
reciproca, anzi è stato l’Occidente ad aver escluso dalla propria sfera di scambio
intellettuale tutto questo mondo. Dalla fine del blocco sovietico è il mondo islamico a
costituire per l’Occidente il nemico ideologico e culturale, anche se non economico, con
cui è necessario colloquiare il meno possibile. Eppure le potenzialità artistiche di quella
parte del mondo sono tutt’altro che scarse: la cultura di certi paesi, come l’Iran e la Persia,
era tradizionalmente una cultura di scambi stretti con l’Occidente, così come le coste
nordafricane e mediorientali del Mediterraneo. In epoca contemporanea due grandi
questioni hanno impedito relazioni più costanti: Israele e la questione palestinese e la
rivoluzione del ‘79 che ha destabilizzato tutta l’area tra Iraq e Pakistan. Gli artisti
riconosciuti dell’area islamica sono soltanto i fuoriusciti, cioè gli artisti emigrati che fanno
della loro cultura il soggetto del proprio lavoro, ma che vivono nei centri del potere
artistico. Con tutta probabilità l’artista persiana Shirin Neshat, che vive negli Stati Uniti,
non si sente affatto una fuoriuscita pur avendo costituito il proprio successo sulla denuncia
della condizione della donna sotto regimi autoritari, ma la sua percezione e quella di molti
altri artisti islamici da parte del mondo dell’arte non prescinde da questa con condizione. Il
popolo palestinese resta invece totalmente escluso, relegato nell’invisibilità, esattamente
come accade per lo statuto politico e giuridico dei territori a esso assegnati a Gaza e in
Cisgiordania. Ciònonostante, anche in quei paesi esiste un abbozzo di sistema dell’arte
che comprende l’organizzazione di mostre, uno status sociale per l’artista, la presenza di
musei d’arte moderna e contemporanea e qualche galleria.

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