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ARTICOLO - Media e Moda - Di Alberto Abruzzese - Enciclopedia Della Moda (2005)
ARTICOLO - Media e Moda - Di Alberto Abruzzese - Enciclopedia Della Moda (2005)
ARTICOLO - Media e Moda - Di Alberto Abruzzese - Enciclopedia Della Moda (2005)
MEDIA E MODA
di Alberto Abruzzese - Enciclopedia della moda (2005)
Media e moda
Moda e media sono parole che nel loro continuo slittare tra significati e
significanti dicono molte cose a seconda del contesto temporale e spaziale
a cui si riferiscono. Accostate l'una all'altra dicono qualcosa di diverso e in
più rispetto sia a 'forme di abbigliamento' sia a 'forme di comunicazione'.
Hanno ambedue radici latine, eppure questa affinità geolinguistica cade se
traduciamo il binomio in inglese: fashion and media. Il secondo
termine, media, ribadendo la sua presenza, conferma e rilancia la propria
potenza invasiva sulle radici nazionali e locali del primo nel suo uso
europeo (in francese mode, in tedesco Mode, in spagnolo moda). Accettando
l'immediata efficacia della parola fashion, dalla dimensione di un discorso
europeo siamo gettati nella dimensione oceanica della globalizzazione
occidentale. Fashion sta a advertising così come moda sta a réclame o anche a
pubblicità. Mentre invece media, letto in inglese o meglio in americano, dice
appunto dove si sia trasferito il cuore delle comunicazioni di massa da
Hollywood in poi.
Nel loro attuale significato, ciò che stringe moda e media in un'unica
cornice è la modernità, cioè l'insieme di fenomeni che hanno caratterizzato
l'Occidente, in modo definitivo a partire dalla prima rivoluzione industriale.
Il compito che qui ci si prefigge sarà dunque quello di analizzare il tema
imposto da questa coppia di significati lungo il percorso che precede e che
infine dissolve la sua piena affermazione nella società moderna. Già in
questa scelta si tiene conto proprio della pressione che la moda come
oggetto di ricerca ha di necessità esercitato sui metodi storiografici a essa
dedicati: puntellare l'interpretazione non sul periodo di massima
strutturazione di un determinato fenomeno sociale ‒ è quello che in genere
si esplicita nei manuali professionali di marketing dell'industria
vestimentaria ‒ ma sulle periferie spazio-temporali che ne costituiscono, da
un lato, la genesi e, dall'altro lato, i punti di crisi e di destrutturazione.
Si può dire più seccamente: il campo di indagine imposto dai rapporti tra
moda e media non riguarda tanto il loro definitivo consolidamento in un
sistema compiuto e come tale interpretabile (la definizione di una
socioantropologia della moda subentrata a quella dei costumi premoderni),
quanto piuttosto il conflitto sempre rinnovato tra mondo e civiltà, o meglio
tra mondo ed esperienza del mondo. Un complesso intreccio tra fattori
diacronici e sincronici che non vanno visti 'per principio' nella prospettiva
modernocentrica dell'evoluzione, del progresso, ma nel continuo ridefinirsi
delle soggettività e delle piattaforme espressive che hanno costruito e
costruiscono l'immagine del mondo, lo rappresentano, lo 'vestono' con i
propri linguaggi e le proprie maschere.
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Un trionfo, quello delle mode, decretato tanto dalle culture che lo hanno
condiviso quanto da quelle che lo hanno rifiutato, messo ai confini del
mondo civile, della sua storia e dei suoi valori. Vale a dire che nella società
moderna, nonostante la persistente divisione ideologica sul senso da
attribuire al trionfo delle apparenze, si è fatta sempre più dominante la
certezza che la moda operi come un medium e che i media a loro volta
trasformino il mondo e, nel loro trasformarsi, nel loro lasciarsi invadere da
altro da sé, costruiscano specifici ambienti comunicativi nello stesso
'ordine' delle simulazioni messe in scena dalle mode.
Nella sua Histoire du costume en France, scritta tra il 1849 e il 1865, Jules
Quicherat dichiara esplicitamente che il ricorso alle illustrazioni in opere di
quel tipo ‒ rafforzate per altro dalla natura fortemente 'pittoresca' della
stampa allora dedicata alle arti e ai costumi ‒ dipende dalla necessità di
compensare ciò che le parole non possono dire altrettanto facilmente
(ibidem, p. 25).
Si farà più avanti qualche cenno sull'estetizzazione della vita quotidiana che
ha le sue radici nell'art nouveau (non a caso è uno dei primi grandi incontri
tra moda e comunicazione sia sul piano del 'progetto moderno' sia sul
piano dei consumi diffusi). Qui si vuole osservare che la moda viene
individuata da McLuhan nell'ordine dei fenomeni immersivi, là dove sono
più sensi a concorrere tra loro: "È come entrare in un walk-in di Bridget
Riley, o in un happening fatto con la luce ("Entra, non esitare", incomincia
Allan Kaprow), oppure in un rituale tribale in cui tutti partecipano nell'arte.
"Quando sono immerso nella pittura…", ha detto Jackson Pollock, i Beatles
intonano "Dentro di te…", mentre un'altra canzone attuale inizia: "C'è più
di quanto l'occhio possa vedere…"" (ibidem, p. 210). La simultaneità di più
punti di vista (obiettivo ben difficile per i metodi della scrittura a meno di
non eccedere in un suo deliberato sforzo sinestesico) e la configurazione
istantanea di una dimensione sensoriale che ha in sé stessa la sua potenza
affermatrice sono, secondo McLuhan, gli elementi emergenti nell'industria
culturale degli anni Sessanta del Novecento, quelli che annunciano il
progressivo rientro delle forme sociali nelle forme di vita dell'uomo tribale:
"Un uomo che non possiede un punto di vista privato per il semplice fatto
che egli non 'vede' l'esperienza, e non si pensa come un 'punto'. Concepisce
invece ogni singola persona come contenente, in simultaneità, molti 'sé',
tutti fluidi, e tutti, ciascuno singolarmente, presenti" (ibidem, p. 212). Infine,
in perfetta coerenza con le sue teorie sulla televisione: "La moda
contemporanea ha un design hard edge, l'esperienza che evoca non è visiva,
ma tattile. È piena di incontri bruschi, di improvvisi interfaccia. È il Mondo
dell'happening nel quale le superfici e gli eventi fanno attrito gli uni sulle
altre creando forme nuove. Proprio come l'azione del dialogo crea nuove
prospettive. In buona misura, lo stile hard edge è riemerso, come modalità
visiva, proprio perché era ben definito, e rappresentava una reazione agli
stili espressionisti che l'avevano preceduto. Il Pop e l'Op avevano dei punti
in comune, in quanto entrambi usavano colori e forme racchiusi entro linee
dure e nette. Ponendo l'enfasi sulla periferia delle forme, lo stile hard
edge enfatizza l'elemento tattile" (ibidem, pp. 212-213).
Il conflitto tra corpo come identità autonoma e corpo come identità sociale
non poteva che manifestarsi in tutta la sua brutalità nel tempo in cui il
controllo sulla riproduzione della specie umana era socialmente affidato
interamente alla Chiesa e al feudatario. Quanto più l'identità sociale era
povera e indifesa, tanto più addobbare la nuda vita imprigionata in tale
identità era impossibile e, se possibile, segno di insubordinazione. La prima
letteratura sulla moda come vanità terrena, inganno diabolico, eccesso di
sensi, insubordinazione al potere si è sviluppata là dove la tradizione
religiosa individuava nell'abito indecente o di lusso un 'segnale' di fuga dalle
regole imposte alla Terra direttamente dal Cielo. Si trattava di interdizioni
che entravano a far parte dei conflitti di potere e che dunque potevano
riguardare l'eccesso di sfarzo di una corte a fronte della castità cristiana, ma
potevano riguardare anche lo stesso clero e non la sola povera gente. Ma
quale ne fosse l'intento e il destinatario, era l'istituzione letteraria nel suo
insieme ad acquisire una attenzione fortissima per i significati di cui l'abito
si faceva carico.
In questo quadro, facendo un altro salto indietro nella storia, sono
particolarmente significative le pagine in cui Agostino, nel De doctrina
christiana, affronta il problema di vesti e istituzioni di civiltà pagane entrate
nell'uso dei cristiani. Lo risolve ‒ tanto presenti sono in lui le necessità
dell'abitare che l'attraversamento di questa vita comporta ‒ con una netta
distinzione tra due tipi di adesione identitaria all'abito: l'una spirituale e
l'altra utilitaristica. Cristianamente inaccettabile la prima e cristianamente
accettabile la seconda. L'altro esempio di cui si serve nel sostenere questa
tesi riguarda l'uso di oggetti egizi ‒ vesti, gioielli e vasi d'oro e d'argento ‒
da parte del popolo ebreo. Esempio ancor più significativo se si riflette
sull'episodio biblico che fa da perenne riferimento in tutta la storia del
mondo occidentale proprio come contrapposizione tra il monoteismo delle
sacre scritture e il politeismo delle feste pagane: Mosè che, tornato dal suo
incontro con Dio sul Monte Sinai e recando con sé le tavole della legge,
scopre il suo popolo in atto di adorare il vitello d'oro.
Sulla prima valenza, tra i tanti esempi cui si è fatto ricorso si può indicare la
miniatura di un 'libro d'ore' del 15° secolo, conservato nella Biblioteca
Ambrosiana, in cui è rappresentato il racconto biblico di David e Betsabea.
È interessante per più ragioni e, in particolare, nel rivelare come
l'immaginario figurativo godesse di notevole libertà rispetto al testo scritto.
È stato il gusto moderno per la stretta relazione tra corpo, abito e
desiderio, a fare di Betsabea, personaggio della tradizione religiosa, una
eroina della seduzione in senso mondano. Così è stata ritratta nel cinema
hollywoodiano di genere storico (genere in cui l'abbigliamento necessario a
contestualizzare realisticamente le vicende fa sempre i conti con la moda
corrente tra il pubblico cui il film è destinato); così, a monte della cultura di
massa, è stata ritratta dalla pittura religiosa dei secoli precedenti, che,
ancora più spigliata dei costumisti di Hollywood, in essa scorgeva
possibilità espressive analoghe a quelle concesse da Maddalena, ma più
avvicinabili.
Se, tra le tante versioni disponibili, guardiamo la Betsabea di Paolo
Veronese o quella di Rubens, ci accorgiamo della straordinaria
consapevolezza del ruolo assolto dall'abito dell'adultera nella miniatura
quattrocentesca. Con Rubens, infatti, l'immagine di Betsabea offre allo
sguardo assai più carne che vesti; essa è tanto audace nell'ostentazione di
ciò che di osceno l'abito rivela e nasconde da essere vicinissima al gusto di
uno spettatore cinematografico. Con Veronese, l'abito sfarzoso che copre
interamente la donna a fronte di David è tanto efficace nell'attribuirsi il
ruolo di estensione del corpo di Betsabea da trasferire il senso dell'evento
biblico direttamente sul piano delle norme e del gusto cui il pittore si
attiene.
Nel quadro prospettico che ci interessa la storia del bottone può anche
avere inizio tra i Germani nel 500 a. C., tanto per sottolineare la lunga
durata e anche l'estensione (in Oriente come in Occidente) dei dispositivi
che comunicano la moda e da essa sono comunicati. Ma la storia del
bottone prende corpo a mano a mano che possiamo documentarne il
passaggio da funzione a ornamento e mezzo di comunicazione. Non due
dimensioni distinte, bensì un intenso scambio simbolico: i gesti abitudinari
e quotidiani ‒ le specifiche modalità d'uso consentite dalla quantità e
disposizione dei bottoni ‒ si legano a evocazioni immaginifiche di mondi
che danno un senso alle alterne rotazioni del bottone, alla ripetitività del
vestirsi e spogliarsi o spogliare e essere spogliati. Pietre preziose, metalli
poveri e ricchi, materiali sintetici hanno fornito nel tempo materia per
rappresentare sulla superficie dei bottoni ogni cosa, da scene sacre a scene
profane, da universi floreali, animali e marini a personaggi, eroi e episodi
della storia, a decorazioni di ogni tipo, immagini strappate alla cronaca
come all'esotico, allo spirito del viaggio come a quello della vita domestica.
Almeno sino agli anni Cinquanta del Novecento, questa tendenza ‒ la cui
più evidente scelta figurativa è stata appunto nella rappresentazione di
immagini zodiacali con l'esplicito riferimento al tempo ciclico della natura ‒
ha seguito il mutare degli stili artistici e degli stili di vita (Pagano 2002).
I classici della letteratura moderna da cui sono derivati gli statuti della
critica sono assai di frequente strutturati sulla rappresentazione della moda
nella doppia funzione di straordinario materiale espressivo da sfruttare per
il piacere del lettore e di mondo terreno rispetto al quale l'istituzione
letteraria rivendica la propria differenza e distanza (la nobile tradizione che
essa ha da rinfacciare al presente della società borghese e del primo
capitalismo industriale). Basta un ballo di società per mandare in rovina
César Birotteau, il protagonista di Grandeur et décadence (1837) di Honoré de
Balzac.
Oltre la rete di questi giudizi (che, per l'ironia di cui Pater tinge il loro limite
culturale, richiamano a tratti, seppure in forma degradata, i toni bonari ma
severi delle risposte perbeniste alla piccola posta delle lettrici date sulle
riviste femminili), vi sono squarci di un pensiero più profondo, che hanno
la robustezza di un saggio critico: "Mi pare che sia un peccato di metter
tanto della sua opera e di sé stesso in oggetti d'uso, che dovranno perire
con l'uso e scomparire, come la nostra vecchia mobilia, col solo cangiar
della moda" (Pater 1887; trad. it. 1980, p. 45). È la domanda implicita ma
rovesciata degli artisti dell'art nouveau e poi del designer moderno. Ancora:
"A mio modo di vedere c'è una sorta di avidità e di cupidigia in cotesta
tendenza; come se le cose non avessero da durare molto a lungo, e uno
dovesse afferrare l'opportunità". Antoine Watteau "fa appena qualche
preparativo per l'opera sua, non pulisce neanche la tavolozza, nella furia
d'improvvisare che lo prende" (ibidem, p. 56). È il gesto vorticoso dell'artista
moderno 'fotografato' da Baudelaire (il modo di fare insistentemente
descritto dal cinema nel mitologizzare i pittori impressionisti, così da
portarli a essere la moda artistica a cui ogni galleria ricorre ormai per avere
successo di pubblico) e il gesto dello stilista che 'scolpisce' l'abito sulla
modella o fa rapide prove di colore ammantandola di stoffe (per es., negli
anni Cinquanta, un sarto internazionale come Jacques Fath).
La metropoli e la stampa
Travestimenti: dalla messa in scena dal vivo alla riproducibilità tecnica. La metropoli
fu il frutto di un primo condensarsi in uno stesso luogo e tempo della
potenza della terra, del libro e delle merci. Il futuro delle macchine e della
massa prese a spingere negli spazi fisici più adatti a farlo diventare presente,
mondo contemporaneo: da questa compresenza di fattori virtuali nacque la
metropoli. La grande città prese forma sul corpo della vecchia città storica,
i suoi costumi e le sue rappresentazioni, edificandovi i suoi alti palazzi,
aprendovi le sue larghe strade, i suoi parchi della natura e del divertimento,
i suoi teatri, i suoi empori e le sue vetrine. Oggi noi comprendiamo lo
spirito metropolitano attraverso il cinema assai più che attraverso lo spazio
monumentale e turistico a cui sono state ridotte le metropoli storiche. Per
ritrovarne il senso dobbiamo ricorrere alle immagini di allora (pittura e
fotografia) e soprattutto alla letteratura che ne ha meglio espresso l'avvento
(Linguaggi dellametropoli, 2002).
Dunque Shakespeare: teatro del mondo che i teatri della città hanno
rappresentato dal Seicento in poi, dando a ognuno dei temi dominanti nel
drammaturgo inglese una propria versione commisurata alla tradizione, ai
costumi del tempo e del luogo. Una fitta rete di relazioni tra retroscena,
scena e pubblico che non svaniva nell'esecuzione dello spettacolo ma si
corrompeva in adattamenti più popolari e irrispettosi, attivava commenti,
discorsi, tra persone e sulla stampa, e comunque veniva riprodotta e fissata
di nuovo dall'illustrazione e dal disegno (Martineau, Messina 2003). Così gli
eroi d'intensità immaginifica dipinti da Johann Heinrich Füssli e William
Blake cominciarono a vestirsi alla moda: grandi divi, da Edmund Kean a
David Garrick a Ellen Terry, attivano fenomeni di culto per Shakespeare
ma anche per le traduzioni del suo immaginario attraverso la sola forma di
spettacolo dal vivo di cui, prima che nascesse il cinema, la vita urbana
poteva disporre quotidianamente. O meglio: non la vita urbana, ma una
parte di essa. Per l'identità collettiva a cui la modernità stava tendendo, il
vero grande spettacolo sarà costituito dalla metropoli, dalle attrazioni della
sua macchina comunicativa.
Gli oggetti suggestivi hanno una vita propria, in cui sensibilità di luoghi,
soggetti e tempi diversi possono vedere ciò che a loro preme, che a loro
interessa, qualunque sia il proprio sistema di valori e la propria cultura. Un
abito variopinto può entrare nelle più insospettate attribuzioni di senso: è
come il pappagallo imbalsamato di Felicita, la serva infelice e ignorante che
nel racconto di Flaubert muore da perfetta cristiana sentendo in lontananza
il canto del Corpus Domini, ma tenendo lo sguardo fisso sull'immagine del
pappagallo che l'ha consolata negli ultimi anni della sua vita. Si tornerà più
avanti sul ruolo che il servo svolge al cospetto delle mode.
Classi e archetipi. Il racconto The man of the crowd, di Edgar Allan Poe, inizia
alla maniera di un precoce trattato sulla moda come segno distintivo di
status sociale e finisce alla maniera di un saggio sull'immaginario e sui
consumi di massa, ma anche come traccia per un nuovo capo d'abito. Il
protagonista, seduto in un caffè della metropoli, osserva con attenzione lo
scorrere della folla davanti a lui (sono quelli i flussi che ben presto
volgeranno a loro volta lo sguardo sui manifesti pubblicitari della moda
vestimentaria). È un protagonista con i nervi indeboliti dalla malattia,
convalescente, e dunque in stato di alterazione percettiva, di ipersensibilità,
condizione che lo fa essere acuto nell'analisi dell'abbigliamento dei passanti,
ma con la stessa ossessiva attenzione febbricitante dei collezionisti: del
resto esiste un profondo legame tra mode e droghe, caffè, cioccolata, fumo,
alcol, hashish ‒ in quanto modi di vedere al di là del dato visibile e delle
implicazioni quotidiane che sono la dura realtà della vita e dei suoi modi
d'essere (Schivelsbuch 1980).
Nel flusso della folla, Poe rintraccia le figure umane che possono essere
classificate per ceto, lavoro, ruolo sociale, a partire dal loro abito. Tratti
essenziali: sono gli stessi delle illustrazioni e delle caricature a stampa che
invadono la metropoli e viaggiano per il resto del mondo industrialmente
avanzato. Gli stessi che sono entrati a far parte delle minute inserzioni
pubblicitarie che stanno invadendo le pagine dei quotidiani. Gli stessi,
infine, a essere disposti e ordinati nei cataloghi per corrispondenza dei
grandi magazzini. Tratti che non dicono nulla sulla persona ma tutto
sull'identità. È il mondo esclusivo di Gutenberg.
Così pure, già verso la fine dell'Ottocento, Robert Louis Stevenson con il
suo The strange case of Dr. Jekill and Mr. Hyde (1886) ci dimostra quanto sia un
atto fuorilegge e da punire con la morte anche solo il lasciare emergere e
dare respiro al doppio più oscuro della persona umana, quello in cui i
desideri e il corpo parlano assai più del sapere. Non è una eccessiva
forzatura cogliere nel destino di uno sdoppiamento come questo il senso
della sterminata letteratura cinematografica in cui, a parte i continui remake
della storia inventata da Stevenson, sono in scena doppie identità, l'una
diurna e l'altra notturna, avendo sempre nell'abbigliamento lo strumento
necessario a cambiare identità e a compiere il proprio crimine. Lo
spettatore, provando piacere nel leggere o vedere queste storie (sempre
punitive a meno di non essere simbolicamente trasformate in caricature o
capricci dal genere horror e più ancora splatter-demenziale), vi rispecchia i
propri comportamenti trasgressivi, in cui l'abito da discoteca vela e civilizza
la mise bestiale di Hyde, ma un più spinto look tribale manifesta
apertamente il proprio disgusto per Jekill.
La fotografia era semmai una tecnologia che, in quella sua fase e per lungo
tempo ancora, avrebbe riprodotto la realtà privandola del colore. Eppure,
forse proprio questo suo limite, questo suo surrealismo congenito, le
assegnò il compito di diventare il linguaggio prediletto della comunicazione
della moda. La ragione di questo è che lo scatto fotografico sul corpo
vestito ha a suo fondamento l'essenza stessa della modernità in quanto
riflessione su sé stessa, svolta della percezione che essa si è data per
guardarsi dentro, per trovare le linee portanti del proprio progetto, il
proprio design. Il bianco e il nero sono colori essenziali, poli opposti verso
cui le cose, fatte di luci e ombre, sfumano in un indistinto che è tuttavia il
loro compimento e la loro rivelazione: il tutto bianco o il tutto nero, i due
regimi del diurno e del notturno. Di questa distinzione e congiunzione si
tornerà a parlare non a caso nel cinema (v. oltre: Cinema e televisione),
vedendovi emergere abiti che nel gioco del bianco, del nero e del grigio
hanno fatto la loro mitologia, incarnando i ruoli della società moderna
attraverso un guardaroba emblematico (il nero del cappello a cilindro, il
bianco dell'abito da sposa, le strisce bianche e nere dei carcerati).
Ma così fu già con la fotografia, anzi il suo uso sempre più esteso ‒
scientifico, artistico, professionale, amatoriale, erotico, feticistico ‒ rese
possibile in pochi decenni la sedimentazione di immagini che si rivolgevano
al passato e al presente con lo stesso gusto da 'raccoglitori' dei grandi
viaggiatori, di catalogatori di usi e costumi di ogni genere, di indagatori
delle tipologie sociali che Poe, come s'è visto, aveva sociologicamente
elencato ‒ borghesi, popolo e devianti ‒ prima di imbattersi nell'immagine
stessa di ciò che alla società sfugge ma che ne costituisce il motore creativo.
Man Ray fu un grande artista delle avanguardie storiche e tra le tecniche del
suo lavoro privilegiò la fotografia, in particolare corpi di donna di
straordinario sex appeal riguardo alla loro carnalità, postura, sguardo, abito e
suoi accessori. Riguardo soprattutto al simulacro virtuale di chi le guarda.
Ciò che Max Ernst e altri dadaisti e surrealisti, per mettere allo scoperto
l'immaginario collettivo e l'inconscio individuale, ottenevano attraverso
collage di figure e frammenti ritagliati dalle illustrazioni a stampa, Man Ray
lo otteneva dando ai suoi ritratti la sola presenza della 'modella': la sapeva
cogliere nel gesto più congruo per farla essere l'unica forma possibile del
modo d'essere che aveva in mente (i corpi che metteva in scena, nelle loro
vite di relazione, in genere profondamente estetiche e dandy, erano ciò che
le future star del prêt-à-porter, una Claudia Schiffer o una Naomi
Campbell, dovranno fare apparire e cercheranno faticosamente di riportare
nella sfera dei loro comportamenti mondani). Qui non c'è lo stilista che
veste, ma a svolgere questo ruolo rivelatore c'è il fotografo. Un passaggio
fondamentale per tutti i grandi fotografi della moda. Man Ray coglie cosa
avviene tra medium fotografico e corpo avendo in mente l'intera estensione
del suo rapporto con la luce che lo veste della sua nudità o lo spoglia del
suo abbigliamento. Fa capire all'istante che il corpo prende vita in una
conversione reciproca di sguardi tra la modella e il suo voyeur. Nelle sue
fotografie consegna l'evento dello scatto, ma anche tutto ciò che lo ha reso
possibile, anzi immancabile.
I primi grandi fotografi della moda sono nati distaccandosi dalla fotografia
ordinaria e trovando la loro formazione nelle redazioni delle grandi riviste
di settore (nazionali e nei casi più celebri, per assecondare il carattere
epidemico delle mode di abbigliamento, internazionali). Là assorbirono
ispirazioni e forme nel clima collaborativo tra stilisti, modelle e fotografi (o
illustratori divenuti anche fotografi come Cecil Beaton, o illustratori puri
come René Gruau). Un particolare ruolo, nel fare tradizione, hanno avuto
le riviste "Vogue" e "Harper's Bazaar". Tra i nomi più celebri di questi
fotografi va citato il barone Adolph de Meyer, significativo anche per il
fatto di appartenere a una fotografia di moda che non si serve ancora delle
modelle, ma continua a riprendere le signore dell'alta società (Seeling 1999).
'Mi piace' o 'non mi piace' non è la prima domanda a cui risponde la grande
fotografia di moda, la quale, se grande davvero e all'altezza del suo
compito, deve anzi evitare questa domanda, allontanando il consumatore
da ogni diritto di scelta, ogni deviazione mentale, per potergli dire soltanto:
questo è l'abito che ti immerge nel senso che tu hai dell'essere moda, non
del tuo modo d'essere ma dell'essere moda in sé; se entri in sintonia con
questo preciso intento, allora la fotografia di un abito diventa l'abito in sé
(con una forzatura abbastanza legittima, è come essere gettati non nella
domanda su quale sia il tuo Dio, ma direttamente nel divino, nell'impronta
del divino in te).
Vale anche per l'infinita varietà di fotografie di moda che non hanno l'aura
né dei grandi fotografi né dei grandi modelli esclusivi, quelli che fanno da
'specchio per le allodole' al fine di proporre altri prodotti d'acquisto, non
alla portata di tutti ma valutabili in termini di target e non di sola
eccezione? In gran parte no, si tratta infatti di immagini che funzionano da
indicatore piuttosto che da mitologizzazione (come le tante figure disegnate
nella pubblicità dei giornali e nei cataloghi per corrispondenza
dell'Ottocento, accanto ad articoli igienici, vasellame e oggetti per la cucina,
callifughi e creme di bellezza): sfogli una rivista o rubrica specializzata e ti
fai un'idea, oppure già sai quello che cerchi.
Il 'fare vedere' della fotografia di alta moda, dunque, non consiste in tutto
nella valorizzazione della marca, dello stilista, della sfilata in sé o dell'abito
indossato o della modella che lo indossa, né infine del suo target. Né le
foto della moda ordinaria sono soltanto informazioni per la vendita di un
prodotto a 'buon mercato'. Vedere un abito non indossato, puro disegno,
vuoto come l'abito della Betsabea dipinta dal miniaturista del 15° secolo, o
indossato, ricolmo di carne come quello messo in scena da Rubens, ci
mette comunque in discussione per il semplice fatto di porci il problema
dell'abitare nel luogo e nel momento giusto, di sentirci a nostro agio nel
mondo in senso assai più antropologico che sociale. Il turbamento nasce
proprio dall'attrito tra norme esterne e desiderio interiore. L'effetto di
disagio è qui la scossa necessaria per fare scattare il desiderio di agio.
Nella scelta di Duchamp di fare della sua vita stessa un'opera d'arte si
riscontra un sapere che ‒ tanto nella distinzione tra arte dei libri e arte viva,
quanto nell'idea di elaborare materiali che abbiano non la pesantezza delle
sculture e dei quadri ma la leggerezza del 'respiro' quotidiano di sé e delle
proprie relazioni con gli altri ‒ abbiamo avuto già modo di individuare nel
saggio di McLuhan su "Harper's Bazaar".
Lungo questo percorso, riferimento d'obbligo è l'opera del grande stilista
giapponese Issey Miyake, ampiamente citato da Paola Colaiacomo e
Vittoria C. Caratozzolo (Mercanti di stile, 2002), che è per così dire il
rovescio del punto di vista di Duchamp ma al punto in cui gli opposti
coincidono: un creatore di moda che non vuole essere artista perché non
lavora per i musei ma per l'eccitazione del corpo (ciò che oggi, come
vedremo, artisti e musei tentano disperatamente di restituire al privilegio
dell'arte). "Naturalmente non c'è sempre tanta consonanza. Gli artisti anzi
in genere sottolineano l'insularità delle loro opere rispetto al flusso della
vita, la 'diversità' della contemplazione artistica rispetto all'eccitazione
effimera delle mode; e i fashion designer sono da parte loro ben felici, in
genere, quando qualcuno li consacra come 'artisti' e magari dedica loro una
mostra al Guggenheim Museum" (Valeriani 2003, p. 8).
Fumetti: carte del corpo vestito. La storia dei fumetti è parallela a quella del
cinema, spesso ne ha costituito un laboratorio di idee e modalità espressive,
più spesso ancora ne ha sviluppato le mode (scenari, identità, mitologie),
trasferendone i corpi, gli eroi, le figure e l'abbigliamento sul supporto
cartaceo, potendo godere così di una libertà espressiva realizzabile senza gli
alti costi del cinema. Non a caso, solo alla fine del Novecento, il grande
cinema degli effetti speciali ha iniziato a rilanciare l'immaginario dei
fumetti, realizzando forme di revival e di ibridazione spazio-temporali di
non poco conto per i consumi vocazionali del presente, in particolare
laddove le logiche vestimentarie previste dalla fantascienza e dal
genere fantasy degli anni Trenta trovano numerose affinità negli scenari
postmetropolitani della globalizzazione, da Blade runner (1982), di Ridley
Scott (importante anche per l'affidamento emotivo attribuito al cyborg)
al Batman (1989), di Tim Burton (significativo per l'invenzione di Joker,
figura assai vicina all'archetipo di deviante creato da Poe).
I fumetti sono qui inseriti nella cornice della stampa e della metropoli
poiché da quel contesto (libro e merci) è dipeso in modo particolare il loro
linguaggio, almeno sino a quando essi sono stati un tipico prodotto della
cultura di massa e non un ripiegamento nella dimensione autoriale della
sceneggiatura letteraria e del disegno artistico (Brancato 2000). Ma anche
questa sua svolta culturale è stata di non poco interesse, dato il frequente
tratto sperimentale: una produzione che ha funzionato da indicatore e
bacino di idee per le mode tribali del presente, a partire dal look dei punk,
spingendo gli stilisti a perlustrare sempre più i margini più trasgressivi della
società, a sceglierli come ambientazione dei loro abiti, défilé, foto, spot (si
pensi per esempio ai video della pubblicità Diesel).
Non è un caso che l'ambiente genetico del fumetto sia stato il mondo
americano. "La prima volta che Gertrude Stein incontrò Picasso, a Parigi,
intorno al 1905, questi le chiese di procurargli delle strisce di fumetti
americani. All'epoca stava studiando le stampe giapponesi, ma trovava nelle
strisce chiari esempi dell'interfaccia e dell'intervallo che tanto lo
interessavano. Fu in questo stesso periodo che incominciò a studiare l'arte
tribale africana" (McLuhan 1969; trad. it. 2002, p. 211). Intervallo e
interfaccia. Le strisce a fumetti sulla stampa si erano sviluppate negli stessi
ritmi spazio-temporali già da questa instaurati per sintonia con la vita
metropolitana che, a cavallo tra gli ultimi due secoli del millennio, stava
infine abbandonando i mattoni e la carta per tradursi nel montaggio
cinematografico dell'immagine filmica (Frezza 1978, 1995).
Cinema e televisione
Film che raccontano la moda e il suo ambiente. Il film Fig leaves (1926; Le disgrazie
di Adamo), di Howard Hawks, può essere scelto come inizio di questo
campo di indagine. Si tratta di una commedia che parte da un prologo fra
Adamo ed Eva nell'Eden, dove Eva si lamenta della povertà del suo
guardaroba e Adamo ascolta le proposte insidiose di un serpente. Si passa
al 20° secolo: Eva, casalinga annoiata, si fa assumere in un atelier mentre
Adamo, che fa l'idraulico, viene tentato da una bionda vicina di casa. C'è
tutta la storia della commedia umana dei costumi passati attraverso i media
di massa. Entrando nell'epoca del cinema sonoro l'universo della moda si
presta subito al musical: Roberta (1935) di William A. Seiter, con Fred
Astaire e Ginger Rogers, da cui il remake Lovely to look at (1952; Modelle di
lusso), di Mervyn LeRoy, in cui le sequenze con sfilate di moda furono
dirette da Vincente Minnelli, un regista cult per il rapporto diva-
abbigliamento. Anche Vogues (Modella di lusso), di Irving Cummings, uscito
nel 1938, fu un film in cui la luce canora e scenografica del musical si
esibiva in comune con le fantasmagorie della moda. A parte The
women (1939; Donne), di George Cukor, film da segnalare non tanto per i
suoi cinque minuti a colori di una sfilata di moda, ma per il fatto di essere
interamente una commedia al femminile, l'elenco può continuare con
prodotti cinematografici dedicati a donne più o meno aggressive, 'di
carriera', che ruotano intorno all'industria vestimentaria: Falbalas (1945), di
Jacques Becker; Daisy Kenyon (1947; L'amante immortale), di Otto Preminger,
con Joan Crawford, diva cult del corpo vestito, prima luminoso e seducente
e poi incrudelito; I can get it for you wholesale (1951; La conquistatrice), di
Michael Gordon, una sorta di Eva contro Evasul mondo della moda; The
band wagon (1953; Spettacolo di varietà), di Vincente Minnelli, con Fred Astaire
e Cyd Charisse, con una celebre sequenza di balletto ispirato a una
sfilata; Lucy Gallant (1955), di Robert Parrish, ambientato tra ex allevatori
divenuti ricchi petrolieri, in cui una intraprendente stilista, con l'occhio
puntato sulla moda europea, vive una vita sentimentale che, sulle basi del
mélo hollywoodiano, già annuncia il clima televisivo di Dallas e di Beautiful.
In Funny face (1957; Cenerentola a Parigi), di Stanley Donen, Audrey Hepburn
è una giovane bibliotecaria lanciata nel mondo della moda parigina da un
fotografo, Fred Astaire; Designing woman (1957; La donna del destino), di
Vincente Minnelli, si gioca su un aperto conflitto tra lei, donna di classe e
di moda (Lauren Bacall), e un giornalista sportivo, segno della costante
attenzione cinematografica a una divergenza familiare che, da parte dello
spettatore, emergerà nel consumo televisivo.
Divi e moda, moda e divi. Si può fare riferimento per tutti i divi a Greta
Garbo? "La Garbo appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la
sola cattura del viso umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in
cui ci si perdeva letteralmente in un'immagine umana come in un filtro il
cui viso costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva
raggiungere né abbandonare. […] Ora la tentazione della maschera totale
(la maschera antica, per esempio) implica forse meno il tema del segreto
(com'è il caso delle mascherine italiane) che non quello di un archetipo del
viso umano. La Garbo offriva una specie di idea platonica delle creature e
ciò appunto spiega come il suo viso sia quasi asessuato, senza per questo
essere equivoco. […] la Garbo non si impegna in nessun esercizio di
trasferimento" (Barthes 1957; trad. it. 1974, pp. 63-64). Dunque il mito
della Garbo è tutto nel suo 'trucco' (poiché questo è per il cinema la
maschera greca): è lei, volto-voce, che illumina l'abito e non il contrario. È
un mito interamente condizionato dal primo impatto del cinema sulla
realtà, del fantasma schermico sulla vita materiale. Un mito irripetibile, oltre
la sfera estetica, come appunto davvero si addice ai miti.
Questo modello negli altri casi ha funzionato solo in parte e in ogni caso
non tanto attraverso il volto ma attraverso il corpo e quindi in un sempre
necessario dialogo con l'abito. Infine si è dissolto nell'attore
contemporaneo (in cui l'estro del caratterista prende il sopravvento sulla
fissità del divo) e nel bricolage televisivo (luogo di un divismo 'minore', più
'ordinario'). Si può accennare qui ad alcune figure che partono da Greta
Garbo e ne portano avanti il modello di dominio sulla sfera alta e
archetipica della moda (con tutte le sue ascendenze aristocratiche
necessarie ad ammantarla di sovranità sulla cultura di massa) sino a
trasformarsi in mitologie mediatiche, le quali ‒ per l'estensione che
assumono ‒ più che al look dei divi si riferiscono alla effettiva
trasformazione dei mercati e degli orientamenti di consumo.
Rodolfo Valentino trionfa nei film degli anni Venti: corpo latino,
orientaleggiante, assai adatto a suggerire, dietro la sua levigata sensualità,
quelle doti di passione che i nordamericani hanno sempre attribuito ai
popoli mediterranei e neri, servendosene come fattore drammatico nei loro
plot hollywoodiani; Marlene Dietrich (l'unico volto che ha potuto
competere con quello di Greta Garbo) può essere ricordata in Shanghai
Express(1932), di Josef von Sternberg, nei gesti calcolatissimi del suo corpo
vestito, nel sicuro contributo dato all'industria delle calze di seta e nel suo
modo inconfondibile di atteggiare bocca, mani e occhi fumando sigarette
attraverso i lunghi e lussuosi bocchini di quegli anni: Marlene appariva così
da una perlacea spirale di fumo, segno da sempre della vanità (non si
trascuri quanto una diva della moda come la Dietrich abbia durato
attraverso decenni ‒ dallo splendore degli anni Trenta sino all'orrore del
nazismo e, infine, a un'epoca assai meno 'auratica' degli anni Trenta ‒ in
sostanza sempre con 'lo stesso vestito'). Rita Hayworth interpretò un film
divenuto cult, Gilda (1946), di Charles Vidor. Qui acconciature e articoli di
abbigliamento sono fondamentali per l'intreccio: i folti capelli e i lunghi
guanti neri di Gilda ‒ allusione a un permanente 'spogliarello' del suo corpo
(desiderio di seduzione) e della sua anima (desiderio di liberazione) ‒
contrastano il bastone da passeggio di cui il suo ambiguo e geloso marito-
padrone si serve come arma. Un conflitto di cui la Hayworth, assoluto
'essere moda' della macchina da presa, dei costumisti, dei tecnici delle luci e
dei registi, è stata interprete in altri film famosi, in particolare in The lady
from Shanghai (1948; La signora di Shanghai) di Orson Welles. Qui la sua
immagine alla fine va letteralmente in pezzi: è la celebre sequenza
conclusiva in cui ogni vanità dei protagonisti, compresi l'amore e il
desiderio, si infrange nei mille frammenti di uno specchio. Dietrich e
Hayworth sono due esempi d'eccezione per quanto riguarda l'alta moda in
una serie numerosissima di altri 'modelli' sempre più diversificati nel gusto
e naturalmente nell'abito, da Veronica Lake in poi.
Un ultimo riferimento alla diva vestita, tra i tanti che qui si tralasciano, va
fatto al corpo di Kim Novak, non tanto per Picnic (1955), di Joshua Logan
(in cui merita segnalare comunque il gioco tra la sensualità prorompente
della sua attillata maglietta e il torace nudo di William Holden, una delle
prime anticipazioni dell'uomo forte ma sexy che dal cinema arriveranno alla
pubblicità televisiva), ma per la sua interpretazione nel film di Hitchcock
più attento al valore identitario e insieme feticistico
dell'abbigliamento, Vertigo (1958; La donna che visse due volte), in cui una
carnalissima Novak è sadicamente costretta a indossare gli abiti di una
moglie morta.
Schermo e spirito della moda. In questo ambito potrebbero essere inseriti tutti i
film che non trattano né di moda né di dive o divi, ma costituiscono una
riflessione assai più profonda sull'abbigliamento e sul suo significato.
Scegliamo solo due film, ma fondanti, l'uno sul rapporto tra fotografia e
moda e l'altro sulla simbologia del vestito bianco, rispettivamente Sunrise. A
song of two humans (1927; Aurora), di Friedrich Wilhelm Murnau, e King
Kong(1933), di Merian C. Cooper ed Ernest Schoedsack. Film che non
hanno fatto moda né sono stati creati dalla moda, ma ne hanno detto nei
modi del cinema, forzando la trama stessa della sceneggiatura.
Il primo, Aurora, presenta una sequenza chiave in cui una giovane coppia di
contadini, entrata nello spazio metropolitano (traffici e divertimento),
ricostruisce il proprio legame drammaticamente spezzato perché lui si è
lasciato tanto attrarre da una donna di vita esperta in seduzioni mondane
da spingersi a desiderare di uccidere la moglie. Più ancora che con la
religione coniugale o con i conforti della città riescono nuovamente a
riconoscersi in una vita felice e dotata di senso guardando la fotografia che
si sono fatta scattare in un piccolo atelier, attrezzato proprio al fine di
rappresentare secondo convenienti stereotipi sociali, leggibili e condivisibili,
le figure umane che, passando davanti alla sua vetrina, vengano attratte dal
bisogno di vedersi dal 'di fuori'. Un privilegio che la pittura rendeva
monumentale e riservava a pochi e che la fotografia estendeva a molti e
rendeva leggero. Già prima di quel giorno così mirabilmente interpretato
dal regista Murnau e da quel momento in poi, con l'incremento del flusso
di cittadini-spettatori che si lasceranno distrarre e attrarre dalle vetrine del
cinematografo, quel rito si è ripetuto sino ai giorni nostri per ceti, classi e
persone di ogni tipo.
Il secondo film, King Kong, è forse il più alto prodotto di una regia
orchestrata dalla stessa industria del cinema. Si tratta della ben nota storia
di una troupe cinematografica che strappa dal suo habitat primordiale e
tribale un mito incarnato, appunto King Kong, tentando, vanamente come
alla fine risulterà, di metterlo in scena in un teatro di New York. La
sequenza da richiamare è qui la prova di recitazione ‒ sulla tolda della nave
che si sta dirigendo verso l'isola di Kong ‒ a cui il regista sottopone la
giovane attrice. Le fa indossare un abito bianco (sappiamo come esso sia
un indumento chiave nel guardaroba femminile e nell'industria
vestimentaria) e le ordina di simulare urla di terrore, di cui tutti i presenti e
lei stessa non sanno ancora l'effettiva ragione, il corpo reale che potrà
suscitarle. Vi sono tutti gli elementi di un'epopea moderna: il bianco
dell'abito è quello anche del sacrificio votivo, al tempo stesso il colore
bianco ‒ in un contesto di viaggio verso mete sconosciute ‒ è il bianco in
cui, ai confini del mondo, si dissolve l'avventura di Gordon Pim (ma che
alcuni critici si sono immaginati essere la veste bianca delle donne-mogli
redivive che ossessionarono l'immaginazione di Poe, in qualche modo una
'grande madre') e anche il colore del male cercato dall'Achab di Melville
nella sua balena. Si inaugura così una letteratura di viaggio americana che
sembra essere assai spesso il disperato tentativo di trovare radici, magari
nelle tradizioni europee. La veste bianca della nostra eroina viene
delicatamente rimossa dalle attenzioni che King Kong rivolge alla pelle
civilizzata di lei, bianca e non nera come le fanciulle che gli indigeni
dell'isola erano usi offrirgli in sacrificio. La stessa veste bianca, bagnata
nelle acque di un lago profondo (come l'inconscio) in cui l'eroina e il suo
futuro sposo si sono gettati per salvarsi da Kong, rivela, aderendo alla sua
pelle e facendosi trasparente, l'erotismo sino ad allora trattenuto, inibito
(l'acqua è simbolo al pari di purezza e di peccato: ha la fluidità dei
fenomeni della moda).
Infine, ancora in bianco, sulla scena del teatro e con alle spalle il Kong
incatenato, l'attrice si mostra diva e sposa. Come si vede, un'infinita serie di
avventure del vestito (contro il perturbante, contro il desiderio, verso una
identificazione sicura e legittima del proprio giusto abbigliamento). Così è
stato per tutta la storia dello schermo. Tanto che essa potrebbe essere
ribaltata in una storia del guardaroba novecentesco i cui capi d'abito hanno
di volta in volta scelto il corpo più adatto per essere indossati. Forse
meglio: si tratta del guardaroba delle appartenenze culturali che
compongono la natura espansa e invisibile dell'immaginario e che, arrivato
nell'epoca della riproducibilità tecnica, ha avuto bisogno di esprimersi
sempre più in immagini di massa che facessero sopravvivere il passato nel
presente secondo i vincoli di una società dello spettacolo già iniziata con il
Rinascimento. Quante dee e dive ‒ dalla pittura al teatro, alla fotografia e al
cinema ‒ ci sono volute per potere incarnare Cleopatra e quante attrici per
incarnare i ruoli della vita sociale?
La donna e il suo rovescio. In ogni epoca (anche del mondo antico), tra
abbigliamento maschile e femminile vi è quasi sempre stata una grande
differenza, non solo nelle distinte forme dovute alle diverse funzioni
dell'abito per l'uomo e per la donna, ma anche, e soprattutto, nella
contrapposizione simbolica tra il diverso investimento di fantasia, ricchezza
e ornamento messo in opera sulla figura sociale del 'sesso debole' rispetto
alla efficienza e funzionalità dell'uomo. Tranne che dal Rinascimento al
Settecento, in cui abbigliamento maschile e femminile hanno goduto di pari
sfarzo, l'abito maschile dalla crisi dell'aristocrazia in poi ha conservato la
sua tendenziale appartenenza al rigore della divisa militare e allo spirito
produttivo e burocratico della borghesia.
In uno dei suoi più celebri romanzi, L'île mystérieuse (1875), Jules Verne ha
descritto la fisionomia dell''ingegnere' moderno, molto distante dall'artista e
dal creativo, capace in guerra come in pace di risolvere i problemi, di
ridurre la complessità. In questa figura emergente è stato Theodore Dreiser
a leggere la componente omicida di un eroe in ascesa (verso i 'mariti
assassini' e i serial killers), in un romanzo altrettanto caro ai media, An
American tragedy (1925), per il conflitto che, secondo la migliore tradizione
religiosa, vede severamente punire la vanità delle mode in quanto
inevitabile stimolo al delitto.
Che alla donna sia stato affidato un ruolo decorativo superiore a quello
dell'uomo si spiega nel fatto che essa, in ordine dell'autorità familiare e
ancor più del contratto matrimoniale, è stata ritenuta proprietà del marito,
esattamente come la casa e gli oggetti con cui addobbarla e i lussi, quindi,
con cui fare insegna del proprio status sociale. Così era e in parte ancora è,
soprattutto nelle sacche di minore sedimentazione e acquisizione culturale
dei processi di socializzazione innestati dai consumi e dai media, per i ceti
più poveri, identità ancora non entrate nell'affluenza delle merci, o per i ceti
più insicuri, identità proletarie e piccolo-borghesi ancora immerse nella
rigida opposizione tra povertà e opulenza (una dicotomia tipica della prima
fase di consumi, quella regolata interamente dai bisogni primari) ma anche
per i neoarricchiti, identità che usano la loro grande disponibilità di
acquisto con un tipo di ostentazione ancora vincolata ai valori culturali del
loro precedente status e gusto. Di tutto questo ritratti e caricature,
narrativa, fotografia, cinema e infine televisione hanno svolto un
formidabile ruolo di testimonianza volontaria e ancor più involontaria (in
particolare la televisione).
Anche il cinema, sino a prima della televisione, pur parlando sempre più di
donne libere ed emancipate, pur facendosi luogo di veri e propri trattati
della seduzione vestimentaria, in genere usò trame in cui i personaggi
femminili, varcando la soglia tra il loro retroterra storico-sociale e la loro
socializzazione di massa, potevano correre seri rischi, persino mortali,
potevano essere sconfitti e puniti, potevano anche vincere, ma comunque
quasi sempre a prezzo di un rito riparatore, il matrimonio. Un contratto di
mediazione istituzionale, se non anche religioso, con cui l'attore sociale che
tali personaggi travestono, fingono, sembra decidersi di propria volontà a
varcare, questa volta in una direzione sostanzialmente inversa rispetto alla
precedente, un'altra soglia: quella che dalla scena mediale della vita pubblica
riporta le eroine che hanno avuto l'ardire di visitarla (sorta di loro grand
tour o romanzo di formazione, vacanza turistica o lettura femminile)
dentro il retroscena familiare.
Bambini e giovani. La moda dei bambini (come la loro vita) resta più a lungo
trattenuta dentro i confini dell'educazione familiare e scolastica. La stampa
per l'infanzia è stata l'apparato di una divulgazione dall'alto verso il basso e
dal centro alla periferia con cui un sistema di valori elaborati dagli adulti
predispone le forme di consumo dell'infanzia. Spesso e soprattutto nella
costruzione borghese del bambino, si sono avuti grandi risultati espressivi:
si pensi al vestito di Peter Pan (che in abito disneyano diventa simile a
Robin Hood, eroe di trasgressioni a fin di bene).
Agli spot televisivi pomeridiani per i giocattoli, i gadget e i film dei bambini
('universi' che hanno una coerenza analoga a quella dei sistemi vestimentari
per adulti), corrispondono gli spot per gli accessori della moda giovanile, in
cui è significativo il rifiuto della logica del 'completo', della divisa, in
cambio di una libera composizione (quello stesso continuo bricolage fatto
proprio dalle mode più postmoderne, quelle più destrutturate) dei segnali in
cui si identificano (e che fanno riferimento ai mondi e agli eroi mediatici
che più 'frequentano'). Tendenze che, al pari delle culture televisive, le
tradizioni scolastiche e le politiche culturali scritte sono indotte a criticare
in negativo. A loro volta e paradossalmente, spinti dal loro bisogno
commerciale di sensazionalismo, i media turbano e inibiscono il loro stesso
ruolo liberatorio, collegando quasi sempre i costumi edonistici delle giovani
generazioni di oggi ai casi isolati di tragedie familiari o alle vite perdute sulle
autostrade dopo il ballo in discoteca: ancora una volta la vanità
dell'abbigliamento viene disvelata nel suo esito mortale.
Questo per dire che l'essere moda, l'avere un modo d'essere del
consumatore, rielabora continuamente alcune proprietà psicosomatiche
fondamentali, di volta in volta ripescate nel profondo dei propri bisogni e
tradotte attraverso diverse piattaforme espressive. In questo quadro la
sessualità trova, attraverso le mode comportamentali mediate dalla
pubblicità in senso stretto e in generale nella fiction, diverse versioni di un
istinto di vita originario. Le strategie di mercato ne dipendono tanto quanto
le sollecitano. Sull'estensione di queste apparenze della sessualità agiscono
naturalmente interdizioni sociali di vario tipo (squilibri e disuguaglianze nel
potere d'acquisto; valori culturali inibitori o trasgressivi).
Internet e le biotecnologie
Ora, dal lavoro sul vestito si passa in modo sempre più radicale al lavoro
sul corpo. Si interviene sui valori culturali più profondi. I supporti
tecnologici in grado di soddisfare questo bisogno da sempre espresso dalle
mode, ma continuamente dimensionato dalla resistenza dei materiali, sono
ormai pienamente disponibili. Con una caratteristica essenziale:
l'innovazione digitale interviene sull'immagine in modo analogo alle
biotecnologie. Le due aree stanno confluendo in una soltanto.
Per inciso, più che rimandare all'uso dolce o brutale del piercing (assai più
della moda vestimentaria del tatuaggio) va anche evocato il
cinema horror e splatter, in cui effetti speciali più o meno sofisticati lavorano
sulla sistematica per-versione dei corpi vestiti non in nudità ma in poltiglia
di carne, in brulichio di vermi, come peraltro fa anche Sterbak e a cui ormai
alludono persino alcuni intrattenimenti televisivi di prima serata, dove,
seppure nei modi edulcorati dello spazio familiare, l'attenzione del pubblico
viene ottenuta facendo oggetto di spettacolo domestico, situato, donne
d'abito comune che, in memoria dell'universo freak dei circhi d'attrazione,
vengono messe alla prova dall'essere coperte e disgustate da topi o rettili o
insetti.
L'adesione automatica della moda agli strappi del linguaggio dal vivo,
immersivo, della persona, la fa essere forza motrice e insieme rivelatrice dei
mutamenti in atto nel mondo. Di queste sue capacità si è reso conto assai
più chi le ha resistito di chi l'ha assecondata come un fatto naturale. Così da
Baudrillard in poi. Ma molto prima della svolta francofortese, Max Nordau
era divenuto noto e influente per avere attribuito alla moda una funzione di
degenerazione tanto dell'arte quanto del costume moderno (una figura
come Oscar Wilde, data la sua omosessualità, poteva divenire emblematica
della corruzione sia delle forme letterarie sia del corpo). La differenza tra i
due momenti sta tra la fase in cui la comprensione della moda come effetto
sociale è stata considerata come un dato interveniente del tempo moderno
‒ dato pericoloso ma non sostanziale e quindi ridimensionabile ‒ e la fase
in cui la moda è in sé e per sé ogni mondo possibile. L'umano trasformato
attraverso le biotecnologie.
Internet sta già da tempo trasformando il design della moda, come ogni
altro design, dalla ideazione (grandi possibilità di reperire idee e
informazioni non più soltanto nelle strade) alla produzione (la cui
dislocazione globale trae molto vantaggio sul piano organizzativo da reti
che su questo piano stanno sempre più trasformando la filiera produttiva
dell'impresa), alla distribuzione (altro settore ridefinibile e risanabile grazie
alle reti), al consumo situato (non tanto la sostituzione del negozio ma una
relazione costante tra le vetrine elettroniche e quelle reali, maggiore volume
di informazione su listini e costi, soprattutto maggiore capacità di
individuazione di target articolati in nicchie, in consumi fortemente
personalizzati; Scipioni 2002).