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Paul Poiret
“Dall’antimoda alla Belle Epoque di Poiret”

Andrea Vittoria Valeriano | Storia della Moda II |


Prof.ssa I. Chiappara

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Appendice

Introduzione_________________________________________________ 2

Capitolo 1 Antimode e abiti d’artista______________________________________________ 4


1 I movimenti reform___________________________________________________1
1.1 Il Künstlerkleid______________________________________________________2
1.2 L’abito alla greca____________________________________________________3
1.3 futuristi______________________________________________________________3
1.4 Gli artisti e la moda parigina________________________________________6

Capitolo 2 Paul Poiret______________________________________________________________8


2.1 giovinzza_____________________________________________________________9

2.2 Doucet_______________________________________________________________10

2.3 Sotto le armi_________________________________________________________13

2.4 Inizi come creatore di moda__________________________________________14

2.5 Influenze________________________________________________________________16

-2.5.1 introduzione_________________________________________________________16

-2.5.2 storia_________________________________________________________________16

-2.5.3 la moda femminile___________________________________________________17

2.6 l’ispirazione neoclassica


poirettiana_______________________________________________________________18

2.7 El’orientalismo_______________________________________________________21

2.8 influenza viennesi: l’atelier


martine___________________________________________________________________24

2.9 Gli anni della guerra________________________________________________26

2.10 tavole_________________________________________________________________27

2.11 viaggio in Marocco: l’oasi___________________________________________30

2.12 Viaggio in America___________________________________________________31

2.13 l’esposizione del 1925_________________________________________________32

Capitolo 3 Conclusioni____________________________________________________________34

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Introduzione

Femminilità e modernità sono legate attraverso la moda; in particolare andremo ad


esaminare il couturier Paul Poiret, il quale rintracciò le contraddizioni incorporate nel
moderno come un mondo relativamente nudo di intendere e relazionarsi al tempo.

“É la relazione della moda al tempo che la rende una forma tipicamente moderna”.

Nella moda, potremmo dire, P. Poiret ha avuto un ruolo veramente importante da svolgere
per quanto concerne le idee rivolte su ciò era alla moda nella prima metà del ventesimo
secolo.
Tutto quel che oggi sembra far parte naturalmente di questo mondo fu in qualche maniera
anticipato da lui, Paulo Poiret; Non per niente fu l’interprete insuperato di un’eleganza
originalissima fatta di linee classicheggianti e dettagli esotici. Favorì la creazione del
sindacato francese nella Haute Couture per proteggere i modelli originali dalle imitazioni; si
distinse come un pioniere del prét-â-porter, realizzando collezioni per il grande magazzino
parigino Printemps. Inaugurò il Total Lifestyle. Fu inoltre il primo Couturier a sancire il
trionfale ingresso dell’arte nella moda. “Sono un artista, non un sarto” amava ripetersi per poi
chiedersi: “solo un folle quando sogno di mettere l’arte nei miei vestiti o quando dico che la
Couture è un’arte?”. Gran mecenate e collezionista, nella sua raccolta figuravano tra gli altri:
Matisse, Picasso, Van Derain, Picabia; si ispirò nelle sue creazioni agli arditi contrasti
cromatici prediletti dai Fauves; “Sono un Parigino e vengo dal cuore stesso di Parigi”, così
esordisce in En habillant l’époque, la sua autobiografia scritta nel 1930 tradotta in italiano per
la prima volta, a 130 anni esatti dalla sua nascita. Non emerge l’autoritratto ironico e a tratti
compiaciuto di un uomo vulcanico che, anche in un momento in cui la sua popolarità era
stata offuscata dalla “povertà di lusso”, non tradisce mai la sua genialità. En habillant l’epoque
non fu il tuo unico scritto. Infatti, oltre a firmare vari articoli, fu l’autore di Revenez-y (1932),
di Art et finance (1934) e di un tratto cullinario, 107 recettes et autres curiosités culinaire
(1928).
Poco prima della fine, un giorno incontrò Chanel, come di consueto vestiva di nero, e le
chiese: “Per chi, Madame, si è vestita a lutto?” e Chanel implacabile: “Per lei, Monsieur”. Ciò
nonostante le sue creazioni, caratterizzate da un gusto celtico e stravagante sono state
periodicamente reinterpretare dalla moda: si pensi all’opera di Elsa Schiaparelli o di Gianni
Versace, di quel pioniere del made in Italy che è stato Walter Albini e di John Galliano, tutti
stilisti che, in momenti diversi, ne hanno profondamente subito influenza.

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Capitoli I

i movimenti reform
Lo stile di vita ottocentesco borghese ebbe numerosi oppositori; artisti e intellettuali posero
un freno all’estetica della “vanitas”, proponendo modelli culturali alternativi. Nel 1851 si
produssero falsificazioni individuali contro-producenti per lo sviluppo estetico ed economico
della società. Perrot affermò: “alcuni cercano di scongiurare il disagio ispirato ai trionfi della
mediocrità moderna e tentano di arginare i drammi dell’indistinzione generalizzata,
circondandosi di un sistema di oggetti della bellezza e della rarità rassicuranti, dispiegando
intorno a sé una decorazione che protegge e distingue”.
La borghesia dunque cercò di ritornare ai principi originari, propri di questa classe. La
sobrietà, la funzionalità, il modello di una vita operosa legata ai valori del lavoro, agli arbori
del femminismo. Negli anni ’40 Amelia Bloomer pubblicò sulla rivista “The Lily”, dichiarando
la sua devozione verso gli interessi delle donne: un movimento ispirato al principio di
temperanza. Nel 1851, in linea con quanto citato, decise di adottare un abbigliamento più
pratico e meno ingombrante delle gonne con crinolina; cominciò ad indossare corti
gonnellini e pantaloni alla turca, ispirandosi
all’esotismo. Tutto ciò creò un forte scandalo
nella società: i pantaloni che fino a quel
momento indicavano una potenza nonché
superiorità maschile. Ciò oscurò i reali motivi
della Bloomer verso una praticità e quindi una
migliore movenza sotto le vesti femminili.
D’altra parte era difficile stabilire cosa fosse più
pericoloso dei contenuti che stava portando. Il
suo modo di vestire non si discostava per nulla
dalle linee del secolo: il corpetto, prevedeva un
busto non del tutto rigido, una gonna ampia.
La novità fu appunto quest’ultima che si
accorciò lasciando intravedere i pantaloni
sottostanti fino alla caviglia.
Purtroppo l’Occidente ancora non era pronto a
quest’abbigliamento “anticonvenzionale”; la
Bloomer finì col tornare all’abbigliamento
tradizionale.
L’idea analoga fu ripresa dalla viscontessa
Haberton nel 1881. Fondò la “Rational Dress
Society”, un movimento che interveniva
sull’abito femminile in nome della salute della donna e della sua igiene, proponendo l’uso di
gonne-pantalone. Contro l’introduzione di ogni tipo di moda che deformi la figura e ne
impedisca i lineamenti del corpo, a sfavore della salute.
Fu in disaccordo sull’uso dei corsetti, di gonne ingombranti, di crinoline, di tournes di ogni
genere, perché brutte e deformanti. Promuovevano invece l’adozione nel rispetto e nel gusto
e nella convivenza individuale, di uno stile di abbigliamento basato sul comfort.
Ada Baillie, nonostante i trent’anni in più dalla provocazione della Bloomer, si rese conto che

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l’ora di una rivoluzione ancora non era giunta. Ci si doveva limitare a ragionare intorno
all’abito intero, che non stringeva troppo la vita e si appoggiava alle spalle, limitando l’uso del
busto, ritenuto responsabile di malformazioni ed oggetto di crociate di alcuni medici.
L’aspetto di maggiore rilevanza era legato ai primi accenni di rivoluzioni femministe,
consentendo la diffusione di nuove ideologia anche nel resto d’Europa. In Germani ad
esempio, il gruppo “Reformkleidung”, sostenne una lotta contro la moda, contro abiti, busti
ritenuti antigenici ma anche contro la Francia. La rivalità tra Francia e Germani iniziata dalla
guerra del 1870 alla grande guerra, coinvolse entrambi i paesi in situazioni analoghe e
contrarie.
In primo punto affrontando la questione del busto, considerando la sua azione una minaccia
di future gravidanze: “il solo status possibile dell’esistenza femminile”; il dibattito coinvolse
anche i principi generali della cultura borghese. Come disse Poiret: “l’invalidamento sociale si
manifesta prima di tutto mediante un’invalidità fisica”. Era questa l’ennesima eredità
aristocratica che la borghesia faceva propria.
Per raggiunger l’obbiettivo della liberazione del corpo dalla schiavitù del busto, dell’abito
pesante iper-decorato e del ciclo della moda si seguiranno, diversi momenti ideologici che di
volta in volta terranno più conto degli aspetti salutisti e naturali che di quelli estetici.

1. 1

i kÜnstlerkleid

Il progetto di riformare un nuovo modello borghese si diffuse in Europa e ne divenne un


simbolo: gli esoterici frequentanti di Monte Verità ad Ascona adottarono indumenti che
rispettavano la bellezza del corpo e rispecchiavano l’armonia fra soggetto e natura. Un
modello rivoluzionario perseguito anche nella vita quotidiana. La missione educativa fu
dunque di modificare la forma per un’estetica colta, più raffinata, costringendo la società
borghese ad un salto culturale.
La rivoluzione del sistema delle arti applicate ebbe l’obbiettivo di ribaltare il sistema
produttivo, industriale spersonalizzato, che si andava ad affermare. L’idea di cui Morris
(idealista delle Arts & Crafts), era stato promotore, era risolvere il problema dell’identificare i
modi attraverso cui l’arte poteva integrarsi nella vita giornaliera: l’abito rientrava nel progetto
con la stessa valenza dei mobili. Sei vestiti realizzati per la moglie dal taglio molto
semplificato a vita alta e gonna alta e lunga, decorata con lo stesso stile innovativo che
l’architetto belga aveva ideato per altri progetti: furono questi i protagonisti al Museum
Krefeld, favorevoli alla moda Reform.
Gustav Klimt disegnò per la sua compagna, Emilie Flöge, modelli ispirati alla tradizione
orientale su strutture sartoriali del ‘900. Linee semplici, schemi decorativi raffinati,

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morbidezza negli indumenti etnici/orientali, vicini ai gusti
del pittore, innovarono anche l’animo dello stesso Klimt.

1. 2

L’abito alla greca

La ricerca di un abbigliamento estetico, adeguato alla


società che voleva vivere in modo più naturale e
soprattutto circondata dalla bellezza, ebbe una svolta
anche in relazione alla moda ‘greca’.
Negli anni settanta era avvenuto un evento straordinario:
Schliemann aveva portato alla luce Troia, Micene e
Tirinto, dimostrando qualcosa che nessuno aveva mai
osato; pensare ai racconti di Omero riscosse successo,
smuovendo gli animi: tutti erano in preda allo stupore e alla curiosità. Era inevitabile che
tutto ciò non avesse un’influenza sulla moda, anche quella colta ed alternativa che
perseguivano gli artisti. La teoria del dandy di Oscar Wilde si riprese nel 1890, quando si
formò un’altra associazione “The healthy and Artistic Dress Union”: l’obbiettivo era
promuovere un modo di vestire che non fosse contrario alla salute piuttosto che avesse un
alto valore estetico.
L’idea di un ritorno all’abito delle origini si andava diffondendo in ambiti culturali molto
lontani e diversi fra loro. Pochi anni dopo, Isadora Duncan, iniziò la sua particolare
rivoluzione della danza esibendosi.

1. 3

I futuristi

Il primo decennio del nuovo secolo vide nascere


un’altra forma di ricerca artistica che affermò sé
stessa attraverso l’opposizione dura al modello di
cultura borghese: quelle avanguardie che scelsero di
esprimersi attraverso un intervento violento e
provocatorio.
Il gruppo cominciò a diffondere la propria idea di
modernità d’ arte attraverso un manifesto pubblicato
sul quotidiano francese “Le Figaro”. L’artista

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intellettuale sceglieva così di estendere la
propria area di intervento ai luoghi di
dibattito e di formazioni di opinioni.
L’entusiasmo con cui venne enfatizzata la
meraviglia della vita metropolitana non
poteva non toccare uno degli elementi
fondamentali del paesaggio sociale
urbano: il modo di vestire di uomini e
donne; in articolare quello maschile fu
messo in discussione. Gli artisti futuristi
cominciarono a mettere in pratica colore
ed asimmetria, prima nella forma di
calzini colorati e spaiati, poi di cravatte
variopinte e di indumenti dall’aspetto
inusuale. Balla ad esempio, disegnò e
realizzò abiti per sé innovativi le cui
forme e ritmi cromatici, suggerendo effetti dinamici.
L’abbigliamento doveva modificarsi secondo regole generali, ma ciascuno era libero di
cambiare l’aspetto esteriore attraverso ‘modificanti’, elementi geometrici di tessuti e colori
diversi, forniti al capo, da applicare a
piacere. Negli anni successivi i futuristi
aprirono il primo laboratorio italiano per
la realizzazione ma fu un piano più teorico
dove la moda ne era quasi del tutto
assente. Le realizzazioni più interessanti
furono probabilmente i gilet ad assemblage
progettati da Balla e Depero negli anni
venti, ma che purtroppo ebbero scarsa
diffusione.
Per quanto riguarda la moda femminile, si
affermò cos’ di seguito: “La moda
femminile è sempre stata più o meno
futurista”, l’unico problema che giustificava l’interesse da parte dei futuristi, era la povertà di
idee della produzione di abiti del momento, nascosta sotto le false insegne della distinzione e
della sobrietà. Bisognava spezzare tutti i freni per le virtù dinamiche, trasvolando sulle
vertigini dell’Assurdo.

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Aleksandra Ekster, modelli di vestiti
da produrre in serie, 1923

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1. 4

Gli artisti e la moda parigina degli anni venti

La prima guerra mondiale portò una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gonne si


accorciarono, la linea si fece sempre più
diritta, il taglio si semplificò in modo deciso.
L’invenzione di un nuovo modo di vestire
coinvolse molti artisti. In particolare, le
nuove forme d’arte e il gusto déco, erano in
grado di mettere a disposizione della moda,
una nuova concezione della decorazione
dell’abito, sia come disegno tessile che come
applicazione di ricamo. Molte case di moda
ricercarono quindi il contributo, degli artisti;
questo tipo di lavoro interessò molti dei russi
che si erano stabiliti a Parigi in seguito alla
Rivoluzione d’ottobre come Ilia Zdanevich
che collaborò con Sonia Delaunay e Grabielle
Chanel.

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Paul Poiret (1879-1944)
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2.1 GIOVINEZZA
Nato a Parigi, in rue des deux écus, nel I arrondissement, cresciuto con un padre mercante di
tessuti di lana, sotto l’insegna “L’Espérance”. La sua esistenza trascorreva fra l’appartamento
di sua madre al primo piano, e il negozio di suo padre sotto, dove di tanto in tanto si
permetteva di scendere. La madre, con un’affascinante tenera donna dalla dolce educazione
nettamente superiore al suo ceto. All’esposizione del 1878, 1889 e 1900 comprarono molto di
ciò che sarebbe servito per la costruzione di un loro patrimonio. Non sempre i loro acquisti
erano apprezzabili, ma
dimostravano un’aspirazione
all’avanzamento, un’evoluzione
verso il bello. La cultura è qualcosa
che non si improvvisa.
Gli anni trascorsi della sua
giovinezza più matura li trascorse a
Billancourt, nell’ozio operoso della
sua infanzia; una sera, lasciò
Billancourt con i suoi genitori e si
presentò all’inaugurazione del 1889.
Qui inizia a nascere un nuovo gusto
per la bellezza: “Mi sono chiesto
spesso se il mio gusto per il colore
non fosse nato proprio da quella
sera davanti alla fantasmagoria del
rosa, dei verdi, del viola”. L’
esposizione fece scoprire altre
meraviglie impreviste: le
applicazioni dell’elettricità, il
fonografo, Edison, la ferrovia
Decauville, il tapis roulant, le
macchine da stampa Marinoni, le
follatrici per la fabbricazione della
carta, le tessiture della lana, i
broccati di Lione. Quando ebbe 12
anni, lasciò la triste rue des deux
écus, e si trasferì in rue des Halles.
Andò a scuola nell’istituto
Massillon, dove bambini erano
certamente di un ceto sociale
superiore al suo. Le tre sorelle si ammalarono di scarlattina una dopo l’altra e, per evitare il
contagio lo misero nel collegio di Massillon. A causa di ciò soffrì molto per l’allontanamento
dalla famiglia. “Ero molto vanitoso e di tanto in tanto dimenticavo di lavarmi ma non
scordavo mai di cambiare il colletto”.
Era uno studente mediocre, più interessato alla letteratura e alla matematica. Dotato di una

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buona memoria; teneva sempre tutto a mente ed i suoi quaderni erano pieni di disegni
umoristici e gli altri ragazzi se li contendevano come se fossero i capolavori della biblioteca.
La sua infanzia volse a termine, divisa tra studi, frequentando compagni ed appassionandosi
al teatro dove trascorreva buona parte di quasi tutte le sue serate. Negli anni in cui si
preparava l'Esposizione del 1889, assistette ai progressi della Tour Eiffel che commentava a
bordo della sua barchetta. Terminati gli studi con difficoltà, stimolato da distrazioni
differenti per il gusto di assaporare le gioie della vita; a 18 anni diplomato, suo padre temendo
che scegliesse lui stesso la carriera sbagliata, lo spedì da uno dei suoi amici: un fabbricante di
ombrelli. Per lui fu una durissima prova. Afferma di seguito Poiret: “non sono mai in grado di
revocare senza tristezza la tetra ditta di quello ombrellaio che era la stupidità fatta persona.
Lì trascorrevo le giornate spolverando e trasportando pezze di siete scura. Detestavo e
disprezzavo un padrone che non arrivava a capire quanto potessero fruttare la mia forza le
mie capacità e la mia buona volontà”. Un lavoro noioso e pesante, da cui Paul sfuggiva con
l’immaginazione, progettando ambiti per una bambola e disegnando toielettes di fantasia.
Erano più che altro annotazioni a matita ma che indicavano sempre con chiarezza i concetti
di base e contenevano tutte le volte un dettaglio inventivo, un punto interessante.
Erano anche gli anni secondo i quali disegnatori e artisti cercassero di arrotondare il proprio
guadagno vendendo figurini; anche al giovane Poiret provò ad andare da Madame Chéruit,
dirigente dell’atelier delle sorelle Raudnitz. Qui mostrò i suoi lavori ed inaspettatamente la
grande sarta li comprò e lo incoraggia a continuare; iniziò da qui a visitare le case di moda
più importanti di Parigi tanto che nel 1898 Doucet, gli propose lavorare in esclusiva per lui.

2.2 doucet
Entro così nel mondo, del tutto
nuovo per lui, dalla sartoria, per i
quali si attendevano tanti
successi ma anche tante
delusioni. La casa di moda di
francese era nel pieno del suo
periodo aureo. Davanti alle porte
di rue de la Paix era possibile
vedere tre file di carrozze
signorili, sulle quali i vetturini di
allora sbizzarrivano la loro
fantasia. Era un’epoca benedetta,
in cui le preoccupazioni e le
contrarietà della vita, le seccature
dell’esattore, la minaccia
socialista non annullavano
ancora l’intelligenza la gioia di
vivere. Le donne potevano essere
eleganti per strada senza essere
esposte alle ingiurie degli

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sterratori. La familiarità che regnava tra il popolo e potenti della Terra era piacevole e
corretta. Grandi signori che frequentavano la
rue de la Paix rispondevano ai sorrisi delle
sartine. Per le strade fioriva un gradevole
cameratismo. Da Doucet conobbe ore
deliziose e persone indimenticabili che
esercitavano un enorme ascendente sulla
clientela; parlavano confidenzialmente e alle
grandi dame davano consigli in tono
percettivo. Esercitavano su tutto il resto del
personale un insopportabile dispotismo.
Mentre cercava in tutti i modi di consolidare
la propria posizione all’interno dell’atelier, le
commesse facevano tutto per umiliarlo
davanti ai dipendenti traendone piacere.
Fortunatamente, aveva qualche amica tra le
più giovani: la signora Ventadour, bionda
molto carina e la signora Lemesnil, bruna ed
elegantissima. Doveva in ogni caso muoversi
tra quelle dignità e fare ricorso a tutta la sua
diplomazia per essere gradito da tutti.
Monsieur Doucet lo aveva avvertito: “Mi
metto lì come si butta in acqua un cane
perché impari a nuotare. Arrangiatevi”. E lui
così si arrangiò. Il primo modello fa una
mantellina di panno rosso con strisce di
panno sagomate intorno al collo. Formava un
risvolto con il crespo di Cina grigio di cui era
foderato e si allacciava lateralmente con sei
bottoni di smalto. Se ne vendettero 400.
Una mattina Monsieur Doucet lo chiamò e lo
informò che avrebbe messo in scena Zaza. Era
la storia di una grande stella del café-
chantant che, dopo inizi difficili, avrebbe
ritrovato, nello splendore dei suoi giorni
migliori, un ex amante alla porta dei suoi
music-hall. Il personaggio femminile doveva
indossare un mantello strabiliante vellutoso e
proprio Poiret ne sarebbe stato l’artefice. Alla
fine creò un mantello: un tulle nero velava un taffettà nero sul quale Billotey dipinse degli Iris
enormi di colore bianco e malva. Larghissimo nastro di satin color malva e un altro viola,
inseriti nel tulle incastonavano le spalle e chiudevano il mantello sul davanti con un
artificioso fiocco. Tutta la tristezza dell’epilogo romantico, tutta l’amarezza del quarto atto
erano racchiuse in quel mantello pieno di significato e, vedendolo comparire, il pubblico
presentava la conclusione della pièce. Ormai era famoso presso Doucet in tutta Parigi. Aveva
raggiunto il suo pubblico sulle spalle di Réjane. Vide sfilare da Doucet tutte le tutte le dive, e
il suo gusto per il teatro era profondamente lusingato quando avevano l’opportunità di

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realizzare costumi di una verità come quello che veniva messo in scena ogni anno a l’épatant,
in rue Boissy d’Anglas. Ad esempio, un anno dovevano vestire i componenti del corpo di ballo
per l’Opéra da militari del Primo Impero. Interpellò Éuduard Detaille per avere informazioni
sulle uniformi degli ussari del 1815 che portavano in spalla una giacca con i bordi in astrakan,
tempestata di alamari, e sul capo un colbacco ornato di cordoni e la sabretache, la borsa
portaordini.
Un giorno Monsieur Doucet lo fece
chiamare nel suo ufficio; quel giorno
quel giorno non chiese i modelli ma
lo chiamò per dirgli che era contento
per lui e per incoraggiarlo
offrendogli la sua prima paga: 500
franchi al mese. Quando la sera
stessa lo raccontò al padre scrutando
per vedere nei suoi occhi l’effetto che
avrebbe prodotto; lui si rifiutò
semplicemente di credergli. Prese a
lavorare con più passione che mai,
stimolato dalla benevolenza di
Doucet. Creò tutta la serie di
completi che avevano giacche gonne
strette in vita; le donne indossavano
sui corsetti, vere e proprie guaine,
armature nelle quali erano
prigioniere dal petto alle ginocchia.
A terra, la gonna doveva formare un
certo numero di pieghe. Il tutto già
abbozzato su disegni che i
responsabili si contendevano.
Questi ultimi non erano come un
tempo, ora sono una banda
organizzata di pirati ed imitatori che
si accordano per comprare un solo
vestito in dieci e prestarsi i modelli
l’un l’altro, imponendo il loro gusto
alle case di moda parigine e dettando
il volere della moda americana,
sempre sterile e pecoresca. A
quell’epoca e quei signori venivano in massa ad assistere a tutte le sfilate dei grandi atelier e
non andavano in cerca di contraffattori.
In questi tempi però, ci fu un grande evento che svoltò la sua vita: di lì a poco ebbe una
sorpresa. Una cliente di Doucet gli fece arrivare una lettera nella quale pregava di incontrarla
al Café de Paris, era un’attrice americana che cantava a New York delle operette viennesi; di lì
a poco avrebbe lasciato l’atelier Doucet ed i pretesti non mancavano. Conobbe così la sua
prima compagna e per lei disegnò toilette e nuovi modelli che abbozzava. Portò i suoi disegni
a una sarta per confezionare gli abiti. Ciò arrivò all’orecchio di Monsieur Doucet e fu uno dei
motivi che lo indusse a privarsi dei suoi servigi.

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C’era anche un’altra ragione. Era il periodo delle prove de l’Aiglom, e aveva disegnato La
maggior parte dei costumi, in particolare quello di Sarah Bernhardt, interamente bianco con
la fascia annodata alla cintura, che consacrò il suo personaggio. Per questo motivo era spesso
a contatto con la signora Bernhardt e una sera si credette autorizzato a varcare la porta della
sala che proprio per quel motivo il signor Rostand si lamentò con lei con il monsieur Doucet
per la sua indiscrezione, che fu un’altra scusa della successiva caduta in disgrazia. C’era una
sola cosa che lo preoccupava: l’idea di avere irritato un uomo alla cui opinione teneva
tantissimo e di aver perduto la sua stima; per fortuna, seppe smentire la faccenda e in seguito
ebbe più di una testimonianza dell’affetto che nutriva per lui.

2.3
SOTTO LE ARMI: WORTH
Nel 1900 Poiret partì per il servizio militare ed al tuo ritorno, l’anno seguente, trovò lavoro da
Worth. Erano gli anni di crisi dopo la morte di Charles Frederick, quando Jean-Philippe si era
reso conto che gran parte della clientela del padre era invecchiata e costringeva la Maison a
uno stile non più alla moda, che non poteva attirare nuovi clienti. Teoricamente l’impegno
affidato A Poiret era di grande rilievo: rinnovare l’immagine della Maison con creazioni più
“giovanili” e adatte alle signore del nuovo secolo. “Ragazzo mio che sei virgolette, gli aveva
detto gaston Worth nel fargli la proposta, voi conoscete la Maison Worth, che veste da
sempre le corti tutto il mondo. La sua clientela è la più altolocate la più ricca, ma oggigiorno
questa clientela non indossa più soltanto abiti da cerimonia. Capita che le principesse
prendano l’autobus e passeggino a piedi per le strade. Mio fratello Jean ha sempre rifiutato di
produrre un certo tipi di vestiti, perché sente di non averne inclinazione, capi semplici e
pratiche, che tuttavia vengono richiesti. Siamo della situazione di un famoso ristorante nel
quale non si vorrebbe servire altro che il tartufo. Ecco perché abbiamo bisogno di creare un
reparto di patatine fritte chiuse”: un compito indubbiamente difficile. Egli tentò con un
tallieur dalla linea molto semplice e con un mantello a kimono di panno nero esibito per la
principessa Bariatinsky, ma la clientela di Worth era troppo affezionata al gusto vistoso e ai
grandi ricami per accettare la novità. Dall’altra parte gli stessi proprietari non avevano ben
chiaro quello che volevano diventare, quindi il rapporto non si concretizzò e si concluse
presto lasciando come unica testimonianza una toilette per la contessa di Greffulhe. Fu un
caso mondano: realizzato in occasione del matrimonio della figlia della nobildonna, l’abito
“Byzantine”, completamente ricamato in oro argento e con lo strascico bordato di zibellino,
ottenne il risultato di mettere in secondo piano la sposa.

2.4
Inizi come creatore di moda

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Nel 1903 Paul Poiret aprì la sua prima Maison al 5 di rue Auber, dietro l’Opéra: la sua
sistemazione la sommaria e per risparmiare, tenne qualche mobile. I parigini di quei tempi si
ricorderanno di essersi fermati davanti le vetrine per ammirare le cascate di sfumature che
sporgevano a profusione. Quando
nevicava, evocava tutta la magia
dell’inverno con stoffe di lana bianche,
tulle e mussole combinate con i rami
secchi e vestiva la realtà del momento
interpretandola in un modo che
incantava i passanti.
Certamente il modello di Poiret si
inseriva nella voga del giapponesismo
che in quegli anni aveva invaso Parigi.
Babani produceva a Kyoto lussuosi
kimono per il mercato europeo e dal 1904
aveva iniziato una campagna
pubblicitaria su “Le Figaro-modes”. Sada
Yacco aveva aperto in Boulevard des
Capucines Au Mikado, dove si potevano
trovare modelli di importazione e prezzi
più abbordabili. La stessa invenzione
delle maniche a kimono per il momento
di occidentali, che da quel momento
ebbe grandissimo successo, testimonia
l’attenzione diffusa verso un capo di
abbigliamento così diverso dal modo di
vestire dell’epoca. Se però nel primo caso di indumento giapponese era proposto come
vestaglia da camera e nel secondo si trattava solo di un particolare che si aggiungeva un
modello sartoriale per il resto immutato, Poiret ne propose una trasformazione radicale: un
capo occidentalizzato e usato come soprabito. Attraverso l’adozione di una modellistica e di
tecniche di taglio ispirate nella forma alla veste giapponese egli rompeva in modo definitivo
con la silhouette femminile di moda in quegli anni, modellata dal busto e dei corpetti
aderenti. Nello stesso tempo dava inizio al suo particolare modo di intendere l’esotismo,
mescolando disegni che venivano da culture diverse, in questo caso la Cina il Giappone. Nel
1905 fu fondamentale nella vita di Poiret per un altro motivo: sposò Denise Boulet, anche lei
figlia di un commerciante di tessuti, che in breve diventò la sua musa ispiratrice ed una delle
donne più eleganti ed estrose di Parigi. Il guardaroba della signora e tutti gli oggetti che portò
con sé al momento della separazione dal marito nel 1928 sono stati messi all’asta nel maggio
2005 da Piasa. Anche il 1906 può contrassegnato da una serie di avvenimenti positivi:
innanzitutto l’atelier stavo avendo il successo sperato e lo spazio divenne troppo angusto per
le sue necessità. Si trasferirono al 37 di Rue pasquier, nonostante le finanze non erano delle

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migliori, dove fu possibile procedere a una riorganizzazione del lavoro per reparti
specializzati seguiti da una nuova equipe. Qui può Poiret mette appunto la sua prima vera
sfida alla moda dominante: dichiarò guerra al corsetto. L’ultimo rappresentante di questi fu
Gache-Sarraute; questi nasce per ovviare ai problemi anatomici creati dal corsetto ‘a clessidra’
che lo precedeva ma, anche in questo caso, il nuovo modello causò non poche difficoltà alle
signore, che intorno al 1920 si frettarono a sostituire il busto rigido con la nuova invenzione
di Monsieur Poiret. Venne così sostituito da una cintura rigida e steccata alla quale era la
cucita la gonna. Il primo abito senza corpetto denominato “Lola Montes”, fu indossato da
Denise Poiret al battesimo della figlia Rosine. Dopo un mese che era già conosciuto in un
mondo parigino, le passanti si fermavano almeno una volta davanti al tuo negozio.
Affermò lo stilista: “Certo, so bene che ci sono sempre state donne intralciate dalla loro
naturale abbondanza, desiderose di celarla, ma quel corpetto le divideva in due blocchi
distinti: da un lato e busto, il petto e i seni; dall’altro tutta la parte posteriore, sicché le donne,
scisse in due lobi, avevano l’area di uno star tirando un rimorchio. […] Come tutte le grandi
rivoluzioni, anche quella era stata fatta in nome della libertà […] Fu ancora nel nome della
Libertà che raccomandai l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno che da allora ha
fatto fortuna. Si, avrei liberato il busto,
ma avrei impastoiato le gambe. Tutti
ricorderanno che fu molto più difficile
salire in carrozza, ma le loro geremiadi
parlavano a favore della mia
innovazione. Forse qualcuno ascolta
ancora le loro pretese? I loro pianti e i
loro brontolii hanno mai arrestato
l’avanzata della moda, o non hanno
piuttosto contribuito alla diffusione?”
Le affermazioni di Poiret sono sempre
molto autocelebrative per questo spesso
hanno bisogno di essere storicizzate. È
certamente vero che egli non utilizzò
più il busto tradizionale che stringe in
vita, ma lo sostituì con una guaina più
lunga che aderiva al corpo in modo
uniforme e costringeva soprattutto il
seno e il sedere. Se questo rappresentò
già un notevole passo in avanti in vista
della naturalizzazione dell’apparire delle
forme femminili, fu probabilmente più
importante la conseguente eliminazione
di quasi tutta la biancheria che fino ad
allora si collocava sotto le gonne. I

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nuovi abiti morbidi e leggeri, lasciavano spazio alla sola camicia è così eliminavano il peso
che le donne erano abituate indossare.

2.5 Influenze

2.5.1 Introduzione

Poiret cominciò a lavorare intorno alla nuova linea e a un'idea di donna assolutamente
innovativa. L'ispirazione era rivolta alla moda neoclassica degli anni del Direttorio, ma il
percorso creativo fu fortemente più complesso rispetto a quello nel semplice revival: egli non
pensava di riproporre un'epoca storica all'attenzione del presente, al contrario si concentra
sulla struttura di quel modello vestimentario cercando di coglierne gli elementi fondamentali
a cui agganciare la progettazione di un abito completamente nuovo.

2.5.2 storia
Con la caduta di Robespierre finì la fase eroica e ideologica della rivoluzione. Il Direttore cominciò
con feste balli: erano i Bals de Victimes cui potevano partecipare solo coloro che avevano avuto
coniugi ghigliottinati durante il Terrore. Uno strano modo per commemorare le vittime e lasciarsi
andare la sensazione di essere sopravvissuti. Capelli tagliati à la victime, scialli rossi, simili a quelli che
il boia aveva
gettato dalle
spalle di
Charlotte
Corday mentre
andava al
patibolo. La
reazione
maschile si
servì di segni
meno precisi: la
‘jeunesse dorée,
composta di
giovani
borghesi,
cominciò a
indossare

16
indumenti che era un aspirati alla moda inglese, esagerando nelle forme e gli effetti sartoriali, a
portare i capelli lunghi e sforbiciati, ma incipriati, alla moda dell’Ancien Régime, e maneggiare nodosi
bastoni. La divisa era costruita in modo da contravvenire alle regole dell’abbigliamento sanculotto,
per dichiarare la propria differenza da idee giacobine. Il bastone aveva un’ovvia funzione negli scontri,
con la controparte. Ma si sa la jeunesse dorée, i cui rappresentanti presero il nome di Incroyables, sia
erano marginali o marginalizzati nella società che si stava formando e il loro uso dei segni
vestimentari era ormai legato al passato. L’abbigliamento maschile adatto alla borghesia che aveva
raggiunto il potere aveva solo due strade: quella della divisa militare e quella dell’abito da lavoro,
professionale e intellettuale. Da quel momento i mutamenti del modo di vestire degli uomini europei
si sarebbero concentrati più sulla comunicazione di elementi di gusto e distinzione che sugli eccessi
estemporanei di qualche gruppo.

2.5.3 LA MODA Femminile


Un fondamentale momento di passaggio della moda femminile borghese: se durante la Rivoluzione si
era scoperto che gli indumenti erano strumenti estremamente duttili per comunicare significati
teologici e diversi, da qui l’abito fu affiancato dalla politica. Dopo la caduta di Robespierre, le donne
cominciarono a indossare abiti dritti di mussolina bianca che ricordavano, da un lato le chemise à la
Reine e dall’altro le tuniche classiche di cui erano rivestite le fanciulle e le figure allegoriche nelle feste
rivoluzionari. C’è la però anche una terza fonte di ispirazione ovvero la pittura di tema storico,
romano e greco. Gli scavi di Ercolano e Pompei avevano prodotto un interesse prima erudito e poi più
esteso nei confronti la cultura di immagini e raccolta di incisioni relative ai materiali di scavo ebbero
una rapida diffusione e si raggiunse quindi la riproposta della cultura classica da parte il pensiero
ottocentesco: ma ciò che più direttamente influenzò l’immaginario collettivo fu appunto il teatro. Dal
momento in cui cominciò a farsi strada il principio della verosimiglianza dei personaggi e delle scene,
sparirono i fantasiosi travestimenti che avevano caratterizzato la rappresentazione dei decenni
precedenti e sostituiti da abiti più adatti ai famosi eroi che agivano sulla scena punto. Per facilitarne il
compito ai costumisti, furono pubblicate storie del costume classico che dovevano avvicinare in
qualche modo le masse in scena delle tragedie. Il fenomeno ebbe un’accelerazione durante gli anni
della Rivoluzione quando il riferimento ai valori e alla cultura della Repubblica Romana divenne il
tramite. La “bellezza semplice” teorizzata da Winckelmann, la grazia delle figure femminili dipinte sui
vasi diventarono una fonte d’ispirazione non solo per le arti maggiori ma soprattutto per quelle
applicate. Fu primo grande revival messo in atto della borghesia occidentale, la prima volta in cui si
ricorse ad una fonte autorevole per dare forma al proprio quotidiano. In uno scenario decorativo si
inseriva male la figura femminile vestita di un caraco e sottana a fiori, ma diventava perfetta quella
accarezzata da un abito bianco che ricordava la tunica antica e avvolta in uno scialle ispirato al
mantello delle matrone romane. Questo abbigliamento era già stato proposto all’inizio degli anni
Ottanta dalle cerchie di intellettuali. La mancanza di riviste di moda la pubblicazione era stata
interrotta durante il terrore nel 1793, non permise di perseguire gli sviluppi del fenomeno e neppure di
sapere se c’è stato un centro che promosse questo modello vestimentario. Probabilmente si trattò
delle marchandes de modes, dalla capacità inventiva delle signore del direttorio e della jeunesse dorée,
ma anche dalla pittura d’avanguardia. “Le journal des dames et des modes”, nel 1997, pubblicò
soprattutto modelli con delle maniche cortissime, che d’altra parte si trovavano anche nei ritratti
dello stesso periodo, un fatto che testimoniava che a quell’epoca la foggia vestimentaria di cui parlava
Mercier era diventata “la moda”. L’abito femminile dunque si adeguò a tutto questo: eliminate le

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sovrastrutture, si ridusse una camicia di cotone leggero con la vita alta, segnata prima, da una cintura
passata all’interno ad arricciare il tessuto e poi, da un taglio e da una costruzione sartoriale vera e
propria. Ai piedi delle signore calzavano dei sandali, in seguito sostituiti da scarpine, chiamate
coturni, con i lacci alle caviglie. Per portare con sé le cose che in passato stavano nelle tasche delle
ampie gonne, adattarono una minuscola sacca, forse copiata da quelle da ricamo chiamate réticule,
ma anche ridicule per la sua dimensione. Era un modo di vestire assolutamente nuovo, sia per la fggia
sia negli usi: non è più prevista alcuna distinzione tra abito formale e informale e la nuova moda era
caratterizzata dalla assoluta semplicità del modello e della trasparenza, due cose che mettevano in
risalto il corpo femminile, spesso appena velato da una calzamaglia di seta colorata. Tanto uniformità,
però, non corrispondeva a un principio di uguaglianza: la moda aveva già trovato la maniera per
creare noi distinzioni. L’abito poteva essere fatto di lino o di mussolina indiana, due materiali dal
costo decisamente diverso. Poteva essere indossato nella totale trasparenza ma la moda richiedeva di
seguire la soluzione più lucida ed estrema: non era più tempo di virtù repubblicane o di morigeratezze
calviniste: poteva essere cucito in casa e realizzato da una sarta. L’apparente semplicità nascondeva
una vera struttura sartoriale che si andò affidando nel tempo. La schiena era sagomata in modo da
essere molto stretta, la gonna era arricchita da fitte pieghe sciolte che davano ampiezza al dietro,
all’interno era affiancato una specie di corpetto che sosteneva il seno ed impediva all’abito di spostarsi
dalla sua posizione. Totalmente realizzato in tessuti preziosi bordature e altri motivi classicheggianti.

2. 6
L’ispirazione neoclassica
poirettianA
L’ispirazione era rivolta alla moda neoclassica degli
anni del Direttorio, ma il percorso fu estremamente
più complesso di un semplice revival: si concentrò
dunque sulla struttura di quel modello vestimentario
cercando di coglierne la progettazione a cui
agganciare la sartoria di un abito completamente
nuovo. Il risultato iniziale fu modello diritto, vita
alta, in cui la tradizione settecentesca fu abbinata a
suggestioni che venivano da altre fonti, come quelle
orientali ed etniche e certamente anche quelle
dell’abito Reform. Il tutto viene realizzato con
materiali innovativi sia rispetto alla fonte, sia
rispetto all’uso della sartoria contemporanea e
soprattutto con colori stoffe che derivano
direttamente alcune culture vestimentare
extraeuropee; unite ad un’attenta osservazione della

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pittura d’avanguardia in particolare tipo dei pittori Fauves con i quali si divertiva e trattava
semplicemente di svago. In particolare attira l’attenzione di Matisse e Derain, che avevano esposto le
loro opere al Salon d’Automne del 1905. A questo proposito Poiret scrisse: “Quando ho iniziato a fare a
modo mio nel campo della moda, la tavolozza dei Tintori non prendeva più alcun color. Il gusto e le
raffinatezze del XVIII secolo aveva portato le donne alla decadenza e qui il pretesto della distinzione,
soppresso ogni vitalità. Si apprezzavano solo le sfumature di rosa cipria, i lilla i malva in deliquio,
l’azzurro il pallido, i verdini, gialli insomma. Gettai in quell’ovile alcuni lupi robusti: i rossi, i verdi, i
viola e i blu di Francia fecero cantare tutto il resto. Fu necessario dare la sveglia ai lionesi, che
faticavano a digerire le novità e mettere un po’ di allegria: arrivarono le crêpes de Chine di colore
arancio e giallo limone ai quali loro non avrebbero osato pensare. In compenso si dava la caccia ai
malva delicati. La gamma dei toni pastello e rappresentò un nuovo inizio. Trascinai con me la truppa
dei coloristi all’attacco di tutte le tonalità della tavolozza e ridiedi consistenza alle sfumature
estenuati. Sono costretto di attribuirmi questo metodo e a constatare che da quando ho smesso di
vivacizzare i colori, questi sono ricaduti nella depressione e nell’anemia”.
Il modello chiave della collezione ha preso il nome di Joséphine ed è quello che più esplicitamente
dichiarava l’ispirazione Impero ma la sopraveste di rete nera ricamata in oro e la rosa appuntata sotto
al seno gli toglievano ogni rigore filologico. Insieme a ciò però, Poiret propose una serie di capi di
ispirazione esotica: per la tunica Cairo, che riprendeva nei ricami idee prese dal folklore mediterraneo,
il modello Eugénie, che accostava la linea Impero a una sfolgorante garza di cotone broccata a pois
dorati molto probabilmente di provenienza indiana, il mantello Isphan, di velluto di seta che
testimoniava una dettagliata conoscenza del taglio degli indumenti dell’Asia centrale, e altri ancora.
Realizzata la grande trasformazione negli abiti, Poiret si rese conto che doveva trovare un mezzo
adatto per comunicarla. Non poteva certamente ricorrere alla normale stampa di moda che, con i suoi
figurini in bianco e nero e con il suo stile uniforme non sarebbe stato in grado di rendere giustizia né
ai modelli né soprattutto ai colori. Decise di
agire da solo trovando un’artista adatto alla
sua necessità e pubblicando le immagini delle
sue creazioni come voleva che fossero accolte
dal pubblico. Molti artisti con i loro disegni
hanno dato un’idea piuttosto precisa dello
spirito di quei tempi ma in particolar modo
poi ammirò Paul Iribe. Quest’ultimo aveva
fondato un giornale “Le Témoin” che era
redatto con molto umorismo e con un tocco
di novità. Era illustrato quasi per intero da lui.
“Pregai quindi Iribe per un incontro familiare
a casa mia e feci la sua conoscenza […].
Confidai a Iribe la mia intenzione di realizzare
una pubblicazione molto carina destinata
l’élite della buona società, un volume dei suoi
disegni dei miei abiti stampato su bellissima
carta che sarebbe stato inviato in omaggio a
tutte le grandi dame del mondo”. Così fu: fece
vedere i suoi abiti ed Iribe andò in estasi. Per
motivi finanziari diversi il corrispettivo dei suoi primi disegni gli fu consegnato prima, da qui lui

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scomparve e non tornò per molto tempo. Quando si
ripresentò portò qualche bozzetto fu entusiasta nel
vedere come aveva capito ed interpretariato i modelli.
Il volume era stato concepito da essere oggi appena
un po’ fuori moda. Si intitolava le “Les robes de Paul
Poiret racontéespar Paul Poiret”. Una copia fu inviata a
ogni sovrano d’Europa, con una dedica personalizzata,
posta dopo i risguardi e stampata con i caratteri
raffinati. Tutte le copie furono bene accolte e
apprezzate salvo quella della regina d’Inghilterra, la
quale rimandò indietro con una lettera di una dama di
corte nella quale si pregava di astenersi in futuro da
inviargli qualcosa di questo genere. La novità non
stava soltanto nell’ordine stilistico sebbene sia in
dubbio che questo elemento non allontanasse
immediatamente le immagini dalle norme tradizionali
di fruizione di un figurino di moda, anche le figure
femminili che vennero rappresentate erano molto
diverse. In questo modo per la prima volta Poiret
dichiarava esplicitamente la sua attenzione per il
mondo delle arti figurative, riconoscendo il valore
esistenziale del suo lavoro.
La coerenza formale che Poiret aveva cercato nel
comunicare all’esterno, divenne anche il fondamento dell’immagine grafica della Maison: egli incaricò
Iribe di progettare il marchio a forma di rosa e utilizzò particolari delle tavole dell’album per
realizzare una specie di comunicazione integrata dell’azienda attraverso una carta intestata, biglietti
di invito, fattura ecc. Il secondo elemento fondamentale dell’immagine che Poiret stava costruendo
intorno a sé fu la sede in cui si trasferì la Maison per la terza volta nel 1909: un hotel particolare del
XVIII secolo con un grande parco intorno che diventò il luogo preferito tutte le sue uscite pubbliche.
L’interno come era mai praticato comune delle case di moda, venne ristrutturato ed arredato in
maniera da diventare l’adeguata cornice dei modelli che il Coturier presentava alle sue clienti
accostando, elementi in stile Direttorio orientali in una cornice colorata. Nel 1912 una giornalista di “le
Miroir des modes” così lo descrisse: “Dopo aver percorso un vestibolo di pietra di bell’aspetto
passiamo nel primo salone non senza aver soddisfatto alcune formalità amministrative che ci fanno
subito penetrare nella gravità della nostra entrata, nell’impotenza del favore che la missione in un
santuario così chiuso e ben difeso conferisce al profano. I muri, decorati di pannelli verde Nilo, sono
messi in rilievo con quadrature di filetti di verde scuro e oro antico. A terra un tappeto color lampone,
alle finestre tende in taffetà della stessa tinta. L’opposizione inizia di questi due colori, l’uno neutro e
l’altro caldo, produce un’atmosfera bizzarra, dolce e vibrante, che deve armonizzarsi felicemente con i
colori franchi e sostenuti a cui Poiret ama attribuire i suoi affetti. I mobili appartengono a quella
deliziosa epoca Direttorio. Le sedie ricoperte di pekin vellutato lampone e verde, rientrano nella
tonalità generale, mentre qua e là giocano e brillano i riflessi cangianti di camere orientali e degli
intarsi”.
Ma se la prassi di utilizzare l’interno dell’atelier come palcoscenico era ormai consolidata nel mondo
della moda, Poiret si servì per i suoi scopi professionali anche del parco, che divenne di volta in volta

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una specie di secondo marchio della Maison con cui decorare i coperchi delle scatole, lo sfondo delle
sfilate, il luogo delle sue feste mirabolanti.

2.7 L’ orientalismo
Tre 1909 e il 1910 iniziò a Parigi l’altra la stagione
dei Ballets Russes, che fece della capitale francese
il centro di ricerca nel campo della danza e della
musica, e non solo. La danza classica si ispirava
alla sperimentazione di altri modi di vestire e di
raccontare, la musica era appositamente creata
dagli autori più moderni e innovativi, costumi e
scenografie aprivano squarci sulla cultura e
l’immagine di un folkore orientale mai visto. Un
insieme esplosivo che travolse Parigi e ne catalizzò l’attenzione. Ma ciò che colpì
maggiormente fu la rivoluzione effettuata nella
presentazione dei balletti: fino a quel momento
la danza classica era vestita di tutù e
calzamaglia e le sue scene erano estremamente
semplici. Benois e soprattutto Bakst vestitirono
i danzatori con costumi mirabolanti e fecero
muovere i danzatori in scene elaboratissime e
colorate. Da Shéhérazade, si susseguirono in
una serie trionfale che venne amplificata dai
programmi di sala e da tutta la stampa. Cocteau
e Iribe gli dedicarono un album di disegni e di
poesie. Ovunque si trovavano immagini che
illustrano le varie coreografie, anche per il
grande pubblico. Tutti notarono una
straordinaria somiglianza fra i costumi di nuovi
balletti e i modelli di Poiret. Il couturier si
difese sdegnosamente dalle accuse di aver
copiato Bakst, ma è difficile non pensare che il

21
clima culturale e figurativo che si presentava non abbia,
se non influenzato, almeno favorito e amplificato il
percorso creativo che gli sta che gli stava compiendo.
Da questo momento infatti, scomparvero dai suoi
modelli richiami al Direttorio e si fecero sempre più
forti quelle delle culture etniche, orientali e arabe. Il
punto di passaggio fu rappresentato dalla jupe entravée,
una gonna lunga è dritta che veniva serrata con una
specie di cintura sotto le ginocchia, con il risultato di
impedire il passo e di costringere chi la portava a
procedere pattinando o a piccolissimi movimenti.
Sembrò la reazione di tutto quello che il sarto aveva
realizzato prima del 1910 ma probabilmente si trattava
solo di un esperimento alla ricerca di una nuova linea
da attribuire all’abito oppure, la donna che Poiret aveva
in mente non era certamente una suffragetta o
un’intellettuale indipendente: una signora del “bel
mondo” che non doveva avere alcun rapporto con
concreto con la vita reale. Egli la liberò nel corpo
perché quell’immagine di costruzione artificiale che
aveva regnato nell’Ottocento non aveva più niente a vedere con il rito dell’opulenza della
Belle époque, ma non nel ruolo.

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Non più madre e moglie messi in mostra a teatro o ai balli ma femme fatale, circondata da un
alone di erotismo misterioso, che la trasformava in oggetto di desiderio e lusso. L’iconografia
Art Nouveau ne aveva offerto una traduzione
naturalistica e favolosa attraverso le
innumerevoli figure femminili trasformate in
eteree ninfe di mare e dei boschi, che si
muovevano seguendo aria ed acqua, senza
bisogno di camminare. Poiret presentò la prima
jupe-culotte con il conseguente, inimmaginabile
scandalo. La redazione di pantaloni per le donne
non passò inosservata; d’altra parte il preciso
segno di divisione dei generi di Poiret, non
voleva essere rivoluzionario, né spezzare una
lancia in favore del movimento femminista; al
contrario, si trattava di un paio di pantaloni da
Harem da portare come abito da casa, sotto la
tunica che arriva al polpaccio. L’immagine di
una donna colta, raffinata, fortemente erotica
nata per il piacere maschile si era evidentemente
affinata a contatto con l’idea di Oriente che
veniva dalle ‘mille e una notte’ eda Shéhérazade
che danzava la stessa storia e da mille altre
successione esotiche che il nuovo secolo offriva.
Odalische e non femministe erano le donne che avrebbero indossato i pantaloni di seta stretti
alla caviglia, realizzati da Poiret. L’impressione venne confermata dal secondo album
pubblicitario che proseguiva il discorso avviato nel 1907 aggiungendo però alla linea base,
diritta e sobria tutti i colori orientali che potevano suggerire un’idea di femminilità molto
presente ed esotica. L’immagine di lusso che ne deriva non era tanto legata alla quantità di
materiale e di lavoro visibile, quanto allo stile di vita raffinato e corto cui alludeva, che non
avrà più niente a che vedere con i vecchi modelli borghesi.

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Il nuovo album fu affidato a Lepape, un giovane disegnatore e fu pubblicato il 15 febbraio 1911
con il titolo “Les Choses de Paul Poiret vues par
Georges Lepape”. Lepape aveva uno stile
diverso da Iribe, molto più sensibile al colore,
agli elementi di ambientazione e alla pittura
giapponese, e ne interpretò in modo perfetto lo
stile di vita che Poiret intendeva proporre. Le
esili figure femminili, sono sempre acconciate
con il turbante che il couturier aveva
lanciato nel 1909. Questo però ultimo album
prodotto direttamente da Poiret: il successo
delle iniziative stimola finalmente
Lucien Vogel, che coinvolse alcuni couturiers a
finanziare una rivista di moda da vendere in
edizioni limitate, con tavole illustrate à
pochoir da disegnatori affermati. Poiret
utilizzò tutti i modi possibili per far parlare i
giornali, ma l’idea che più colpi la fantasia del
tempo, fu una serata in costume dal titolo a “La
festa della Milleduesima notte”. Questa volta
effettivamente si trattava di
mettere in scena la sua immaginazione, quella
in cui trova una collocazione e una spiegazione tutti i modelli che sta proponendo al
pubblico. Fu la realizzazione di un sogno privato o una proiezione psicoanalitica vivente cui
tutti furono chiamati a partecipare come attori protagonisti, secondo il copione pensato la
Poiret stesso.
“Raccontava le storie della “Mille e una Notte”. Chi oltrepassava questa sala giungeva
all’interno del giardino, un gran numero di tappeti ricopriva le lastre di marmo della scalinata
e la sabbia di vialetti. In mezzo alle aiuole ordinamentali c’era il vaso di corniola bianco
figurava nel programma.” Ancora vent’anni dopo Poiret conservava il ricordo estatico
dell’evento che aveva dato la migliore presentazione nel suo mondo creativo e in cui forse
ritrovava il segreto della sua sfolgorante carriera nella moda. Quella tendenza alla teatralità,
che Doucet gli aveva riconosciuta fin dall’origine, era sfociata nella più folle e coerente messa

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in scena pubblicitaria che si potesse
immaginare; ma Poiret avrebbe voluto essere
veramente il sultano del sogno e non poteva
riconoscere l’aspetto commerciale di un evento
di tale natura. Naturalmente ci fu anche chi
pensò che una tale festa non fosse un modo
per farsi pubblicità.

2.8 Influenze viennesi:


l’atelier martine

L’aspetto culturale quello professionale


procedevano sicuramente appaiati, ma anche
da questo viaggio Poiret non ricavò solo clienti
anzi, forse il risultato più importante che
ottenne fu quello di conoscere direttamente
realtà diverse da quella francese e movimenti
artistici d’avanguardia da cui prende
insegnamenti per il futuro. L’esperienza russa
ebbe probabilmente un preciso taglio
professionale, anche perché Poiret ebbe come
guida Nadezha Petrovna Lamanova, la couturier moscovita che stava conducente nel suo
lavoro esperimenti innovativi. L’Europa dell’Est offri al sarto parigino nuove idee e
soprattutto una serie di elementi decorativi popolari che si aggiunsero a quelli esotici e che
trovavano collocazione nei modelli degli anni seguenti. Il modello “Fleuri” del 1912 formato
con applicazioni verdi e rosa acquistate a Cracovia; una giacca del 1913 fu profilata con un
gallone preso a prestito dalle divise dei bicchieri moscoviti. L’incontro che doveva segnarlo
maggiormente fu quello di ritorno da Vienna e Berlino, da tutte le mostre di arti decorative;
in tale occasione conobbe maestri come Hoffman, creatore del direttore della Wiener
Verkstätte, Bruno Paul e Klimt. In particolar modo Zuckerkandle, che ha guidato i suoi passi
in quegli anni di artisti d’avanguardia. Tuttavia non ammirava seriamente tutto ciò che
vedeva anzi disapprovava anche molto le tendenze romantiche che hanno sempre appassito e
soffocato le creazioni tedesche. Affascinato dal progetto estetico della Secessione viennese, si

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recò a Bruxelles per vedere la costruzione di quello che stava diventando il manifesto della
nuova unione delle arti: Palazzo Stoclet, progettato da Hoffman fin nei minimi particolari e
realizzato dagli artisti del gruppo. La suggestione fu enorme e scatenò in Poiret una serie di
riflessioni sulla della moda. L’ipotesi che la creazione di abiti facesse parte di un più generale
movimento di gusto che andava dalle arti maggiori fino agli eventi mondani e la vita
quotidiana aveva già guidato il suo comportamento nei confronti degli artisti.
Vienna gli rilevò un modello estetico in cui gli abiti di Emilia Flöge, i vasi, le posate di
Hoffmann erano indubbiamente uniti ad architetture di Joseph Hoffman e di Otto Wagner
insieme ai quadri di Gustav Klimt. La nuova cultura, il nuovo modello di vita doveva sorgere
nel confronto con questa cornice in cui si cancellava la vecchia divisione gerarchica di arti
maggiori e minori. Con Grande entusiasmo Poiret nell’aprile 1911 aprì in Rue du faubourg
Saint-Honoré l’Atelier Martine, uno spazio in cui un gruppo di ragazzine guidate da Madame
Serusier dava libero sfogo alla propria creatività in tutti i campi delle arti applicate. Un’idea
così aveva preso forma attraverso il ripensamento di diversi aspetti dell’esperienza viennese:
da un lato c’era la ricerca del nuovo mentre dall’altro la cattiva impressione che egli si era
fatto dei rigidi metodi di insegnamento usati nelle scuole austriache. Il risultato fu un
tentativo di innovazione del gusto che forse ebbe aspetti molto velleitari e improvvisati, ma
soprattutto l'intuizione che la griffe di moda poteva veicolare anche prodotti non di
abbigliamento. L’atelier Martine, fu dotato di un punto vendita, partecipò a varie esposizioni
e fu sostenuto dalla Maison che lo utilizzò per diverse iniziative; la sua produzione ebbe
sempre un tratto un po’ dilettantesco e quindi non raggiunse mai quel valore di rottura
estetica che Poiret sognava. Un discorso diverso invece, va fatto per la decorazione tessuti
direttamente finalizzati all’abbigliamento, che Poiret affidò a Raoul Dufy sempre nel 1911. Il
livello professionale altissimo delle sue realizzazioni attirò immediatamente l’attenzione
dell’Industria tessile e nel 1912, il pittore venne cooptato dalla Bianchini-Férier, che gli mise a
disposizione i mezzi di una grande azienda dalla raffinatissima produzione. Tutte queste
iniziative comunque colpirono il mondo dei designer e degli architetti e furono accolte con
grande apprezzamento da riviste di settore. Infatti, nel 1911 “Art et Décoration” dedicò a
Poiret un articolo di Paul Cornu dal titolo Art de la robe, il quale fu illustrano con un servizio
fotografico di Edward Steichen e realizzato nella sede di Rue d’Antin con disegni di Georges
Lepape. In poche settimane montarono un laboratorio di stampa in un piccolo locale che
avevano affittato a tale scopo Dufy.
Un’altra idea di espansione della Maison fu la produzione di profumi. Con la collaborazione
del dottor Midy il quale aveva un laboratorio farmaceutico, nel 1911 fu messo a punto il primo
profumo e venne fondata la ditta Rosine dal nome della prima figlia di Poiret, che ne curò la
fabbricazione. Allo stesso modo si aprì il laboratorio di Poiret, che produceva scatole e gli
oggetti pubblicitari; anche le bottiglie venivano curate direttamente da Poiret e spesso
affidate all’ atelier Martine. Alla produzione di profumi venne spesso associata l’idea di
gamma di prodotti di bellezza: dalle ciprie a tutto quello che le signore potevano cercare in
una profumeria. Anche in questo caso è la prima volta che il nome di un couturier veniva
associato a quello di una linea di prodotti di bellezza.

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Ormai la fava di Poiret era costruita senza nemmeno dover ricorrere la mediazione delle
signore dell’alta società. E così, presto nessuno parlò più di quello scandalo delle jupe-culotte,
ma venne accettata la nuova versione del modello abat-jour, con una breve gonne rigida.
Anche la posizione di Poiret nel mondo gli artisti sembrava accettata e assodata.
Nell’autunno 1913, Poiret e la moglie compirono un lungo viaggio pubblicitario in quello che
era sempre il libero mercato della haute couture parigina: gli Stati Uniti. Fu la svolta da
Madame Denise, visto che il film di una sfilata di modelli venne prima bloccato alla frontiera
e poi censurato per timore che si trattasse di un prodotto pornografico; tralasciando ciò, fu
particolarmente felice per l’attenzione oltre oceanica stava mostrando nei confronti
dell’Europa e delle sue trasformazioni culturali.

2.9 gli anni della guerra

L’anno successivo scoppiò la guerra. Il mondo intero a corso sui campi di battaglia e questo
fatto cambiò la società completamente. Poiret fu inizialmente immobilitato in un reggimento
di fanteria dove prestò servizio come sarto; nel 1915 viene destinato agli archivi del Ministero
di guerra occupandosi di moda. Collaborò con l’organizzazione della Fête parisienne,
promossa da Vogue che si svolse nel 1915 al Ritz Carlton di New York. Come couturier
partecipò alla manifestazione insieme alle Maison di moda ancora aperte. La presentazione
delle novità della moda parigina aveva lo scopo di mantenere uno stretto rapporto con il
mercato americano ma era stata progettata sia da Vogue sia dai francesi come un secondo
obiettivo patriottico e politico: sollecitare sostegni per la Francia in guerra e creare un clima
di solidarietà interalleata. Poiret sfilò con diversi abiti di gusto orientale che il mondo
conosceva: scelse infatti di allearsi con la tendenza che stava caratterizzando quegli anni con
accorciate e ampie, sostenute da crinoline e con elementi di gusto maschile. Lo stesso
esperimento venne ripetuto nella primavera del 1917 con una seconda presentazione di moda
a Madrid. Nel 1916 Poiret aveva lanciato anche un profumo ‘patriottico’ il cui nome,
Mam’zelle Victoire, voleva essere di buon augurio; ancora nella primavera del 1917 tentò di
aprire una succursale a New York dove pensava di commercializzare “non solo abiti ma anche
mobili, tappezzerie e vetri” ma tutto il progetto non decollò causa guerra.

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2.10 TAVOLE

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2.11 Viaggio in Marocco: l’oasi
Poi la guerra finì, nulla fu più come prima. Poiret usciva dall’esperienza duramente provato
dal punto di vista economico. Per far
fronte a tali difficoltà aveva dovuto
vendere o ipotecare tutte le sue
proprietà; l’azienda che, come egli
stesso scrisse “ora si divideva in tre
arie: moda, profumeria e
arredamento d’interni, tutte andate
a rotoli durante la mia assenza e
quindi non più attive”.
In particolar modo il couturier era
stato colpito dal punto di vista
umano: la febbre spagnola gli aveva
portato via le due figlie Rosine e
Gaspard e la tragedia aveva minato
al suo matrimonio, concludendo
questi con un divorzio nel 1928. Al
momento dell’armistizio, nonostante
la Maison avesse continuato a
lavorare, Poiret si trova nella
condizione di dover rilanciare la
griffe con un capitale assolutamente
insufficiente e con gli effetti
psicologici del conflitto ancora da
superare. Decise di darsi tempo e così parti per un viaggio in Marocco. Trovò stimolante
l’ambiente, come d’altronde anche lo stesso YSL fu incantato dal gusto caotico ma molto
stimolante della regione africana. Tornò alla moda con il Marocco negli occhi, con il desiderio
di riprendere il discorso dell’Oriente e con la voglia di festeggiare come tutti la fine della
guerra.
Installò nel giardino una grande tela araba che chiamo l’Oasi, in cui tutte le sere si
organizzavano feste danzanti a tema ma, a dispetto dell’americanismo che si stava facendo
strada nei gusti dei giovani parigini, dal 1921 coinvolse l’impresa e tutte le vecchie glorie della
Belle Époque per ricreare un ponte fra il presente e la magia del passato. Le sue collezioni si
fecero via via più sapienti e lussuose, i materiali diventarono sempre più ricercati, i ricami
elaborati. Dal Marocco ai ricami bretoni, dalla Cina all’Egitto fino alla Spagna. Tutta una serie
di modelli accuratissimi, sontuosi e ricchi di soluzioni sartoriali nuove. Fra il 1921 ed il 1922

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provò anche a riportare le gonne alla caviglia, nel tentativo di contrapporsi alla moda che non
lo convinceva, ma l’accoglienza fu fredda e nostalgica con risultati effimeri. Un’aria di lusso
antico serpeggiava nelle sue collezioni e persino nei nomi che venivano attribuiti ai modelli.
Non è quindi un caso che negli stessi anni gli venissero richiesti costumi di scena e per feste
mascherate o a tema, nei quali la sua straordinaria fantasia voleva creare forme fantastiche. E
non è neppure un caso che, al contrario, diminuisse il successo presso la sua clientela
dell’haute couture, anche se Poiret sapeva interpretare da maestro anche la nuova moda degli
abiti semplici e lineari. Probabilmente però, l’enfasi data al lusso e alla teatralità allontanò il
pubblico dalla Maison e quindi anche da
questa produzione.

2.12 Viaggio in America


Nel 1922 aveva fatto un nuovo viaggio
negli Stati Uniti, dove egli era parso che
ci fosse spazio per l’esportazione dei
suoi modelli, ma nello stesso anno era
esplosa la moda alla à la garçonne che
sanciva il successo di Chanel e Patou.
L’anno dopo Poiret fu costretto a fare
per la prima volta i conti con la fine del
proprio successo. “Fino al 1923 ho
creduto che avrei vinto la partita […].
Bisognava naturalmente accordare
crediti alla clientela per non perderla e
d’altra parte bisognava soddisfare le
esigenze legittime dei fornitori. Ora
tutti sanno che gli impegni che si perdono negli affari hanno più valore delle promesse di una
donna. E anche quando non venivo pagato dovevo fare fronte a degli obblighi. Arrivavo
spesso col fiato in gola ai giorni di scadenza e ogni fine mese era per me l’occasione di una
nuova angoscia.”
La soluzione temporanea fu affidare la gestione amministrativa dell’azienda a una
professionista e cercare sostegno finanziario nel mondo degli affari. Per fronteggiare la
situazione, egli tentò anche un viaggio pubblicitario in giro per l’Europa con i suoi modelli,
ma alla fine del 1924 dovete affidare la Maison a una società di banchieri. La vendita delle sue
proprietà di Parigi compresa la sede dell’atelier; Poiret però, sperava di trovare in questo
mondo la tranquillità necessaria al proprio lavoro; nello stesso periodo infatti stava
realizzando gli abiti di Georgette Leblanc per il film ‘L’inhumaine’ di Marcel L’Herbier. Il 24

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dicembre organizzò il trasferimento della Maison nella nuova sede francese del Rond Point
degli Champs-élysées con una festa d'addio. Gli parve che l’occasione del definitivo rilancio
potesse essere l’Exposition Internationale des Arts Décoratifs ed Industriels Modernes che si
sarebbe tenuta a Parigi nel 1925 ma il consiglio rifiuta di sostenere le spese necessarie alla
partecipazione.

2.13 L’esposizione del 1925


A tal proprosito, Poiret vendette Rosine
l’atelier Martine per affrontare da solo le
spese necessarie per la realizzazione delle
tre grandi zattere. Orgues era destinata a
l’esposizione degli abiti incorniciati da
grandi tele di Dufy, Amours ai profumi e
Délices a un ristorante. Gli abiti furono
ammirati dagli specialisti e fotografati
dalle riviste ma il pubblico disertò sia le
zattere sia intrattenimenti che Poiret
organizzava; quello che doveva essere il
punto della sua svolta divenne un disastro
finanziario. Poiret vendette la sua

collezione di pittura nel 1926, fra cui le tre zattere. In


En habillant l’époque Poiret riportò il testo di una
conferenza tenuta negli Stati Uniti del 1927 dove
affermò: “Se oggi annuncio che il regno delle gonne
corte è finito mi faccio profeta delle gonne lunghe o
delle gonne-pantalone, suscito una sensazione di
ansia e inquietudine. Dicono che sono pazzo. Si dice
che non sono folle. Giurano che non porteranno mai
più le gonne lunghe”. Ma per la moda di Poiret non
doveva più arrivare quel ‘settembre’. I suoi modelli
erano ormai troppo complicati, decorati e
vistosamente lussuosi. Egli aveva perfettamente
compreso la cultura di riferimento che lo stava
tagliando fuori dal mercato, ma questo mondo gli era

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così lontano dalla sua maniera di pensare che egli si limitava a criticarlo. Non poteva
aspettare che le donne fossero vestite come “un orfanotrofio in uniforme”. Parlando
dell’America il nuovo
punto di riferimento alla
cultura internazionale
scrisse: “Ma cos’è
l’abbellimento per un
americano? Tutti
dobbiamo rispondere alle
regole di utilità o di
necessità! Gli americani
non sanno inventare il
superfluo, quel superfluo
indispensabile del
necessario […]. Lo stile dei
grattacieli, invece, deriva da esigenze di ordine e in base alle quali un quadratino deve
fruttare molto denaro”.
Quello che non voleva accettare era che l’America, la sua cultura moderna, il suo modo di
vestire era arrivata a Parigi e avesse invaso l’Europa. La società di élite della Belle Époque era
stata definita e cancellata dalla grande guerra e al suo posto si era insediato un modello
culturale tendenzialmente interclassista, che non accettava più le distinzioni e ruoli stabiliti
che regolavano la vecchia cultura borghese. Le donne volevano essere giovani, libere e
indipendenti. Per questo aveva adottato una
moda facile, semplice e comoda che poteva
essere riprodotta senza necessariamente
ricorrere alla sapienza di uno sarto
eccezionale. Questa semplicità ed anonima
monotonia di modelli, ripugnava a Poiret il
quale non riusciva a capire come fosse
possibile che le donne eleganti del mondo
intero preferissero indossare i ‘miseri’ abiti di
Chanel, piuttosto che le sue lussuose
invenzioni.
Nel 1927 si consumò anche la rottura con
l’amministrazione della Maison, che continuò
la sua attività fino al 1933 e con il suo nome
ma senza di lui. Nel 1932 il couturier riprova
ad aprire la casa di moda usando come griffe
il numero di telefono “Passy-10-17” (non
potendo più esporre il proprio nome) ma per
un brevissimo periodo. Nel 1933 in seguito al

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successo ottenuto con la pubblicazione delle sue memorie, fu chiamato dai Grands Magasins
du Printemps per realizzare ogni anno una collezione di abiti, ma dopo sei mesi anche questo
rapporto terminò. Aveva scritto nel 1932: “Sono solo anche se mi restano alcuni amici, che
credo che mi vogliano bene, benché gli scrivi spesso, perché vorrei che sapessero tutto quello
che sono io. Sono tornato con passione alla pittura e nulla mi sembra più bello di esprimere
con i colori, quasi fossero grida che si levano, tutte l’emozione che mi suscita lo spettacolo
della natura […]. Mi hanno proposto di rimettermi in attività. Potrebbe succedere. Mi sento
molti abiti sotto la pelle”.

CAPITOLO III

CONCLUSIONI
Probabilmente mi sono divertita più io a scriverlo che il lettore stesso a leggerlo. Ho tentato
di seguire lo sviluppo, dalla nascita agli arbori della sua carriera, fino al ritorno con passione
alla pittura dopo il suo declino.
Percorso decisamente affascinante, che ha portato il mio occhio su una nuova influenza del
‘900; le donne sciocche seguono la moda, le pretenziose l’esagerano, ma le donne di buon
gusto vengono a patti con essa. Ecco, Poiret seppe sfruttare l’occasione di un nuovo gusto che
si stava diffondendo, sugli strascichi di una Parigi ingabbiata nel corsetto dell’epoca.
Le duchesse furono ben volentieri pronte a farsi vestire, svestire, mettere in costume dal
couturier, sognando solo di diventare la sua favorita. Le fodere di seta e la pelliccia dei
cuscini, i paralumi e i tappeti dell’harem del sultano della moda.

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