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Grandi Opere

© 2007, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2007

L'Edirore è a disposizione 'di turri gli eventuali


proprietari di diritti sulle immagini riprodotte,
là dove non è staro possibile rintracciar! i
per chiedere la debita aurorizzazione.
Renato De Fusco

Made in Italy
Storia del design italiano

O Editori Laterm
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di scampare nel febbraio 2007


SEDIT- Bari (ltaly)
per conto della Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-8255-2

È vietata la riproduzione, anche parziale,


con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche ad uso interno
o didattico.
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Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione
i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce
questa pratica commette un furto
e opera ai danni della cultura.
Introduzione

Ciò che caratterizzava la mia Storia del design, pubblicata nel 1 985 , era il
fatto che la vicenda narrata era sostenuta da un impianto teorico e «ridutti­
vo» nel senso che dirò più avanti. In precedenza, la letteratura italiana
sull'argomento poteva classificarsi in due direzioni: l'una tendente alla ricer­
ca di una definizione del design, l'altra a esporre e inquadrare gli eventi, ri­
feriti ai prodotti, ai progettisti, alle industrie, ecc. Generalmente, queste due
linee stentavano a intrecciarsi e rimanevano oscillanti tra un carattere artisti­
co-culturale e un altro produttivo-commerciale. La gran parte di questi pro­
blematici aspetti veniva forse risolta dalla mia idea di non dare una defini­
zione del design, ma di presentarlo per come si manifestava, cioè per la sua
fenomenologia, ovvero una esperienza unitaria basata tuttavia su quattro
componenti: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo, ognuna di­
pendente da tutte le altre, donde la cosiddetta «teoria del quadrifoglio».
L'idea si è dimostrata di notevole utilità, specie in campo didattico. Non
più l'apodittico binomio «dal cucchiaio alla città», mirante a dimostrare
che la nuova p rogettazione aveva un metodo unico applicabile a tutto e a
ogni scala, ma un sistema che, pur confermando il carattere unitario del
design, consentiva di studiare separatamente le sue quattro parti e storica­
mente di verificare in quale nazione ciascuna di esse caratterizzava mag­
giormente la produzione.
Fin qui il riferimento sintetico al libro dell'85 , che interessava i princi­
pali paesi impegnati nella cultura del design. Quali esigenze mi hanno
spinto a redigere il presente testo, particolarmente incentrato sul design
italiano? Oltre alla volontà di un approfondimento consentito da un am­
bito più limitato, con le peculiarità proprie di una nazione come la nostra,
il desiderio di affrontare altri problemi sia teorici che storici.
Primo fra tutti quello per cui - come ha osservato Maldonado - «non
c'è un solo industriai design, ma ve ne sono parecchi, molto diversi l'uno
dall'altro. La concezione monistica di industriai design dovrà essere sosti­
tuita da una concezione pluralistica»1 . D'altra parte, qualcosa deve pur le-
VI Introduzione

gare automobili e macchine da ufficio, elettrodomestici e mobili, i prodot­


ti della grande e della piccola industria, altrimenti l'idea stessa di design
verrebbe a cadere. Inoltre, le storie del design che intanto sono state pub­
blicate o seguono il vecchio precetto di Ranke, per cui il compito dello sto­
rico è «semplicemente quello di mostrare come le cose sono andate», cioè
la pura narrazione dei fatti, nulla concedendo alla loro interpretazione; op­
pure si perdono dietro congetture futuribili, informatiche, ecologiche e si­
mili, fino a ipostatizzare anche le più semplici questioni.
Allontanandomi sia dal positivismo della prima via, sia dal cerebralismo
della seconda, e pensando di interessare maggiormente gli addetti ai lavori
- designer, produttori, consumatori -, ho impostato questo libro sugli «sti­
li» entro i quali è possibile classificare la produzione del design italiano
dell'ultimo secolo. Naturalmente la nozione di stile non è intesa nella sua
accezione più banale. Secondo Hauser, lo stile è «il concetto fondamentale
e centrale della storia dell'arte; senza di esso ci sarebbe tutt'al più una sto­
ria degli artisti nel senso di un rapporto sui maestri operanti contempora­
neamente e successivamente e un catalogo delle loro opere sicure o pre­
sunte, ma non una storia degli indirizzi comuni e delle forme generalmente
valide che creano un legame fra i prodotti artistici di un'epoca, di una na­
zione o di un territorio e che soltanto ci permettono di parlare dell'arte co­
me del sostrato di un'evoluzione o dell'espressione di un movimento»2.
Più problematico è assegnare il concetto di stile alla realtà dei fatti, alla
storia piuttosto che alla loro interpretazione, cioè alla storiografia. Hauser
oscilla continuamente fra queste alternative. Da un lato, si direbbe che egli
concepisca lo stile come appartenente alla storia-realtà: «l'indice più ele­
mentare che rileva la presenza di uno stile consiste nella coincidenza di un
gran numero di tratti artisticamente determinanti nelle opere di una cul­
tura limitata nel tempo e nello spazio»3. Dall'altro, affiorano aspetti meno
realistici e più concettuali: «il carattere stilistico non è uno schema che
semplicemente si ripete, ma piuttosto un paradigma che non è interamen­
te contenuto in nessun esempio concreto. Lo si deve pensare come caso
ideale, che non può esaurire nessun caso particolare, o come tipo che non
può esaurire nessuna individualità. In questo senso il concetto di stile pre­
senta tutta una serie di tratti comuni al 'tipo ideale' di Max Weber. [ . ] ..

Proprio in quanto tale, il concetto di stile adempie alla funzione principa­


le nella storia dell'arte. Serve come norma per giudicare la misura in cui
l'opera d'arte singola rappresenta il suo tempo, o un particolare aspetto
del suo tempo, e in cui è legata ad altre opere dello stesso tempo o dello
stesso indirizzo»4. Notiamo che il giudizio per cui lo stile non si trova «in­
teramente» contenuto in alcun esempio reale comporterebbe di assegnar­
lo non tanto alla storia-realtà, quanto alla storia-studio, la storiografia, di
annoverarlo dunque fra gli «artifici storiografici».
Introduzione VII

Quest'ultima èspressione è la t;11i a principale idea dello stile. È indub­


bio che lo stile appartiene alla storia-realtà, ma è altrettanto certo che esso
rappresenta uno strumento della storiografia. Con l'espressione «artificio
storiografico» intendo indicare schemi, parametri, criteri interpretativi, ti­
pi-ideali e simili; vale a dire non fatti riscontrabili materialmente nel pro­
cesso storico, bensì idee e concetti che costituiscono gli elementi costrut­
tivi della storia-studio o storiografia. L' «artificio storiografico» non nega
l'unicità e irripetibilità delle opere, ma per comprenderle è necessario ri­
conoscere le invarianti che legano l'una all'altra. «È nella natura dell'esse­
re che nessun evento possa mai ripetersi, ma è nella natura del nostro pen­
siero che noi possiamo intendere gli eventi soltanto per mezzo di identità
che immaginiamo esistere tra loro»5. Donde il continuo riproporsi degli
schemi e delle categorie, le quali altro non sono che «costruzioni» da noi
immaginate e fondate su ciò che accomuna, che rende invarianti, che assi­
mila fenomeni tra loro differenti. Tale procedimento è ciò che prescrive il
metodo strutturalista coniugato con la mia teoria della «riduzione cultura­
le» che, tradotta in una ricerca storica, studia solo le opere paradigmati­
che, owero i modelli e non le numerose repliche.
L'idea di «Costruire» e utilizzare metodologicamente �<artifici storiogra­
fici» è imposta dalla fenomenologia propria delle arti contemporanee. In
passato infatti, uno stile durava secoli, mentre oggi dura talvolta appena
qualche lustro. A un codice-stile forte si sono sostituiti tanti codici-stile de­
boli: gli «ismi». Cosicché, alle ambiguità proprie del concetto di stile, si è
recentemente aggiunta quella della precarietà delle tendenze, delle poeti­
che, del rapido consumarsi dei gusti e delle mode. Beninteso, però, persi­
no l'evento storico-artistico più eversivo e individuale, più segnato in sen­
so espressivo e rimasto irripetuto, va colto in rapporto alla generalità; co­
me in passato soltanto il confronto con lo stile epocale denunziava la pre­
senza di quello individuale, così un analogo rapporto va cercato oggi fra
ogni tendenza e le opere che sono in essa classificabili.
In sintesi, quale che sia la forma d'arte da esaminare, nel nostro caso
l'industriai design, e quale che sia la durata delle sue varie fasi stilistiche ­
il Liberty, l'Art Déco, il Futurismo, il Razionalismo e le altre categorie «co­
struite» - dobbiamo sempre considerare queste tendenze, correnti e mo­
vimenti come stili, o meglio codici-stile, ancorché deboli e di breve dura­
ta, e soprattutto, ripeto, come dei parametri di riferimento, «artifici sto­
riografici» rispetto ai quali rapportare le opere reali. Ma oltre questa fun­
zione referenziale, non sempre necessaria per individuare e valutare le
opere più importanti, lo stile-«artificio storiografico» serve anche come
una sorta di contestualizzazione: sta a indicare che cosa è awenuto duran­
te, ad esempio, il periodo liberty o futurista, razionalista, ecc. , che struttu­
rano il libro, intitolandone i capitoli. Il tutto al fine di definire meglio l' ita-
VIII Introduzione

lian style e in pari tempo le sue opere più importanti, colte nella loro sto­
ricità, vale a dire il legame con i fatti e le idee del proprio tempo.
Un'altra tesi informa questo libro: quella per cui tutto il discorso sul de­
sign - segnatamente in Italia dove mancano o, almeno, sono mancati più
solidi riferimenti (risorse, grandi imprese industriali, vasta committenza) ­
possa trovare il suo esito in un fattore più inclusivo e riduttivo degli altri:
mi riferisco al fenomeno del gusto, inteso (e qui il senso più attuale di es­
so) come la componente dicibile, razionale, comunicabile del piacere este­
tico. A esso bisogna condizionare i quattro momenti della progettazione,
della produzione, della vendita e del consumo, nonché gli stessi aspetti ar­
tistici, tecnici, sociali, economici, semantici e simili di cui è piena la lette­
ratura sul design. Si potranno scrivere interi trattati sulla tecnologia, la sto­
ria dell'industria, la scienza della comunicazione, il vecchio binomio valo­
re d'uso-valore di scambio, l'ecologia ecc., ma - in una stagione della cul­
tura dove tutta l'eteronomia è o sembra possibile - finché il fattore gusto
non entrerà nei testi con la sua «arbitrarietà» resteremo sempre fuori
dall'esperienza del design. Anche con qualche contraddizione, Persico an­
ticipava questa tesi: «non esiste che un problema di gusto»6; «il problema
del gusto si identifica con quello stesso della comune civiltà moderna>/;
«una storia dell'arte si può sempre risolvere in un compendio di storia ci­
vile: basta mettere le vicende umane allo specchio dei valori plastici»8.
Qual è in definitiva la struttura di questo libro?
Grazie alla facoltà selettiva della storiografia, ho scelto di organizzare
gli argomenti suddividendoli in capitoli, ognuno sotto forma di stile-«arti­
ficio storiografico». Tale struttura, se talvolta trascura la cronologia per
evidenziare le invarianti formali, mi sembra tuttavia la più inclusiva di te­
mi e problemi, e tale da comprendere sia gli aspetti monistici sia quelli plu­
ralistici del design.
Alla redazione di questo saggio hanno collaborato a vario titolo Ales­
sandra de Martini, Imma Forino, Emma Labruna e Rosa Losito, alle qua­
li va il mio più vivo ringraziamento.

Note
1 T. Maldonado, Arte e industria, in A vanguardia e razionalità, Einaudi, Torino 1974, p. 144.
2 A. Hauser, Le teorie dell'arte, Einaudi, Torino 1969, p. 173.
3 lvi, p. 174.
4 lvi, p. 178.
5 G. Kubler, La forma del tempo, Einaudi, Torino 1 976, p. 83 .
6 E. Persico, Profezia dell'archltettura, conferenza del 1935, in Scritti critici e polemici, Rosa e Bal­
lo, Milano 1 947, p. 206.
7 Id., Primitivi, in <<Casabella», febbraio 1 935.
8 Id., Sull'arte italzcma, in Scritti critici e polemici cit., p. 3 1 1 .
Made in Italy
Capitolo primo ·
L'incipit liberty

Benché in forte anticipo sui tempi, Argan collega l'Art Nouveau al de­
sign. Parlando dei principali artisti europei attivi all'inizio del secolo XX,
osserva che l'alto valore della loro opera «fissa il principio della 'qualità'
nel prodotto industriale. E in tanto lo fissa, in quanto l'idea della forma co­
me ritmo o musicalità disgiunti da una funzione rappresentativa costitui­
sce la prima intuizione di un 'bello' che si attua piuttosto nella ideazione
che nel processo esecutivo e che si pone come un a priori dell'utile. Sosti­
tuendo al 'feticismo del prodotto o della merce' il feticismo del progetto,
del 'design', quel 'bello' cesserà infatti di essere unico e irripetibile e varrà,
invece, proprio per la sua infinita ripetibilità, cioè per la sua illimitata, li­
vellatrice espansione in tutta la sfera sociale»1 .
Come dicevo, ciò che scrive Argan anticipa notevolmente quanto, in
fatto di design, si è pensato e realizzato dopo. È ben vero che, a partire da
una «incerta» data, l'interesse degli artisti si sposta dall'oggetto al proget­
to; che si p rogetta non più artigianalmente, ovvero man mano che si com­
pie il p rocesso di lavorazione, bensì ne varietur, ossia in maniera tale che il
progetto contenga e preveda tale processo e quindi in grado di replicare a
volontà l'oggetto una volta costruito il prototipo, ma questo avvenne mol­
to più tardi rispetto alla stagione del Liberty. In essa, solo in teoria si au­
spica la produzione seriale, la quantità coniugata alla qualità, ma nella rea­
le esperienza storica si verificano due fenomeni, costituenti il grande me­
rito dell'Art Nouveau, della Secessione, dello Jugendstil, del Floreale ( co­
me in vario modo fu chiamata nei diversi paesi la tendenza di cui ci occu­
piamo) .
I l primo consiste in ciò che, nonostante il Liberty sia nato sul finire
dell'Ottocento, non può non considerarsi come il primo stile del XX se­
colo, notoriamente caratterizzato dall'essersi affrancato da quasi ogni sor­
ta di eclettismo storicista, pur conservando l'intenzione di essere uno stile
come quelli del passato che informa tutti i campi della figurazione.
Il secondo, sulla scorta dell'opera di William Morris, fu quello di ri-
4 Made in Italy

chiamare pittori e scultori dalle arti pure a quelle applicate, di trasforma­


re gli artisti in artisti-artigiani. Cosicché con il Liberty non nasce l'indu­
striai design, ma un artigianato con maggiori intenti di quelli tradizionali.
Il nuovo e il bello consistettero piuttosto, come già detto, nell'unità stili­
stica che informò tutti gli oggetti di ogni settore merceologico: i mobili sia
sostenitori che contenitori; i visualizzatori; la cartellonistica, la grafica
pubblicitaria, il gusto caratterizzante libri e giornali come qualunque com­
posizione a stampa; persino gli oggetti definibili trasportatori, quali car­
rozze e tram, furono conformati secondo il gusto del «colpo di frusta».
Ma che il Liberty sia altra cosa rispetto all'affermazione dell'industriai
design , almeno in Italia, è confermato da altri dati e date. Infatti, sarà be­
ne ricordare che molte fra le principali aziende italiane erano in piena fio­
ritura già nell'Ottocento. Giusto per fare qualche nome, in campo side­
rurgico vengono fondate la Terni nel 1 884, la Breda nell'86, la Tosi nell'82 ;
nel settore della ceramica emerge l a fabbrica Richard, fondata prima del
1 880, che nel 1 898 si unisce alla Ginori di Firenze; dalla Richard verrà as­
sorbita anche la Ceramica Florio fondata a Palermo nel 1 879; le industrie
meccaniche più importanti impegnate nella costruzione della rete ferro­
viaria furono l'Elvetica ( 1 840) e la Grandona a Milano, l' Ansaldo a Geno­
va, le officine di Pietrarsa e dei Granili, oltre alla Guppy, a Napoli. Nel
1 884 inizia la sua attività la Stigler che produce ascensori su brevetto Otis,
nel 1 872 nasce la Pirelli. Nella seconda metà dell'Ottocento l'industria na­
vale è legata al nome dei Florio. Nel '39 Vincenzo Florio subentra in una
società di navigazione di origine borbonica; in precedenza era nata la Si­
card ( 1 834) e la Reale Delegazione ( 1 83 6 ) . L'industria del mobile, colloca­
ta nell'area della Brianza, è forse fra le più antiche d'Italia. Nel 1 899 nasce
la Fiat. Lo sviluppo industriale italiano non è pertanto in sincronia con
l'Art Nouveau.
Un altro luogo comune da smentire è quello per cui nel nostro paese le
opere liberty e la relativa letteratura critica fossero così ritardatarie rispet­
to alle altre nazioni europee. Certo, scontammo la condizione di un'indu­
stria più arretrata e di una tradizione così famosa da pesare sull'innovazio­
ne, ma questo ritardo si quantifica solo in qualche lustro. Confrontiamo al­
cune date: la nascita ufficiale della tendenza è il 1 893 con la casa Tasse! di
Horta a Bruxelles; nel 1 895 si apre il negozio di Bing a Parigi con l'insegna
«Art Nouveau»; del 1 898 è la scuola d'arte di Glasgow progettata da
Mackintosh; del 1 900 è il Parco GLieli a Barcellona di Gaudf; nello stesso
anno si apre l'Esposizione di Parigi consacrata appunto all'Art Nouveau.
L'Italia si affaccia a questo stile appena due anni dopo con l'Esposizione
internazionale di Torino. Anche i moti del gusto che preludono al Liberty,
e segnatamente nel campo delle arti applicate, vedono il nostro paese ab­
bastanza pronto a riceverli. Com'è stato ricordato a proposito delle «giap-
l. Fiat 3 1/2 HP, 1 889.
2. Fiat Zero, 1 9 1 2 - 1 5 .
6 Made in Italy

poneserie» che dilagavano oltralpe, «l'architettura giapponese in Italia era


già nota grazie alla pubblicazione di volumi come quello sulla prima spe­
dizione italiana in Giappone, del 1 870, di Pietro Savio, della Passeggiata
intorno al mondo del barone von Hubner ( 1 879) e del Giappone e Siberia
di Luchino Dal Venne. Al 1 904 risale la prima della Madama Butterfly e
del 1 905 è l'apertura a Genova del Museo Chiassone, voluto da Edoardo,
direttore della nuova officina di Carte valori di Tokyo, che sarebbe stato
dotato di un esauriente catalogo nel 1 907»2• In realtà, il presunto ritardo
era un'idea propria della pubblicistica che spronava a tutti i costi per la
modernità. Peraltro non va mai dimenticato che il provincialismo non si
manifesta solo esaltando il proprio campanile, ma anche quello degli altri.
Quanto ai debiti, fu l'Art Nouveau nell'edizione austriaca, detta Seces­
sione, quella che maggiormente influenzò il Floreale italiano, a comincia­
re dai più noti architetti e artefici nostrani. Ciò è provato da buona parte
degli impianti dell'Esposizione di Torino del 1 902, progettati da Raimon­
do D' Aronco, di chiara derivazione austriaca e tedesca, e in modo parti­
colare dall'ingresso che ricorda quello di Olbrich alla Colonia di Darm­
stadt. Durante la sua visita a Torino il giovane maestro austriaco benevol­
mente o ironicamente affermava: «Das ist ganz italienisch».
È stato osservato che «si erano formate a seconda delle attività e degli
strati sociali le diverse nazioni-modello: sempre l'Austria, per la borghesia
ancien régime, l'Inghilterra, per la borghesia industriale (soprattutto tessi­
le, perché questa era l'industria in massima espansione) e commerciale, la
Germania, per la borghesia finanziaria e tecnica, mentre la Francia eserci­
tava il suo influsso su un'altra parte della società: sui piccoli borghesi e su­
gli intellettuali»3.
Sta di fatto comunque che le maggiori influenze liberty sull'Italia furo­
no esercitate dalla Germania e dall'Austria e ciò non solo per la diffusione
dei loro motivi formali. Con la Germania il nostro paese presentava delle
analogie nella sua storia recente, nella modestia delle sue risorse naturali,
nelle vicende della sua politica interna (si pensi alla questione romana e al
Kulturkamp/) . Tali affinità erano esaltate nell'aspirazione a emulare la na­
zione tedesca nella sua rapida ed efficiente organizzazione industriale. Le­
gami di altra natura ci univano all'Austria. Di essa, e propriamente della
società viennese, era ancora vivo nelle regioni lombardo-venete il credito
per il suo raffinato costume, che mantenne un'aristocratica impronta an­
che durante gli anni della Secessione. Oltre a ciò, il nostro paese era lega­
to a quelli germanici della Triplice Alleanza che si protrasse dal 1 88 1 alla
prima guerra mondiale e sappiamo per recente esperienza quanto influi­
scano sul costume simili accordi politici internazionali. Pertanto gli anni
che precedettero e accompagnarono la fioritura liberty in Italia ci videro
da un lato legati a questi e ad altri paesi europei (nonché impegnati in quel-
3 . R. D'Aronco, progetto per l'Esposizione d'arte decorativa moderna, Torino, 1 902.
8 Made in Italy

le imprese coloniali allora ritenute indispensabili per_ entrare nel novero


delle grandi potenze) e dall'altro intenti ad adeguare alle nuove esigenze
economiche i nostri impianti produttivi.
Dal punto di vista sociologico, il Floreale è legato a una parte della bor­
ghesia imprenditoriale abbastanza indipendente, almeno per gli interessi
culturali, dall'organismo statale e quindi dalla vera e propria classe diri­
gente. Esso era accettato dai pionieri della iniziativa industriale; dall'im­
prenditore lombardo o piemontese che nel suo positivismo sentimentale
adottava nell'ambito «privato» della sua azienda e della sua residenza do­
mestica quel linguaggio che vedeva impiegato come espressione del «pro­
gresso» negli ambienti europei con i quali era solito trattare.
Prima del periodo liberty, accanto all'«umbertino», che informava la
produzione edilizia, quella delle arti applicate era dovuta a un artigianato
che ai sistemi lavorativi più tradizionali univa l'ispirazione se non la copia
più passiva degli antichi modelli. Questo fenomeno, comune a molti altri
paesi, era da noi particolarmente favorito dall'accademismo dell'ambiente
artistico nazionale e incoraggiato dal movimento turistico divenuto in que­
gli anni quantitativamente rilevante. Esso alimentava soprattutto la pro­
duzione di quei manufatti minuti, dai famosi merletti ai souvenir dal gusto
più vieto, e sebbene tale produzione costituisse il sostentamento di molte
botteghe artigiane, in pari tempo era estranea e ostile a ogni impulso di rin­
novamento.
La diffusione dell'Art Nouveau in Italia, oltre all'iniziativa di artefici
isolati, è dovuta a una campagna pubblicistica svolta da un gruppo di ar­
chitetti, storici e studiosi ai quali si devono alcune riviste specializzate: nel
18 90 Camillo Boito fonda la rivista «Arte italiana decorativa e industriale»;
nel 18 95 nasce «Emporium» sul modello del periodico inglese «The Stu­
dio», fondato solo due anni prima; nel 1 902 si pubblica «L'Arte decorati­
va moderna» a opera di Enrico Thovez, per citare le più importanti. Non
mancavano certo gli interlocutori: industriali attivi, architetti ed ebanisti
impegnati nella produzione erano presenti in Italia già prima del fatidico
1 902 : Valabrega, Issel, Quarti, Riccò, Zen, Cutler e Girard, Mazzucotelli,
Ceruti, JEmilia Ars, Ducrot, ecc., e alcuni di questi con significativi im­
pianti.
L'Esposizione internazionale di Arti decorative di Torino del 1 902, pro­
mossa dalla sezione di architettura del Circolo degli artisti di Torino, rap­
presentava, lungi da ogni nazionalismo, un cosciente tentativo di adegua­
re la produzione italiana agli sviluppi della cultura europea. «<l fine preci­
puo della mostra - importa non dimenticarlo- è quello di mostrare all'Ita­
lia parte di ciò che il mondo ha prodotto a norma della nuova orientazio­
ne delle arti figurative e industriali piuttosto che mostrare al mondo ciò
che l'Italia è venuta producendo»4•
4. E. Basile, parete del salone De Maria, Palermo, 1 908.
10 Made in Italy

Il secondo aspetto della mostra torinese era chiaramente espresso nel


programma dove si affermava: «vorremmo che questa mostra organica di
arredi non avesse soltanto di mira un aristocratico carattere di eleganza e
di bellezza d'arte, ma anche e soprattutto un carattere pratico e industria­
le. Vorremmo, in una parola, che artisti e fabbricanti non tendessero tan­
to alla creazione di pregevoli oggetti di lu�so quanto allo studio di tipi di
decorazione completa, adatti a tutte le case e a tutte le borse e massime al­
le più umili, in modo da promuovere un reale, efficace e completo rinno­
vamento dell'ambiente»5. Troveremo dichiarazioni simili, non prive di un
accento demagogico, in tutte le fasi della nostra storia; comunque, note­
vole è il fatto che anche da noi si pose il problema del rapporto fra arte e
industria.
Quest'ultimo, basilare per la storia del design, fu avvertito prima di
ogni altra innovazione stilistica. Nel campo delle istituzione didattiche,
sull'esempio delle scuole tedesche dell'età guglielmina, nacquero i musei
artistico-industriali con l'intento di aggiornare sia il gusto del pubblico dei
visitatori, sia quello degli allievi che frequentavano le annesse scuole. Tra
le maggiori istituzioni del genere vanno ricordati: il Museo industriale di
Torino risalente al 1 862 , il Museo artistico industriale di Roma del '73 ,
quello di Napoli dell'82 , quello di Palermo dell'85 .
Fra i più prestigiosi fu quello di Napoli, del quale si legge: «i più illustri
direttori di musei e scuole industriali del Belgio, della Germania,
dell'Olanda, della Spagna, dell'Inghilterra, della Francia, della Russia si
sono recati a visitare questo museo, riportandone le impressioni più favo­
revoli ed entusiastiche. Il direttore dei Musei di Germania affermava:
'Questa istituzione è superiore a tutte quelle consimili di Europa e, dirò di
più, noi dobbiamo applicare il suo programma, se non vogliamo che i ri­
sultati delle nostre scuole sieno conseguiti solo per metà'»6. Maggiore for­
tuna delle istituzioni citate ebbe a Milano la Società umanitaria, fondata
nel 1 893 , che nel 1 902 inaugurò le sue scuole-laboratori di arti applicate
affidandole alla direzione dell'architetto Gaetano Moretti. L'Umanitaria
intendeva combattere la disoccupazione ed elevare il livello di vita degli
operai, proposito affrontato con criteri pragmatici. «'Per imparare bisogna
fare. Si conosce meglio una cosa che si fa con le proprie mani, che non una
cosa che si trova già scritta in lungo e in largo in un libro. La teoria, scam­
pagnata dalla pratica, serve poco e dà scarso frutto. L'operaio ha bisogno
di conoscere il perché di ciò che fa; non gli serve quindi una teoria astrat­
ta ma una teoria che scaturisca dai fatti e dalle cose. Ecco perché dapper­
tutto nell'insegnamento professionale alla teoria si accompagna la pratica' .
[ ... ] In questo senso i modelli figurativi e i prodotti della scuola vengono a
coincidere, anche se semplificati, con quelli proposti dalle avanguardie
dell" arte nuova' che adornavano le architetture della ricca borghesia. E di-
5 . E. Basile, divano per Ducrot, 1 903 .
6. E. Basile, tavolo e sedia in quercia per Ducrot, 1 902.
12 Made in Italy

fatti fin dal primo corso sperimentale del 1 903 gli insegnanti delle sezioni
di Lavorazione artistica del ferro e di Ebanisteria erano rispettivamente il
Mazzucotelli e il Quarti. [ . . . ] Dalle analisi della importante industria del
mobile in Brianza rispetto alla distribuzione, alla produzione, e ai model­
li, risulta a esempio che la refrattarietà degli artigiani alla semplificazione
formale era in ragione anche del minimo livello di meccanizzazione delle
piccole industrie. Alla produzione straniera più lineare e semplificata se­
condo i dettami dell'arte nuova si contrapponeva un laborioso lavoro di
decorazione e di intaglio reso competitivo grazie a bassissimi salari»7•
Nel campo delle esposizioni, dopo quella citata di Torino del 1 902 , do­
ve peraltro figurano le prime automobili, va ricordata quella di Venezia del
1 903 , nella quale riscossero grande successo le Sale del Mezzogiorno, di­
rette da Ernesto Basile, che univano prodotti siciliani e napoletani. Il pro­
gramma della mostra veneziana prevedeva la partecipazione italiana divi­
sa per regioni e, iniziativa di maggiore interesse, la formazione di ambien­
ti interamente arredati nei quali inserire le opere di pittura, scultura e in­
cisione. Tale programma, rispondente alla diffusa esigenza di comporre la
scissione tra arte pura e applicata, tra oggetto e ambiente, trovò piena cor­
rispondenza nella sola partecipazione meridionale. I napoletani presenta­
rono opere di Gigante, Morelli, Gemito e parteciparono con le ditte Figu­
lina Artistica Meridionale, con l'opificio seri co di San Leucio, manifattura
casertana posta al centro di una comunità di artefici fondata da Ferdinan­
do IV di Borbone (che al tempo della mostra era diretta dal marchese Mez­
zacapo) e con l'officina di Angelo Grossi, cui si devono le maggiori realiz­
zazioni in ferro delle suppellettili e dell'edilizia floreale napoletana. «Le
Sale del Mezzogiorno sembrano le più importanti e le mie preferenze sal­
gono al punto di mettere il successo di Venezia sopra a quello di Torino;
per quanto io sia stato concorde nel giudizio sopra il Basile all'Internazio­
nale torinese del 1 902» affermava Alfredo Melani sull' «Arte Italiana deco­
rativa e industriale». I consensi che accompagnarono la partecipazione
meridionale alle rassegne veneziane successive ( 1 905 - 1 907 ) indicano, tra
l'altro, quanto poco fondata sia la considerazione secondo la quale l'opera
di Basile fosse limitata all'ambito provinciale. Se la sua attività di costrut­
tore è legata alla borghesia siciliana, il suo intervento nel settore delle arti
applicate ebbe influenza in tutto il paese, oltre che per le manifestazioni ri­
cordate, grazie anche alle numerose succursali della siciliana ditta Ducrot.
Ernesto Basile, forse il maggiore esponente del Liberty e certamente del
protodesign omonimo, era in quegli anni una delle personalità più note
della moderna architettura italiana; aveva realizzato già la villa Florio
( 1 898) , la villa Paternò ( 1 898), l'edificio alla mostra agricola di Palermo del
1 900, la cappella Scalea ( 190 1 ) e redatto numerosi progetti secondo il nuo­
vo indirizzo floreale. Nel settore delle arti applicate, o meglio dell'arreda-
I. L'incipit lzberty 13

mento, i l suo nome·è legato a quell� d i Vittorio Ducrot, che a l tempo del­
la realizzazione della villa Florio era direttore della ditta costruttrice Go­
lia. Questa cominciò la sua produzione come piccolo laboratorio di tap­
pezzeria e di specchi artistici impiegandp una ventina di operai, per di­
ventare nel 1 9 1 1 una fabbrica completa di elementi d'arredo con 400 ad­
detti e dotata delle più moderne macchine per la lavorazione del legno. La
collaborazione di Basile cominciò a essere sistematica quando Ducrot di­
venne unico p roprietario della ditta che, oltre alla fabbricazione dei mobi­
li, s'impegnò nell'arredamento per alberghi e navi e nella costruzione di
idrovolanti e realizzò una capillare rete di distribuzione di negozi nelle
p rincipali città italiane.
Nel quadro italiano delle arti applicate del primo Novecento, domina­
to da mobilieri ed ebanisti, i migliori dei quali preferivano essi stessi dise­
gnare i modelli della loro produzione, le cooperazioni sul tipo di quella tra
l'architetto Moretti e il mobiliere Ceruti di Milano e soprattutto di quella
Basile-Ducrot rappresentavano i pochi episodi che in Italia corrispondes­
sero al movimento europeo. All'Esposizione di Torino i mobili siciliani e il
trinomio Basile, Ducrot e Antonio Ugo ottennero il gran diploma di ono­
re e ben presto i prodotti della ditta cominciarono a essere conosciuti non
solo in Italia ma anche in Francia e in Inghilterra. Un'altrà esposizione da
menzionare fu quella tenuta a Milano nel 1 906, aperta in occasione
dell'inaugurazione del traforo del Sempione e importante soprattutto per
la presenza delle automobili con modelli Fiat, Isotta Fraschini e Pirelli. I
rapporti fra l'Italia e l'Europa costituivano un continuo scambio: l'im­
prenditore siciliano, ad esempio, importava dalla Francia e dall'Inghilter­
ra macchinari, materiali, modelli, mano d'opera specializzata. Del resto,
come sostiene Morandi, tutta la giovane industria italiana si avvaleva
dell'elemento tecnico e dirigente venuto da fuori, quando tedeschi, svizze­
ri, francesi erano i capi-fabbrica e il personale tecnico, che s'importava in­
sieme al macchinario8. Ciononostante, la produzione seriale degli oggetti
liberty non fece in tempo a decollare; infatti prima della diffusione del
nuovo stile l'industria produceva in serie solo mobili negli stili tradiziona­
li; dopo, una volta superato il gusto floreale, tutte le industrie, nessuna
esclusa, ritornarono a farlo.
In complesso, le arti del periodo liberty realizzarono solo in parte quel
programma di unione con l'industria, come del resto - nonostante la di­
versa condizione economico-finanziaria - avvenne negli altri paesi euro­
pei. In Italia come altrove, tranne rare eccezioni, si continuò a fare un mi­
sto di artigianato e design, che in un precedente saggio abbiamo definito
artidesign, vigente ancora oggi, giusta la differenza fra un settore e l'altro
come vuole la visione pluralistica del design. A tal proposito, non è vero
peraltro che i p rodotti informati al nuovo stile furono solo appannaggio di
14 Made in Italy

una élite. Questo vale per quanto riguarda gli articoli di lusso, ma non tut­
ti, il Liberty avendo influenzato notoriamente ogni sorta di prodotto, dal
più ricco al più povero.
E veniamo agli aspetti morfologici del protodesign liberty. Oltre alla
eredità di Thonet, di notevole importanza fu l'ispirazione alla natura. Ri­
ferendoci per un momento ai maggiori esempi internazionali, a seconda
del modo di porsi nei confronti di questa si può notare tutta una gamma
di stilemi: Horta «imita» della natura non l'aspetto, ma gli organici pro­
cessi che ne determinano le forme e gli equilibri formali, usando infatti af­
fermare «je laisse la fleur et la feuille et je prend la tige». Van de Velde, reo­
rizzando che la «linea è una forza», della stessa realtà organica cerca di co­
gliere e di razionalizzare il rapporto fra forma e movimento; gli arredatori
francesi e segnatamente quelli della scuola di Nancy si abbandonano, vi­
ceversa, più a un florealismo naturalistico, stilizzato tuttavia secondo vari
aspetti della tradizione nazionale. Gli stilemi dell'Art Nouveau franco-bel­
ga sono tra i più lineari di uno stile che in genere ha nella linea il suo ca­
rattere esponente. Su questo tema è stato opportunamente osservato:
«l'elemento caratterizzante della linea Art Nouveau sembra essere almeno
agli inizi l'andamento sinusoidale avvolgente che si accompagna di solito a
un processo di moltiplicazione, di sdoppiamento, di eco: più che di una li­
nea si tratta di un sistema, di una famiglia di linee che partono da un im­
pulso comune e tendono a liberarsene conquistando una loro autonomia.
Si è parlato della sagoma che assume una frusta agitata in aria nell'intento
di generare lo schiocco ma il coup de /ouet coglie solo un aspetto di questa
particolare forma strutturale; per definirla meglio occorre notare come i
plessi lineari tipici dello stile evochino un movimento contrastato come av­
viene quando qualcosa si muove all'interno di un fluido. [ . ] Dalla pre­
..

gnante anticipazione di Mackmurdo al gesto liberatorio di Gaudf, di


Beardsley, di Horta, di Van de Velde c'è uno scatto clamoroso: la linea
esplode in composizioni di carattere dialettico in cui ogni affermazione è
accompagnata da una negazione, ogni curva ha la sua controcurva, ogni
ascesa la sua caduta, ogni continuità trova nella discontinuità la sua ragion
d'essere e la sua compensazione»9. Altri stilemi morfologici sono: l'itera­
zione di uno stesso motivo ovvero la simmetria traslatoria; il gusto per le
immagini vorticose; il rapporto fra figura e fondo; l'uso dei lucernari e in
generale la predilezione per le trasparenze; il notevole interesse per i colo­
ri, ecc. Questi e altri caratteri morfologici sono legati a cause simboliche,
funzionali in senso lato e fisio-psicologiche. Dall'insieme di tali intenzioni
soggiacenti, prendiamo a mo' di esempio il principio della decorazione
funzionale. Al proposito Van de Velde scrive: «riconosciamo il senso e la
giustificazione dell'ornamento nella sua funzione. Questa funzione consi­
ste nello 'strutturare' la forma e non nell'ornarla, come comunemente si è
7 . Ducrot, étagère in legni d iversi.
8. Firma del mobiliere Bugatti.
9 . Sedia di Bugatti.
16 Made in Italy

tentati di fare [ ... ] . I rapporti tra questo ornamento 'strutturale e dinamo­


grafico' e la forma o le superfici devono essere così intimi da far sembrare
che l'ornamento abbia 'determinato' la forma»10.
Accanto alle caratteristiche suddette, alcune considerazioni in rappor­
to all'industriai design vero e proprio valgono a meglio precisare lo stile
Art Nouveau. Se è vero, infatti, che alcuni oggetti di vetro, di metallo, di
ceramica, che alcuni tappeti e soprattuttò alcuni rivestimenti (carte da pa­
rato, cinz, ecc.) furono realizzati, o almeno concepiti, per la produzione in
serie, quelli più complessi, segnatamente i mobili, furono ideati come pez­
zi unici. Come è sintomatico il fatto che Horta faceva piegare poutrelles a
doppio T, ovvero manipolare artigianalmente un elemento già prodotto
dall'industria, altrettanto significativo è il fatto che, per la loro complessità
formale, i mobili, al passaggio fra progettazione ed esecuzione, richiede­
vano disegni e modelli in scala grande al vero, sui quali esperte mani arti­
giane modellavano i pezzi da costruire e montare poi con una tecnica di
volta in volta «inventata» per aderire alla varietà degli elementi. In ciò la
grande differenza fra le sedie in legno curvato di Thonet e i mobili Art
Nouveau. Infatti, le prime nascevano da pochi e semplici elementi prefab­
bricati secondo precise sagome meccaniche, mentre i secondi da elementi
estremamente vari, morfologicamente eterogenei che non bastava solo as­
semblare, ma costruire ogni volta ed evidentemente senza l'ausilio di una
tecnica industriale. Del resto, se, come dice Benjamin a proposito dell'ope­
ra d'arte, «l'hic et nunc dell'originale costituisce il concetto della sua au­
tenticità»1 1 , questo pensiero non doveva essere estraneo agli artisti Art
Nouveau, che non si curavano tanto di rendere più semplice e spedito il
procedimento tecnologico, quanto di valorizzare e vitalizzare «ad arte»
ogni ambiente, ogni oggetto d'uso quotidiano.
Ritornando al nostro tema del protodesign italiano, da noi questo cul­
to della linea, della struttura, del tratto dinamografico, ecc. è subordinato
a una ispirazione naturalistica più mimetica che altro. Si pensò, assumen­
do a modelli fiori e foglie, più o meno stilizzate, di restare in qualche mo­
do legati alla tradizione che aveva fatto del riferimento alla natura il cardi­
ne della decorazione architettonica e degli oggetti d'uso. Accanto a questa
motivazione del florealismo vi fu anche la preoccupazione di creare uno
stile moderno ma in pari tempo con contrassegni nazionali; e nulla sembrò
più adatto a tal fine che «riprodurre» fiori e frutta della Sicilia. Si raggiun­
se una caratterizzazione nazionale, ma tutta questa «natura morta», non­
ché spesso arricchita da elementi zoomorfi (le vetrate con forme e colori di
uccelli e pavoni) , rami di piante, tronchi di querce, il tutto scolpito, balza­
to, traforato, non fece che appesantire enormemente edifici e oggetti, per­
petuando una sorta di barocco che aveva trovato presso di noi sempre un
largo consenso.
1 0. M. Dudovich, pubblicità della ditta Mele, 1 907 .
18 Made in Italy

Certo, non tutto il Liberty italiano fu floreale, né legato agli organici an­
damenti sinusoidali delle linee. Guardando forse alla linearità geometrica
di Charles Rennie Mackintosh, vi furono anche nelle nostre regioni co­
struzioni ed elementi d'arredo in cui le linee, specie nei ferri battuti, e i vo­
lumi si regolarizzavano in una geometria più rigorosa, quella stessa che
Mackintosh aveva trasmesso al Protorazionalismo austriaco e da qui al re­
sto d'Europa. Com'è stato ricordato, «la produzione seriale, caratterizzata
nel primo periodo da linee sinuose e fluttuanti e da una abbondante deco­
razione floreale, comincia poco per volta a risentire dell'influenza scozze­
se e austriaca e si orienta verso austere forme geometriche»12.
E colgo qui l'occasione per ribadire che il principale fattore presente
nelle arti applicate di ieri come nel design di oggi è il fattore gusto che, con
le sue oscillazioni, va considerato il motore dell'intero sistema design.

Note

1 G.C. Argan, L'«Art Nouveau», in Studi e note, Bocca, Roma 1955, p. 281.
2
A. Pansera, Storta del disegno industrzale in Italia, Laterza, Roma-Bari 1993 , p. 6.
3 M. Calzavara, L'architetto Gaetano Morelli, in <<Casabella>>, n. 2 1 8 .
4 <<L'Arre decorativa moderna>>, a . l , 1 902, n. l.
� Ibid.
6 O. Fava, Il Museo Artistico Industriale di Napoli, in Napoli d'oggi, Pierro, Napoli 1 900, p. 407.
7 V. Gregotti, L. Berni, P. Farina, A. Grimaldi, F. Raggi, Per una storia del design italiano, 1860-
1914. Le riviste, le scuole e il dibattito delle tdee, in <<Ottagono>>, n. 34, settembre 1974.
8 Cfr. R. Morandi, Stona della grande industria in Italia, Einaudi, Torino 1959.
9 G. Massobrio, P. Portoghesi, Album del Liberty, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 3 1 -33.
1 0 H. Van de Velde, La linea è una/orza, in «Casabella-continuità>>, n. 237, marzo 1960.
1 1 W. Benjamin, L 'opera d 'arte nell'epoca della sua riproduàbzlità tecnica, Einaudi, Torino 1966,
p. 22.
12
I. de Guttry, M.P. Maino, Il mobile liberty italiano, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 48.
Capitolo secondo La reazione futurista

«Il futurismo è il primo movimento d'avanguardia che si presenta con


caratteri non specificamente orientati in un singolo settore di attività, ma
come proposta integrale di rinnovamento della cultura e del comporta­
mento stesso, realizzando così, con una formula del tutto nuova e rivolu­
zionaria, una tendenza all'incontro diretto e alla continuazione tra arte e
vita, che era partita dall'estetica inglese /in de siècle. [ . . . ] Il 'passatismo'
cioè la mentalità conservatrice in arte, come nel costume, è colpito nelle
sue manifestazioni accademiche e anche nei suoi culti più sacri: nel culto
dei m usei come della vita pacifica, nelle convenzioni sociali, sentimentali,
religiose. In tal modo il futurismo anticipava anche nelle tecniche, che
puntano alla sorpresa violenta, al disorientamento e alla brutalizzazione
dello spettatore» 1 • Per ciò che concerne il mito dell'incontro tra arte e vi­
ta, questo era già stato vagheggiato dal Liberty e ritornerà in quasi tutti i
movimenti d'avanguardia; la novità sta invece in ciò che Calvesi dice
all'inizio: a differenza del Liberty che ebbe sempre natura moderata e con­
ciliante, il Futurismo fu invece appunto «il primo movimento d'avanguar­
dia». E questo contrassegna il suo principale carattere.
Come tutte le tendenze dell'avanguardia, il Futurismo fu un'ideologia
contenente il maggior numero di connotazioni proprie delle correnti rivo­
luzionarie artistico-letterarie: attivismo, antagonismo, gratuità eversiva, an­
tipassatismo, tecnicismo, agonismo, nihilismo, ironia, iconoclastia, cere­
bralismo, auto-réclame e simili. In particolare, «il movimento concreto
chiamato con quel nome non fu che un sintomo significativo d'uno stato
d'animo più esteso e profondo, che il Futurismo italiano ebbe il gran me­
rito di fissare e di esprimere, coniando a propria etichetta quella felicissima
formula»2. Come che sia, tutte le suddette connotazioni stanno a significa­
re che il tipico intento dell'avanguardia può esprimersi quale «contestazio­
ne globale» del. presente politico, culturale, artistico, ecc. Se questo è vero,
come ho notato altrove, l'architettura - così condizionata da istituzioni,
norme e vincoli - può annoverarsi nell'ambito dell'avanguardia solo per
20 Made in Italy

teorie e progetti, ma non per effettive realizzazioni. Condizione veramente


singolare questa dell'avanguardia architettonica che non si verifica negli al­
tri settori sia artistici sia politico-sociali. Infatti, quadri, sculture, libri, mu­
sica, per quanto carichi di intenzioni innovatrici ed eversive, superate le ini­
ziali difficoltà, che· peraltro ne segnano la notorietà, rientrano nel normale
circolo della produzione, subiscono la stessa sorte delle opere tradizionali,
rispettano le stesse leggi di domanda e offerta alla stregua di tutti gli altri
prodotti. Per questi settori possiamo dire che il termine avanguardia valga
più nell'accezione di attività anticipatrice che di rivoluzionaria rottura del­
lo status qua; l'architettura sembra avere invece questo secondo compito,
che contrassegna il fallimento di essa sul piano pratico. Né paragonabile
agli altri propositi e programmi (piani economici, manifesti politici) è
l'avanguardia architettonica che, se da un lato non si traduce in tangibili
costruzioni, dall'altro, operando su disegni e progetti, ci fornisce comun­
que una immagine di ciò che gli autori intendevano fare.
Può dirsi lo stesso - e cioè, ripeto, che un movimento d'architettura di
avanguardia, rigorosamente inteso, non può tradursi in prassi - per ciò che
concerne il design? La vicenda del Futurismo può contribuire a dare una
risposta a tale interrogativo. Intanto va chiarito che l'industriai design toc­
ca solo per alcuni aspetti l'esperienza del Futurismo, e ciò non solo per le
note condizioni tecnico-produttive italiane nel primo ventennio del seco­
lo scorso, ma anche per la concezione stessa di un protodesign che, in par­
te ispirato all'architettura di Sant'Elia, si espresse principalmente nel cam­
po dell'arredamento. Anticipando una conclusione, tra le altre ragioni per
cui le arti applicate futuriste non si tradussero in industriai design fu la lot­
ta contro ogni accento decorativo. Questa risultava sacrosanta rispetto al­
la produzione architettonica italiana del tempo, ma il tema della decora­
zione era stato associato in Europa a quello delle arti applicate; cosicché,
cancellando con un colpo di spugna il problema della decorazione, il Ma­
nz/esto dell'architettura futurista accantonava anche tutto il travaglio del
Movimento Moderno che, da Semper a Morris, dalle Arts and Crafts al
Werkbund, aveva puntato, prima ancora che sul rinnovamento dell'archi­
tettura, su quello delle sue parti, ovvero la riforma dell'artigianato, le arti
applicate e il design, vero banco di prova del rinnovato rapporto tra arte e
produzione industriale, con tutte le ben note implicazioni sociali.
Al posto di queste travagliare ricerche il Futurismo puntò e trovò il mo­
do d'insinuarsi nella coscienza popolare e negli umori populistici e picco­
lo-borghesi sui quali fecero leva i precetti marinettiani «del perituro, del
transitorio e dello spendibile», che vennero ripresi - pare a malincuore da
Sant'Elia - nella parte conclusiva del manifesto architettonico. Inoltre, co­
me ho notato altrove3 , nel suo sforzo di indicare una cultura adeguata alla
civiltà meccanica e di aderire, sia pure nel modo più estetizzante, alle po-
1 1 . G. Balla, paravento, 1 9 1 7 .
22 Made in Italy

polari attese rinnovatrici, il Futurismo anticipò col suo linguaggio grafico­


poetico, l'accento visivo-didascalico, la sua pittura plastico-narrativa, la
sua architettura fantascientifica, nonché il suo interesse rivolto alle arti mi­
nori e alle tecniche nuove, la fotografia, il cinema, la «radia» e la prean­
nunziata televisione, quasi ogni lato degli attuali mass media. E aggiunge­
vo che, oltre al carattere spettacolare di tutta l'attività futurista, in polemi­
ca col passato, essa stabiliva ex nova una iConografia che, nata dalla comu­
ne esperienza del presente, si offriva alla comprensione di tutti; e se da un
lato quel movimento imponeva alle masse la sua mitologia e modernola­
tria, dall'altro ne rispettava non poche naturali tendenze; specie in pittura,
oltre al valore dato al titolo-didascalia, esso si manifestava con opere par­
ticolarmente elaborate, spesso di elevato livello tecnico e di notevole fat­
tura, aspetti che hanno sempre esercitato una notevole attrazione presso i
ceti medi e popolari. Non a caso, a riprova del proselitismo, del reclami­
smo e della diffusione operata dal movimento che studiamo, l'uomo della
strada continua a chiamare futurista ogni manifestazione d'arte esorbitan­
te per qualche modo dagli schemi tradizionali. Certo, anche in questa spin­
ta populistica esisteva una intenzione eversiva associata tuttavia a un'altra
prettamente edonistica: il piacere dell'artisticità diffusa, il piacere dell'og­
getto meccanico, il piacere della corsa, il piacere di consumare; quale pic­
colo-borghese di ieri o di oggi non preferisce l'automobile alla Nike di Sa­
motraàa? L'ideologica riduzione futurista di tutta la realtà ai ben noti e ri­
petuti capisaldi, poiché mostra notevoli analogie con l'odierna civiltà tec­
nologica, urbana e consumistica - che all'edonismo diffuso associa ancora
risvolti di irrazionalità e di violenza - sembrerebbe confermare il giudizio
di Adorno sulla cospicua componente fascista della cultura di massa. Ma,
d'altra parte, questa, che ha sconvolto e vanificato ben altri schemi, ideo­
logie e mitologie, lascia sperare nella sua capacità di risolvere molte delle
proprie interne contraddizioni.
Il maggiore pittore-designer futurista fu Giacomo Balla; il suo primo ar­
redamento fu quello di casa Lowenstein a Dusseldorf, del 1 9 1 2 , in cui
adottò il motivo delle «compenetrazioni iridescenti» presente anche nei
quadri di questo periodo. Tale motivo, formato da triangoli colorati che si
saldano l'uno all'altro in una rigorosa trama, è una delle prime manifesta­
zioni di arte astratta in Europa. Quale che fosse l'origine delle «compene­
trazioni iridiscenti» - il tema naturalistico dell'analisi delle foglie o quello
mistico-simbolico della compresenza di più colori come nella coda di pa­
vone - risulta importante la vena di astrattismo che Balla introduce nel lin­
guaggio futurista.
Un'altra sua opera, ricordata quale approccio del Futurismo alle arti
applicate, è la stanza da letto che fra il 1 9 1 2 e il 1 9 1 3 disegnò e si fece co­
struire per la propria casa romana. Si trova qui, accanto al tema delle
II. La reazione futurista 23

«compenetrazioni iridescenti» in bicromia, un altro motivo, adottato qual­


che tempo dopo da Klee, quello della scacchiera deformante, tale perché
proiettata su una superficie ondulata. Oltre queste decorazioni bidimen­
sionali, gli altri elementi della stanza segu.ono una volumetria trapezoidale
e una sorta di dinamismo ante litteram nel campo dell'arredo, specie nel
tentativo mal riuscito dei comodini di proiettarsi in avanti. Ma, nella casa
di Balla, erano presenti ben altri segni di una rinnovata arte applicata: ogni
sorta di mobili, abiti, lumi, vasi, giocattoli e quant'altro serviva alla vita
quotidiana; il tutto in un quadro di domestica borghesia assai dissimile dai
dissacranti manifesti marinettiani. Infatti, com'è stato osservato, «silenzio­
se complici dell'artista sono prima la moglie e poi anche le figlie che cu­
ciono, ricamano, inventano profumi, lavorano al telaio per confezionare
oggetti che emanano una vivacità giocosa, ironica e innovativa»4.
Di Balla protodesigner, Crispolti ricorda numerosi altri progetti, datati
al 1 92 0-2 1 , tra i quali la decorazione interna del night club chiamato Ba! Tic
Tac e la sala futurista nella Casa d'Arte Bragaglia. «L'architettura interna di
Balla è [ . . . ] un plenum cromatico di eccezionale, esaltante intensità, secon­
do quello 'stile futurista' astratto, di cui scriveva nel 1 9 15 . I mobili sono
progettati in disegni che riprendono temi figurali della pittura, e vivamen­
te colorati, ma realizzati secondo una elementare tecnica a incastro, che
può preludere agevolmente anche a una produzione quantitativa. L'inten­
zione della pienezza formale e cromatica è di realizzare la massima inten­
sità d'invenzione creazionistica, in chiave appunto del mito dell'artificio­
sità del mondo contemporaneo. Tutto è rinnovato, ogni oggetto d'uso,
ogni suppellettile, la natura è surrogata in artificio nel 'fiore futurista', le
cui invenzioni strutturali sono, soprattutto all'inizio, di straordinaria qua­
lità plastica, quasi veramente piccole sculture colorate, come del resto av­
viene anche di altri oggetti. Ogni elemento dell'architettura interna è stu­
diato e rinnovato: per esempio, le mattonelle. E così piatti e ricami sono
studiati da Balla con vivo impegno. Fra gli elementi dell'arredamento, le
lampade sono campo delle più diverse invenzioni, e così i paraventi»5.
Più vicino a Balla nell'avventura del protodesign futurista fu Fortunato
Depero. Insieme lanciano nel 1 9 1 5 il manifesto Ricostruzione futurista
dell'universo6, che, a mio avviso, costituisce, tra l'altro, il documento teo­
rico più prossimo alla cultura del design. In esso - dopo aver ricordato al­
cuni significativi precedenti: il Manz/esto tecnico della pittura futurista (a
firma di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini), il Manz/esto della scul­
tura futurista (Boccioni) , quello dedicato alla pittura dei suoni, rumori e
odori (Carrà), il volume Pittura e scultura futuriste di Boccioni - i firmata­
ri dichiarano di voler unificare tutte queste separate esperienze in una «fu­
sione totale per ricostruire l'universo rallegrandolo, cioè ricreandolo inte­
gralmente». Inoltre affermano di non volersi limitare più a costruire il rea-
24 Made in Italy

le, ma di sostituirlo in forma più luminosa, colorata, polimaterica. «Balla e


Depero rompono definitivamente le pertinenze seti:oriali del futurismo
[. .. ]. Gli artisti, sorretti da una incondizionata disponibilità nei confronti
dei 'portati' del progresso e da un febbrile entusiasmo per le effervescen­
ze della vita moderna, invadono il mondo con i loro complessi plastici, mes­
si in moto secondo i 'capricci' della propria ispirazione, fatti di fili colora­
ti, tessuti, specchi, congegni elettrotecniCi e meccanici; somigliano a gio­
cattoli per nulla timidi, adatti a portare l'immaginazione al di là delle per­
cezioni oggettive»7.
Colgo l'occasione per ribadire che sia i dipinti sia gli oggetti di Balla e
Depero non hanno nulla in comune col Liberty, come è stato detto da va­
ri autori, bensì con altre tendenze, spesso anticipandole. La dimensione Iu­
dica, ad esempio, che compare nelle frasi del documento citato, avvicina la
loro produzione al Dadaismo. Analogamente, quando dicono: «dopo più
di 20 quadri sulla medesima ricerca, comprese che il piano unico della te­
la non permetteva di dare in profondità il volume dinamico della velocità;
Balla sentì la necessità di costruire con fili di ferro, piani di cartone, stoffe
e carte veline, ecc. , il primo complesso plastico dinamico», a parte quel di­
namismo che era proprio dei futuristi, fanno pensare a opere costruttiviste
come quelle di Schwitters e di El Lissitzky. Ancora, quando descrivono i
«complessi plastici che girano su un perno [. . . ] su più perni: a) in sensi
uguali, con velocità varie; b) in sensi contrari; in sensi uguali e contrari con
trasformazioni successive (in forma di coni, piramidi, sfere, ecc.)», come
non pensare al monumento per la Terza Internazionale che Tatlin espose
quattro anni più tardi?
Ma più pertinente al problema del design ante litteram è proprio lo stes­
so concetto di «complesso plastico», vale a dire tutta la cultura futurista
concentrata in un oggetto. Non è da credere che si tratti sempre di un mar­
chingegno contenente o espressivo di tutte le intenzioni dinamiche, recla­
mistiche, meccaniche, trasparenti, pirotecniche, rumorose e simili - che
pure hanno ispirato gli happening più recenti - bensì spesso di manufatti
semplici come un paio di scarpe dipinte in un modo insolito o di un abito
altrettanto stravagante perché frutto di fantasia o di uno stesso mobile li­
beramente decorato.
Una conferma dello spirito provocatorio e ironico che circolava tra i
protodesigner futuristi è data da Francesco Cangiullo nel suo testo sul mo­
bilio in «Roma Futurista» del 1 920: «non avete mai osservato come sono
immobili i vostri mobili?»; «i miei mobili saranno parlanti, allegri e non vi
romperanno le scatole»; «io trovo giusto che le tavole dei wagons restau­
rant siano statiche perché fanno parte di un ambiente abbastanza dinami­
co»8. Lo stesso Cangiullo qualche anno prima aveva scritto: «voi state a di­
sagio in casa vostra e chi vi ha allenati a questo disagio senza farvene ac-
1 2 . G. Balla, mobile per sala
da pranzo, 1 9 1 8 .
1 3 . G. Balla, disegno
per il fanale del Bal tzk tak,
1 92 1 .
1 4 . G . Balla, ricamo su lino
grezzo eseguito dalla figlia Eli­
ca, 1 9 1 9 .
1 5 . G. Balla, scarpe futuriste,
1915.
26 Made in ltaly

coraere è il vostro atavismo che io distruggerò con i miei mobili dell'ALFA­



BET A SORPRESA o con i MOBILI PAROLIBERI, l'ascensore, la sedia a dondo­
lo, la sedia del dentista, la culla, il tourniquet e quasi tutti i mobili elettrici
e chinesiterapici»9
È stata distinta dalla critica una linea fantastica da una funzionale nei fu­
turisti e neo-futuristi più interessati alle arti applicate. Alla prima appar­
terrebbero, oltre Balla e Depero, Tato, De Marchi e Prampolini, alla se­
conda Paladini, Pannaggi, Diulgheroff, Fillia e Arnaldo Ginna. La com­
ponente fantastica dell'arte di Balla e Depero, così come di Prampolini,
conduce naturalmente i tre autori verso il teatro, quello spazio mentale de­
putato a luogo di trasposizioni anche oniriche, gioco e divertimento accet­
tato, sul quale seppellire il vecchio e far nascere, come un evento stupefa­
cente, il nuovo.
Di Depero è stato detto che in lui «la tendenza alla invenzione fantasti­
ca si carica di umori diversi, più cupi e inquietanti, avvelenati, si direbbe,
da una sotterranea vena di pessimismo o, almeno, da un sentimento ambi­
guo, di accettazione e di riserva, nei confronti del mondo della macchina e
dei suoi prodotti: più che una celebrazione della tecnica, Depero è porta­
to al confronto uomo-macchina e a sottolineare la irriducibilità o, se si vuo­
le, la inadeguatezza, del primo rispetto alla seconda, facendo ricorso alla
deformazione in chiave grottesca. La stessa vena fiabesca dell'artista rive­
la accenti inquietanti e minacciosi che non lasciano presagire un sicuro 'lie­
to fine', ma sembrano suggerire un giudizio ambiguamente sospeso intor­
no alla avventura macchinista dell'uomo moderno»10.
Ma queste sottigliezze psicologiche non si addicono ai risoluti futuristi.
Se è vero che l'atteggiamento di Depero è quello sopra citato, d'altro can­
to lo stesso artista è animato da un positivo spirito organizzativo. N el 1 9 1 7
egli apre un primo laboratorio nella nativa città d i Rovereto coadiuvato
dalla moglie e da una sola lavorante; nel '20 i locali si ampliano, le operaie
diventano dieci e la produzione conta 120 arazzi con altrettanti sopram­
mobili e giocattoli. «Nel 1 923 alla prima Mostra Internazionale delle Arti
Decorative di Monza, Depero ebbe a disposizione una sala personale per
esporre la propria produzione nel campo della pittura e delle arti applica­
te; fu uno dei pochi episodi che si distaccasse dal panorama generale di ar­
retratezza culturale offerto da quella esposizione. Con Balla e Prampolini,
Depero espose successivamente, ottenendo importanti riconoscimenti da
parte della critica internazionale, all'Esposizione di Parigi del 1 925 .
Nell'ambiente artistico d'avanguardia creatosi a Rovereto attorno alla fi­
gura centrale di Depero, si formarono alcuni degli architetti più importanti
del Razionalismo italiano: Gino Pollini, Adalberto Libera, Luciano Bal­
dessari, e gli ultimi due rivelarono nelle prime opere il loro debito cultu­
rale nei confronti del Futurismo»1 1 .
II. La reazione futurista 27

Ritornando allà distinzione fra -«fantastici» e «funzionalisti», rivelatasi


di fatto debole, è certo che dopo la morte di Boccioni la tendenza dei fu­
turisti a impegnarsi nelle arti applicate fu nettamente prevalente, pur non
abbandonando la componente estetico-fantastica. Arnaldo Ginna, in un
articolo intitolato Il primo mobilio futurista, apparso ne «L'Italia Futuri­
sta» del dicembre del ' 1 6, illustrando una serie di mobili da lui stesso di­
segnata e costruita, ispirata alle idee di Sant'Elia, scrive sul «bisogno di ul­
tramodernismo originale, di igiene, di eleganza, di emozione sintetica», ca­
ratteristiche, queste, che solo la macchina consente di realizzare, in quan­
to «la lavorazione a mano implicava necessariamente delle scabrosità del­
le rugosità dei ghirigori d'intaglio [ ... ] L'arredamento di una casa, di un re­
staurant, di un Hotel, deve avere un carattere, voglio dire che ogni stanza
deve avere una fisionomia che va d'accordo con quello che si deve com­
piere. [ . . . ] Mi pare che così l'arte trovi un degno compito da assolvere.
L'arte introdotta intimamente nella Vita, nelle nostre attitudini, nei nostri
bisogni. Mi pare degno compito quello di introdurre una raffinatezza ele­
vata; una eleganza nuova e tutta italiana; dell'igiene, del benessere, dell'al­
legrezza e dell'ottimismo nella vita»12•
La dichiarazioni in tal senso sono numerose, benché, come già detto,
poco tradotte in opere concrete se non dalla seconda generazione dei fu­
turisti che prelude all'arredamento razionalista. Comunque vale la pena di
ricordarne alcune. «Nel primo numero di ' Noi' , la rivista fondata da Pram­
polini e Sanminiatelli nel ' 17 , Nicola Galante imposta il problema delle ar­
ti applicate sulla base delle proposte centrali delle poetiche funzionaliste,
introducendo una nozione di oggetto - e implicitamente anche di proget­
to - comprensiva di tutto ciò che fa parte del nostro ambiente quotidiano,
'dal palazzo alla forchetta da tavola' e sostenendo l'indissolubilità del rap­
porto forma-funzione. [ . . . ] È evidente che anche Galante si rifà diretta­
mente alla poetica di Sant'Elia e in particolare al punto 4 del manifesto in
cui si afferma che 'la decorazione, come qualcosa di sovrapposto all'archi­
tettura, è un assurdo, e che soltanto dall'uso e dalla disposizione originale
del materiale greggio o nudo o violentemente colorato dipende il valore
decorativo dell'architettura futurista'»13.
Sempre nell'ambito della scuola romana, va ricordata la creazione nel
1 9 1 8 della «Casa d'Arte italiana», fondata da Enrico Prampolini e dal cri­
tico Mario Recchi. Il centro nasceva con l'intento di estendere l'interesse
degli artisti oltre i confini della pittura e della scultura e di creare un pun­
to di incontro con le correnti artistiche di avanguardia operanti in Italia e
all'estero. Le prime manifestazioni si limitarono a una serie di esposizioni
di arte pura e applicata, concerti, rappresentazioni d'eccezione, riunioni,
conferenze, letture, ma solo nel febbraio del ' 1 9 lo stesso Prampolini die­
de inizio all'attività nel settore delle arti decorative con una mostra di mo-
28 Made in Italy

bili, stoffe dipinte, cuscini, tende, arazzi, tappeti, cuoi, ceramiche, lampa­
de, ecc. nonché di bozzetti e progetti diversi. L'anno dopo la Casa d'Arte
italiana organizzò una grande mostra d'arte teatrale e, come prima mani­
festazione della stagione 1 920-2 1 dedicata all'arte d'avanguardia, allestì
una vasta esposizione degli espressionisti della Novembergruppe di Berlino
(40 opere di 30 artisti) con la presentazione di Prampolini. La mostra fu
introdotta da una conferenza di Marinetti e accompagnata da una dizione
di Folgore e da una audizione pianistica di musiche moderne.
Oltre a quella voluta da Prampolini, nasceva a Roma la citata Casa d' Ar­
te Bragaglia, che diede un notevole contributo al cinema. Sulla scorta di
quelle romane, Case d'Arte sorsero dovunque: a Rovereto, dove abbiamo
ricordato il laboratorio di Depero, a Milano, Bologna, Napoli e Palermo.
Per che cosa allora il Futurismo resta ai margini del design? Perché, no­
nostante tutto, non esce dal novero delle arti applicate?
Intanto va precisato che quest'ultima espressione non va solo intesa
nell'accezione corrente, ossia di quelle forme e manifestazioni che sono di­
verse dalla pittura, dalla scultura e da quant'altre esperienze artistiche co­
siddette «pure», ma anche in un altro modo. A mio avviso, si dicono ap­
plicate quelle arti alle quali «si applicano» numerose altre componenti (so­
ciali, tecniche, economiche, di costume, ecc.) e ciò senza ridurne il valore;
in tal senso l'architettura e il design sono arti applicate. Ma ritornando al­
la dizione più in uso, chiediamoci perché, dopo il Liberty, il Futurismo non
diede luogo al design, benché costituisse in Italia un radicale rinnovamen­
to del gusto, richiamando l'attenzione degli artisti e del pubblico appunto
sulle arti applicate.
Com'è stato osservato, «nonostante la franca apertura europea propu­
gnata e attuata dal programma della 'Casa d'Arte italiana', la produzione
nel settore delle arti applicate sia di Prampolini che degli altri futuristi ri­
mane confinata nell'ambito di un'attività artigianale che si rivolge alla mac­
china come a una fonte mitica di ispirazione, ma senza porsi concreta­
mente il problema di una produzione in serie, così come avveniva, invece,
in paesi industrialmente più evoluti: basta pensare al dibattito che si era
svolto in seno al Werkbund tedesco, soprattutto per merito di Muthesius,
e alla chiarezza metodologica con cui vi si affrontava il problema della pro­
duzione a livello industriale, per rendersi conto del carattere nettamente
preindustriale della impostazione futurista delle arti applicate, nonostante
l'accesa predicazione macchinistica»14. Evidentemente questa non basta­
va; perché le arti applicate diventassero design sarebbero stati necessari,
per esempio, sin dal 1 907 , oltre il talento di Peter Behrens, anche l' orga­
nizzazione di un'azienda come l' AEG all'avanguardia, non tanto degli
«ismi», quanto di una consolidata organizzazione industriale.
Al riguardo bisogna ricordare che al tempo dell'unificazione d'Italia
1 6 . G. Balla, paravento, 1 9 1 8 .
1 7 - 1 9. G. Balla, studio per maglione, 1 925 ; studio per vestito futurista, 1 9 1 4 ; giacca fu­
turista, 1 92 5 .
30 Made in Italy

l'economia del paese era essenzialmente agricola, e tale era ancora nel
1 9 1 0. Ma il processo di industrializzazione nel Nord, che era cominciato
con l'introduzione delle macchine a vapore nelle fabbriche tessili negli an­
ni dopo il 1 860, fu accelerato energicamente nel periodo del Futurismo. La
produzione dell'industria tessile triplicò fra il 1 900 e il 1 9 1 2 , quella del fer­
ro e dell'acciaio si elevò da 3 00.000 tonnellate a quasi un milione di ton­
nellate nello stesso periodo, e altre industrie ebbero aumenti dello stesso
ordine. Contemporaneamente una produzione automobilistica caratteriz­
zata da un elevato livello di gusto conferì all'industria un prestigio quale
non sarebbe stato in grado di ottenere il puro aumento in quantità di pro­
dotti di altro genere15.
E ritorniamo alla domanda posta all'inizio: se condividiamo l'assunto
per cui un movimento d'avanguardia rigorosamente inteso, cioè come con­
testazione globale, in architettura resta nelle teorie e nei progetti ma non si
traduce in concrete fabbriche; possiamo dire che nel campo del design av­
viene lo stesso. Con tutta la considerazione dell'innovazione prodotta dal
Futurismo, è inimmaginabile che il patron dell'azienda tedesca sopra cita­
ta, la famiglia Rathenau, avrebbe assegnato il design dei suoi prodotti a un
futurista. A conferma si ricorda che il famoso arredamento Lowenstein di
Balla trovò persino un produttore che, trascinato dall'entusiasmo del suo
autore, lo replicò anche in Italia, ma la camera non fu mai venduta e la pro­
duzione fu costretta a fermarsi 16.
Tuttavia, pur concedendo alle circostanze storico-economiche il massi­
mo peso nell'influenzare le vicende dell'arte, è mia personale convinzione
che, come già detto, il fattore gusto sia il principale artefice, non solo del­
la produzione, ma soprattutto del consumo e quindi del successo dei pro­
dotti.
La macchinolatria e il «progresso» futuristi incontrarono il gusto del
pubblico, donde il successo delle prime automobili, malgrado i nostri li­
miti tecnologici e industriali, ma non riuscirono a conquistare il gusto del
pubblico per il design del prodotto quotidiano, segnatamente nel campo
dell' arredo domestico. Dal Futurismo in poi il gusto del pubblico è rima­
sto favorevole allo stile di tutto quanto di meccanico e tecnologico offre il
mercato, dall'automobile all'elettrodomestico, mentre ha continuato per
molti anni a essere contrario allo stile legato alla tecno-scienza per quanto
riguarda gli oggetti della casa, luogo della sacralità dei lari. Diversa ovvia­
mente l'opinione di Balla che nel 1 9 1 8 scriveva: «un elettrico ferro da sti­
ro bianco metallico, liscio trilucente, pulitissimo, delizia gli occhi meglio
della statuetta nudino poggiata su un piedistallo sconocciato tinto per l' oc­
casione. La macchinetta per scrivere è più architettonica dei progetti edi­
lizi premiati nelle accademie o concorsi»17•
Abbiamo accennato a un secondo Futurismo affermatosi dopo la prima
II. La reazione futurista 31

guerra mondiale e ·agente da fattore di continuità tra le esperienze d'avan­


guardia del periodo prebellico e l'avvento del movimento razionalista sul
finire degli anni Venti. Sono ancora presenti, nel settore di cui ci occupia­
mo, Balla, Depero e Prampolini, ai quali si affiancano i più giovani Ivo
Pannaggi e Vinicio Paladini, autori del Manifesto Futurista dell'Arte mec­
canica ( 1 92 2 ) ; Fillia e Bracci fondano il Movimento futurista torinese, al
quale aderiscono, tra il '27 e il '29, i pittori Rosso, Diulgheroff, Oriani, Ali­
mandi e Costa, molti dei quali si interessarono della progettazione di in­
terni futuristi. Già da qualche anno Torino, la città considerata più euro­
pea d'Italia, è diventata un attivo centro del rinnovamento architettonico
e del protodesign. Nel 1 928 Marinetti, Fillia, Prampolini, Diulgheroff e
Sartoris organizzano la prima Esposizione di Architettura futurista; di es­
sa Fillia scrive: «contrariamente al semplice razionalismo (espressione pu­
ramente tecnica non essendo concepibile un'architettura che non sia ra­
zionale) i futuristi sommano l'utilità pratica al lirismo individuale raggiun­
gendo così il nuovo stile che caratterizza il secolo ventesimo»18.
Nonostante questa distinzione, è indubbio che il Futurismo ebbe un
ruolo notevole nella formazione del Razionalismo italiano che, per oppo­
sizione o aderenza, si avvalse anche di altri orientamenti quali l'Art Déco,
il Novecento e il Neoclassicismo lombardo.

Note
1 M . Calvesi, Profilo de/futurismo, in Le due avanguardie, Laterza, Roma-Bari 198 1 , p. 47.
2 R. Poggioli, Teoria dell'arte d 'avanguardia, Il Mulino, Bologna 1 962, p. 84.
> Cfr. R. De Fusco, Un 'avanguardia verosimile, in <<Controspazio>>, fascicolo dedicato a Futuri­
smo e architettura, n. 4-5, aprile-maggio 197 1 .
4 I . d e Guttry, M.P. Maino, M . Quesada, Le arti minori d'autore in Italia da/ 1 900 a/ 1 930, La-
terza, Roma-Bari 1985, p. 56.
5 E. Crispolti, Il mito della macchina e altri temi de/futurismo, Celebes, Roma 1969, pp. 140- 1 4 1 .
6 Cfr. <<Controspazio>>, fascicolo dedicato a Futurismo e architettura, n. 4 - 5 , aprile-maggio 197 1 .
7 V. T rione, Il protodesign futurista, i n <<Op. ci t.>>, n . 109, settembre 2000.
s Cit. in M. De Giorgi, La ricostruzione futurista dell'universo, in V. Gregotti, Il disegno del pro­
dotto industriale, Italia 1 860- 1 980, Electa, Milano 1982, p. 1 3 3 .
9 Cit. ivi, p. 1 3 4 .
1o
F. Me110a, Ilfuturismo e le arti applicate, in La regola e il caso, Ennesse editrice, Roma 1970, p.
7 1.
11
M. De Giorgi, Neofuturismo, in Gregotti, Il disegno ci t., p. 1 84.
12 Cit. in Menna, Il futurismo e le arti applicate ci t., p. 7 3 .
1 3 lvi, p p . 74-75.
1 4 lvi, p. 78.
" Cfr. R. Banham, A rchitettura della prima età della macchina, Edizioni Calderini, Bologna 1 970,
p. 1 13n.
16 Cfr. Calvesi, Le due avanguardie cit., p. 103 . . . .
.
1 1 V. Gregotti, L. Berni, P. Farina, A. Grimoldi, F. Raggi, Per una storta del deSign tta!tano, 1860-

1 9 1 4. Le riviste, le scuole e il dibattito delle idee, in <<Ottagono>>, n. 34, settembre 197 4 .


IS
Cit. in De Giorgi, Neofuturismo cit., p. 1 84.
Capitolo terzo L'Art Déco e il Novecento

Il movimento futurista, prettamente italiano, fu preceduto e seguito da


due correnti straniere, il Liberty e l'Art Déco. Quest'ultima, poi italianiz­
zata come «stile Novecento», ebbe un iter complesso, tortuoso e misto ad
altri orientamenti. Lo stile Art Déco, oltre che significativo in sé, merita
un'attenta esposizione perché, pur con aspetti eclettici, segna una conti­
nuità nella storia del gusto e del costume che va dagli inizi del Novecento
fino al Razionalismo.
Entrata in crisi la linea organica dell'Art Nouveau franco-belga, si af­
fermò quella geometrica iniziata da Mackintosh e ripresa puntualmente da
Hoffmann in Austria, unitamente ad altri eventi quali le nude fabbriche
dello stesso Hoffmann, quelle di Perret e di Garnier, la fondazione del
Werkbund, la nascita del vero e proprio design ( anche se non ancora iden­
tificato con tale termine) con Behrens ( 1907 ) , la polemica iconoclasta di
Loos. Tutti questi fattori diedero luogo a quel complesso movimento, non
ancora studiato a sufficienza e, a mio avviso, mai estinto, che fu il Protora­
zionalismo. Questo tuttavia, negli anni Dieci e Venti, si caratterizzò nei
campi più impegnativi dell'architettura, del design e perfino, con Garnier,
dell'urbanistica; ebbe una impronta purista, classicista, etico-sociale, tec­
nologica, lasciando tuttavia inevase alcune questioni che venivano, per co­
sì dire, dal basso: il modo di utilizzare l'ancora fiorente artigianato, la na­
scita generalizzata del design, il gusto per le cose frivole e mondane e al­
cuni problemi che riguardavano lo stesso campo dell'arredo e delle arti ap­
plicate.
Infatti l'Art Déco, che si fondava proprio su queste istanze, può inten­
dersi o come la «sezione» arredamento, comunque «decorativa» del Pro­
torazionalismo, giusta l'interpretazione datane da Hoffmann ideatore e
animatore della Wiener Werkstatte, oppure come una poetica autonoma
comprendente le quattro arti visive. Proprio per questo dualismo la natu­
ra dell'Art Déco è un fedele rispecchiamento del primo ventennio del No­
vecento. Questa corrente del gusto accolse di tutto, dagli echi della tradi-
20-2 1 . G. Muzio, casa di via Moscova a Milano, 1 92 3 : disegno e particolare della facciata.
34 Made in Italy

zione ritenuti ancora validi ad aspetti futuribili, dall'artigianato all'indu­


stria, dal Cubismo al Futurismo, dall'Espressionismo all'Astrattismo geo­
metrico, dai balletti russi e negri alla musica jazz; fu lo stile delle sale cine­
matografiche e delle scenografie dei film, dei grandi locali pubblici, degli
atelier di moda della decorazione luminosa, della réclame, della scena ur­
bana soprattutt� �otturna; principalmente fu il primo stile che, decorando
i grattacieli di New York, i transatlantici, i grandi alberghi europei, creò un
linguaggio comune al vecchio e al nuovo continente. Cosicché l'Art Déco,
più ancora del Liberty, diede inizio all'internazionalismo dell'arte, dell'ar­
chitettura e del design moderni.
Come è noto, il maggiore contributo dato dalla Francia alla storia del
design fu proprio l'Art Déco, unitamente all'apporto teorico del maggiore
architetto ivi operante, Le Corbusier. Questa tendenza prese notorietà
dall'Exposition Internationale des Arts Décoratifs tenutasi a Parigi nel
1 925. La grande mostra delle arti applicate fu ideata nel 1 907 (anno della
fondazione del Werkbund), progettata nel 1 9 1 3 , rinviata per lo scoppio
della prima guerra mondiale al 1 922 (quando la Wiener Werkstatte faceva
scuola da quasi un ventennio) , e finalmente realizzata solo nel 1 925 (quan­
do Gropius inaugurava la sede del Bauhaus a Dessau) . Rapportata a que­
sti basilari episodi del design europeo, l'Art Déco appare un fenomeno
anacronistico se lo si data al 1925, la data dell'Expo, che non va conside­
rata come l'inizio della tendenza, ma piuttosto come il suo tramonto. In­
fatti le persone, le idee, i prodotti, le manifestazioni che nel loro insieme
costituirono il movimento chiamato Art Déco si trovano già attive nel pri­
mo decennio del secolo e il movimento stesso, come già detto, fu una sin­
tesi di tutti gli eventi francesi di tale decennio.
Quanto alla vera e propria morfologia dello stile Art Déco - in Italia, co­
me vedremo, attutita da altre influenze concomitanti -, esso presenta una
iconografia assai ricca e molti suoi stilemi appaiono quasi invariati al mu­
tare delle applicazioni e degli oggetti, vale a dire che uno stesso motivo si
trova come parte di un mobile, di un giardino, di una decorazione parieta­
le, di un cancello, ecc. La gran parte dei motivi Art Déco nasce dalla geo­
metria, in reazione, come s'è detto, all'organicismo dell'Art Nouveau: così
la linea fluente diventa la linea spezzata composta di tratti curvilinei e ret­
tilinei ora ortogonali ora obliqui; a partire da essa tutte le altre forme si ir­
rigidiscono: prevalgono il quadrato, una sorta di «testimone» della staffet­
ta che Mackintosh passa ad Hoffmann; il cerchio; i cerchi concentrici; i cer­
chi intrecciati; le traslazioni di cerchi; la spirale; il motivo a zig-zag; il trian­
golo; il tema della radialità, ecc. L'estrema stilizzazione geometrica s'incar­
na in una singolare fusione di un cubismo banalizzato e di un fauvismo
meccanizzato: linee e volumi spezzati si colorano di rosso, viola, giallo, tur­
chino, arancione, ecc. , senza alcuna mediazione dei tradizionali colori pa-
22. G. e A. Balsamo Stella, Padiglione all'Esposizione internazionale delle arti decorative di Parigi, 1 925 .
2 3 . Golf vaso Salier, Murano, 1 928.
24-26. Vasi d i vetro «chimico>> che imitano le forme usate nei laboratori, disegnati per la Ferro Toso
& C. di Murano, 1 93 0 .
36 Made in Italy

stello. Ma, associando il minimo col massimo, i motivi più emblematici del­
lo stile che studiamo sono rispettivamente quello della fontana e della strut­
tura gradonata. Quest'ultimo più degli altri risulta presente nelle più varie
applicazioni, dalle figure piane a quelle che conformano gli spazi, dagli in­
tradossi delle copt;:rture di piccoli e grandi ambienti agli estradossi di pic­
coli e grandi volumi: l'arretramento progressivo dei piani degli edifici pro­
duce appunto questa struttura scalare che, tipica dei grattacieli degli anni
venti, contribuisce fortemente a conformare lo skyline di New York. Il mo­
tivo della fontana risulta emblematico di molte altre caratteristiche dello
stile in esame. Infatti, l'Art Déco - che accanto a qualche architetto di ta­
lento fu sostenuta piuttosto da scenografi, allestitori, artigiani preziosi e
sarti alla moda e, come tale, fu espressione di un gusto prettamente bor­
ghese - trova nella fontana luminosa il suo più coerente simbolo. Da un la­
to, essa esprime un vitalismo gioioso e spettacolare finalmente conciliato
con lo spirito della macchina; dall'altro quest'ultima non è riconosciuta
idonea a produrre da «sola» oggetti utili e formalmente conseguenti: si av­
verte ancora, nonostante l'estrema stilizzazione geometrica, l'esigenza di ri­
correre ad un referente naturalistico. Cosicché il motivo della fontana non
è più solo un fatto di natura e non è ancora un oggetto di design.
La riduzione dell'organicismo decorativo liberty a un geometrismo de­
corativo Art Déco si esprime particolarmente nei mobili. Essi non danno
luogo a una nuova tipologia, ma si caratterizzano soprattutto per alcuni
motivi morfologici; l'incontro fra i piani non è più né fluente né ortogona­
le, ma avviene tramite geometriche curve; gli spigoli scompaiono per dar
luogo a bombate continuità angolari; la linea spezzata si alterna a tratti ret­
tilinei e curvilinei, donde una geometria in pari tempo rigida e decorativa.
I mobili contenitori, gli armadi, le credenze, i cassettoni tendono spesso -
continuando in ciò un orientamento già emerso nel tardo Liberty e desti­
nato ad accentuarsi nell'arredo razionalista - a fondersi con gli altri ele­
menti d'arredo, talvolta con gli stessi spartiti murali. In molti casi armadi
e librerie occupano intere pareti o si combinano con tavoli e divani for­
mando un'unica composizione di arredi fissi.
I mobili singoli più diffusi sono di modesta dimensione: piccoli casset­
toni, scrittoi a ribalta sostenuti da alte gambe, credenze con la parte infe­
riore ad ante di legno e quella superiore a vetrina, altri mobili da soggior­
no che alternano in una composizione a scacchiera sportelli pieni e spazi
vuoti, mobiletti la cui forma esterna non denota una sola destinazione
d'uso, mentre altri ancora - si pensi al mobile-bar, una delle poche inven­
zioni tipologiche dell'Art Déco, destinato a fondersi con il mobile-radio ­
sembrano accentuare al massimo queste «moderne» e mondane funzioni.
La decorazione dei mobili contenitori, strutturalmente assai semplici, è
per contrasto assai ricca: sui pannelli pieni si alternano gli stilemi più tipi-
27-32 (a sinistra e al centro). Cuscini, borsette e paralumi disegnati e ricamati su tela
da Emilia Zampetti-Nava, 1 9 15 -20.
3 3 (a destra, in alto). Copriteiera di velluto ricamato in lana; disegno di G. Prini, esecuzione
di M. Pandolfi, 1 920.
3 4 (a destra, al centro). G. Chini, lampada da tavolo, 1 926.
35 (a destra, in basso). G . Balsamo Stella, applique, 1 928.
38 Made in Italy

ci dell'Art Déco. A tale iconografia, intarsiata o a rilievo, si aggiunge lo sfar­


zo dei materiali: legni esotici e pregiati, laccature, accostamenti di varie im­
piallacciature. I mobili di Ruhlmann, ad esempio, oltre a questi legni, pre­
sentano parti in cuoio, avorio, tartaruga, finissimi intarsi polimaterici,
tant'è che si accosta il suo nome a quello del celebre Boulle. Il genere di de­
corazione segue il gusto delle tradizioni nazionali: la produzione della Wie­
ner Werkstatte, specie nei pezzi ispirati direttamente da Hoffmann, pre­
senta l'uso ricorrente delle griglie quadrate e della iterazione di quadrati e
quadratini, mentre la patria del florealismo stilizzato geometricamente è la
Francia, di cui sono maestri Ruhlmann, Sue e Mare, tra i più noti.
Quanto precede è sufficiente a dare un'idea delle caratteristiche espo­
nenti dell'Art Déco, anche trascurando gli altri tipi di mobili e l' oggettisti­
ca, che costituisce la parte più pertinente a questo libro sul design italiano.
Nel nostro paese, più che altrove, la produzione degli anni Venti risul­
ta molto composita. Infatti alla I Biennale delle Arti Decorative di Monza
( 1 923 ) , voluta dal Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, prevale ancora,
come già ricordato, la sala con le opere futuriste di Fortunato Depero. Ac­
canto a questa tardiva manifestazione del Futurismo, a Monza (come nel­
la realtà del mercato d'arte) persiste il Liberty, quasi a voler compensare il
ritardo delle origini. Fra gli oggetti esposti figurano i ferri battuti di Ales­
sandro Mazzacotelli, le ceramiche di Galileo Ghini, i mobili e gli arazzi ri­
camati di Vittorio Zecchin, ecc. I prodotti Art Déco, inibiti dal timore di
essere lussuosi, furono intesi come una sintesi tra il Liberty, lo stile Nove­
cento, di cui diremo più avanti, i primi tentativi di neoclassicismo milane­
se e gli esempi di produzioni artigianali, peraltro incentivati dalla suddivi­
sione della mostra per regioni. Quale annotazione stilistica va detto che
l'esordio di Gio Ponti si caratterizza per un misto fra Art Déco e Nove­
cento: egli, attraverso la rivista «Domus», traduce «ad uso della borghesia
italiana il gusto di Hoffmann e del Wiener Werkstatte [. .. ] e in seconda
istanza un certo arredamento di lusso francese di cui il famoso Ruhlmann
è il rappresentante più originale. Esso appare in quegli anni il più consono
alle nuove dimensioni degli interni d'appartamento e ai suoi ideali di rap­
presentanza e ha una enorme diffusione come modello di gusto, specie nel­
la zona artigiana della Brianza [ . . ] . Spentosi il gusto 'art nouveau', che an­
.

che prima della guerra aveva prodotto in Italia pochi esemplari qualifica­
ti, le prime Biennali di Monza si presentano con un programma di poten­
ziamento del gusto dei vari artigianati regionali opportunamente semplifi­
cati. Il gruppo dei 'neoclassici milanesi', pur non disegnando quasi mai di­
rettamente per l'oggetto di artigianato isolato, costituisce con il suo esem­
pio un forte polo di attrazione per il gusto degli anni che vanno dal ' 1 9 al
'3 0. Contemporaneamente si sviluppa, come abbiamo visto, la vena diret­
tamente influenzata dal gusto viennese»1 •
3 6 . A. Barbini, vaso da tavolo in vetro !attimo
lilla, 1 930.
37. Statuina Torso prodotta dalla ditta Lenci.
38. Manichini in alluminio e celluloide
per la società Viscosa, 1 928.
40 Made in Italy

Oltre gli orientamenti formali, l'intento degli organizzatori, volto sì al­


la valorizzazione di un'arte utile, non trovava tuttavia una risposta alla do­
manda - che si ripeterà per oltre un trentennio - del superamento dell'ar­
tigianato a vantaggio dell'industria. Anzi, parlando dell'Expo '25, Guid�
Marangoni, dirett0fe generale delle Biennali italiane, diceva: «la mostra dt
Parigi avendo carattere più apertamente industriale, permette a quella di
Monza di restare fedele al suo programma schiettamente artistico e di svi­
lupparlo verso sempre più alte finalità. [ ... ] È riservato a Monza uno dei
compiti più pittoreschi e meglio graditi al pubblico: quello dell'arte pae­
sana e folcloristica. Esclusa recisamente dal programma di Parigi, noi ci
proponiamo di darle un posto d'onore alla II Biennale, come a quella don­
de debbano scaturire - non per imitazione servile, ma per suggestiva ispi­
razione - le forme novelle»2• Queste nostalgie estetizzanti si esprimevano
mentre le automobili Lancia e Isotta Fraschini, nonché i primi circuiti di
Monza, incominciavano a svegliare nel paese le aspirazioni alla modernità.
Tuttavia proprio alla II Esposizione di Monza del 1 925, le sezioni del
Belgio e della Germania con l'arte astratta, i mobili razionali di Victor
Bourgeois, le forme severe del Werkbund produssero una ventata di mo­
dernità così forte da influenzare la successiva Biennale, la terza monzese,
che si tenne nel 1 927. In questa edizione si rafforza la figura del progetti­
sta sia all'interno delle fabbriche, sia nel ruolo svolto nell'ambito dell'espo­
sizione, il cui programma prevede, oltre la cura del singolo manufatto, an­
che il modo di esporlo e di ordinario in apposite sezioni. In particolare, as­
sume importanza l'estetica del negozio, donde l'allestimento di una serie
di botteghe d'arte ad opera di un gruppo di pittori-architetti torinesi: il ne­
gozio di fiori dell'Ars Lenci progettato da Vacchetti, il centralino telefoni­
co della Stipel disegnato da Deabate, il bar ideato da Sobrero, la confette­
ria «Unica» curata da Menzio, la macelleria su disegno di Casorati, la far­
macia dovuta a Chessa. Questa sezione torinese non è esemplare per coe­
renza stilistica: si va dal neogotico per il negozio di Vacchetti al quasi-ra­
zionale per quello di Deabate, all'Art Déco per il bar e per l' «Unica», al
Novecento per l'allestimento di Casorati fino al protorazionale della far­
macia di Gigi Chessa. Ma forse la maggiore novità all'Esposizione di Mon­
za del '27 è costituita dall'intervento di Gio Ponti ed Emilio Lancia. Essi
progettarono per conto della Rinascente una serie di mobili economici for­
manti un ambiente completo, prodotti da un'impresa di arredamento, la
Domus Nova, fondata dallo stesso Ponti in associazione con altri architet­
ti lombardi, solitamente classificabili nello stile Novecento; dagli accenti
lussuosi di quest'ultimo Ponti deroga in occasione della esposizione a van­
taggio di un arredo di massima economia, semplicità e funzionalità. Lo
stesso giudizio è espresso da altri autori: i due architetti «stilisticamente
non ricorrono a quelle forme neoclassiche da loro predilette, ma si rifanno
3 9. G. Muzio, Palazzo dell'arte, Milano, 1 93 3 .
40. G . D e Chirico, Mistero e malinconia di una strada, 1 9 1 4 . Collezione privata. © by Siae, 2007.
4 1 . G . De Chirico, Malinconia d'un pomeriggio autunnale, 1 9 1 5 . © by Siae, 2007.
42 Made in Italy

a linee di grande sobrietà e di attenta praticità, intonando ai mobili le stof­


fe, i quadri, i tappeti, le carte da parati, la decorazione delle pareti, in uno
sforzo di semplificazione di valore anche culturale, se si pensa che a que­
sta data erano ancora diffuse gerarchiche soluzioni di gusto eclettico»3.
Accanto alla Domws Nova va ricordato un altro marchio produttore di og­
getti d'arredo, Il Labirinto, che a Monza espone non una serie di ambien­
ti modello, ma singoli mobili e oggetti d'arredo a firma di Tommaso Buz­
zi Pietro Chiesa Emilio Lancia, Michele Marelli, Paolo Venini, Carla Vi­
s ;onti, nonché dello stesso Gio Ponti. Il gusto ispiratore di questa colle­
zione oscilla tra una versione nostrana dell'Art Déco e lo stile Novecento.
Con quest'ultima espressione s'intende un insieme di manifestazioni
che vanno dalla letteratura all'arte, dal costume alla politica, dall'architet­
tura all'arredamento. Nel 1 926 Bontempelli fonda la rivista «Novecento»,
dando il via alla componente letteraria del movimento. In pittura questo è
costituito dal «Gruppo dei sette» (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Ma­
russig, Oppi e Sironi) formatosi a Milano per iniziativa del critico Mar­
gherita Sarfatti. Tutti insieme rappresentavano un genere di avanguardia
moderata; una sorta di rappel à l'ordre, di cui vanno sottolineati da un lato
l'aspetto casereccio e provinciale rispetto a quello francese, purista, intel­
lettuale e astratto, dall'altro la tendenza alla ripresa di valori classicistici.
Nel Novecento si collocano gli architetti neoclassici milanesi. Il neoclassi­
cismo lombardo e veneto accomunava architetti anche assai differenti tra
di loro: Giovanni Muzio, Gio Ponti, Emilio Lancia, Tommaso Buzzi e al­
tri. Le loro opere furono un misto del Protorazionalismo, che intanto an­
dava diffondendosi in Europa, e dell'Art Déco che si caratterizzava per le
sue valenze decorative. La conferma di questa commistione viene dalla Ve­
ronesi: «fu Milano, la città del più autentico neoclassicismo ottocentesco,
a escogitare un ricorso 'moderato' a quello stile, sul quale qualche grazia
viennese, derivata dal moderno 'moderato' di Josef Hoffmann, portava il
sigillo del tempo attuale»4• Comunque la più nota e popolare manifesta­
zione dello stile Novecento si ebbe nel campo dell'arredamento e del pro­
todesign.
L'opera dei citati architetti classificabile in questo stile si rivolse preva­
lentemente al campo della produzione di lusso, sull'esempio francese e au­
striaco della Wiener Werkstatte. Come questa ditta, che Persico ebbe a
stigmatizzare per il ristretto numero di clienti e l'alto prezzo degli articoli
di manifattura artigianale, anche i mobili e gli arredi di stile Novecento fu­
rono elitari e costosi; tuttavia si ebbe anche una produzione meno sfog­
giata e rivolta a un pubblico piccolo-borghese, tanto da figurare nei cata­
loghi dei mobilieri accanto ai modelli di ogni stile del passato. Accolto dai
suoi difensori politici, come Margherita Sarfatti, e ritenuto «italiano e na­
zionale», lo stile Novecento ebbe anche largo favore nell'ambiente fascista.
la. Casa. bella

ARTI E I N DUSTRIE D E
L'A R R EDAMENTO

,.,.....f'.

42. M. Sironi, Paesaggio urbano, 1 92 1 -2 3 . © by Siae, 2007.


43 -44. Copertine dei primi numeri di «Domus» e «La Casa bella>>, 1 928.
44 Made in Italy

Tuttavia, ritenuto avverso al Futurismo, esso si rifaceva allo stile pesante e


squadrato dei mobili illustrati da riviste quali «Moderne Bauformen» e
«Deutsche Kunst und Dekoration».
Figura di maggior spicco fu ancora Gio Ponti, protagonista, si può di­
re, della gran parte· del design italiano. Nel 1 928 fondò la rivista «Domus»,
dal 1930 al '3 3 fu direttore della Triennale e principale artefice della riva­
lutazione delle arti applicate, nonché della loro trasformazione in indu­
striai design. Accanto all'azione pubblicistica e istituzionale, Ponti poneva
il suo esempio in campo progettuale disegnando sin dal 1 923 i prodotti per
le Ceramiche Richard Ginori di Doccia in Toscana, nonché una vasta serie
di mobili e oggetti. Secondo qualche autore, come Arrigo Bonfiglioli, Pon­
ti costituì il primo esempio in Italia di quella «collaborazione fra arte e in­
dustria» sperimentata in altri paesi sin dagli anni precedenti la guerra. Au­
spicato da tutti gli addetti ai lavori e dalle riviste specializzate, nonché so­
stenuto concretamente da un ente come l'Enapi (Ente nazionale per l'arti­
gianato e la piccola industria) , l'incontro tra produttori e artisti si sviluppò
notevolmente in quegli anni. Tuttavia il risultato fu quasi sempre quello di
una produzione artigianale di lusso rispondente alle possibilità economi­
che di una ristretta fascia di utenti. L'ideale di un'arte per tutti non trova­
va ancora la produzione industriale in grado di realizzarlo.
Infine, per un cenno conclusivo sull'Esposizione monzese del '27 , va se­
gnalata la presenza del «Gruppo 7» (formato dagli architetti Castagnoli,
Figini, Frette, Larco, Pollini, Rava, Terragni) del quale la Veronesi scrive:
«era l'anno del Weissenhof di Stoccarda, un grosso quartiere sperimenta­
le costruito dai maggiori architetti della corrente razionalista europea di­
retti da Mies van der Rohe; ed era l'anno in cui si fondava in Italia il 'Grup­
po Sette', ad opera di sette giovani ' razionalisti' , i quali esposero a Monza
una serie di progetti di un estremo rigore, affermanti la loro adesione ai
movimenti che in Europa opponevano le ragioni della funzionalità (e
dell'espressione, sul piano formale) a quelle della decorazione. Ma, isolati
dalla loro stessa posizione d'avanguardia in un paese rimasto alla retro­
guardia, i giovani 'razionalisti' non potevano ancora conferire un carattere
nuovo alla Biennale, né tantomeno smentirla vittoriosamente nel campo
della decorazione, ch'era il suo. L'accento alla manifestazione era dato in­
vece, dalla nuova corrente che nel campo architettonico e decorativo s i era
allineata con i pittori e con gli scrittori del 'Novecento Italiano' , ricercan­
do la modernità in una specie di adattamento al costume e al gusto attua­
li, dalle forme lasciate in eredità dall'antichità classica al repertorio nazio­
nale»5.
Dello stile Novecento Gregotti scrive: «per la borghesia resa più sicura
dal fascismo si allestisce un nuovo stile: il '900. Accanto alla camera da let­
to in Luigi XV, accanto allo studio in stile rinascimento, al salone in stile
III. L'Art Déco e il Novecento 45

impero, ecco, magàri dopo aver gettato gli ormai sorpassati mobili liberty,
il salotto in stile '900. [ . ] La penetrazione del '900 sarà lenta, ci vorranno
. .

mostre, fiere, ci vorranno gli articoli sul Corrierone del Ponti e dell'Ojetti,
poi saldamente si installerà, e tuttora in molte riviste e case d'alto bordo
continua floridamente a vivere [ . ] Fra il prodotto dell'artista e quello
. .

dell'industria passa una profonda insanabile differenza: l'uno ha un suo lo­


gico mercato fra le classi più umili e l'altro fra la ricca borghesia. È il prean­
nuncio delle posizioni di pochi anni dopo, in cui si stabiliranno due archi­
tetture ben distinte per la diversa classe a cui si rivolgono, una 'in frac' e
una 'in mutande', dirà Piacentini»6.

Note

t V. Gregotti, L. Berni, P. Farina, A. Grimaldi, Per una storia del design italùmo, 1918-1940. No-
vecento, Razionalismo e la produzione industriale, in «Ottagono>>, n. 36, marzo 1975.
2 Cit. in G. Veronesi, Stile 1925, Vallecchi, Firenze 1966, p. 120.
3 M.C. Tonelli Michail, Il design in Italia 1925/43, Laterza, Roma-Bari 1 987 , p. 9.
4 Veronesi, Stile 1925 cit., p. 122.
5 lvi, p. 1 2 1 .
6 Gregotti, Berni, Farina, Grimaldi, Per una storia del design italiano, 1918-1940 cit.
Capitolo quarto L' Astrattismo- concretismo

Il Razionalismo architettonico e l'Astrattismo furono promossi in Italia


da un gruppo di pittori lombardi, Atanasio Soldati, Mauro Reggiani, Ma­
rio Radice, Manlio Rho, Bruno Munari, Luigi Veronesi, alcuni dei quali
operavano a Como a stretto contatto e in reciproca influenza con Terragni.
Perché attribuire all'Astrattismo in gran parte la paternità del design e
della stessa architettura del Razionalismo, vale a dire il codice-stile più im­
portante del Novecento? La risposta non riguarda solo l'opera del gruppo
comasco e nemmeno quella più vasta e prestigiosa del movimento euro­
peo, bensì una serie di motivazioni teoriche e storico-critiche.
Nel percorso che va dall'impressionismo all'intuizione kandinskiana
dell'arte astratta può vedersi una sorta di processo mirante a vanificare
l'antico e consolidato canone della mimesi, ad allontanare dall'opera di­
pinta o modellata il riferimento alla realtà empirica. Ma anche in questo al­
lontanamento è necessario distinguere quei maestri che hanno conservato
tracce della realtà - da Picasso a Klee, dai surrealisti ai dadaisti - e quegli
artisti che hanno ridimensionato la componente rappresentativa a vantag­
gio di quella conformativa, in ciò avvicinando pittura e scultura all'archi­
tettura e al design. Anche in questi ultimi, però, è riscontrabile un proces­
so graduale di astrazione. Ognuno di essi è partito interpretando oggetti
reali per poi deformarli al punto da renderli irriconoscibili. Lo stesso Mon­
drian tenne a «divulgare» una fase di tale processo: la partenza dalla rap­
presentazione di un albero per giungere alla serie di dipinti del periodo co­
siddetto dei «+ e -» ( 1 9 1 7 ) . In esso può vedersi il punto di massimo allon­
tanamento dalla realtà empirica, oltre il quale non si poteva andare a me­
no di non introdurre una teoria o una poetica che costituisse un fattore di
riferimento (che più avanti indicherò col termine «referente» ) , volto a so­
stituire, ai fini della comunicazione, la realtà empirica. Esemplare in tal
senso fu appunto la teoria del neoplasticismo o di De Stijl, basata su ele­
menti e regole combinatorie, norme e precetti costituenti un vero e pro­
prio codice.
IV. L'Astrattùmo-concretismo 47

All'origine di tale teoria stanno gli assunti della Sichtbarkeit, della «pu­
ra visibilità», formulati negli anni Settanta dell'Ottocento da Konrad Fied­
ler, il quale, tra l'altro, asserisce: «L' attività artistica comincia quando l'uo­
mo [ . . ] afferra con la forza del suo spirito la massa confusa delle cose visi­
.

bili per condurla ad un'esistenza formata [ .. ] L'arte pertanto non elabora


.

forme p reesistenti alla propria attività e indipendenti da essa: principio e


fine della sua attività è la creazione di forme che solo per lei raggiungono
l' esistenza»1 . Ed ancora: «Nell'opera d'arte, l'attività formativa trova la sua
conclusione esterna, il contenuto dell'opera d'arte non è altro che lo stes­
so formare»2. In un altro suo testo si legge: «Questa forma, che è anche
contenuto, non ha da esprimere che se stessa; il resto che essa esprime, nel­
la sua qualità di linguaggio illustrativo, giace al di là dei confini dell' arte»3.
Rileggendo la teoria di questo filosofo post-kantiano - concepita in un
tempo e in un ambiente pervasi da opere realistiche, classicistiche e nel mi­
gliore dei casi pre-espressionistiche - si resta sempre meravigliati non solo
della sua applicabilità all'arte di tutti i tempi, ma anche e soprattutto della
sua sorprendente anticipazione del formalismo astratto-concreto, molto
meglio di qualunque altra definizione tentata dopo che l'Astrattismo stes­
so era nato. In sostanza, la pura visibilità afferma, da un· lato, che il lin­
guaggio figurativo è autoespressivo al pari di quello verbale e, dall'altro,
che tale linguaggio altro non è che una forma senza contenuti letterari o il­
lustrativi, il che non significa l'abolizione di ogni sorta di referente, che,
come vedremo, si ripropone in altri modi.
Affrancate le arti visive dal mimetismo, si trattava di dare ad esse un le­
game con qualcosa che consentisse di trasmettere al pubblico il «messag­
gio» dell'artista. Kandinskij , com'è noto, propose una corrispondenza con
l'esperienza musicale: ciò che comunicavano suoni e ritmi trovava un pa­
rallelo in ciò che comunicavano linee e colori, ad ognuno dei quali veniva
assegnata una valenza percettiva. Altri artisti, quali Klee, quando s'impe­
gnò in opere astratte, Boccioni, Delaunay, Malevic, Kupka e numerosi al­
tri sostituirono il riferimento alla natura con elementi simbolici, il simbo­
lo essendo qualcosa che sta per un'altra. Prevalente è stato l'Astrattismo
espressionista, praticato da quei pittori e scultori che rappresentarono
ogni sorta di sentimento esaltato e deformato fino a rimodellare le forme
della geometria o la «macchia» coloristica, com'è il caso della tendenza
informale. In sintesi, l'Astrattismo è stato la più libera manifestazione di
una formatività priva di regole, tutto ammettendo: sagome su uno sfondo
( Magnelli) , sovrapposizione di figure, trasparenze (Bloc), incroci (Schof­
fer), «gesti» espressionistici, persino immagini tridimensionali (il Léger
non figurativo) , ecc. ; il tutto motivato da suggestioni psico-percettive, sur­
reali, decorative e simili, spesso traducendo in forme astratte quanto Cu-
48 Made in Italy

bismo, Fauvismo, Futurismo, Surrealismo e Dadaismo avevano sperimen­


tato su forme della realtà empirica.
Ben altro è stato, o avrebbe dovuto essere, il Concretismo. Assumiamo
in prima istanza la definizione riportata da De Micheli: «Alcuni protago­
nisti della vicenda-astrattista verso il 1 93 0 hanno pensato di sostituire il ter­
mine astrattismo col termine concretismo, essendosi accorti che parlare di
arte astratta era perlomeno improprio: infatti un'immagine enunciata sul­
la tela o realizzata in un materiale plastico, per quanto astratta, è già di per
sé concreta; in più l'astrattismo puro, non ispirandosi in alcun modo alla
realtà naturale e quindi non ricavando da essa alcun elemento, cioè non es­
sendo il risultato di un'astrazione ma la proposta di una nuova realtà, si po­
ne logicamente fuori da tale denominazione»4.
La definizione è, a mio awiso, necessaria ma non sufficiente perché al­
tre cose vanno dette sul Concretismo. Né condivido quanto Dorfles,
l'esponente del Mac (acronimo di Movimento arte concreta) più awertito
teoricamente, scriveva ancora nel '49: «Arte concreta - proprio in con­
trapposizione alla tanto diffusa voga dell'astrazione - appunto perché non
proviene da nessun tentativo di astrazione da oggetti sensibili, fisici e ma­
tematici, ma è basata soltanto sulla realizzazione e sull'aggettivazione del­
le intuizioni degli artisti, rese in concrete immagini di forma-colore, lonta­
ne da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a
cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è così ricco
il mondo dei colori»5.
Il mio dissenso da queste definizioni sta in ciò che non basta conside­
rare concreta qualunque forma, purché non mimetica, per il solo fatto che
è realizzata su una superficie o nello spazio, frutto dell'intuizione artistica
e mirante a cogliere solo ritmi, cadenze e accordi, che restano sempre e co­
munque entità astratte, il cui antinaturalismo peraltro è tutto da dimostra­
re. A mio giudizio, un'opera d'arte può dirsi concreta non perché owia­
mente produce qualcosa di tangibile, né perché nasce dall'intuizione di un
artista e neanche perché è antimimetica - molte parti, particolari e fram­
menti dell'arte del passato presentano tali caratteristiche e nessuno s'è mai
sognato di definirle «concrete» - ma perché possiede una progettualità in
grado di produrre qualcosa che superi i tradizionali generi della pittura e
della scultura. Rigorosamente intese le opere concrete sono o dovrebbero
essere quelle che, pur talvolta restando nei limiti della tela o del gruppo pla­
stico, hanno un potenziale grado di sviluppo (iterazione, dinamicità, effet­
ti ottico-cinetici, ecc.). Più chiaramente concrete sono quelle opere che di­
ventano paradigma per altri tipi di conformazione: l'architettura, il design,
la grafica e quant'altro si pone quale «arte utile».
Questa fondamentale distinzione fu raramente operata, tant'è che le
numerose esposizioni collettive e i vari raggruppamenti internazionali uni-
IV. L'Astrattismo-concretismo 49

rono spesso astrattisti e concretisti indiscriminatamente; si pensi al grup­


po denominato Abstraction-Création, Art non figuratif ( 1 929), che ben
p resto annoverò fino a quattrocento soci e nel '32 organizzò una mostra
con opere, tra gli altri, di Kandinskij, Mondrian, Pevsner, Gabo, Arp,
Schwitters, Nicholson, Moholy-Nagy, Kupka, Delaunay, Albers, Magnelli,
Hélion, Herbin, ecc. Relativamente più vicine alla distinzione furono le ri­
viste «Cercle et Carré» del '29, diretta dal critico belga Miche! Seuphor, e
«Art Concret», fondata a Parigi nel '3 0 da Van Doesburg dopo il discio­
gliersi nel '27 del gruppo De Stijl. In queste pubblicazioni e altrove si qua­
lificano quali rigorosi concretisti gli artisti neoplastici, i costruttivisti, alcu­
ni maestri del Bauhaus, segnatamente Moholy-Nagy, e in modo particola­
re El Lissitzky, che p roponeva, con il concetto di «Proun», la costruzione
di oggetti concreti intesi come sintesi e superamento della pittura, scultu­
ra e architettura.
Quanto alla vicenda italiana, è noto che - ove si eccettuino le anticipa­
zioni del Futurismo, segnatamente di Boccioni e Balla - al primo Astratti­
smo italiano degli anni Trenta fanno seguito numerose tendenze astratto­
concrete, sorte dopo l'ultima guerra e culminanti nel '48 con la fondazio­
ne del Mac. La distinzione fra i gruppi pre e post-bellici è significativa. Di
primo acchito si può pensare a una distinzione d'ordine temporale; vale a
dire che l'astrattismo-concretismo dei Radice, Reggiani, Rho, Soldati, Ve­
ronesi, ecc. fosse quasi in sincronia con l'opera dei precursori europei o,
quanto meno, non così distante da essi da porsi come un revival, mentre
quello che iniziò a manifestarsi nel dopoguerra sembrò avere proprio que­
sta impronta. In realtà non si trattò di una ripresa, sia per il fatto che mol­
ti artisti (Munari, Veronesi, Fontana, ad esempio) erano presenti tanto nel
primo quanto nel secondo gruppo, sia perché in molti nutrimmo l'idea che
l'arte astratto-concreta segnasse per sempre la fine dell'arte mimetica, co­
stituisse una svolta, una rottura epistemologica che, in quanto tale, legitti­
masse la continuità, peraltro riscontrabile non solo in Italia ma anche nel
resto del mondo.
Le differenze stanno in altre circostanze. L'Astrattismo degli anni Tren­
ta si manifestò durante il periodo fascista con tutte le contraddizioni della
relativa politica culturale; quello degli anni Cinquanta si sviluppò nel pri­
mo periodo dell'Italia democratica, quando l'unica politica culturale era
affidata all' intellighenzia della sinistra politica che poneva un altro contra­
sto, talvolta dialettico e talaltra p rettamente partiti co: l'Astrattismo-con­
eretismo versus il realismo socialista. Un altro divario fra i due momenti
culturali va visto nel fatto che, almeno provvisoriamente, la capitale
dell'architettura italiana passò da Milano a Roma, centro del potere politi­
co, accademico, nonché tradizionalmente «città d'arte». Questo «sposta­
mento» determinò fra l'altro che all'iniziativa pubblica romana si contrap-
50 Made in Italy

ponesse quella privata milanese, donde la distinzione dei ruoli: a Roma


l'architettura e a Milano il design. Ma, al di là di queste circostanze, peral­
tro abbastanza confuse e mutevoli, il maggiore divario fra gli anni Trenta e
Cinquanta sta, a mio avviso, proprio nel diverso rapporto che, in ciascuno
di questi due momenti, il movimento concretista ha avuto con l'architet­
tura e il design. Infatti, se nella sua prima fase l'Astrattismo italiano trovò
riscontro nell'architettura razionalista del «Gruppo 7» e nel suo maggiore
esponente Terragni, quello della seconda fase non trovò tale favore. Il Ra­
zionalismo fu considerato «superato» dall'architettura organica, simpatiz­
zante di conseguenza con il realismo, l'informale, la nuova figurazione; tut­
to ciò perpetuando, nel campo delle arti, la confusione fra Astrattismo e
Concretismo.
Beninteso, il mio insistere sulla loro distinzione non implica un giudizio
di valore, non intende privilegiare anche sul piano storico-culturale l'uno
rispetto all'altro, sostenendo che fra le due tendenze vi sia distinzione ma
non separatezza. Anzi riconosco come più ricca e articolata la compagine
degli astrattisti che raccoglie da un lato i «reduci» da precedenti correnti
e, dall'altro, anticipa l'informale, la Pop Art, il Neo-dadaismo e simili. Ri­
spetto ad essa il nucleo concretista, rigorosamente inteso, è risultato più li­
mitato, meno popolare, inadatto al collezionismo e al mercato, ecc. , ma,
proprio in quanto tale, da non confondere con altri movimenti.
Da che cosa era contraddistinta dunque l'arte concreta rispetto a quel­
la astratta? Come s'è anticipato, dalla sua intima natura progettuale e dal­
la vocazione a rendersi utile, come, tra gli altri, sostiene Argan quando par­
la del problema di «un'arte che non adorna o consola, ma positivamente
concorre ad elevare il tenore di vita degli uomini; che li soccorre nel loro
lavoro quotidiano; che non chiede di essere interpretata, rivissuta, capita,
ma di essere utilizzata»6.
Oltre alla caratteristica dell' «utilità», che resta il suo maggiore contras­
segno, il Concretismo si differenzia dall'arte astratta per il rigore morfolo­
gico. I suoi temi conformativi in pittura erano: una rigida bidimensionalità
(Mondrian) ; un rapporto figura-fondo niente affatto casuale, ma estrema­
mente calcolato (Albers, Munari); la voluta indistinzione del basso dall'al­
to e in genere di un lato dagli altri del dipinto (Nicholson) ; l'incastro geo­
metrico delle forme tale da coprire uniformemente tutta la superficie del
quadro (Vasarely) ; l'idea che quest'ultima non si limitasse a quella del sup­
porto ma si estendesse in tutte le direzioni, tal che la superficie dipinta ri­
sultasse solo un frammento di un campo potenzialmente infinito (ancora
Vasarely, ma le stesse fasce di Dorazio realizzano questo intento anche fuo­
ri dell'ortodossia geometrica) . Nella scultura la morfologia del Concreti­
smo tendeva a riportare alcuni dei suddetti caratteri dalla superficie al vo­
lume e allo spazio; inoltre tendeva ad annullare il volume compatto in un
IV. L'Astrattismo-concretismo 51

altro che fosse penètrabile (Moore), trasparente (Gabo), attraversato da


sottili quanto mobili lamine (Calder, Munari). Infine il Concretismo, ere­
ditando esperienze cubiste e futuriste, utilizzava al massimo la diversità dei
materiali, esaltandone tutte le proprietà di colore, grana e tattilità.
Esemplificando, e poiché sopra ho menzionato il Mac, fra i suoi fonda­
tori, Dorfles, Monnet, Soldati e Munari, solo quest' ultimo può definirsi
«concretista». Come ha notato Caramel, «Munari, che proprio nel secon­
do futurismo maturò il suo disincantato e versatile sperimentalismo, il suo
p reminente interesse per i materiali, la sua accesa inventività, nonché quel­
la coscienza delle possibilità di andar 'oltre il quadro' - come ha ben os­
servato Guido Ballo -, è 'l'artista che in Italia, prima di altri, ha sentito i li­
miti della pittura e della scultura intese come generi' e lo ha portato, già
prima del '30, a esperienze fotografiche, cinematografiche e di arte appli­
cata»7. Altrove lo stesso Caramel scrive: «i Negativi-positivi che egli ela­
bora dal 1 950 sono tra i prodotti più rigorosi usciti dal movimento [...]
Neppure essi, tuttavia, sono fisse icone. Vivono invece in una continua di­
namica percettiva tra figura e sfondo, che in molti esemplari attiva lo spa­
zio stesso circostante attraverso la sagomatura dei supporti e quindi il coin­
volgimento delle pareti. Sono quindi da accostare alle ricerche di immagi­
ni in trasformazione delle Macchine inutili (allora riprese in materie pla­
stiche colorate e trasparenti) , dei Concavo-convessi (costruiti dal 1948 con
reti metalliche curvate e fissate in una data forma, che tuttavia possono es­
sere appesi al soffitto di una stanza e, avendo un piccolo proiettore a luce
p untiforme da un lato, proiettare un'ombra continuamente mutevole sul
muro, sul soffitto, dove si vuole, secondo la posizione del proiettore) , del­
le Proiezioni a luce polarizzata (dal 1 952)»8.
Questo sperimentalismo concretista non si riscontra negli altri artisti
del Mac milanese, che comunque ebbe una funzione culturale di primaria
importanza. Esso, benché non operasse un chiarimento in ordine al con­
cetto di «concretismo», agì come movimento di raccordo e di proselitismo
- grazie soprattutto a Monnet, che ne fu il principale animatore - per tut­
ta l'arte astratta italiana, coinvolgendo e organizzando gruppi sorti in ogni
regione. In alcuni di essi peraltro la lezione dell'arte utile e del Concreti­
smo fu giustamente intesa, come avvenne per il gruppo napoletano.

Il problema del re/erente

Come s'è visto, l'Astrattismo tentò di eliminare il precetto guida della


mimesi, donde il suo affermarsi in opposizione all'arte figurativa o con re­
sidui figurativi; non solo, ma rivoluzionò anche un'altra antica proprietà
delle arti figurative: pittura e scultura erano state prevalentemente rappre-
52 Made in Italy

sentative, mentre l'architettura e il design erano stati (e sono rimasti) pre­


valentemente conformativi. Se l'Astrattismo portò ad un nuovo equilibrio
fra conformazione e rappresentazione (non figurativa) , il Concretismo, dal
canto suo, produsse addirittura un capovolgimento fra dette proprietà: la
conformazione prevalse sulla rappresentazione.
In questa prospettiva, il problema del referente risulta la chiave per di­
stinguere dall'arte figurativa quella astratta e questa dal Concretismo. Da­
ta l'importanza assunta dal concetto di «referente» è necessario dedicarvi
un cenno. Nell'accezione più comune, al referente rimandano una parola,
un'immagine e, in generale, un segno, per cui si dice che quest'ultimo de­
,
nota o significa qualcos'altro. E questo il caso della pittura figurativa, per
cui, poniamo, l'immagine dipinta di una mela o di una bottiglia, al di là del
valore estetico ed espressivo, denota o significa l'oggetto reale mela o bot­
tiglia. Nell'accezione più rigorosamente semiologica, resta vero che il se­
gno denota o significa qualcos'altro di reale, ma bisogna soprattutto tener
conto anche delle componenti del segno stesso: il «significato» e il «signi­
ficante»; nel segno verbale, cioè la parola, il significato è il «concetto»,
mentre il significante è il «suono» che materializza il concetto e ci consen­
te di trasmetterlo. Che accanto alla denotazione vi sia una funzione propria
del segno senza rimandi alla realtà esterna è dimostrato dal semplice fatto
che non sempre le parole designano cose (mele, bottiglie e altro), ma prin­
cipalmente concetti senza riscontri materiali, per esempio, libertà, pensie­
ro, fede, idea, ecc.
Ora, benché con l' Astrattismo-concretismo il referente appaia notevol­
mente ridimensionato rispetto all'arte del passato, esso non risulta affatto
annullato, tant'è che, ai fini della comunicazione, persiste qualcosa che
«contamina» la purezza del linguaggio aniconico. Tali contaminazioni si ri­
scontrano anche negli sperimentatori più innovativi del nuovo linguaggio.
Persino in Malevic e Mondrian c'è spesso un rimando a qualcosa di ester­
no all'opera. Per convincersene, basti pensare che dopo la sua opera più
famosa, Quadrato nero su /ondo bianco («quadrato == sensibilità, fondo
bianco == il nulla»), che dovrebbe segnare una condizione-limite, dalla qua­
le non si fa più ritorno, Malevic invece amplia il suo repertorio con una va­
rietà di forme e colori, non giustificabile altrimenti se non come intento co­
municativo, sia pure inconsapevole. Ancora più palese è il rimando a qual­
cos'altro riscontrabile in Mondrian. Dopo la più importante serie di ope­
re neoplastiche, intese a mostrarsi come oggettive conformazioni, fra gli ul­
timi suoi quadri ve ne sono alcuni che tradiscono un intento espressivo. In
particolare, i dipinti Broadway Boogie-Woogie e Victory Boogie-Woogie, ar­
ricchiti di elementi e di eterodossi accenti cromatici, sembrano effettiva­
mente rimandare al noto e gioioso ritmo ballabile. Questi aspetti, se non
smentiscono, almeno incrinano l'idea di un linguaggio pittorico totalmen-
IV. L'Astrattismo-concretismo 53

te metonimico, intrànsitivo, tutto concluso nella sistematicità del proprio


universo di segni. Se ciò è vero, va riconosciuto, come dicevo, che la que­
stione del referente rimane il nodo irrisolto sia dell'Astrattismo, sia dello
stesso Concretismo. Riprendiamola nelle sue svolte fondamentali.
Sin dall'inizio del secolo, una volta accantonato il riferimento alla natu­
ra, al suo posto veniva assunto un fattore suggestivo: quello psicologico, il
sentimento, la simpatia simbolica, l'empatia, l'Ein/iihlung. Ma questa ha
agito come mezzo referenziale sia della pittura figurativa, l'Art Nouveau,
l'Espressionismo, sia di quella astratta, segnatamente l'astrattismo espres­
sionista kandinskiano e più tardi quello informale. Successivamente, il ri­
corso alla geometria non ha fatto altro che spostare il parametro referen­
ziale dal piano dell'esperienza empirica, comune a tutti e attingibile da
ogni livello di cultura, al piano di una esperienza culturale, quella appun­
to delle forme geometriche che sono pertinenti alla pittura o alla scultura
tanto quanto le figure, i p aesaggi e le nature morte. Per la stessa funzione
di veicolo ispirativo-comunicativo è stato poi adottato il «processo» delle
forme organiche - in ciò valendo soprattutto il contributo di un Arp - ma,
benché più sottile, tale referente, ancora una volta, si trova ricorrente più
spesso in altre tendenze figurative che non come specifico dell'arte astrat­
ta. Si è poi pensato, nel tentativo di trovare obiettivi punti di riferimento,
ad una sintonia fra l'operare dell'arte e quello della scienza, chiamando in
causa improbabili parametri come quelli delle geometrie non euclidee, la
quarta dimensione e simili. Infine, come abbiamo letto in Argan, il Con­
eretismo voleva essere solo utilizzato; al che sorge spontanea la domanda:
che cos'è se non un tentativo di ritrovata referenzialità il fatto che la più
pura arte concreta tenda a tradursi in altro, quanto meno a farsi modello
per l'architettura e il design?
Ora, l'ammissione che anche l'arte concreta trovi il suo motivo ispira­
tore nella «mimesi formale-concettuale della realtà industriale», come ve­
dremo più avanti citando Italo Calvino, conferma che anch'essa non può
fare a meno di un referente. Del resto, una convalida della necessità di que­
st'ultimo ci viene dalla teoria dell'informazione che, ridotta nei suoi termi­
ni più semplici per ciò che attiene ai suoi rapporti con l'estetica e l'arte, so­
stiene la indispensabile presenza di una «ridondanza» (il già noto, un re­
ferente appunto) per comunicare una «informazione» (il nuovo, la novità
contenuta nel messaggio).
Come che sia, il referente che legittima l'arte concreta e la differenzia
da quella astratta è proprio la sua utilità, la sua parentela o la sua riduzio­
ne all'architettura e al design; donde il problema della «sintesi delle arti»,
di un rinnovato Gesamtkunstwerk, teorizzato nell'Ottocento, sia pure con
altri intenti, da Wagner, Semper e Nietzsche. Tuttavia, questa «opera d'ar­
te totale» è rimasta più un ideale, un virtuale obiettivo teleologico che non
54 Made in Italy

una avvertita istanza reale. La modernità nell'architettura e nel design do­


veva confrontarsi con motivi pratici. L'una doveva utilizzare nuove tecno­
loo-ie, inventare nuove tipologie, rispondere a nuove destinazioni d'uso;
l'altro doveva qualificare la quantità, esaltare la funzionalità dei prodotti,
distinguersi dall'artigianato. In breve, sia l'architettura che il design dove­
vano far fronte a tutte le innovazioni dirette o indirette della civiltà indu­
striale, mentre le arti figurative restavano comunque legate al fare dell'ope­
ratore singolo, all'abilità della sua mano, all'antica pratica artigianale.

Avanguardia e sintesi delle arti

Se il Concretismo, evolutosi negli anni Sessanta e Settanta in arte cine­


tica e programmata, nonché per molti versi nell'Arte concettuale, trovava
il suo referente nell'incontro con l'architettura e il design, la reale fusione
in una «sintesi delle arti» veniva ostacolata, a mio giudizio, dalla questione
dell'avanguardia artistico-letteraria. Questa, come abbiamo visto a suo
tempo, con le sue connotazioni di attivismo, antagonismo, nihilismo, ago­
nismo, ecc., rigorosamente intesa, equivale a «contestazione globale».
Ora, se tutte queste connotazioni possono attribuirsi al generale con­
cetto di avanguardia, i singoli movimenti non le contengono tutte; anzi cia­
scuna tendenza ne esalta solo alcune assumendole come proprie principa­
li caratteristiche. Quali sono dunque gli aspetti dell'avanguardia che risul­
tano più pertinenti all'arte concreta, al suo tendere verso ]' architettura e il
design, alla sintesi delle arti? A parte i programmi e i manifesti che li indi­
cano, una risposta è stata data, come s'è accennato, da Italo Calvino.
Nel distinguere una linea «viscerale» dell'avanguardia da una «raziona­
le», egli nota che quest'ultima non è più rappresentazione ma «mimesi for­
male-concettuale della realtà industriale [che] comincia dalle arti della vi­
sione e direi anzi dalle arti che cercano la forma da dare agli oggetti della
,
vita quotidiana. E nella rivoluzione architettonica, da Morris e dall'Art
Nouveau al costruttivismo alla Bauhaus al Razionalismo all'industriai de­
sign, che ne possiamo trovare la sua direttrice di sviluppo più lineare. E si
può subito notare che questa preminenza del visuale s'avverte anche nelle
pagine dei poeti capostipiti del movimento in letteratura, come Apollinai­
re e Majakovskij, che sentono il bisogno d'esprimersi anche attraverso in­
venzioni tipografiche>>9. Tale fenomeno, che nell'avanguardia storica ave­
va un valore di rottura con la tradizione e in pari tempo di adesione alla
nuova realtà tecnologica, successivamente, secondo lo stesso autore, si in­
teriorizza: «a ben vedere, anche la linea razionalistica dell'avanguardia,
geometrizzante e riduttiva, nella sua esperienza letteraria più recente ed
estrema, quella di Robbe-Grillet, ripiega verso un'interiorizzazione, e lo fa
IV. L'Astrattismo-concretismo 55

proprio col massimo sforzo di spers.onalizzazione oggettiva: il processo di


mimesi delle forme del mondo tecnico-produttivo si fa interiore, diventa
sguardo, modo di mettersi in rapporto con la realtà esterna»10.
Si evince tutta la complessità di inquadrare criticamente il problema
dell' arte utile o della sintesi delle arti. Civiltà tecnologica, cultura di mas­
sa, implicazioni sociopolitiche (si pensi in particolare alla vicenda del co­
struttivismo russo) , necessità di trovare uno sbocco per l'Astrattismo non
espressionistico, presupposti ideologici di un'arte che rinunzia ad ogni
rappresentazione, comunicazione, semanticità, per giustificarsi solo nella
sfera dell'utile, un utile che tuttavia non si appaga della mera funzione pra­
tica, ma mira ad interiorizzare, come s'è visto, l'implicita e ineliminabile
espressione, sono solo alcuni dei principali problemi entro i quali si è di­
battuta la linea di cui ci occupiamo. Risulta comunque certo che l'arte uti­
le, nella sfera della sua autonomia, nella quale appunto vogliamo coglierla,
costituì la principale premessa di molta architettura contemporanea e di
quasi tutte le anticipazioni formali del design, rivelandosi spesso più signi­
ficativa degli stessi risultati di quest'ultimo.
Quanto alla sintesi delle arti, essa è rimasta inattuata per tutta una serie
di ragioni storiche verificatesi a partire dall'ultima guerra e sintetizzabili
nel giudizio di Argan quando contrappone il momento razionale e co­
struttivo a quello irrazionale e fatalistico dell'avanguardia: «Da un lato l' ar­
te come progetto, dall'altro l'arte come destino. Alla prima si rimprovera
di essere astratta, utopistica; alla seconda di arrendersi senza combattere.
Poi si toccherà con mano che le correnti costruttiviste, che col loro pro­
gettismo ad oltranza si proponevano di configurare 'storicamente' l'avve­
nire della società, mancavano di relazione storica con la società reale; e che
le correnti opposte, anti-razionali, rivelavano con estrema chiarezza la si­
tuazione storica di fatto, per quanto potesse apparire contraddittoria ri­
spetto alla supposta coerenza della storia. Ma che veramente il progetto
fosse utopia e il destino storia possiamo dirlo soltanto oggi, con il senno di
poi» 1 1 .
Cosa resta di questo ideale incontro fra le arti? Potrei rispondere che
esso è fallito una volta che sono cadute le premesse storico-culturali, risol­
vendosi in puro collezionismo e in materia di museografia. Ma sarebbe una
risposta semplicistica e riduttiva. In realtà, la sintesi delle arti è una di quel­
le «forme simboliche», teorizzare da Cassirer e, nel campo specifico
dell'arte, da Panofsky, attraverso le quali un particolare contenuto spiri­
tuale viene connesso a un concreto segno sensibile e intimamente identifi­
cato con questo12 e tale da riproporsi continuamente, ma in forma diversa
a seconda della storicità di ogni epoca. Cosicché diviene essenziale per le
varie epoche e province dell'arte chiedersi non soltanto se conoscano la
sintesi delle arti, m a di quale sintesi si tratti. Esemplificando, senza risalire
56 Made in Italy

ai templi greci colorati nelle loro parti, possiamo riconoscere la sintesi del­
le arti nelle sculture deformate per accamparsi fra le forme architettoniche
delle cattedrali gotiche; nelle «macchine da festa» rinascimentali e baroc­
che; nel citato Gesamtkunstwerk ottocentesco e, per il nostro secolo, nei
modelli del Bauhaus, del Vchutemas, della scuola di Ulm. In breve, la «for­
ma simbolica» pertinente alla sintesi delle arti è uno di quegli obiettivi te­
leologici verso cui tendere, pur nella consapevolezza di non raggiungerli
mai, indispensabili per orientarci oggi.

Note
1 K. Fiedler, Del giudizio sulle opere d'arte figurative, in R. Sal vini, La critica d'arte moderna, L' Ar-
co, Firenze 1949, p. 56.
2 Ivi, p. 6 1 .
' K. Fiedler, Aforismi sull'arte, in Salvini, La critica d'arte moderna cit., p . 1 09.
4 M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Schwarz, Milano 1959, pp. 243 -244.
5 Cit. in L. Caramel, Movimento Arte Concreta, 1 948- 1 952, Catalogo della mostra del Mac, Gal­
larate aprile-giugno 1 984, Electa, Milano 1984, vol. I, p. 18.
" G.C. Argan, A1tcora sull'arte astratta, in Studi e note, Bocca, Roma 1 955, p . 120.
7 L. Caramel, Gli astratti, in Gli anni trenta, Catalogo della mostra omonima, Milano 27 gennaio-
30 aprile 1982, Mazzotta, Milano 1 982, p. 155.
8 Id., Movimento A rte Concreta cit., p. 2 1 .
9 I . Calvino, La sfida a/ labirinto, in <<Il menabò», n . 5 , 1962.
l () lbid.
11
G.C. Argan, L 'arte moderna 1 770- 1 979, Sansoni, Firenze 1 970, pp. 449-450.
12
Cfr. E. Panofsky, La prospelliva come «/orma simbolica» e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1 96 1 .
Capitolo quinto Il design razionalista

Premetto che, a mio avviso, il Razionalismo nel campo del design ita­
liano, a differenza che in architettura, non va inteso nel senso di una pre­
sunta ortodossia bauhausiana o ulmiana, non è quella cosa che i post-mo­
derni chiameranno il «proibizionismo» - definendo di conseguenza la lo­
ro operazione come «la fine del proibizionismo» -, bensì una linea ad un
tempo più semplice e complessa di quanto la descrive l'accezione più dif­
fusa. Non escludo che nel corso del presente testo il Razionalismo, per
semplificazione didascalica, possa essere richiamato secondo quest'ultima,
per cui desidero anteporre qui il senso più corretto da dare alla corrente
razionale. Certo, i nostri progettisti puntarono al good design, ma senza le
chiusure e le intransigenze proprie delle ideologie; essi piuttosto, fra le mil­
le difficoltà dei rapporti economici, politici, di pubblico consenso, ecc.,
contarono soprattutto sulla creatività e il buonsenso. Fu certo un Raziona­
lismo sui generis, «sbrigativo» se si vuole, ma proprio in quanto tale non
meritevole dell'aspra opposizione che gli mossero i suoi avversari, anch'es­
si molto creativi, ma non dotati di altrettanto buonsenso.
Quanto fosse particolare il design razionalista italiano lo si può vedere
esemplificato da un oggetto progettato da Luciano Baldessari, il Lumina­
tor, nato come manichino per la mostra dei tessuti all'interno dell'Expo in­
ternazionale di Barcellona del '29, e nello stesso anno trasformato in lam­
pada a luce indiretta per l'allestimento del Padiglione Bertocchi alla deci­
ma Fiera di Milano. «Influenzato, fra l'altro, da certe figurazioni futuriste
ma anche dalle ricerche teatrali di Oskar Schlemmer, [esso] si presentava
come una libera composizione formata da un cilindro cavo, un cono rove­
sciato, raccordati a un parallelepipedo da un filo d'acciaio. Vi ritornano at­
tenzione cromatica - in origine furono utilizzati oro, rosso, bianco e nero
- e senso dinamico, caratteri del lavoro progettuale di Baldessari. Un og­
getto ibrido insomma, metà apparecchio illuminante e metà manichino
dalle dimensioni e forme antropomorfe, che propone un'ideale sintesi del-
58 Made in Italy

le arti, fra scultorea plasticità delle forme geometriche, sensibilità pittorica


nell'accostamento cromatico e soluzione compositiva architettonica»1 .
Approfondendo il tema di un razionalismo italiano sui generis, ricordo
uno dei suoi principali malintesi, il mito della «mediterraneità», che pur­
troppo ritorna spesso ancora oggi. Contrariamente a ciò che evoca - il so­
le il mare la luce la Grecia antica - l'idea della mediterraneità nel campo
a ;chitetto �ico e delle arti applicate è così spuria, incerta e confusa da ri­
sultare più buia e nebulosa di un ambiente nordico d'inverno. La nozione
di mediterraneità dice, infatti, tutto e niente: il Partenone e i templi di Si­
cilia, le piramidi egiziane e l'artigianato dell'Africa del Nord, i monumen­
ti di Roma imperiale e quelli della Provenza gallica, l' Alhambra di Grana­
da, lo stile mudejar e il Barocco di Spagna, le fabbriche normanne, sveve e
angioine dell'Italia meridionale, ecc. Come si vede, tante culture per quan­
ti sono i paesi bagnati dal famoso mare, nonché quelle di altri paesi, anche
non mediterranei, che dominarono i primi.
Nei tempi più recenti, l'idea di un'arte mediterranea si associa ai nomi
di Gaudf, Matisse, Picasso, i fratelli De Chirico, Hoffmann, Loos, Le Cor­
busier, e volendo l'elenco potrebbe continuare, perché quasi ogni archi­
tetto e artista, per nordico che sia, ha avuto sempre un momento di va­
gheggiamento per il mare nostrum. Quello più delirante si ebbe con i pri­
mi razionalisti italiani. Il giovane architetto Carlo Enrico Rava, teorico del
«Gruppo 7», scriveva: «abbiamo segnalato la singolare caratteristica di
spirito latino che distingue le ultime architetture d'Austria e di Svezia: ora,
di questo spirito latino, che affiora in quei paesi nordici come un'ideale
aspirazione verso il sud, di questo spirito di cui Le Corbusier non riesce a
disfarsi, di questo spirito latino che torna ad invadere l'Europa (e non per
nulla, lo spirito nordico tende a rifugiarsi in Russia ) , siamo noi i deposita­
ri fatali e secolari: dalle nostre coste libiche a Capri, dalla costa amalfitana
alla riviera ligure, tutta un'architettura minore tipicamente latina e nostra,
senza età eppure razionalissima, fatta di bianchi, lisci cubi e di grandi ter­
razze, mediterranea e solare, sembra additarci la via per ritrovare la nostra
più intima essenza d'italiani. La nostra razza, la nostra cultura, la nostra ci­
viltà antica e nuovissima sono mediterranee: in questo ' spirito mediterra­
neo', dovremmo dunque cercare la caratteristica di italianità mancante an­
cora nella nostra giovane architettura razionale, poiché certo questo spiri­
to ci garantisce la riconquista di un primato». Contro queste frenesie na­
zionalistiche, anti-nordiche, ami-europee aveva gioco facile l'ottimo Persi­
co, purtroppo uno dei pochi a cogliere l'equivoco della mediterraneità e
non solo fra gli italiani, molti dei quali concessero parecchio a questo mi­
to, ma fra gli stessi francesi (sempre pronti ad innescare questo pericoloso
ordigno ideologico) situati come sono con la testa nel cuore d'Europa e coi
piedi a bagno nel mare famoso. Insomma negli anni Trenta la mediterra-
V. Il design razionalista 59

neità significava una patetica rivalsa,contro il centro e Nord-Europa, dove


era nata con la rivoluzione industriale la civiltà contemporanea e con essa,
per ciò che attiene al nostro campo, l'architettura l' arte l'arredamento il
design moderni. Che cosa resta oggi di questa mi �ologi � ? Personalmen � e,
data l'eterogeneità degli eventi, delle opere, delle intenzioni nazionaliste e
colonialiste, non credo che vi sia, dopo l'età classica, una cultura (nell'ac­
cezione tradizionale) che possa dirsi mediterranea: lo stesso Neoclassici­
smo è una invenzione di uomini e istituzioni europee. Tuttavia, per quan­
to labile, i miti hanno sempre un legame con la storia e svolgono spesso un
ruolo nell'agire umano in determinate circostanze. Inutile quindi chieder­
si se rispondano o no alla realtà; vale piuttosto la pena di badare al modo
col quale vengono utilizzati. Il caso dei razionalisti italiani, ad esempio, ci
indica proprio l'interpretazione più errata del mito mediterraneo.
Il mio giudizio è confermato da Gregotti: «il Gruppo 7 non tarda a de­
nunciare la sua composizione fondamentalmente eterogenea, che emerge
soprattutto dalla successiva evoluzione di Rava e Larco, i quali si orienta­
no verso il 'pastiche mediterraneo' e, nel disegno di mobili e oggetti, rie­
scono privi di qualunque programma che non sia lo stanco rispecchia­
mento di una condizione - a livello figurativo e produttivo - caotica e am­
bigua»2.

Discrezione/continuità

Dal punto di vista filosofico, una grandezza è discontinua (o discreta)


se è composta da elementi dati tramite i quali essa viene costruita nel pen­
siero3 . In tal senso il carattere del linguaggio verbale è «discreto». «Le
unità discrete - scrive Martinet - sono quelle il cui valore linguistico non
è affatto toccato da variazioni di dettaglio determinate dal contesto o da
circostanze diverse. Tali unità sono indispensabili al funzionamento di
ogni lingua. I fonemi sono unità discrete»4. D'altra parte Emilio Garroni
osserva che anche il linguaggio verbale, nella sua manifestazione fonica, è
continuo e non discreto, ma si tratta, egli aggiunge, «di una continuità che
si presta (forse anche attraverso la mediazione, o l'occasione, della scrittu­
ra) a una formalizzazione discreta, cioè ad una rigorosa analisi tecnica in
termini di discrezione»5.
Il Razionalismo nel campo del design si distingue per la semplificazio­
ne morfologica operata rispetto a tutti gli stili del passato, perché lega nel
modo più stretto forma e funzione, per la riduzione di ogni forma alla geo­
metria elementare, per l'uso di nuovi materiali e soprattutto perché pre­
senta appunto due famiglie morfologiche, quelle del «discreto» e del «con­
tinuo». Trasferendo quanto detto sopra dalla linguistica al design, un ele-
60 Made in Italy

mento si dice discreto (o discontinuo) quando la sua forma e il suo signifi­


cato non sono determinati dal contesto di cui fanno parte; più semplice­
mente un elemento discreto è tale quando lo si riconosce come parte di un
tutto; viceversa quando si fonde col tutto si dice continuo.
La dicotomia discreto-continuo è utile per meglio descrivere la morfo­
logia degli oggetti. Notiamo, infatti, che le prime automobili, i primi treni,
i primi aeroplani erano caratterizzati dallà discrezione perché le loro parti
erano chiaramehte distinte e magari ognuna indicativa della propria fun­
zione. Si pensi all'aereo Blériot a doppie ali e segnatamente all'automobi­
le modello T di Ford, dove tutto era perfettamente identificabile: il moto­
re, l'abitacolo, gli sportelli, i parabrezza, persino la ruota di scorta; la com­
posizione di tanti pezzi discreti conformava il prodotto, dava luogo al suo
design. Viceversa, gli stessi prodotti di più recente fabbricazione, a co­
minciare dalla tecnica e dalla moda dell'aerodinamismo, sono caratteriz­
zati dalla continuità: le loro parti tendono ad essere indistinte e a confor­
mare addirittura una unità. Nella vita delle forme il fenomeno non è nuo­
vo: va ricordato che tra le cinque coppie di Wolfflin ce n'è una, quella del
passaggio dalla molteplicità (rinascimentale) all'unità (barocca) , la quale
incarna con gli stessi termini la trasformazione dalla molteplicità stereo­
metrica all'unità, nel nostro caso, aerodinamica. Quest'ultima va segnala­
ta in quanto tende a prevalere nettamente sull'altra. Se pensiamo a due ca­
si emblematici, espressivi della dicotomia in parola, le forme di Mondrian
come punto massimo della discrezione e quelle di Arp come massimo del­
la continuità, ci rendiamo conto che sono le seconde a prevalere netta­
mente nella morfologia dell'industriai design. E ciò sia per motivi di gusto
- lo styling, lo streamline, l'aerodinamismo, assurto a simbolo della mo­
dernità - sia per ragioni tecniche: l'uso della galleria del vento, la lavora­
zione a stampo, rivelatasi la più adatta a conformare le materie plastiche,
la maggiore facilità di eseguire le rifiniture, ecc. E tuttavia la linea dell'uni­
tario o del continuo non ha debellato quella del discreto; primo, perché la
logica dei «pezzi» distinti e angolati a 90° si è rivelata indispensabile per
alcuni tipi di prodotti (i container, gli altri sistemi di imballaggio, molti mo­
bili, i componenti dell'architettura prefabbricata) ; secondo, perché il con­
tinuo è sempre riducibile al discreto. Da quanto precede si può dire che il
design, come l'architettura, contenga tanto un momento continuo quanto
un momento discreto, donde la conclusione che sia l'uno che l'altro non
appartengono strutturalmente a due immutevoli famiglie morfologiche ma
dipendono dalle variabili condizioni storiche della tecnica e del gusto. Né
quanto stiamo osservando è contraddetto dal fatto che in una particolare
categoria, quella dei trasportatori, si sia verificato il massimo della modifi­
cazione, cioè il passaggio forse irreversibile dalla discrezione o molteplicità
alla continuità o all'unità morfologica.
V. Il design razionalista 61

Si pone la domanda: che cosa dà in genere più piacere, il continuo o il


discreto? Come per una fabbrica così per un prodotto di design il fruitore
si compiace di riconoscerne le parti distinguibili facendo appello alle pro­
prie risorse concettuali, mentre il compiacimento per le forme continue,
unitarie, non scomponibili è di natura prevalentemente percettiva o, per
dirla con Kant, è «bello ciò che piace universalmente senza concetto». In
breve, poiché, come dicevo, discreto e continuo distinguono due tipi di ra­
zionalismo, dedicheremo ad ognuno di essi un paragrafo.

Il Razionalismo «discreto»

Il Razionalismo «discreto» comincia con le automobili.


Il fatto che anche per la storia del design siano stati assunti come mo­
dello l'architettura e persino gli elementi d'arredo ha indotto a vedere in
questi campi l'origine del Razionalismo, così come in passato è avvenuto
per il gotico, il Rinascimento e il Barocco. Tra le maggiori novità del Ven­
tesimo secolo è quella per cui il paradigma di uno stile è stato un prodot-
to nuovo: l'automobile. .
Ora, mentre nel campo delle arti applicate erano in voga il Liberty, il
Futurismo, l'Art Déco - stili orientati sul continuo piuttosto che sul di­
screto -, il Razionalismo, inteso come sopra, prendeva forma nel campo
delle automobili, fossero esse Fiat, Alfa Romeo, Isotta Fraschini, Bianchi,
ecc. In generale può dirsi che fino agli anni Trenta, quando si afferma lo
streamline, tutti i modelli di automobili sono conformati da parti netta­
mente distinguibili. Curiosamente si può notare che quando, negli anni
Trenta appunto, si affermano l'architettura e il mobile razionali, le auto
hanno già cambiato stile; l'aereodinamismo è tutto dalla parte del «conti­
nuo», permanendo fino ai nostri giorni.
Avendo anteposto il razionalismo delle automobili a quello architetto­
nico e delle arti applicate è utile un cenno alla storia della prima industria
automobilistica e a qualche suo prodotto famoso. Ma prima di parlarne
colgo l'occasione per una riflessione a conferma della tesi sull'importanza
del gusto nella vicenda del costume e di riflesso sulla produzione indu­
striale: in un paese come il nostro, così arretrato per tanti versi, nessuno
avrebbe pensato che un prodotto tanto complesso da progettare, costrui­
re vendere e consumare come l'auto fosse stato realizzato all'inizio del se­
c ;lo, quasi in perfetta sintonia con quanto avveniva in Europa e negli Usa.
In effetti, oltre che fenomeno di costume e di gusto, prima ancora che in­
dispensabile mezzo di trasporto, l'automobile nasce anche come espres­
sione dell'arte moderna. «La letteratura esaltò, fino ad oggi, l'immobilità
pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo,
62 Made in Italy

l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.


Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bel­
lezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo co­
fano adorno di grassi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo [ . . ] , un au­
.

tomobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vit­
toria di Samotracia»6. Il fastidio per la retorica arrogante del testo non ci
impedisce di coglierne in pari tempo le valenze espressive e soprattutto
quelle che si attribuivano all'automobile.
L'industria italiana dell'auto ha inizio con la torinese Fiat, fondata da
Giovanni Agnelli insieme a un gruppo di finanzieri aristocratici nel 1 899,
con la prima vettura prodotta l'anno dopo, la 3 1 /2 HP Controversa tra gli
storici dell'auto è la data di nascita della seconda azienda; per alcuni fu il
1900, anno in cui la Isotta Fraschini si presentò come società in accoman­
dita semplice denominata Società Milanese Automobili Isotta, Fraschini &
C. La ragione sociale era quella di importare, vendere, riparare automobi­
li, ma nel 1904 l'azienda importatrice si trasformò in produttrice e si co­
stituì come S.A. Fabbrica Automobili Isotta Fraschini. Già in precedenza,
nel 1 902 , fu costruita la prima vettura, una 24 HP a quattro cilindri. In­
tanto erano iniziate le gare automobilistiche con la «Targa Florio» cui par­
tecipò la Isotta Fraschini con la vettura 1 00 HP Grand Prix. Nel 1 905 fu
fondata la Fabbrica di automobili e velocipedi Edoardo Bianchi e C., il
Bianchi restando il maggiore costruttore di biciclette e motociclette, cui se­
guirono le prime automobili alla data della suddetta fondazione. Ancora
più individuale fu l'iniziativa di Vincenzo Lancia, che esordisce come mec­
canico, collaudatore e progettista della Fiat per poi costituire un'azienda
intitolata al suo nome nel 1 906 in grado di produrre la prima vettura nel
1908 con innovative proprietà tecniche ed estetiche. Più complessa è la vi­
cenda dell'Alfa Romeo. Essa nacque dalla decisione dell' azienda francese
Darracq di far assemblare, per motivi di tasse doganali, alcuni suoi model­
li in territorio italiano, alla periferia nord-ovest di Milano. L'operazione
non diede i risultati commerciali sperati e l'amministratore della Darracq
italiana, Ugo Stella, incaricò il piacentino Giuseppe Merosi di progettare
due auto completamente nuove nella speranza di risollevare le sorti
dell' azienda francese. Nel 1 9 1 0 si formò così, con il concorso di un grup­
po imprenditoriale, l'Alfa (Anonima lombarda fabbrica automobili) ; l'an­
no dopo fu prodotta la prima vettura denominata «Alfa», che conseguì su­
bito grandi successi sia fra i privati, sia in campo sportivo. Successivamen­
te l'ingegnere napoletano Nicola Romeo, alto funzionario della Banca di
Sconto, che deteneva la maggioranza del pacchetto azionario dell'Alfa, in­
corporò una serie di aziende lombarde, romane e napoletane, creando la
Società Anonima ing. Nicola Romeo & C. Questa intervenne in un mo-
V. Il deszgn razionalista 63

mento di crisi delFindustria suddetta, , dando luogo al nome definitivo


dell'azienda , Alfa Romeo.
Tralascio la citazione di numerose altre industrie automobilistiche per
insistere sulle caratteristiche di stile di queste prime automobili italiane.
Intanto aveva visto bene Le Corbusier quando, volendo indirizzare l'ar­
chitettura razionalista verso la produzione meccanica, lo standard, la se­
rialità, aveva indicato nell'automobile uno dei modelli da seguire. Ma che
le prime automobili appartengano alla linea del Razionalismo «discreto» è
confermato dal modo stesso in cui venivano costruite, almeno fino al 1 9 1 0.
Premesso che lo chassis e la carrozzeria erano nettamente distinti, per evi­
denti motivi di diversa fabbricazione, il principale problema consisteva
nella loro unificazione, funzione che veniva svolta da un tecnico particola­
re, lo scoccai o. Questi montava le parti dello scheletro della carrozzeria co­
struite in legno rendendole pronte per i calderai che le rivestivano con
pannelli in lamiera tagliati, battuti a mano e inchiodati alla struttura; in­
tervenivano quindi i fabbri per il montaggio delle opere di ferramenta. Co­
struita la carrozzeria, veniva adattata allo chassis previa foratura del telaio
per ospitare i bulloni. Seguivano il montaggio delle portiere, quello dei fa­
nali, del parabrezza, dei cristalli per i finestrini. Unificata· allo chassis, la
carrozzeria veniva verniciata e affidata agli ebanisti e tappezzieri per l' ar­
redo dell'abitacolo.
Tutte queste operazioni - poi semplificate grazie alla catena di montag­
gio - erano prettamente artigianali e pertanto lontane dall'idea seriale del
design. Tuttavia, le cosiddette «auto storiche» rientrano effettivamente nei
precetti del design nel senso che ogni innovazione tecnica - la potenza in
HP, la posizione del motore, le trasmissioni, gli ammortizzatori, il comfort
stesso della vettura, ecc. - veniva chiaramente evidenziata al passaggio da
un modello all'altro, proprietà questa che si perderà nelle auto dalla linea
continua e aerodinamica oppure con l'intervento dei designer-carrozzieri.
Rimandando l'esame dell'evoluzione stilistica dell'auto a quando espor­
remo le sue vicende più recenti, passiamo ad un altro campo con analoghe
caratteristiche. Ancora razionalista per essere composto da forme «discre­
te» è lo stile delle biciclette prodotte in Italia dalla Bianchi a partire dal
1 885 , che conserverà fino ai nostri giorni la netta distinzione delle parti:
quello dei p rimi tricicli a motore, fabbricati dalla Prinetti e Stucchi nel
1 898 e quello delle prime motociclette realizzate nel 1 905 da quest'ultima
azienda e dalla stessa Bianchi, motociclette che col tempo si chiameranno
solo «moto» e lasceranno la loro forma «discreta» per passare a quella
«continua» in forza del loro aerodinamismo. Un analogo passaggio avven­
ne nel campo degli aeroplani, che negli originari modelli si caratterizzava­
no appunto per aver tutte le parti divise e distinte, mantenendo tale
64 Made in Italy

conformazione finché non venne influenzata dall'aerodinamica e dagli stu­


di sulla resistenza del mezzo nell'aria.
I precursori dell'aviazione italiana furono Aristide Facciali, ideatore nel
1 9 1 0 del biplano omonimo; Mario Calderara, progettista nel 1 9 1 0 deL pri­
mo idrovolante; Giuseppe Gabardini, autore nel 1 9 15 del biplano da ad­
destramento militare; Gianni Caproni che, dopo una serie di sperimenta­
zioni e studi teorici, nel 1 9 1 6 realizzò il biplano trimotore Ca32. La tecno­
logia prevalente era quella della lavorazione del legno che l'artigianale pro­
duzione italiana poteva permettersi e che rispondeva perfettamente alle
esigenze di leggerezza strutturale. Dopo la prima guerra mondiale, nel ve­
loce processo di riconversione dell'industria aeronautica, inizia una inten­
sa attività di ricerca volta a verificare la possibilità di utilizzare gli aeropla­
ni come mezzi di trasporto per passeggeri e merci. Il futuro, quindi, è nel­
lo sviluppo dell'aviazione civile. Si pensi alla riconversione del triplano
Ca48, progettato da Caproni nel 1 9 1 8 , in aereo civile per il trasporto di 25
persone: la cabina passeggeri è concepita con una serie di panche in com­
pensato, con leggera imbottitura, disposte longitudinalmente proprio co­
me nei primi tram. Più evoluto è, invece, il Ca58 destinato a ospitare tren­
ta passeggeri distribuiti su due piani e dotato anche di bar e servizi igieni­
ci. Non va dimenticato che le prime linee aeree regolari venivano servite
da idrovolanti la cui ricerca tipologica era nelle mani della Macchi e della
Siai (Società idrovolanti alta Italia) Savoia-Marchetti. La scelta dell'idro­
volante rispetto ai velivoli con decollo da terra era determinata dalla man­
canza all'epoca di aeroporti adeguatamente attrezzati.
E veniamo alla tipologia dei treni dalla linea «discreta». A differenza del
settore precedente dove ogni modello è personalizzato, in quello dei treni,
nazionalizzato nel 1 905 , tutta la produzione è anonima, monopolizzata da
un corpo statale unico e autonomo dalle leggi di mercato. I p rimi risultati
nella progettazione delle locomotive si registrano in Italia nell'ambito del­
la ricerca dell'Ufficio studi fiorentino della rete adriatica, che presentava
all'Esposizione di Parigi del 1 900 il modello 3 70 l , soprannominato la
Mucca, progettato dall'ingegnere Agazzi. La novità di questa locomotiva
rispetto ai precedenti modelli ottocenteschi a vapore - valga per tutti
l'esempio della Galileo Ferraris prodotta dall'Ansaldo nel 1 894 - sta nel
fatto che la caldaia viene arretrata rispetto alla cabina di guida e quest'ul­
tima viene concepita secondo una forma arrotondata al fine di migliorare
la visibilità delle rotaie da parte del conducente. Ma per quanto gli angoli
del 3 70 l siano smussati, siamo ancora lontani dai moderni criteri di aero­
dinamica e dalle linee continue che caratterizzeranno le locomotive della
fine degli anni Trenta. E infatti i modelli realizzati tra le due guerre, sep­
pur evoluti da un punto di vista tecnologico e meccanico, mostrano anco­
ra un disegno «arcaico», caratterizzato dal semplice assemblaggio di ele-
45. Auto Lambda con
scocca portante, 1 922 .
46. Auto Lambda
settima serie.
47 . Auto Lambda
priva di pneumatici.

48. Castagna, Isotta Fraschini con mantice a scomparsa.


49. lsotta Fraschini, Flying Star, 1 93 1 .
66 Made in Italy

menti perfettamente distinguibili. Le prime locomotive elettriche costrui­


te nel dopoguerra su progetto dell'ingegnere Giuseppe Bianchi, rispon­
dendo ai criteri di funzionalità e semplificazione, p resentano ancora una
evidente «discretizzazione» delle parti. Si pensi alla locomotiva E432 del
1 928, la migliore . trifase in assoluto, caratterizzata dalla simmetria degli
avancorpi rispetto alla cassa centrale. Né il disegno della successiva loco­
motiva E626 a corrente continua del 1 932 presenta sostanziali differenze,
emergendo anche in questo caso un disegno piuttosto scarno: la carrozze­
ria, interrotta dalle linee verticali dei giunti delle lamiere evidenziati dalle
bullonature, dimostra una concezione del progetto ancora ascrivibile alla
linea «discreta» del Razionalismo.
Passando dalle locomotive alle carrozze dei passeggeri, mentre per le
prime si registra una certa evoluzione nel disegno strettamente legata al
progresso tecnologico (dal vapore alla elettricità) , lo stesso non avviene per
le seconde. Certo, nel 1 92 1 entrano in servizio i primi vagoni con cassa me­
tallica che sostituisce quella in legno dei precedenti esemplari, ma all'ester­
no l'assemblaggio delle lamiere piane rimane affidato alla tecnica della
chiodatura mentre all'interno non si riscontra un unitario trattamento tec­
nico e formale. Del resto la progettazione da parte degli uffici tecnici del­
le FS tendeva, almeno negli anni Venti, più alla «lunga durata» del pro­
dotto che alla sua innovazione nel disegno e nella tecnologia, come dimo­
strano la costante stilistica e le tecniche di lavorazione ancora artigianali
dei materiali utilizzati all'interno delle carrozze (bronzo, legno, acciaio ver­
niciato, velluto). Un graduale rinnovamento dell'arredo si registra a parti­
re dal 1929, con la produzione di vagoni in stile Novecento ancora non del
tutto affrancato da reminiscenze liberty.
Nella rassegna dei prodotti utili agli spostamenti, quelli che vanno per
mare occupano un posto particolare. Intanto essi sono i più antichi, i più
legati ai fenomeni della natura, i più mutevoli a seconda del percorso cui
sono destinati e del tipo di energia adatta alla loro navigazione. Le navi ap­
partengono sia alla categoria del «discreto» - per il fatto di essere compo­
ste da elementi distinti (lo scafo, le vele, i remi, il timone, la struttura stes­
sa dell'invaso contenitore, ecc.) -, sia alla categoria del «continuo», specie
per guanto concerne la forma dello scafo in ordine al suo muoversi nell'ac­
qua e ai progressi dell'idrodinamica. Il massimo della «discrezione» mi p a­
re si possa riconoscere nelle imbarcazioni sportive, in quelle per il canot­
taggio e in particolare negli armi detti outrigger (da out, fuori, rig, armatu­
ra) ; essi, al di fuori dello scafo, munito di carrelli scorrevoli per due od ot­
to canottieri, recano scalmiere, montate su braccioli sporgenti fuori dal
bordo per consentire un maggior braccio di leva al vogatore. Citiamo que­
ste imbarcazioni, unitamente a quelle dello sport velico - il dinghy, il cut­
ter, il /lying dutchman e simili -, soprattutto perché sono i prodotti sporti-
V. Il design razionalista 67

vi dal più alto valore · estetico, ma tuttavia fuori del design italiano del No­
vecento, in quanto anteriori e tutti d[ origine anglo-americana.
Nel campo del mobile un esempio di Razionalismo discreto è dato nel­
la produzione torinese degli anni Venti. Trfl gli avvenimenti caratterizzan­
ti il movimento di rinnovamento torinese, va menzionata la collaborazione
fra l'esordiente Giuseppe Pagano e l'industriale mecenate Riccardo Gua­
lino. Questi iniziò come imprenditore edile per passare poi all'industria
tessile, campo nel quale si affermò come uno dei primi manager del capi­
talismo italiano. La casa di Riccardo Gualino diventò il punto d'incontro
degli intellettuali più attenti alle ricerche ormai effettuate o ancora in via
di compimento in Europa nel campo delle arti visive, dell'architettura e del
design. Lionello Venturi guidava questi vari interessi, segnatamente quelli
pittorici del «Gruppo dei sei» (Gigi Chessa, Francesco Menzio, Carlo Le­
vi, Enrico Paulucci, Nicola Galante e Jessie Boswell) , incoraggiando al
tempo stesso quei pittori che si impegnavano anche in altri campi: Felice
Casorati con Alberto Sartoris realizzò il teatro di casa Gualino, nonché
molti mobili per l'abitazione dell'industriale-mecenate. Della partecipa­
zione degli architetti-pittori alla Biennale di Monza del '27 abbiamo già
parlato. A Torino vivevano e lavoravano anche Giuseppe Pagano, Gino
Levi Montalcini e Edoardo Persico. Gualino commissionò a Pagano e Le­
vi Montalcini la p rogettazione del palazzo per uffici della Salpa, realizzato
fra il 1 92 8 e il 1 929. L'edificio è stato considerato, per il suo aspetto rigo­
roso ed essenziale, «una delle p rime realizzazioni in Italia dell'architettura
così detta razionale»7. In realtà, benché corredato degli elementi della più
aggiornata tecnologia, l'edificio di Gualino si colloca meglio in un serioso
stile Novecento che non nella linea del Razionalismo. Pertinente al nostro
argomento del design sono l'arredamento e i mobili di ben 67 tipi, ciascu­
no appositamente disegnato e realizzato dalla Fip, che «nuotavano» nelle
algide sale del palazzo. Per essi Pagano e Montalcini pensarono evidente­
mente ai modelli di Rietveld, ma con assai minore fantasia e preoccupati
soprattutto di conciliare il massimo della funzionalità, resa addirittura ov­
via, con una sorta di moralistico anonimato. Le cose migliori sono le seg­
giole girevoli per scrivania con regolazione del sedile e dello schienale che
utilizzano materiali diversi, ognuno enfatizzando il proprio ruolo fino
all'indifferenza per il loro goffo risultato. L'arredamento degli uffici di
Gualino apre un fenomeno tra i più ricorrenti nella storia del design. Mol­
ti mobili e oggetti d'arredo non sono nati come prodotti singoli alla stre­
gua delle macchine per ufficio o degli stessi elettrodomestici, bensì come
p arti di un arredamento, salvo poi successivamente essere prodotti in se­
rie. Il fenomeno non riguarda l'opera dei soli arredatori, ma quella degli
stessi maestri dell'architettura e del design, quali Wright, Asplund, Aalto
e molti tra gli stessi italiani: Caccia Dominioni, Gardella, Scarpa, ecc. Tal-
68 Made in Italy

volta il passaggio dall'arredamento al design è avvenuto per intento degli


autori, talaltra per iniziativa di altri designer e produttori.

Il Razionalismo <<continuo»

Anche questa morfologia dello stile razionalista vede al primo posto


l'automobile. È lecito definire razionalista anche la morfologia del «conti­
nuo» nel settore dell'auto, perché questo gusto nasce da motivi obiettivi
tecnici ed economici.
Abbiamo visto in precedenza che l'abitacolo e lo chassis di un'auto era­
no costruiti separatamente e poi assemblati. L'inizio dello stile «continuo»
si ha con l'unificazione di queste due parti. Il primo modello italiano così
realizzato è la Lancia Lambda, del 1 922. Questa presenta una unitaria
struttura portante entro la quale sono contenute le parti meccaniche mo­
trici. Tuttavia la forma esteriore della vettura non presenta ancora la linea
continua, prevalendo quella squadrata degli elementi ancora nettamente
distinguibili. Per il passaggio alla morfologia del «continuo» è necessario
attendere l'uso in Europa delle presse americane per lo stampaggio e l'ado­
zione della «galleria del vento». Questa consiste essenzialmente in un con­
dotto percorso da una corrente d'aria prodotta da un apposito impianto.
All'interno del condotto viene sistemato un modello in scala del veicolo da
studiare, collegato con strumenti misuratori delle forze generate dal flusso
d'aria che lo investe. Si possono così valutare le turbolenze generate nel
fluido dal moto relativo del corpo, e quindi la forma più idonea di questo
a determinare il minor grado di turbolenza e in sostanza la sua proprietà
aerodinamica. Entrambi i fattori suddetti, gli studi dei modelli nella galle­
ria del vento e le presse di stampaggio delle lamiere sono alla b ase dello
streamline americano, in cui sono presenti altre componenti come avremo
modo di vedere.
In Italia i modelli realizzati con questa tecnica furono la 525 55 nel
193 1 , disegnata da Mario Revelli; la 508, detta Balilla, nel 1 93 2 , prima au­
tomobile italiana dal prezzo contenuto di L. 1 0.800; la 1 500 nel 1 93 5 , tut­
te prodotte dalla Fiat e progettate da Dante Giacosa, nonché nel 1 93 6 - ai
fini di costruire un'auto popolare - la Fiat 500, detta Topolino, opera del­
lo stesso Giacosa. Dal punto di vista formale, se la Balilla conserva ancora
la presenza di angoli di 90°, la Fiat 1 500 e la derivata Topolino recepisco­
no la linea del «continuo» con il loro radiatore inclinato, i fanali inglobati
nei parafanghi, le superfici curve continue, l'abitacolo prolungato poste­
riormente, onde contenere la ruota di scorta o il portabagagli.
Avendo in precedenza sommariamente descritto il settore degli aerei
nella linea del «discreto», passiamo ora ad esaminare quella del «conti-
50. Auto Balilla, 1 93 4 .
5 1 . L a Fiat 5 1 9 in u n manifesto del 1 924 del
pittore Ray Mount.
52. D. Giacosa, auto Topolino, 1 936.
70 Made in Italy

nuo». Se negli anni Venti il biplano idrovolante era la formula preferita


dall'industria italiana, dopo il 1 93 0 si impone invece la tipologia del mo­
noplano che nella versione idrovolante aveva i motori, fino a cinque, di­
sposti sopra l'unica ala, e i passeggeri alloggiati in uno o due scafi (come
negli 5. 55 e 5. 66 della Siai). Nel 1 937, per Fiat, Rosatelli e Gabrielli dise­
gnano il G2 e il G50, monoplani a struttura metallica e carrello retrattile.
Quanto agli aerei commerciali a decollo da terra, questi assumono un vol­
to definitivo con gli S.M. 75 e 83 dei cantieri aeronautici di Monfalcone,
una delle industrie sorte nel ventennio. I materiali utilizzati sono ferro, le­
gno e tela, economici e di facile reperibilità, che consentono di valorizzare
al massimo l'inventiva dei tecnici con spese limitate, l'industria italiana
non avendo la possibilità finanziaria di sostenere costose ricerche. Certo è
che nell'industria aeronautica commerciale in pochi anni si registra una
considerevole espansione: si pensi che i passeggeri trasportati passano dai
50.000 del 1935 ai 1 1 0.000 del 1 93 7 . Ma i maggiori contributi progettuali
offerti all'industria negli anni Trenta si registrano nell'ambito della ricerca
sull'aerodinamica: nel 1932 Arturo Croceo e Cario Costanzi adottano per
il Breda CC20 l'innovativo sistema costruttivo della trave unica per le ali;
nel 1 934 Piero Magni progetta il monoplano da acrobazia Magni Vale. Gli
studi sulla penetrazione areodinamica della carrozzeria andarono veloce­
mente progredendo con il risultato di aerei dalle superfici esterne sempre
più lisce, continue, senza incastellature e tiranti, con raccordi accurata­
mente progettati, con i motori alloggiati in apposite carenature e con car­
relli a scomparsa. L'esito di questa intensa attività progettuale fu un suc­
cesso dell'industria italiana anche in paesi più progrediti: infatti dei 1 800
aerei prodotti nel 1 93 9 molti erano esportati in Germania e in Inghilterra.
Emerge nel settore di cui ci occupiamo il progettista Filippo Zappata. Do­
po aver lavorato per cinque anni presso Blériot, entra in Breda dove nel
1 948 realizza, tra gli altri modelli, il «filante» Breda Zappata, caratterizzato
da una notevole linea aerodinamica. L'idea che guida la progettazione è
quella di eliminare ogni spigolosità sia nel disegno della carrozzeria, sia ne­
gli interni che - curati dall'architetto Giulio Minoletti - mostrano un'at­
tenta ricerca non solo di forme, ma anche di materiali e colori idonei a rag­
giungere un elevato grado di comfort psicologico. Si tratta di un impor­
tante passo in avanti nella progettazione aereonautica se solo si pensa che
prima d'ora nessuno sforzo particolare era stato fatto per migliorare il de­
sign degli abitacoli. Infatti, nonostante il grande entusiasmo iniziale di pit­
tori e architetti - primi fra tutti i futuristi - raramente si ebbe un effettivo
impegno progettuale. Timida eccezione fu l'allestimento di Ponti per l'in­
terno di una cabina di aereo presentato alla Triennale del 1 93 6 .
Quanto ai treni, il passaggio dal «discreto» al «continuo» s i registra a
partire dal 1 93 9 con la locomotiva E 428 II serie: scompaiono gli avancor-
V. Il design razionalista 71

p i dei precedenti modelli e le testate, dove sono collocati i posti di mano­


vra, assumono una conformazione arrotondata in linea con la coeva ricer­
ca aerodinamica. Un primo impulso in tal senso era stato dato qualche an­
no prima, precisamente nel '32 , con la progettazione della Littorina, un'au­
tomotrice di nuova concezione impiegata nel tratto Roma-Littoria e nata
per rispondere alla doppia esigenza di alta velocità e fermate frequenti. In­
fatti, già alla fine degli anni Venti, la diffusione dei mezzi di trasporto su
strada aveva provocato un calo del traffico su rotaie, essendo i convogli tra­
dizionali, costituiti da locomotive e carrozze trainate, non rispondenti alla
richiesta di spostamenti rapidi su tratti brevi. Gli uffici tecnici delle Fer­
rovie dello Stato e grandi industrie private quali la Breda e la Fiat rag­
giungono interessanti risultati in questo settore. Radicalmente nuovo è il
disegno dell'automotrice A lb 48 della Fiat: angoli smussati, ottima visibi­
lità esterna, ampi vestiboli alle estremità, finestratura quasi continua. Tut­
ti questi risultati sono connessi alle ricerche sulla tecnica costruttiva
dell'ingegnere Penati, il quale concepì la cassa della vettura integralmente
portante abbandonando il sistema fino ad allora utilizzato per i vagoni fer­
roviari di una struttura a telaio portante e di una cassa portata. Del 1 93 6 è
l'autotreno Fiat ATR 1 00, una littorina di grandi dimensioni dagli angoli
sempre più rotondeggianti. Ma è con il famoso elettrotreno ETR 200 del
1 93 6 che gli sforzi progettuali si orientano definitivamente nella direzione
della linea aerodinamica. Nato dallo studio coordinato fra FS e Breda, es­
so è pensato per percorrere il tratto Firenze-Milano in sole due ore, po­
nendosi quale alternativa all'aereo che in quegli anni andava affermandosi
nel trasporto civile. Ed effettivamente il moderno ETR 200, studiato nel
tunnel del vento di Guidonia e nella vasca navale, raggiunse un record di
velocità di 2 03 km/h. La cassa, a sezione ovoidale, è liscia e continua con
finestrini ermetici di piccole dimensioni, proprio come quelli di un aereo;
la testata triangolare per consentire il massimo della penetrazione aerodi­
namica venne opportunamente sagomata da Pagano che contribuì alla
p rogettazione degli esterni come consulente. Gli interni, curati da Ponti,
sono confortevoli e spaziosi, senza scompartimenti dei vagoni, e caratte­
rizzati da innovativi sedili reclinabili dallo schienale alto, simili a quelli del­
la carrozza ferroviaria progettata da Ponti e Pagano alla Triennale del
1 93 3 . Qui per la prima volta il tema della progettazione nel settore dei tra­
sporti viene trattato «come argomento tecnico-estetico» determinando
una svolta decisiva nel design dei vagoni ferroviari che, come visto, per tut­
ti gli anni Venti stentava a decollare. Ed è proprio in occasione della Trien­
nale del '33 che Pagano osserva come le moderne vetture presentate nel
parco ferroviario internazionale - tra le quali emergono i vagoni disegnati
da J oseph Hoffmann - «sono già una prova della necessità di far interve­
nire l'architetto per interpretare e risolvere l'estetica dell'ingegneria pura».
72 Made in Italy

La linea del Razionalismo «continuo» trova in campo navale la sua più


naturale applicazione. In questo settore, ad eccezione dei precedenti pro­
pri del Regno di Napoli in età borbonica, l'Italia presenta un ritardo ri­
spetto alle altre nazioni, come dimostra peraltro nei primi decenni del No­
vecento il continuo .passaggio dall'industria privata a quella di Stato e vi­
ceversa. «l cantieri navali e la navigazione rappresentano un esempio ma­
croscopico di dipendenza dalle sovvenzioni statali. Per assicurare le com­
messe all'industria privata, dopo il 1 920 lo Stato dovette chiudere i propri
cantieri, salvo quello di Castellammare. I vari armatori amavano differen­
ziarsi anche nell'immagine delle navi passeggeri, quindi la produzione ri­
sultava abbastanza varia ed esistevano spazi per proposte e ricerche»8. Le
nostre maggiori difficoltà erano di carattere tecnico, non solo per il pas­
saggio dalla tecnologia del legno a quella dell'acciaio, specie per quanto at­
tiene al transatlantico, il più tipico prodotto dell'industria navale del seco­
lo, ma anche per la sostituzione avvenuta nel 1 9 1 0 delle macchine a vapo­
re con il motore Diesel. È curioso notare che, nonostante l'ormai evidente
inutilità dei numerosi camini, essi continuarono ad essere costruiti per mo­
tivi figurativi e simbolici, anche in questo particolare morfologico con una
certa alternanza. Infatti, mentre nel 1927 le motonavi Saturnia e Vulcania
riducono i camini ad uno solo tronco-conico, utilizzato per gli scarichi dei
due motori, nelle successive navi, Roma e Augustus, si ritrovano gli alti ca­
mini cilindrici. Solo nel 1 93 0 con il Bremen e l'Europa gli studi aerodina­
mici conferiscono la forma più moderna al naviglio italiano. Nel 1 93 1 il
Lloyd Adriatico di Trieste vara il Conte di Savoia; nel '32 è della Compa­
gnia Italia di Genova il transatlantico Rex, realizzato dall'An saldo.
Quanto all'arredo dei transatlantici, «l'architetto incaricato della deco­
razione aveva anche l'appalto dei lavori, il che rendeva l'incarico partico­
larmente lucroso. Fino al 1 930 trionfano, per i pezzi di bravura, i Brasini,
i Coppedé, mentre l'esecuzione degli arredamenti è affidata ad imprese
ben organizzate e solide che garantiscano un'alta qualità: la Ducrot di Pa­
lermo, la Bega di Bologna, la Stuard di Trieste diretta da Gustavo Pulitzer
Finali, cui si devono i primi tentativi di rinnovamento, prima in ambienti
minori, come la piscina ed il fumoir, poi su un'intera nave: il 'Conte di Sa­
voia' . Gli esempi erano l"Ile de France' del 1 92 7 , il 'Bremen' e !"Europa' ,
primi transatlantici europei in cui l'idea del lusso era trasmessa dalla raffi­
natezza dei materiali e dalla precisione dell'esecuzione, e non dalla grotte­
sca riproposta di ambienti del passato, che ponevano, durante la naviga­
zione, problemi anche pratici di abitabilità»9.
Un'altra importante motivazione tecnica che portò alla nascita dello sti­
le continuo è la presenza della carrozzeria, della scocca utilizzata per gli ar­
ticoli a funzionamento meccanico od elettrico. Fin dal 1891 erano entrate
in vigore in Germania le norme che imponevano di coprire con una scoc-
V. Il design razionalista 73

ca i meccanismi delle macchine utensili e quindi gli oggetti che conteneva­


no un motore, al fine di evitare gli incidenti sia sul lavoro in fabbrica, sia
nell'uso domestico dei prodotti. Riferendosi alle norme protettive, Maldo­
nado scrive: «in questo modo, una conf�gurazione formale viene a nascon­
dere la configurazione tecnica dell'oggetto e si stabilisce così una dicoto­
mia che non si limiterà al campo delle macchine utensili. Anzi, diventerà
la caratteristica dominante di quasi tutte le tipologie di oggetti della civiltà
industriale. N asce così la ' carrozzeria' , cioè un involucro aggiuntivo che
sarà spesso trattato come una forma senza nessun - o con scarso - rap­
porto con il contenuto»10.
In quasi tutti i prodotti del Razionalismo «continuo» è presente un
«carter», ovvero la citata scocca protettiva dei meccanismi interni; essa,
per la sua natura di involucro avvolgente, oltre che trovare ispirazione in
una linea del gusto, era legata ad una morfologia propria delle nuove tec­
nologie, comuni tanto agli oggetti mobili quanto a tutti gli altri; pensiamo
in particolare a quella dello stampaggio profondo delle lamiere e dello
stampaggio pressofuso delle prime resine sintetiche. Dal punto di vista
della p roduzione, i costi d'impianto per i relativi stampi non consentivano
certo di mettere in esecuzione oggetti effimeri e senza una adeguata esten­
sione quantitativa, esclusivamente legati ad una moda passeggera e ad un
consumo rapido, come vuoi far credere tanta critica ostile allo Styling. Per
quanto accattivanti potessero essere i suoi prodotti, essi nascevano co­
munque dopo attenti studi e sperimentazioni, non solo progettuali, ma an­
che produttivi, con elaborati esperimenti sui prototipi di fabbrica. Gie­
dion, a tal proposito, scrive: «potremmo citare esempi da cui risulta che
elementi di metallo compresso si ridussero del 3 0 % di prezzo e del 3 7 %
d i peso pur aumentando invece l a forza di resistenza»1 1 . Se per la merceo­
logia «statica» dello streamline non si ricorreva alla galleria del vento, altre
p rove di laboratorio sulla resistenza dei materiali, di tipo ergonometrico e
antropometrico, si resero necessarie; si pensi in particolare a tutta la gam­
ma degli elettrodomestici.
Ma lo stile del Razionalismo «continuo» non si deve solo alle suddette
motivazioni tecniche, bensì anche ad altre cause tra le quali, ancora una
volta, il rinnovamento del gusto, donde la necessità di aprire una parente­
si chiamando col termine americano streamline, già utilizzato, lo stile di cui
o o

Cl occupiamo.
Il movimento dello streamline (della forma aerodinamica) rappresenta
il fenomeno più importante nella storia del design americano del Nove­
cento, l'apporto più significativo dato dall'America in questo campo, il
punto nodale della produzione e del dibattito successivi. «Dal 1935 - scri­
ve Giedion - il significato della parola aerodinamico, in inglese 'streamli­
ned', si è molto ampliato, e trova applicazione nei settori più diversi. Si
74 Made in Italy

parla di linea aerodinamica di una azienda, di un'amministra� ion� , p�rf� ­


no di un governo. Inconsciamente, in questi casi deve ancora mflUlre il Si­
gnificato originario, il realizzare una forma per incontrare una minore re­
sistenza. Nel significato popolare la parola 'aerodinamica' viene usata in­
vece di quella 'moderna'»12.
Lo streamline costituisce una sintesi di molte precedenti fonti. La pri­
ma può riconoscersi nella stessa produzione dell' AEG, con la quale p re­
senta non poche analogie (elevato livello tecnologico, comunanza di tipi ­
si pensi a tutto il settore degli elettrodomestici -, questione della scocca
protettiva dei meccanismi interni agli oggetti, ecc.). La seconda fonte del
gusto in esame può farsi risalire alla Wiener Werkstatte, per l'unità stilisti­
ca di tutti i manufatti usciti dai famosi laboratori viennesi, peraltro larga­
mente noti e diffusi in America, e soprattutto per i legami, ampiamente do­
cumentati, fra Wiener Werkstatte e Art Déco. Quest'ultima, sia nell'edi­
zione francese che in quella americana, è tra i precedenti più diretti dello
stile di cui ci occupiamo. Come osserva ancora Giedion, «se noi parago­
niamo queste sagome dai molteplici profili al linguaggio formale usato dal
Movimento delle arti decorative francesi ormai al termine del loro svilup­
po, risulta evidente che l'origine della linea aerodinamica va ricercata nel­
la sfera della storia degli stili. Una lampada francese con i suoi gonfi profi­
li ripetuti tre volte e l'involucro aerodinamico di un aspirapolvere sono im­
prontati ad un identico linguaggio formale. L'artigianato artistico francese
del 1 925 era un ibrido sterile dello J ugendstil e del Deutsches Kunst­
gewerbe. Aveva una influenza universale non minore dei mobili del tap­
pezziere nel secondo Impero. I suoi mobili dai molteplici profili, i suoi
gioielli, le sue lampade esercitarono un fascino straordinario»13. Oltre che
nelle sagome dei grattacieli americani (è qui che meglio si esprime l'Art
Déco autoctona), un'altra fonte dello streamline va vista nell'architettura
europea degli anni Venti, specie in seguito alla famosa mostra sull'Inter­
national Style allestita nel 1 932 al Museo d'arte moderna di New York.
Dalle arti figurative, e segnatamente dal Futurismo e dall'Espressionismo,
lo streamline ricavò due dei suoi caratteri esponenti: rispettivamente il cul­
to della velocità, dell'aerodinamismo, e il simbolismo di tante manifesta­
zioni espressioniste, valga per tutte la Torre di Einstein. Si comprende co­
me lo stile streamllne, alla ricerca dei simboli più invitanti, abbia privile­
giato soprattutto quello della velocità «intesa - scrive Frateili - come af­
fermazione di potenza e valore di modernità. La velocità, infatti, attraver­
so gli effetti aerodinamici sugli oggetti, è intervenuta nelle forme avvilup­
panti dello Styling, che per un altro verso non ha ignorato le ricerche pla­
stiche di un Arp e di un Brancusi»14. In sostanza il progetto dello stream­
line rifiuta le rigide stereometrie dd design razionalista, propone valenze
simboliche, ripropone qualche elemento decorativo, nato non tanto dalla
V. Il design razionalista 75

sovrapposizione· di motivi, quanto dalla conformazione degli stessi ogget­


ti così come, sia pure con divers.i accenti ed intenti, facevano architetti e
designer del movimento organico.
Quanto alla facile critica contro la. linea aerodinamica di oggetti non
sottoposti alla velocità, essa finge di ignorare la duplice intenzione di unità
stilistica fra i prodotti più diversi e la già menzionata valenza simbolica.
Come scrive Walter Dorwin Teague, «una ragione per cui noi diamo un
p rofilo aerodinamico a tanti oggetti, cose che non si muoveranno mai e che
non hanno scuse per essere aerodinamicizzate in quanto non hanno nes­
suna necessità di essere adattate al flusso delle correnti d'aria, sta proprio
nella qualità dinamica della linea che appare nelle forme aerodinamiche, e
questa qualità dinamica è caratteristica del nostro tempo. Noi siamo in
un'età primitiva e siamo un popolo dinamico, siamo sensibili solo alle ma­
nifestazioni di tensione, di vigore, di energia, e questa linea si ritrova co­
stantemente dovunque nei nostri corpi, il corpo di un uomo muscoloso o
il corpo di una donna bella»15.

Il Razionalismo alla Triennale

Secondo alcuni autori la IV Esposizione di Monza del 1 93 0 avrebbe se­


gnato la rottura tra le arti applicate ed il vero e proprio design, nonostan­
te il neoclassicismo architettonico della sede, espresso specie nel grande
«salone del marmo» di Muzio, nelle pitture di Funi, nella casetta per va­
canze progettata da Ponti e Lancia, per finire nella «sartoria» con salone
per sfilate di moda, realizzata da un gruppo di architetti di Como, razio­
nalista sui generis, con un aggancio al «Novecento Italiano»; «tra gli auto­
ri era Giuseppe Terragni, senza dubbio la personalità più forte e meglio
definita, sin d'allora, del gruppo. Anche in quest'opera, egli riusciva ( co­
me nelle altre sue) a tenere in equilibrio sul filo dell'espressione i valori pla­
stici e le ragioni funzionali; quel complesso esemplare si proponeva come
ultima voce - come limite estremo - del linguaggio 'novecentista'»16.
Sul versante decisamente razionalista era la «Casa elettrica», progettata
dagli architetti Bottoni, Figini, Frette, Libera e Pollini, caratterizzata da
una grande parete interamente vetrata, sponsorizzata dalla Edison, donde
il nome, programmata per contenere tutti i servizi ed i prodotti elettrici,
destinati a sostituire nelle varie funzioni domestiche il personale di servi­
zio. Gli apparecchi esposti erano prevalentemente di fabbricazione stra­
niera, italiani erano invece quelli di una consociata della Marelli e da que­
sta fortemente reclamizzati in ordine alla sicurezza, la pulizia, l'utilizzo del­
lo spazio.
Ancor più innovativa si presentava la Sala 1 3 0 degli architetti Gigi
76 Made in Italy

Chessa, Umberto Cuzzi e Carlo Turina di Torino. «Sul piano europeo, per
qualche vaga reminiscenza 'futurista' e per una sua naturale espressività
'plastica', essa poteva considerarsi come la proposta italiana, nell'afferma­
zione dello spirito nuovo: una specie di dichiarazione di indipendenza, di
grande interesse anche se, nel tempo che seguì, solamente il Terragni sia
giunto, su quella via, a risultati di piena validità. In lui, si era trattato di un
modo esteticamente alto, ed espressivamente autentico, di risolvere, do­
potutto, un compromesso. Fra il dialetto e il latino proposti dalle varie
Biennali e Triennali, qualche solitario poeta (Chessa, Cuzzi e Turina, con
Terragni) tentava ora, in Italia, di parlare in italiano. In un italiano attua­
le»17.
Accanto alle tante intenzioni nuove, nell'Esposizione monzese del '30,
permangono altre suggestioni stilistiche, quali ad esempio la vena di Art
Déco, sebbene italianizzata. «In tale accezione, si propone il tema del bou­
doir per signora, presentato da Meroni e Fossati su disegno di Larco e Ra­
va, dove l'argomento dell'intimità femminile viene svolto in formule
tutt'altro che capricciose, facendo ricorso a materiali modernissimi - il ve­
tro, il metallo - accanto a legni preziosi - lo zebrano, l'ebano - utilizzati
per forme squadrate e rigide. Oppure il tema del bar per appartamento,
proposto da più ditte e più architetti, come omaggio a stilemi di vita più
internazionali che italiani, indotti da certa letteratura e da certo cinema,
per i quali si sprecano i luccichii dei metalli, dei cristalli, degli specchi. Op­
pure, ancora, il tema della sartoria, che ha due obiettivi: testimoniare l'ele­
vazione di una classe sociale, che poteva assurgere alle raffinatezze dell'al­
ta moda, e sostenere una produzione tessile nazionale già di grande livel­
lo, che voleva affrancarsi dallo stile francese sempre imperante»18.
Ma nonostante le incertezze stilistiche è il modello razionale che preva­
le nettamente nella manifestazione monzese; qui dominano i nuovi mate­
riali quali l'alluminio prodotto dalla Montecatini lavorato in tutte le sue va­
rie applicazioni dalla ditta Volonté di Milano; i numerosi prodotti legati
all'enegia elettrica; il linoleum, materiale prettamente italiano; ancor più
innovative sono le tipologie edilizie nelle quali vengono impiegati i pro­
dotti industriali, due in particolare: i mobili per gli uffici e quelli delle cu­
cine sull'esempio americano e della famosa applicazione di Francoforte,
attualissima in quegli anni. Su tutto prevale la spinta alla produttività e
quella verso il marketing. Ponti infatti dichiara: «i problemi d'arte sono
per il nostro Paese problemi di prestigio nazionale e di decoro rappresen­
tativo della nostra civiltà, da cui dipendono, con un valore economico di
alte possibilità di sviluppo, autorità e vantaggio nei mercati del mondo»l9.
Alla Biennale di Monza - l'ultima, come vedremo, che si tenne in que­
sta città - sono dedicate alcune riflessioni di Edoardo Persico tratte dalla
serie di articoli intitolati Sei note per Monza. Nella prima egli sostiene che
lt\

5 3 -54. G. Terragni, due studi per le


sedie della Casa del Fascio di Como,
1 932-36.
5 5 . G . Terragni, studio di poltrona
con struttura in acciaio.
56. G. Mucchi, sedia impilabile,
modello 5.5.
57. G. Terragni, sedia Follia,
1 932-36, riedizione Zanotta 1 97 1 .
78 Made in Italy

nella citata esposizione «bisognerà scorgere un fatto della vita pubblica ita­
liana o rinunziare a capire una mostra che, sotto ogni altro aspetto, rap­
presenterebbe una raccolta di oggetti senza destinazione viva. La fabbri­
cazione di un prodotto non consiste tanto in un espediente tecnico, quan­
to in un segreto spir.ituale. Andremo, perciò, a Monza, non solo per docu­
mentarci sugli sviluppi pratici dell'industria italiana, ma soprattutto per in­
dagare come gli industriali sentono il dovere del lavoro, vale a dire come si
pongono di fronte ad una legge etica. Il compito di un osservatore non sva­
gato e superficiale consisterà nel misurare la preparazione spirituale dei di­
rigenti delle fabbriche. Il problema di un'arte industriale sottintende un si­
stema sociale 'moderno' : i tempi della fabbricazione in serie esigono, in­
fatti, l'esistenza parallela di uno spirito di organizzazione e di uno spirito
di utopia»20. Nella terza nota, l'autore affronta il tema delle tendenze neo­
classica da un lato e razionalista dall'altro. La sua tesi è che non giova mar­
care eccessivamente le differenze: «una sala di Ponti e una sala di Terragni,
per esempio, indicano una stessa volontà, e, al di sopra delle p referenze
estetiche, sono legate dalla loro destinazione pratica ed attuale. Questo
vuoi dire che, a Monza, mobili di stile neoclassico e mobili di stile razio­
nalista rappresentano una tendenza unica, non 'decorativa' nel solco delle
teorie moderne. Questi oggetti non hanno destinazioni diverse, né si rivol­
gono a due pubblici: hanno per scopo il decoro della casa nuova e presup­
pongono gli uomini del nostro tempo». Tuttavia, nel corso dell'articolo
Persico si contraddice nettamente: «il volgersi dei neoclassici alle forme
storiche ci sembra che non possa condurre se non all'imitazione ossequio­
sa di stili superati, o a deformazioni le quali, a lungo andare, finirebbero ne­
cessariamente in un nuovo barocchismo. Il fatto di un gusto nuovo è affi­
dato, perciò, all'indirizzo razionalista, il quale è un punto di partenza che
servirà di base all'artista per giungere a creazioni fantastiche, e perciò irra­
zionali. Si travisa, per lo più, il contenuto reale del movimento razionalista
quando ci si ferma alla sua formula, e si ritiene che l'architettura e l'arte de­
corativa moderna non debbano oltrepassare i limiti segnati dai bisogni pra­
tici; mentre è chiaro che per fare dell'architettura e, comunque, dell'arte ­
i razionalisti lo sanno prima di tutti - sono necessari personalità, emozio­
ne, lirismo»2 1 . La quarta nota è in gran parte dedicata al confronto tra la
produzione italiana e quella straniera, della quale Persico elogia la sezione
tedesca: questa ci insegna che «il ' razionalismo' - il quale non è soltanto
una formula architettonica, ma un sistema morale, un ordine sociale è il -

metodo essenziale per risolvere i problemi di un'arte industriale moderna.


D piccolo soggettivismo dei neoclassici cede ormai definitivamente di fron­
te all'obbiettivismo europeo che s'incardina principalmente sullo stile del­
le grandi installazioni industriali, delle fabbriche commerciali, degli uffici
V. Il design razzònalista 79

economici, piuttosto che sulla rettorica di monumenti ufficiali che sono la


più alta destinazione delle fatiche degli architetti piccolo-borghesi»22.
Nel testo su La sala 1 30, allestita da Chessa, Cuzzi e Turina e conside­
rata l'espressione più innovativa della IV Esposizione di Monza, Persico
spinge il suo favore per il Razionalismo fino a raggiungere l'esaltazione
meccanicistica corbusiana, peraltro a lui insolita: «quei cilindri neri, quel­
le vetrine che stagnano in una luce pacata sono cose che ricordano troppo
il gusto delle macchine. Che cosa c'entrano le macchine con l'arte? La bel­
lezza della sala 1 3 0 consiste, appunto, nell'aver accettato il gusto della
macchina, nell'essersi sottoposta a questa disciplina moderna ed esserne
uscita come una creazione autonoma, come un fatto plastico nuovo in cui
si possono leggere con chiarezza talune regole essenziali dell'arte. La sala
1 3 0 può esser considerata come una delle opere più significative che siano
state create in Italia, secondo l'ordine dell'architettura moderna. È evi­
dente che un'opera di architettura come la sala 1 3 0 non poteva essere
espressa che da un ambiente saturo di idee e di volontà nuove: da una città
come Torino, in cui la vita moderna ha trovato la sua affermazione precisa
nella realtà dell'industria. Nel nostro caso, l'industria meccanica. [ . . . ] Nel­
la sala 1 3 0 il gusto della macchina è intimamente legato allo stile della co­
sa, alla sua più alta destinazione intellettuale. Si possono evocare i sotto­
marini, gli alti forni, o i motori elettrici; e bisognerà convenire che proprio
uno spirito nuovo ha creato questa sala: non un pretesto nuovo. Lo spiri­
to di astrazione e il meccanicismo della sala 1 3 0 sono i due elementi più
originali che siano fino ad oggi entrati nell'architettura italiana moderna.
[ . . . ] Accanto alle ciminiere di un transatlantico o alla ruota di un'automo­
bile, la sala 1 3 0 stabilisce senza equivoco la sua intima ragione, e rappre­
senta una perfetta creazione estetica nello spirito di un nuovo mondo pla­
stico»23 .
Come s'è detto, quella del '3 0 fu l'ultima esposizione di arti applicate
tenuta a Monza; nel '29 si decise di trasformarla in Triennale internazio­
nale delle arti decorative ed industriali moderne e di trasferirla a Milano al
parco del Sempione, nel Palazzo dell'Arte appositamente costruito su pro­
getto di Giovanni Muzio. Anche nella Triennale di Milano ( 1 933 ) , ivi col­
locata per un più stretto contatto col mondo della produzione industriale,
si pone il problema di fondo del rapporto dell'arte con l'industria, senza
tuttavia negare l'esistenza dell'artigianato, fonte di sostentamento di mol­
te piccole e medie aziende a cominciare da quelle della stessa Lombardia.
Sulla nuova sede della Triennale, è facile osservazione che il sito destinato
alla maggiore innovazione del design italiano sia stato concepito da un
esponente del classicismo italiano a riprova del fatto di guanto, nel '33 , fos­
sero ancora incerti gli orientamenti stilistici nel nostro campo.
Del resto, in questa edizione, più che il design, si tende ad evidenziare
80 Made in Italy

l'architettura e ad associarla alle altre arti, sintesi tipica di «Domus» e di


fatto presente in molte altre scadenze della Triennale. Quanto precede è
confermato dalla Tonelli: «il programma [ ... ] , che opponeva alla mostra
delle produzioni d'arte decorativa quelle dell'arredamento e dell' abitazio­
ne, sottolinea l 'intendimento di affrancare la rassegna dagli oggetti singoli
in favore di una pi'tJ intelligente proposta di ambienti o di case vere e pro­
prie, cioè di exempla progettuali completi e perciò espressivi di 'una unità
artistica superiore governata dall'architettura'(Ponti)»24. Cosicché, mentre
a Monza le case nel parco si potevano contare sulle dita di una mano, a Mi­
lano ben trentatré costruzioni sperimentali furono erette nel verde intorno
al Palazzo dell'Arte ed anche all'interno di questo furono allestiti locali ar­
redati. Poiché il nostro argomento non è l'architettura, non citeremo que­
ste case nel parco, ad eccezione di quella popolare realizzata da Griffini e
Bottoni con il contributo dell'Istituto per le case popolari di Milano. In es­
sa furono affrontati problemi di unificazione e standardizzazione, di tipo­
logia e quant'altro aveva dettato l'esperienza europea in questo campo.
In breve, se in questa prima edizione milanese della Triennale è ancora
la casa completamente arredata a confermare l'unità di tutte le arti visive,
e non il prodotto singolo quale oggetto del design, tuttavia si presenta ur­
gente il problema della standardizzazione degli stessi prodotti disseminati
nelle residenze del parco. Si pone il quesito: l'arredamento è un modo di
ambientare i prodotti del design, rendendo più accessibile la comunica­
zione col pubblico oppure è una sorta di alibi per non affrontare temi e
problemi del prodotto singolo? Ribadito che anche negli allestimenti ap­
prontati nel Palazzo si tendeva ad offrire ambienti definiti da modelli d'ar­
redo, nei quali l'oggetto non risultava concepito come prodotto, ma piut­
tosto come parte di un insieme, tuttavia anche queste parti ci offrono la
possibilità di parlare del design. Si ripropone intanto la coesistenza fra vec­
chi e nuovi materiali, rispettivamente legati alla vexata quaestio della scel­
ta fra un design di lusso e uno meramente funzionale. Così, accanto all'oni­
ce, il marmo nero, la pergamena, il galuchat, l'argento, l'eb ano, il legno di
palma, la pelle di foca polare, la seta e simili si trovano il linoleum, l'anti­
corodal, il fustagno. Quanto alla tipologia dei prodotti, sono quelli del ve­
tro che offrono una delle maggiori gamme di variazione, specie per ciò che
concerne gli apparecchi di illuminazione. Questi vanno dai lampadari di
Venini alle soluzioni che offrono un maggiore potenziale di serie, vale a di­
re le lampade dei diffusori o del luminator, quelle in canne di vetro opali­
no create da Biancardi e Jordan su disegno di Albini, quelle in metallo e
vetro di Chiesa, quelle da tavolo edite da Texilar che utilizzano il rhodoid
e un ingegnoso sistem a di inclinabilità.
La varietà dell'offerta, ma anche l'incertezza del primo design raziona­
lista inducono Ponti a chiedersi quali saranno i problemi che la Triennale
V. Il design razionalista 81

sarà chiamata a risolvere nella successiva edizione: «produzione d i serie o


produzione di pezzi unici? arte industriale o artigianato? decorazione o
antidecorazione? p roduzione effettiva o modelli ed esemplari d'occasio­
ne? rinnovamento delle produzioni o loro caratterizzazione? conservazio­
ne di tecniche antiche o loro deliberata sostituzione? indipendenza artisti­
ca o dipendenza utilitaria, funzionalismo esclusivo? oggetto d'arte o og­
getto d'uso?»25. In realtà i dubbi sulle alternative erano nella stessa men­
talità di Ponti, certamente fra gli autori e i critici più attivi, ma pronto ad
orientarsi secondo le circostanze.
Sulle ambiguità che caratterizzavano idee, fatti e prodotti dell'epoca va­
le la pena soffermarci. Intanto bisognava fare i conti con la «politica cul­
turale» del fascismo - in verità più propensa all'innovazione, ma non al­
trettanto all'internazionalismo proprio della nostra disciplina -; con i tra­
dizionalisti, banali come i sostenitori dell'idealismo romantico; con i diri­
genti e i critici legati alla già citata alternativa fra un'arte di lusso e una di
massa. Il più emblematico rappresentante della prima fu Ugo Ojetti, fau­
tore del «lusso necessario», che nel 1 93 1 su «Pegaso», in una lettera a Gio
Ponti, scriveva: «prima la chimera democratica, poi la povertà sono venu­
te umiliando le arti decorative; e non esse soltanto. Quante se ne sono ve­
dute di mostre coi modesti o rustici mobili pensati benignamente da ar­
chitetti borghesi per le case degli operai, per le case dei contadini, per le
case degli impiegati? Sarebbero state mostre pratiche e molto utili se nel
loro programma non si fosse dimenticata un'eterna verità, cioè che bor­
ghesia, piccola borghesia, operai, contadini sempre hanno desiderato e
sempre desidereranno d'imitare anche nei mobili le classi che socialmente
sono o sembrano poste più in alto e che servono loro di modello. Ma in Eu­
ropa si vive da più di cent'anni nell'illusione di mutare una volta per sem­
pre gli uomini secondo taluni santi principi: anche qui fraternité, liberté,
égalité, e l'eguaglianza, adesso arrivata fino all'arte con l'aiuto della po­
vertà universale, consiste nel rendere tutti umili e nello spianare le cime,
che sarebbero un modo di spianare l'intelligenza e il gusto»26. La tesi del
«lusso necessario» era condivisa pure da un architetto tra i più attivi, Car­
lo Enrico Rava, già citato quale teorico del «Gruppo 7». A suo dire «è dal­
la bellezza del mobile e dell'oggetto d'eccezione e di lusso, cioè dalla bel­
lezza della creazione unica, che potrà nascere in seguito la bellezza del mo­
bile e dell'oggetto di serie, cioè lo stile di un'epoca». Inoltre egli sostiene
che la ripresa di modelli esteri è il «puro prodotto della mentalità anti-fa­
scista». Una sintesi di queste due idee espone Rava alla critica più avverti­
ta. Siamo alla VI Triennale e in merito alla camera da letto per signora di
Frette, nonché ai mobili in pergamena e lacca d'oro, ai tavolini di specchi,
ai divani ricoperti di stoffe preziose di Rava e di Carminati, Papini parla di
«trovatine di dubbia lega e di dubbio gusto», di affermazione dell' «uomo
82 Made in Italy

effeminato». Nervosa è la replica di Rava che si definisce «stupito che una


persona intelligente quale Lei è, si sia lasciata andare a trascendere da un
giudizio estetico ( che, giusto o sbagliato, non importa, è sempre lecito) ad
un giudizio di ordine morale, che, invece, lecito assolutamente non è. An­
che a parte il fatto che parlare di 'effeminatezza' a proposito di due posa­
tissimi. . . padri di famiglia, quali siamo Carminati ed io, è cosa sommamen­
te comica e ridicola (e non certo per noi ! ) rimane il fatto, ripeto, che non si
può considerare lecito di stampare insinuazioni gratuite di tal genere ! »27
A leggere i resoconti, le cronache, le recensioni del tempo si direbbe
che uno dei maggiori dubbi era se il design dovesse prevalere nell'arredo
e nel mobile, in definitiva nel dominio dell'architettura, piuttosto che in
quello dei nuovi settori di sviluppo: alcuni dicevano e sostengono ancora
oggi che il campo del mobile è paradigmatico per il design, mentre altri so­
no dell'avviso che quest'ultimo riguardi soprattutto i prodotti tecnologici.
Alla V Triennale, la Mostra internazionale dei trasporti, curata da Pu­
litzer e Cosulich, e quella delle carrozze ferroviarie, con il vagone proget­
tato dall'Ufficio tecnico della Breda di Milano con la consulenza di Paga­
no e Ponti, sembrano accreditare la seconda alternativa. D'altra parte, al­
la Triennale successiva «il problema dell'abitazione viene posto tenendo
conto delle esigenze precise della produzione industriale e delle potenzia­
lità tecnologiche ad essa connesse. È questo il caso della gommapiuma Pi­
relli, materiale che permette di ottenere profili molto sottili e sagomati nel­
le più varie forme geometriche; viene adottato in molti arredamenti p re­
sentati alla Mostra dell'Abitazione. [ ... ] Albini, Camus, Clausetti, Gardel­
la, Mazzoleni, Minoletti, Mucchi, Palanti e Romano disegnano l'arreda­
mento per una casa d'affitto media, dove i mobili sono studiati su una ma­
glia modulare di 66 cm, considerata come ottimale rispetto alle diverse esi­
genze dei singoli pezzi d'arredo. Il rinnovamento tipologico dell'alloggio
tradizionale comporta l'elaborazione di un tipo di mobile totalmente nuo­
vo, che risponda a varie funzioni, come l'armadio studiato da Banfi, Bel­
gioioso, Peressutti e Rogers (BBPR) per la parte notturna di un' abitazione.
[ . . . ] Albini afferma che il gusto moderno 'ha tra le sue chiare caratteristi­
che l'avversione alle cose di eccezione, alla ricerca del nuovo per il nuovo,
alle acrobazie della tecnica, ai pezzi unici, e ha invece predilezione per i
materiali comuni e poveri, per le soluzioni tecniche piane e pure, per gli
oggetti in serie'»28.
L'autore appena citato, Andrea Nulli, nel suo intervento nel libro di
Gregotti sul design, illustra alcuni aspetti trascurati nella vicenda del pri­
mo Razionalismo italiano. «Gli anni che vanno dal 1 93 1 al 1 93 7 , egli scri­
ve, assistono ad un avvicinamento graduale tra il regime fascista e gli ar­
chitetti razionalisti». Dopo aver ricordato le opere d'architettura più si­
gnificative, dalla stazione ferroviaria di S. Maria Novella alla casa del Fa-
V. Il design razionalista 83

scio di Como, e quanto legati al fascismo fossero Pagano e Terragni, Nulli


prosegue: «anche l'arredo perdé quella magniloquenza pretenziosa che
usualmente caratterizzava gli uffici di rappresentanza. Negli uffici del 'Po­
polo d'Italia', organo ufficiale del partito fascista, Giuseppe Pagano porta
alle estreme conseguenze questo processo di spoliazione dell'arredo di
ogni connotazione simbolica di potere. Al contrario, l'aspetto seriale, qua­
si comune, di questi mobili in tubo cromato, allude alla fede di Pagano nel­
la natura popolare del fascismo. Scuole, caserme, colonie marine e monta­
ne si riempiono in questo periodo di mobili a struttura metallica, con ri­
piani in vetro o in compensato ricoperto di linoleum. Da una parte sono
gli stessi architetti razionalisti ad avere un particolare interesse a progetta­
re per l'utenza pubblica, in quanto occasione privilegiata per un'architet­
tura a cui si attribuisce il carattere di 'servizio sociale' . Dall'altra le indu­
strie del settore, dalla Cova alla Colombo alla Parma, hanno una notevole
convenienza nell'adeguare la loro produzione a questo tipo di mercato,
che richiedeva grossi quantitativi di arredi fatti in serie»29.
Che gli affari fossero soddisfacenti lo dimostrano le cifre. Nel '33 le sta­
tistiche fornite dalla Federazione nazionale fascista dell'industria del legno
indicano 1472 fabbriche di mobili con 2 1 .799 operai e 35 .000 artigiani.
Certo, si tratta di un settore spesso estraneo alla cultura del design, diver­
sificato fra la piccola, la media e la grande industria; fra gli stili standar­
dizzato, ' classico italiano' e ' classico francese'; per luoghi di produzione,
che vanno dalla Brianza, che presenta un primato nazionale per il numero
di imprese di media importanza, alla provincia torinese, principale centro
per il mobile di lusso; dal Trentino, famoso per i mobili di metallo, alla zo­
na di Venezia, nota per i mobili laccati, fino a Cascina, dove la produzione
è destinata in gran parte all'esportazione. «E non si pensi che tali centri
p roduttivi fossero del tutto sprovvisti di strutture organizzative: la pubbli­
cità del centro di Cantù, apparsa nel 1 935, documenta una rete associati­
va composta di addirittura duecentocinquanta fabbriche, garanti di arredi
completi in ogni stile, la stessa che nel lontano 1 893 già caratterizzava la
produzione del paese»30.
A questa notevole ed eclettica produttività dell'industria del mobile nel
Nord Italia vanno attribuiti due vantaggi rispetto a quelle del resto del pae­
se. Per ciò che riguarda la quantità, ad essa si deve un ambiente economi­
camente favorevole in cui operare; quanto all'eclettismo, esso offriva, a
portata di mano, i punti nei quali era più facile una correzione d'indirizzo
da parte della cultura del design.
Un ruolo notevole per la diffusione del disegno industriale e in genere
per il rinnovamento delle merci viene giocato in termini più pratici delle
Triennali e in un'ottica businesslike dalla Fiera Campionaria di Milano.
Questa ebbe inizio nel 1 920, agì da stimolo per l'economia regionale e na-
84 Made in Italy

zionale, fece da ponte tra i paesi occidentali e quelli dell' est co� �nista, n é
. . .
mancò di essere per decenni un campo di sperimentaztone st!hst!ca pn­
.
?
ma per i futuristi, poi per i razionalis� i, � oderni e post-m o � rni, ra� pre­
.
sentando un eccezionale campo applicativo per la pubbhctta ed tl vtsual
design. . .

Nell'edizione del 1928, oltre che per i significativi impianti architetto-


nici ed espositivi, la Fiera riscosse un grande successo grazie al «Salone
dell'automobile che allineava nel teatro progettato da Luciano Baldessari
la produzione di ben dieci industrie italiane, dai prototipi dell'Alfa Romeo
e della Lancia ai modelli Fiat, Isotta Fraschini, Itala, ecc. Spazio dunque
all'automobile, ma anche alla motonautica (in giugno) e all'aviazione. Nel
1 930, infine, alla Campionaria, si esposero quei motori per aereo che die­
dero il via all'epopea dell'aeronautica sportiva. Dal 1 93 2 anche la Fiera,
come la Triennale, rappresenta un'occasione per non perdere i contatti ol­
tralpe: quell'anno Pagano fu chiamato a realizzare 'modelli di ambienti
moderni' nello stand della Società del linoleum. E non è l'unico nome si­
gnificativo che si incontra»3 1 .

Alcuni prodotti emblematici

Fra gli oggetti più tipici del primo Razionalismo era la radio. Questa na­
sce in seguito alla produzione, nel 1 929, delle prime valvole direttamente
alimentate dalla corrente domestica, semplificando al massimo il p rece­
dente sistema di ricezione; in tal modo il vecchio apparato tecnologico si
trasformava in un mobile, che rientrava nel dominio dell'artigianato prima
e del design dopo. La produzione corrente segue tutti gli stili dal Liberty
al Futurismo, dall'Art Déco al Protorazionalismo, finché il tema non viene
affrontato dai razionalisti veri e propri rappresentando uno dei pochi pun­
ti d'incontro con l'industria in questo periodo.
La radio fu per molti anni, prima, durante e dopo la guerra un prodot­
to che segnò un'epoca, così come la televisione ha segnato l'epoca in cui
viviamo. Al suo esordio l'apparecchio a galena, per il suo ascolto in cuffia,
rispondeva ad un uso individuale e richiedeva una camera appartata; suc­
cessivamente, l'invenzione dell'altoparlante consentì a più persone di sen­
tire voci e suoni, donde la disposizione dell'apparecchio nel soggiorno o in
salotto; da qui la necessità di inserirlo in un mobile, ben presto arricchito
di un giradischi, rendendolo radio-grammofono. Già nel 1 929 si contava­
no in Italia centomila apparecchi, confezionati artigianalmente senza ec­
cessiva cura per la forma, ma ben presto, come dicevo, questa seguì fedel­
mente tutti gli stili in voga. «Poi la sua 'storia' venne decisamente condi­
zionata dall'importanza che questo mezzo di comunicazione guadagnò
58. Televisore della Magneti Marelli, 1 938.
59. F. Albini, apparecchio radio, 1 93 8 .
60. L. Figini e G . Pollini, mobile radiogrammofono, modello «Domus>>, 1 9 3 3 .
61. L . e P. G . Castigliani con L . Caccia Dominioni, radioricevitore Phonola, 1 93 8-40.
86 Made in Italy

nella politica di diffusione dell'idea fascista. Si innestò allora anche in Ita­


lia un processo di produzione industriale e nel 1 93 0 sorse Radiomarelli,
consociata della fabbrica italiana Magneti Marelli di Sesto San Giovanni.
Fu così possibile produrre e diffondere modelli a prezzo politico come la
Radio Balilla, standard, costruita dal 1 93 7 da diverse ditte e venduta a bas­
so costo, per incre�entarne l'ascolto nelle famiglie italiane»32.
Nel 1 93 3 , in occasione della V Triennale fu bandito un concorso dalla
rivista «Domus», sponsorizzato dalla Società anonima nazionale del gram­
mofono, nel quale si richiedeva al progetto vincitore modernità della for­
ma e costo minimo. Figini e Pollini si aggiudicarono il primo premio rea­
lizzando un apparecchio composto da una scatola in ebano macassar e no­
ce del Caucaso, sorretta da quattro sottili gambe d'acciaio. Realizzato in
soli 200 esemplari nella versione originale venne poi modificato in un mo­
dello da tavolo, privo di grammofono, posto in vendita a sole 1 .050 lire
contro le 4.300 lire del modello originale. Un analogo concorso fu bandi­
to alla Triennale successiva e questa volta vinto, con un modello meno co­
stoso realizzato in legno e materiali dell'industria italiana, da un gruppo di
progettisti formato da Ennio Paolucci, i BBPR, Angelo Bianchetti e Cesa­
re Pea. Nel '38 Franco Albini proponeva una radio in cristallo securit, ma­
teriale nuovo, elastico e solido, composto da due lastre portanti che nella
loro trasparenza lasciavano vedere i meccanismi interni ivi compreso l'al­
toparlante.
«Ma la celebrazione dell'apparecchio radio disegnato sarebbe avvenu­
ta in occasione della VII Triennale, nel 1 940. La manifestazione milanese
dedicò infatti a quest'oggetto un'intera rassegna. Ormai mitico l'esempla­
re progettato da Luigi Caccia Dominioni con Livio e Pier Giacomo Casti­
gliani, una radioricevente per la Phonola, messa a punto tra il 1938 e il
1 940, a cinque valvole. Con la scocca in plastica nei più svariati colori era
ben lungi dal voler imitare legni pregiati e poteva essere appesa al muro o
appoggiata su una superficie. 'Non solo la forma della custodia è dovuta
all'opera degli architetti, ma il loro intervento si è esteso anche alla razio­
nale disposizione dei pezzi radioelettrici che tale custodia determinano.
Solo così è stato possibile ottenere quella aderenza e coerenza fra conte­
nuto e contenente che è il fondamento dell'oggetto razionalmente conce­
pito e quindi con buon gusto presentato' . Così lo commenta Pagano che
sottolinea come 'questo ricevitore non ha più nulla del mobile, la forma
della sua custodia è, come quella di una qualunque macchina, generata da
linee che rispondono a esigenze e concetti esclusivamente scientifici ri­
spetto al funzionamento, tecnici rispetto alla costruzione, pratici rispetto
all'uso dell' apparecchio'»33.
Alla radio va accostato un altro prodotto «per comunicare»: il telefono,
tra quelli che hanno subito il maggior numero di perfezionamenti sia tec-
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62-64. M. Zanuso e R. Sapper, telefono Grillo per Siemens-Auso, 1 965.


65 . Giugiaro, design per il telefono cellulare G80 per Telecom, 2004.
66. Cellulare Motorola 8200.
67 . Fase Design, videotelefono Theseus per Aethra, 2004.
88 Made in Italy

nici che formali, fino ai telefonini cellulari, ovvero l'oggetto più personale
ed usato al giorno d'oggi.
.
Senza risalire alla paternità dell'invenzione del telefono - per anm con­
tesa tra Alexander G. Beli e Antonio Meucci che prevalse grazie al ricono­
scimento nel 1 886 della Corte Suprema degli Stati Uniti -, si deve all'in­
dustria americana Ìo sfruttamento e l'organizzazione tecnico-commerciale
del prodotto. Questa straordinaria invenzione tecnica interessa il design,
in verità, solo per aspetti marginali. In Italia, come prima negli altri paesi,
l'apparecchio telefonico comincia ad esser tale per un insieme di forme
«discrete» (la cornetta, il microfono, la manovella per chiamare il centrali­
no) salvo ad evolversi in forme continue fino ad una sorta di unitaria con­
chiglia da contenere in una mano. I più diffusi modelli di telefono nel no­
stro paese sono quello della Satis del 1 923 in metallo e quello della Face
del 1940 in bachelite; il primo telefono firmato si vedrà solo nel 1 959, di­
segnato da Lino Saltini e prodotto dalla Sit Siemens. Quale nota di costu­
me, ricorderemo lo status symbol che i film dell'epoca assegnavano ai te­
lefoni bianchi, più costosi di quelli neri di uso comune.
Una segnalazione particolare merita il più recente telefono Grillo di Za­
nuso e Sapper, il cui progetto venne completato nel 1 965 , dopo più di un
anno di verifiche d'uso pratico e di laboratorio, entrato in produzione re­
golare nel 1 967 e premiato nello stesso anno con il Compasso d'Oro. La ri­
chiesta della committenza era chiara: eliminare la fissità e facilitare la mo­
bilità appena vincolata dalla lunghezza del filo che collegava pur sempre il
telefono alla spina; quanto alla soluzione formale, la novità era che l' appa­
recchio assumeva a riposo una configurazione compatta e di minimo in­
gombro e, durante l'uso, un'altra, tale da essere contenuto in una mano.
La suoneria era collocata nella spina ed emetteva il classico suono che die­
de nome al telefono. Che il Grillo sia diventato una icona del moderno
design è ben spiegato dallo stesso Zanuso: «la nuova e particolare postura
informale che l'oggetto suggeriva all'utente indusse alla sua forma un che
di personale, di intimo, segreto e sussurrante, quasi sexy. Mi domandi se
questa non sia una concessione, in quegli anni di polemica tra 'organico' e
' razionale' , e infatti mi stupii che qualcuno mi facesse notare già allora che
il disegno sembrava in qualche misura ricercato, persino formalista. Con­
testare l'organicità dell'oggetto mi pare derivi dal fatto che troppo spesso
mi si appiccica l'etichetta di razionalista. Che mi guardo bene dal rifiuta­
re, ma che non mi sembra esaurire né le mie intenzioni né gli esiti»34• Nes­
sun dubbio che il Grillo sia stato un archetipo degli odierni telefonini cel­
lulari.
Ritornando al periodo in esame, un altro prodotto emblematico degli
anni pre-bellici è il mobile metallico, segnatamente il modello di sedia a
sbalzo - ossia con un unico tubo piegato in modo da sostenersi senza mon-
V. Il design razzònalista 89

tanti posteriori, raggiungendo quindi un notevole grado di elasticità. Tale


modello, inventato dall'architetto olandese Martin Stam nel 1 924, ripreso
da Breuer nel '25 e da Mies van der Rohe nel '27 in occasione del quartie­
re Weissenhof di Stoccarda, fece la sua prima apparizione in Italia nella
Galleria «Il Milione» nel '30. Da questa data il tubolare d'acciaio cromato
è un elemento che entra in ogni tipo di mobile, specie quelli da ufficio, in
pratica sostituendo il tondo di legno usato da Thonet, la cui ditta adotta
anch'essa negli stessi anni il tubo metallico. Molte aziende italiane pro­
dussero questo tipo di sedie, talvolta affidandole alle variazioni degli ar­
chitetti, talaltra nel modo del tutto anonimo quando un articolo raggiunge
un notevole successo popolare. Oltre le sedie a sbalzo, tutto il settore del
mobile metallico subisce in questo periodo una notevole accelerazione,
specie ad opera della ditta Columbus, attiva per un tempo insolitamente
lungo.
Con il mobilio metallico che crea un genere nuovo, l' «arredo per uffi­
ci», si sviluppa notevolmente anche un altro, quello delle macchine da scri­
vere e da calcolo. L'azienda leader è fondata nel 1 908 dall' ingegnere Ca­
millo Olivetti. Questa nasce e si sviluppa non solo in termini di concen­
trazione di capitale e mano d'opera, come le grandi industrie che vivono
delle commesse statali, bensì nei termini della ricerca ·progettuale, della
scientificità della produzione, dell'organizzazione delle vendite e della ri­
spondenza alle esigenze del consumo, owero delle quattro componenti
del design. I primi modelli che riscossero un successo internazionale furo­
no la M20, p rodotta nel 1 922 su progetto dello stesso Olivetti ; la M40 del
1 93 1 , progettata da Olivetti e Gino Martinoli; la M.P l , disegnata nello
stesso anno dall'ingegner Aldo Magnelli, fratello del pittore astrattista Al­
berto. L'esperienza americana di Camillo Olivetti, assistente di elettrotec­
nica alla Stanford University, gli consentì di applicare alla sua azienda i me­
todi più avanzati del fordismo, tant'è che, grazie alla linea di montaggio, i
tempi di realizzazione di una macchina da scrivere passarono da 1 2 a 4 ore.
Inoltre la Olivetti si segnalò anche per una moderna politica culturale e di
democrazia aziendale che ritroveremo sviluppata al massimo quando nel­
la direzione dell'azienda al fondatore subentrerà suo figlio Adriano.
Altri prodotti emblematici della tecnica e del costume del tempo sono
gli elettrodomestici. Si può dire che questi fanno la loro prima apparizio­
ne nella citata «Casa Elettrica» nella Biennale di Monza del '30 e s'impon­
gono sul mercato con una certa lentezza, nonostante l'interesse dei consu­
matori. In un primo tempo gli elettrodomestici, oltre che da piccole azien­
de specializzate, ma con scarso potenziale distributivo e pubblicitario, ven­
gono prodotti da alcune grandi industrie quasi come momento promozio­
nale e p ropagandistico: si pensi ai frigoriferi Fiat. A differenza di quanto
aweniva all'estero, in Italia mancava l'interesse che per questo settore ave-
90 Made in Italy

vano i designer americani e nord-europei, mancava� o saloni quali �uell?


. . .
delle Arts Managen di Parigi. Fanno ecceziOne alcum prodotti quah l aspi­
rapolvere Primo della Scaem (Società di costruzione di apparecchi dome­
stici della Marelli), presentato alla Fiera Campionaria di Milano nel 1 928
e a quella del Levapte di Bari nel 1 93 1 , e i frigoriferi della Frigidaire, una
marca che ne diventerà sinonimo. Abbiamo incluso gli elettrodomestici
nei prodotti emblematici degli anni Venti e Trenta solo quale avvio di un
settore che negli anni del boom si portò ai primi posti delle vendite; come
per dire di giovani prodotti che «diventeranno famosi».
Diversa sorte toccò al settore delle lampade, definito in maniera perti­
nente e inclusiva, data la varietà delle soluzioni, come la «messa in forma
della luce». Pietro Chiara, dal 1 93 3 designer per Fontana Arte, propone
forme semplici e volumi elementari per le lampade da terra, da soffitto e
da scrittoio; nella stessa linea Franco Albini disegna lampade per Biancar­
di e Jordan ( 1 93 3 ) ; Gio Ponti è autore degli apparecchi luminosi in metal­
lo e vetro per gli uffici Rai di Milano ( 1 932-39) e per il Palazzo della Mon­
tecatini ( 1 93 8). Un ruolo eminente in questo campo è quello svolto da Gi­
no Sarfatti, designer di lampade e fondatore dell'azienda Arteluce che rea­
lizzerà progetti dei BBPR, di Viganò, Latis, Parisi, Frattini e Zanuso.

Il razzònalismo fascista

È stata distinta la politica culturale propria degli Stati e dei partiti poli­
tici dalla politica della cultura, ovvero esercitata dagli uomini di cultura in
quanto tali, liberi dal potere superiore, e pertinente agli specifici campi dei
loro interessP5. Il regime fascista ebbe una politica culturale volta agli in­
teressi del partito e di uno Stato da esso governato, donde le manifestazio­
ni della sua ideologia, dei miti e della propaganda e quindi di uno stile fa­
scista. Tranne qualche eccezione, tutta l'intellighenzia italiana del tempo
era politicamente legata al fascismo, ivi compresi quelli che saranno i mag­
giori architetti e designer; si pensi a Terragni, Pagano, Nizzoli, Munari,
ecc. Tuttavia, per restare nel nostro campo, il ventennio dal '20 al '40 ve­
deva il Razionalismo internazionale fortemente presente nell'intera sfera
delle espressioni artistiche, dall'architettura alle arti visive, dal design alla
grafica, formando appunto una generalizzata politica della cultura.
Le personalità più avvertite del fascismo tentarono di conciliare queste
due culture, molto spesso senza riuscirvi. Infatti la contraddizione si veri­
ficava nei seguenti termini: tradizione e innovazione, nazionalismo e mo­
dernità; e se la prima coppia poteva trovare un conciliante compromesso,
la seconda comportava termini totalmente incompatibili, perché non si dà
azione moderna che non sia anche internazionale. In questa contradditto-
68. M. Nizzoli ed E. Persico, allestimento pubblicitario nella Galleria di Milano, 1 93 4 .
92 Made in Italy

ria maglia era spesso possibile far passare iniziative vantaggiose per le atti­
vità culturali, quali l'organizzazione di esposizioni, manifestazioni, conve­
gni, attività pubblicistiche, ecc., che salvavano in senso liberale la faccia del
regime e talvolta erano patrocinate di buon grado da alcuni gerarchi più
avvertiti culturalmente. Cosicché, accanto ad uno stile ufficiale ne esisteva
un altro, consentito in nome della modernità e del desiderio di non essere
da meno di quanto si sperimentava altrove, donde il cosiddetto fascismo
di destra e di sinistra. Al primo apparteneva tutto ciò che intendeva signi­
ficare l'architettura di archi e colonne, nonché altri riferimenti alla roma­
nità antica; nel secondo rientrava tutta la produzione ad alto contenuto
tecnologico/funzionale quali treni, auto, moto, ecc.; nonché quelle tipolo­
gie edilizie di carattere eminentemente pratico, esonerate in quanto tali da
ogni obbligo celebrativo. Non è da escludere che, nonostante questa di­
stinzione e la stessa militanza nel partito fascista, molti aderirono al Razio­
nalismo in nome dello «spirito del tempo» e della cultura senza aggettivi.
Per entrare nel vivo del razionalismo fascista, inteso nel senso di un'a­
zione migliore e di una storicità meglio avvertita, è necessario dilatare il
campo del design ad un'area più estesa, quella dell' «arte utile», compren­
dente l'architettura, la pittura concreta e quant'altro appunto è orientato a
perseguire un obiettivo oltre la contemplazione puramente artistica. In­
quadrato in quest'ambito, il nostro tema va riferito al saggio ormai classi­
co di Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica. Esso ci suggerisce soprattutto che quella che chiamiamo arte utile
va senz'altro identificata con l'arte «riproducibile»; vale a dire con un'arte
che, per esigenze tecniche e sociali, ha perduto l'aura e il valore cultuale
del capolavoro unico e irriproducibile. E qui abbiamo il primo elemento
di identificazione del razionalismo fascista. Esso è certamente nella linea
della riproducibilità tecnica, ma presenta ancora un' «aura e un valore cul­
tuale». Un secondo elemento è la prevalenza del significato connotativo su
quello denotativo degli oggetti. In altre parole, anche nei prodotti miglio­
ri del design databili agli anni Trenta, c'è sempre un che di dimostrativo ol­
tre il piacere funzionale, uno spirito di réclame; sembra che quegli oggetti
aspirino ad un primato su quelli di altre nazioni; in breve una retorica che
non troviamo solo negli scritti di Ponti o di altri autori legati alla politica
culturale del regime, ma negli stessi oggetti, nel loro «messaggio». Queste
connotazioni dello stile fascista iniziano col Futurismo, proseguono nel
Novecento, s'incarnano nel primo Razionalismo, dominando nella grafica
e nelle riviste specializzate.
Le sanzioni con il loro corollario di materiali autarchici contribuiscono
a questa italianità retorica, valgono a dimostrare, peraltro legittimamente,
che comunque «riusciamo a farcela». «Il numero di 'Domus' del dicembre
1 935 si apre con un appello vivace e aggressivo di Ponti alle forze produt-
69. M. Nizzoli ed E. Persico, Sala delle Medaglie d'oro dell'Aeronautica italiana, Palazzo dell'Arte,
Milano, 1 93 4 .
94 Made in Italy

tive italiane. Rispondendo al recente imperativo delle sanzioni, egli ne sot­


tolinea tutti gli aspetti positivi e invita a demolire il mito della superiorità
del prodotto estero in nome di una 'battaglia da ingaggiare' a favore della
qualità del lavoro italiano. [ ... ] Benché il discorso di Mussolini alla secon­
da Assemblea nazionale delle corporazioni - il 23 marzo 1 93 6 -, nello spe­
cificare l'esigenza di una politica economica autonoma, sottenda un pro­
gramma autarchico soprattutto per quelle industrie chiave dell'economia
nazionale - cioè le metallurgiche, le meccaniche, le chimiche - che, già in
gran parte controllate dallo Stato attraverso l'IRI, potevano garantire l'in­
dipendenza dell'industria pesante, Ponti indirizza il suo richiamo in favo­
re di una qualità italiana vittoriosa accentuando essenzialmente quei setto­
ri produttivi - a lui cari - delle arti decorative»36. L'esigenza autarchica ve­
niva recepita dalle imprese coinvolte nella definizione dell'oggetto di arre­
do, sia come espressione politica sia come valorizzazione del ruolo del pro­
gettista, a garanzia di una qualità produttiva e di una auspicabile possibi­
lità di standardizzazione e di tipizzazione dell'oggetto.
Una ulteriore prova che lo stile fascista nel design tenda a rappresenta­
re piuttosto che a conformare sta nel fatto che i nostri autori migliori si im­
pegnano nell'arredamento, nell'allestimento, nella pubblicità grafica - ar­
ti prevalentemente espositive - piuttosto che nella conformazione del sin­
golo prodotto. Opere assai significative come la Sala delle Medaglie d'oro
di Nizzoli e Persico realizzata nel 1 934, la Struttura pubblicitaria nella
Galleria di Milano degli stessi autori e dello stesso anno, il Salone d'onore
della VI Triennale ( 1 936) progettato da Nizzoli, Palanti e Persico, la Sala
dell'oreficeria antica ( 1 93 6) di Albini e Romano recano il segno di una
grande innovazione, ma anche quello di una muta retorica. Della prima
opera sopra citata Zevi scrive: «la poetica Sala delle Medaglie d'oro alla
Mostra dell'aeronautica del 1 934 fu inventata probabilmente da Persico,
ma Nizzoli seppe realizzarla. Resta tuttora il principale contributo italiano
alla storia delle moderne concezioni spaziali. Svincolando l'ordito ritmico
dei filamenti d'acciaio dai limiti dell'involucro murario, delineando cioè
una sottilissima maglia strutturale libera da ogni funzione statica, sospen­
dendo sui tralicci mobili pannelli e setti in dinamica asimmetria, l'intellet­
tuale e l'artigiano esprimevano anzitutto la condizione esistenziale, kafkia­
na, ermetica dell'arte durante il periodo fascista, e al contempo elaborava­
no una formula espositiva che, a distanza di oltre trent'anni, viene siste­
maticamente rinnovata, quasi vincendo la legge dell' entropia»37. Di alcu­
ne delle opere citate Gregotti scrive: «i telai diventano filiformi strutture.
Essi servono ad Albini e a Persico per misurare lo spazio, dilatarlo o com­
primerlo, per creare diaframmi, e costituiscono al tempo stesso supporti
per gli oggetti dell'esposizione. [ . ] sottili aste a sezione quadrata sosten­
. .

gono le teche di cristallo nella Sala dell'oreficeria, nei due negozi Parker di
V. Il design razionalista 95

Milano (Persico, .1 934 e 1 93 5 ) ; anche i diaframmi in muratura ideati da


Persico per la Sala della Vittoria ( 1 936) non sono pensati come decorazio­
ne o come parte aggiunta all'architettura, ma ' ne costituiscono quasi l'ar­
gomento per la loro stereometria'»38. Descrizione e commenti sono
senz'altro da condividere, ma che nella maggioranza di questi allestimenti
vi sia una connotazione politica è altrettanto vero.
Ne ebbe chiara coscienza lo stesso Persico. Giulia Veronesi ne testimo­
nia la profonda amarezza per aver collaborato ad opere, come ad esempio
il volume sull'Arte romana o l'allestimento della Sala delle Medaglie d'oro
che, suo malgrado e indirettamente, risultavano apologetiche del regime
ch'egli avversava. «Questo lavoro, diceva Persico riferendosi all'Arte ro­
mana, resterà come una macchia nella mia vita. Non avrei dovuto occu­
parmene». Per tali precedenti la sua domanda di collaborazione alla rivi­
sta «Campografico», d'intransigente antifascismo, veniva respinta, donde
una riconferma della sua solitudine: «né di qua né di là. Con nessuno
più»39_

Note

1 A. Bassi, La luce italiana, design delle lampade 1945-2000, Electa, Milano 2003, p. 18.
2 V. Gregotti, L. Berni, P. Farina, A. Grimaldi, Per una storia del design italùmo, 19 18- 1940. No-
vecento, Razionalismo e la produzione industriale, in «Ottagono>>, n. 36, marzo 1975.
> Cfr. A. Lalande, Dizionario crittco di/iloso/ia , !sedi, Milano 197 1 , p. 2 15 .
4 A. Martinet, Elementi di linguistica generale, Laterza, Bari 197 1 , p. 32.
5 E. GatToni, Semiotica ed estetica, Laterza, Bari 1968, p. 23.
6 Fondazione e Manz/esto del futurismo, cit. in M . De Micheli, Le avanguardie artistiche del '900,
Schwarz, Milano 1 959, p. 3 5 1 .
7 G. Chessa, La nuova costruzione moderna per u//ia; in Torino, ml corso Vittorio Emanuele, in
<<Domus», giugno 1930.
8 Gregotti, Berni, Farina, Grimaldi, Per una storia del design italiano, 1918- 1940 cit.
9 Ibid.
to
T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 29-30.
11 S. Giedion, L 'era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, p. 559.
12 lvi, p. 558.
u lvi, p. 562.
14 E. Frateili, Design e civiltà della macchina, Editalia, Roma 1969, p. 1 30n.
" W.D. Teague, Design This Day: tbe Tecbnique o/ Order in tbe Macbine Age, Harcourt. Brace
& Co., New York 1940, cit. in G. Massobrio, P. Portoghesi, Album degli anni Trenta, Laterza, Ro­
ma-Bari 1978, p. 320.
1 6 G. Veronesi, Stile 1925, Vallecchi, Firenze 1966, p. 123.

1 7 lvi, pp. 123 - 124.


ts .
M.C. Tonelli Michail, Il design in Italia 1925143, Laterza, Roma-Ban 1987, pp. 29-30.
1 9 G. Ponti La Triennale di Monza, in «Domus», maggio 1 930.
20
E. Persic� , in «Belvedere», marzo 1 930, ora in Tutte le opere (1923-1935), Edizioni di Comu-
nità, Milano 1 964, p. 9.
21
Id., in «La Casa Bella», maggio 1930, ora in Tutte le opere ci t., pp. 1 1 - 1 3 .
22
Id., scritto per «Belvedere», ma non pubblicato, ora in Tutte le opere cit., p. 14.
n Id., in «La Casa Bella», luglio 1 930, ora in Tutte le opere cit., pp. 15- 16.
2 4 Tonelli Michail, I l destgn in Italia 1925/43 cit., p. 47.
2 5 G. Ponti, Caratteri delle arti decorative, in «Domus», luglio 1933.
96 Made in Ita!y

26 Citato in Gregotti, Berni, Farina, Grimaldi, Per una storia del design italiano, 1 9 1 8- 1940 cit.
27 C.E. Rava, Necessità di un 'arte di lusso, in «Rassegna italiana», agosto-settembre 1936.
28 A. Nulli, Le Triennali razionaliste, in V. Gregotti, Il disegno del prodotto industrùde, Italia
1860- 1980, Electa, Milano 1982, pp. 207-208.
29 Id., L'arredo razionalista per le istituzioni, in Gregotti, Il disegno del prodotto industriale cit., p.
209.
3 0 Tanelli Michail, Il-design in Italia 1925143 cit., pp. 5 3 -54.
31 A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, Laterza, Roma-Bari 1 993 , p. 18.
32 Ivi, p. 69.
33 lvi, pp. 69-70.
34 M. Zanuso, Un archetipo, in <<Stile Industria», anno I, n. 3, settembre 1995.
35 Cfr. N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, pp. 32-46.
36 Tone!Ji Michail, Il design in Italia 1925/43 cit., pp. 58-59.
37 B. Zevi, Il pioniere del de;-ign italiano, in Cronache di architettura, vol. VII, Laterza, Bari 1970,
p. 353.
38 Gregotti, Berni, Farina, Grimaldi, Per una storia del design italùmo, 1 9 1 8- 1940 cit.
39 G. Veronesi, Dz//icoltà politiche dell'architettura in Italia 1920- 1940, Tamburini, Milano 1 955,
pp. 108- 1 10.
Capitolo sesto Lo stile della plastica

Le plastiche storiche

Tra le componenti maggiori del Razionalismo «continuo» sono le ma­


terie plastiche. A sentire alcuni storici del design, dopo il primo Raziona­
lismo si sarebbe avuta in Italia una svolta «organica», segnatamente nel
campo del mobile, in qualche modo in seguito alla diffusione dei prodotti
scandinavi, al relativo uso del legno, alla morbidezza di alcune loro forme,
ecc. Sono persuaso che una svolta stilisti ca nel campo di ·cui ci occupiamo
si sia verificata invece quando dal Razionalismo «discreto» si sia passati a
quello «continuo» a causa, tra l'altro, dei nuovi e numerosi materiali sin­
tetici che vanno sotto il complessivo nome di «plastica». Ma prima di que­
ste plastiche moderne vanno segnalate le cosiddette «plastiche storiche».
L'aggettivo che si trova nell'espressione «materie plastiche» deriva da
un vocabolo greco che significa «plasmabile»; a renderle tali è la loro strut­
tura composta da molecole, non formate da pochi atomi come la maggio­
ranza dei composti chimici, bensì da lunghe catene di atomi o macromo­
lecole. Molte materie naturali, quali la cellulosa, la lana, la seta, la gomma
degli alberi, la gomma lacca degli insetti, il guscio di tartaruga, il corno,
ecc., posseggono questa proprietà e da esse o dalle loro molecole furono
ricavate, con opportune lavorazioni, a partire dal 1 820, le prime materie
plastiche: la vulcanite ( 1 83 9), la parkesina ( 1 862) , la celluloide ( 1 870), la
bachelite ( 1 907) , ecc. Con quest'ultimo materiale, largamente utilizzato
per la fabbricazione di interruttori, maniglie per porte, apparecchi telefo­
nici, contenitori, ogni sorta di manici, si verificò il passaggio dai prodotti
semi-sintetici a quelli di sintesi, le cosiddette «plastiche moderne» di cui
diremo nel p rossimo paragrafo.
In generale, ma segnatamente per le materie più nuove, è stato osserva­
to: «questi materiali presentano, rispetto ai materiali tradizionali, un parti­
colare vantaggio: essi, in genere, non vengono trasformati per dar vita ad
un oggetto, ma 'nascono in vista dell'oggetto stesso' . Ciò consente, anche
98 Made in Ita!y

in campo artistico, di esprimersi in modo compiuto attraverso le resine or­


ganiche, 'creando' non solo la forma, ma anche la sostanza»1. Queste ed al­
tre ragioni inducono a ritenere che la plastica, oltre ad alimentare la linea
di un razionalismo «organico», determina addirittura lo stile dell'intera
gamma dei prodotti con essa costruiti.
Limitandoci per ora alle «plastiche storiche», quelle che hanno con­
sentito la fabbricazione di oggetti oggi démodé, quali montature per oro­
logi da tavolo, scatole, astucci, portasigarette, posacenere, manici per le
posate, vasi e vasetti, fibbie, bottoni, ventagli, trousses, ciotole, lampade,
set da toilette, bibelots, giocattoli, apparecchi radio, insomma di tutto ed a
poco prezzo, ci interessa evidenziare, relativamente agli stili, che tutte que­
ste realizzazioni in parkesina, celluloide, bachelite, ebbero nel Liberty e
nell'Art Déco la loro appropriata espressione stilistica. Soffermiamoci ora
su alcune considerazioni critiche relative ai materiali in esame e in parti­
colare sulla questione imitativa e sul rapporto tra le plastiche e la forma.
In fatto di mimetismo, le «plastiche storiche» seguono un doppio regi­
stro: per un verso imitano inizialmente altri oggetti e altro materiale -
dall'avorio al legno, dalla tartaruga al marmo, dal cristallo alle pietre p re­
ziose, ecc. -, per un altro formano una sorta di catena causale. La parke­
sina genera la celluloide, questa contribuisce alla scoperta della bachelite
e così di seguito fino alla svolta della tecnologia delle macromolecole, di
cui diremo più avanti. Ancora legati al mimetismo sono i vari tipi di pro­
cessi lavorativi; fra i tanti ricorderemo la colata, da tempo in uso in mol­
teplici e talvolta primitivi sistemi conformativi; la calandratura, origina­
riamente adottata per la fabbricazione della carta; la compressione, deri­
vata dalla lavorazione della gomma; l'estrusione, originata dal trattamen­
to della guttaperga; per non citare gli altri numerosi sistemi artigianali
quali l'iniezione, il soffiaggio, lo stampaggio, la termoformatura, ecc.2•
Ma, al di là del materiale e del procedimento tecnico adottati per le resine
storiche, mette conto notare la problematica culturale, estetica e semanti­
ca di dette imitazioni.
Nell'ottica della «cultura del design» - che solo recentemente ha rico­
nosciuto in esse una vena di gioco e di ironia - la fase imitatrice delle pri­
me materie plastiche è giudicata come inautentica, falsa, propria del sur­
rogato e del kitsch. Viceversa, nell'ottica del pubblico, era esattamente
questo aspetto mimetico che attraeva i consumatori. Senza scomodare
principi quali il piacere di vedere richiamate «cose» già note, il senso ras­
sicurante che produce, entro certi limiti, la ripetizione, il bisogno per cui,
accanto ad ogni novità (informazione), vi siano norme e codificazioni (ri­
dondanza) , il pubblico attribuiva alle plastiche storiche vari significati.
Valga per tutti il fatto che esse si dimostravano in grado di riprodurre, pur
essendo un materiale povero, oggetti costruiti da sempre con materiali ric-
70. Oggetti in bachelite.
7 1 . Gruppo G 1 4 , poltrona Fiocco per Busnelli, 1 970.
7 2 . J . Colombo, sedia marmorizzata da Mendini per Kartell, 1 987 .
1 00 Made in Italy

chi, donde il loro prezzo accessibile a tutti, l'economia di interi settori mer­
ceologici, progettati, prodotti e venduti secondo le istanze della società di
massa. Non credo tuttavia di allontanarmi molto dal vero pensando che
queste ragioni socio-economiche non segnassero il motivo principale del
favore e del successo riservato alla plastica. Il pubblico l'apprezzava este­
ticamente per la s�a bravura imitatrice fine a se stessa: si trasferiva, in altri
termini, ad una tecnologia quell'ammirazione che da sempre la gente sem­
plice nutre per l'artista capace di riprodurre la natura e le cose in ogni lo­
ro dettaglio. Il favore estetico era accompagnato dall'interpretazione della
plastica come simbolo della modernità, dello sviluppo e del progresso.
Non è casuale infatti che il fiorire della plastica si verificasse in una stagio­
ne ritenuta, almeno nei paesi vincitori della prima guerra mondiale, felice
e spensierata, oppure in un periodo di superamento di una crisi. Il signifi­
cato della plastica come surrogato si ebbe negli anni che precedettero, ac­
compagnarono e seguirono l'ultima guerra. Finito il tempo delle cose fri­
vole, del gioco, dell'ironia o dell'ingenuità, delle imitazioni del superfluo,
la plastica venne impiegata a sostituire prodotti e materiali di primaria ne­
cessità: dalla gomma per le ruote alle suole per le scarpe, dalla lana ai vari
generi di tessuti artificiali, dai prefabbricati per l'edilizia agli accorgimen­
ti per conservare e proteggere il cibo. Non è escluso che questa esperien­
za di severità, unitamente alle ricerche scientifico-tecniche, originate dalle
esigenze belliche e applicate poi a quelle di pace, abbiano segnato la fine
della plastica d'imitazione e l'inizio della plastica assurta a dignità di ma­
teriale autonomo utilizzato nella maggioranza dei prodotti contemporanei.
In sintesi, col dopoguerra, assistiamo al passaggio dalla fase, per così dire,
artigianale della plastica a quella della sua applicazione ai manufatti della
grande industria, in molti casi guidata dalla cultura del design.
E veniamo al secondo tema preannunziato: le considerazioni sulla na­
tura del materiale e le relative implicazioni formali. Nel saggio Vita delle
forme del 1934, Henry Focillon sosteneva che la nozione di forma non è
separabile da quella di materia; poiché la forma non agisce come principio
superiore su una massa inerte, ma su una materia con determinate caratte­
ristiche, queste sono condizionanti la forma stessa al punto da poter affer­
mare che «la materia imponga la propria forma alla forma», ovvero che le
materie hanno «una certa vocazione formale»3. L'assunto è ineccepibile e
richiama subito alla mente alcuni modelli del design scandinavo (i mobili
di Alvar Aalto, le sedie di Finn Juhl, le ciotole di Tapio Wirrkala, ecc . ) , nei
quali le proprietà del legno sembrano appunto determinare la forma, e le
stesse venature del materiale, assecondate ed esaltate, costituire la decora­
zione degli oggetti. Del resto quella tratta dalla natura dei materiali era
l'unica sorta di decorazione ammessa dalla teoria del design storico a par­
tire da Loos. Ma, ritornando alla plastica, che dire di materie prive di una
VI. Lo stile della plastica 101

precedente esistenza, che anzi, inesistenti in natura, tendono a ricrearla es­


se stesse, giungendo a realizzare dna nuova condizione «naturale» nella
quale la materia sintetica si conforma da sé, segue proprie e autonome leg­
gi? Per un verso, quindi, il principio di Focillon si direbbe inapplicabile al­
le materie plastiche, in quanto polimorfé, disponibili a qualunque confor­
mazione e pertanto scarsamente ispiratrici di una specifica forma; per un
altro verso, s'intuisce subito che vale anche per esse. Notiamo intanto che
le materie utilizzate allo stato di natura sono pochissime e che anche quel­
le ritenute tali subiscono un trattamento; anzi, al confronto della vasta
gamma di materiali disponibili oggi, meraviglia la grande quantità di arti­
fici affrontati dagli artigiani ed artisti del passato per ricavare la dovizia di
forme, oggetti e prodotti di cui erano capaci dalle poche materie prime di­
sponibili allora. Oltre a ciò, come abbiamo appena accennato, in generale,
qualunque materiale naturale o seminaturale, perché diventi un prodotto
utilizzabile, deve essere manipolato: il tronco d'albero deve essere ridotto
in travi squadrate, tavole livellate, listoni, listelli, fogli di legno compensa­
to, ovvero sottoposto a tutte le più aggiornate tecniche di lavorazione; la
pietra, trasformata in blocchi, lastre, pezzi speciali, persino triturata, deve
subire anch'essa tutti i più moderni trattamenti; la creta poi è stata da sem­
pre il materiale soggetto ad ogni sorta di trasformazion-e . Sulla scorta di
questi precedenti, non meraviglia affatto che la plastica (anch'essa non del
tutto estranea alla natura perché in gran parte derivata dagli idrocarburi)
debba essere manipolata; più esattamente manipolata due volte: una pri­
ma per costituire la materia stessa e una seconda per dare ad essa una for­
ma. Ma non si verifica, benché con procedimenti diversi, la stessa cosa per
i materiali naturali, diciamo così, semi-naturali o semilavorati? Cosicché, il
problema della formatività della plastica dipende meno di quanto si pensi
dal suo essere un prodotto artificiale; esso riguarda piuttosto altri aspetti
del rapporto natura-forma. Infatti, poiché non tutti i tipi o sottotipi di ma­
terie plastiche si prestano ad ogni sorta di conformazione, per costruire va­
rie categorie di oggetti si deve ricorrere, se non proprio ad altrettanti tipi
di plastica, almeno ad alcuni gruppi di essi: per una merceologia sarà op­
portuno utilizzare la famiglia delle resine, per un'altra la famiglia degli
esteri, per un'altra ancora la famiglia degli acrilici, ecc.; tutte, a quanto di­
cono gli esperti, riducibili a due classi fondamentali: le termoplastiche, che
conservano la loro plasticità a caldo, passando alternativamente allo stato
fuso per riscaldamento e allo stato solido per raffreddamento, e le ter­
moindurenti, che polimerizzano in modo irreversibile sotto l'azione del ca­
lore o della p ressione, formando una massa dura, rigida e non fusibile4. Se
è vero che tra le materie naturdi, pensate da Focillon, e quelle artificiali,
che utilizziamo oggi, il divario non dipende tanto dalle rispettive sostanze
1 02 Made in Italy

ma dalle diverse tecnologie, allora il principio estetico della formatività re­


sta valido per entrambe.
Più complesso è il problema della riconoscibilità delle materie plastiche
rispetto a quella dei materiali tradizionali. La più scarsa riconoscibilità del­
le prime (ovviarm;nte ad un occhio inesperto) fu una caratteristica scam­
biata per inautenticità. Questa valenza negativa faceva scandalo ai tempi di
Loos e di Van de Velde, che vedevano la plastica come una minaccia alla
moralità del sano artigianato medievale e della sana industria protorazio­
nalistica. Ma oltre questo malinteso moralismo, si è creduto e si continua
a credere che, mentre le materie naturali abbiano una loro storia, simbo­
leggino culture, usi e costumi di epoche e regioni diverse, quelle artificiali
non abbiano affatto tali proprietà. Evidentemente anche questo s'è rivela­
to un preconcetto. Vi sono oggetti di plastica degli anni Venti, Trenta,
Quaranta e Cinquanta, di decenni cioè molto caratterizzanti la vicenda del
nostro secolo, che risultano estremamente emblematici del loro tempo:
non è vero che la plastica non ha una sua storia, ne ha soltanto una più bre­
ve e ovviamente particolare. Anche da coloro i quali, come Ezio Manzini,
assegnano dignità storica prevalentemente alle materie tradizionali - «la
memoria collettiva è popolata di muri di pietra, mobili di legno, materassi
di lana, spade d'acciaio, corone d'oro: in questi stereotipi i nomi dei mate­
riali appaiono carichi dei loro significati più larghi; da questi nomi l'ogget­
to acquista peso e spessore culturale; la pietra è la sua durata, il legno è sim­
bolo dello scorrere del tempo, la lana è il calore dell'intimità, l'acciaio è la
forza fredda. Ogni cultura ha conosciuto simili significanti e significati del
linguaggio delle cose»5 - non può non essere altresì ammessa una storia
delle materie plastiche. Questa «non è lineare: lo stesso nome 'plastica' ha
subito una lenta deriva del significato che oggi è divenuta una vera e pro­
pria crisi. Dall'esotismo al consumismo, dal progresso al degrado ambien­
tale, dalla borsa del supermercato ai componenti aerospaziali, dal kitsch al
design: tutte le connotazioni si sono avvicendate, sovrapponendosi senza
mai elidersi. Oggi dire ' plastica' evoca suggestioni contraddittorie, l'ambi­
guità annulla la capacità evocativa del termine»6. Certo, si può convenire
sulla polisemia del nome, legata del resto al polimorfismo di questo mate­
riale, ma ciò non impedisce di individuarne la storia. Nello stesso nostro
breve excursus, distinguiamo una prima fase imitatrice (le plastiche stori­
che) da una fase del materiale in esame come surrogato di altri (le plasti­
che della penuria) , fino agli sviluppi sorprendenti di esso ad opera della
tecnoscienza Oe plastiche dell'opulenza) ; il che denota una condizione
tutt'altro che statica, ma sempre in movimento, ovvero un processo stori­
co, sia in ordine alle «cose» che ai nomi che le designano. Oggi le plastiche
non imitano più nulla, si danno per le loro intrinseche capacità di confar-
VI. Lo stile della plastica 1 03

mare oggetti e prodotti che, con tutta probabilità, non avrebbero mai vi­
sto la luce ricorrendo ad altre tecnologie.
Pertanto, ritornando all'assunto di Focillon, non è vero che i vari tipi di
plastica non abbiano una loro vocazione formale - si pensi a tutti quegli
oggetti completamente stampati, nei qwi.li non è più separabile la struttu­
ra dalla sovrastruttura, la parte portante da quella portata - ma la presen­
tano soltanto ad un livello diverso da quello tradizionale. Le plastiche so­
no riconoscibili anche dal profano, non solo e non tanto per la durezza, la
grana, il colore ma, per dirla ancora con Manzini, per una «riconoscibilità
leggera», vale a dire per la loro prestazione: «il ' che cos'è' scompare di
fronte all'evidenza del 'che cosa fa'»7. D'altra parte, non è stato forse au­
torevolmente teorizzato che, nell'epoca della riproducibilità tecnica, addi­
rittura alcune esperienze artistico-culturali non possono che essere fruite
«distrattamente»?8

Le plastiche moderne

Pur avendo anticipato alcune informazioni nel precedente paragrafo, lo


stile della plastica va riferito alle opere di questo materiale così come ven­
ne utilizzato in Italia nel dopoguerra, di cui Andrea Branzi tesse un elogio
che condivido puntualmente. «Si può notare che tra il 1 945 e il 1 963 gran
parte dei prodotti di arredo erano realizzati in tubo di ferro, legno, imbot­
titure tradizionali, corrispondenti a un ben organizzato lavoro artigianale.
Ma con lo stabilizzarsi delle imprese [ .. ] le plastiche (in tutte le loro va­
.

rianti) diventarono, durante gli anni sessanta, il materiale di riferimento di


gran parte del design italiano, per i vantaggi che esse offrivano dal punto
di vista tecnico, ma anche per il forte messaggio innovativo che erano ca­
paci di trasmettere. [ .. ] Comincia infatti a emergere la vera ideologia del­
.

le plastiche e il loro ruolo anche simbolico nel design italiano: �sse erano
portatrici di una idea di libertà, di democrazia, di uguaglianza. E la stessa
che Carlo Giulio Argan sosterrà in quegli anni come finalità civile del de­
sign del futuro. Le plastiche sembrarono rispondere spontaneamente a
una nuova scioltezza nelle relazioni umane e nell'arredamento»9. Di que­
sti anni si ricordano le m aggiori opere realizzate in plastica, dal sistema di
sedie m ultiuso per le scuole infantili del ' 6 1 , disegnato da Zanuso e Sapper
e p rodotto dalla Kartell, fino agli oggetti progettati da Enzo Mari per Da­
nese negli anni più recenti. In tali prodotti emergevano i vantaggi del ma­
teriale: «impilabilità, componibilità, flessibilità, lavabilità, trasformabilità.
Con questi termini si indicavano delle qualità d'uso a cui tutti gli utenti at­
tribuivano un valore positivo: una sorta di democrazia prestazionale che la
plastica poteva garantire universalmente»10. Ma, rispetto alle plastiche sto-
104 Made in Italy

riche e a quelle che usammo senza darvi il giusto peso, che cosa, in sostan­
za, portò al radicale cambiamento di questo materiale? Che cosa rese le
plastiche ancor più «continue», per usare una nostra dizione stilistica? An­
zitutto il fatto che esse entrarono totalmente nel dominio della chimica.
Abbiamo già accennato al fenomeno per cui in natura molte materie
hanno la struttura" composta da molecole, proprietà che le rende appunto
plasmabili. Ad opera di Emil Fischer nel l 90 1 , di Herman Staudinger nel
1 922, di Wallace H. Carothers nel 1 930, si giunse alla concezione dei «po­
limeri», ossia di sostanze composte da molecole molto grandi che si otten­
gono a partire da una o più sostanze costituite, a loro volta, da molecole
più piccole (monomeri) attraverso reazioni chimiche dette di «polimeriz­
zazione». In breve, si realizzarono in laboratorio prodotti aventi la de­
scritta struttura macromolecolare riscontrabile in alcune materie presenti
in natura. Oltre che plasmabili, i polimeri risultarono anche dotati di buo­
ne caratteristiche meccaniche, termiche, elettriche, ottiche, resistenti agli
agenti chimici, atmosferici, ecc. Negli anni Trenta e Quaranta furono sco­
perte o prodotte per la prima volta su scala industriale altre materie plasti­
che, quali il cloruro di polivinile ( 1 93 0 ) , il neoprene ( 1 93 1 ) , il polietilene
( 1 93 3 ) , il nylon ( 1 93 5 ) , il poliesterene ( 1 93 7 ) e tutta la sequenza dei suc­
cessivi polimeri. Quanto alla popolarità della plastica, va tra l'altro ricor­
dato che nel 1 948, «con l'immissione sul mercato dei primi secchi e delle
prime bacinelle in polietilene, i consumatori cominciarono ad apprezzare
il valore della plastica. La semplice bacinella è il primo, significativo pro­
dotto domestico in plastica apprezzato in tutte le case. La sua leggerezza,
i suoi colori e soprattutto il suo silenzio devono essere stati vissuti con gran
sollievo dopo il rumoroso recipiente di latt a ! »1 1 .
Solo tra gli anni Quaranta e Settanta, però, s i ha i l grande sviluppo
scientifico e applicativo di numerosissimi polimeri utilizzabili quali mate­
rie plastiche come i poliesteri e le poliammidi, i poliuretani, le resine acri­
liche e quelle epossidiche, il polipropilene isotattico e altri.
I nuovi studi delle macromolecole polimeriche, approfonditi da Giulio
Natta, premio Nobel per la chimica nel 1 963 , hanno portato alla realizza­
zione di materiali da parte di aziende quali Pirelli, Montecatini, Anic, Eni
che sono attualmente basilari per il design degli oggetti di plastica. Il suc­
cesso nel campo di cui ci occupiamo è dimostrato dalla quantità di pro­
dotti così realizzati e divulgati a partire dalla Mostra internazionale per
l'estetica delle materie plastiche organizzata nel 1 957 nell'ambito della
XXXV Fiera Campionaria di Milano da Alberto Rosselli e promossa dalle
riviste «Stile Industria» e «Materie plastiche».
Per un esame dei più importanti prodotti in plastica realizzati dagli an­
ni Cinquanta ad oggi, rimando al capitolo sul design minimalista e ciò per
vari motivi, non ultimo quello per cui la tecnplogia delle materie plastiche
è appunto una delle più adatte allo stile minimalista.
73. ]. Colombo, modello 4860 per Kartell, 1 968.
74. V. Magistretti, modello Selene per Artemide, 1 969.
75. G. Castiglioni, modello Canguro per Gufram, 1 97 0 .
76. A. Castelli Ferreri, serie multicolore di tavoli quadrati 4300 per Kartell.
1 06 Made in Italy

Note
1 P. Corradini , L. Nicolais, I materiali polimerici, in In Plastica (catalogo della mostra omonima),
Electa, NapoLi 1990, p. 3 7 .
2 Cfr . R . Marchelli, Storza e identità di u n materiale, i n Gli anni di plastica, Catalogo della mostra,
Milano 1983 .
' H. Focillon, Vita delle /orme, Le Tre Venezie, Padova 1945, p. 74.
4 Cfr. D. B a roni , La plastica: una rivoluzione incompleta, in <<Ottagono>>, n. 55, dicembre 1 979.
5 E. Manzini, La materia dell'invenzione, Milano 1986, p . 3 1 .
6 lvi, p. 32.
7 l vi , p. 34.
8 Cfr . W. Benjamin, L 'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilltà tecnica, Einaudi, Torino
1966, pp. 44-45.
9 A. Branzi, Plastica e libertà, in Il design italtano 1964-1990, Electa, Milano 1996, pp. 48-49.
10
Ivi, p. 58.
11
S. Katz, Fantastiche plastiche, in In plastica cit., p. 34.
Capitolo settimo · Lo stile degli anni Cinquanta

Molti testi sull'industriai design parlano di «ricostruzione» per gli even­


ti e i prodotti realizzati negli anni immediatamente successivi alla seconda
guerra mondiale. Questa, come altre periodizzazioni, conserva molti gradi
di indeterminazione, segnatamente quelli che indicano i decenni Cin­
quanta, Sessanta, Settanta, ecc. Com'è stato osservato, «le cifre tonde del­
la cronologia difficilmente assumono un significato reale sul piano della
storia. I secoli come entità culturali spesso iniziano e si concludono de­
cenni prima, o dopo, l'anno che segna l'inizio del secolo nuovo»1 . Condi­
videndo questo punto di vista sulla periodizzazione, Vanni Pasca aggiun­
ge: «la presenza di una tendenza dominante non determina mai, nella sto­
ria del design, salvo che sulle pagine delle riviste di arredamento o di co­
stume, la scomparsa di altre tendenze, che continuano ad agire più o me­
no lateralmente»2. Pensandola allo stesso modo, non meravigli che qui,
pur di trovare alcune invarianti utili alla «costruzione» di uno stile, talvol­
ta non si tiene conto della cronologia. Ma su questo punto mi piace insi­
stere. In molte pubblicazioni sul design italiano esiste proprio il culto di
una periodizzazione, a mio avviso, priva di senso; si dice: la produzione tra
il 1 964 e il 1 972, il design tra il 1 973 e il 1 980, gli sviluppi dal 1981 al 1 990,
ecc. Molti di questi termini a quo e ad quem risultano arbitrari e in sé scar­
samente significativi, in quanto non tutti hanno una risonanza e una con­
notazione come ad esempio il '68. Certo, ogni cosa andrebbe storicizzata
e legata agli altri eventi del proprio tempo, ma trattandosi di prodotti che
spesso non ammettono un processo «migliorativo» e che invece si fonda­
no sulla validità delle idee - le quali di solito non sono databili -, torna uti­
le, svolgendo un racconto storico per temi e problemi, menzionare ogget­
ti, produzioni e persino tendenze a seconda dello schema storiografico
prescelto.
Ritornando, invece, ad una data fissa, sicura e significativa, quella ap­
punto della fine della guerra, l'editoriale di Ernesto N. Rogers, direttore di
«Domus» nel 1 946, è tra i più significativi documenti dell'Italia della rico-
1 08 Made in Italy

struzione. Esso s'intitola Programma-Domus, la casa dell'uomo ed afferma


fra l'altro: «da ogni parte la casa dell'uomo è incrinata (fosse un vascello
diremmo che fa acqua). [ ... ] Chi fa un viaggio per l'Italia, lungo l'Aurelia
o la via Emilia o nelle Puglie o in Sicilia vede un immenso sfacelo: rovine e
rovine. Certo, lo �tesso è in Provenza o in Bretagna. Lo stesso è per ogni
strada d'Europa. [ . . ] Il contrasto tra arte e morale diventa sensibile pro­
.

prio ogni volta che si è sul punto di affrontare i problemi dell'esistenza so­
pra un piano di maggior severità di costumi. [ . . . ] Vogliamo essere tra co­
loro che cercano affannosamente di riunire i fili di un nodo sintetico dove
ogni parte sia ugualmente necessaria alla consistenza del tutto. [ ... ] Gli
estremi del nostro ragionamento possono portarci all'utopia o al luogo co­
mune, perché, se chiediamo troppo, miriamo all'irraggiungibile e, se inve­
ce guardiamo solo a ciò che ci attornia, rischiamo di accontentarci di ben
poco»3 .
Queste poche frasi denunciano tutte le problematiche difficoltà politi­
che, economiche, sociali ed artistiche del nostro paese all'indomani della
sconfitta. Intanto, per quanto riguarda le cose da fare, scegliemmo giusta­
mente i beni di prima necessità, piuttosto che quelli considerati un valore
aggiunto; notoriamente in Italia si ricostruì prima la residenza e poi le in­
dustrie, a loro volta impegnate più a realizzare gli impianti che ad iniziare
una vera e propria produzione.
Comunque, dopo il '45 la vicenda del design, per un verso, continua
con i soliti ritornelli pro e contro l'artigianato, il rapporto arte-industria, le
scuole di design, le associazioni, le definizioni di design; per un altro, si
concentra sull'originaria formula delle arti industriali: qualità, quantità,
basso prezzo. Meno positiva risulta l'altra formula di una metodologia uti­
le alla ricostruzione, quella «dal cucchiaio alla città», specie in quanto si ri­
ducono a merce, nell'accezione peggiore del termine, sia l'uno che l'altra
con esiti assai diversi.
A questo punto del nostro excursus, che rappresenta il vero inizio
dell Italian Style, va riportato un giudizio di Andrea Branzi che trovo per­
'

tinente all'intero nostro argomento: «bisogna osservare che la cultura dei


consumi è sempre stata estranea alla cultura italiana ed europea già p rima
della guerra mondiale. Il modello di sviluppo elaborato dal capitalismo eu­
ropeo per uscire dalla crisi economica degli anni Trenta prevedeva un pro­
cesso di industrializzazione forzata (armamenti) , all'interno di società sta­
bili e fermamente organizzate nelle grandi dittature militari di destra e di
sinistra, dove la questione dei consumi era del tutto assente. In questo sen­
so il design europeo (già definito nel Bauhaus) non prevedeva di adottare
e promuovere la logica dei consumi, ma piuttosto quella della produzione.
Era la fabbrica, e non il mercato il suo centro di attenzione. Era l'operaio e
VII. Lo stile degli anni Cinquanta ·
109

non il consumatore-il suo modello umano. Lo stesso Mussolini pensava di


conservare le tessere annonarie anche dopo la guerra»4.
Un fenomeno che possiamo ragionevolmente assumere come una sorta
di «punto e da capo» è il Manz/esto per il �lsegno industriale pubblicato da
«Domus» nel n. 28 del 1 952: un documento che, quanto meno, ci rispar­
mia dal registrare piccole e grandi manifestazioni, peraltro assai note, che
si svolsero - ed inevitabilmente - nel «triangolo» delle grandi città del
Nord con epicentro Milano. Il Manz/esto asseriva: «è il momento del dise­
gno industriale, per il gusto, per l'estetica della produzione, lo è per la cul­
tura e per la tecnica; lo è per la civiltà e per il costume; lo è soprattutto per
la nostra Italia, la cui materia prima, la cui vocazione, è sempre stata (e me­
ravigliosamente, e sempre sarà per grazia divina) quella di - ci si perdoni
l'espressione vecchio stile - ' creare il bello'». Per mitigare tanta retorica va
realisticamente ricordato l 'apporto americano alla nostra ricostruzione in
ordine agli aiuti economici (piano Marshall) , al modello organizzativo del­
la produzione industriale, all'acquisizione del know-how tecnologico nei
vari settori, a sua volta sperimentato dagli americani durante la guerra.
Il lato positivo dell'articolo di «Domus» viene evidenziato nel com­
mento di Anty Pansera che scrive: «si indicavano quindi, con nome e co­
gnome, le 'personalità che proprio nel disegno industriale si impongono al
mondo' : una sequenza significativa perché si dava grande spazio ai pro­
gettisti di 'prodotti industriali' , innanzi tutto ai progettisti nel settore auto­
mobilistico, e quindi Pinin Farina e Revelli e i disegnatori della Piaggio,
poi i progettisti di autoveicoli come il modenese Renzo Orlandi e il tori­
nese Viberti, gli autori del 'Carro di fuoco' della Liquigas, Campo e Graf­
fi, il progettista delle automotrici OM a due piani, Zavanella. Si segnala­
vano industrie attente ai temi del disegno industriale come Visetta, che
operava nel campo delle macchine per cucire, Pavoni, aziende del mobile
come Cassina e RIMA, dell'illuminazione come Arteluce, il grande ma­
gazzino La Rinascente, e aziende dai campi d'intervento più allargati come
Vis e Prodest-Gomma»5.
Come ho notato altrove, a voler dare una sintetica idea della vicenda del
design in Italia, salvo a riprenderla in capitoli più specializzati sulla linea
dello «stile», si può dire che qui come in nessun altro paese risultano se­
parate le quattro componenti che informano la mia concezione del «qua­
drifoglio». Tutti i pregi e difetti della produzione italiana, la ricchezza del
dibattito critico come il suo carattere elitario, la tensione fra artigianato e
industria come molto spesso la loro felice convivenza, l'ipertrofia estetica
come l 'impegno sociale, il divario fra la cultura del design e quella del pub­
blico, insomma ogni sorta di contraddizione si può collegare al fatto che i
momenti del «progetto», della «produzione», della «vendita» e del «con­
sumo» risultano, di fatto o apparentemente, autonomi e separati. Donde
110 Made in Italy

quel carattere di eccezione, di sperimentalismo, di innovazione continua


che contrassegna quei prodotti in cui si verifica la convergenza delle quat­
tro componenti senza la quale, come abbiamo più volte sottolineato, non
si dà luogo al design. ·

Dopo la seconda guerra mondiale si ripropone la dicotomia che già tro­


vammo negli anni Trenta, quando si pose la questione della coesistenza
dell' «orgoglio della modestia» e del «lusso necessario», entro la quale, mu­
tatis mutandis, si muoverà l'intera vicenda del design italiano. Ma è nel '45
- quando il design acquista concretezza - che tale dicotomia può utilizzarsi
come parametro di riferimento.
La ricostruzione, una volta acquisita la metodologia del Razionalismo,
sembra privilegiare due settori d'intervento: l'industrializzazione della edi­
lizia - che è rimasta, tranne qualche eccezione, un problema irrisolto - e
l'arredamento della casa. Ma esistono alcuni prodotti ancor più tipici del
clima postbellico. Ci riferiamo all'invenzione dello scooter: una motoretta
che si guida stando seduti, pertanto adatta sia agli uomini che alle donne,
dal consumo bassissimo di carburante e in grado di percorrere ogni tipo di
strada. Nel 1 945, su progetto di Corradino D'Ascanio, la Piaggio produce
la Vespa, a carrozzeria portante e morfologicamente echeggiante lo stream­
line; nel 1 94 7 , su progetto di Cesare Palla vicino, la Innocenti produce la
Lambretta a struttura portante tubolare. Questa differenza morfologica si
deve principalmente alle due tendenze progettuali dominanti nel campo
dell'ingegneria aeronautica. Come ricorda Koenig, «sapendo che D' Asca­
nio era, alla Piaggio, fra i sostenitori delle strutture a guscio portante, men­
tre Pallavicina, alla Caproni, perseguiva la via del traliccio tubolare metal­
lico, si comprende che la sostanziale diversità fra i due scooters ha dirette
origini aeronautiche»6 .
Ma se in questo come in altri casi, specie quelli appartenenti al settore
dei veicoli, la ragione delle due tendenze è di ordine tecnico, in generale la
linea a scocca continua e quella ad elementi geometrici discontinui coesi­
steranno fino ai nostri giorni nel design italiano soprattutto come una sor­
ta di dicotomia del gusto progettuale. Collegata in qualche modo all'in­
venzione dello scooter è la minivettura Isetta, progettata da Ermenegildo
Preti e prodotta dalla Iso di Bresso, presente sul mercato italiano solo dal
1 953 al 1 956, nonostante fosse nel suo genere un capolavoro di economia
e occupasse un minimo spazio nei posteggi, con il suo portellone unico,
aperto sul davanti, e recante lo sterzo snodabile e incorporato.
Se gli scooters e l'Isetta rappresentano la versione «povera» del design
italiano in questo settore, in essa rientrando la Nuova Fiat 500, progettata
da Dante Giacosa e prodotta dal 1 957 (non sarà stata questa ad eclissare
l'intelligente prodotto della Iso, che non a caso sparisce nel 1 956?), il «pro­
getto» nostrano mostra subito l'altra faccia, quella del «lusso necessario».
77. C. D'Ascanio, Vespa Piaggio,
1 946.
78. C. Pallavicina, Lambretta
Innocenti, 1 947.
79-80. V. Viganò, modello VV/46,
compensati curvati, 1 946.
8 1 . E. Preti, auto !setta, Iso, 1 95 3 .
1 12 Made in Italy

Già nel 1 947 la berlinetta Cisitalia tipo 202 di Pininfarina apre questa nuo­
va serie; nel 1 954 viene prodotta dall'Alfa Romeo la Giulietta sprint, un' au­
to che per oltre due decenni è stata il sogno dell'italiano medio, per non
parlare dei più lussuosi modelli di serie e fuori-serie usciti dalle mani di
abili stilisti quali Pininfarina, Zagato, Vignale, ecc.
Passando al settore del mobile e dell'arredo, va ricordato che i modelli
di Pagano, di Terragni e degli altri razionalisti andarono poche volte al di
là dei prototipi e comunque non divennero mai prodotti di serie; le loro
esperienze si limitarono ad alcuni arredamenti e soprattutto ad allestimen­
ti di mostre o di eventi celebrativi. In questo dopoguerra la linea «econo­
mica» trova la sua prima espressione nella Rima (Riunione italiana mostre
di arredamento) , sorta nel 1 946, che nello stesso anno organizzava, nel ri­
costruito Palazzo della Triennale, una prima esposizione avente per obiet­
tivo la proposta di alcuni prototipi d'arredo per case economiche con ele­
menti semplici, componibili, di basso prezzo. I risultati non risposero alle
aspettative, specie in ordine alla scarsa possibilità di industrializzare i mo­
delli proposti. Ma la manifestazione non fu del tutto inutile, perché costi­
tuì la prima occasione d'incontro di quelli che saranno i maggiori designer
nel settore, che ricevettero un impulso dagli scritti di Rogers, allora, come
s'è visto, direttore di «Domus». Mancati questo e altri tentativi di creare
mobili seriali ed economici, ecco il «progetto» italiano rivolgersi alla solu­
zione opposta: ci riferiamo alla nascita di Azucena, orientata verso una
produzione esclusiva ed elitaria, della quale tratteremo ampiamente in un
altro capitolo.
La dicotomia postasi ai tempi di Persico fra mobili «poveri» e «ricchi»
subisce una notevole trasformazione negli anni Cinquanta, quando cioè,
caduto per una serie di cause il programma ideale di un' «arte per tutti» e
diventato ogni prod,otto ugualmente costoso, essa perdeva la sua impor­
tanza etico-sociale. E ben vero che una traccia di questo dualismo si pote­
va riscontrare ancora nel progetto dei prodotti, ma in effetti l'uno e l'altro
tipo di mobili nascevano soprattutto da orientamenti del gusto. Così,
esemplificando, alla prima categoria possono ascriversi modelli quali la se­
dia Superleggera di Gio Ponti, prodotta da Cassina nel 1 957 nella versio­
ne definitiva, ma databile a qualche anno prima; la poltroncina Luisa del
1 95 1 (Compasso d'Oro 1 955), disegnata da Franco Albini, e quasi tutti gli
altri mobili progettati da questo architetto; quelli di Marco Zanuso a par­
tire dalla poltrona Lady del 1 95 1 ; la sedia Elettra e la poltrona Neptunia
dei BBPR ( 1 95 3 ) . La seconda categoria di mobili, quella del «lusso neces­
sario», troverà la sua maggiore affermazione a partire dagli anni Sessanta
e i prodotti ad essa relativi saranno elencati in ordine alle loro invarianti
stilistiche.
Alle cose dette va aggiunta qualche considerazione che riguarda speci-
82 . F. Albini, modulo della libreria LB 10 per Poggi, 1 957.
83 . F . Albini, poltroncina Luisa per Poggi, 1 95 1 .
84. M . Zanuso, poltrona Lady per Arflex, 1 95 1 .
85 . F . Albini , t�volo Modello TL 2 per Poggi, 1 95 1 .

86. F . Albini, poltrona Margherita per Bonacina, 1 95 1 .


87 . BBPR, sedia Electra per Arflex, 1 954.
88. R. Mango, Modello P37 per Tecno, 1 954.
1 14 Made in Ita!y

ficamente lo stile degli anni post-bellici e del decennio Cinquanta in parti­


colare. In tale periodo non si ebbe in Italia uno stile unitario, che peraltro
non ci sarà neanche più tardi, né si ebbe una linea che prevalesse sulle al­
tre. Tuttavia, benché con esempi eccezionali - il meglio della produzione
di Albini è databile, a mio avviso, proprio nel periodo in esame -, questo
decennio fu una sorta di «sommario» che racchiude molte tendenze suc­
cessivamente apparse sulla scena. Infatti, Azucena anticipa quello che
chiameremo lo stile neo-storico, come pure il Neoliberty di Vittorio Gre­
gotti ed altri; Zanuso, usando la gommapiuma e il nastro cord, nonché di­
verse tecnologie, apre una nuova via a tutti i mobili imbottiti e, per altri
prodotti, di fatto anticipa lo stile high-tech; di quest'ultimo sono certa­
mente antesignani Osvaldo Borsani con la Tecno e Gino Sarfatti, pioniere
per l'intero settore della illuminotecnica. Gli elementi d'arredo con sup­
porto metallico progettati dai BBPR, da Rinaldi (autore della innovativa
sedia DU 30 per la Rima, premiata col Compasso d'Oro nel '54 ) , da De
Cadi (cui si deve la sedia 683 per Cassina, anch'essa vincitrice di un Com­
passo d'Oro nel '54) continuano una tradizione razionalista che non sarà
mai abbandonata; la produzione di sedie, poltrone e tavoli in giunco, rat­
tan e midollino anticipano lo stile «Arte povera». Achille e Pier Giacomo
Castigliani, progettando il Luminator (Compasso d'Oro del '55 ) , inaugu­
rano lo stile «minimalista»; il visual design e segnatamente la cartellonisti­
ca pubblicitaria daranno materia per lo stile «Pop design». Persino il fe­
nomeno delle corporale image, di cui resta insuperato il caso Olivetti, ha
inizio negli anni Cinquanta.
In questo periodo vanno segnalati molti altri avvenimenti. Sul piano
istituzionale, viene istituito il premio Compasso d'Oro, nasce l'ADI, van­
no datate importanti edizioni della Triennale, segnatamente la decima
( 1 954), si svolgono numerosi convegni ed esposizioni; è ora che il design
richiama l'attenzione dei giornali e della tv, il tutto nel clima del boom eco­
nomico che si verifica in gran parte del paese.
Tra i numerosi modelli progettati nel decennio restano ancora sul mer­
cato i seguenti mobili: di Caccia Dominioni il tavolo ovale ( 1 950), la pol­
troncina Catilina ('58), il letto Chesa Laria ('59) , tutti prodotti da Azuce­
na; il tavolo a cavalletto TL2 ('50) e la libreria LB7 ('57 ) di Albini prodot­
ti dalla Poggi; le poltrone Bridge ('5 1 ) , Martingala ('54) e Milord ('54 ) , il di­
vano Sleep-o-matic ('54), disegnati da Zanuso per l' Arflex. Roberto Mango
propone la poltrona conica P35, il tavolo T48, realizzati dalla Tecno, il cui
titolare Osvaldo Borsani progetta e produce il divano-letto D70 ( '54) e la
poltrona P40 ('55 ) . Gardella nello stesso decennio firma per Azucena il ta­
volo tondo T1 ('5 1 ) , la lampada da parete LP5 ('5 4 ) , le lampade LTE8 ed
A renzano ('56). Dei BBPR abbiamo già citato i modelli prodotti da Arflex
nel 1 95 3 . Quelle indicate costituiscono, a mio avviso, le icone del design
1------' l
1

89. T. Scarpa, letto


Vanessa per Gavina, 1 96 1 .
90. BBPR, serie Spazzò per
Olivetti, 1 960.
9 1 . V. Magistretti,
poltroncina Carimate
per Cassina, 1 960.
92 . T. Scarpa, poltrona
Bastùmo per Gavina, 1 960.
1 16 Made in Italy

italiano e le date riportate in maniera ossessiva, l'una vicina all'altra, stan­


no a significare quale frenetica attività animava i nostri maggiori designer
negli anni Cinquanta.

Gli elettrodomestici

Abbiamo lasciato questo tema ai tempi pionieristici della Casa elettrica


di Figini e Pollini; lo ritroviamo negli anni dopo la seconda guerra come il
campo più emblematico della produzione industriale italiana. A differen­
za dei mobili, i principali elettrodomestici - il frigorifero, la lavapiatti, la
lavatrice, in parte la cucina a fornelli - quasi non avevano precedenti, co­
sicché non si doveva passare dall'artigianato all'industria ma iniziare
senz'altro con una produzione meccanica e seriale che, d'altra parte, risul­
tava interamente di importazione. L'uso dei nuovi macchinari coincideva
con una forte domanda del mercato causata dalla notevole prestazione,
dalla difficoltà di disporre di personale di servizio, da un più elevato teno­
re economico e anche dalla rateizzazione dei pagamenti che estendevano
anche ai meno abbienti l'acquisto di tali apparecchiature. A produrle era
una nuova categoria di imprenditori provenienti da vari campi, ma tutti
con un'esperienza ancora da formare; in breve il settore degli elettrodo­
mestici fu l'espressione più evidente del boom italiano post-bellico. Come
nota la Pansera, «'gli elettrodomestici sono per l'Italia quello che gli oro­
logi sono per la Svizzera' titolerà, nel decennio sessanta, il quotidiano eco­
nomico 'Il Sole 24 Ore', mentre, addirittura, il 'Financial Times' parago­
nerà questi due prodotti per la loro perfezione. Materiali poco costosi ma
sufficientemente durevoli, e un disegno lineare permisero infatti di cor­
reggere, nel tempo, una produzione impostata ex novo, e di aggiungere
nuove linee di prodotti>/. A proposito del disegno lineare, va osservato
che questo rientrava e rientra nello stile del Razionalismo «discreto», tale
cioè che ogni apparecchio debba avere una forma molto regolare, addirit­
tura modulare al fine, come vedremo, di essere componibile con gli altri
apparecchi, specie se collocati in cucina.
Quanto alla descrizione dei vari elettrodomestici principali, se la cuci­
na con forno e fornelli si differenzia da quella del passato principalmente
perché funzionante a gas al posto del carbone, il frigorifero non è altro che
un armadio con apparecchiatura refrigerante, mentre la lavastoviglie pre­
senta un meccanismo a spruzzo d' acqua relativamente semplice; la lavatri­
ce invece nasce da un processo tecnico di più lunga datazione ed è l'elet­
trodomestico più soggetto a modificazioni.
Nel 1 954 Zanuso progetta per Homelight un frigorifero, primo ele­
mento di una intera cucina coordinata; nello stesso anno Gino Valle dise-
VII. Lo stile degli anni Cinquanta 1 17

gna gli apparecchi della serie Rex .della Zanussi, azienda principe nel set­
tore di cui ci occupiamo; nel '58 Spadolini progetta un frigorifero intera­
mente in plastica per Radiomarelli. La prima lavatrice costruita in Italia è
del '46, prodotta dai fratelli Fumagalli, che l'anno dopo fondano la Candy,
nome che per molti anni diventa sinonimo di questo apparecchio. Le in­
novazioni si susseguono velocemente: Roberto Menghi disegna per Sub
Matic una lavatrice che si carica dall'alto; Griffini progetta una innovativa
stufa a raggi infrarossi per la Triplex; lo stesso autore con Montagni mette
a punto, per la stessa azienda, una nuova cucina a gas, il modello 9031904.
Accanto ai principali elettrodomestici sopra citati è tutta una fioritura
di piccoli apparecchi azionabili elettricamente; citiamo, tra i numerosi co­
struiti anonimamente, solo quelli firmati da designer: nel '54 l'aspiratore
per cappe disegnato da Pagani con Alberto de Matteis, il Vortice, che darà
nome ad un'azienda produttrice di depuratori d'aria, ventilatori e simili;
nel '56 una spazzola aspirante disegnata da De Goetzen per Elchim (Com­
passo d'Oro); il frullatore York, la lucidatrice Stabilomatic per Termozeta;
nello stesso anno un aspirapolvere, lo Spalter, disegnato dai fratelli Casti­
gliani per la Rem. Nel '59 Zanuso dà forma ad un macinacaffè per Subal­
pine; ancora De Goetzen nel '64 mette a punto il registratore a nastro Re­
nas, nel '66 quello a cassette Renas CM 22, il mangiadischi Mady, nel '67 il
radiogiradischi Madyrad, tutti per la Lesa, nel '68 una macchina per caffè
per la Gaggia, ecc.

La cucina americana

Nella rassegna dei prodotti nati dopo la guerra ed importati dagli Usa,
entrando ben presto nel costume italiano, il punto di maggiore rilievo è oc­
cupato dalla assembled kitchen, cioè quella organizzazione e conformazio­
ne di mobili ed attrezzi generalmente nota come «CUCina americana». li
p roblema fu posto per la prima volta da Catherine Beecher, che pensò
all'ambiente della cucina e al suo arredamento in connessione coi temi del
femminismo, dell'abolizione o riduzione del personale di servizio, di un
più razionale sfruttamento dello spazio, giungendo a formulare concrete
proposte disegnate. Fu sua l'idea di unificare l'altezza dei piani di lavoro,
al di sotto dei quali era disposta la serie dei mobili «bassi», ognuno desti­
nato alla conservazione delle provviste ovvero adoperato per riporvi gli
utensili, mentre alle pareti veniva � ospesa la serie dei mobili «alti» conte­
nenti bicchieri, piatti e stoviglie. E significativo che il libro delle sorelle
Beecher, pubblicato con grande successo nel 1 869, s'intitoli The American
Woman 's Home e che quello, dedicato in gran parte allo stesso argomento,
pubblicato da Christine Frederick nel 1 9 1 5 , abbia per titolo Household
1 18 Made in Italy

Engineering Scienti/ic Management in the Home: la razionalizzazione della


cucina da questione di economia domestica è diventata nel frattempo un
problema da risolvere in termini di ingegneria applicata alla casa; non va
dimenticato peraltro che, nel lasso di tempo che intercorre fra le due ope­
re citate, Taylor aveva condotto i suoi studi ed esperimenti sui movimenti
dell'operaio in fabbrica e sui relativi tempi di lavorazione.
In Europa la conformazione della cucina non è solo un problema di
economia domestica, né si risolve secondo i metodi dell'ingegneria, ma
rientra negli studi dell'architettura relativi alla distribuzione e razionaliz­
zazione dell'alloggio minimo e popolare. Nel 1 923 , nella casa sperimenta­
le del Bauhaus, «Das Haus am Horn», si compie un nuovo passo verso
l'unificazione e distribuzione degli elementi componenti la cucina. Il pun­
to d'arrivo delle ricerche europee fu la cucina adottata nel quartiere
Frauheim di Francoforte, progettato da Ernst May. Tale cucina, ideata
dall'architetto viennese Grete Schutte-Lihotzky, riassume e dà forma a
molti dei requisiti da tempo ricercati: disposizione in una pianta ad U di
tutti gli elementi in modo che la massaia, quasi da ferma, possa operare
avendo a portata di mano tutto l'occorrente; parità d'altezza di tutti i mo­
bili poggianti a terra (lavello, tavolo di preparazione, credenza e fornello)
al fine di ottenere la massima continuità dei piani d'appoggio orizzontali;
parità di altezza della serie di mobili sospesi alla parete e loro modularità
compatibile con quella dei più complessi apparecchi bassi; il tavolo di pre­
parazione disposto sotto il davanzale della finestra per ricavare la massima
illuminazione; in sintesi, unificazione degli elementi (e dei movimenti)
orizzontali e unificazione degli elementi (e dei movimenti) verticali. Quel­
la che viene realizzata in Europa, pur anticipandola per molti aspetti, non
è ancora la «cucina americana» coi suoi elementi modulari e componibili
così da rendere unitario tutto l'insieme. Perché si realizzi tale complesso
dovranno passare almeno altri quindici anni in quanto in questo lasso di
tempo la stessa industria americana è impegnata a produrre isolatamente
le varie «macchine», ognuna con proprie caratteristiche tecniche e, quel
che più conta, con proprie misure d'ingombro che rendevano difficile il lo­
ro assemblaggio in quell'insieme unitario sopra descritto.
In sintesi, lo spirito della assembled kitchen è quello di conferire un
aspetto gradevole ad un intero ambiente meccanizzato, nascondendone gli
stessi meccanismi e dando al tutto un'immagine di estrema efficienza. Na­
ta dovunque come problema sociale di organizzazione razionale della ca­
sa, in Europa essa è risolta in termini di architettura e d'arredamento, va­
le a dire in chiave distributiva; in Usa viene concepita soprattutto in ter­
mini di industriai design, e sarà realizzata quando nel suo insieme diven­
terà un prodotto industriale con le relative componenti commerciali e di
sicuro consumo. Infine, è significativo che nel paese dove si pose il pro-
VII. Lo stile degli anni Cinquanta 1 19

blema assembled kitchen, questa s� mise a punto pochi anni prima della sua
applicazione in Italia, dove si affermò non con il solito ritardo col quale si
sono diffuse da noi altre acquisizioni tecniche.

Il televisore

La maggiore novità della tecnologia destinata ad entrare nelle case di


tutti a cominciare dall'ultimo dopoguerra è l'apparecchio televisivo.
Anche di questo è necessario dare qualche cenno storico-tecnologico.
Il processo inventivo inizia nel 1 875 e si basa sull'idea di trasmettere a di­
stanza per via elettrica le immagini, grazie alla scoperta della fotosensibi­
lità del selenio, trasformando appunto un segnale luminoso in uno elettri­
co. Una serie di altre ricerche e perfezionamenti, segnatamente il disco di
Nipkow ( 1 884 ) e l'invenzione del tubo catodico ( 1 897), consentì solo nel
1 928 di iniziare le trasmissioni sperimentali.
Le ricerche italiane sulla televisione mossero i primi passi a Milano, ne­
gli anni Venti. Nel capoluogo lombardo, infatti, uno dei pionieri in questo
campo, l'ingegnere Alessandro Banfi, diede una dimostrazione pubblica di
un'apparecchiatura di sua ideazione, basata sul disco di Nipkow, nell'ot­
tobre 1 926. E mentre nell'Istituto radiotecnico milanese Beltrami ferveva­
no altri esperimenti, nel 1 929 lo stesso Banfi realizzò un impianto speri­
mentale, sempre munito del disco di Nipkow, a Torino, per conto dell'Eiar
(Ente italiano audizioni radiofoniche) . Un anno dopo, nel 1 930, a confer­
ma del proseguimento delle ricerche, un altro pioniere della televisione,
Arturo Castellani, presentò un suo impianto, realizzato per la grande in­
dustria Safar ed esposto al pubblico nel Palazzo della Permanente di Mi­
lano. Nel 1932, la IV Mostra della Radio offrì l'occasione a Banfi per
esporre un nuovo impianto televisivo, molto più perfezionato del sistema
Nipkow. In seguito all'invenzione dell'iconoscopio da parte di Zworykin,
l'industria Magneti Marelli diede inizio ai primi esperimenti sulla televi­
sione elettronica. Negli anni successivi, telecamere e ricevitori televisivi fu­
rono progettati dalla stessa industria che, nel 1 93 9, costruì finalmente un
impianto per le prime trasmissioni televisive pubbliche alla Fiera Campio­
naria di Milano. Il trasmettitore venne installato sulla Torre del Parco Sem­
pione e gli apparecchi di ricezione furono fabbricati dalla Magneti Marel­
li e dalla Allocchio Bacchini. I programmi sperimentali vennero irradiati
nella sola zona di Milano fino al 1 940. Il sopraggiungere della guerra pose
termine a ogni esperimento. Bisognò attendere il gennaio 1 954 perché
l'ente televisivo statale, la Rai, cominciasse a diffondere trasmissioni rego­
lari su tutto il territorio nazionale.
Ed è ormai storia recente lo sviluppo notevole della televisione italiana,
120 Made in Italy

sia di quella a carattere pubblico, che irradia i suoi programmi su più ca­
nali a colori, sia di quella privata, progredita tumultuosamente negli ultimi
anni e rappresentata da decine di emittenti sparse in ogni angolo della pe­
nisola. Il fenomeno televisione si è rivelato così importante da un punto di
vista sociologico da rendere la componente formale dei relativi apparec­
chi, il loro design, un aspetto del tutto marginale; tuttavia anche di que­
st'ultimo daremo qualche cenno dato il tema del presente testo. Prima co­
munque va detto che la televisione ha notevolmente ridimensionato il ci­
nema, il teatro, la radio, persino i giornali; e desta meraviglia come, nono­
stante la presenza in tv di questi altri mezzi di espressione ed informazio­
ne, essi continuino a sussistere indipendentemente. Una spiegazione di
questa coesistenza è stata già data alcuni anni or sono. In un convegno de­
dicato al futuro del libro minacciato dall'elettronica, alla domanda di rito
«il computer ce la farà ad uccidere il libro?», Umberto Eco rispose: «nel
suo Notre Dame de Parzs, Vietar Hugo fa pronunciare la fatidica frase a
uno dei protagonisti, 'Ceci tuera cela'. In quel caso ci si chiedeva se il libro
avrebbe ucciso la cattedrale, cioè se l'alfabeto avrebbe finito per uccidere
le immagini. Come si vede, quella domanda è stata posta tante volte». Do­
po aver brevemente elencato vantaggi e limiti sia del libro che del compu­
ter, tanto della scrittura quanto delle immagini, egli conclude: «non dob­
biamo insomma preoccuparci troppo per il futuro del libro, perché nella
storia della cultura non è mai successo che qualcosa abbia davvero ucciso
qualcos'altro»8. Concordando solo in parte con questa rassicurazione -
ogni anno assistiamo alla chiusura di qualche cinematografo, l'editoria non
vive certo la sua stagione migliore e i giornali, pur di vendere qualche co­
pia in più, regalano gadget d'ogni sorta - sta di fatto che c'è molto di vero
nel detto per cui «nulla accade se non viene presentato in televisione».
Quanto al design della tv, inizialmente l'apparecchio televisivo era in­
serito nel mobile radio; successivamente acquistava una propria volume­
tria e veniva disposto su una consolle o su un carrello dotato di ruote per
essere trasportato da un ambiente all'altro; un ulteriore sviluppo si aveva
non solo con l'aumento della superficie del monitor - donde lo slogan «dal
tutto mobile al tutto schermo» - ma anche con un razionale ingrandimen­
to del supporto o della superficie d'incasso in una parete attrezzata per
ospitare i videoregistratori e le videocassette.
Tra le ditte commerciali produttrici di televisori, si cominciano a distin­
guere sin dal '54 la Radiomarelli, con un apparecchio di 1 7 pollici firmato
da Pier Luigi Spadolini; la Phonola, che produsse i suoi apparecchi dise­
gnati da Sergio Berizzi, Cesare Buttè e Dario Montagni; la Brionvega, che
con i modelli disegnati da Zanuso e Sap per - descritti in altra parte di que­
sto volume - resta l'azienda leader anche in fatto di estetica del prodotto,
come dimostra il premio Compasso d'Oro assegnato ad alcuni di essi.
VII. Lo stile degli anni Cinquanta 121

I:auto dagli anni Cinquanta

Un altro prodotto tra i più tipici dell'Italia del boom economico è l' au­
tomobile. Se oggi solo pochi sanno distinguere un modello dall'altro e ad­
dirittura quello di un paese dagli altri, tanto è omologata la forma dell' au­
to, a partire dal dopoguerra, oltre le famose utilitarie, la linea delle auto­
mobili italiane è riconoscibile come una sintesi di minimalismo e di aero­
dinamica; si direbbe che lo streamline abbia trovato in Italia la sua più al­
ta espressione estetica.
Com'è stato osservato, «il nuovo corso industriale, che non lascia più
spazio alle fuoriserie d'alta classe, induce il carrozziere italiano a intra­
prendere la strada del costruttore oppure a collaborare con la grande in­
dustria per la progettazione di vetture di serie»9. Battista Farina, detto Pi­
nin, già affermato carrozziere fin dal '30, prima ancora di mutare il cogno­
me in Pininfarina ( 1 96 1 ) , accetta il nuovo corso e progetta, nel '50, per la
Fiat, la berlinetta 1 1 00 ES e per la Lancia l'Aurelia B20. Nel '57 la stessa
Lancia produce, su progetto Pininfarina, la Flaminia, disegnata su mecca­
nica Aurelia.
Sul finire degli anni Cinquanta nasce a Grugliasco, alla periferia di To­
rino, un nuovo impianto Pininfarina corredato di ogni moderna attrezza­
tura che segna il definitivo passaggio dall'attività prevalentemente artigia­
nale del carrozziere alla vera e propria produzione industriale del costrut­
tore. Nell'ambito di tale impianto, veniva interamente costruita nel '58 la
Ferrari 250 GT. Nel '59 la direzione dell'azienda passa a Sergio Pininfari­
na, figlio del fondatore. Tra le numerose vetture prodotte dalla ditta in pa­
rola vanno segnalate quelle che portano il marchio Ferrari: la 250 ( '62 ) , la
2 75 GT ('65 ) , la 3 65 ( '68), la 3 08 ( '76) , la Testarossa dell'84.
Altrettanto importante impresa per la morfologia dell' auto italiana è
quella fondata nel 1 9 1 2 da Giovanni Bertone, ma definitivamente affer­
mata nel '54 sotto la direzione del figlio Nuccio con la produzione della ci­
tata Giulietta Sprint per l'Alfa Romeo, disegnata da Franco Scaglione. Si
tratta di una della più belle auto italiane, accolta anche da un notevole suc­
cesso commerciale. Altri modelli famosi di Bertone sono la Giulietta 55 del
1 95 7 e i prototipi della serie BAT disegnati sempre per l'Alfa Romeo. Ma
la caratteristica esponente del car design di Bertone è data dalle numerose
fuoriserie prodotte per aziende italiane, dalla Fiat all' Autobianchi, dalla
Innocenti alla Ferrari, come per quelle estere, dalla Chevrolet alla Citroen,
dalla Ford alla BMW.
Nel 1 95 8 nasce il Centro Stile Fiat (sul modello della Styling Section
della Generai Motors), che affianca l'ufficio progetti tecnici della stessa
azienda. «l compiti affidati al Centro Stile [ . . ] vanno dal perfezionamen­
.

to di un modello già in produzione ( ritocchi e miglioramenti degli acces-


122 Made in Italy

sori della carrozzeria, re-styling di modelli derivati) allo studio e realizza­


zione di nuovi modelli la cui definizione meccanica e costruttiva è deter­
minata dalle particolari richieste della direzione generale. Gli elementi es­
senziali, fissati dalla direzione generale dopo aver consultato la direzione
commerciale e produttiva e aver ricevuto l'approvazione della presidenza
della Società, sono generalmente: il passo, la carreggiata, la guida, l'abita­
bilità, la cilindrata del motore e il peso come indice di costo. Su questi da­
ti inizia il lavoro di stilisti e disegnatori»10.
Come si vede, è difficile che un'auto venga progettata integralmente ­
così come aveva fatto Giacosa per la Topolzno, la Fiat 600 nel 1 955 , la Nuo­
va Fiat 500 nel 1 957 -, ma, nella logica della divisione del lavoro, il mo­
mento formale del processo interviene a suo tempo, quando cioè tutti gli
altri compiti hanno preordinato la forma del prototipo. Nonostante tutti i
tipi d'integrazione e di coordinamento (occorrono almeno quattro anni
per costruire una vettura nuova), risulta chiaro che la caratterizzazione
morfologica apparente è affidata ad una pratica meramente stilistica, così
come esplicitamente dichiara del resto il nome del Centro Fiat. E ciò per
due fondamentali ragioni: la prima di ordine strutturale, quella propria
della linea di produzione; la seconda di ordine contingente: uno stesso mo­
tore, la cui costruzione spesso richiede più tempo rispetto a una vettura
nuova, viene montato su differenti automobili, donde la loro varietà affi­
data alla sola carrozzeria.
Oltre che per la qualità delle vetture prodotte, il Centro Stile Fiat ( che
si avvale inizialmente dei carrozzieri Boano ed è poi diretto da Giacosa) va
menzionato anche come luogo di formazione di alcuni fra i maggiori desi­
gner di auto quali Lucio Fabio Rapi, Pio Manzù, cui si deve la Fiat 1 2 7, e
Giorgetto Giugiaro. Questi, insieme ad Aldo Mantovani e Luciano Bosio,
fonda a Torino nel 1 968 la Ital Design, un'azienda che segna una sensibile
evoluzione nel campo di cui ci occupiamo. Infatti, essa «si presenta con
una formula inedita rispetto al tradizionale mondo della carrozzeria of­
frendo alle case automobilistiche un servizio integrato ed organico, che
non si limita all'attività stilisti ca e alla realizzazione di modelli e di prototi­
pi, ma sviluppa studi dettagliati di progettazione per la costruzione in me­
dia e grande serie dei veicoli, definisce le tecnologie di produzione, dise­
gna le attrezzature occorrenti per la fabbricazione in serie (macchinari,
utensili, dispositivi di automazione, ecc. ) , determina ed esamina tempi e
costi del processo produttivo»1 1 . In sostanza la Ital Design si presenta co­
me un centro progettuale indipendente da una particolare industria auto­
mobilistica, che presta la sua opera ad una serie di aziende. Tra le maggio­
ri realizzazioni si segnalano i modelli dell' Alfasud, la Golf della Volkswa­
gen, la Lancia Delta, la Fiat Panda, l'Audi 80, la Lancia Prisma, la Fiat Uno,
ecc. Tuttavia, anche in questo interessante programma di progettazione in-
VII. Lo stile degli anni Cinquanta 123

tegrata, è semprè la componente stilistica a caratterizzare maggiormente


l'attività del centro.

Il «vz.sual design»

Assurto al ruolo di una disciplina basilare presso la Bauhaus, la Scuola


di Ulm e molte altre istituzioni didattiche, il visual design viene qui consi­
derato per quanto ha rappresentato nella storia del design italiano con le
sue opere ed applicazioni.
Nella proposta di una nuova classificazione merceologica, abbiamo re­
centemente identificato il visual design con la categoria dei prodotti visua­
lizzatori. Ad essa appartiene il campo della grafica, a cominciare dal lette­
ring che, con l'invenzione della stampa a caratteri mobili, può considerar­
si la prima forma di design, per finire, attraverso i libri, le riviste, i giorna­
li, a determinare addirittura un genere d'industria particolare: l'editoria.
Dal cartello pubblicitario, inizialmente litografato, alle citate scritte poste
su ogni sorta di imballaggio, dalle insegne luminose della scena urbana ai
grandi tralicci reclamistici sulle autostrade, in una parola: dalla presenza di
caratteri, marchi di fabbrica, immagini disposte dovunque in aria, sui mu­
ri, sugli indumenti degli sportivi, emerge forse il più diffuso gruppo dei vi­
sualizzatori, quello della pubblicità. Alla stessa categoria vanno ascritti gli
strumenti dei maggiori intrattenimenti popolari, cinema, televisione, con
tutto il seguito delle cineprese, dei proiettori, delle macchine fotografiche,
ecc. Notiamo di sfuggita che ognuna di queste forme d'espressione visiva
ha dato luogo ad un ramo nuovo dell'attività industriale. Tra le caratteri­
stiche principali degli oggetti visualizzatori è la riduzione progressiva di
ogni dimensione a quella bidimensionale. Com'è stato osservato, «il mon­
do sembra perdere di profondità. Lo spessore fisico e culturale delle cose
diminuisce, tutto sembra tendere alla bidimensionalità delle superfici e ai
messaggi che queste possono veicolare. In effetti, le immagini emblemati­
che di oggi ci presentano un ambiente tendenzialmente dematerializzato,
fluido come le informazioni che lo attraversano, appiattito dalla bidimen­
sionalità della carta stampata e dello schermo video»12. Benché queste
considerazioni di Manzini siano riferite agli anni Novanta, ovvero non sia­
no in sincronia con il periodo in esame, desidero anticipare che sull'intera
questione della smaterializzazione tornerò ampiamente a discutere nella
parte conclusiva di questo volume. «D'altro lato, questa prevalenza della
bidimensionalità (e la percezione di smaterializzazione che essa comporta)
si estende ben al di là dei supporti informativi. Come per un 'effetto di tra­
scinamento', l'intero sistema degli oggetti sembra essere in marcia nella
stessa direzione: non solo un'estesa famiglia di prodotti, investiti dall'elet-
124 Made in Italy

tronica e dalla miniaturizzazione delle funzioni che essa permette, tende


alla bidimensionalità, ma anche quegli oggetti che per la loro stessa ragion
d'essere mantengono le tre dimensioni, tendono a delegare alla superficie
una quota maggiore delle loro prestazioni e della loro capacità espressiva
[ ... ]. Arricchito di memoria e intelligenza, collegato in una rete estesa di
informazioni, dotato di questa nuova pelle comunicativa e interattiva,
l'universo fino a ieri inanimato degli oggetti prende la parola e, diventan­
do colloquiale e interattivo, si definisce come una forma di relazioni nel
tempo, quasi a volere recuperare nella quarta dimensione temporale ciò
che ha perduto nella terza dimensione spaziale»1 3 •
Passando d a queste considerazioni generali a d u n excursus storico sul
visual design, cominciamo col notare alcune osservazioni di Dorfles, il qua­
le identifica (e riduce) questa disciplina tout court con la grafica «senza
esterofile perifrasi rispetto ai due contrapposti settori della pittura e del
design: della pittura, intesa come 'arte pura' bidimensionale, e del design
nel senso più generale di progettazione, vuoi bi- che tri-dimensionale, ite­
rabile e destinata soprattutto a fini utilitari. La grafica, infatti, costituisce
proprio il trait-d'union tra questi due territori e sarebbe ingiusto non rico­
noscer!e spesso - non sempre - quelle caratteristiche decisamente ' artisti­
che' che si attribuiscono (anche quando non lo meritano) alle altre arti del­
la visione; mentre sarebbe altrettanto ingiusto non riconoscerle quelle stes­
se peculiarità progettuali che costituiscono l'essenza di ogni sottospecie
del design, dal product design al packaging, dall'environmental design al­
la vera e propria architettura» t 4 .
La vicenda della grafica italiana, come del resto anche altrove, nasce
con lo stile Liberty, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento,
quando cioè aziende industriali, grandi magazzini commerciali, per rag­
giungere il più vasto pubblico della società di massa, riempiono i giornali
di réclame ed i muri di manifesti relativi ai propri prodotti. In quest'ulti­
mo genere emerge il triestino Marcello Dudovich che esordisce con la ri­
vista monacense «Simplicissimus» prima di diventare disegnatore della na­
scente industria pubblicitaria italiana. Dell'inizio del secolo sono i cartelli
disegnati per i magazzini Mele di Napoli che, oltre alle belle immagini fem­
minili, recavano la scritta «ultime novità, eleganza, buon gusto, massimo
buon mercato», ovvero i tre principi del design, qualità, quantità e appun­
to basso prezzo. Successivamente Dudovich collaborò con Cappiello, Vil­
la e Cambellotti, dando vita ad un movimento fra i più prestigiosi in que­
sto campo. Altri suoi cartelli famosi sono Liquore Strega ( 1905 ) e Borsali­
no ( 1 9 1 1 ) . Dopo il Liberty è la volta del Futurismo: «come l'intera cultura
del progetto italiana, anche la progettazione della comunicazione visiva in­
dustriale deve ancora pagare un debito al Futurismo, o forse meglio ai fu­
turisti della seconda generazione divorati dalle lingue di fuoco della se-
VII. Lo stile degli anni Cinquanta 125

conda guerra mondiale - a tutt'oggi in credito con i razionalisti. [ . . . ] E que­


sto non solo per l'implicita presa di coscienza dell'industrializzazione
dell'esistenza - e di come tutta la vita fosse ormai retta dal principio della
'fabbrica' - ma anche, e soprattutto, per il più preciso intervento di alcuni
di loro nel mondo proprio della grafica, sia pure nel canale allora non an­
cora differenziato di quella pubblicitaria»15. La Pansera prosegue con
l'analisi dello stile personale di Depero che, tra l'altro, sfruttando le asso­
nanze onomatopeiche delle parole con i caratteri grafici, traduce quest'ul­
timi in segni. Il terzo momento della grafica italiana è la pubblicazione, nel
'33 , della rivista «Campo Grafico». li programma dei suoi redattori, sulla
scorta del periodico francese «Arts et Métiers Graphiques», era quello di
portare all'interno della tipografia le tematiche dell'arte moderna, sottoli­
neando come per i tipografi italiani fosse urgente affrontare «il problema
della collaborazione con l'artista [ .. ] per formare una coscienza tipografi­
.

ca moderna anche in ltalia»16. La concorrenza nel settore si sviluppa subi­


to con la rivista torinese «Graphicus» che cambia i caratteri, e non solo
quelli, della precedente testata di «Piemonte grafico, per l'arte, per l'unio­
ne, per il bene economico», sorta nel 1 9 1 1 . Sempre nel 1 93 3 , esce la nuo­
va «Casabella», voluta da Pagano e Persico al posto di . «La casa bella» di
Marangoni; nasce «Quadrante», rivista di architettura e di cultura, diretta
da Massimo Bontempelli, ed anche «Domus» cambia contenuto e veste
grafica.
Un vero e proprio studio pubblicitario viene aperto, nello stesso anno,
da Antonio Boggeri, dalle notevoli capacità professionali ed organizzative,
che chiama a Milano numerosi operatori dall'estero, da Xanti Schawinsky
a Max Huber ed altri italiani, da Depero a Nizzoli, da Munari a Muratore.
Dello Studio Boggeri vanno ricordati il manifesto della Illy caffè del '34; i
primi manifesti della Olivetti, del '34, '35 e '38; il catalogo della Kardex e
soprattutto l'opuscolo promozionale dello studio stesso, entrambi del '40.
Altri designer grafici da segnalare, legati a Boggeri o indipendenti, sono
Veronesi, Carboni, Grignani, Dradi, Muratore, Pintori; ma attori dell'af­
fermazione pubblicitaria italiana furono anche le aziende committenti, da
Olivetti alla Fiat, da Pirelli alla Agfa, dalla Campari alla Prm (Calzificio
Pietro Ruffini Milano) , dalla Farmitalia alla Montecatini, dalla Snia Visco­
sa a Barilla, nonché aziende dell'arredo, dall' Arflex alla Brionvega.
Personalità di rilievo fu quella di Albe Steiner: dal '33 al '39 eseguì la
progettazione grafica per numerose ditte, fu elemento di spicco nello Stu­
dio Boggeri, effettuò il suo primo viaggio negli Stati Uniti. Nel '45 colla­
borò alla redazione e all'impostazione grafica de «<l Politecnico» di Elio
Vittorini. Partecipò alle Triennali di Milano, dall'VIII fino alla XIV; per
quest'ultima curò la propaganda grafica ?ivenendo membro, fin dalla sua
.
costituzione, del Centro studi Triennale. E art director della Rinascente dal
126 Made in Italy

' 5 0 al '5 4 . Nel '5 6 è nel primo comitato direttivo dell'ADI come esponen­
te della categoria dei grafici accanto a quella degli architetti rappresentata
dal presidente Rosselli e Peressutti, nonché a quella degli industriali pre­
sente con Castelli e Pellizzari. È progettista grafico per Olivetti, Carlo Er­
ba, Piccolo Teatro, Arflex, Pirelli e altri. Nel campo editoriale si occupa di
art direction e consulenza grafica per la Feltrinelli prima e per la Zanichelli
poi; imposta per Einaudi la collana Bibliote ca del Politecnico; è consulen­
te per Editori Riuniti, Sugar, Tamburini e per numerosi periodici della si­
nistra italiana.
Restando nel campo dell'editoria - in esso quella italiana è tra i primi
posti nel mondo quanto all'estetica e al rinnovamento del gusto - Einaudi
si avvale dell'opera di Bruno Munari; Boringhieri di Enzo Mari (pensiamo
in particolare alla collana delle opere di Freud) ; Laterza vive il suo mo­
mento migliore, per ciò che attiene alla veste grafica, quando a progettar­
la è Mimmo Castellano. Altro grafico famoso è Bob Noorda, olandese sta­
bilitosi in Italia. Nei primi anni Sessanta è art director della Pirelli; nel
campo del visual strettamente inteso, Noorda crea numerosi marchi e sim­
boli; tra i più noti, quelli per la Biennale di Venezia del ' 66, l'Ept di Mila­
no, Mondadori, il marchio Lanerossi e quello del Touring Club Italiano.
Nel '65 fonda l'Unimark International Corporation for Design and Marke­
ting, con corrispondenti a New York e a Londra. Nel '79 ottiene il Com­
passo d'Oro per l'immagine coordinata Agip Petroli e per il simbolo e l'im­
magine della Regione Lombardia; vince la medaglia d'oro a Rimini per l'at­
tività nel campo del design.
Il boom economico a partire dagli anni Cinquanta comporta un auto­
matico incremento della pubblicità e in genere della comunicazione grafi­
ca. E ciò non solo nel campo privato, ma anche in quello pubblico - vexa­
ta quaestio che attraversa tutta la storia del design italiano. Le Ferrovie
Nord Milano affidano la propria immagine visiva a Carlo Dradi e la Rai,
dal ' 5 3 , a Erberto Carboni, ma il culmine di questo genere di design per il
pubblico si avrà nel ' 63 con la collaborazione di Bob Noorda con Franco
Albini e Franca Helg nella progettazione della segnaletica della MM, la
Metropolitana Milanese. Nel frattempo i Comuni e gli enti di pubblico ser­
vizio - la Sea, l'Aem, i Parchi nazionali, le imprese a partecipazione stata­
le, dalla Si p all' Alitalia, dalla Società Autostrade alla Rai, che annoverava
tra i suoi operatori Huber, Bianconi, Iliprandi, Weibl, Sambonet, Confa­
lanieri, Negri, Tovaglia, Provinciali ed altri - si impegnarono per diffon­
dere la loro immagine, in ciò anticipando una politica molto invocata ai
nostri giorni: quella per cui oggetto di design come di pubblicità non sono
solo i prodotti ma anche i «servizi».
Sempre a proposito della pubblicità commissionata dalle istituzioni
pubbliche, va rilevata la 'grafica nella città' , di cui un aspetto è il lettering
VII. Lo stile degli anni Cinquanta 127

architettonico: «lè scritte di Times $quare, di Piccadilly Circus, di Piace Pi­


galle, di Copacabana, eco giganteggianti nelle notti di queste metropoli so­
no - sia pure soltanto nelle ore notturne - più importanti degli stessi edi­
fici che le ospitano»17.

Note

1 H.-R. Hitchcock, L 'architettura dell'Ottocento e del Novecento, Einaudi, Torino 197 1 , p. 3 .


2
V. Pasca, Deszgn negli anni novanta, i n Minimalismo, Lupetti, Milano 1 996, p. 50.
3 E.N. Rogers, in <<Domus», n. 205, gennaio 1946.
4 A. Branzi, Il design italiano 1 964- 1 990, Electa, Milano 1 996, p. 30.
5 A. Pansera, Stona del disegno industriale italiano, Laterza, Roma-Bari 1 993, pp. 93-94.
6 G.K. Koenig, Un atlante per gli assenti, in «Modo>>, n. 3 8, aprile 1 96 1 .

7 Pansera, Storza del disegno industriale italiano cit . , p p . 174-175.


8 «<l Mattino>>, 6 agosto 1 994.
9 G. Bosoni, l carrozzieri costruiscono in serie, in V. Gregotti, Il disegno del prodotto industriale,
Italza 1 860-1 980, Electa, Milano 1982, p. 308.
10 Id. , Il Centro Stile Fiat, i n Gregotti, I l dz5egno del prodotto industrzale cit., p. 334.
11
Id., Ital deszgn, in Gregotti, Il disegno del prodotto industnale cit., p. 394.
12
E . Manzini, Arte/atti, Edizioni Domus Academy, Milano 1990, pp. 22-23 .
1 3 Ibid.
1 4 G. Dorfles, Introduzione a AA.VV., Visual deszgn, cinquant'anni di produzione in ltalza, Idea-
libri, Milano 1 984, p. l i .
1 5 A . Pansera, La storia di un percorso, i n AA.VV., Visual deszgn cit., p . 1 5 .
16
<<Campo G rafico>>, n. l, 1 93 3 .
1 7 G. Dorfles, Importanza estetico-sociale del lettering, in Atti del Convegno nazionale s u proble­
mi della scienza e delle arti della stampa a livello universitario, Torino 1 965 , p. 1 08.
Capitolo ottavo - Lo stile Olivetti

Abbiamo visto che sin dai tempi dell'ing. Camillo, la Olivetti si segnalò,
oltre che per la qualità dei prodotti, per il suo inserimento nel mercato del­
le macchine da scrivere, allora dominato dai produttori statunitensi e te­
deschi, anche per una moderna politica culturale e di democrazia azienda­
le assecondata dalla diffusione dei servizi sociali e sanitari a favore dei la­
voratori, che raggiunse il suo culmine nel 1 93 3 con il passaggio della dire­
zione dell'azienda al figlio Adriano. Questi, dopo una esperienza statuni­
tense di organizzazione industriale nel 1 925 , nel '3 1 iniziò a formare un
gruppo di progettisti, artisti, pubblicitari, nonché tecnici di fabbrica inca­
ricati di verificare i tempi di realizzazione, vale a dire quell'équipe di esper­
ti in grado di seguire le varie componenti della produzione industriale da
anni auspicata dalla cultura del design. Vi furono coinvolti, appunto a va­
rio titolo e persino in tempi diversi, i pittori Bruno Munari, Luigi Verone­
si, Xanty Schawinsky, gli architetti Figini e Pollini, lo studio Boggeri, Per­
sico e Nizzoli, quest'ultimo tra i maggiori artefici dello stile Olivetti. Sue
infatti sono le macchine da scrivere Lexicon ( 1948), Lettera 22 ( 1 950), la
calcolatrice Divisumma 24 ( 1955 ) , la macchina da scrivere Diaspron
( 1 959) . Più tardi la Olivetti produsse, disegnate da Mario Bellini, la mac­
china da scrivere Praxis 3 5, la Divisumma 18 ( 1973 ) , il sistema elettronico
di videoscrittura ETV 240 e ancora più famose, progettate questa volta da
Ettore Sottsass jr. , le macchine da scrivere Praxis 48 ( 1 964) , la Lettera 3 6 e
la Vafentine ( 1 969) .
Com'è stato osservato, «già ad apertura del decennio cinquanta è vivo
l'interesse per il disegno industriale italiano: prima uscita prestigiosa la
mostra che, nel 1 952, a New York, il Museum of Modero Art dedica
all'Olivetti. Si sancisce così il successo della macchina per scrivere che 'non
deve essere un gingillo da salotto con ornamenti di gusto discutibile ma de­
ve avere un aspetto serio ed elegante nello stesso tempo', come già scrive­
va nel 1 9 12 Camillo Olivetti, e un riconoscimento al contributo che da più
93 . Poster pubblicitario della macchina da
scrivere MPl per Olivetti, 1 95 5 .
9 4 . G. Pintori, pagina pubblicitaria p e r Olivetti,
1 965 .

95-98. Logotipi e applicazioni della pubblicazione Carattere e identità Olivetti, 1 97 1 .


130 Made in Italy

di mezzo secolo da Ivrea veniva dato alla qualità estetica - oltre che alla
· •

'modernità' - di un prodotto per l 'ufficio»1 .


Sul modello di questi prodotti, molti di altre aziende e di altro uso, ma
della stessa dimensione o ugualmente muniti di scocca a difesa dell'inter­
no meccanismo, ri.presero lo stile olivettiano - penso alla macchine per cu­
cire Mire/la della Necchi ( 1 957 ) progettata da Nizzoli; a quella intitolata
1 1 0012 ( 1 95 6 ) della Borletti, disegnata da Marco Zanuso; all'altra di Man­
giarotti e Morassutti prodotta dalla Salmoiraghi ( 1 95 8 ) , ecc. In breve, co­
me già anticipato, lo stile Olivetti influenza molta della produzione italia­
na del tempo. Ma l'azienda di Ivrea si ricorda anche per altri fattori, sia pu­
re non sempre pertinenti direttamente al campo del design, che vanno
menzionati appunto perché concorrono all'immagine e allo stile suddetto.
Intanto sul piano della politica industriale, dopo l 'assorbimento nel
1 95 9 della Underwood Corporation, l'azienda strinse accordi di coopera­
zione con alcune società, tra cui Bull e Generai Electric, affiancando pro­
gressivamente alle macchine da scrivere macchine da calcolo, mobili per
ufficio, macchine utensili e calcolatori elettronici. Tutti prodotti che, come
quelli citati, rinnovano profondamente l 'intero processo del design, dalla
progettazione all'esecuzione, dai negozi di vendita - famosi quello di Ve­
nezia progettato da Carlo Scarpa e quello di New York opera dei BBPR ­
alla grafica pubblicitaria.
Convinto assertore dell'unità fra tutti i settori dell'attività umana,
Adriano Olivetti ebbe presente il rapporto tra la fabbrica e il territorio, da
cui nasceva il concetto di «Comunità» come ebbe a definire il suo movi­
mento politico, la casa editrice e l'omonima rivista. L'idea della fabbrica e
dell'ambiente circostante economicamente solidali sta alla base di molti in­
sediamenti dell'azienda, tra i quali si distingue lo stabilimento di Pozzuo­
li, costruito dal '5 1 al '54 su progetto di Luigi Cosenza.
In campo urbanistico, Adriano fu direttore del piano regolatore della
Valle d'Aosta, presidente dell'Inu, sindaco di Ivrea e promotore di una re­
te di amministrazioni locali, soprattutto nel Canavese, che cercarono di at­
tuare alcuni principi «comunitari». Nel settore dell'editoria fondò la pre­
stigiosa Edizioni di Comunità, il citato omonimo periodico, «Zodiac» e la
bimestrale «Sele arte» diretta da Carlo Ludovico Ragghianti. Se si pensa a
quanti urbanisti, architetti, designer, sociologi, narratori, ecc. sono stati in
rapporto con la Olivetti, è difficile trovarne uno che non sia, più o meno
direttamente, legato a questo movimento, ovviamente osteggiato dal capi­
talismo di destra come dall'intellettualismo di sinistra, che trovava nel mo­
vimento olivettiano quasi l'unico rivale.
Ritornando nel nostro campo, il più efficace e sintetico giudizio
sull'operato di Olivetti è, a mio avviso, quello di Enzo Frateili: «nel conte­
sto dei prodotti ad alto contenuto tecnologico si pone la Olivetti, una in-
99. BBPR, negozio Olivetti a New York, 1 954.
1 00. C . Scarpa, negozio Olivetti a Venezia, 1 958.
132 Made in Italy

dustria che per la sua eccezionale tradizione di promotrice della cultura


progettuale potrebbe 'dettare' di per sé una storia del design italiano, lo­
calizzata sulla progettazione compresa tra la macchina per l'ufficio e i si­
stemi arredativi per l'ufficio, anche se questa 'committenza illuminata' si è
estesa all'architettura industriale, sociale, residenziale, fino ai piani urba­
nistici degli insediamenti»2.
Non ho dubbi che l'intera attività di Adriano Olivetti abbia un suo in­
confondibile stile, ma nel campo del design questo va specificato. E ciò è
stato fatto meglio degli altri da Paolo Fossati, ricavandolo dall'opera del
maggiore designer dell'azienda: «Nizzoli accentua i caratteri di esterioriz­
zazione della macchina, anche se ricerca una integrazione nell'ambito dei
particolari tecnici, e se individua alcuni temi d'uso dell'oggetto (leggibilità
delle cifre, semplificazione della manipolabilità della bottoniera, più logi­
ca concentrazione degli strumenti). Di fatto Nizzoli inaugura quella esal­
tazione di ciò che è definita allora 'funzione della macchina nell'ufficio' ,
soluzione che autoreclamizza l'oggetto come u n qualcosa che nasconde la
sua presenza industriale nella continua attenzione a particolari di caratte­
re artigianale. [ . . . ] Nizzoli ha una memoria culturale cui rimandare, [ . . ]
.

ponendo di proprio (come osserva Zevi) una alacrità di tipo artigiano, ri­
montata sull'industria. Artigiano, a questo punto, non è più il mobiliere di
tipo brianzolo che differenzia il proprio mobile per renderlo più cattivan­
te, e lo fa accentuando la caratteristica personale di quantità di lavoro im­
messovi, ma artigiano è il senso della partecipazione singola, l'individuale
mettere mano all'oggetto come procedura di un'intuizione che trascende,
anche se in fondo giustifica, la produzione meccanica, mentre mira a oc­
cultarla, a fingerla diversa da come in realtà è, e deve essere per raggiun­
gere quei risultati»3.
Sul tema dello stile e segnatamente sull'opera di Nizzoli, ritorno sulla
distinzione già operata tra Razionalismo «discreto» e «continuo», esami­
nando le sue più riuscite macchine da scrivere: la Lexicon 80 e la Lettera
22. Giampiero Bosoni scrive: «la copertura di entrambe le macchine, otte­
nuta per pressofusione, consente a Nizzoli di concepire un rivestimento
estremamente plastico, che, soprattutto nel caso della Lexicon 80, viene
sottolineato dalle curve e dalle linee determinate dal combaciare dei due
pezzi, coperchio e copertura; realizzati appunto, in quella forma estetica­
mente continua, grazie al tipo di processo produttivo della pressofusione.
La sintassi formale adottata per la Lettera 22 è invece più di tipo grafico
che plastico, come osserva Mario Labò nel suo saggio sull'estetica indu­
striale all'Olivetti: 'forma semplice, quasi un parallelepipedo, in cui le su­
perfici sono stirate rigidamente e gli angoli retti sono voltati agli spigoli se­
condo la curva del minimo raggio' . Una forma quindi ideale per il ridotto
VIII. Lo stile Olivetti 133

ingombro e l e alt re caratteristiche.necessarie a d una leggera portatile, qua­


le era stata concepita la Lettera 22»4 .

L a «corporale image»

Risulta assai significativo quanto osserva Sibylle Kircherer in un saggio


sull'arte di creare uno stile d'impresa: «nel mondo dell'industria lo Stile
può essere facilmente inteso come una accezione puramente estetica e
commerciale. Si tratta invece di un fenomeno assai più complesso, che si
rivela non solo di vitale importanza per l'esistenza stessa nel tempo delle
aziende ma che tende a diventare sempre più una questione di interesse
più generalmente culturale, vista la vertiginosa crescita che l'impatto e il
potere delle industrie hanno nel determinare la qualità della vita nella no­
stra società moderna»5.
Tra le aziende oggetto del suo esame, l'autrice tratta in particolare quel­
la di Olivetti, considerata nel periodo compreso fra il 1 924 , anno in cui
Adriano cominciò ad occuparsi dell'azienda prima della sua direzione in­
trapresa nel ' 3 3 , e l'inizio degli anni Settanta. «Egli sviluppò con l'aiuto di
Renzo Zorzi un modello culturale che poté essere continuato anche dopo
la sua morte e che diede frutti per molto tempo nonostante la non sempre
florida situazione economica della società. [ . . ] Determinato a servirsi del­
.

le tecnologie e dei metodi di lavoro più moderni, si avvantaggiò delle tan­


te e per allora sorprendenti innovazioni statunitensi, ma allo stesso tempo
ne rifiutò quei risvolti che gli sembravano imporre modi di vita e di lavoro
inumani. [ . . . ] Accanto ad investimenti tesi a rinnovare tecnologicamente e
produttivamente l'azienda, Olivetti si occupò dell'architettura dei suoi sta­
bilimenti, degli uffici, costruì case e servizi sociali, offrendo a tutti i suoi
collaboratori opportunità di informazione e di studio. In questo modo [ . . . ]
Adriano Olivetti stava gettando le basi di uno fra i primi e più completi
esempi di corporale design, ben prima che questa definizione fosse coniata
proprio sulla base delle sue teorie e delle sue realizzazioni. [ . . ] Il fascino
.

di questa visione del corporate design sta nella chiara ed immediata rico­
noscibilità dei propri scopi e della propria qualità, che ebbe modo di espri­
mersi anche con attività di ricerca pura, di solito trascurate perché lonta­
ne da un tornaconto economico, come l'esplorazione di alfabeti di remote
civiltà oppure studi sulle implicazioni tecnologiche e umane del diffon­
dersi dell'elettronica, che negli anni fra il 1 955 ed il 1 960 erano estrema­
mente avanzati»6.
134 Made Zn Italy

Note
1 A. Pansera, Storia del diSegno industriale italiano, Laterza, Roma-Bari 1 993, p. 129.
2 E. Frateili, Continuità e tra.i/ormazione. Una storia del disegno industrùzle italiano 1 928-1 988,
Albeno Greco Editore, Milano 1989, pp. 1 2 1 - 123.
3 P. Fossati, I l design in Italia, Einaudi, Torino 1 972, pp. 37-38.
4 G. Bosoni, Olivetti: il periodo di Nizzoli, in V. Gregotti, I l diSegno del prodotto industriale, Ita­
lza 7860-1 980, Electa, Milano 1982, p. 298.
' S. Kircherer, L'arte di creare uno stile d'impresa. La vera sfida del design management, in <<Do­
mus>>, n. 7 1 9, settembre 1 990.
6 lbtd. Inoltre, su questo tema, cfr. V. Pasca, D. Russo, Sulla corporate image, in <<Op. cit.», n .
120, maggio 2004.
Capitolo nono Il Compasso d' Oro e l'ADI

Tra le principali iniziative databili ancora agli anni della ricostruzione vi


sono l'istituzione del premio Compasso d'Oro ( 1 95 4 ) e la fondazione
dell'ADI (Associazione per il disegno industriale) nel 1 95 6 . Benché forte­
mente intrecciate fra loro, esse vanno descritte separatamente, poiché sia
all'inizio che successivamente hanno avuto una sorte diversa.
La precedenza va data al premio, massima espressione culturale della
Rinascente. L'azione svolta da quest'ultima sin dall'Ottocento, legata alla
tecnica organizzativa di Ferdinando e Luigi Bocconi e alla struttura di Aux
villes d'Italie, trasforma il concetto di impresa commerciale in relazione ai
p rofondi mutamenti sociali ed economici che intanto venivano afferman­
dosi. Nel 1 9 1 7 il grande magazzino venne acquistato dal senatore Borletti
ed ebbe una nuova denominazione, suggerita da D'Annunzio con oppor­
tuno senso dell'invenzione linguistica e delle sue implicazioni simboliche;
con tale nome infatti La Rinascente connette la sua vicenda a una speran­
za di rinascita nazionale, ma con le sue stesse iniziative stimola l'aggiorna­
mento della società italiana ai livelli europei 1 .
L'attività svolta dalla Rinascente consisteva nella promozione e vendita
di alcuni prodotti - dall'arredamento all'abbigliamento, dai casalinghi agli
strumenti per il viaggio e lo sport, dai giocattoli agli articoli da cancelleria,
ecc. - aventi la più alta qualità di manifattura e di gusto, la necessaria quan­
tità, il giusto prezzo, ovvero le tre classiche caratteristiche dell'industriai
design. In più, si avvaleva della diffusione pubblicitaria ad opera della gra­
fica di Marcello Dudovich e dell'appoggio della stampa, segnatamente di
«Domus». Emblematica dell'opera della Rinascente fu la creazione, tra il
'28 e il '29, del citato marchio «Domus Nova» per una linea di mobili pen­
sati da Ponti e Lancia. «L'intenzione non è solo quella di fornire, a prezzi
modesti, mobili di forme semplici ma di ottimo gusto e studiati nei parti­
colari, sì da riuscire dotati di tutte le più moderne qualità pratiche e di per­
fetta esecuzione, ma di equiparare l'offerta commerciale italiana a quella
dei grandi magazzini parigini che, in quel decennio, avevano attivato degli
136 Made in Italy

atelier per la progettazione, la produzione e la vendita di elementi d'arre­


do»2. Dopo la seconda guerra, la ditta milanese continua il suo aggiorna­
mento, questa volta sul modello degli stores americani, avvalendosi degli
stessi strumenti di diffusione pubblicitaria. L'immagine Rinascente è cura­
ta in quegli anni da· alcune delle più significative personalità nel campo del­
la grafica e del design (A. Ballo, S. Gregorietti, M. Huber, G. Iliprandi, L .
Laum, S . Libiszewski, T. Maldonado, A . Morello, B. Munari, C. Pagani, G .
Ponti, R . Sambonet, A . Steiner) che, con mostre e d esposizioni, faranno
della Rinascente uno dei centri più vivi ed attenti al dibattito culturale
sull'estetica del prodotto.
Intanto nel ' 52 viene aperta l'importante mostra «Saggio della qualità
italiana», organizzata per gli enti commerciali stranieri riuniti in convegno
internazionale a Milano, avente per tema la qualità esecutiva e del gusto
non solo come veicolo per l'esportazione, ma come incentivo esemplare al
consumo interno e alla trasformazione della produzione in termini quanti­
tativi. Nel '5 3 , nella sede milanese della ditta e nell'ambito delle iniziative
didattiche dell'ufficio acquisti, viene inaugurata una mostra dedicata
all' «estetica del prodotto»; intanto, con la collaborazione di Alberto Ros­
selli, viene proposta una cernita fra i prodotti in vendita nel grande ma­
gazzino in modo da fissarne il livello qualitativo e da prefigurare il target
del pubblico potenziale. Dilatando il problema di un'azienda privata alla
generale condizione della cultura del progetto nella logica del mercato, al­
la mostra seguì un convegno cui parteciparono Ponti, Pagani, Rosselli, Al­
bini, Zanuso, la direzione della Rinascente e alcuni dirigenti dell'Ufficio
acquisti del magazzino.
«Pare che in quest'occasione venisse confermato alla Rinascente un
ruolo di leadership culturale: proprio in assenza di altri organismi distri­
butivi del prodotto di serie, le si attribuì la possibilità di incidere in alcune
scelte produttive e di svolgere, quindi, un'educazione al gusto nella dire­
zione biunivoca della produzione e del mercato. Nasce, quindi, in
quest'ambito l'idea di un premio come contributo decisivo al problema
dell'estetica industriale in Italia, per 'onorare i meriti di quegli industriali,
artigiani e progettisti, che nel loro lavoro, attraverso un nuovo e particola­
re impegno artistico, conferiscono ai prodotti qualità di forma e di pre­
sentazione da renderli espressione unitaria delle loro caratteristiche tecni­
che, funzionali ed estetiche'»3 . Quanto il premio fosse correlato alle tipo­
logie di beni di consumo distribuiti dal grande magazzino lo dimostrano le
categorie di prodotto sopra elencate; quanto questi prodotti fossero carat­
terizzati lo abbiamo già visto richiamando le tre proprietà classiche del de­
sign; «quanto, poi, implicasse una 'divina proporzione' per lo specifico
dell'oggetto come per il generale della disciplina, per la pratica come per
l'impostazione teorica di un'armonia estetica, lo attesta la sua denomina-
1 0 1 - 1 0 3 . Grafica del
Compasso d'Oro.
1 04 . PubblicaziOne
dell'ADI.
138 Made in Italy

zione in ragione di un assunto della geometria euclidea, Premio la Rina­


scente-Compasso d'Oro»4.
Infatti l'espressione «Compasso d'Oro» si riferisce a un compasso rea­
lizzato in modo da poter determinare facilmente la sezione aurea del seg­
mento limitato dalla sua apertura. L'oro del compasso ha prevalentemen­
te un significato tecnico e matematico, alludendo alla proporzione defini­
ta «divina» da Luca Pacioli nel titolo del suo trattato del 1509. Il premio si
riallaccia così, attraverso il nome, a un modello ideale di armonia codifica­
to dai matematici dell'antichità classica. Il compasso, oggetto del premio,
in oro 18 carati, del peso di circa cento grammi, fu disegnato da Marco Za­
nuso e Alberto Rosselli, ispirandosi a modelli settecenteschi.
Quali fossero le idee, i propositi, le regole relative al premio del Com­
passo d'Oro, cui abbiamo già accennato, è dettagliatamente esposto nel
primo numero di «Stile Industria»5. Requisiti richiesti dal premio erano:
l'effettiva invenzione funzionale, l'applicazione di nuovi materiali e pro­
cessi tecnologici, l'integrazione di forma e funzione, la sintesi figurativa,
l'essenzialità formale, la perfezione esecutiva, la coerenza con la produzio­
ne e la vendita, il tutto «in una espressione controllatissima di gusto».
Evidentemente il fatto che a promuovere il premio fosse la grande di­
stribuzione fu certo un segno dei tempi che andavano allargando l'impor­
tanza dell'idea di consumo sulla formazione dell'oggetto. Il Compasso
d'Oro «non si propone solo come uno strumento di promozione e di ven­
dita, ma anche come momento d'incontro tra l'anima più 'pratica' e quel­
la più 'culturale' del disegno industriale»6. Il premio si ispirava ad analo­
ghe istituzioni straniere, ma guadagnò col tempo un'attenzione e un cre­
dito internazionali. Il suo successo fu immediato. Il concorso nazionale per
l'assegnazione del primo premio, bandito nel '54 , contò la partecipazione
di 470 industrie che sottoposero 5700 prodotti ad una giuria formata da
Borletti, presidente della Rinascente, Brustio, vicedirettore generale, e gli
architetti Ponti, Rosselli e Zanuso. Questa assegnò 15 Compassi d'Oro (in­
vece dei 20 previsti dal regolamento) alle aziende ed altrettante targhe
d'argento ai designer. Seguirono una mostra di 1 95 prodotti selezionati ed
un'altra, alla Triennale, per i 15 effettivamente premiati. La grande diver­
sità di questi ultimi, mutevole fino all'eclettismo, valeva -tuttavia ad affer­
mare il principio della qualità quali che fossero l'importanza, il genere, la
funzione di ciascun prodotto.
A tal proposito va dato atto al Compasso d'Oro, sia negli anni di ge­
stione della Rinascente, sia in quelli curati dall'ADI, della varietà dei pro­
dotti premiati, una varietà che disancora il design dal campo più privile­
giato, quello del mobile e dell'arredo, per estenderlo ai settori più vasti del­
la produzione. Esemplificando, nell'edizione '59 , i prodotti prescelti furo­
no: il calcolatore elettronico Elea di Ettore Sottsass jr. per Olivetti; la Fiat
IX. Il Compasso d'Oro e l'ADI 139

500 di Dante GiacÒsa; lo spremilimone Ks 1481 di Gino Colombini per


Kartell; il microscopio LGT/2 di Ambrogio Carini per la Galileo; il conte­
nitore impermeabile di Sandro Bono per la Fratelli Bono; la lampada stra­
dale n. 4053 di Oscar Torlasco per la Greco di Milano. Nel 1 960 i prodot­
ti selezionati furono: il Flying Dutchmann di Danilo Cattadori per la Alpa;
l' aereo da turismo Falco F 8 . L. di Stelio Prati per Aviomilano; la lavatrice
Castalia della Cge; il Thermovar Feal di Giovanni Varlonga per la Feal; lo
scolapiatti di Gino Colombini per Kartell; l'orologio Static di Richard Sap­
per per la Lorenz; il cupolino estrattore d'aria per cappe della Marelli; la ten­
da da campeggio di Mario Germani per la M o retti; la sedia scolastica di Cac­
cia Dominioni, A. e P.G. Castigliani per la Palini; l'auto sportiva Abarth
Zagato 1 000 per la Zagato. In breve, se non fosse per queste piccole e gran­
di cose, la storia del design italiano sarebbe quella dei tappezzieri e, nel mi­
gliore dei casi, degli elettrotecnici.
Nel triennio dopo il '54 la fortuna del premio è in netta ascesa in con­
comitanza con l'interesse culturale. Oltre la presenza costante di Borletti e
Brustio, rappresentanti della Rinascente, nella formazione delle giurie si
alternano Rosselli ('54, '55 , '56), Zanuso ( '54, '55 ) , Albini ('56, '57 ) , Pier
Giacomo Castigliani ( '56, '57 ) , Ponti ( '5 4 ) , Rogers ( '55) e Gardella ('57) ,
« a dimostrare l'attenzione ad articolare l'organismo giudicante per com­
petenze, a garantirgli una uniformità, a concedergli periodici innesti cul­
turalmente dinamici>/.
Dal '55 al '62 il Compasso d'Oro viene assegnato oltre che ai prodotti,
anche a personalità nazionali e internazionali (nel '55 ad Olivetti ed a
Breuer) . Nel 1 95 9 La Rinascente fece dono del premio all'ADI, e fino al
1 964 la manifestazione fu gestita, in collaborazione, dal grande magazzino
e dall'associazione. Da questa data il premio passò unicamente all'ADI,
con il fine di allargare la partecipazione al premio ad un orizzonte mer­
ceologico-industriale più ampio di quanto fosse vendibile nel grande ma­
gazzino. N el 1 962 la manifestazione prende un ritmo biennale fissando la
gamma dei premiati ad un massimo di dieci prodotti ed eliminando il con­
ferimento delle segnalazioni d'onore. L'ADI nel novembre '67 innova il ge­
nere di assegnazioni, conferendo tre Compassi d'oro al settore degli studi
critici. Vengono premiati in questa occasione il n. 85 di «Edilizia moder­
na», dedicato completamente al design, le «Ricerche di design 1 946-67»
condotte da Roberto Mango alla Facoltà di Architettura dell'Università di
Napoli e le «Ricerche individuali» di Enzo Mari. «Secondo alcuni critici,
comunque, i p remi elargiti tra il 1 954 e il 1 95 8 si caratterizzarono per
un'ottica di diffusione anche 'didattica', quelli assegnati tra il 1 95 8 e il
1 962 miravano a sottolineare le qualità intrinseche dei prodotti, mentre
dopo quella data s'imposero delle motivazioni consumistiche e gli oggetti
premiati apparvero sempre meno distanti dal livello 'medio' della produ-
140 Made in Ita!y

zione, mentre avveniva il passaggio dal manufatto product oriented a quel­


lo marketing oriented»8.
Dopo il '68, esattamente dopo l'edizione del 1 970, l'ADI per nove an­
ni non assegna più premi, salvo a riprendere la manifestazione con nuovi
criteri che peraltro si rinnoveranno fino ai nostri giorni. Come si vede un
andamento piuttosto ondivago in relazione al dibattito che intanto veniva
·

sviluppandosi all'interno dell'ADI.


Questa, come si è detto, nasce nel l 956 con un concorso di convergen­
ze diverse: un'idea di Ponti esposta su «Domus»; il contributo di un grup­
po di intellettuali e architetti interessati al design - Mario Revelli, Ro­
mualdo Borletti, Gianni Mazzocchi, Rogers, Zanuso, Rosselli, Albini, ecc.
- e di due industriali tra i più attivi, Giulio Castelli e Antonio Pellizzari. Il
Primo Manz/esto per il disegno industriale apparso sul n. 269 di «Domus»
del 1 952 già definiva «la situazione italiana specialissima, stranissima, pa­
radossale, perché se da un lato vi è l'inesistenza 'ufficiale' della professio­
ne del 'disegnatore industriale' , simultaneamente vi è - accanto alla pre­
senza di produzioni che raggiungono gradi elevatissimi di stile per carat­
tere e coerenza estetica - la presenza addirittura di personalità che proprio
nel disegno industriale si impongono al mondo».
Il programma dell'ADI era riunire architetti, designer, indusuiali, criti­
ci, tecnici della produzione e della distribuzione al fine di «promuovere un
ambiente più favorevole agli sviluppi di questa disciplina anche in Italia
[ . . ] allargando le conoscenze specifiche che concorrono a questo scopo»
.

(Statuto dell'ADI) . Le adesioni furono subito numerose e qualificate dalla


presenza di Argan, Enzo Paci e Leonardo Sinisgalli, oltre che dei maggio­
ri architetti italiani. Ma in questa sede interessano le posizioni talvolta di­
verse degli stessi soci fondatori. Infatti, mentre alcuni richiedevano non
una «associazione di categoria di disegnatori, ma come concentrazione di
tutte le forze e di tutti gli interessi che gravitano intorno al disegno indu­
striale, ivi compresi gli industriali», altri puntavano «verso una sicura qua­
lificazione sia delle persone che dei programmi piuttosto che allargarla ec­
cessivamente, togliendole un carattere e una fisionomia che specie agli ini­
zi può rappresentare la sua forza maggiore e la sua stessa ragione di vita»;
si proponeva il «tentativo di integrare ragioni di vita, di lavoro e di inte­
ressi per una recente tradizione molto separate tra di loro» e quindi di
«uscire da una tradizione sbagliata che non ha fatto fino ad oggi che ac­
crescere il disagio e da un isolamento dannoso per tutti, per l'industria, per
l'arte, e per la cultura in genere [. .. ] . Il disegno, la qualità di un oggetto in­
dustriale, ce ne accorgiamo ogni giorno di più, è oggi molto meno compe­
tenza della tecnica o dell'arte o dell'organizzazione, quanto di quel parti­
colare ambiente o clima in cui tecnica, arte e organizzazione abbiano tro­
vato modo di essere perfettamente assimilati»; infine, specie da parte di
IX. Il Compasso d'Oro e l'ADI 141

Pellizzari, si raccomandava che oltre che «alla razionalizzazione e all'este­


tica della forma» si dovesse giunge;e anche ad una riduzione dei costi di
produzione e dei prezzi di vendita: «qualora infatti l'abbellimento esterio­
re non determinasse anche una riduzione. dei costi non si potrebbe parla­
re di disegno industriale, ma piuttosto di accademismo formale di utilità
davvero discutibile». Da altri soci fondatori emergevano diversi atteggia­
menti. Valga per tutti l' accento di retorica italianità professato da sempre
da Gio Ponti: «noi non abbiamo ricchezze di materie prime, abbiamo dal­
la storia e dalla vocazione una buona materia prima cerebrale [ . . ] . Il mon­ .

do, generosamente e con fiducia, ce la riconosce e si aspetta da noi quelle


cose che possiamo produrre secondo una tradizione di purezza e di logica.
Esso ha accolto la 'linea italiana' nelle automobili, ma il merito italiano di
questa linea è che essa non deriva da un gusto grafico, ma dalla intuizione
- concepita prima di tutti - della più sincera forma dell'automobile, ri­
considerata con quello stesso intendimento di purezza ed essenzialità con
il quale un artista tende alla forma perfetta. Questo è stato un successo di
un modo italiano (ecco il valore della vittoria) di vedere le cose esclusiva­
mente secondo essenzialità e purezza, contro chi le considera assecondan­
do i gusti del compratore, interessi che non hanno nulla a che vedere con
ogni considerazione di valore estetico»9. Oltre che sul piano teorico e del­
la ricerca, l'ADI si fa promotrice di numerose mostre, conferenze, conve­
gni e seminari sulla progettazione e sulle metodologie progettuali, il tutto
sempre riflettendo le mutevoli condizioni della reale vicenda del design.
Primo presidente dell'ADI, con sede iniziale presso il Museo della
Scienza e della Tecnica, fu Alberto Rosselli che era al tempo stesso diret­
tore della rivista «Stile Industria», pubblicata dal '5 3 al '64 , da considerar­
si il principale organo di stampa dell'Associazione e il maggiore legame fra
questa e altre istituzioni come la Triennale.

Note
1 Cfr. M.C. Tonelli Michail, La Rinascente e la cultura del design, in <<Op. cit.>>, n. 8 1 , maggio
1 99 1 .
2 Ibzd.
3 Ibid.
4 Jbid.
5 Cfr. Un premio per l'estetica del prodotto, in «Stile Industria>>, n. l , giugno 1 954.
6 A. Grassi, A. Pansera, L 'Italia del design. Trent'anni di dibattzto, Manetn Editore, Casale Mon-
ferrato 1 986, p. 3 0 .
7 Ibzd.
8 Ibid.
9 Citato in Grassi, Pansera, L'Italta del design. Trent'anni di dibattito cit., pp. 3 8-39.
Capitolo decimo Lo stile .«neo-s torico»

Come in architettura, anche nel campo del design c'è stato un momen­
to in cui la «contestazione del presente» spinse molti autori ad una rinno­
vata relazione con la storia. Il rapporto storia-progettazione, del quale
molti di noi si sono occupati, continua periodicamente a porsi con insod­
disfacenti esiti. Personalmente sono giunto alla seguente conclusione: fin­
ché il progetto di una fabbrica o di un prodotto industriale attingerà dalla
storia definite caratterizzazioni stilistiche, ben identificate tendenze, com­
piute conformazioni di opere e ambienti, in una parola costruzioni com­
pletamente realizzate e facilmente individuabili, tale progetto riprenderà,
ripetendole più o meno passivamente, opere già catalogabili come eventi
storici e avrà un marchio storicistico, eclettico, revivalistico nel significato
peggiore. Se, viceversa, il nuovo progetto attingerà dalla storia non com­
piute conformazioni, bensì tipi, elementi discreti, regole combinatorie,
tecniche rimaste invariate, ecc., detto progetto avrà individuato termini
appunto invarianti del sistema linguistico, fattori strutturali e strutturanti
dell'architettura o del design che potranno in piena legittimità essere uti­
lizzati nel programmare un'opera nuova, ancorata sì alla tradizione e alla
logica interna della disciplina, ma del tutto inedita, in quanto i termini pre­
levati perderanno il loro primitivo carattere storico per acquisirne un altro,
quello proprio del manufatto progettato. Quanto precede trova conferma
in ciò che sostiene Eco in campo linguistico. Parlando dei vari codici ar­
chitettonici, sintattici, semantici, sociali, ecc., e di quelli da essi derivati,
egli sostiene: «l'aspetto che colpisce in tutte queste codificazioni è che es­
se mettono in forma soluzioni già elaborate. Sono cioè codificazioni di tipi
di messaggio. Il codice-lingua è diverso: mette in forma un sistema di rela­
zioni possibili dalle quali si possono generare infiniti messaggi. A tal pun­
to che è apparso persino impossibile individuare delle connotazioni ideo­
logiche globali riferibili a una lingua. Una lingua serve a formulare ogni ti­
po di messaggi, connotanti le ideologie più diverse»1 .
Negli anni seguenti l a seconda guerra mondiale, s i diffondono in Italia
X Lo stile «neo-storico» 1 43

voci avverse al Razionalismo; si pa!la di un suo «superamento», peraltro


ingiustificato, in quanto esso non fu in Italia mai completamente attuato.
Accanto al dibattito sul movimento organico sostenuto da Zevi, in gran
parte motivato non come una negazione . dell' architettura razionale quan­
to piuttosto come una sua integrazione, si afferma, come già detto, un ri­
pensamento del rapporto storia-architettura. «Il riesame critico della tra­
dizione è stato il grande e rischioso argomento di dibattito e di meditazio­
ne da cui ha preso le mosse tutta la produzione italiana del dopoguerra»2.
Da questa comune matrice si ebbe il Neorealismo (Ridolfi, Quaroni, Ay­
monino) che proponeva il recupero di una storia popolare; e ciò in perfet­
ta assonanza con la stagione migliore del cinema italiano e il cosiddetto
Neoliberty che proponeva il ripensamento della storia in chiave borghese.
La prima tendenza, affermatasi quasi totalmente in ambiente romano,
non riguardò in alcun modo il campo del design e come tale è estranea a
questo volume. Tuttavia, pur con l'ammirazione sia per il cinema sia per
l'architettura neorealista, è spiegabile, dopo oltre un decennio, il passag­
gio da questi ad altri orientamenti del gusto: chi non era stanco degli epi­
goni del Neorealismo come i vari film Pane, amore e qualcos'altro e pre­
. . .

diligeva piuttosto i film di Antoniani, che non trattavano più di proletari e


sottoproletari, bensì di più normali ambienti borghesi e delle relative in­
quietudini? Ma, oltre il cinema, il cambio di protagonismo da una sola
classe sociale ad altre può benissimo motivare lo spostamento dal Neorea­
lismo al Neoliberty.

Azucena

Precedente di questo stile nel campo del design è un'azienda particola­


re, l'Azucena, nata dal dialogo tra produttore, architetto, artigiani e clien­
ti, di cui tutto può ascriversi allo stile neo-storico. Nel ricordo dei prota­
gonisti, l'Azucena - il cui nome è mutuato dalla zingara del Trovatore,
combattuta tra l'amore materno e quello filiale - nacque nel settembre
1 947 quando Luigi Caccia Dominioni, Ignazio Gardella e Corrado Corra­
di Dell'Acqua pensarono di affidare a Maria Teresa e Franca Tosi i loro di­
segni di mobili, lampade e oggetti affinché venissero raccolti e posti allo
studio per una produzione di piccola serie da utilizzare negli arredamenti
da loro progettati. Più tardi i personaggi citati, cui intanto si era unito Vi­
co Magistretti, si mossero anche in senso inverso: disegnando arredamen­
ti completi, scorporarono mobili e oggetti che entrarono a far parte del ca­
talogo Azucena. Questo mostra ancora oggi una collezione unica compo­
sta da circa centocinquanta pezzi, alcuni dei quali mantenuti in vita da più
1 05 . L. Caccia Dominioni,
Tavolo ovale per Azucena,
1 948.
1 06- 1 08. A. e P.G. Castiglioni,
Tavolo Leonardo
per Zanotta,
1 968: foto, disegni
di prospetto e sezione.
X. Lo stile «neo-storico» 145

di 5 0 anni, grazie ad una produzio�e a tutto campo che coinvolge artigia­


ni italiani di altissimo livello.
Che cosa caratterizza questi prodotti nell'immediato dopoguerra e li di­
stingue ancora nel panorama del design o .dell'artigianato contemporaneo?
Intanto i suoi promotori, la loro estrazione sociale, il loro precorrere il gu­
sto assumendo come referente alcuni modelli del passato; un atteggiamen­
to seguito da altri autori solo recentemente, donde l'attualità della vecchia
ditta. In secondo luogo l'eclettismo, sia in ordine alla varietà degli oggetti
prodotti, sia in ordine a quella delle loro stesse forme; e tuttavia il loro sti­
le è inconfondibile. La particolare prerogativa di questa ditta sta infatti
nell'accostamento versatile di materiali nuovi e tradizionali, nonché di ela­
borati industriali ed artigianali. Quale accentuazione stilistica nelle collane
prodotte è il richiamo alla natura essenziale dei materiali: la lacca, l'ottone
cromato lucido, il cristallo rivelano una costante ricerca di luminosità, bril­
lantezza, trasparenze nei materiali come nelle finiture e nei colori, per ri­
fuggire da una convenzionale severa opacità. Un'altra caratteristica del­
l' Azucena è la costanza della produzione: la gran parte dei suoi mobili e
oggetti si ripete resistendo ai flussi e riflussi delle mode. Soprattutto infine
questi manufatti, siano essi ispirati al passato o alla più flagrante attualità,
sono nati con l'intento e hanno dimostrato la capacità di coesistere con l'ar­
redamento tradizionale, di ben figurare in austere dimore antiche. Non so
se è così, ma mi piace pensare che uno dei primi prodotti dell' Azucena sia
quel famoso lampione di Caccia Dominioni con il globo in vetro satinato
con sopra e sotto sostegni a curve e controcurve in ottone, il tutto sospeso
al soffitto da una robusta catena; nulla di più anacronistico, monumentale
e retrodatato di quest'oggetto nell'Italia del Neorealismo, della prefabbri­
cazione, dei tentativi di avviare una produzione del mobile popolare per la
grande serie. Eppure questa curiosa lampada da interni, tra umbertina e
neoclassica, è diventata il paradigma, non solo di altre soluzioni semplifi­
cate proposte dalla stessa Azucena, ma anche di diverse aziende dalla linea
moderna più ortodossa. Un'altra provocatoria opera di Caccia Dominioni
è il divano-letto Chesa-Laria (non quelli che si trasformano con complicati
meccanismi), solido, monolitico, con quattro sfere di legno massiccio che
coronano i montanti del mobile, così dissimile da tutti i letti prodotti negli
anni Cinquanta e dopo, oscillanti fra semplici sommier in nastro card-gom­
mapiuma e «macchine per dormire» con comodini, luci, cassetti e menso­
le incorporate. E anche questo letto sui generis diventa il primo di una se­
rie semplificata e ammodernata. Ma il capolavoro dell'architetto, vera sin­
tesi di antico e nuovo - dopo pezzi di estrema eleganza come il tavolo del
1 95 0 dal sottile piano ovale in legno con sostegni in tondino di ottone neo­
classicamente incrociati -, è la poltrona Catilina. Quanto ai mobili e oggetti
disegnati da Gardella, essi non hanno la spregiudicatezza storicistica di
1 09. Lampione da soffitto per Azucena, 1 948.
1 1 0. L . Caccia Dominioni, poltroncina Catilina per Azucena, 1 958.
1 1 1 . L . Caccia Dominioni, divano letto Chesa Laria per Azucena, 1 959.
X. Lo stile «neo-storico» 147

quelli menzionati; sèmbrano cercart; un pretesto funzionale - come nei


piedi di ottone regolabili del tavolo tondo del '5 1 - o tendono a utilizzare
elementi già industrializzati - come le bocce di vetro delle vetture tran­
viarie ricomposte in sofisticati applique - ma il risultato è analogo a quel­
lo di Caccia: pezzi concepiti per una élite che ama ritrovare nell'elemento
d' arredo moderno un ricordo della tradizione; valga per tutti il caso della
lampada da tavolo A renzano del '56, una semisfera di opalino con base, fu­
sto e anello in ottone. Ancor più tipica della linea di Azucena è forse quel­
la degli oggetti non elaborati da un architetto o da un designer ma da un
gentiluomo di gusto qual è Corrado Corradi Dell'Acqua. È a lui che si de­
vono, a eccezione di qualche mobile, quasi tutti i manufatti straordinari
prodotti dalla ditta : dall'attaccapanni in ottone e biglie colorate, che ri­
prende e nobilita un modello anonimo e popolare, alle varie fogge di ma­
niglie, dai pomoli ai cachepots in ceramica, dalle piccole lampade agli
astucci di ogni sorta.
S'è detto che i designer di Azucena hanno la vocazione ritrattistica del­
la dignità borghese e che essa ricalca la Wiener Werkstiitte, ma non è così.
Gli austriaci ebbero filiali nelle maggiori città del mondo, e probabilmen­
te proprio questo propagarsi fu una delle cause del loro fallimento econo­
mico o, quanto meno a un certo punto, della loro concessione al gusto cor­
rente. Viceversa, il senso dell'Azucena sta in una sorta di «fascino segreto»
non della borghesia, perché è proprio di questa classe la disposizione allo
sviluppo, all'espansione produttiva, alla concretizzazione. È piuttosto, di­
ciamolo con franchezza, al modello aristocratico che si ispira la ditta di via
Visconti di Modrone, con il suo distaccato disinteresse, lo spirito conser­
vatore, il gusto un po' decadente. Probabilmente vi sono dei limiti in que­
sto atteggiamento, ma certamente non può passare inosservato in un mon­
do frenetico, presenzialista, esibizionista come quello attuale.

Neoliberty

Quanto al design neoliberty, la sua origine è collegabile all' «Osservato­


re delle Arti Industriali», aperto a Milano alla fine degli anni Cinquanta,
che era al tempo stesso editore di una rivista, galleria di prodotti per l'ar­
redamento e frequentato punto d'incontro fra architetti, industriali, criti­
ci e designer. In questa sede fu organizzata nel marzo 1960 la rassegna
«Nuovi disegni per il mobile italiano», ordinata da Guido Canella e Vitto­
rio Gregotti, allestita da Gae Aulenti e Canella. Vi presero parte molti ar­
chitetti-designer, alcuni dei quali esordienti o comunque appartenenti alla
più giovane generazione e molti di costoro allievi di Ernesto N. Rogers e
collaboratori di «Casabella-continuità». Gli espositori erano Michele
1 1 2 - 1 1 7 . L. Caccia Dominioni,
oggetti d'arredo per Azucena:
lampada Tromba, lampada
Arenzano, poltrona
Ambrosianeum, tavolo Nonaro,
cassettone Quattro cassetti, sedia
Nonaro con braccioli.
X. Lo stzle «neo-storico» 149

Achilli, Sergio Asti, Gae Aulenti, Pierfausto Bagatti Valsecchi, Daniele Bri­
gidini, Franco Buzzi Ceriani, Maurizio Calzavara, Guido Canella, Sergio
Favre, Leonardo Ferrari, Leonardo Fiori, Roberto Gabetti, Vittorio Gre­
gotti, Aimaro Isola, Laura Lazzani, Lodov.ico Meneghetti, Anna, Giane­
milio e Piero Monti, Fulvio Raboni, Umberto Riva, Ugo Rivolta, Sergio
Rizzi, Aldo Rossi, Domenico Sandri, Antonio Scoccimarro, Giotto Stop­
pino, Silvano Tintori, Virgilio Vercelloni.
La loro posizione era così espressa nel catalogo: «Questa mostra non è
un bilancio informativo intorno al lavoro delle più giovani generazioni di
architetti italiani, né, d'altra parte, il manifesto di una nuova tendenza.
Dell'una mancano obiettività e completezza di informazione; dell'altra
compattezza di ideali e vigore polemico contro i propri predecessori. Que­
sta mostra è nata dalla preoccupazione di fissare fenomeni nuovi che, pre­
senti in molti degli architetti italiani, sembrano fra i giovani più caratteriz­
zati, se non più coscienti; qualunque sia la forza progressiva di tali feno­
meni essi hanno già portato alla superficie problemi ed inquietudini
p rofonde che sarebbe illogico mimetizzare o trattare in vesti di crisi per­
sonali a favore di una presunta politica di compattezza della cultura archi­
tettonica. Il criterio sintomatologico che ci ha guidati nella scelta dei pez­
zi da esporre è quindi assai più legato al possibile significato delle imma­
gini che alla compiutezza tecnologica e formale delle opere esposte. [. .. ]
L'oggetto sembra tentato di uscire da una presunta realtà distinta, con­
trapposta, in cui lo poneva la sua soggezione al processo funzione-forma.
Esso tende ad assumere una maggiore funzione emblematica, a farsi pos­
sedere dai sentimenti, a significare con passione diversi contenuti»3.
Il testo citato, francamente di non grande chiarezza, esprime una testi­
monianza al tempo stesso critica e prudente, una documentazione di qual­
cosa non ancora definito e quasi in attesa di nuovi eventi. Più o meno ana­
loghi, sia pure con diverse angolazioni personali, sono gli altri interventi
nel catalogo a firma di Gregotti, Aldo Rossi, Gabetti e Isola e Guido Ca­
nella, tutti della categoria degli «architetti che scrivono», affermando una
positiva condizione della giovane generazione di progettisti italiani del
tempo.
Tra i mobili più riusciti in quella esposizione vanno citati: la poltronci­
na Cavour disegnata da Gregotti, Meneghetti e Stoppino, prodotta dalla
Sim di Novara, per la quale progettarono anche una libreria a cavalletto; il
tavolo tondo di Asti e Favre, realizzato dalla Xilografia Milanese; la pol­
trona a sdraio in rattan e vimini di Umberto Riva, prodotta per conto del­
la Rinascente; e, più liberty di tutti, il cassettone con ribalta, progettato da
Gabetti e Isola, realizzato dalla Colli di Torino. Associabili in qualche mo­
do alla stessa tendenza, ma non esposti nella mostra citata, sono: la pol­
trona Sanluca dei fratelli Castigliani, autori anche dello spillatore Spina-
150 Made in Italy

matic; la poltrona a dondolo Sgargul di Gae Aulen�i e quella denominata


480 1 -48 1 1 in legni compensati di J oe Colombo.
Nonostante la moderazione degli intenti, incisiva fu l 'influenza degli
espositori nella discussione degli anni successivi, sia nel campo dell'ogget­
to per la casa sia .nell'orientamento di pubblico ed operatori verso un più
articolato e critico senso della storia. I vari oggetti esposti - seggiole, pol­
trone, credenze, tavoli, librerie, letti, càssettoni, lampade, ecc. - furono
giudicati da Dorfles come il passaggio «da un'era di geometricità rettan­
golistica ad una di sinuosità 'enveloppante'». Viceversa, molto più pesanti
- ed estese dal design all'architettura - furono le avverse critiche di Zevi e
di Reyner Banham. Questi dalle pagine di «Architectural Review» giunse
a sostenere la «ritirata italiana dall'architettura moderna». Per di più di­
chiarò di credere che «la rivoluzione nella casa cominciò con le cucine elet­
triche, gli aspirapolvere, il telefono, il grammofono e tutti quegli altri ausi­
lii meccanici che favoriscono il vivere bene e che tuttora invadono le pare­
ti domestiche ed hanno definitivamente mutata la natura stessa della vita
nella casa e il significato dell'architettura delle abitazioni». Di fronte a tali
argomentazioni Rogers ebbe facile gioco chiamando il suo interlocutore
«custode dei frigidaires» nell'articolo di risposta che, se da un lato impar­
tiva una lezione di storia dell'architettura, dall'altro tendeva anche a soste­
nere i suoi allievi impegnati fino in fondo a mettere in p ratica quanto la ri­
vista veniva teorizzando in quegli anni4.
Come che fosse la polemica, personalmente ritengo che quella mostra e
in genere il fenomeno del Neoliberty costituirono - insieme con «Casa­
bella-continuità», che resta la maggiore rivista d'architettura dal dopo­
guerra ad oggi - dalla seconda metà del secolo scorso il fatto più impor­
tante, almeno sul piano dell'evoluzione del gusto, sia nel campo dell' ar­
chitettura che in quello del design. Il Neoliberty - da distinguersi dalle tro­
vate neoavanguardistiche successive e da quelle di qualche battitore libero
- segnò positivamente, e tramite la storia, la svolta fra il primo Razionali­
smo «discreto» e quello «continuo», tendenza prevalente fino ai nostri
g10rm.
Intanto agli oggetti di quella mostra e agli altri ad essa avvicinabili non
mancarono i riconoscimenti, segnatamente alla sedia Cavour in legno cur­
vato, progettata da Gregotti, Meneghetti e Stoppino, come pure alla pol­
trona Sanluca dei fratelli Castigliani.
Né fu solo il Neoliberty, tendenza presente anche in architettura, il sin­
tomo di una rinnovata attenzione verso la storia; basti pensare all'edificio
di Gardella alla Giudecca, alla Torre Velasca dei BBPR, a tutta l'opera di
Aldo Rossi e, all'estero, a quelle di Louis Kahn, di Stirling, persino di Gro­
pius; mi riferisco all'Ambasciata americana ad Atene. In particolare «Kahn
apprese, pure alla maniera Beaux-Arts, a considerare gli edifici del passa-
1 1 8. Catalogo della mostra

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Nuovi disegni per il mobile
italiano, 1 960.
1 1 9. V . Gregotti, L. Meneghetti
e G. Stoppino, poltroncina
Cavour.

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120. S . Asti e S . Favre, tavolo.


1 2 1 - 12 3 . A. e P.G. Castiglioni, poltrona Sanluca per Bernini, 1 96 1 .
1 24 . M . Bellini, poltroncina Cab 4 1 3 per Cassina, 1 980.
X. Lo stile «neo-storico» 153

to come amici, piuttosto che nemici; amici da cui ci si aspettava, e forse più
per intima comunione che per véra comprensione, di ricevere generosa­
mente dei prestiti»5.

«I Maestri» della Cassina

Ritornando al design, l'operazione più «scandalosa» fu quella ideata,


progettata e condotta da Filippo Alison per conto della Cassina. Iniziata
negli anni Sessanta, la collana intitolata «l Maestri» intendeva riproporre
mobili ed oggetti di Mackintosh, Rietveld, Asplund, Le Corbusier, ecc.,
rientrando a tutti gli effetti nell'intero movimento di revisione storica do­
po l'astinenza dal passato durata più del necessario. Essa valeva anzitutto
come critica contestazione della produzione presente; come recupero di
valenze rimaste inesplorate (in quegli anni si diceva proprio così) o non
completamente svolte, ma valeva soprattutto come fenomeno «progettua­
le». Pur essendo in quanto tale un'azione di vertice, da addetti ai lavori,
questa muoveva da istanze più generali: si parlava di ansia di certezze, di
desiderio di evitare ulteriori sprechi culturali, della volontà d'invertire la
tendenza verso le effimere mode e del circolo vizioso del consumismo. Co­
sicché, lungi dall'essere un'attività nostalgica, una fuga dal presente, un
eclettico revival, il riproporre l'opera dei Maestri, con l'annessa indagine
critica e filologica, è stato uno dei più tangibili aspetti della ricerca sul rin­
novato rapporto storia-progettazione. Nella fenomenologia di tale rappor­
to, cui tutti fummo in un modo o nell'altro impegnati, nel far rivivere
dall'oblio un vecchio mobile, nel dar corpo ad uno schizzo originario ma­
terializzandolo in un moderno oggetto, il termine storia perdeva ogni aura
e ogni estetismo per darsi come campo «operativo», mentre il termine pro­
gettazione perdeva ogni velleitaria pretesa di modificare la realtà e di pro­
grammare il nuovo al di fuori di ogni precedente e di ogni codice.
Se la collana «l Maestri» della Cassina ripropone alla lettera mobili ed
oggetti di Mackintosh e più tardi di Wright, altri casi di «recupero» stori­
co si affidano alla metafora, all'idea che abbiamo del passato, allo stile che
immaginiamo sia stato allora in vigore. L'esempio più emblematico è il ta­
volo Leonardo che Achille e Pier Giacomo Castigliani progettano per Za­
notta ( 1 968) . Ma, a proposito di «immaginario storico», mi pare non ci sia
esempio migliore di una rivisitazione della romanità antica, evocata anche
dal nome Catilina della già citata poltroncina di Luigi Caccia Dominioni.
Un altro caso di rapporto fra storia e progettazione è riscontrabile nel­
la sedia Young Lady, di Paolo Rizzatto, prodotta dall'Alias nel 1 99 1 , e ci­
tata qui anche per altre caratteristiche. Essa è composta da una base a trep-
MEUBEL:
MA KE�U
RIE.TVELD
AD�� AN
OSTADE
�AAN25

125. Ch.R. Mackintosh, poltrona Willow, 1 904 (nella riedizione Cassina, 1 973 ).
126- 1 29. Quattro simboli della collana «I Maestri» di Cassina, curata da F . Alison.
X. Lo stile «neo-storico>> 155

piede in alluminio p ressofuso e da una scocca di seduta in paglia di Vien-


'
na con telaio in legno.
Nel descrivere il modello di Rizzatto, Vanni Pasca ne esalta l'essenziale
precisione compositiva che tiene insieme una complessità di elementi tec­
nologici, di materiali e memoria: «pa&mdo del suo lavoro Rizzatto indivi­
dua tre parametri: storia, tecnica e razionalità. I suoi oggetti mostrano
quell'attenzione alla memoria che non è nostalgia né riferimento alla sto­
ria intesa come bric-à-brac di forme, ma è rifiuto della 'superstizione del
nuovo' (Valéry) . Questa posizione, che rifiuta la rottura con la storia come
valore fondativo della modernità, caratterizza già negli anni cinquanta il
dibattito progettuale milanese»6 .
Lo stile neo-storico non si ferma agli esempi citati. Il loro elenco po­
trebbe a lungo continuare, includendo anche quei casi in cui il ricorso al­
la storia avviene con numerosi altri intenti: il gioco, l'ironia, la voluta in­
congruenza tra vecchie forme e nuovi materiali; si pensi a molti prodotti
disegnati da Starck.

Note
' U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968, p. 224.
2 P. Portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty, in <<Comunità», n. 65, dicembre 1958.
3 AA.VV., Nuovi disegni per il mobile italiano, Catalogo della mostra omonima presso L ' Osser­
vatore delle Arti Industriali, Milano 1 4-27 marzo 1960.
4 E. N. Rogers, L 'evoluzione dell'architettura, risposta al custode deifrzg,idaires, in <<Casabella-con­
tinuità>>, n. 228, giugno 1959.
5 V. Scully, Louis I. Kahn, Il Saggiatore, Milano 1 963 , p. 1 2 .
6 V. Pasca, Design negli anni novanta, in F. Carmagnola, V. Pasca, Minimalismo, etzca delle /or­
me e nuova sempltcità nel design, Lupetti, Milano 1996, pp. 1 06-107.
Capitolo undicesimo Il de�ign e le arti

Abbiamo già trattato questo argomento a partire dal Futurismo. Oltre


al fatto che molti designer esordiscono come pittori e grafici (Nizzoli, Mu­
nari, Mari, e tanti altri fino ai nostri giorni) il rapporto si ripresenta, come
già visto, fra gli astrattisti comaschi Rho, Radice, Reggiani e i primi desi­
gner razionalisti; nel dopoguerra è il concretismo del Mac ad ispirare al­
cuni progettisti di oggetti industriali; successivamente si può vedere una
relazione tra questi ultimi e la Pop Art, l'Arte cinetica e programmata,
l'Arte povera, l'Arte concettuale e la Minima! Art cui dedicheremo un ap­
posito capitolo. Non volendo dare nulla per noto, ricorderemo le princi­
pali caratteristiche di queste tendenze per associarle a parallele esperienze
riscontrabili in correnti ed opere realizzate nell'ambito del design.

Pop Art

Con buona pace di Argan che liquidò questa tendenza come «anarchia
di destra, qualunquismo reazionario» [G.C. Argan, Progetto e destino, Il
Saggiatore, Milano 1 963 , p. 5 1 ] , essa ha avuto un elevato valore sociale: è
stata l'ultima espressione artistica in grado di rappresentare una condizio­
ne socio-culturale di un momento storico ad essa contemporaneo, nel no­
stro caso la «cultura di massa». Diamone qualche cenno: «all'indomani
della seconda guerra mondiale, la sociologia americana scopre la Terza
Cultura, la riconosce e la nomina: mass-culture. Cultura di massa, vale a di­
re prodotta secondo le norme della fabbricazione di massa industriale; di­
vulgata mediante le tecniche di divulgazione di massa (che uno strano neo­
logismo anglolatino chiama mass media ) ; rivolta a una massa sociale, cioè
un gigantesco agglomerato di individui colto al di qua e al di là delle strut­
ture interne della società (classi, famiglia, ecc.)»1. Questa cultura, terza do­
po quelle religiose-umanistiche e nazionali, «è cosmopolita per vocazione
e planetaria per estensione, ci pone i problemi della prima cultura univer-
XI. Il design e le arti 157

sale della storia · dell'umanità»2. Jali problemi sono stati ampiamente di­
battuti: si è parlato di manipolazione, di eterodirezione, di una perversità
insita negli stessi mezzi indipendentemente dai modi di gestirli, ecc.
Dall'ottica di vecchie ideologie e di Uf). generico moralismo si è stigmatiz­
zata la cultura di massa come espressione del capitalismo, del consumi­
smo, di un insensato «godimento presente», di un feticismo del tempo li­
bero e simili, dimenticando che dovunque, in qualsiasi sistema socio-poli­
tico, appena le condizioni economiche lo hanno consentito, molte di que­
ste «negatività» hanno assunto il ruolo di valori ampi e condivisi.
La più corretta posizione di fronte ai suddetti problemi ci sembra quel­
la indicata dallo stesso Edgar Morin in un punto nodale del suo saggio de­
dicato alla cultura di massa: «impossibile porre l'alternativa semplicistica:
è la stampa (o il ci_n ema, o la radio, ecc.) che fa il pubblico, o il pubblico
che fa la stampa? E la cultura di massa che si impone dall'esterno al pub­
blico (e gli fabbrica pseudobisogni, pseudointeressi) o riflette i bisogni del
pubblico? E evidente che il vero problema è quello della dialettica tra il si­
stema di produzione industriale e i bisogni culturali dei consumatori [ . . . ] .
La cultura di massa è dunque il prodotto di una dialettica produzione-con­
sumo, nell'ambito di una dialettica globale che è quella della società nella
sua totalità»3.
Senza identificarsi coi mass media, la Pop Art costituì la loro interpre­
tazione artistica. N ulla togliendo all'esperienza dell'arte astratto-concreta,
ovvero dell' «arte utile», che un grande contributo diede all'architettura e
al design, dopo decenni di ermetiche immagini astratte, geometriche od
organiche, contemplative o espressionistiche, finite o informali, comunque
decifrabili solo da chi ne conoscesse gli stilemi più o meno codificati, ecco
di nuovo, grazie alla Pop Art, la presentazione o rappresentazione di «fi­
gure» e «cose» della vita quotidiana, una sorta di risemantizzazione dal
basso, basata sull'iconografia di una realtà tutta artificiale e tecnologica.
Certo, per ottenere questo risultato fu indispensabile una immersione
nel bagno della volgarità, del kitsch, del banale, dal quale la pittura sareb­
be uscita con quella «contaminazione» fra arte e vita (ipotizzata da molte
tendenze dell'avanguardia) , capace di nuovo di rappresentare uomini nel
costume del nostro tempo e cose che di esso sono i simboli più flagranti.
L'iconografia usata dai principali artisti pop è largamente nota: immagini
ed oggetti presi dal contesto quotidiano, scatole di alimentari, bottiglie di
Coca-Cola, strumenti tecnologici, foto (con procedimento di riporto sulla
tela) di donne famose, la Kennedy, la Taylor, la Monroe, figure prelevate
dai cartelli pubblicitari, particolari ingigantiti di réclame, con la tecnica
p ropria della pittura commerciale o con quella dei disegni dei fumetti, ecc.
Il tutto come «nuovo» e non allo stato di cose consumate o di rifiuti, così
come facevano i neo-dadaisti. Insomma, ad un primo scandaglio, quella
158 Made in Italy

della Pop Art fu una iconografia di immagini ed oggetti attraenti e brillan­


ti, così come si vedono in un supermarket o nei segni inconfondibili della
scena urbana, dei mass media, della civiltà dei consumi. Ad un esame più
approfondito, la suddetta iconografia non risulta più semplicemente pre­
levata, bensì manipolata «ad arte» ai fini dell'espressione. Se l'arte d'avan­
guardia, specie queUa della cosiddetta «linea analitica» (F. M enna) , è sta­
ta, come abbiamo visto con Calvino, una «mimesi formale-concettuale del­
la realtà industriale», la Pop Art è stata la tendenza che meglio ha inter­
pretato e soprattutto comunicato, divulgandola al massimo, detta realtà.
Riferendosi all'arte dei maggiori esponenti della Pop Art - Warhol,
Lichtenstein, Oldenburg, Rosenquist, Wesselman, ecc. - Calvesi scrive:
«queste opere, evidentemente, partecipano della poetica dell'happening e
non ambiscono a nessuna forma di immortalità; vogliono segnare momen­
ti effimeri della vita, ed effimere restano giustamente a cospetto di un'idea
tradizionale di storia che, del resto, rinnegano con decisione. Vogliono se­
gnare, solcare, toccare e non pretendono di ipotizzare il seguito verosimile
della loro apparizione; contengono tuttavia, e questo è importante, un
principio di giudizio, un grezzo pronunciamento sulla vita, e anche in que­
sto senso sono linguaggio. Linguaggio ricco di spunti e d'immagini inne­
gabilmente nuove, nel loro proporsi come tramite attivo, dinamico, fisico,
quasi come scorciatoia tra gli avvenimenti della vita e il divenire dell'arte»4.
Che questo felice momento sia durato appena qualche lustro si deve al
rapido consumo delle tendenze, questo sì diretto da mercanti e galleristi o,
nel migliore dei casi, da un interno più velocizzato ritmo nell'alternarsi del­
le esperienze degli operatori estetici, e non certamente alle poche valenze
che la Pop Art avrebbe presentato. Tuttavia, dissociando il giudizio su una
vicenda artistica dalla sua durata, non è chi non veda gli influssi che que­
st' arte continua ad esercitare in molti settori della produzione artistica
contemporanea, dall'architettura all'arredamento, dal design al costume.
E vediamo appunto quali tendenze ed opere del design possono aver pre­
so spunto dalla Pop Art e comunque siano ad essa associabili.
Con o senza identificarsi con tutte le denotazioni e connotazioni del ra­
dica! design, possiamo considerare legate alla Pop Art quelle opere carat­
terizzate dal mimetismo paradossale, dal gioco gratuito, dalla sorprenden­
te ironia. Così, oltre agli allestimenti che richiamano le sculture !ignee di
Cerali, ai vari happening e alle altre manifestazioni transitorie, vi sono al­
cuni prodotti che si distinguono proprio per i caratteri suddetti, arric­
chendo i cataloghi delle aziende di alcune insolite collane o, addirittura,
conferendo ad altre ditte l'esclusività di un design pop; pensiamo alla Gu­
fram di Torino. Comunque gli esempi più noti sono la poltrona Blow in
pvc gonfiabile disegnata da De Pas, D'Urbino e Lomazzi nel '67 per Za­
notta; la poltrona Sacco di Gatti, Paolini e Teodoro, edita da Zanotta nel
1 3 0. ] . De Pas, D. D'U rbino e P. Lomazzi,
poltrona gonfiabile Blow per Zanotta, 1 967 .
1 3 1 . G. Ruffi, poltrona La Cova per Poltronova,
1 97 3 .
1 3 2 . A. e P . G . Castiglioni, sgabello Mezzadro
per Zanotta, 1 970.
1 3 3 . A. e P.G. Castiglioni, sedile Allunaggio
per Zanotta, 1 965 .
1 3 4 . G. Ceretti, P. Derossi, R. Rosso,
seduta Pratone per Grufam, 1 97 1 .
1 3 5 . Archivio storico Gufram, Capitello, 1 972.
1 60 Made in Italy

'69, un oggetto così carico di comicità da figurare nei film di Paolo Villag­
gio, alias ragionier Fan tozzi, il sedile-guantone da baseball Joe degli stessi
autori e realizzato da Poltronova nel '70, palese omaggio al giocatore Joe
Di Maggio, marito di Marilyn Monroe, a sua volta modella di Andy
Warhol; lo sgabell9 Mezzadro di Achille e Pier Giacomo Castigliani per
Zanotta del '70; la poltrona Pratone, progettata da Ceretti, Derossi e Ros­
so e l'attaccapanni Cactus di Drocco e Mello del '72, prodotti dalla Gufram
nello stesso anno; il divano Bocca, ideato da Drocco e Mello ancora per
Gufram.
Ma se questi sono i modelli più noti associabili alla Pop Art, molti altri
possono contribuire a formare una sorta di stile Pop-design: per un ac­
cento «brutalista», la poltrona Elda diJoe Colombo per la Comfort del '65 ;
quella contrassegnata 932 di Mario Bellini per Cassina del '67 ; quella no­
minata Gomma di De Pas, D'Urbino e Lomazzi per BBB Bonacina del '67 ;
degli stessi autori la poltrona Straccio per Zanotta del '6S; di Afra e Tobia
Scarpa la poltrona Bonanza per B&B del '69. Più vicini al gigantismo e/o
al mimetismo della Pop Art sono: il divano componibile Superonda degli
Archizoom per Poltronova del '67; il divano Lombrico di Marco Zanuso
per B&B dello stesso anno; la lampada da tavolo Pillola di Casati e Ponzio
per Ponteur del '6S; la Serie Up di Gaetano Pesce per B&B del '69, con­
traddistinta dall'automatico gonfiaggio dei componenti che alludono agli
organi femminili; di Carlo Scarpa e Marcel Breuer il tavolo in marmo Del­
/i per Simon con evidente riferimento mimetico al mondo antico; il diva­
no-letto Anfibio di Alessandro Becchi per Giovannetti del '7 1 ; il Moloch di
Gaetano Pesce per Bracciodiferro del '7 1 ; il tavolo con sedie Nobili nella
Valle di Mario Cerali per Poltronova del '72 , in legno di pino russo grez­
zo; l'oggetto per riposare La Cova di Gianni Ruffi per Poltronova del '73 ,
grande invaso in espanso preformato, pubblicizzato dall'immagine di una
modella fra tre grandi uova; il divano di Gaetano Pesce Tramonto a New
York dell'SO per Cassina; il sedile Allunaggio di Achille e Pier Giacomo Ca­
stigliani dell'SO per Zanotta; il tavolo in cristallo con ruote di Gae Aulenti
per Fontana Arte dello stesso anno; il mobile armadio Cabina di Aldo Ros­
si per Molteni. Altri mobili mimetici o totemici vanno classificati nella pro­
duzione di Alchymia e Memphis e non hanno una diretta relazione con la
Pop Art.
Il rapporto fra design e movimenti artistici d'avanguardia è variamente
motivato. Quello con la Pop Art è, come già detto, ironico e gioioso, quel­
lo con le altre tendenze talvolta ispirato alla morfologia, talaltra alla socio­
logia, ovvero ad entrambe. In ogni caso non si tratta semplicemente e sem­
pre di un moto del gusto. Forse proprio per la mancanza in generale di un
solido rapporto con la produzione, la vendita e ancor più le istanze del
consumatore, il «progetto» del mobile e dell'arredo si è, per così dire, ri-
1 36. ]. De Pas,
D. D'U rbino
e P. Lomazzi,
poltrona ]oe per
Poltronova, 1 97 1 .
1 3 7 . G . Pesce, sedute
Up per B&B, 1 969.
1 38. G . Pesce,
Tramonto a New
York per Cassina,
1 975.
1 62 Made in Italy

girato su se stesso, ovvero ha spesso preso come referente le sollecitazioni


della neoavanguardia delle arti visive. Corollario di tali considerazioni, che
possono riassumersi nella formula di una ipertrofia estetica, è l'estrema
personalizzazione dei progetti, il forte individualismo di tanti prodotti,
l'impronta d'autore su un qualunque oggetto d'uso, come se fosse una pit­
tura o un'opera d'àrte in genere. Tant'è che molte storie del design in Ita­
lia, cataloghi e pubblicazioni di vario tipo, sono redatte come somme di
profili monografici di singoli artisti-designer.
Questa ipertrofia estetica - che nuoce alla principale caratteristica del
design, la sua artisticità diffusa, mirante ad elevare il livello medio della
produzione di un paese - si manifesta con la grande duttilità dei nostri de­
signer nel passare da un settore all'altro, donde il sospetto che siano più
degli stilisti che autori di progetti integrali.

Op Art

Ritornando alle tendenze dell'arte, più forte influenza sul design italia­
no è da attribuire all'Arte cinetica o Programmata detta anche Op Art.
Dalla «pura visibilità» alla «pura visualità» si potrebbero definire le espe­
rienze che portano dalle opere di De Stijl fino alle più recenti ricerche
dell'arte visuale e cinetica. Questa, infatti, è stata considerata «una sorta di
riduzione fenomenologica ai puri dati della percezione, liberata da ogni
componente nazionale o culturalistica»5. Essa non ha mirato tanto alla for­
mazione di un nuovo linguaggio, quanto a proporre singole strutture (pat­
terns) e modelli sperimentali, stimolatori di effetti visivi, di illusioni otti­
che, di movimenti reali o virtuali, sfruttando, da un lato, i meccanismi per­
cettivi e, dall'altro, gli strumenti della tecnologia, dai più semplici e ma­
nuali ai più sofisticati congegni elettronici. Non siamo quindi più in pre­
senza di un'arte con un forte fondamento teorico, ma di esperienze preva­
lentemente legate alla psicologia sperimentale, nel migliore dei casi alla
Gestaltpsychologie, e a ricerche di tipo tecnico-industriale da laboratorio.
Tuttavia, se queste manifestazioni sono lontane dallo spirito e dalle inten­
zioni purovisibiliste, esse rientrano sempre, magari forse come l'ultima e
più ridotta espressione, nella linea della formatività.
Quanto all'origine dell'arte visuale e cinetica, senza risalire al Futuri­
smo, al Dadaismo, al Costruttivismo e a più remote ricerche sul movimen­
to, essa è l'ultima manifestazione dell' Astrattismo-concretismo e si collega
direttamente alla seconda generazione di concretisti: Max Bill, Dewasne,
Mortensen, Deyrolle, Vasarely, Munari, ecc. A tal proposito, Dorfles coglie
l'occasione per ricordare l'importanza culturale dei movimenti concretisti
del periodo fra le due guerre e immediatamente successivi al secondo con-
XI. Il design e le arti 163

flitto mondiale: «in quell'epoca infatti trionfavano in Europa e al di là


dell'Atlantico gli epigoni del Cubismo, del Futurismo e del Surrealismo, e
gli artisti concretisti rappresentavano forse gli unici che si fossero resi con­
to dell'importanza di tendere ad un genere di creazione artistica svincola­
ta da quelle sintassi già in via di cristallizzazione e di trasformarsi in ma­
nierismi frigidi e sterili. Si deve perciò proprio alle correnti concretiste se
un deciso rinnovamento della pittura e della scultura poté effettuarsi. Né
si dimentichi che in molti artisti di questa tendenza esisteva ancora una
precisa volontà di collaborazione con gli architetti e la fede che l'avvenire
prossimo delle arti visuali dovesse consistere in un'integrazione di pittura
concreta, scultura e architettura»6.
Le esperienze visive e cinetiche, op-artistiche o gestaltiche o program­
matiche che dir si voglia, nella loro accezione più ampia, si possono divi­
dere in quattro categorie, due delle quali assimilabili al linguaggio tradi­
zionale della pittura e della scultura, e due più vicine ad esperimenti di la­
boratorio. La p rima comprende opere di pittura la cui struttura visiva è af­
fidata al colore, tanto più pregnante quanto più elementare è il disegno di
supporto: pensiamo alle opere di Albers, quei nidi di quadrati colorati che
puntano proprio ad una sorta di didattica della percezione. Alla stessa ca­
tegoria appartengono i dipinti cinetici di coloro che, pùr usando i mezzi
pittorici, tentano attraverso una particolare disposizione - figura-fondo,
negativo-positivo, luce-ombra, ecc. - di produrre un movimento virtuale
che si renda più evidente con lo spostamento dello spettatore nei riguardi
dell'opera.
La seconda categoria di arte cinetica, con opere questa volta, per dir co­
sì, più vicine alla scultura, comprende quelle costruzioni spaziali semo­
venti; per esempio i mobiles di Alexander Calder. Nella stessa categoria
vanno classificate «le macchine inutili» di Bruno Munari, concettualmen­
te simili a quelle di Calder, ma da esse assai diverse per un intento più spe­
rimentale, per la poliedrica facoltà dell'artista di nutrire anche interessi di­
versi (troveremo difatti Munari impegnato anche in altre esperienze di ar­
te programmata), infine per la sua vocazione al design. Tra arte concreta e
design sono alcune opere di Munari che stranamente risultano poco do­
cumentate: mi riferisco alle «macchine inutili» trasformate in «fontane».
L'argomento merita un cenno di approfondimento. Nella monografia de­
dicata all'artista edita da Laterza nel ' 93 si legge: «Munari ha progettato e
costruito numerose fontane. La passione per il movimento dell'acqua gli
viene certamente dai mulini sull'Adige della sua fanciullezza. Così, le sue
fontane tendono a sfruttare le forze della natura - quando possibile - per
autogenerarsi. La fontana per la Biennale di Venezia del 1 954 sfrutta pia­
ni inclinati; le due fontane per la Montecatini (Fiera di Milano 1 96 1 ) sfrut­
tano una il sistema cinese del 'contatore d'acqua', basato anch'esso sul pe-
164 Made in Ita!y

so e sul piano inclinato, mentre quella circolare - la più famosa, la più


grande e la più complessa - utilizza un motore, ma anche la forza del ven­
to, per far muovere i cerchi concentrici di cui è composta. Altre fontane ­
a Tokyo, nel 1 964, o in Germania - giocano invece sul ritmo minimo crea­
to dalla caduta di cinque gocce (la prima) o sullo scatenarsi di una specie
di tempesta tra tre' lastre trasparenti poste in alto, ma da cui non cade in
terra nessuna goccia. Un'altra sfrutta la forza stessa dell'acqua che esce dai
buchi posti sulla struttura metallica della fontana, per far girare questa
struttura e creare una spirale di getti d'acqua>/.
Delle sue fontane lo stesso autore scrive: «Una statua innaffiata da get­
ti d'acqua non è una fontana. L'acqua salta, spruzza, evapora, muove mec­
canismi, spinge delle forme, fa ruotare dei mulinelli. Così progettai le mie
fontane». Soffermiamoci sulla fontana più bella, quella realizzata per la
Biennale del '54: al di sopra di una vasca dalla forma poligonale, sorrette
da rondini metallici, alcune bande di lamiera, forse di alluminio anodizza­
to di diverso colore e coi lati lievemente ripiegati, si muovevano lentamen­
te mosse da un filo d'acqua. Questo colava da una banda all'altra, che co­
sì sollecitate cambiavano continuamente direzione; in alcuni punti del per­
corso una lastra di vetro trasformava il filo in un piano d'acqua cosicché,
non solo cambiava il movimento delle bande, ma anche la forma dell'ele­
mento che le faceva oscillare lentamente nello spazio: si deve probabil­
mente al fascino del ricordo se penso a quest'opera come una della più at­
traenti di tutta l'arte contemporanea e delle più emblematiche della ten­
denza che stiamo esaminando.
La terza categoria dell'arte ottico-cinetica propone le esperienze più
nuove e pertinenti a tale poetica. In particolare, più vicini al design sono
quegli artisti che ottengono l'effetto di movimento introducendo materia­
li speciali e diversi da quelli tradizionali o, ancor più significativamente,
utilizzando veri e propri meccanismi. Emblematiche in tal senso sono le
opere del Gruppo T di Milano e quelle del Gruppo Mid.
In una mostra tenutasi a Milano nel 1 960 i membri del Gruppo T pre­
sentano rispettivamente: Anceschi, una colata di liquidi ad alta vischiosità
fra due foglie di materia plastica trasparente (Percorsi fluidi) ; Boriani, una
superficie sulla quale, per effetto di magneti rotanti, la polvere di ferro as­
sume forme e percorsi continuamente nuovi e mobili (Superficie magneti­
ca) ; Colombo, un'altra superficie in gommapiuma sulla quale, azionando
dei tiranti, compaiono dei punti in negativo; De Vecchi, un piano elastico
sul quale dei punti di rilievo, entrando in vibrazione, determinano delle im­
magini mutevoli; Varisco, degli schemi luminosi variabili. Quanto al Grup­
po Mid (Barrese, Grassi, Laminarca) , le loro opere, frutto di lavoro collet­
tivo, si fondano su variazioni di immagini prodotte dall'effetto strobosco­
pico di un elemento rotante (sul quale sono dipinti dei cerchi) e dalle fre-
1 3 9- 1 42. B. Munari, La fontana a scivoli d'acqua, giardini della Biennale di Venezia,
1 954 .
1 66 Made in Italy

quenze luminose che lo illuminano. Peraltro, questi esperimenti, da consi­


derarsi fra i più inclusivi dei fattori che caratterizzano-la Op Art, prevedo­
no l'intervento dello spettatore che, graduando la velocità dell'elemento
rotante, ottiene diversi effetti percettivi e addirittura diverse immagini . .
La quarta categoria della tendenza in esame comprende «oggetti» che
appunto si lasciano muovere, scomporre e ricomporre dall'intervento
dell'osservatore. Pensiamo ad alcune opere di Agam, Paul Bury, Munari,
Mari, di quest'ultimo segnatamente l'Oggetto a composizione autocondot­
ta: una serie di sagome geometriche, contenute in un doppio vetro chiuso
da una cornice, le quali assumono diverse disposizioni a seconda del mo­
vimento che il fruitore fa compiere all'intera struttura.
Ad accomunare quasi tutti gli esperimenti delle quattro categorie sud­
dette è il fatto che, intervenendo manualmente o meccanicamente su que­
ste strutture plastico-visive, è possibile prevedere, programmare appunto
diversi risultati formali. L'arte cinetica assume allora il nome di Arte pro­
grammata, così come ebbe a definirla Umberto Eco: «l'arte contempora­
nea ci aveva abituati a riconoscere due categorie di artisti: da un lato quel­
li che vanno alla ricerca di nuove forme affidandosi ad un ideale quasi pi­
tagorico di armonia matematica, inventando figurazioni sorrette da rap­
porti segreti, e per giungere alla poesia passano attraverso la geometria eu­
clidea o no, dal lato opposto invece gli artisti che hanno riconosciuto la fe­
condità del caso e del disordine, non ignari certamente della rivalutazione
- fatta dalle discipline scientifiche - dei processi casuali e statistici, e che
hanno accettato ogni suggerimento che provenisse liberamente dalla ma­
teria. Tra questi due atteggiamenti, l'Arte programmata stabilisce un rap­
porto, una relazione dialettica, riunendo nella stessa struttura il caso e il
programma, la matematica e l'azzardo, una concezione pianificata e la li­
bera accettazione di quel che verrà, ma avverrà secondo precise linee for­
mative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le impongono de­
gli argini e delle direzioni possibili»8.
Un esempio tra i più utili alla comprensione dell'arte programmata è
descritto da Filiberto Menna in base ad un'opera di Enzo Mari: la speri­
mentazione di questo artista e designer «assume i caratteri tipici di un pro­
cesso operativo 'programmato' in quanto essa si fonda sull'assunzione di
un modulo di base e di una regola combinatoria che permette una varia­
zione praticamente infinita di possibilità esplicative: è appunto ciò che l'ar­
tista ha fatto nella sua recente 'Struttura N. 7 93 ' servendosi di due serie di
tubetti, uguali per dimensioni ma di differente colore (bianco e nero) e ot­
tenendo una struttura variabile sulla base degli spostamenti (in avanti e in
dietro) dei tubetti stessi. In questa struttura le variabili possibili sono mi­
gliaia, ma l'artista ne presenta una sola, bastandogli la presentazione del
XI. Il design e le arti 1 67

processo operativo che può condurre, di fatto, alle diverse combinazioni


possibili»9.
Il rapporto fra l'arte cinetico-programmata e il design risulta evidente.
Già nel riassumere le caratteristiche di questa tendenza abbiamo trovato i
nomi di persone che hanno militato sia in essa sia nel canpo del disegno in­
dustriale. Non occorre elencare prodotti classificabili in questo stile, così
come abbiamo fatto per la Pop Art, perché la tendenza in esame non si af­
fida tanto a forme guanto a strutture, e quelle cinetico-programmate, do­
po la loro diffusione, si trovano, possiamo dire, in ogni mobile componibi­
le, tavolo ampliabile, sedia pieghevole od altra sorta di arredo semovente.
L'ambito entro il quale più stretto risulta il rapporto fra le arti e il design è
quello cui dedichiamo il seguente paragrafo.

L'arte utile

Risulta indubbio che a un dato momento della sua vicenda, probabil­


mente dopo il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, il design,
senza invocare il solito termine «crisi» spesso eccessivo o guanto meno in­
capace di descrivere una condizione, ha subito una battuta d'arresto, di in­
decisione, di omologazione acritica di tutto guanto veniva prodotto. Di
fronte alle vecchie contraddizioni, quali la mancata guantificazione, il fal­
limento del binomio qualità-quantità, la conservazione di un carattere eli­
tario dei prodotti, e alle nuove e più gravi difficoltà, quali l'inesistenza di
una politica culturale, la m ancata pianificazione delle risorse, lo schiac­
ciante potere dei settori a più alto livello tecnologico (una tecnologia che
ha deluso molte attese liberatorie, rivelandosi addirittura sotto molti aspet­
ti oppressiva) , soprattutto il mancato incontro tra la cultura del design e la
società sul piano del gusto, non meraviglia affatto che si siano create defe­
zioni, «obiezioni di coscienza», incertezze nella ricerca morfologica, e che
si sia cominciato a porre il problema di un anti-design.
Il riferimento immediato diviene allora, come si è visto, il mondo delle
arti visive. Se sovrastrutturale dev'essere la condizione del design (e con ta­
le aggettivo non intendiamo quello classico della relazione dialettica coi
rapporti di produzione, ma un altro che significa marginalità, impopola­
rità, valori-interessi condivisi da pochi, ecc.), sono ora più che mai, nono­
stante le loro contraddizioni, le arti della visione a far testo. Infatti, incri­
natosi da qualche decennio il rapporto fra domanda ed offerta del pro­
dotto artistico, stabilitasi una frattura forse incolmabile tra arte e società,
ben più vasta di quella fra pubblico e design, quella sovrastrutturale è di­
ventata per le arti una condizione endemica. Ciononostante l'intera vicen­
da artistica contemporanea, sia essa costruttiva o protestataria, per il livel-
168 Made in Italy

lamento a torto o a ragione in essa verificatosi, può assumersi ancora come


un grande patrimonio di forme, di idee, di comportamenti donde attinge­
re per chi voglia tradurli in un nuovo design, in una rinnovata architettura
o in qualsiasi altro campo applicativo. Paradossalmente, l'apparente futi­
lità di tanta pittura moderna costituisce la maggiore disponibilità per una
sua potenziale valenza utilitaria.
E veniamo al contributo che le tendenze neo-costruttive e neo-rappre­
sentative, ridotte per ragioni didascaliche rispettivamente alla Op Art ed
alla Pop Art, hanno dato alla ricerca del design. Beninteso, questo appor­
to non è stato sempre immediato e diretto. Lo stesso Argan, convinto so­
stenitore della tendenza neocostruttiva o gestaltica, scriveva nel 1 963 : «in
quanto si limita a riprodurre analiticamente e criticamente i processi di or­
ganizzazione formale, la corrente 'gestaltica' opera per verifica di ipotesi:
l'operazione in questa fase iniziale è ancora soltanto dimostrazione di ope­
rosità. Non conduce al post-oggetto [come farebbe, secondo l'autore, la
Pop Art] , ma neppure all'oggetto: conduce invece ad un'ipotesi di ogget­
to, a un preoggetto, alla descrizione di un comportamento produttivo.
All'industria non si chiede ingenuamente conto della !abilità dei suoi valo­
ri ma, criticamente, del rigore dei suoi procedimenti: si chiede in breve, se
alla produzione degli oggetti preceda o no (e la risposta è no) una fase pre­
progettuale, che configuri il futuro oggetto secondo le strutture storiche,
attuali della mente umana. Mirando, infine, a inserirsi nel vivo delle meto­
dologie produttive, la corrente 'gestaltica' aspira a correggere il brutale
prammatismo quantitativo con l'esempio di una metodologia critica e spe­
rimentale, capace perfino di rinunciare al proprio fine per perfezionare i
propri modi»10.
Quanto alla Pop Art, vista alla luce di una sua connessione con la sfera
dell'utile, si sono avanzate varie ipotesi di interpretazione critico-sociolo­
giche. Si è detto ad esempio che, mentre le tendenze neocostruttive si col­
locano al principio della fase progettuale della produzione industriale, la
Pop Art si colloca alla fine di tale produzione, presentando sempre ogget­
ti finiti e scaduti; si è detto che la prima pertiene al versante della produ­
zione, mentre la seconda al versante del consumo; che l'una denota un at­
teggiamento ottimistico e l'altra uno pessimistico, ecc.
Più significative risultano le interpretazioni critiche tendenti a cogliere
non un divario, peraltro evidente fra Op Art e Pop Art, bensì alcuni punti
di convergenza. A tal proposito, riflettendo un dibattito tipico degli anni
Sessanta, Menna scrive: «questo costituirsi in oggetto delle ricerche speri­
mentali sui dati della visione [. .. ] apre a queste tendenze una seconda via di
sviluppo, convergente in qualche modo con la linea del new dada e della
Pop Art: giacché l'oggetto in cui si conclude l'operazione artistica fondata
su premesse di ordine percettivo si pone sullo stesso piano concreto su cui
XI. Il design e le arti 1 69

si dispongono gli oggetti diversi che costituiscono il panorama e il /olklore


urbano, ma nello stesso tempo opéra su questi oggetti una sorta di corre­
zione estetica, proprio come fa l'opera pop, la quale sembra tendere a vol­
te addirittura alla tautologia, ma in effetti mira sempre a modificare, quel
tanto che occorre al riscatto estetico, la réaltà circostante. In entrambi i ca­
si, l'opera ripercorre criticamente, modificandolo in vista delle proprie fi­
nalità, il procedimento costitutivo degli oggetti che noi consumiamo quoti­
dianamente, indirizzando l'attenzione del consumatore dal godimento
dell'effetto all'analisi del processo formativo, ossia inducendolo ad abban­
donare l'atteggiamento puramente passivo proprio della psicologia del con­
sumo e a trasformarsi, entro certi limiti, da consumatore in produttore»1 1 .
Che gli oggetti dell'arte programmata, cinetica e d optical, d a un lato, e
quelli della Pop Art, dall'altro, avessero più di un punto in comune appa­
riva cosa certa: la unitaria matrice tecnico-industriale; l'idea di un'arte ri­
producibile e senza aura; il fatto che l'una per via analitica e l'altra per via
ironica abbiano prodotto un'iconografia, specie nella scena urbana, che ri­
sulta indistinguibile ad un occhio inesperto e all'oscuro delle diverse mo­
tivazioni ed origini.
La maggiore conferma dell'unificazione - meglio sarebbe dire di una
scettica fusione - tra opere pop ed op si ha con i cosiddetti «multipli». Si
tratta di un'arte eseguita in serie, mediante l'intervento della macchina,
con un processo di moltiplicazione di una idea o di un'immagine origina­
le. Si ricrea così, paradossalmente, all'interno della produzione artistica, lo
stesso processo che il design adotta per la realizzazione meccanica degli
oggetti d'uso. La «tecnica» del multiplo coinvolge indiscriminatamente va­
rie tendenze, anche quelle originariamente antitetiche. Come osserva Dor­
fles, «il primo impulso alla produzione di opere moltiplicate era stato de­
terminato [ .. ] dalle opere op e cinetiche, ben presto l'adozione del multi­
.

plo avvenne anche da parte di ogni genere artistico; di modo che si ebbe­
ro multipli cinetici, op (Cruz-Diez, Soto, Vasarely, Colombo, Alviani, Car­
mi, ecc. ) , pop (Rauschenberg, Lichtenstein, Oldenburg, Tilson, Baj ) , e
persino concettuali e 'poveri' (Fulton, Barry, Pistoletto) , alcuni di livello
artistico notevole, altri invece decisamente deteriori»12. Tutto ciò, comun­
que, pur avendo riscontri tra le arti e il design, non è riuscito ad evitare ­
quella sì che è stata una crisi - l'anti-design e, come vedremo, altre espe­
rienze radicali.

I.:Arte povera

La versione italiana della Pop Art può considerarsi l'Arte povera. Men­
tre si celebrava ancora il compiaciuto ed ironico prelievo dei simboli della
170 Made in Italy

società opulenta ad opera della Pop Art, definito da Argan «il banchetto
della nausea», e mentre, sempre in America, nasceva la Land Art con l 'in­
tento da parte dei suoi artisti di intervenire sui grandi spazi naturali per la­
sciarvi dei segni non tecnologici, ma ecologici, prendeva forma, con l'Arte
povera, il maggiore contributo italiano alla neoavanguardia internaziona­
le. Benché anche questa poetica partecipasse all'ideologia o, se si vuole, al
motivo dominante per cui si doveva contestare l 'arte in quanto in una so­
cietà neo-capitalista essa è merce, quindi ricchezza e in definitiva potere, il
primo merito dell'Arte povera, da una visuale odierna, è stato proprio
quello di produrre oggetti d'arte, nonostante tutto e nella consapevolezza
dei limiti della situazione socioeconomica.
Il senso riduttivo di tale poetica è molteplice. Già nel felice termine di
Arte povera, coniato da Germano Celant, ripreso dall'espressione «teatro
povero» di Grotowski, c'è il senso dell'eliminazione dell'inutile e del su­
perfluo; atteggiamento che trova forse un aggancio in quell'«orgoglio del­
la modestia» di cui parlavano Venturi e Persico a proposito di un'architet­
tura e di un design propri degli anni Trenta. Un altro aspetto della ridu­
zione operata dalla poetica in esame può riconoscersi in una sintesi di ar­
tificio e natura, di elementi attinti sia dalla sfera naturale che da quella tec­
nologica.
Intendendo il termine riduzione come re-ducere ( ricondurre) - e lo ve­
dremo meglio nel capitolo dedicato allo stile minimale -, esso ci indica
l'apporto più specifico e nuovo della tendenza di cui ci occupiamo, cioè il
recupero (o il ritorno appunto) del «primario», nel senso di elementi pri­
mari: la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria; e puntualmente alcuni di essi rien­
trano nelle singole opere dei principali artisti «poveri». Ma la nozione di
«primario» non si limita agli elementi suddetti; primari sono anche i ma­
teriali prodotti dalla tecnologia quali la luce elettrica, il neon, l'acciaio
ino x , ecc. Questa estensione nella nozione di primario dalla natura all' ar­
tificio da un lato conserva la «povertà» del primario stesso - il punto di
partenza, il rinnovato inizio - dall'altro lo rende utilizzabile al rapporto fra
arte e vita, che costituisce un altro ritornello cantato dalla vecchia come
dalla nuova avanguardia.
«Nel vuoto esistente fra arte e vita - scrive Celant - [. .. ] là un'arte com­
plessa che mantiene in vita la ' correptio' del mondo, col tentativo di con­
servare 'l'uomo ben armato di fronte alla natura'. Qui un'arte povera, im­
pegnata con l'evento mentale e comportamentistico, con la contingenza,
con l'astorico, con la concezione antropologica, l'intenzione di gettare al­
le ortiche ogni ' discorso' univoco e coerente [. .. ] . Un momento freschissi­
mo che tende alla ' decultura', alla regressione dell'immagine allo stato
preiconografico, un inno all'elemento banale e primario, alla natura intesa
secondo le unità democritee e all'uomo come 'frammento fisiologico e
XI. Il design e le arti 171

mentale' [ . . . ] . N e deriva una fisicizzazione di un'idea, un'idea tradotta in


' materia', un modello, formato ingtandito, dell'apprendimento mentale e
fattuale, naturalmente non una fisicizzazione vitalistica ed orgiastica, ma
' mentalistica'»13.
Benché gli artisti «poveri» - Anselmo, Boetti, Fabro, Kounellis, Merz,
Pascali, Pistoletto, Prini, Zorio, ecc. - abbiano seguito strade diverse tra
loro, hanno il merito di aver sempre prodotto degli oggetti. Un altro aspet­
to questo che li avvicina alla cultura del design. Anzi, la parziale scompar­
sa di tali oggetti segna la fine della vena migliore dell'Arte povera. Calvesi,
dopo aver riconosciuto i meriti e le anticipazioni di questa proposta italia­
na al successivo sviluppo della neoavanguardia internazionale, osserva:
«subito dopo, la convergenza [. .. ] con lo strutturalismo minimalista e lo
slittamento nel concettualismo diluirono la proposta e le tolsero morden­
te; mentre le pratiche del 'comportamento' e dell"arte del corpo' , alleate
con la documentazione fotografica e il videotape, rompevano verso una
più decisa e massiccia compromissione con la precarietà e gli ideologismi
delle ' culture alternative': dove !"estetico' cede sempre più al politico
(pubblico e p rivato), senza che la contaminazione sia esaurita del tutto»14.
A voler individuare un design «stile arte povera» è necessario premet­
tere che esso debba intendersi come una linea di grande semplificazione
collegata alla dimensione naturalistica. Ed è proprio la presenza della na­
tura che differenzia un «design povero» più limitato e semplice rispetto al
minimalismo. Così può definirsi la vasta serie di oggetti, segnatamente se­
die e poltrone, realizzate in malacca, canna d'India, giunco, vimini, midol­
lino e simili. Tra gli esempi più significativi del genere anticipatore dell' Ar­
te povera vanno segnalati: la poltroncina Margherita di Albini del '5 1 ; di
Franca Helg il tavolino in giunco del '55 e la poltrona a dondolo del '56;
la poltrona 499 di Gianfranco Frattini del '59; la poltrona a sdraio 463 di
Umberto Riva del '62 : quelle contrassegnate 6331634 di Giovanni Travasa
del '62 , tutti articoli prodotti da Vittorio Bonacina; la serie di divani e pol­
trone Basilian di Afra e Tobia Scarpa del '75 con struttura in bambù per
B&B. Accanto a questi mobili, «poveri» sia per la tecnica sia per la mani­
fattura artigianale, possono definirsi con lo stesso aggettivo quelli realizza­
ti in legno lasciato allo stato quasi naturale. Anche in questa categoria vi
sono modelli emergenti rimasti in un ideale museo della storia del design:
la poltroncina Carimate di Vico Magistretti del '63 in legno con sedile di
paglia, prodotta prima da Rima, poi da Comi, poi da Artemide, quindi da
Cassina; la sedia pieghevole Tric '65 dei Castigliani, prodotta da Bernini;
l'altra pieghevole Trieste in legno e canna d'India di D'Aniello e J a cober
del '66, prodotta da Bazzani; il tavolo Cavalletto di De Pas, D'Urbino e Lo­
mazzi del '68 per Acerbis, degli stessi autori la seggiola Pluto del ' 7 1 , in le­
gno e canna d'India per BBB Bonacina; la serie divano, sedia e tavolo e let-
172 Made in Italy

to Ara di Elena e Massimo Vignelli del ' 7 4 per la Driade, in listelli di legno
massello; il tavolo La barca di Piero De Martini del '15 per Cassina; la li­
breria pieghevole di Magistretti Nuvola rossa per Cassina del ' 7 7 ; la sedia
Ciabatto di De Pas, D'Urbino e Lomazzi del ' 7 9 per Pozzi, in legno con se­
dile e schienale inpagliati. Completiamo questa elencazione con l'intento
più «povero» di tutto il design italiano: la Proposta per un 'autoprogettazio­
ne di Enzo Mari consistente in una serie di disegni per realizzare mobili
con semplici assemblaggi di tavole grezze e chiodi da parte di chi li avreb­
be utilizzati; il catalogo fu edito nel ' 7 4 dalla Simon International che rea­
lizzò anche dei prototipi dei mobili presentati. Comunque, nella nostra
prospettiva, il fattore più importante dell'Arte povera è il suo preludere
(ancora una volta non importa la cronologia) alla Minimal Art.

L.:Arte concettuale

Nella nostra rassegna non può mancare un cenno a questa tendenza ar­
tistica, la più sofisticata tra quelle della neoavanguardia. Caratteristica
esponente dell'Arte concettuale è il diverso modo d'intenderla, non solo
nelle differenti interpretazioni dei critici, ma in quelle degli stessi artisti.
La prima interpretazione o lettura dell'Arte concettuale, comune a tut­
ti gli operatori estetici definibili «puri concettuali», da Joseph Kosuth a
Bernar Venet, da Lawrence Weiner a Robert Barry, da Douglas Huebler a
Vietar Burgin, è la riduzione dell'oggetto al concetto.
Se alcune tendenze precedenti, dall'arte astratto-concreta a Dada, dal­
le esperienze optical alla Minimal Art, avevano già eclissato la figura
dell'artista, ovvero consideravano l'arte non più espressione di una indivi­
dualità, per i concettuali è lo stesso oggetto-opera che va eliminato a van­
taggio del concetto, dell'idea generatrice dell'operazione artistica. Rifa­
cendoci alla definizione saussuriana di «segno», inteso come l'unione di un
significante e di un significato - che il linguista ginevrino chiama pure, ri­
ferendosi al segno linguistico, rispettivamente «immagine acustica» e
«concetto» -, possiamo considerare che i concettuali operano come se fos­
se possibile eliminare il primo termine e conservare il secondo. Ma come
comunicare, come trasmettere l'informazione di un significato-concetto
facendo a meno del significante-immagine? La risposta a questo interro­
gativo ci porta alla seconda interpretazione dell'Arte concettuale e ci con­
sente altresì di descrivere alcune «opere» emblematiche della tendenza.
Tale lettura può definirsi come la riduzione di un enunciato (o, in una ter­
minologia più pertinente al linguaggio artistico, di una immagine) in una
tautologia. Per eclissare l'oggetto si ricorre all'espediente - che resta co­
munque una «invenzione» artistica - di un oggetto che presenta e nomina
XI. Il design e le arti 173

se stesso. Emblematico in tal senso è il Neon Electrical Light English Glass


Letters White Eight, un'«opera» d'i]oseph Kosuth che è appunto l'insieme
di otto parole in inglese realizzate con una scritta al neon bianco. Ma tale
«opera» attua effettivamente il programma di eclissare l'oggetto a vantag­
gio del concetto? Se da un lato il significante (la scritta materiale) è pre­
sente con tutta la sua luminosa fisicità, dall'altro è indubbio che nel ricor­
so alla tautologia (il significante che nomina se stesso) si privilegia in un
certo senso il concetto, non foss'altro perché quella scritta-oggetto non
avrebbe nessuna ragion d'essere (non è decorativa, non è «bella», non
esprime stati d'animo, ecc.) se non nominando il concetto.
Una terza interpretazione (riscontrabile solo in alcune opere di Kosuth)
è quella di introitare il referente in un' «opera», ovvero di ridurre a con­
cetto le varie possibili rappresentazioni di esso. Ed è il caso di un altro
gruppo di «opere» dello stesso Kosuth delle quali la più nota è One and
three chairs ( altre varianti sono: One and three tables; One and three saws,
tutte del 1 965 ) . Essa presenta una sedia vera e propria antistante un pan­
nello con la fotografia della stessa sedia ed un altro con la definizione ver­
bale della sedia presa da un dizionario. Benché la pregnanza visiva dell'og­
getto, della sua rappresentazione fotografica e della sua definizione lingui­
stica resti, appare tuttavia indubbio che il referente (la ·sedia vera), il suo
segno iconico (la fotografia) e il suo segno linguistico (la definizione del di­
zionario) , proprio in quanto molteplici possibilità di denotare un concet­
to, gli sono di fatto soggette, donde la sua prevalenza. Per quanto questa
esperienza p resenti dei margini di ambiguità, nel senso che i tre elementi,
come si diceva, hanno una loro pregnanza e il «concetto» di sedia non ne
esce esplicitamente e immediatamente emergente, essa tuttavia costituisce
una sorta di quadro didascalico di molte intenzioni della corrente in esa­
me: l'assenza di qualunque dato espressivo, il ricorso alla tautologia, la net­
ta distinzione tra referente, linguaggio e metalinguaggio. Anzi, può lecita­
mente ritenersi che in questa esperienza, per alcuni aspetti ridondante,
l'autore abbia trovato modo di avvicinarsi al suo obiettivo di un concet­
tualismo puro, operando ulteriori riduzioni, forse impensabili senza que­
sto quadro di tutte le possibilità denotative.
Ma l'interpretazione o lettura forse più significativa, specie per l'arte
europea e italiana in particolare, è quella della riduzione dell'opera a con­
cetto ottenuta tramite la storia dell'arte. Questa diventa il campo di tutte
le possibili analisi, di tutti i recuperi, di tutto un porre e risolvere proble­
mi senza esulare appunto dai limiti di un linguaggio come sistema autono­
mo e autoreferenziale. Il maggiore esponente di una simile ricerca è Giu­
lio Paolini. La sua opera non ha nulla in comune con i revival così frequenti
in ogni epoca della vicenda artistica, non deforma il capolavoro del passa­
to secondo tecniche e moti del gusto nuovi, non traduce una iconografia
174 Made in Italy

antica in una moderna, ma indaga, e creativamente, il patrimonio storico


con lo scandaglio del più puro concettualismo. Il SU0 esordio nel 1 960 si
manifesta con gli elementi primari della tecnica pittorica: la tela, il telaio,
la cornice, soprattutto il foglio squadrato, quest'ultimo essendo la struttu­
ra basilare di ogni dipinto del passato e potenziale inizio di ogni quadro fu­
turo. Infatti, dieci anni dopo, egli elabora un'opera dal titolo Un quadro,
che consiste in quattordici tele, ognuna delle quali riproduce fotografica­
mente il foglio squadrato del 1 960, ma recante un titolo diverso ed attri­
buita ad un diverso immaginario pittore. Né il concettualismo immagina­
rio si arresta a questa articolazione in più esemplari di una originaria strut­
tura pittorica. Il gioco dei rinvii, del racconto nel racconto (il riferimento
a Borges è dichiarato dallo stesso Paolini), del creare paradossi e dello sve­
lare enigmi, si manifesta in cento modi, quasi sempre chiamando in causa
immagini e titoli. Ormai celebre in tal senso è l'opera dal titolo Giovane che
guarda Lorenzo Lotto, del l 967 . Si tratta di una fotografia di un dipinto del
pittore rinascimentale, ma è il titolo che crea uno sconcertante ribalta­
mento; infatti esso ci dice che non è il pittore a guardare il suo modello, ma
questo che guarda all'artista. A commento dell'opera Paolini scrive: «Ri­
costruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall'autore
( 1505 ) e (ora) dall'osservatore di questo quadro»; in una intervista afferma
inoltre: «c'è questo giovane che guarda con una fissità, così affascinante
veramente, l'obbiettivo, cioè guarda Lorenzo Lotto e nel mio caso l' ob­
biettivo, e così mi piaceva [. .. ] restaurare il momento in cui Lotto dipinge­
va questo quadro e trasformare, per un attimo, tutti quelli che guardano la
riproduzione fotografica, in Lorenzo Lotto»15. Per parte nostra, notiamo
che questo spiazzamento ha qualche analogia con le classiche figure ambi­
gue dei patterns gestaltici, in cui siamo costretti a guardare separatamente
la figura ed il fondo, con la differenza che in questi ultimi l'attenzione va
concentrata sul dato percettivo, mentre nell'opera di Paolini è un'atten­
zione concettuale che ribalta il dato visivo. Analoghi intenti, sia pure me­
no efficaci della riproduzione del Lotto, sono riscontrabili in Mimesi, ov­
vero due calchi di gesso della testa della Venere detta dei Medici, l'una che
riflette l'altra, estranee cioè sia all'autore che allo spettatore a simboleg­
giare che «l'arte esiste e riproduce altra arte».
Sulle «speculazioni» storiche di Paolini, Barilli scrive: «la conclusione è
che, se i confini esterni del sistema arte sono ormai tracciati, tuttavia all'in­
terno di esso risultano possibili imprese infinite di scomposizione parcel­
lizzante, o di ripresa con indice, o di gioco combinatorio»16. Questa ricer­
ca del nuovo nell'ambito chiuso del passato riflette peraltro altre produ­
zioni personali e tendenze, valga per tutte la neoavanguardia architettoni­
ca e del design.
L'arte di Paolini, infine, in cui il titolo delle opere gioca un ruolo deter-
XI. Il design e le arti 175

minante, stabilendo un continuo rinvio e un rapporto dialettico con l'im­


magine o il concetto d'immagine; sembra addirittura suggerire a Calvesi
una definizione dell'Arte concettuale: «un'arte che non tanto si guarda,
quanto piuttosto si legge [ . . . ] . L' arte tradizionale suscita e comunica attra­
verso il puro 'vedere' sensazioni, sentimenti, emozioni, impulsi; l'Arte con­
cettuale produce, o intenderebbe produrre, uno scatto mentale, come al di
là del vedere [nell'arte tradizionale] se, dopo aver visto l'opera, ne leggia­
mo un titolo particolarmente illuminante, o ce ne vengono suggeriti certi
significati: grosso modo, questi elementi si potrebbero considerare ag­
giuntivi o sovrastrutturali rispetto alla pura struttura formale dell'opera,
anche se di fatto convergono con essa nel messaggio che l'opera emana. E
grosso modo potremmo dire che nell'Arte concettuale le parti invece si in­
vertono: la struttura è data da questi elementi mentali, e l'eventuale sovra­
struttura 'ausiliaria' dagli elementi sensibili, figurati»17.
A questo punto è lecito chiedersi: che rapporto esiste fra l'Arte concet­
tuale e il design? Oltre che per le altre letture linguistiche e tautologiche,
il maggiore legame va visto, a mio parere, in quest'ultima interpretazione
laddove il titolo gioca un ruolo determinante per sciogliere l'enigma. E
questo accade, sia pure in misura ridotta, per il design: qui l'oggetto rima­
ne fermo e solido, ma spesso il titolo, con le sue metafore ·e rimandi, lo ren­
de ancor più significativo; i primi casi che mi vengono in mente sono la
Toilette con specchiera, intitolata Buiiuel per Alias dell'83 e il tavolo con
lampada, chiamato Apocalypse Now, entrambi di Carlo Forcolini.
Ritornando all'Arte concettuale, pur riconoscendo una interna «logica»
che peraltro si lega, come s'è detto, ad una serie di significativi preceden­
ti, ci sembra che essa sia tuttavia condizionata da troppi e spesso malinte­
si agganci extra-disciplinari. La maggior parte degli assunti concettualisti­
ci sono pseudo-filosofici, pseudo-scientifici, pseudo-semiotici. Si ritrova­
no nei maggiori protagonisti tutte le mitologie dell'avanguardia storica: il
rapporto dell'arte con la scienza, l'amore-odio per la polisemia e l'ambi­
guità, la polemica sul valore e la merce, la morte stessa dell'arte, ecc. E d'al­
tra parte non si tratta solo di una serie di problemi o falsi problemi. Si di­
rebbe piuttosto che tali questioni, viste in una certa prospettiva storica e
critica, rappresentino degli artifici o, meglio, dei paradigmi posti dagli ar­
tisti stessi verso o contro i quali muoversi affinché sia assicurata una con­
tinuità dell'operare.
Il parallelo con la storia ci sembra illuminante. Come nella ricerca sto­
riografica si pongono degli «artifici», dei tipi-ideali, dei parametri rispetto
ai quali si indagano gli eventi, così nella ricerca artistica si pongono altri
«artifici» come punti di riferimento per continuare una produzione la cui
offerta è certamente superiore alla domanda, in una società dominata dal
profitto, dalla tecnologia e dall'edonismo. Quale che possa apparire la na-
176 Made in Italy

tura delle esperienze più recenti, analitica, concettuale, eversiva, dissacra­


toria, ecc., essa si alimenta comunque di una individuale energia creativa
che, in attesa di un nome migliore, è ancora definibile come arte.

Note
' E. Morin, L'industrza culturale, li Mulino, Bologn à 1 962, p. 6.
2
lvi, p. 8.
3 lvi, pp. 40-4 1 .
4 M . Calvesi, Le due avanguardie, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 287-288.
5 F. M enna, Arte cinetica e visuale, in L 'Arte moderna, voi XIII, Fabbri Editori, Milano 1 967, p.
204.
6 G. Dorfles, Ultime tendenze nell'arte d'oggi, Feltrinelli, Milano 197 3 , pp. 79-80.
7 M. Meneguzzo, Bruno Munari, Laterza, Roma-Bari 1993 , p. 146.
8 U. Eco, Arte programmata, in Catalogo della mostra Olivetti, Milano 1962.
9 F. Menna, Le basi dell'arte cinevisuale, in La regola e il caso, Ennesse Editrice, Roma 1970, p.
209.
10
G.C. Argan, La ricerca gestaltica, in «li Messaggero>>, 24 agosto 1 963.
1 1 F. Menna, Design, comunicazione estetica e mass media, in <<Edilizia moderna>>, n. 85 , 1965.
12
Dorfles, Ultime tendenze nell'arte d'oggi cit., p. 93 .
" G. Celant in Quaderni de' Foscherari, a cura di P. Bonfiglioli, Bologna 1968.
1 4 M. Calvesi, Precedenza dell'arte italiana, in A vanguardta di massa, Feltrinelli, Milano 1978, p.
1 14.
1 5 C. Lonzi, Autoritratto (intervista con Giulio Paolini), De Donato, Bari 1969.
' 6 R. Barilli, Giulio Paolini, in In/armale oggetto contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1 979, vol. II,
p. 126.
17 M. Calvesi, Paolini al di là del vedere, in Avanguardza di massa cit., p. 174.
Capitolo dodicesimo La riduzione minimalista

Fra tutte le tendenze dell'arte contemporanea il Minimalismo è la più


congeniale al design e forse addirittura nata con esso. Com'è noto, la Mi­
nima! Art esordisce con l'articolo di Richard Wollheim, Minima! art, pub­
blicato in «Art Magazine» del gennaio 1 965 e con la mostra del 1 966 pres­
so il Jewish Museum di New York, ma ritengo che il fenomeno sia di qual­
che decennio più vecchio. Esso nasce con l'avanguardia storica ( anni Ven­
ti-Trenta) e non con la neoavanguardia post-bellica contrassegnata dal­
l'Informale, dalla Pop Art, dall'Arte concettuale e simili. Benché alcuni
critici abbiano dimostrato che il Minimalismo più autentico è solo quello
che annovera artisti quali Judd, Morris, Andre, Flavin, LeWitt, Serra e
Stella, dimostrando che Mies van der Rohe non può annoverarsi in questa
tendenza, ho fatica ad ammettere che la nota espressione miesiana less is
more non sia lo slogan più emblematico del Minimalismo, almeno nel cam­
po dell'architettura e del design. Gli stessi esegeti escludono dal Minima­
lismo l'opera di Malevic, di El Lissitzky, persino di Rietveld e degli altri
esponenti di De Stijl. Non si tratta evidentemente, a proposito dei suddet­
ti critici, di propagandisti di una corrente nata in America, disposti ad ogni
compromesso pur di vendere un prodotto di oltre oceano; essi adducono
interessanti motivi per le loro esclusioni che restano tuttavia, a mio avviso,
futili.
Sostengono anzitutto che l'arte minima! sia una reazione «silenziosa» al
«rumore» prodotto dall'informale, dal New-dada e soprattutto dalla Pop
Art, ignorando che l'effetto di straniamento delle sculture minimaliste, an­
corché non clamoroso, non sia altrettanto tipico dell'avanguardia contem­
poranea. Ritengono altresì che i prodotti di questa tendenza siano sugge­
riti dalle caratteristiche del topos, mentre mi pare che essi possano stare
dovunque: in una galleria, come in una casa, come in un giardino. Affer­
mano ancora che l'arte minima! rifiuta ogni dettaglio tecnologico, donde
la citata esclusione di Mies che vedeva nel particolare il punto della massi­
ma qualificazione architettonica o di design.
178 Made in Italy

Ora non solo i caratteri da tutti riconosciuti - il classicismo, la voca­


zione g�ometrica, la riduzione all'essenziale, ecc. - t11a anche quelli negati
- l' atopia, la raffinata tecnologia, la diversa spazialità fra le opere america­
ne, inglesi, giapponesi, svizzere - sono tutti indistintamente da ritenersi
quali valenze proprie del design. Come non considerare minimaliste le seg­
giole di Mart Stam, di Breuer, dello stesso Mies, di Rietveld, per non par­
lare di numerosi modelli prodotti nel Bauhaus? Ho il sospetto che i critici
propensi a non riconoscere il Minimalismo ante litteram e pre-bellico
confondano la tendenza di cui ci occupiamo con l'Arte povera, non rico­
noscendo che le valenze tecniche non mancano sia nella vecchia quanto
nella nuova produzione, ma sono solo volutamente nascoste, secondo il
motto ars celandi artem. In breve, il Minimalismo corrisponde a tutti i ca­
pisaldi del design classico-razionalista: qualità, quantità e basso prezzo che
comportano la riduzione di ogni spreco, la possibilità di ubicare i prodot­
ti in qualunque luogo, il rigore formale della geometria. Come ha osserva­
to Panofsky l'arte nasce nella storicità del suo tempo, ma mira a valere in
senso metastorico. Cosicché, se non c'è soluzione di continuità fra il vec­
chio e il nuovo Minimalismo, ciò si spiega col fatto per cui è tanto più ef­
ficace uno «stile» quanto più resiste nel tempo, come dimostra ogni orien­
tamento sostanzialmente classico.
Ma veniamo al Minimalismo più recente. Quest'ultimo interessa parti­
colarmente il nostro discorso sugli stili per i suoi molteplici precedenti, i
paralleli sincronici, i precorrimenti, le confluenze, ecc. Infatti, esso può
considerarsi al tempo stesso una delle più recenti manifestazioni della scul­
tura contemporanea, una sorta di sintesi tra Op e Pop Art, un ennesimo
tentativo neoconcretista di proiezione verso l'architettura e il design. Inol­
tre, poiché la Minima! Art non si riduce alla sola scultura, contenendo an­
che una componente pittorica, vanno annoverati pure alcuni pittori astrat­
ti americani per i quali è stata coniata l'espressione hard edge (a bordo du­
ro) , resistenti alla voga dell'Informale e «rivalutati» durante e dopo la ven­
tata della Pop Art quali Ad Reinhardt, Newman, Noland, Kelly, per citare
i più noti.
Le opere minima! si presentano formalmente come sculture realizzate
nei materiali più diversi (acciaio, ferro, alluminio, plexiglas, legno, ele­
menti luminosi) in generale con aspetto di fredde e squadrate geometrie,
ma spesso, com'è stato osservato, di una geometria tuttavia imperfetta, che
cioè non è più lo specchio della idea platonica, del fisso e dell'immutabile,
quanto piuttosto di una geometria del relativo, del possibile, del fenome­
nico, dell'instabile e del pericolante.
Quanto alla caratteristica più evidente della Minima! Art - e in quegli
anni dell'esposizione newyorchese più attuale -, nel catalogo della citata
mostra si legge: «è molto importante osservare che le dimensioni generai-
XII. La riduzione minimalista 179

mente grandi dell'_o pera e la scala architetturale permettono allo scultore


di dominare l'ambiente. A volte la scultura aggredisce lo spazio dello spet­
tatore, o lo spettatore viene introdotto nello spazio sculturale. Spesso la
scultura funziona ambiguamente, creando cioè un dislocamento spaziale
per lo spettatore, con valori complessi. Poiché la maggior parte di queste
sculture sono fatte per interni, è proprio la loro grandezza enorme, il loro
assalto alla scala intima, che porta implicitamente una critica sociale. I col­
lezionisti e anche i musei non hanno per lo più lo spazio necessario a que­
ste opere» 1 , Come si vede, la grande dimensione di queste «strutture pri­
marie», oltre ad essere una sorta di rivincita della scultura sulle altre più
seguite e studiate arti visive, la pittura e l'architettura, anzi uno sconfina­
mento nello spazio avvolgente, penetrabile, fruibile di quest'ultima, viene
anche incontro ad una diffusa esigenza della neoavanguardia. Ci riferiamo
alla già citata posizione ideologica, traducibile nella sequenza logica ar­
te=merce, merce=ricchezza, contrarietà degli artisti a favorire la ricchezza
capitalistica. Quanto alle altre valenze che si accompagnano alle «struttu­
re primarie», nello stesso catalogo si legge: «molte di queste opere conten­
gono pure, in questi modi, l'ironia, il paradosso, il mistero, l'ambiguità, an­
che l'arguzia, oltre alla bellezza formale, insomma le qualità sempre rico­
nosciute come valori positivi dell'arte. Le descrizioni critiche recenti di es­
se, con i termini 'minima!' e 'cool', non sono soddisfacenti; riferiscono, e
solo parzialmente, i mezzi usati dagli artisti, e non affatto i loro modi d'e­
sperienza inventiva»2•

·-

La «riduzione» culturale

Un lustro più tardi dell'esordio newyorkese minimalista, nella redazio­


ne della rivista napoletana «Op. cit.» affrontavamo un tema per molti
aspetti pertinente a quella tendenza, la «riduzione» culturale, poi ripreso
in altri saggi e libri. La vicenda va segnalata perché costituisce un raro ca­
so di coincidenza fra un'esperienza artistica in atto e l'impostazione di una
teoria critica del tutto indipendenti l'una dall'altra.
Quanto alla teoria della «riduzione» culturale, essa muove dalla con­
statazione che la sovrapproduzione di beni culturali risulta sempre più
sproporzionata non solo rispetto alla capacità ricettiva del più vasto pub­
blico, ma anche a quella dei gruppi interessa!i ad un dato settore e persi­
no a quella del ricercatore più specializzato. E stato osservato3 che è in at­
to la più grande inflazione di studi irrilevanti di tutta la storia della civiltà:
migliaia di articoli, monografie, libri, conferenze, programmi di ricerca,
progetti d'urbanistica, d'architettura, di design; senza parlare dell'en�rme
congerie di opere prodotte nei vari campi artistici e soprattutto degli og-
1 80 Made in Italy

getti, suoni ed immagini che i mezzi di comunicazione di massa riversano


nell'ambiente urbano. In generale questi beni culturali sono pertanto ec­
cedenti rispetto al loro impiego, costituiscono offerte senza domanda, ri­
sultano messaggi spesso incomprensibili se non addirittura privi di senso.
Nonostante la crescente volontà di apprendimento, il desiderio di parteci­
pazione, l'aumentato numero degli «aventi diritto», si impone una «ridu­
zione» culturale. Una posizione letteralmente coincidente con la nostra
teoria riduttiva è stata espressa dal maggiore designer minimalista italiano,
Fronzoni, che dichiara: «io detesto ciò che è superfluo, eccedente, ridon­
dante, tutto ciò che è spreco, non solo di materiali, di lavoro o di tecnolo­
gie, ma spreco morale, etico. Oggi una delle ragioni della crisi mondiale è
proprio questo spreco, che avviene in tutte le direzioni, in tutti i luoghi, in
tutte le discipline, urbanistica, architettura, design, politica, moda, cibo,
editoria. Se si raccogliessero gli sprechi presenti in tutti i campi, l'umanità
potrebbe essere liberata dalla maledizione del bisogno. Mi schiero contro
questo spreco che intacca non solo i materiali, le strutture sociali, i territo­
ri, ma le vite stesse. È uno spreco di vite, di persone, l'Africa ne è un esem­
pio. Queste cose non accadono per caso, e nessuno di noi è innocente, sia­
mo tutti responsabili o corresponsabili. Perciò io conduco silenziosamen­
te, nella mia piccola torre d'avorio, questa battaglia contro lo spreco, ten­
tando di costruire oggetti comunicativi mondi di queste ridondanze, cer­
cando di mettere le mani sull'essenza degli oggetti e di comunicarla in
realtà agli altri. Un messaggio, qualsiasi esso sia, deve essere leale, corret­
to, essenziale, deve comunicare ciò che conta ed è nell'oggetto stesso»4•
Con l'espressione «riduzione» culturale intendiamo una critica scelta
rispetto alla qualità e quantità dei beni culturali, nell'accezione più ampia
del termine, preceduta tuttavia da una rassegna di alcuni significati del ter­
mine «riduzione». Ricordiamoli qui brevemente a partire dalla radice eti­
mologica. Dal verbo latino re-ducere, ossia ricondurre, la parola ha assun­
to i seguenti significati: ritorno, trasposizione, traduzione, adattamento,
semplificazione, diminuzione, costrizione. Appare chiaro che, elencati in
quest'ordine, essi delineano una graduale caduta di valore relativa alle ope­
razioni indicate: si passa infatti da un senso fenomenologico-trascendenta­
le (Husserl) ad uno chiaramente denigratorio attraverso quelli più specifi­
camente strutturalistici che qui ci interessano più da vicino pur nelle in­
terpretazioni che andremo suggerendo. Comunque risulta altrettanto
chiaro che il termine riduzione assume un vario uso lessicale a seconda dei
campi in cui viene adoperato5.
Nell'articolo citato e nelle riflessioni successive, non scartavamo affatto
la riduzione nell'accezione meramente quantitativa, tuttavia moderata ed
orientata dal metodo strutturalista, consistente - segnatamente in campo
storico-artistico - nel ridurre in forma semplice ed evidente ciò che è com-
. Le1•<
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t

1 43 . A . G . Fronzoni, tavolo e sedie della serie 64, 1 964 , poi Cappellini, 1 996.
144. Archizoom, poltrona Mies per Poltronova, 1 969.
1 82 Made in Italy

plesso e nascosto, nonché nell'individuare principi comuni e invarianti in


opere, tendenze ed esperienze appartenenti a sistemi differenti. Parliamo
di sistemi proprio pensando al design, un'arte applicata non secondo la de­
finizione tradizionale che poco o nulla chiarisce, ma nel senso che ad esso
«si applicano» numerosi valori-interessi.
Un' «applicazione» della nostra teoria è databile al 1 982, quando la
«Domus» organizzò un convegno a Napoli sul tema «<l design oggi in Ita­
lia tra produzione consumo e qualcos'altro». Nella relazione che presen­
tammo in quella circostanza, dicevamo: la tesi che qui intendiamo esporre
mira a considerare il «qualcos' altro», da molti ricercato per la teoria e la
pratica del design, non come un di più ma, al contrario, come qualcosa in
meno, il termine «altro» denotando una diversità da cogliere con opera­
zioni di tipo riduttivo.
Il «qualcos'altro» non è un'ennesima trovata elitaria, ma un modo di
pensare nuovo che investe tanto la produzione quanto il consumo evitan­
do l'inflazione e gli sprechi. Non si confonda questa esigenza di economia
con la lotta al consumismo, il cui unico, enorme limite, con buona pace di
alcuni sociologi, è che solo una piccola parte di persone e di paesi posso­
no accedervi. Non siamo per la penuria, ma per trovare una «significazio­
ne» in ciò che produciamo e appunto consumiamo, donde l'interesse per
la semiologia che è appunto la scienza dei segni e della significazione. La
famosa frase di Roland Barthes, «l'abito non serve soltanto a coprirci, ma
anche a comunicare», è una esemplificazione di ciò che intendiamo con la
nozione di «qualcos' altro».
I precedenti della «riduzione» culturale sono numerosi, ma il più em­
blematico resta quello dell'Enciclopedia. D'Alembert nel discorso prelimi­
nare dell'opera osservava: «l'arte preziosissima di disporre le idee in con­
nessione opportuna [ ... ] rende in qualche modo possibile avvicinare fin ad
un certo punto gli uomini che sembrano diversi [ . . . ] È forse corretto af­
fermare che non si dà scienza o arte che non possa essere insegnata, a rigor
di termini e con buona logica, all'intelletto più limitato; e poche sono quel­
le le cui regole e proposizioni non possano ridursi a nozioni semplici e di­
sporsi in una connessione reciproca così immediata, che la catena non ri­
sulti in nessun punto interrotta»6. In un passo precedente lo stesso autore
aveva scritto: «quanto più il numero dei principi di una scienza si restrin­
ge, tanto più si generalizzano i principi stessi: e siccome l'oggetto di una
scienza è necessariamente limitato, i principi applicati a tale oggetto sa­
ranno tanto più fecondi quanto meno numerosi, riduzione questa che, ren­
dendo i principi stessi più facilmente assimilabili, costituisce il verace spi­
rito sistematico che non va confuso con lo spirito di sistema, con il quale è
generalmente in dissidio»7.
XII. La riduzione minimalista 1 83

Ritornando alla nostra tesi per sui il «qualcos' altro» non è un fattore ag­
giuntivo, ecco una serie di possibili riduzioni nel campo del design.
La prima sarebbe quella di isolare il design degli oggetti domestici
dall'intero contesto del disegno industriale. Pur riconoscendo le ottime in­
tenzioni di chi, quasi dagli inizi del secolo, ha parlato di una metodologia
unitaria adatta a tutti i settori del design, oggi la stessa tesi appare insoste­
nibile. Il progetto globale del design storico è fallito; c'è un divario enor­
me fra campi informati ad un diverso livello tecnologico; il generoso pro­
gramma di «un'arte per tutti» è tutt'altro che realizzato; sono venute me­
no le premesse politiche, economiche, culturali indispensabili per attuar­
lo. Ogni campo merceologico presenta oggi tali peculiarità da richiedere
non solo una specifica competenza professionale, ma addirittura un diver­
so atteggiamento. In tal senso è emblematica l'attività di Sottsass quando
progetta le macchine Olivetti e quando, nella linea radicale, disegna og­
getti per la casa.
La seconda riduzione del disegno industriale è la sua interpretazione
prevalentemente nell'ambito del gusto. Se da qui è iniziata la crisi del desi­
gn, è inutile attendere chissà quali nuovi eventi, quali innovazioni tecniche,
quali nuovi materiali da adottare, perché tutto lascia credere che proprio
da un rinnovato incontro tra la cultura del pubblico e quella del design sul
fattore gusto si possa in qualche modo, e settorialmente, riprendere il pri­
mitivo programma della disciplina in esame: vale a dire l'adesione, la dif­
fusione, la quantificazione e il basso prezzo dei prodotti.
La terza riduzione, la più importante ed inclusiva, consiste nel ridi­
mensionamento della concezione stessa del design: esso non va più inteso
come parte di un progetto globale e utopistico o come una grande peda­
gogia sociale, ma più realisticamente come qualcosa che contribuisce nei
suoi limiti a migliorare gli ambienti e con essi la qualità della vita. Queste
le p roposte che, muovendo dalla teoria della «riduzione» culturale, pre­
sentammo al convegno sopra citato.

Il design minimalista

E veniamo al rapporto tra la nostra «riduzione» e quelle che lascia in­


tendere il design minimalista italiano.
È stato notato che i due filoni più propriamente minimalisti nel campo
del design, quello giapponese e quello europeo, nella seconda metà degli
anni Ottanta contribuirono a contrastare l'esuberanza formale delle ten­
denze radicali e neo-romantiche, stabilendo un clima differente, più paca­
to sia nella progettazione che nella produzione industriale.
In un ottimo saggio Vanni Pasca, dopo una rassegna sul Minimalismo
1 84 Made in Italy

internazionale, cerca di individuare in Italia la vicenda del design minima­


lista che considera quantitativamente modesta, mà ricca di significato.
«Nella sua storia è possibile rintracciare solo singole esperienze di tipo mi­
nimalista, quasi sempre momenti particolari nell'attività complessiva di un
designer, mentre r.estano da approfondire ulteriormente, da questo punto
di vista, personalità come quelle di Piero Bottoni e di Giuseppe Pagano.
Molto esteso è invece un tipo di ricerca che privilegia la semplicità ma evi­
ta la riduzione radicale»8.
Il testo prosegue spiegando le ragioni per cui appunto in Italia esistono
opere e momenti minimalisti senza un più esteso movimento radicalmen­
te riduttivo, essendo comunque presente un design formalmente «esube­
rante». Secondo Pasca il progettista più rappresentativo del vero Minima­
lismo è A.G. Fronzoni. Molto indicative sia della poetica di questo artefi­
ce, sia della concezione più italiana del Minimalismo sono le sue dichiara­
zioni rilasciate nel 1 995 in un'intervista con lo stesso Pasca. «lo sono nato
a Pistoia, porto dentro di me quella cultura razionale di cui il Rinascimen­
to era intriso. Perciò amo il Razionalismo nell'architettura e nell'arte del
Novecento. Ho guardato al lavoro dei principali artisti del secolo, tanti an­
ni fa riuscii ad avere documenti delle avanguardie russe, di Maleviè:. Ho
guardato a Terragni, a Mies, ma anche alla architettura essenziale e pove­
ra del medioevo. Per povero intendo il minor impiego di materiali, di tec­
nologie, un costo il più basso possibile. Ma mi ha sempre affascinato an­
che l'essenzialità giapponese, l'eliminazione di tutto per ottenere ambien­
ti liberi dalle suppellettili, dove esiste solo l'architettura e lo spazio corri­
sponde alle esigenze del vivere. Da giovane, reduce dalla guerra, ho vissu­
to il clima della ricostruzione, la speranza di poter costruire un paese di­
verso. Il design è stato una delle speranze del secolo ventesimo, quella di
poter distribuire oggetti funzionali, di poco costo, che durassero nel tem­
po, con un'immagine razionale che potesse dare un contributo alla costru­
zione di un pensiero moderno, di un mondo diverso. Invece gli oggetti di
design sono comprati dai ricchi. [ . . . ] In ogni caso io considero la forma di
grande importanza, ma ritengo che essa debba essere sottesa da un pen­
siero e che sia la geometria a organizzarne la struttura. Nella scuola di Pla­
tone, ad Atene, c'era un cartello che suppergiù diceva: 'Scuola di filosofia
- chi non è studioso di geometria, non entri'. La forma è bellezza, qualcu­
no ha detto che la bellezza salverà l'uomo; non so se sia vero, ma so che la
forma mi è utile, anzi indispensabile anzi preziosa, per inviare un messag­
gio che è messaggio di pensiero»9.
Oltre l'esperienza di Fronzoni, meglio noto come grafico, ma altrettan­
to valido designer di mobili, Pasca, come già detto, elenca opere e mo­
menti minimalisti di altri progettisti: la lampada Luminator dei fratelli Ca­
stigliani, in cui l'ampolla di vetro poggia su un sottile tubo metallico sor-
145 . L. Baldessari, lampada
Luminator, 1 929 (Luceplan,
1 979).
146. E. Sottsass, lampada
Callimaco per Artemide, 198 1 .
1 47- 148. A. e P.G. Castigliani,
lampada Luminator per Gilardi
& Barzaghi ( 1955 ) , Arform
( 1 957), Flos ( 1 994); a sinistra:
particolare della base.
186 Made in Italy

retto da tre esili gambe, anch'esse metalliche, che per il trasporto si infila­
no nel tubo stesso, datata al 1 955, ma non a caso rimessa in produzione
dalla Flos nel 1 994; il televisore Black 20 l di Zanuso per Brionvega del
1 969, che solo se acceso dichiara la sua funzione, altrimenti ricorda i cubi
dell'artista minimalista americano Robert Morris; la gran parte della pro­
duzione di Enzo M ari. Questa, a mio avviso, è per forma o contenuto «po­
vera» e minimalista ad un tempo, dagli oggetti per Danese agli allestimen­
ti in cartone canettato, dalla libreria Grz/o ( '69) alla seggiola Delfina ( '74 ) ,
fino al Day-night ( '72) per l a Driade, ovvero il divano-letto più minimali­
sta che conosco.
Minimalisti sono tutti gli strumenti tecnici di alta precisione che non
possono permettersi alcunché di superfluo10.
Non bisogna infine dimenticare un altro maestro del Minimalismo,
Bruno Munari: «il problema del minimo, in tutte le cose, in tutti i proget­
ti è l'assillo di Munari, soprattutto negli anni cinquanta e sessanta - ha evi­
denziato Marco Meneguzzo -: minimo ingombro, minimo costo, minimo
materiale, minimo impatto simbolico, minima presenza dell'oggetto, mini­
ma invadenza»1 1 .

Minimalismo e plastica

Ancora, in gran parte minimalisti, per ritornare nell'ambito del mobile


ed arredo, sono quei modelli realizzati in plastica, dalla forma, in genera­
le, estremamente semplice perché ricavata da uno stampo. Una delle azien­
de antesignane in questo campo è la Kartell, fondata a Milano nel 1 94 9 da
Giulio Castelli. Tra i prodotti più noti di sua produzione sono: la seggiola
per bambini 4999 del 1 964, disegnata da Zanuso e Sapper; il tavolo di Ca­
stelli Ferreri e Gardella modello 4993 del '66; la sedia 4860 di ]oe Colom­
bo del '68; la sedia 4854 di Gae Aulenti dello stesso anno; la sedia sovrap­
ponibile 4850 di Giorgina Castigliani del '70; il tavolo basso 4894 di Gae
Aulenti del '73 ; la sedia modello 4875 di Carlo Bartoli del '74. A questa
produzione di modelli plastici minimalisti la Kartell ne ha fatto seguire al­
tri che, pur pregevoli come gli sgabelli di Anna Castelli Ferreri, non rien­
trano tuttavia nello stile in esame.
Più fedele alla tecnologia dei materiali plastici e alla conseguente linea
minimalista s'è rivelata l'Artemide, fondata nel 1 959 da Ernesto Cismon­
di e Sergio Mazza: tra i suoi prodotti di maggiore successo vanno segnala­
ti la lampada Eclisse (Compasso d'Oro 1 967) di Vico Magistretti del '66; la
poltroncina in abs Toga di Sergio Mazza del '68; la sedia Selene di Magi­
stretti del '69; le poltrone Gaudi e Vicario del '7 1 , dello stesso autore; la
lampada Megaron di Frattini del '79, ecc. Com'è facile intendere, mobili e
149. A. Astori, Oikosdue per Driade, 1 980.
150. E. Mari, tavolo Frate per Driade, 1 973.
1 88 Made in Italy

lampade, minimaliste perché formate da un unico materiale, la plastica


stampata, non sono monopolio delle sole due ·aziende sopra citate. Altre
ditte e designer producono occasionalmente articoli simili, talvolta di no­
tevole pregio: pensiamo alla sedia Lambda (il cui nome richiama quello
della prima automobile a carrozzeria autoportante), disegnata da Zanuso
per Gavina del '64 ; alla poltrona Gaia di Carlo Bartoli per Arflex del '65 ;
al gruppo di tavolini Marema di Gianfranco Frattini per Cassina del '67 ;
dello stesso anno, ricordiamo la serie degli imbottiti Bobo di Cini Boeri per
l' Arflex, primo esempio di sedile realizzato esclusivamente con schiume
poliuretaniche espanse senza struttura rigida interna, un materiale cui ac­
cenneremo più avanti; la poltroncina Jumbo in fiberglass di Alberto Ros­
selli per Saporiti del '68; la poltrona Melaina di Rodolfo Bonetto per Dria­
de del '69; la sovrapponibile seduta Canguro di Giorgina Castigliani per
Gufram del '70; le sedie Enne Uno di Piero De Martini per B&B e quella
di De Pas, D'Urbino e Lomazzi per BBB Bonacina, entrambe del '70; e via
via fino alla poltrona Air One di Ross Lovegrove per la Edra e allo sgabel­
lo Yuyu di Stefano Giovannoni per la Magis, entrambi del 2000.
Il tipo di materia plastica più «adatto» al minimalismo appartiene alla
famiglia dei poliuretani. Questi, a differenza delle plastiche rigide che so­
no prevalentemente di modesto spessore, possono aversi, per la loro natu­
ra schiumosa, in masselli di alto spessore e in grado di sostenersi senza in­
terne strutture portanti, cosicché risultano modellabili direttamente, spe­
cie se in forme semplici. Grazie al poliuretano fu rivoluzionato il modo di
progettare e costruire gli imbottiti.
Precorritrice di questa tecnologia fu la citata gommapiuma, lattice de­
rivato dal caucciù, usato per la prima volta da Albini nel '36 e con mag­
giore successo nel '5 1 da Zanuso con la poltrona Lady per Arflex. E fu ap­
punto nel dopoguerra che il poliuretano si rese indispensabile per molti
imbottiti: la poltroncina Cubo ( '57) di Achille e Pier Giacomo Castigliani;
il Prog 804 di Enzo Mari ( '66) , ottenuto con il solo taglio da un blocco di
poliuretano; la Superonda ( '67 ) degli Archizoom per Poltronova; le sedute
Up di Gaetano Pesce ( '69) per B&B, rivestite da un tessuto elastico, con­
fezionate per la spedizione in buste sotto vuoto, che riprendevano la for­
ma iniziale una volta aperta a casa la busta sigillata; la serie le Bambole
(Compasso d'Oro 1 972) di Mario Bellini per Cassina, ecc. Le aziende più
interessate agli studi dell'applicazione del tipo di plastica in esame furono
la Cassina, la C&B, la B&B di Busnelli. Ma i casi più emblematici dell'uso
dei poliuretani negli imbottiti sono quelli della gran parte dei modelli pro­
gettati da Cini Boeri per Arflex. La sua serie Strips ottenne il Compasso
d'Oro nel 1 972.
In generale, tecnologia a parte, a fronte di prodotti ad un tempo sem­
plici e raffinati, esiste il risvolto negativo nell'uso della plastica che, per il
151. Pubblicità della Spaghetti chair.
152. G. Belotti, Spaghetti chair, 1 979.
1 5 3. Sequenza di sedie prodotte da Alias.
1 90 Made in Italy

basso costo della materia prima e soprattutto della lavorazione, ha alimen­


tato fortemente il cosiddetto design anonimo, tal che si passa dal più raffi­
nato oggetto in abs o appunto in poliuretano, magari vincitore di un
«Compasso d'Oro», alle seggiole che arredano i bar all'aperto o gli stabi­
limenti balneari e che, tradendo la particolare caratteristica formale dei
prodotti d'arredo' in plastica, ossia il minimalismo, imitano, magari con un
semplice intaglio sui piani dei sedili e delle spalliere, modelli del passato
costruiti in legno o altro materiale; per non parlare della nautica da dipor­
to, regno incontrastato, tranne le solite eccezioni, del kitsch.
Naturalmente il minimalismo non si limita ai prodotti di plastica; si ad­
dice anche e soprattutto ai nuovi materiali, all'uso di un materiale solo, ad
articoli dalla geometria elementare senza peraltro censurare la fantasia. In
questa ampia prospettiva, citiamo a mo' di esempio di minimalismo non
affidato alla plastica modelli quali: le sedie, i tavoli, i tavolini, le poltrone e
i divani disegnati come col «fil di ferro», tanto sono immateriali, da Fron­
zoni nel '64 e prodotti da Cappellini fino al '96; il tavolo tondo coi piedi in
ottone regolabili di Gardella per Azucena del '5 1 ; il mobile bifronte a sca­
letta Rampa dei Castigliani del '63 per Bernini; la poltrona Mies degli Ar­
chizoom del '69 per Poltronova; il tavolo Orseolo di Carlo Scarpa per Si­
mon del '73 ; il sistema di mobili componibili Oikos di Antonia Astori per
la Driade del '73 ; la sedia Delfina (Compasso d'Oro '79) di Enzo Mari,
prodotta da Driade nel '74; dello stesso autore i tavoli Frate e Fratello per
la Driade nel '74; l'appendiabiti Sciangai di De Pas, D'Urbino e Lomazzi
per Zanotta del '74 (Compasso d'Oro '79) ; la lampada da tavolo Atollo di
Magistretti per O-Luce del '77 (Compasso d'Oro '79); il sistema Bric di
Enzo Mari e Antonia Astori per Driade del '78; la Spaghetti Chair di Gian­
domenico Belotti per Alias dell'SO; dello stesso anno è il sistema Oikosdue
di Antonia Astori per Driade. Tutta la produzione di Aldo Rossi designer
- la caffettiera La conica ('83 ) , il bollitore Il conico ('86), la caffettiera La
cupola ('88) per Alessi, la sedia Milano per Molteni dell'87 , ecc. - è mini­
malista, come del resto la gran parte delle sue architetture. Un analogo di­
scorso può farsi per Mario Botta: il carattere dei suoi edifici, simmetrici
per un moderno classicismo, razionali ed essenziali, si ritrova puntual­
mente nei mobili che agli inizi degli anni Ottanta progettò per Alias, in
particolare le sedie Prima e Seconda .
Continuando la nostra rassegna del Minimalismo, vanno ancora men­
zionati tra i più rappresentativi dello stile i principali modelli di Philippe
Starck per la Driade: la seggiola Serapis, la poltrona Von Vogelsang, i tavoli
TZtos Apostos e Tippy ]ackson, tutti dell'85 ; la sedia Tonietta di Enzo Mari
dell'87 per Zanotta; la sedia in policarbonato Light-light e il tavolo Dry con
la struttura minima! in poliuretano armato di Alberto Meda dell'87 per
1 5 4 - 1 55 . ]. De Pas, D. D'U rbino e P. Lomazzi, progetto per l'appendiabiti Sciangai per Zanotta, 1 974
(in basso, particolare).
1 5 6 . P . Rizzatto, tavolo per Danese, 2005 .
1 5 7 . P. Rizzatto, scaletto Upper per Kartell, 200 1 .
1 92 Made in Italy

Alias; lo scaletta in plastica Upper di Paolo Rizzatto del 2001 e il tavolino


]olly in plastica colorata e trasparente del 2002, entrambi per la Kartell.
Oggetti minimalisti sono stati progettati da designer che figurano anche
in altre tendenze stilistiche; è il caso di Caccia Dominioni che, per Azuce­
na, disegna nel ')3 la lampada da terra Monachella con base circolare in
ghisa, asta di ottone e lamiera di alluminio piegato che nasconde la lampa­
dina, modello che viene replicato l'anno dopo in versione da tavola e cata­
logato come Lta2.
Mi piace terminare questo capitolo sul Minimalismo ancora con alcune
conclusioni di Vanni Pasca che, tra l'altro, hanno il merito di una inusuale
chiarezza di posizione critica. I capisaldi del discorso sullo stile in esame e
la relativa storicizzazione sono: l'esistenza di un filone minimalista che at­
traversa tutta la storia delle forme, la reazione all'estetismo degli anni Ot­
tanta, la crisi economica degli anni Novanta. A questi fatti, per così dire,
strutturali, vanno aggiunte opportunamente considerazioni critiche e po­
lemiche.
«Negli anni ottanta i teorici del design neoromantico sostengono che
una nuova casa, 'una casa calda', si sta sostituendo alla fredda casa del ra­
zionalismo. Il design neoromantico afferma la propria legittimità proprio
come risposta a una domanda di estetizzazione del quotidiano presente tra
la gente». Pasca nega questa esigenza sostenendo che la domanda del pub­
blico continua ad essere orientata verso la linea razionalista. E ciò per va­
rie ragioni. «Prima di tutto il design italiano di matrice razionalista ha scar­
si rapporti con la freddezza scientista dell'avanguardia ulmiana; anzi, con
la centralità dell'insegnamento di Rogers negli anni cinquanta, ha sempre
praticato un razionalismo temperato, attento alla tradizione e alle tipolo­
gie degli arredi. Così è proprio il design neoromantico ad apparire estra­
neo, nella sua esibita 'artisticità', a una tradizione e a un'idea dell'abitare.
[ . . ] Malgrado l'effervescenza del pluralismo estetizzante e il suo successo
.

di stampa, il design neoromantico non trova un reale sbocco di mercato e


resta in gran parte fenomeno da esposizione e da collezionismo, oggi da
modernariato. [ . . ] Così, per le industrie, il minimalismo diventa legittima­
.

zione culturale della semplicità tipica del prodotto industriale di serie, al


quale rivolgono ora grande attenzione; o della semplicità di nuove colle­
zioni di arredi, pensate per una casa che non vuole essere né opera d'arte
totale né classicamente borghese, le due ipotesi più diffuse negli anni ot­
tanta. [ . . . ] oggi sembra essersi aperta in più situazioni una ricerca di ' rico­
struzione razionale' del progetto. Questo nuovo razionalismo intende af­
frontare quello che appare il tema centrale del decennio, progettare og­
getti che traducano la complessità (formale, ecologica, relativa all'uso di
nuovi materiali, al diffondersi di comportamenti abitativi nuovi) in una in­
clusiva semplicità: 'la semplicità come complessità risolta', per dirla con
XII. La riduzione minimalista 1 93

Brancusi. Questo modo di intendere la semplicità è forse il più interessan­


te e il più ricco di sviluppi, per la cultura progettuale di questa fine del se­
colo»12.
Sul rapporto tra la cosiddetta de-materializzazione prodotta dalla tec­
nologia digitale e il minimalismo sono state svolte alcune considerazioni
critiche comunque da menzionare. «Molto del design degli anni novanta,
definito minimalista, ha sicuramente nella supremazia della bidimensiona­
lità dell'immagine la sua matrice. Anche se di chiara derivazione moderni­
sta, il minimalismo ha cercato non solo l'essenzialità nei suoi oggetti ma an­
che una forzata leggerezza dell'immagine, attraverso la riduzione di spes­
sori, l'adozione di trasparenze e di superfici ampie in colori chiari (preva­
lentemente bianche)»13• In questa linea rientrano i prodotti di Antonio
Citterio per B&B o Flexform, quelli di Piero Lissoni per Porro o quelli di
Jean Nouvel per Uniform, la decorazione ottenuta con pixel sgranati o con
circuiti stampati (si pensi alla lampada Lastra di Antonio Citterio per Flos,
1 998 ) , la fredda luminescenza dei video ampliata e trasferita su pareti o
prodotti, ecc.

Note
1 K. McShine, presentazione nel catalogo della mostra <<Primary Structures>> al Jewish Museum
di New York, 1966.
2 lbid.
3 Cfr. H . Zinn, La storiogra/ia di sinistra, in <<Comunità», n. 164, giugno 1 97 1 .
4 Cit. i n V . Pasca, Design negli anni novanta, i n F . Carmagnola, V . Pasca, Minimalismo, etica del-
le forme e nuova semplicità nel design, Lupetti, Milano 1996, pp. 1 0 1 - 102.
5 Cfr. R. De Fusco, G. Fusco, La «riduzione» culturale, in <<Op. cit.», n. 23, gennaio 1972.
6 J.-B. D ' AJembert, D. Didero t, La filosofia dell'Encyclopedie, Laterza, Bari 1966, pp. 68-69.
7 lvi, p. 59.
8 Pasca, Design negli anni novanta cit., p. 98.
9 A. G. Fronzoni, in Carmagnola, Pasca, Minimalismo, etica delle /orme cit., p. 102.
IO
Cfr. G. Dorfles, Disegno negli stumenti di precisione, in <<Stile Industria», n. 3, gennaio 1955.
11
M . Meneguzzo, Bruno Munari, Laterza, Roma-Bari 1 993 , p. 66.
12
Pasca, Deszgn negli anni novanta ci t., pp. 1 07- 1 1 1 .
D C. Martino, Note sul destgn degli anni Novanta, in <<Op. ci t.», n. 1 10, gennaio 200 1 .
Capitolo tredicesimo Lo stile radical

A chi ha seguito i capitoli precedenti risulta chiaro che la nozione di sti­


le relativa al design ha assunto in essi vari significati: dal modo di proget­
tare modelli a quello di costruirli, venderli, pubblicizzarli, creare con essi
ed altro una corporale image, fino a trattare di sociologia e politica; detto
diversamente, in questa sede lo stile è visto prevalentemente in senso
morfologico, non solo, ma anche come caratterizzazione di momenti cul­
turali, alla cui comprensione sono necessarie alcune analisi riguardanti il
contesto.
In apertura di un discorso sullo stile italiano più politicizzato, sebbene
sui generis, qual è il radica! design, e muovendo dall'ipotesi, tutta da veri­
ficare, che il ' 68 - anno emblematico per tale movimento - fosse di sinistra,
diamo qualche cenno interpretativo della generale concezione che una cer­
ta cultura di sinistra aveva nei riguardi del design.
Il primo rilievo critico di quest'ultima riguardava il tema della commit­
tenza. Com'è noto, «secondo Marx, la ricchezza delle società nelle quali
predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una 'im­
mane raccolta di merci', le quali si offrono nel duplice valore di uso e di
scambio. In quest'ultimo si è perso il significato del ruolo sociale che im­
plica il lavoro e la produzione poiché 'non si parte dal lavoro degli indivi­
dui in quanto lavoro comune ma da lavori particolari di individui privati,
valori che soltanto nel processo di scambio, con l'abolizione del loro ca­
rattere originale si affermano'. Non poteva mancare, quindi, tra i temi svi­
luppati dalla critica di sinistra quello della responsabilità del design nella
società delle merci; il che significa anche stabilire il ruolo che deve assu­
mere il designer nel rapporto tra produzione e consumo» 1 . Qualche anno
prima sulla stessa rivista, donde abbiamo tratto la citazione, Gui Bonsiepe,
già docente alla Hochschule fur Gestaltung (HfG) di Ulm, scriveva: «il la­
voro dei disegnatori industriali deve realizzarsi in istituzioni per lo svilup­
po sociale, economico e tecnologico, ossia in quelle istituzioni nelle quali
si prendono importanti decisioni per la qualità dell'habitat di una società.
158. Allestimento alla XIII Triennale, dedicata al Tempo Libero, 1964.
159. Allestimento alla X I V Triennale, sala « L a protesta dei giovani>>, 1 968.
1 96 Made in Italy

Cosicché i disegnatori industriali devono lavorare in commissioni per la


standardizzazione, in commissioni di esportazione, nei dipartimenti di ac­
quisto ed approvvigionamento, nei ministeri dell'educazione e negli orga­
nismi comunali, che sono peraltro responsabili dell'arredo urbano [ . . . ] .
Inoltre affinché il disegno industriale non rimanga condannato ad essere
una utopia fallita; alimentata solo dalla buona volontà di idealisti frustrati,
dovrebbe avere quel potere che oggi è diviso da circoli di scienziati, inge­
gneri, amministratori e politici»2. Veniva così avviata o ribadita quella che
sarà definita «committenza alternativa».
Su questo tema va registrato anche chi lo considerava diversamente:
«fallita l'illusione di una committenza 'alternativa' [ . . . ] , fallito l'inserimen­
to del designer/condotto nei quadri tecnici degli organismi di decentra­
mento [ . . ] , buona parte di questi operatori hanno ormai puntato con de­
.

cisione sul mutamento di destinazione del prodotto. Alla committenza


'tradizionale' i 'nuovi' designers offrono così la possibilità di allargare il
campo d'intervento [ . . . ] ai prodotti per l'uso collettivo, ai progetti comu­
nitari. [ . . . ] Così è il vecchio tipo di committenza, quella privata che [ . . ] è
.

diventata disponibile ad assumersi la ricerca, e la produzione, tesa a risol­


vere le esigenze del consumo collettivo»3 .
Un altro caposaldo della critica di sinistra riguarda la cosiddetta etero­
direzione, che David Riesmann sviluppa nel saggio The lonely Crowd del
1 950, tradotto da Il Mulino nel ' 70. Segue quello di Vence Packard, dal ti­
tolo più mordace Persuasori occulti. Oggetto della sua critica è la pubbli­
cità, il massimo strumento per influenzare la società di massa. Una volta
scoperte le prospettive che offriva quest'ultima, Packard scrive: «gli agen­
ti pubblicitari cominciarono a familiarizzarsi con i diversi 'livelli di co­
scienza' che coesistono nell'uomo e giunsero alla conclusione che tre di
questi livelli riguardavano, in particolare, la loro professione. Al primo li­
vello, consapevole, razionale, il pubblico si rende conto di ciò che avviene
e ne conosce le ragioni. Il secondo, detto ora subconscio, ora preconscio,
indica quella zona della coscienza in cui una persona si rende confusa­
mente conto dei propri segreti pensieri, delle proprie sensazioni e dei pro­
pri atteggiamenti, ma non desidera spiegarseli [ . . . ] . Al terzo livello, infine,
noi non soltanto siamo ignari dei nostri sentimenti e atteggiamenti reali ma
ci rifiuteremmo di discuterli anche se ci fosse dato di farlo. L'esame del no­
stro comportamento verso i beni di consumo a questi due ultimi livelli di
coscienza costituisce il nerbo della nuova scienza che va sotto il nome di
analisi o ricerca motivazionale»4. Dietro questi pionieri della lotta al con­
sumismo si formò tutta una schiera di sociologi ugualmente orientati.
Ma anche l'avversione alla pubblicità non trova tutti concordi: «questo
espandersi delle tecniche pubblicitarie - nota Alberto Abruzzese - non
poteva non provocare fenomeni di rigetto e meccanismi di difesa da parte
XIII. Lo stile radica! 1 97

delle culture, delle tecniche, dei valori e dei poteri preesistenti. [. .. ] Anco­
ra oggi molti ' uomini di cultura' potrebbero affermare, come fece Gal­
braith, che la funzione della pubblicità è quella di ' creare i desideri, di ge­
nerare nelle persone quelle necessità che prima non esistevano'. Ed i pub­
blicitari a loro volta potrebbero controbattere nello stesso modo in cui
aveva risposto Reeves. Prima con una 'legge' : ' Se il prodotto non soddisfa
un desiderio o una necessità esistenti nel consumatore, la pubblicità alla fi­
ne fallirà il suo scopo'. Poi con una tesi opposta alle teorie della persua­
sione occulta: ' Non è vero che la pubblicità fa nascere i desideri. Sono i de­
sideri che fanno nascere la pubblicità'»5. La critica di sinistra ha avanzato
numerosi altri rilievi alla cultura del design per sua natura sostanzialmen­
te liberistica, ma qui ne riportiamo gli aspetti più vicini e pertinenti alla na­
scita del radica! design.
Nella seconda metà degli anni Sessanta essa ha assunto aspetti partico­
lari, a cominciare dal contesto. La rivolta del '66 nel campus americano di
Berkeley contro la guerra in Vietnam, l'invasione sovietica dei paesi satel­
liti, la filosofia di Herbert Marcuse, la letteratura della Beat Generation, da
J ack Kerouac a Allan Ginsberg, il movimento studentesco in Francia pri­
ma e Italia dopo, la strategia della tensione e tanti altri sconvolgimenti po­
litici, culturali e di costume crearono il movimento del '68. Di esso fecero
parte, e in generale ne uscirono, l'interesse ambientalistico, l'avversione al
consumismo, la rivendicazione da parte dei giovani di una maggiore par­
tecipazione politica, il riconoscimento delle minoranze femministe, omo­
sessuali, etniche e religiose, il diritto allo studio, ecc. Nel campo delle pro­
fessioni i sociologi, gli urbanisti, gli architetti e i designer furono quelli più
influenzati da questa «rivoluzione» che univa indistintamente fatti alta­
mente drammatici ad altri addirittura risibili. Comunque quella data segna
una crisi dalla quale non siamo ancora usciti, segnatamente nel campo de­
gli studi e dell'università.

Radica! design

Lo stile dei designer di «opposizione» e dei loro compagni di strada at­


tinge ai paradigmi ideologici suddetti, contenendoli integralmente. Il fe­
nomeno non è privo di precedenti, l'opposizione politico-culturale è nata
con la rivoluzione industriale; si aggiunga la protesta delle avanguardie sto­
riche e di quelle marxiste espressioniste e marxiste surrealiste. Tali opera­
zioni hanno sempre ottenuto una vasta risonanza presso gli ambienti elita­
ri, molto meno in quelli dei ceti medi e popolari.
L'inizio del fenomeno radica! può datarsi all'adesione di alcuni giovani
alla Pop Art, come è detto in un altro capitolo dedicato al rapporto tra il
198 Made Zn Italy

disegno industriale e le arti, ma la radicalizzazione avviene poco dopo e


per altri motivi, oltre quelli sopra citati. In pieno hoom del design razio­
nalista e del diffondersi dell'Italian Style nel mondo, gli autori più giovani
si sentivano esclusi: tra le più attendibili spiegazioni della tendenza in esa­
me, definita anche anti-design, contro-design e simili, è stato il desiderio
di emergere, di rèndersi visibili, di vincere le difficoltà ambientali. Non è
casuale che il movimento, proprio negli anni del suo maggiore successo, sia
sorto in città relativamente o addirittura povere di industrie come Firenze,
Roma o Napoli.
Nella prima, nel 1 966 fu fondato il gruppo A rchizoom da Branzi, Cor­
retti, Deganello, Morozzi, ai quali si associarono Dario e Lucia Bartolini;
nello stesso anno Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Frassinelli e i Ma­
gris aprirono il Superstudio; nel ' 67 Binazzi, Foresi, Cammeo, Maschietto
e Gioli diedero vita al gruppo Ufo. Nello stesso anno, sempre a Firenze, si
organizza il Gruppo 9999, formato da Birelli, Caldini, Ceretti, Derossi,
Fiumi, Galli e Rosso. A Roma operarono nella linea di un design surreali­
sta De Sanctis e Sterpini. Nel ' 68 a Napoli fa il suo solitario esordio Ric­
cardo Dalisi, inserendo il design nella linea dell'Arte povera. N eli' indu­
striale Torino si forma agli inizi degli anni Settanta il gruppo Strum, cui
partecipano Ceretti, Derossi, Giammarco Rosso e Vogliazzo.
A conferma di quanto abbiamo appena detto, molti degli autori citati,
segnatamente fiorentini, si trasferiscono od operano a Milano. Anche qui,
nella fiorente regione lombarda, i giovani milanesi o di altre regioni d'Ita­
lia assumono la linea della «contestazione del presente», il desiderio di an­
dare oltre la stessa tipologia del mobile, la spinta verso l'ironia quale sen­
timento prevalente, e soprattutto la contestazione dell'industria. L'opposi­
zione peraltro coincide con una condizione endemica del design italiano,
rimasto sempre diviso tra artigianato e industria con una dirigenza in gran
parte sel/-made, tra difficoltà di acquisire un positivo know-how e genialità
individualistica, tra il volere e il potere, tra il fare di necessità virtù con tut­
ti i limiti imposti dalla forza delle cose e la spinta a sperimentare che que­
sto comporta. Il tutto mutevole da settore a settore specie in ordine al di­
vario fra progettazione e produzione. Come osserva Fossati, si può soste­
nere che «in Italia progettazione c'è stata, mentre la produzione è stata
scarsa o è avvenuta a livelli molto particolari. Dal punto di vista degli in­
vestimenti e dei contributi per questa voce del bilancio industriale, manca
qualunque approfondimento nelle storie dell'industria italiana, ma si può
avanzare l'ipotesi, con buona approssimazione, che, lungo l'arco di qua­
rant'anni, la grande industria non si sia pressoché mai posta il problema;
che la media abbia imbastito radi rapporti col mondo del design, e la pic­
cola, spesso confinante in strutture economico-produttive artigianali, è
stata [ . . ] il solo terreno naturale dei nostri designers. Se dall'arco del qua-
.
XIII. Lo stile radica! 1 99

rantennio 1 93 0-70 stacchiamo gli ultimi dieci anni, all'ingrosso, si assisterà


a qualche mutamento, con interventf maggiori per la grande industria, e un
più agile intervento delle altre due»6. Le considerazioni citate aiutano a
comprendere come anche nella stessa Milano si sia affermato il radical de-
·

sign.
Cominciamo col dare un'idea complessiva dell'immagine che avemmo
della tendenza di cui ci occupiamo: «lampadine colorate, archi, cornici, la­
minati stampati a macchie di leopardo, attaccapanni totemici, fili in ten­
sione, superfici laccate con colori aggressivi o tenerissimi e dappertutto
una profusione di decorazione e colori: sono gli ingredienti del più attua­
le design apparso nelle recenti mostre del settore. [. .. ] Nascono così tavo­
li con basi in legno laminato e piani d'appoggio in cristallo sorretti da gam­
be contorte da misteriose energie, centrotavola in celluloide colorata sfac­
ciatamente, lampade smaltate a forma di puntaspilli oppure di stilizzati
steli rampicanti, letti a forma di ring dalle corde colorate e la base zebrata,
'mobili infiniti' [ .. ] ; insomma si assiste a tutto un universo di riferimenti
.

tratti dalle immagini del mondo contemporaneo: il paesaggio suburbano,


il caotico scintillio del luna-park e del circo, i laboratori spaziali, i giocat­
toli dei bambini, i colori delle caramelle, dei maquillages e della 'moda gio­
vane', il tutto in forme essenziali, assemblate senza complicati nodi strut­
turali, oppure acute, pungenti, composte al limite dell'equilibrio, o anco­
ra antropomorfe, zoomorfe e monumentali. [ ... ] Ma in che cosa consiste
questa linea di design da alcuni battezzata post-radicale, da altri Neomo­
dern, da altri ancora New International Style e per la quale sicuramente al­
tri nomi non tarderanno a venire?>/.
A costo di sembrare riduttivo, non distinguo le varie declinazioni lessi­
cali del radical design, così come pare lo definisse Germano Celant. Esso
per me, pur riconoscendogli il merito di aver posto in discussione alcune
certezze, ha rappresentato soprattutto un ostacolo alle ricerche del good
design e un intralcio ad una maggiore affermazione dell'Italian Style. Ma
in questa sede seguo gli altri autori che hanno visto in esso una evoluzione
appunto dal radicale al commerciale.
Essi dicono che anzitutto il design neomoderno va distinto nettamente
dal radica! design sorto all'indomani del '68, e quest'ultimo viene descrit­
to per due principali caratteristiche. La prima è quella per cui era opera di
giovani architetti formatisi nel clima della contestazione studentesca e tro­
vatisi all'indomani della laurea in una realtà di aperta crisi professionale;
tale motivazione coincide con quanto ho detto sopra. La seconda caratte­
ristica era il suo stretto legame con l'avanguardia delle arti figurative: «con­
sciamente o no il modello a cui si fa riferimento è quello del designer-arti­
sta, che con un ruolo culturale d'avanguardia crea nuove sollecitazioni se­
condo un procedimento di novità e provocazioni tipico delle arti figurati-
200 Made in Italy

ve»8. In altre parole il radica! design tentava «in maniera più o meno luci­
da e contraddittoria di superare il discorso disciplinare del design, cioè la
ricomposizione delle contraddizioni a livello formale, distruggendo p ro­
prio a questo livello l'abituale immagine del prodotto, negando l'elargizio­
ne di una correttezza formale in grado di appagare nei termini obsoleti del
'buon gusto'»9.
Si progettavano, quindi, nei casi più eversivi, mobili dall'uso impossi­
bile e dalla chiara discendenza dadaista: sedie zoppe, tavoli inginocchiati,
letti chiodati, ma, almeno in un primo tempo, i modi di manifestazione del
radica! design non si limitavano alla sola produzione di oggetti, avvalen­
dosi peraltro di scritti teorici, immagini, filmati, happening. Gli oggetti,
anzi, come nota Raggi, «rappresentano solo gli aspetti commercialmente
assorbibili dal mercato, che tra l'altro li può ancora una volta recuperare
come 'mode', ma sono solamente le punte e neanche le più aguzze e inci­
sive dell'iceberg che ha come dato originale comune lo stato di disagio po­
litico-esistenziale che è l'espressione più istintiva e immediata della crisi
generale di valori in cui si dibatte la coscienza della società moderna, tut­
ta protesa attraverso la religione dei consumi e della produzione all'auto­
distruzione e all'annullamento»10.
Dopo poco questa contestazione globale viene ad affievolirsi. «Infatti
gli operatori, vuoi perché non credono più che mediante il design si pos­
sano attuare rifondazioni totalizzanti ed estranee allo specifico progettua­
le, vuoi perché l'allettamento di una professionalità conquistata proprio
con l'autoréclame di gesti provocatori è più forte di un elitario e scomodo
predicare nel deserto, tendono ad aggiustare il proprio tiro nella direzione
di una prassi progettuale in collusione col mondo produttivo. Si passa co­
sì dal radica! design a quello che viene denominato Neomodern, più o me­
no con gli stessi progettisti, salvo qualche aggiunta di nuove leve e taluni
mutamenti di formazione»1 1 .
Quali sarebbero le differenze secondo alcuni critici del design fra radi­
ca! e neomoderni? La principale sarebbe il «ritorno» all'oggetto in oppo­
sizione alla sua «distruzione» imposta dall'ideologia radicale. Per alcuni le
ragioni di tale mutamento di rotta consisterebbero nel fatto che molte del­
le premesse su cui si fondava il radica! design si erano rivelate inesistenti:
prime fra tutte la creatività e la manualità appannaggio di una classe pro­
letaria mai formatasi. Inoltre come nota Mendini «le istanze radicali [ . . ]
.

prevedevano una specie di congiunzione tra la progettazione coltissima e


il sottoproletariato ed esiste invece la progettazione di massa perché l'in­
tellettuale si va a perdere; la progettazione diretta da parte della massa si è
rivelata un'illusione in più, esistono invece una progettazione indiretta e
un progettista piccolo borghese»12. Di fronte alle innumerevoli delusioni,
contraddizioni e crisi del mondo contemporaneo, il design neomoderno

1 60. E. Sottsass, mobile Carlton, 1 98 1 .


1 6 1 . E . Sottsass, disegni per mobili, 1 965 .
1 62. M. De Lucchi, sedia Flrst per Memphis, 1 983 .
1 63 - 1 64. M. De Lucchi, prototipi
di elettrodomestici per la Ginni, 1 979.
202 Made in Italy

reagisce, quindi, indicando un «infinito mondo, forse capovolto, di ogget­


ti tutti da inventare, oggetti non solo giusti, necessari, austeri, antiautori­
tari ma pure fantasiosi, allegri, creativi, meditativi, divertenti da compera­
re, vendere, scambiare, prestare, regalare, distruggere»1 3 .
S i può facilmente obiettare che, così ridotti, questi mobili non sono più
tali, ma oggetti che vanno ad allargare le file di quelli che la contempora­
nea ricerca di avanguardia colloca fra pittura e scultura. Eppure non man­
ca chi riesce in qualche modo a giustificare e valorizzare questi «mobili im­
possibili»; si pensi a ciò che scrive ancora Franco Raggi: «nel suo com­
plesso il Neomodern stabilisce una analogia tra design e moda (fashion) as­
sumendo la variabilità e la mutazione continua degli stilemi come un dato
di comportamento accettabile. In contrasto all'elitario concetto di 'stile'
che è 'hard' , la moda è un comportamento 'soft'. Lo stile tende all'assolu­
to, la moda alla relatività. Non a caso nella presentazione al pubblico di al­
cuni prodotti del design Neomodern si preferisce parlare di 'collezione' e
quasi di sfilata, nelle quali stagione dopo stagione le forme si alternano ve­
locemente (e questo anche per dire che i prodotti non sono 'definitivi' ) .
Pescando nel Pop, nel Kitsch, nella Banalità, nella storia il neomodern de­
sign offre una immagine di rinnovamento alla quale riassumendo attribui­
rei la seguente serie di caratteri: Acido, Decorativo, Discontinuo, Ebete,
Episodico, Individuale, Inclusivo, Irritante, Ironico, Isolato, Ludico, Me­
tafisica, Ottimista, Paradossale, Poetico, Pop, Rituale, Schizofrenico,
Sconveniente, Sereno, Simbolico, Solitario, Tollerante»14.
La traduzione dei principi suddetti venne operata da Alchymia e da
Memphis. La prima è stata una fortunata iniziativa commerciale all'inse­
gna di «Studio di progettazione di immagini del XX secolo», fondata a Mi­
lano nel ' 76 da Adriana e Alessandro Guerriero con Bruno e Alessandro
Gregori. Essa da un lato progettava, ridisegnava e produceva in piccola se­
rie arredi «firmati», dall'altro vendeva e diffondeva idee con mostre, tra le
quali quelle di Ferrara ' 7 8 , Milano ' 79, Linz e Venezia ' 80. Ad Alchymia si
devono due collezioni di mobili Bau. Haus I ( 1 97 9 ) e Bau. Haus II ( 1 980 )
con opere di Branzi, Dalisi, De Lucchi, Mendini, Sottsass J r. , Ufo, Puppa,
Trix e Robert Haussmann. Le opere più note uscite da Alchymia sono
quelle di Mendini, come il divano di ascendenza futurista dedicato a Kan­
dinsky e la poltrona barocca, colorata a puntini e intitolata a Proust. In­
tanto Mendini aggiunge alla prassi la teoria: ritiene che il design razionali­
sta e la sua serialità siano espressioni di una società culturalmente svuota­
ta e pertanto meritevole solo di un «design banale»; inoltre, in sintonia con
quanto afferma il post-modern, sostiene la fine del «proibizionismo» mo­
dernista e la rinascita di un design dal linguaggio simbolico e dalla cinica
allegria. Con queste idee riscuote grande successo, dirige prima «Modo» e
poi «Domus», progetta per grandi aziende tra le quali la Cassina. Sempre
:-�
J t:t-r

l M O B E N N T O


.
.

1 65 . A. Mendini, divano Kandissi.


1 66- 1 69. A. Mendini, Il mobile infinito e le sue parti.
204 Made in Italy

per Alchymia elabora nell'SI il Mobile infinito, ovvero una serie di arma­
dietti, comodini, cassetti, paraventi ed altri tipi, decorati con macchie e
bandierine colorate, accostabili in una lunga sequenza. «'Il Mobile infini­
to' ha richiesto uno staff di progettisti da kolossal hollywoodiano ed è sta­
to letteralmente 'rappresentato' nel cortile del Politecnico di Milano, per
poi passare al Pip er di Roma e a Londra, con una didascalia di accompa­
gnamento che con le varie voci: Progetto, Coordinamento, Decori, Regia,
Scenografia, Lampadeombra, ecc., sfida i titoli di testa di un film. Per que­
sta sorta di 'puzzle domestico', [ . . . ] hanno lavorato circa trenta fra archi­
tetti e designers. Ne è risultato un progetto 'eclettico, complesso, spostato
rispetto ai metodi di progettazione tradizionale [. .. ] punto d'incontro vo­
luto e casuale ad un tempo di transiti mentali, progettuali, filosofici, arti­
stici, artigianali, teatrali, di un insieme di individui che operano nel campo
dell'architettura, design, arte e teatro in questi anni'»15• Mendini, l'ideato­
re, sottolinea l'istanza dinamica che ne è alla base e che scardina comple­
tamente il concetto statico e rassicurante del 'mobile reale'. «Il mobile in­
finito propone un concetto disomogeneo dell'arredo, perché afferma che
gli oggetti dentro la casa sono un accumulo, una foresta, un groviglio di av­
venire e di passioni» 16.
Da Alchymia nasce nell'SI il gruppo Memphis per iniziativa di Ettore
Sottsass jr. , Barbara Radice e Michele De Lucchi, con intenti sia proget­
tuali sia produttivi che nelle sue manifestazioni ospita opere di molti desi­
gner sopra nominati. Il presidente di questa più organizzata compagine è
Ernesto Gismondi, che copriva la stessa carica anche in Alchymia: desi­
gner e in pari tempo imprenditore, ha modo non solo di contribuire a rin­
novare l'immagine del mobile contemporaneo, ma anche di far disegnare
e produrre materiali quali i laminati plastici, capaci di passare dal rango di
materiale povero e banale a una nuova forma decorativa. Non si tratta so­
lo di una svolta tecnica, tant'è che il catalogo si arricchisce anche di altri
elementi e conformazioni come vetri, moquette, lampade al neon, lamiere
galvanizzate e pressate in combinazioni insolite, tutto progettato da desi­
gner. In breve, Memphis tende a valorizzare materiali poveri in nuove e più
preziose conformazioni. Questo orientamento è convalidato dal fatto che,
chiusa la ditta nel 1 9S7 , la sua esperienza viene continuata nell'S9 da un
gruppo di artisti quali Boetti, Calzolari, Chia, Kosuth, Paladino, Pistolet­
to ed altri che danno vita a Meta-Memphis, tutta orientata al connubio ar­
te/design e produttrice di una collezione di mobili e di componenti chia­
mata Ad usum Dimorae.
Le differenze tra Alchymia e Memphis dal punto di vista morfologico
non sono molte: entrambe giocano un avanguardismo di maniera, specie
se si confronta con quello, poniamo, dei dadaisti; tuttavia la presenza, o
meglio, la suggestione della presenza di un maestro come Ettore Sottsass
XIII. Lo stile radica! 205

sembra avvantaggiare fortemente Memphis. Per la sua prima collezione di


trenta pezzi sperimentali sono stati éhiamati a progettare, oltre ad artisti
italiani (Andrea Branzi, Aldo Cibic, Michele De Lucchi, Alessandro Men­
dini, Paola Navone, Bruno Gregari, Marco Zanini), designer stranieri co­
me Michael Graves, Hans Hollein, Arata ISozaki, Shiro Kuramata. Da qui
scaturisce la caratteristica peculiare di Memphis, la sua internazionalità,
che ha funzionato da cartina di tornasole per verificare come «più o meno
in tutto il mondo, anche se con precedenti culturali e previsioni diverse,
esiste un desiderio irreprimibile di caricare il design di valori e di uno spes­
sore comunicativo sempre più densi, come se il design ideologicamente
schematico e quella che è stata per tanto tempo l'utopia di una possibile
soluzione progettuale compatta e semplice non riuscissero più a risponde­
re a quelle che sono invece la mobilità sociale, le necessità pubbliche, la
spinta storica»17.
Prima di soffermarci sull'opera di Sottsass, merita un cenno la rassegna
newyorkese «ltaly: the New Domestic Landscape» del 1 972, giudicata
«vero evento nodale del periodo, istituita per celebrare il design italiano
oltreoceano [ . . ] . L'esposizione registra il momento in cui la contestazione
.

ideologica raggiunge le sue punte di spettacolarità in forme che oltrepas­


sano, seppure non negano, la dimensione del disegno industriale nella ac­
cezione pertinente, in un clima dove la tecnologia, fra l'altro, diviene fan­
tatecnologia. [ . . . ] Il tema degli ambienti mobili, dove la spostabilità fu in­
tesa come fuga da una città inabitabile risolta con le 'mobile homes' espan­
dibili, studiate per la attuabilità da Rosselli e da Zanuso, si poneva in con­
trasto con le 'invenzioni' di Sottsass (il recinto abitabile, flessibile nel suo
risultare di nicchie attrezzate cernierabili fra loro e apribili a fisarmonica)
e di Bellini (il fuoristrada in plastica 'Kar-a-sutra', simbolo anche questo di
una spinta liberatoria accompagnata dalla coreografia del nomadismo) ,
mentre la rappresentazione visionaria di ambienti flessibili multiuso (dagli
spazi di specchio del Superstudio, al ' cubo' apribile degli Archizoom, con
il microfono appeso al soffitto che trasmette messaggi apocalittici sulla di­
struzione dell'oggetto) o gli allestimenti 'teatrali' (come l'abitacolo cata­
combale dopo la catastrofe atomica di Gaetano Pesce) si diversificavano
dai messaggi del controdesign come i pamphlets sociopolitici del gruppo
Strum»18. Ritengo, pur riconoscendo all'esposizione molti meriti, che que­
sta adunata di rivoluzionari, di altri adeguati ad essere tali nonché di criti­
ci portatori di temi insostenibili, costituisca anche l'inizio della fine del ra­
dica! design, così come nell'SO alla Biennale di Venezia la «Strada novissi­
ma» voluta da Paolo Portoghesi segnò, questa volta in modo più sbrigati­
vo, il principio e la fine del post-modern in Italia.
Oltre la partecipazione alla citata mostra, la posizione di Sottsass, chia­
ramente post-modernista, si manifesta con le sue stesse parole: «adesso
206 Made in Italy

possiamo finalmente procedere con passo leggero, il peggio è passato. Pos­


siamo anche sederci senza troppo pericolo e possiamo lasciarci scivolare
addosso serpenti anche se velenosi e ragni oscuri, possiamo anche evitare
zanzare e possiamo benissimo mangiare carne di coccodrillo; senza esclu­
dere del resto le cioccolate
. con la panna e crèpes suzettes al Grand Mar­
nier [ . . ] il fatto è che ci è passata la paura: voglio dire la paura di dover
.

rappresentare o di non dover rappresentare qualche cosa o qualcuno, sia­


no élites o derelitti, siano tradizioni o cafonaggini. Ci è passata la paura che
ci manda il passato e anche quella più aggressiva che ci manda il futuro»19.
Ancora, in occasione di una mostra personale dell'SO egli scrive: «ho ri­
provato a disegnare oggetti, cose, mobili, e a farli costruire. Li ho fatti
grandi e pesanti, con zoccoli e basamenti per sottrarli ai kitsch dell'arre­
damento borghese e piccolo borghese. Non stanno quasi da nessuna par­
te e comunque non 'legano', non possono neanche produrre coordinati.
Stanno soltanto da soli come i monumenti nelle piazze, e non riescono
neanche a fare stile (infatti nessuno li compera, salvo collezionisti o scon­
nessi attori di Hollywood) . [ . . . ] Ho scelto dunque textures come la grani­
glia e mosaici dei gabinetti delle metropolitane delle grandi metropoli, o
come le reti stirate dei recinti di periferia, o come la carta spugnata dei li­
bri contabili ministeriali e polizieschi, e poi ho scelto colori come quelli
delle sedie che ci sono nella latteria qui sotto casa dove si vendono uova,
margarina, bottiglie di acqua minerale, detergenti vari, spaghetti e liqueri­
zia e naturalmente formaggi molli e latte. [ ... ] Mi sarebbe piaciuto riuscire
a proporre una specie di iconografia della non cultura, di una cultura di
nessuno (non di una cultura dell'anonimo) ma l'iconografia di una cultura
della cultura non usata e non usabile, non perché non c'è, neanche perché
non si usa, ma perché non si guarda, perché non si prende in considera­
zione, perché non c'entra, perché sembra non esistere nella cultura che si
sa, e forse addirittura non produce cultura. Queste zone della non cultu­
ra, queste zone della 'cultura di nessuno' ci sono. Ma su questo piano, mol­
to più in là - per ora non sono riuscito ad andare. Anzi, forse tutto è ve­
nuto fuori diverso da come era previsto»20.
A sentire queste dichiarazioni, francamente un po' frenetiche, un altro
maestro, questa volta di musica leggera, Renato Carosone, probabilmente
avebbe detto: professore, mi stia a sentire, si prenda una pastiglia !
Una posizione a parte è quella di Andrea Branzi. Egli auspica un «nuo­
vo artigianato» in grado di avvalersi di tecniche costruttive aggiornate che
riducano i tempi di lavorazione rispetto a quello tradizionale e contempo­
raneamente con la funzione di luogo sperimentale sia nei riguardi del mer­
cato che verso gli aggiustamenti e le modifiche inevitabili nella produzio­
ne in serie che esso non contrasta polemicamente, ma anzi anticipa e favo­
risce. Tale operazione è dovuta in gran parte - come nota lo stesso autore
XIII. Lo stile radica! 207

- al fatto che nell'attuale produzione industriale del mobile «l'aggettivo


'industriale' indica più uno stile che una reale produzione di serie per cui
il 'nuovo artigianato' si colloca all'interno dell'intero quadro di produzio­
ne dell'arredo industriale con una propria funzionalità culturale e tecnica
che chiarisce molti equivoci diffusi: proponendo il ' pezzo-fuori-serie' ri­
sponde ad una domanda crescente di oggetti che 'fanno arredamento' nel
senso più figurativo del termine, a confronto con una produzione di serie
sempre più omologa e anonima»2 1 .
I n una recensione del libro La casa calda di Andrea Branzi, notavo che
in esso può leggersi una sintesi di tutto quanto è stato fatto in Italia in op­
posizione al design razionale e anche un'attendibile testimonianza perché
di quasi ogni episodio ivi narrato l'autore è stato un protagonista. Ma, ri­
spetto alla letteratura dell'avanguardia, solitamente apodittica e sentenzio­
sa, quest'opera si differenzia per molti lati e accenti. Anzitutto, senza pre­
tendere di essere una storia del design, anzi dell'anti-design dal ' 68 a oggi,
essa storicizza puntualmente le varie manifestazioni del movimento. Una
seconda caratteristica è data dal tipo di discorso che mira a essere logico e
persuasivo, ricco di intelligenti osservazioni e di una didascalica raziona­
lità, al punto che persino un lettore non addetto ai lavori capisce quasi tut­
to. Un terzo e più significativo aspetto del racconto sta In ciò che nel suo
svolgersi registra i mutamenti di questo settore dell'avanguardia in rap­
porto agli eventi interni ed esterni al movimento, oltre che l'evoluzione del
pensiero dello stesso autore. Non che Branzi si esprima nei termini che se­
guono, ma schematizzando si può dire che la vicenda, iniziata come anti­
design, si trasforma in un'altra di radical design e successivamente dal de­
sign banale approda al «nuovo design», espressione che nella sua poliva­
lenza comporta necessariamente una connotazione meno eversiva. Benin­
teso, questa caduta di tensione non implica affatto un giudizio negativo,
perché via via che temi e problemi vengono meglio focalizzati, molte idee
si chiarificano, diventano più positive e addirittura propositive. Né d'altra
parte la collusione fra la neo-avanguardia del design italiano e il sistema
produzione-consumo dell'industria (che di fatto o in teoria dovrebbero es­
sere antagonisti) segna un cedimento della prima. Infatti, alcune delle
principali aziende non hanno esitato a includere nel loro catalogo opere di
questi designer. Come ho notato altrove, il design radicale tende a farsi
commerciale; aggettivo quest'ultimo che vado sempre più rivalutando in
quanto la vendita, il consumo, la domanda quantitativa restano, con buo­
na pace di tante teorie, il maggiore parametro del successo di un prodot­
to. Cosicché quell'aggettivo <<nuovo» del design italiano va inteso, a mio
avviso, nel senso della sua evoluzione interna, del suo passare dalla conte­
stazione all'integrazione, arricchita ovviamente da tutta l'esperienza che
intanto si è maturata soprattutto in campo linguistico-formale. «Le grandi
208 Made in Italy

invenzioni formali che il design moderno ci ha lasciato sono oggi oggetto


di un'approfondita analisi materica, di un riesame di tutte le loro intrinse­
che possibilità di sviluppo». Da qui tutto un significativo discorso sulla ri­
valutazione della decorazione, del colore, della tessitura dei materiali, ecc.,
indicativi peraltro di una raggiunta e matura professionalità.
Quel che resta 'oggi dell'avventura radicale è, insieme alla contestazione
del Razionalismo ridotto ad International style sia in architettura che nel
campo del design, la vena d'ironia spinta fino ed oltre il cinismo così come
appare nella famosa estrinsecazione di Mendini: «addio progetto retorico:
la vita scorre in modo antieroico e amorale. Addio progetto di gusto: la qua­
lità si ottiene solo alla rovescia. Addio progetto intellettuale: la rivoluzione
consiste nella banalità della fantasia [ . . . ] . Addio progetto coerente: per me­
todo bisogna essere incoerenti [ . . . ] . Addio progetto costruito: costruire
vuoi dire distruggere. Addio progetto ideologico: all'uomo cinico vanno
date architetture non impegnative [ ... ] . Addio progetto universale: i pro­
getti sono tanti quanti sono gli uomini. Addio progetto come arte: l'archi­
tettura è un'arte minore [. .. ] . Addio progetto politico: la forma non modi­
fica il mondo»22. E tuttavia, pur non potendo unirei a tali dichiarazioni, ri­
conosciamo al movimento radicale nel suo complesso qualcosa che ha crea­
to una soluzione di continuità nella monotona sequenza d'ogni sorta di di­
vanoni e seggioline alla quale sembra ridotto ancora oggi il design italiano.

Il caso Dalisi

Com'è stato osservato, «in rapporto diretto con la condizione di sotto­


sviluppo del Meridione, era sorto a suo tempo un altro tipo di protesta ( an­
che se di interesse marginale per il design) motivata dalla tesi della repres­
sione della creatività da p·arte della civiltà dei consumi. Così Riccardo Da­
lisi considera legittimata quella 'tecnica povera' che come espressione di
una spontaneità creativa nella progettazione e costruzione dell'oggetto (se­
die, tavoli, lampade, graticci in compensato curvato) andava effettuando
da oltre venticinque anni con i bambini del sottoproletariato napoletano.
Un esperimento che interessa come metodo didattico anche di partecipa­
zione collettiva degli allievi, pur potendo trovare maggiore giustificazione
nel campo plastico figurativo e della gestualità. Considerata allora ' antide­
sign' , questa produzione risulta di difficile collocabilità ad esempio rispet­
to ad antioggetti dai connotati chiari, come i fotoromanzi del gruppo
Strum»23. La parte conclusiva della citazione mi sembra riduttiva dell'ope­
ra di Dalisi; che non sia facilmente collegabile ad altre esperienze non mi
sembra negativo, dimostrando anzi un'originalità, magari spontaneista, ma
certamente pertinente sia al radica! design sia all' «arte» come alle «azioni
povere» di cui mi sembra il caso più emblematico.
XIII. Lo stile radica! 209

Egli è apparso il designer erede del genius loci, il continuatore di un ar­


tigianato locale, il demagogico maéstro degli scugnizzi delle borgate, il fre­
quentatore di botteghe di lattonieri, ottonai, saldatori di pezzi trovati, ecc.,
tutte ubicate in una stradina del quartiere portuale di Napoli, dallo stori­
co e pittoresco nome di rua Catalana. Inoltre, il tema principale delle sue
ricerche è stato per qualche decennio la caffettiera napoletana, un oggetto
dei più tipici e tradizionali, immortalato dalla prosa, dalla poesia, persino
dal teatro di Eduardo. Con tutti questi ingredienti come non fare di Dali­
si un «caso», un esempio vivente di quell'antidesign venuto di moda quan­
do fu deciso che Gropius, il Bauhaus, il good design, ecc., erano altrettan­
te utopie, espressioni di una fredda mentalità nordica e magari artifici
escogitati dallo sfruttamento capitalistico? Ecco allora che i «radicali» di
tutta Italia e segnatamente della Lombardia volsero la loro appassionata
attenzione verso questo stravagante napoletano che, per vocazione e ne­
cessità, già da tempo maneggiava bande di stagnola, oggetti trovati in le­
gno o in ottone per confezionare, tra l'altro, l'emblematica caffettiera. Da­
lisi viene allora reclutato di diritto nel novero della neo-avanguardia del
design, peraltro, come avviene nei casi di costituenda formazione partiti­
ca, coprendo anche un'altra area geografica, quella appunto napoletana.
Seguono mostre, cataloghi, articoli su riviste patinate e quant'altro serve a
esaltare un fenomeno avanguardistico, con reciproco vantaggio degli
estensori del «manifesto» e dell'artista divenuto oggetto di tanta attenzio­
ne. Sta di fatto che, mentre gli altri radicali diventavano direttori di riviste,
stabilivano proficui contatti con le aziende p roduttrici, giravano il mondo
con le loro più o meno intelligenti trovate, Dalisi restava in rua Catalana
coi suoi artigiani, fantasioso e incantato; ma di che cosa? Del fatto che ogni
caffettiera poteva diventare un personaggio: Pulcinella (naturalmente) ,
Totò, Finocchio, il guerriero dell'opera dei pupi, persino le figure del pre­
sepe. Insomma questa benedetta caffettiera di latta diventava di tutto, da
monumento cittadino in una versione di grande formato a occasione per
un happening, da gruppo di figure a laico ex voto. Ma che c'entravano
queste esperienze con il design? Contribuivano all'ipertrofia «artistica», al
gusto per l'estro e la trovata, all'idea di design come di un'arte minore, ar­
tigianale non senza una vena patetica.
Ma successivamente questa vicenda ha trovato un suo sbocco, che al
tempo stesso conferma le critiche sopra avanzate e il riconoscimento delle
qualità di Dalisi, in nome delle quali lo abbiamo per anni criticato: l'in­
contro con Alberto Alessi. Questi infatti scrive nella pubblicazione che ac­
compagna la produzione industriale dell'ormai famosa caffettiera final­
mente realizzata in acciaio inox: «la ricerca sulla caffettiera napoletana, ini­
ziata nel 1 97 9 e terminata ufficialmente nel 1 987, è stata la più lunga della
storia della Alessi. [ . . . ] Le nostre prime reazioni furono dunque piuttosto
2 10 Made in Italy

sorprese e in qualche caso derisorie: l'impiego della latta, materiale pove­


ro e vile per antonomasia, l'ingenuo modo di progettare le caffettiere, con
quella inutile attenzione filologica a particolari costruttivi propri dell'atti­
vità dell'uomo-tensile piuttosto che della macchina-uomo e quindi proba­
bilmente improponibili per una produzione di serie, la stessa ispirazione
popolaresca, carièaturale, antropomorfa così distante dal 'bel design', col­
locavano questi prototipi in uno spazio. apparentemente troppo lontano
per essere seriamente adottati dalla fabbrica». Successivamente, Dalisi rie­
sce a far proprie le ragioni della produzione e questa la stratificazione del­
le esperienze del progettista. «In un certo senso, l'approccio di Dalisi - os­
serva ancora Alberto Alessi - ha portato a un risultato ancora più 'assolu­
to' di quello a cui arriva la normale produzione industriale: non già un pro­
dotto di serie che in seguito si spezzetta in molte varianti (per esempio va­
rianti-colore, impiego di optional, piccoli mutamenti di carrozzeria) se­
condo le esigenze del mercato: al contrario, nel nostro caso si è partiti da
una artificiale proliferazione di varianti per arrivare alla cristallizzazione di
un 'unico' modello di serie, nato come ipotetica somma di tutte le espe­
rienze precedenti».

Note
1 G. D'Amato, Il design e la critica di sinistra, in <<Op. cit.>>, n . 70, settembre 1 987 .
2 G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale, in <<Op. cit.>>, n. 2 1 , maggio 1 97 1 .
' A. Grassi, A . Pansera, Atlante del design italiano 1 940-1 980, Fabbri Editori, Milano 1 980, p .
74.
4 V . Packard, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1958, p. 26.
5 A. Abruzzese, L'iperbole pubblicitaria, in <<L'illustrazione italiana>>, n. 44, luglio 1987.
6 P. Fossati, Il design in Italia, Einaudi, Torino 1972, p. 1 1 .
7 G . D'Amato, I l design tra «radicale» e «commerciale» , i n <<Op. cit.>>, n. 5 3 , gennaio 1982.
8 Anonima design, in «Casabella>>, n . 379, 1 973.
9 F. Raggi, Radical Story, in <<Casabella>>, n. 382, 1 973 .
IO
Ibid.
1 1 D'Amato, Il design tra «radicale» e «commerciale» ci t.
12
A. Mendini, in Elogio del Banale, a cura di B. Radice, Milano 1981.
1 3 Id., Design dove vai, in <<Modo>>, n. l , 1 977.
1 4 F. Raggi, dall'intervento al convegno di Aspen (Colorado, Usa) sul tema Italian Idea giugno '

198 1 .
15 R. Rinaldi, dal catalogo Il mobile infin ito, Milano 1 98 1 .
1 6 Mendini, Design dove vai cit.
1 7 B. Radice, I mutanti, in <<Casa Vogue>>, ottobre 1 98 1 .
1 8 E . Frateili, Continuità e trasformazione. Una storia del design industrtale italiano 1 928-1 988' Al-
berto Greco Editore, Milano 1989, pp. 198- 199.
19 Ci t. in B. Radice, Introduzione al catalogo Memphis the New International Style, Milano 1 98 1 .
20
E . Sottsass, Catalogue /or decorative /urniture in Modern Style, Milano 1980.
��A. Branzi, Usare come macchina anche la propria mano, in <<Rinascita>>, n . 4 1 , ottobre 1 98 1 .
A. Mendmt, Post-avanguardza, m <<Modo>>, n. 2 9 , 1 980.
23 Fratelli, Continuità e trasformazione cit., p. 1 12.
Capitolo quattordièesimo Lo stile «high-te eh»

Storicità della tendenza

Perché si possa legittimamente parlare di high-tech è necessario che le


tecnologie adottate conformino, più o meno consapevolmente, una poeti­
ca architettonica o di design, che diventino cioè il carattere esponente
dell'opera stessa, su di un piano specificamente linguistico, in cui il rap­
porto con la tecnologia assume la massima importanza da un punto di vi-
·

sta strettamente stilistico.


Secondo alcuni autori il termine è dovuto ad un libro non molto noto
di Joan Kron e di Suzanne Slesin, High-tech appunto, pubblicato a New
York nel '78 e nell'anno seguente a Londra; secondo altri l'espressione ap­
pare per la prima volta in «The Architectural Review» nel 1 983 , ma que­
ste date non fanno fede in guanto gli stilemi di tale tendenza figurano già
nella seconda metà degli anni Sessanta. In ogni caso è necessario partire
dall'ottocentesco fenomeno che chiamammo «architettura dell'ingegne­
ria»; tenere in conto le esperienze di strutturisti quali Fuller, Wachsmann,
Prouvé, Otto, ecc.; non dimenticare il futurismo di Sant'Elia, ma soprat­
tutto riconoscere nelle proposte del gruppo Archigram il precedente più
diretto della tendenza in esame. In tale gruppo, formato da Peter Cook,
Warren Chalk, David Greene, Denis Crompton, Ron Herron e Mike
Webb, c'è la prefigurazione di uno scenario formale che sarebbe stato poi
realizzato, e soltanto in parte, con almeno un decennio di ritardo. Tutte le
idee high-tech dalla macchinolatria alla fantascienza, dall'ispirazione al
-

mondo dei calcolatori e dei missili al riferimento alla Pop Art, dalla ma­
crodimensione all'effimero architettonico, dal rapporto provocatorio con
l'ambiente preesistente fino alla concezione di un'architettura informativa
e pubblicitaria, essa stessa «mass medium» - si trovano alla fine degli anni
Cinquanta puntualmente realizzate nelle opere degli Archigram che ren­
dono déjà vu quasi ogni realizzazione secondo questa linea.
Benché evidentemente il nostro interesse sia per questo stile nel campo
2 12 Made in Ita!y

del design, dobbiamo ancora soffermarci sull'architettura perché in questa


sono presenti caratteristiche ritrovabili poi nella produzione degli oggetti
industriali. Se il gigantismo delle strutture architettoniche poco ha in co­
mune con il design, come pure la loro arroganza e dispendiosità al punto
che Frank Newby, lo strutturista britannico delle migliori opere di James
Stirling, ha parbÌto di mys-tech, termine derivato da mistica e tecnologia, ma
anche dall'inglese mistake, errore, altri aspetti dell'architettura high-tech ri­
sultano in tutto o in parte pertinenti al campo di cui ci occupiamo.
Dal punto di vista morfologico, uno dei principali fattori è il rapporto
interno/esterno; questo «un po' approssimativamente, implica che tutto
ciò che veniva occultato in un edificio tradizionale viene esibito in faccia­
ta e viceversa. In base a tale procedimento vengono spostati all'esterno
percorsi, strutture portanti, impianti»1 . Renzo Piano, parlando del Centre
Pompidou, realizzato con Richard Rogers nel 1 97 7 , afferma: «L'edificio è
un diagramma. La gente lo legge in un istante; le sue viscere sono all'ester­
no, le vedi, capisci che la gente si muove in un certo modo e così gli ascen­
sori, le scale mobili»2. Un altro aspetto invariante è indicato da Rogers:
«Noi progettiamo ogni edificio in modo che questo possa essere scompo­
sto in elementi e sottoelementi organizzati in modo da risultare in un or­
dine immediatamente leggibile. Viene così a crearsi un dizionario in cui
ogni elemento esprime chiaramente il suo processo di manifattura, imma­
gazzinaggio, alzato e smontabilità»3 . L'esaltazione della trasparenza, della
sovrapposizione, del movimento e della leggerezza ci sembrano caratteriz­
zare soprattutto le ultime fasi evolutive dell'high-tech: ci riferiamo qui in
particolare alla più recente vicenda francese. «Ma si tratta anche di un gu­
sto che presenta non poche affinità con quella che è stata efficacemente
chiamata l'estetica Silver, d'argento, forse in memoria di un gruppo ange­
leno, gli L.A. Silvers, la cui sperimentazione era legata prevalentemente
all'uso dell'alluminio e del vetro riflettente, di materiali presi a prestito
dall'industria aerospaziale, con risultati di notevole omogeneità percettiva,
non dissimili sostanzialmente da quelli ottenuti con l'estetica del bianco
dalla prima modernità. È la logica slick-tech, un'accentuazione di tutto ciò
che è lucido, liscio, scorrevole. Si tratta di un'estetica che pervade gran
parte del panorama degli anni a cavallo fra i sessanta e i settanta»4.
Un fattore che comincia ad avvicinare il discorso dell'architettura al de­
sign high-tech è quello per cui a questo stile si applicano sovente studi e
procedimenti esecutivi derivati dall'industria più avanzata, segnatamente
quella aeronautica, senza però trasformare l'edificio in un prodotto indu­
striale vero e proprio: esso resta comunque un pezzo unico, un esempio di
costosissimo e modernissimo artigianato. «<n architettura non c'è nulla di
paragonabile alla costruzione in serie tipica dell'industria aeronautica o
automobilistica. Qualcosa di simile è pensabile, al più, applicata al design.
170. S . Asti, vaso da fiori Marco per Salviati, 1 96 1 .
17 1 . S . Asti, televisore modello TVC 1 8 Pally per Brionvega, 1 973 .
172. M. Zanuso e R. Sapper, televisore Doney per Brionvega, 1 962 .
173. M. Zanuso e R. Sapper, televisore Alga! I I per Brionvega, 1 964 .
174. M. Zanuso e R. Sapper, televisore Black per Brionvega, 1 969.
XIV. Lo stile «high-tech» 2 15

Un uso spinto delle tecnologie prevederebbe in realtà una stretta relazio­


ne fra la fase ideativa e quella reali�zativa, difficile se non impossibile og­
gi. Non a caso i grandi inventori di nuove tecnologie edili sono stati spes­
so anche dei grandi costruttori, imprenditori di se stessi: Nervi, Prouvé,
Eiffel, Maillart avevano tutti la loro impresa. Le loro intuizioni erano im­
mediatamente verificate sul piano della fattibilità tecnologica, economica
ecc.»5.
Ma l' high-tech non si risolve completamente nell'immaginario di trava­
ture reticolari, di tenso-strutture, di ingegneresche riduzioni di volumi in
trame lineari. Assai spesso una tecnologia sofisticata suggerisce forme ap­
parentemente semplici ma tali da risolvere problemi statico-espressivi in
un linguaggio affatto diverso da quello sopra accennato. Pensiamo in par­
ticolare ad alcune strutture di Marco Zanuso e ancor più ad altre di Ange­
lo Mangiarotti, al suo progetto di una megastruttura a maglia quadrata in
cemento armato precompresso del 1 975, ad esempio, dove il gioco statico­
figurativo è affidato alla semplice morfologia dei singoli pezzi trattati con
la tecnica dello stampaggio. Evidentemente in questi casi alla logica
dell'ingegnere si sostituisce quella del designer.
A tal proposito, opera più di design che di architettura è la cosiddetta
«foglia» che Renzo Piano costruisce come copertura del piccolo museo
della Menil Foundation a Houston nel Texas ( 1983 ). Questa è costituita da
un elemento, ripetuto 3 00 volte, realizzato in ferrocemento dallo spessore
di 25 mm. La sua forma, nata dall'esigenza di illuminare naturalmente l'in­
vaso del museo che raccoglie una collezione di preziose opere di arte afri­
cana e pittura surrealista, è stata definita da una serie di studi sul compor­
tamento della luce alla latitudine locale, sul suo grado termico, sulla mec­
canica delle rifrazioni multiple, sulla protezione dai raggi ultravioletti,
nonché sull'uso del computer per regolare il rapporto di luminosità fra in­
terno ed esterno. li dispositivo emerso da tali ricerche, il modulo «foglia»
appunto, consente di sfruttare le risorse della più avanzata tecnologia in
funzione del godimento di un effetto naturale, così spiegato dallo stesso
Piano: «Non ha senso cercare di controllare la luce naturale, di imbrigliar­
la in un diagramma piatto. L'opera d'arte, al contrario, deve modificare il
suo rapporto con la dimensione luminosa ogni volta che passa una nuvola
o il sole esce all'improvviso o quando scende la sera»6.

Il design «high-tech»

In analogia a quanto detto sopra, sono classificabili nel design di que­


sta corrente quei prodotti che «esibiscono» la loro componente tecnologi­
ca: si pensi alla radio progettata da Franco Albini nel 1 938, dove le due la-
216 Made in Italy

stre di Securit lasciavano intravedere l'interno meccanismo e persino l'al­


toparlante; dello stesso designer è la Libreria in· tensostruttura del 1 940. In
anni più recenti la sottolineatura tecnologica è evidente nel televisore Do­
ney, disegnato da Zanuso e Sapper per la Brionvega nel '62; per inciso, da
poco tempo la Apple-Macintosh ha prodotto un computer con l'involucro
così trasparente dà lasciare in vista tutto quanto di elettronico contiene. Si­
curamente allo stile in esame appartiene la maggior parte degli apparecchi
di precisione, medico-sanitari, come pure tutti quei prodotti che lasciano
in vista la loro parte meccanica, come le motociclette, le motorette e le bi­
ciclette. Nel campo del design di arredo, i primi «mobili meccanici» italia­
ni o, quanto meno, che da questa tecnologia derivano la loro forma, sono
quelli della Tecno, segnatamente i modelli progettati da Osvaldo Borsani:
la poltrona P40 e il divano D70, entrambi del '54; il modello L70 a sezioni
trasversali multiple del '58, da classificarsi nello stile high-tech per la tec­
nologia degli snodi. Per lo stesso particolare, va menzionato il tavolo T48,
disegnato da Roberto Mango e prodotto dalla Tecno nel '54 , come pure la
sedia 533, realizzata dalla stessa azienda su progetto di Carlo De Carli. An­
che il più noto autore di architetture high-tech, Norman Foster, dà ottima
prova come designer, progettando per la Tecno la serie di mobili Nomos
('81 -'86) nella quale si ammira un pregevole tavolo. Ancora per la tecno­
logia dello snodo si cita la Plia, sedia pieghevole con struttura in alluminio
e sedile con schienale in perspex che nel '70 la Castelli produce su disegno
di Giancarlo Piretti. Nello stesso periodo, Sottsass jr. , in collaborazione
con von Klier, progetta, nell'ambito della serie per uffici Olivetti Syntesis,
una serie di poltroncine Z9/R con e senza braccioli, girevoli e di altezza re­
golabile, grazie all'aria compressa contenuta nel centrale tubo di sostegno.
Questa tecnologia, molto più sviluppata e motivata da esigenze ergonomi­
che, è alla base della collana di poltroncine Vertebra che dal '7 6 Emilio
Ambasz e Giancarlo Piretti progettano per l'americana Open Ark, e sulla
cui licenza viene prodotta in Italia dalla Castelli. Mario Bellini dal '79
all'85 progetta per la Vitra tre sedie da ufficio a cominciare da quella de­
nominata Persona, cui seguono Figura ed Imago. Il loro primo requisito è
naturalmente una «seduta dinamica» per favorire al massimo una corretta
posizione del corpo; pertanto queste sedie, in particolare Persona, si adat­
tano spontaneamente al peso e al movimento dell'utente grazie alla forma
del guscio-monoscocca, alla relativa morbidezza del materiale plastico che
consente anche oscillazioni laterali, soprattutto al fatto che le parti più
meccaniche del congegno sono nascoste nell'intercapedine fra la scocca e
i «cuscini» del sedile e dello schienale. Data questa impostazione la sedia,
dotata o no dei braccioli, non presenta all'esterno leve, pulsanti e conge­
gni visibili. Si tratta in sostanza di un modello in cui il carattere high-tech
non è esibito in maniera hard quanto piuttosto celato in maniera so/t.
175. E. Sottsass ]r., sedia modello Z9/R Olivetti, 197 3 .
176. R . Sapper, lampada Tizio per Artemide, 1 970.
177. C . Scarpa, tavolo Doge per Simon, 1 969.
178. G . Piretti, sedia Plia per Castelli, 1 969.
179. E. Ambasz e G. Piretti, sedia Vertebra per Castelli, 1 979.
1 80. N. Foster, tavolo Nomos 2000 per Tecno.
181. G. Piretti, sedia Noria per Tecno.
XIV. Lo stile «high-tec/,, 219

Un'altra sedut-a che unisce tecnologia e leggerezza è l a sedia Cassia, di


De Pas, D'Urbino e Lomazzi, fabbricata da Zanotta. In una linea analoga
è concepita la seggiola ACl High-tech che nel '90 Antonio Citterio ha pro­
gettato per la Vitra. Interessante è quaJ;ltO Enrico Morteo scrive nel pre­
sentare questo modello insieme ad un altro di Geoff Hollington: «pur nu­
trendo personalmente non pochi dubbi sulla reale necessità di una appli­
cazione universale e rigorosa di tutte le normative ergonomiche, non vi è
dubbio che grazie a quelle ricerche molte cose siano effettivamente mi­
gliorate per ciò che riguarda il disegno degli spazi e degli strumenti di la­
voro»7 . Forse la seduta di Citterio è meno ergonomica di quella di Bellini,
ma mentre l'una «nasconde» il meccanismo, l'altra lo esibisce, sia pure
semplificandolo molto. Infatti Citterio, fermo restando il sostegno con le
cinque razze, ormai presente come invariante fisso di tutta la tipologia del­
le seggiole da lavoro, tiene staccato il sedile dallo schienale e prolunga que­
st'ultimo in basso quasi a far da leva con l'elemento meccanico soggiacen­
te al sedile. Il tutto è o sembra tenuto insieme da un «anello». In altre pa­
role, nonostante la scomposizione delle parti - che vedemmo nello stile del
Razionalismo «discreto» - l'insieme è molto piacevole e pare coniugare il
gusto high-tech con quello minimalista. Alla stessa logica ergonomica ma
con accentuato dinamismo appartiene la serie di sedute .progettate da Al­
berto Meda per Vitra - la Meda Chair del '96, la Meda 2 del 2000, la Meda
2XL del 2004 -, nonché il tavolo pieghevole Frame Table del 2003 .
Chiudiamo questa serie di sedute high-tech con il modello Contessa del­
la Giugiaro Design per la Okamura del 2003 . Nonché ergonomica ed an­
tropomorfa come tutte quelle della categoria «sedute per ufficio», è la pri­
ma nel suo genere a contenere tutti i comandi nel bracciolo, quindi opera­
zioni quali la regolazione in altezza, la rotazione, la manovrabilità del sup­
porto lombare sui due assi e la regolazione del poggiatesta sono effettua­
bili in pochi istanti e con estrema facilità. La forma particolare e l'angolo
di seduta a 26° risultano indicati anche in caso di sedute prolungate. I tes­
suti del sedile e dello schienale sono differenti: quello utilizzato per lo
schienale, disponibile in 1 0 varianti di colore, conferisce una notevole leg­
gerezza e traspirabilità al mobile, la cui estetica è affidata alla massima va­
lenza meccanica.

I.;«high-tech» e i materiali

Lo stile in esame, oltre che dalla esibizione del meccanismo interno del­
la struttura dell'oggetto, è caratterizzato anche dall'uso di nuovi materiali.
Questo consente di ricordare ulteriori prodotti: le altre seggiole di Alber­
to Meda di cui diremo più avanti; il primo telefono di gomma ( '88); gli ac-
220 Made in Italy

cessori per bagno di Massimo Morozzi e Giovanni Lauda per Uchino; i ta­
voli di cristallo Marcuso di Zanuso per Zanotta ( '7 1 ) realizzati con l'uso di
collanti per automobili; la bicicletta superleggera Kronotech, prodotta
nell'86 da Monfrini; il Dia/os, un laminato plastico prodotto dalla Abet La­
minati, a superficie opaca e traslucida, coprente e in pari tempo filtrante la
luce; la collezione I Feltri, sedute realizzate in feltri autoportanti che Gae­
tano Pesce mise a punto per Cassina ( '87 ); ecc.
Com'è stato osservato, «l'imperiosa crescita dell'economia degli anni
ottanta riaprì una visione positiva verso il futuro: il superamento della lun­
ga crisi energetica sbloccò il mercato delle plastiche, e l'avvento di nuovi
materiali super leggeri e super resistenti (come le fibre di carbonio) e di
nuove tecnologie divenne il tema di una nuova riflessione. I mercati erano
ormai saturi di prodotti estetici, e lasciavano quindi aperti vasti spazi per
prodotti essenziali, ad alto contenuto tecnico, ma anche di grande carica
figurativa. Una sorta di stile high tech si diffuse con un certo successo. Si
trattava di uno stile che tendeva a usare la tecnologia come una nuova
identità espressiva del prodotto. In un ambiente dove le trasformazioni so­
ciali e culturali avvenute nei due decenni precedenti avevano lasciato un
senso di disorientamento, il rigore costruttivo dell'high tech rappresenta­
va un'ipotesi di certezza»8.
Il discorso sui materiali pone lo stile high-tech in una nuova luce: non si
tratta più di esibire «meccanismi» oltre il necessario, bensì di riconoscere
nei nuovi materiali qualcos'altro che, all'opposto, non aveva necessità di
meccanismi per contribuire alla conformazione degli oggetti. Nel discute­
re questo tema, Manzini osserva: «nell'alveo principale del design italiano
degli anni ottanta si svilupparono delle linee di ricerca progettuale il cui
obiettivo era di far parlare i materiali. [ . . ] Schematizzando possiamo indi­
.

viduare due approcci principali: quello per cui i materiali (ma occorrereb­
be dire: alcuni materiali, quelli dalle proprietà più inusuali) avevano in­
trinsecamente qualcosa da dire, che portò a cercare materiali innovativi da
introdurre, reinterpretandoli, nell'ambiente domestico. E quello per cui i
materiali in quanto tali non avevano alcuna immagine propria ma, esatta­
mente per questo, era compito del designer dargliene una progettandone
l'identità»9. In altre e più semplici parole, non si dà forma senza una vo­
·

lontà formatrice, anche in presenza di nuovi materiali.


Ma, al di là dell'esposizione dei fatti e dell'elencazione dei prodotti
high-tech, interessa svolgere alcune considerazioni sul ruolo di tale ten­
denza nel quadro della cultura artistica contemporanea e del design in par­
ticolare. In altre parti di questo libro si dice che il significato primario di
un oggetto di design sta nell'evidenziare la sua funzione; che la sua esteti­
ca, ovvero il piacere che comunica, sta proprio nel riconoscere nella forma
del manufatto il risultato del suo migliore uso. N aturalmente il significato
1 82 . R. Sapper, computer portatile per IBM, 1 986.
1 83 - 1 84. Design Continuum Italia, computer HP e PC per Hewlett Packard, 2000.
185. K. Grcic, ChaZr one per Magis, 2004.
1 86-187. S. Azumi, StrZngs sgabello e StrZngs
ChaZr per Magis, 2006.
XIV. Lo stile <<high-tech» 223

di un oggetto non si esaurisce nell� sua funzione, comportandone nume­


rosi altri di carattere associativo, di contestualizzazione storica, di valenze
simboliche, ecc.
Anche i prodotti dello stile high-tech presentano questa doppia signifi­
cazione, ma con una differenza: mentre gli oggetti appartenenti ad altre li­
nee si b asano, per ciò che concerne il loro significato primario, su una for­
ma che esprime la relativa funzione, quelli dell' high-tech introducono un
terzo fattore: l' «esibizione» della tecnologia con la quale sono conformati.
Questo avviene perché, pur volendo continuare la tradizione razionalista,
gli autori di questa corrente intendono misurarsi con gli altri - postmo­
derni, neoespressionisti, neosurrealisti, neodada, ecc. - che quel razionali­
smo avevano rifiutato. Ne deriva che il designer high-tech conforma il suo
oggetto, «adornandolo» di parti superflue: un segmento è sdoppiato e ar­
ticolato; ciascun nodo è evidenziato e reso snodabile in più direzioni; i ma­
teriali sono rigorosamente artificiali e promettono di essere di lunga dura­
ta. In b reve, lo stile high-tech sembra avere un'inconfessata anima barocca,
non solo in quanto super accessoriato, ma anche perché, come il barocco
costituiva una variazione sul tema del classico, così l'high-tech costituisce
una variazione sul tema del razionale.
Nell'ipotesi migliore, quella per cui l' high-tech è legat� all'uso dei ma­
teriali piuttosto che all'esibizione dei meccanismi, si verifica una vera e
propria convergenza con il minimalismo.

Il design della luce

Lampade, apparecchi per l'illuminazione, sistemi elettrotecnici figura­


no in altre parti di questo libro, ma data la loro importanza e la ricca lette­
ratura di cui sono oggetto ritengo indispensabile dedicare ad essi un ap­
posito paragrafo; oltre tutto, poiché il progetto di una lampada richiede
un'attenzione che va dalla tecnica all'estetica, al rendimento e alla durata,
non si tratta di delineare una semplice forma ma di studiare il prodotto in
ogni suo aspetto, vale a dire di operare un design totale, motivo che porta
a trattare l'argomento nel capitolo dedicato all'high-tech. Si aggiunga che
nel campo in esame la materia prima è data dal tipo di lampadina utilizza­
to, man mano che viene approntato dalla ricerca tecnica. «Nel corso del
tempo il linguaggio del design ha interpretato in modo differente la tipo­
logia degli apparecchi dell'illuminazione; l'adozione di diverse sorgenti ha
permesso di realizzare inedite configurazioni e soluzioni tecnico-funziona­
li. In oltre cent'anni numerose fonti sono state introdotte sul mercato ­
dalla lampadina a incandescenza ai led - ogni volta fornite di differenti e
migliori qualità, di tipo illuminotecnico, ma anche legate a dimensioni e
224 Made in Italy

costumi. Questo ha condizionato e orientato il design delle lampade, che


in Italia ha raggiunto eccellenti livelli anche per una speciale capacità di
dialogo fra i designer e le imprese»10•
Nonostante la gamma vastissima di lampade è sempre possibile ric.ono­
scere alcune tipoJogie dominanti fra numerosi modelli. La prima tipologia
è quella del Luminator che Luciano Baldessari, come abbiamo già visto,
iniziò nel '29. Più famoso dell'oggetto · di Baldessari è il Luminator che
Achille e Pier Giacomo Castigliani progettarono per Gilardi e Barzaghi,
oggi in produzione della Flos; consiste in un semplice tubo cui è diretta­
mente collegata la lampada spot e che ha per base tre tubi con una sezio­
ne tale da essere riposti all'interno del sostegno centrale ai fini dell'imbal­
laggio; si tratta di un oggetto della massima semplicità e forse l'emblema
del minimalismo nel settore degli apparecchi per la luce. Mutando tempi
e gusto, va segnalato il Luminator di Ettore Sottsass, intitolato Callimaco e
realizzato da Artemide nell'8 1 : all'estremità di un tubo simile al preceden­
te sono due tronchi di cono, rispettivamente con funzione di base e diffu­
sore; al centro del tubo una maniglia utile a spostare la lampada.
Se passiamo dalla tipologia high-tech a quella da considerarsi al polo
opposto, ci troviamo nel campo delle lampade di vetro soffiato, di antica
tradizione artigianale italiana, veneziana in particolare. Per la vetreria di
Paolo Venini, iniziato al gusto moderno da Gio Ponti fra le due guerre,
hanno lavorato i maggiori designer italiani, da Carlo Scarpa ad Ignazio
Gardella, da Albini a Massimo Vignelli ai BBPR che nel '54 adottarono per
il negozio Olivetti di New York dodici lampade a forma di cono in vetro
colorato di oltre 60 centimetri di altezza, cioè la massima misura soffiabi­
le. Altri protagonisti nel settore in esame furono Vinicio Vianello, designer
e titolare dell'omonima vetreria e Oreste Vistosi; nella sua officina lavora­
rono Angelo Mangiarotti che progettò per Artemide le lampade Lesbo e
Saffo ( '67 ) e numerosi altri designer. Di molti prodotti non si cita più la ve­
treria esecutrice quanto l'azienda «editrice». Così Joe Colombo disegna
Aton ( '64) per O-Luce; Sergio Asti Daruma ( '68) per Candle; Gae Aulen­
ti Patroclo per Artemide ('75 ) ; Aulenti e Piero Castigliani la lampada Pa­
rola per Fontana Arte ( '80) ; fino alle più recenti Lanterna di Marta Lau­
dani e Marco Romanelli (O-luce, '88), Oa di Philippe Starck (Flos, '96) ,
Glass-glass di Paolo Rizzatto (Luceplan, '98), Glo-ball di Jasper Morrison
(Flos, '98), Astra di Denis Santachiara e Lara di Paolo Deganello (La Mur­
rina, 2000) 1 1 .
E veniamo alle lampade più pertinenti allo stile high-tech, quelle con
fonte di luce mobile nell'ambiente. «Per il movimento nel corso del tem­
po si sono imposte due soluzioni: da una parte il sistema a bilanciamento
con contrappeso fornito di snodo, introdotto dal francese Edouard Wil­
frid Buquet e brevettato nel 1 92 7 ; dall'altra il meccanismo con bracci arti-
1 88. A. e P.G. Castiglioni,
lampada A rco per Flos, 1 962 .
1 89. A. e P.G. Castiglioni,
lampada Tolo per Flos, 1 962 .
1 90. A. e P.G. Castiglioni,
lampada Taccia per Flos, 1 962 .
226 Made in Italy

colati regolati da molle, come era stato pensato dall'inglese George Car­
wardine nell' Anglepoise del 1 934 [ ... ] , con immagine e funzionalità com­
plessive ispirate alla fisiologia del braccio umano. Le molle di dimensioni
diverse infatti rappresentano 'i muscoli' che tendono l'arto a piacere. La
massiccia base garantisce la stabilità e la calotta ben orienta il flusso lumi-
·

noso»12.
Direttamente ispirata al secondo modello è la Luxo L-l , realizzata nel
1 93 7 da Jacob Jacobsen che, pur mantenendo invariato il telaio struttura­
le, ne incrementa il numero di molle da tre a quattro rendendolo com­
plessivamente più flessibile, mentre il diffusore acquista un unico profilo
dalla forma «a cappuccio». Il modello norvegese è qui menzionato perché
ha costituito il paradigma per molte lampade disegnate in Italia. Tra que­
ste Berenice, disegnata da Alberto Meda e Paolo Rizzatto per Luceplan nel
1 984, riduce lunghezza e funzione delle molle, affidando il movimento agli
snodi, e adotta una calottina schiacciata in quanto alloggio di una lampa­
dina alogena; Tolomeo di Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina, realiz­
zata per Artemide nel 1 986, Compasso d'Oro nel 1 989, esibisce per ogni
braccio un cavetto di raccordo con le molle nascoste all'interno delle aste;
Fortebraccio, ancora di Meda e Rizzatto (Luceplan, 2000) riprende lo sche­
ma di Berenice, accentuandone la snodabilità e potenziando il movimento
dei giunti in ogni direzione, mentre il diffusore è progettato per accoglie­
re ogni tipo di alimentazione: alogena, a incandescenza o a fluorescenza.
Alla prima soluzione, quella a contrappeso, si rifà Richard Sapper che
nel 1 972 disegna per Artemide la lampada Tizio, costituita da una base ci­
lindrica rotante, da cui si eleva una prima coppia di aste; a questa si colle­
gano una seconda coppia di aste con contrappeso e una terza di lunghez­
za maggiore bilanciata da un lato come l'altra e dall'altro con il diffusore
contenente una lampadina alogena.
Alla logica del contrappeso si ispirano anche le principali lampade di
Carlo Forcolini: la prima, Nestore (Artemide, '88), presenta una base cir­
colare donde si eleva un tubo che ne contiene un altro di sezione minore,
al quale è fissato un giunto triangolare, sorta di piccola mano a sua volta
reggente una «lancia» curvilinea avente ad un lato una sfera sospesa e
all'altro il diffusore con la fonte di luce; tutti i punti in cui si incontrano gli
elementi sono snodabili e l'immagine complessiva delle varie posizioni si
richiama chiaramente a Calder. Molto simile come sistema, ma assai diver­
sa nella sua configurazione è la lampada Hydra (Nemo, 2003 ) , caratteriz­
zata dalla leggerezza dei materiali usati: acciaio per la struttura, alluminio
pressofuso per gli snodi e il diffusore, fibra di carbonio per il braccio lun­
go. Essa è prodotta in cinque versioni: da tavolo, da lettura, da terra, da pa­
rete, a soffitto. Ancora fondata sul sistema del contrappeso è l'essenziale
lampada Galileo, disegnata con Giancarlo Fassina e prodotta da Oy light

1 9 1 . C. Forcolini, lampada da soffitto Omaggio a Calder, 1 975.


192. C. Forcolini, lampada da tavolo Nestore per Artemide, 1 988.
1 93 . C. Forcolini, lampade da terra Nestore per Artemide, nelle varie posizioni, 1 988.
228 Made z n Italy

nel 2005 . Nelle versioni da tavolo e da lettura si tratta di una struttura ri­
dotta a due soli elementi principali: l'asta che si eleva dalla base e quella
che la incrocia nel punto giusto per stabilire un equilibrio assicurato dal
contrappeso e dalla calottina ellittica di policarbonato trasparente che co-
pre la fonte di luce. ·

Tra le lampade sopra menzionate, come «fuori serie» citiamo qui la no­
ta Arco di Achille e Pier Giacomo Castigliani, realizzata da Flos nel 1 962.
Caratteristica di quest'opera è il fatto che pur proiettando la luce dall'alto
in basso non è collegata al soffitto. Infatti da una base di marmo si incur­
va un arco estensibile, così distante dal tavolo da poter girare intorno a
quest'ultimo. Il profilato in acciaio curvato di produzione standard con­
sente questa distanza e reca al suo estremo un riflettore metallico compo­
sto da una calotta fissa forata e un anello mobile.
Forse la più singolare lampada del design contemporaneo è la Taio del
'62 disegnata dai Castigliani per la Flos; pur essendo una lampada da ter­
ra a luce indiretta, presenta una conformazione che pare nata dall'insieme
di pezzi ready made: una base di normali profilati metallici contiene il tra­
sformatore necessario per passare dal voltaggio americano di 125 volt a
quello europeo di 220 proprio dello spot da 3 00 watt posto in cima ad un
sottile trafilato esagonale cromato; al termine di quest'ultimo un tondino
di ferro con le sue curve e controcurve forma un alloggio per il grande fa­
ro da automobile; il filo che lo lega al trasformatore corre parallelo al tra­
filato di sostegno al quale è assicurato da una serie di passanti che richia­
mano quelli delle canne da pesca. Simile alla Taio è la Parentesi (Compas­
so d'Oro 1 979), ideata da Achille Castigliani e realizzata dalla Flos nel '7 1 .
Su u n filo d'acciaio sospeso tra soffitto e pavimento, qui trattenuto d a una
base pesante, è inserito un tubo sagomato a forma appunto di parentesi
che porta un giunto rotante di gomma su cui è fissato il portalampade con
lo spot; il movimento verticale della fonte di luce è assicurato dallo spo­
stamento del tubo sagomato, quello orizzontale dal giunto posto vicino al
portalampade. Il minimalismo di Parentesi non è dote capace di sostituire
l'espressività della più complessa Taio.
Da considerarsi anch'esse «fuori serie» sono: la lampada da tavolo 607
di Gino Sarfatti del '7 1 , funzionante con lampadina alogena; la lampada
D7 di Rizzatto e Colbertaldo per Luceplan (Compasso d'Oro 1 98 1 ) ; le
lampade Lola e Titania di Meda e Rizzatto per Luceplan. La prima dell'87
è composta da tre parti realizzate in materiali diversi: la base a treppiede
pieghevole in zama pressofusa, l'asta di tubi telescopici in fibra di carbo­
nio, la testa portalampada, dalla forma di due dita aperte, contenente una
lampadina alogena, in un composto resistente alle alte temperature. La Ti­
tanzà dell'89, progettata con l'ausilio del computer, è composta da due el­
lissi maggiori saldate fra loro a 90° e formanti il perimetro esterno del mec-
1 94 - 1 95 . A. Meda e P. Rizzano, lampada Queen
Titania per Luceplan, 2005 ; in basso: particolare
tecnico.
1 96. A. Meda e P. Rizzatto, lampada
Berenice per Luceplan, 1 986.
197. A. Meda, sedia Pal, 2004.
1 98. A. Meda e P. Rizzano,
lampada Lola per Luceplan,
1 987 .
"

199. J. Jacobsen, lampada Luxo L- l , 1 927 .


200. C. de Bevilacqua, lampada Sui per Artemide, 200 1 .
2 0 1 . A . Meda e P . Rizzatto, lampada Fortebraccio per Luceplan, 1 998.
XIV. Lo stile «high-tech» 23 1

canismo entro il quale sono fissate 24 ellissi minori che fiancheggiano la


centrale parte luminosa che, grazie �ll'inserimento di filtri policromi, pro­
duce variazioni di luce colorata. La lampada può essere collegata al soffit­
to ovvero orientata diversamente attraverso un sistema di saliscendi. Non
è da escludere un intento Op Art per la possibilità di percepire l'oggetto,
a seconda del punto di vista, come un insieme lamellare oppure come un
unico e compatto volume.
Naturalmente la cosiddetta «immaterialità» della tecnologia digitale ha
trovato il suo terreno d'elezione nel campo dell'illuminotecnica: «in que­
sti ultimi anni si è assistito ad un fiorire di proposte basate su concetti in­
novativi quali la temporizzazione e la variazione cromatica. [. .. ] La Arte­
mide, nel 1 996, ha avviato il programma di apparecchi di illuminazione
Metamorfosi, per il quale designer di fama internazionale sono stati chia­
mati a dare forma ad un nuovo concetto di lampada, basato sull'utilizzo di
un circuito elettronico, che permette alla luce di cambiare colore e inten­
sità»1 3 .

Note
1 L. Sacchi, Storicità dell'High-tech, in <<Op. cit.>>, n. 8 1 , maggio 1991.
2
Cit. in M . Dini, Renzo Pùmo, progetti e architetture 1 964-1983, Electa, Milano 1983 , p. 126.
3 R. Rogers in Richard Rogers-architect, Architectural Monographs, Academy Edition, London
1986, pp. 1 24 - 1 3 3 .
4 Sacchi, Storicità dell'High-tech c it.
5 Ibid.
6 Cit. in Dini, Renzo Piano cit. , p. 156.
7 E. Morteo, Il mobile e la macchina. Due progetti di seggiole per ufficio, in <<Domus>>, n. 7 19, set-
tembre 1 990.
8 G. Corretti, La tecnologia avanzata, in Il Design italiano 1 964- 1 990, a cura di A. Branzi, Electa,
Milano 1 996, p. 3 14.
9 E. Manzini, Nuovi materiali e ricerca progettuale, in Il Design italiano 1 964- 1 990 cit . , p. 329.
IO
A. Bassi, Lampade e lampadine, design della luce e sorgenti luminose, in A. Bassi, F. Bulegato,
Catalogo della mostra omonima, Fiera di Brescia 2004, pp. 7-8.
11
Cfr. Bassi, Lampade e lampadine cit., pp. 202-203.
12
A. Bassi, La luce italiana design delle lampade 1 945-2000, Electa, Milano 2003 , pp. 233-234.
u C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in <<Op. ci t.>>, n. l l O , gennaio 2001 .
Capitolo quindicesimo Lo_ stil_e polimaterico

Già nella mia Storia dell'85 notavo che una delle caratteristiche del de­
sign italiano, specie nel settore del mobile, è data dalla coesistenza di ma­
teriali più diversi. Nei confronti della produzione di altri paesi, poniamo,
quelli scandinavi, resa così tipica dalla presenza del legno, l'oggetto indu­
striale disegnato in Italia, una nazione in cui notoriamente non c'è abbon­
danza di alcun materiale, si produce con ogni sorta di materia prima; da
questo fatto sono condizionate le tecniche lavorative e ancor prima la con­
cezione progettuale. Dovendo ogni volta cominciare da capo, la tecnolo­
gia di lavorazione di un materiale sembra imporre la forma agli oggetti o,
come capita più spesso, un'idea progettuale forza a tal punto una materia
da snaturarla: si pensi ai prodotti in legno dove la giuntura dei pezzi è af­
fidata più ad elementi metallici, viti e bulloni, che non alla tradizionale ma­
niera di incastri e di tagli a meccia, ancora utilizzata per esempio in alcuni
mobili di Albini prodotti da Poggi; al contrario, si pensi all'uso unico del
marmo giuntato a semplice incastro di alcuni interessanti tavoli di Man­
giarotti.
Costituiscono pertanto uno stile a parte quei mobili in cui si trovano
impiegati in evidenza fino a quattro o cinque materiali diversi e si caratte­
rizzano proprio per questa proprietà. Essi non sono classificabili nella li­
nea bigb-tech perché non affidano la loro conformazione a sofisticati mec­
canismi o a materiali nuovi come le fibre di carbonio; non sono ascrivibili
al minimalismo di cui evidentemente sono antitetici, né possono annove­
rarsi nella linea neostorica perché in passato i mobili, almeno in apparen­
za, erano di legno, di stoffa, ovvero di entrambe queste materie. Ma lo sti­
le polimaterico non è tale solo per l'aggettivo che lo designa, bensì anche
per una precisa intenzione conformativa.
Superamento del razionalismo e favore artigianale si riscontrano
nell'attività di Andrea Branzi, tra i maggiori esponenti della linea in esame.
Il mobile Stazione del 7 9 per Alchymia si compone di varie parti, ciascu­
'

na in una materia diversa; cinque materiali sono presenti nella libreria


202 . A. Branzi, libreria Berione per Cassina, 1 988.
203 . P . Deganello, divano Torso per Cassina, 1982.
234 Made in Italy

Gritti dell'81 per Memphis; la poltroncina Animali domestici dell'85 per


Zabro ironizza sull'ecologia con una spalliera e braccioli in legno naturale,
impiantati su un supporto-sedile in legno verniciato sul quale è poggiata
una pelle appunto di animale; il divano Axale dell'89 per Cassina si com­
pone anch'esso di più materiali con la piacevole variante che le gambe an­
teriori s'incurvano a formare la spalliera, separata dal sedile da una strut­
tura a losanghe di tondini metallici; la libreria Berione si compone di un
doppio portale metallico al quale è sospeso un parallelepipedo di marmo
tramite sottili elementi metallici che a loro volta supportano i piani di cri­
stallo per i libri; l'opera, a mio avviso, più felice di Branzi è la poltroncina
Revers del '93 , anch'essa per Cassina, composta da quattro materiali, la cui
diversità, tuttavia, è, per così dire, trasfigurata dalla bella fascia modellata
a far da piede, schienale e spalliera.
Altro rappresentante dello stile polimaterico è Paolo Deganello, com­
pagno di strada di Branzi fin dal tempo del gruppo fiorentino Archizoom.
Nella poltrona AEO del '73 per Cassina, egli impiega tre materiali: plasti­
ca rigida per formare la base, tubolare metallico per la struttura, tessuto
plastico per il sedile imbottito nonché per i braccioli e la spalliera lasciati
alla deformazione del corpo seduto. Per Driade nell'8 1 Deganello proget­
ta il divano Squash, composto da cinque parti di altrettanti materiali: l'am­
pia spalliera, il piano della seduta, sul quale poggia un morbido sedile dal
colore differente, due piramidi rovesciate di sottili tondini a far da piedi
anteriori, mentre due corti tubolari metallici formano quelli posteriori. Al
mobile ora descritto, dove tutto è in vista, fanno da contrappunto la pol­
trona e il divano Backbotton (Driade '82 ) , dove un materiale unico ricopre
una complessa struttura polimaterica che non si vede ma facilmente si per­
cepisce per la forma complessiva che essa dà ai due modelli; sempre per la
collezione So/t della stessa azienda, Deganello progetta la serie Torso, il ti­
po di mobile forse più emblematico dello stile di cui ci occupiamo e fra
quelli più rispondenti alla ricerca d'avanguardia degli anni Ottanta. Il mo­
dello più completo della serie ha un impianto dissimmetrico: può essere
una poltrona ad unico bracciolo come una chaise longue barocca, in cui
l'alta spalliera, ricoperta da un tessuto variamente colorato, avvolge il lato
col bracciolo; le quattro parti del mobile hanno ciascuna appositi sostegni
che si raggruppano in basso con una apparente casualità. Chiudo questo
flash deganelliano con la serie dei tavolini A rti/ici prodotti da Cassina
dall'85 : ciascuno ha la base in graniglia di quarzo e marmo agglomerati con
resina di poliestere, da cui si elevano a ventaglio quattro supporti in cilie­
gio naturale che sorreggono il piano costituito da due cristalli di diverso
spessore; fra l'uno e l'altro sono inseriti elementi decorativi in tessuto pla­
stificato antiscivolo, torniti con il tavolo; i piani di cristallo possono essere
tondi, quadrati, triangolari ed ellittici.
204. P. Deganello, poltrona AEO per Cassina,
1 973.
205 . P. Deganello, poltrona Torso per Cassina,
1 982 .
206. P. Rizzatto, sedia Young lady per Alias, 1 994.
207 . A. Branzi, sedia Revers per Cassina, 1993 .
236 Made in Ita!y

Il dubbio che lo stile polimaterico abbia più d'un aspetto post-modern


è confermato dalla presenza dell'americano Michael Graves nel gruppo
dei designer di Memphis; tra le sue opere progettate per quest'ultima è la
toilette Plaza dell'8 1 : essa riprende alla lettera molti motivi delle sue archi­
tetture, ma mentre quest'ultime si risolvono spesso in un unitario volume
dove il tutto prevàle sulle parti, nel mobile italiano queste sono ben dodi­
ci, tutte evidenti.
Includere le opere di Ettore Sottsass nello stile polimaterico mi sembra
affermare una cosa ovvia, ma lo diventa meno se consideriamo che questo
maestro del design è partecipe di più d'una tendenza, dal razionalismo oli­
vettiano al più eversivo gusto radica!, donde l'obbligo di segnalarlo anche
per la corrente in esame; non solo, ma il suo polimaterismo va citato in
quanto presenta aspetti particolari. Infatti Sottsass, oltre ad usare in molte
sue opere più d'una materia - basti pensare al tavolino del '58 con strut­
tura formata da una lastra metallica forata di ottone fuso con un piano di
marmo variamente striato; al cassettone del '65 per Poltronova in legno,
con maniglie in alluminio anodizzato e piastrelle di ceramica; alla serie di
Mobili grigi del '70 in fiberglass e altri materiali; al tavolino Le strutture tre­
mano con piano di cristallo, gambe metalliche e base in laminato dell'SO
per Alchymia -, interviene a modificare e diversificare la materia stessa con
colori, decorazioni e texture.
Polimaterico e plurifunzionale è il Cabriolet bed di J oe Colombo per
Sormani del '70: nella testata del letto sono inserite lampade e un impian­
to stereofonico ad alta fedeltà, mentre una copertura mobile fa da baldac­
chino regolabile. Meno fantascientifico è il letto Tela di Penelope di Ugo La
Pietra per Tosimobili del '7 1 : presenta, oltre all'imbottito proprio del let­
to, una struttura in legno che in alto reca una doppia trama di fili, così co­
me figurano nel telaio di una tessitrice, con funzione di baldacchino. In e­
nerale può dirsi che la tipologia del letto si presta all'uso di più materiali:
esemplificativo è il Talamo che Angelo Mangiarotti fa produrre da T70 nel
'7 1 : il letto presenta la testata e i comodini in un unico pezzo !igneo, la
struttura in metallo e i piedi tronco-conici in beola o marmo. Anche il ta­
volo di Enzo Mari, Frate, prodotto da Driade nel '74 , benché d'intenti mi­
nimalisti, si compone di almeno tre materiali: il piano di cristallo, il dop­
pio supporto metallico e la trave centrale in legno che li collega. La libre­
ria Brooklin di Stoppino e Acerbis s'ispira evidentemente ad una struttura
a ponte; infatti due «piloni» con pianta ad L si collegano superiormente
con una trave metallica alla quale sono agganciati sottili tiranti che reggo­
no i ripiani, a loro volta saldati ai piloni; i bordi dei ripiani con speciali pro­
fili permettono l'inserimento di ante scorrevoli.
Altre opere classificabili nello stile polimaterico sono il tavolo, le sedie
e poltrone progettate da Mario Botta per Alias; in particolare il tavolo Te-
208-2 1 0 . M . Botta, sedie Prima e Seconda e tavolo Tesi per Alias, 1 982 .
238 Made in Italy

si dell'86 presenta una struttura in acciaio e lamiera stirata e il piano in cri­


stallo; analogamente, le sedie Prima e Seconda dell'82 si compongono di
una struttura in acciaio, con il sedile in lamiera forata e lo schienale costi­
tuito da due elementi cilindrici in poliuretano nero. La stessa Alias ha pro­
dotto nel '94 su progetto di Paolo Rizzano la poltroncina girevole Young
Lady che si compone di una struttura a tripode di alluminio, di un'altra per
il sedile e lo schienale in legno, entrambi rivestiti in paglia di Vienna.
La linea del gusto polimaterico può considerarsi tale anche se un solo
materiale articola più pezzi, diversi e componibili fra loro per dare al pro­
dotto varie forme: ne è un esempio il tavolo Tangram, progettato da Mas­
simo Mo rozzi e realizzato da Cassina nell'83 . Il mobile, costituito da sette
pezzi indipendenti, assume in partenza la forma quadrata, salvo a modifi­
carsi nelle figure di pianta più complesse quando i pezzi si compongono
diversamente fra loro. Oltre che per le superfici formanti il piano orizzon­
tale, i supporti verticali di ciascun elemento sono diversi fra loro: alcuni
piedi hanno sezione triangolare, altri cilindrica, uno poligonale, uno a co­
lonna con base troncoconica. A richiesta sono disponibili piani addiziona­
li in marmo bianco o nero e persino una scacchiera, da appoggiare al pia­
no in legno di una delle componenti.
2 1 1-214. M. Morozzi, tavolo Tangram per Cassina, 1983 .
Capitolo sedicesimo Il �es�gn come gioco

In italiano la parola «gioco» ha circa trenta significati; quello che qui si


vuole intendere è compreso tra i seguenti: «atto, gesto, evento, circostan­
za; impresa, iniziativa, lavoro, occupazione; usanza, consuetudine, modo
(per lo più abile e astuto) di procedere e di comportarsi. Anche: piano di
azione, progetto; espediente; stratagemma»1 ; per ciò che intendo trattare
in questa sede, utilizzerò alcuni dei significati suddetti, ivi compreso il più
comune, quello Iudica.
Adotto il termine «gioco» anzitutto perché la sua polisemia mi sembra
adatta alla complessità del design più recente, quello che va dall'ultimo
ventennio del Novecento ad oggi. In secondo luogo - e sto per fare il som­
mario del capitolo - perché il senso Iudica è una linea che caratterizza al­
cune tra le più importanti aziende italiane - si pensi ad Alessi, Danese,
Driade, per non parlare di quelle orientate verso il radica! design o il pop
design. In terzo luogo perché solo un abile gioco può ammettere la coesi­
stenza del minimalismo con l'hlgh-tech che considero i principali stili del
design attuale: le prime opere che mi vengono in mente sono quelle di Phi­
lippe Starck, Alberto Meda, Paolo Rizzano, Carlo Forcolini. Infine, il gio­
co è fattore principale di un'altra tematica attuale, quella per cui, anche a
causa della tecnologia digitale, oltre alla produzione di manufatti è neces­
saria una strategia di fare impresa, di avere un progetto complessivo, di te­
ner conto del servizio e della comunicazione. Anche se nutro qualche dub­
bio su quest'ultimo aspetto, in cui colgo il rischio di ipostatizzare situazio­
ni più semplici, peraltro non solo ad opera degli italiani., tratterò questo sti­
molante argomento, non foss'altro perché «è proprio la consapevolezza
che produrre, un servizio o un artefatto, rappresenta un'operazione cultu­
rale, oltre che un'azione economica, ad aprire le porte a nuove applicazio­
ni del progetto»2.
XVI. Il design come gioco 24 1

Il significato ludico

Che il motivo del gioco rientri nello specifico carattere degli elementi
d'arredo costituisce da sempre un dato di fatto: che cosa sono le decora­
zioni p resenti sugli oggetti sin dalla preistoria, le grottesche sia nel mondo
classico che in quello rinascimentale, i motivi zoomorfi e fitomorfi, gli in­
ganni, il trompe-l'oeil che figurano in architettura e nelle arti applicate del­
la tradizione, se non dei giochi e fra i più caratterizzanti questo genere di
manufatti?
Ma l'arte come gioco e di conseguenza come pedagogia trova un signi­
ficativo precedente teorico nell'opera di Schiller. «Solo attraverso la porta
dell'arte tu puoi penetrare nella conoscenza», egli scrive nelle Lettere
sull'educazione estetica dell'uomo. Più pertinente al nostro argomento è un
altro brano in cui l'assunto citato viene, in un certo senso, storicizzato: «po­
nete a raffronto i greci e i moderni: là si osserva una natura che unisce, qui
un intelletto che divide. La cultura stessa è ciò che all'umanità ha inferto
questo colpo. A misura che l'accrescimento dell'esperienza e la specifica­
zione del pensiero determinavano divisioni sempre più profonde tra le
scienze, si creava d'altra parte un meccanismo politico e sociale più com­
plicato, che opponeva gli uni agli altri i ceti e gl'interessi e rompeva l'inti­
mo legame della natura umana, travolgendo in una lotta rovinosa le sue for­
ze armoniche»3 . «Una via d'uscita si potrebbe trovare solo a patto che si
scoprisse uno strumento di educazione indipendente dallo Stato, e quindi
capace di agire sull'uno e sull'altro termine del conflitto. Tale strumento è
l'arte, nel senso più ampio della parola»4. Chiamando gli istinti dell'uomo
«vita» (Leben) e le regole imposte dalla società «forma» ( Gestalt) , l'impul­
so al gioco e la sua conseguente educazione estetica agirebbero da fattore
risolutivo, acquistando l'appropriato termine di «forma vivente» (lebende
Gestalt), una possibile definizione dell'arte e della bellezza.
Marcuse, artefice oltre cinquant'anni or sono della filosofia oggi più po­
polare, nell'intento di porre in discussione il noto assunto freudiano per
cui la civiltà è basata sulla repressione permanente degli istinti umani, si
serve soprattutto della dimensione estetica e tende a dimostrare l'intima
connessione tra impulso del gioco, piacere, sensualità, bellezza, arte e li­
bertà. Dopo aver affermato che l'impulso fondamentale è quello del gioco,
basilare nella dimensione estetica, che assumerebbe grazie ad esso una for­
za liberatrice, egli scrive: «l'arte rappresenta una sfida al principio della
realtà corrente: rappresentando l'ordine della sensualità, essa invoca una
logica repressa - la logica della soddisfazione contro quella della repres­
sione. Dietro alla forma estetica sublimata si annuncia il contenuto non su­
blimato: la dipendenza dell'arte dal principio del piacere»5. A chiarimen­
to di quanto precede va ricordato che l'estetica nasce nel Settecento come
242 Made in Italy

scienza della per/ezio ne sensibile e non come scienza dell'arte; precisazio­


ne utile non solo alla distinzione fra l'artistico e !'_estetico ma anche alle
stesse tematiche che incontreremo più avanti. Come nota Menna, com­
mentando l'autore precedente, «la pedagogia estetica di Schiller mette [ . . ] .

Marcuse in relazione con la tradizione artistica moderna e gli consente di


rilanciare (sia pure implicitamente) l'istanza centrale dell'avanguardia e
del movimento moderno: l'esigenza di sottrarre l'arte alla sua tradizionale
condizione di eccezionalità e di trasferire i principi formativi all'interno
dell'esistenza quotidiana [ . . . ] se il progresso e la civiltà tecnica hanno do­
vuto sacrificare allo stato di necessità e alla sopravvivenza biologica la
struttura psichica profonda dell'uomo, sublimandola in principio di pre­
stazione, è giunto il momento di procedere in senso inverso, dalla ' civiltà'
alla 'natura', recuperando quest'ultima come momento autonomo e origi­
nariamente positivo della persona umana»6.
Ove si eccettuino i citati prodotti del radica! design e in particolare
quelli di Ettore Sottsass, maèstro-dadaista del design italiano, e di Andrea
Branzi, il più problematico designer e teorico di un «nuovo design», le
aziende più inclini al design come gioco mi sembrano essere, come sopra
anticipavo, Danese, Driade, Alessi, quest'ultima con un fondamento teori­
co operato dallo stesso Alberto Alessi; beninteso, esse non sono le sole: la
gran parte delle imprese, sia piccole che grandi, operanti nell'ambito del­
la cultura del design, hanno sempre un responsabile orientato a delineare
le linee teorico-programmatiche, il che giustifica l'espressione «Fabbriche
del design italiano», con la quale appunto Alberto Alessi definisce le azien­
de più accorte a coniugare l'estetica col mercato e magari a superarlo fino
ad una sorta di borderline.

Alessi

In un articolo del 2005 , Alberto Alessi, amministratore delegato e di­


rettore generale della prima di dette aziende perché nata nel 1 92 1 , scrive:
«Ci sono due modi di vedere il design, delineati chiaramente alla fine del
secolo XX: due approcci al design molto diversi e addirittura in contrad­
dizione tra di loro. Da un lato c'è l'interpretazione del design tipica della
Industria di Produzione di Grande Serie, che vede il design semplicemen­
te come uno dei tanti strumenti della tecnologia e del marketing. [. .. ] Il se­
condo modo di guardare al design è quello tipico invece delle 'Fabbriche
del Design Italiano' : il design inteso come Arte e Poesia. [. . ] un'autentica
.

Missione, una sorta di filosofia generale, di 'Weltanschauung' che sta alla


base di tutta la pratica aziendale. [ . ] noi riteniamo che la nostra vera na­
..

tura somigli più a un 'Laboratorio Industriale di Ricerca nel Campo delle


1

2 15 . Ph. Starck, spremiagrumi ]uiey Salz/ per


Alessi, 1 990.
2 1 6-2 1 7 . S . Giovannoni, porta cotton fioc
Pisellino e levapelucchi per Alessi, 2005 .
2 1 8. S. Giovannoni, apriscatole Can Can
per Alessi, 200 1 .
2 19. G . Venturini, accendigas Firebird per Alessi,
1 993 .
244 Made in Italy

Arti Applicate' che non ad una industria nel senso tradizionale del termi­
ne. Un laboratorio il cui ruolo è quello di esercitare una continua attività di
mediazione fra, da un lato, le espressioni più avanzate e più effervescenti
della creatività internazionale e, dall'altro, i desideri (o meglio i sogni) del­
la gente. Un laboratorio che crede che il progresso della nostra società deb­
ba essere il frutto di un'incessante dialettica fra il business e la cultura»7.
In un altro testo, il riferimento al gioco diventa più esplicito. «lo penso
che lo scopo del design in futuro (perlomeno: il nostro scopo per il futuro
nel mondo del design) dovrebbe essere proprio questo, trasformare il de­
stino di gadget degli oggetti nella nostra società dei consumi in una op­
portunità transizionale, vale a dire in una opportunità per i consumatori di
crescere e di migliorare la loro percezione del mondo. Si tratta di un'atti­
vità dalla natura tipicamente paradossale (come paradossale è il gioco dei
bambini). Paradossale nel senso para dochè, a fianco della regola, della nor­
ma, dello standard, al fine di cogliere appieno la cosiddetta realtà del mon­
do e della vita».
Detto in altri termini, negli scritti di Alessi si trova una distinzione tra il
design rigoroso di estrazione razionalista, per così dire hard, e quello so/t,
basato sulla fantasia, sulla cordialità, appunto sul gioco. Questa seconda li­
nea s'incarna negli oggetti casalinghi e, secondo qualche critico, in quelli
da regalo; emblematici i prodotti chiaramente ludici della collezione Fa­
mily Follow Fiction del 1 992 . Questa comprende, tra gli altri, il fallico ac­
cendigas elettronico Firebird di Venturini, il fumettistico servizio per sale
e pepe Lilliput di Giovannoni, e la teiera zoomorfa Penguin tea di Caramia.
La caratteristica di tali oggetti è quella di richiamare la memoria affettiva
del fruitore, mediante lo studio di forme, materiali e colori simili ai giocat­
toli. «La plastica è la materia dei soldatini, dei pupi e dei gadget, portatri­
ce indiscutibile di una memoria ludica»8, ed è proprio la plastica, con le
sue proprietà tattili, il materiale prevalente in questi prodotti.
Come scrive Carlo Martino, «il fenomeno di gadgetizzazione ha investi­
to proprio quegli oggetti che in passato rappresentavano i cosiddetti ri­
cordi, tradizionalmente di fattura artigianale pregiata, la quale attribuiva
preziosità e valore allo stesso. Ma nell'articolo da regalo è stata individua­
ta anche la minore richiesta di contenuto funzionale da parte del fruitore
rispetto ad altri prodotti, rappresentando di fatto uno dei campi legittima­
ti per la ricerca di frivolezza. Gli oggetti associabili al fenomeno di gadge­
tizzazione hanno inaugurato un nuovo linguaggio nel design neo-organico,
caratterizzato dal chiaro riferimento a forme biomorfe e dall' uso di colori
vivaci. A distanza di anni, il successo del fenomeno ha portato ad una ap­
plicazione degli stessi caratteri anche a tipologie merceologiche diverse,
connotate al contrario da una tradizionale durevolezza. Non a caso Stefa­
no Giovannoni e Guido Venturini, autori di alcuni dei pezzi più riusciti
XVI. Il design come gioco 245

dell' Alessi, sono stati chiamati a trasferire gli stessi stilemi su complemen­
ti d'arredo o mobili (per Giovam1oni sgabelli, sedie e poltroncine Bobo
per Magis, per Venturini mobili contenitori e librerie per BRF)»9.
Il design come gioco implica anche q\lello della corporale image, ossia il
programma di un'azienda volto a definire la sua identità e a comunicarla
con efficacia. Tale programma riguarda appunto anche l' Alessi, della qua­
le è stato scritto: «Con la consulenza di Alessandro Mendini, tra il 1 980 e
il 1 983 , si elabora una strategia che mira a riposizionare l'azienda sul mer­
cato, affermandone una nuova identità di prestigio. Nasce la collezione
Tea and Co//ee Plaza, oggetti d'argento in serie limitata: undici servizi da
tavola, pensati come edifici intorno a una piazza, progettati da architetti
implicati in un discorso sontuosamente eclettico di rapporto con la storia,
come C. Jencks, M. Graves, H. Hollein, P. Portoghesi, R. Venturi e così
via. La collezione viene presentata con una serie di mostre-eventi costruiti
non in fiere ma in gallerie e musei in tutto il mondo, con effetto shock per­
ché ci si contrappone al modern che fin allora aveva caratterizzato le azien­
de design oriented. La strategia ha successo e Alessi, da azienda di oggetti
economici, diventa internazionalmente sinonimo di design postmodern.
Ma decisivo per il successo di Alessi è lo spremiagrumi di Philippe Starck,
]uice Salz/ ( 1 988), che riscuote un successo da cui è inscindibile la campa­
gna fotografica per la pubblicità. [ . . ] Negli anni Novanta, poi, con gli og­
.

getti colorati, dalle forme morbide e arrotondate, di Stefano Giovannoni,


nasce per Alessi un fenomeno nuovo, un diffondersi internazionale di og­
getti 'giocattolosi' . Probabilmente è da questi oggetti che di recente Bruce
Sterling, l'autore di fantascienza ora autore di un libro di previsioni, To­
morrow now, trae ispirazione per immaginare i blobjects, oggetti blob che
invaderanno il nostro futuro»10.

Danese

Nell'interpretazione del design come gioco, l'azienda fondata a Milano


nel 1 957 da Bruno Danese e Jacqueline Vodoz si può considerare su una
posizione opposta rispetto a quella di Alessi. Infatti, mentre quest'ultima
all'inizio nasce come fabbrica di articoli casalinghi in metallo prodotti in
grande scala, la preistoria di Danese ha origine dallo scioglimento della
precedente DM (Danese e Meneguzzo) , fondata nel 1 955 e basata sulla
produzione di ceramiche in piccola serie. Cosicché, se Alessi sviluppa nel
tempo, da una generazione all'altra, la propria concezione del design fino
a riconoscersi nelle suddette «Fabbriche del design italiano», la Danese sin
dalle origini punta la sua attività sul principio di un design elitario. E poi­
ché non vanta un'officina autonoma, ma si avvale di raffinati artigiani, es-
246 Made in Italy

sa si identifica più con la figura dell'editore che non con quella del pro­
duttore industriale. E come un editore propone una varietà di generi let­
terari, così Danese sperimenta l'utilizzo di numerosi materiali: alluminio,
abs, inox, alabastro, nylon, ottone, porcellana, cartone, marmo.
Quanto alla prerogativa che maggiormente ci interessa in questa sede,
il fattore gioco, Danese o lo circoscrive in un preciso ambito della produ­
zione - la sezione volta alla promozione di giochi didattici, con il Progetto
scuola e le Edizioni per bambini Danese - o lo realizza implicitamente pro­
prio in quegli oggetti in cui il senso dell'utilità è accompagnato da accenti
allegri, /riendly, fantasiosi. È in quest'ottica dunque che il senso Iudica
sembra tendere alla citata idea schilleriana dell'arte come gioco e come pe­
dagogia: non si dà arte separata dalla vita di tutti i giorni, donde il passag­
gio dell'arte in esteticità generale. Non si tratta pertanto della piacevolez­
za del gadget, ma del piacere provocato realmente da un'espressione arti­
stica. Non a caso infatti i principali collaboratori di Danese sono Bruno
Munari ed Enzo Mari, i più «artisti» tra i designer italiani. Del primo si ri­
cordano il posacenere Cubo in melamina e alluminio ( '5 7 ) , la lampada
Falkland (' 64) che trasforma in scultura luminosa un tubo di nylon. Del se­
condo si segnalano il puzzle-scultura Sedici Animali ( '57 ) , prodotto in le­
gno in un unico taglio; la Putrella ( 5 8 ) ottenuta da segmenti di profilati
' ,

per edilizia; il portafiori in metallo e vetro Camicia ( 6 1 ) ; le stampe della Se­


'

rie della Natura ( '63 ) ; il calendario perpetuo Timor ( '67) e il cestino In At­
tesa ( '7 1 ); la Flores ( '90) ; il sistema per scrittoio Manhattan ('92 ) .
L'azienda viene ceduta nel 1 992 alla francese Strafor-Facom e dal 2 000
ne diventa presidente Carlotta de Bevilacqua. La sede operativa e lo show­
room di Milano vengono oggi affiancati dalla sede di Hong Kong, osser­
vatorio privilegiato dell'Estremo Oriente.
Resta invariato dalla vecchia alla nuova gestione il riferimento ai se­
guenti fattori: marca come strumento di produzione e valore; dimensione
ridotta come scelta consapevole; responsabilità e concretezza del linguag­
gio; l'individuo al centro del progetto; lunga durata come qualità fondati­
va; monomatericità nella polimatericità; prodotti progettati per un utilizzo
sostenibile; sperimentazione continua come metodologia.
Ma ciò che più attrae nei pochi mobili minimalisti, nelle lampade, nei
calendari perpetui, negli attrezzi per scrittoio e nei cento altri oggetti dise­
gnati nei tre settori living, working, lighting oltre che dagli autori citati, da
altri quali Naoto Fukasawa, Alberto Zecchini, Matali Crasset, Carlotta de
Bevilacqua, Andrea Anastasio, Neil Poulton, J ames Irvine, Paolo Rizzano,
Marco Ferreri, Karim Rashid, Alberto Meda per ricordarne solo alcuni, è
il gioco associato ad un forte rigore, da cui la loro classicità, il fatto che re­
sistono nel tempo e quindi un piacere non fugacemente romantico.
«Quando faccio un oggetto per Danese, penso che debba sopravvivere in
l
DAN E S E
l

J M I L ANO

220. Pagina pubblicitaria Danese.


221 -222. E. Mari, scatola Flores, 1 992.
223. B. Munari, lampada Falk!and, 1 964.
224. H. Ubbens, Capitolo 4, portalibro come segnalibro, 2005.
225 . B. Mun ari, Cubo, portacenere da tavolo, 1 957.
XVI. Il design come gioco 249

qualsiasi sistema · formale venga c9involto, l'obiettivo è che un oggetto che


va bene oggi deve andare bene anche fra trecento anni»: queste le parole
di Enzo Mari.

Driade

A voler individuare uno dei caratteri più marcati della Driade, direi che
esso vada riconosciuto proprio nel fattore ludico, la tendenza al gioco, pre­
sente in tutto il suo processo-design ma soprattutto nei momenti proget­
tuali e promozionali. Dire che un'impresa industriale «giochi» non signifi­
ca ovviamente che essa operi poco seriamente, che i suoi prodotti siano
scarsamente studiati, non duraturi, privi di garanzie, ecc., ma che fra tutti
i tipi di motivi ispiratori - le spinte economiche, sociali, tecniche, storici­
stiche, avveniristiche e simili - emerge appunto quello ludico, a sua volta
non estraneo a dette spinte. Donde la necessità di definire meglio questo
fattore del gioco e le sue molteplici valenze.
Da rivedere in primo luogo è la radicale opposizione del gioco al lavo­
ro. Per convincersi che molto spesso fra lavoro e gioco non c'è contraddi­
zione, basta por mente al fatto che molti lavori compo�tano un tale inte­
ressamento da valere non solo per ciò che rendono ma anche per il gusto
di farli. Da rivedere inoltre è quel carattere di assoluta spontaneità e libertà
contrapposto all'azione sempre obbligante del lavoro. Tant'è che esistono
per ogni sorta di gioco le relative regole: valga per tutti il caso delle regole
del gioco linguistico. Persino in economia si parla di gioco: la cosiddetta
«teoria dei giochi» consiste in un serie di regole che consentono al gioca­
tore di scegliere fra le possibili manovre quelle che gli procurano il massi­
mo vantaggio. Insomma, tranne rare eccezioni, il gioco alla luce dei fatti
non risulta mai così gratuito come vorrebbe la sua classica definizione; co­
sicché se trasferiamo queste considerazioni al campo del design possiamo
tentare la seguente classificazione: a) giochi finalizzati alla novità del pro­
dotto; b) giochi connessi ad un particolare tipo di lavoro; c) giochi lingui­
stici retti dalle regole proprie di ogni sorta di linguaggio; d) giochi aventi
un intento educativo; e) giochi che si giustificano dal punto di vista politi­
co-sociale.
Entrando ora nel vivo della componente Iudica della produzione Dria­
de, vediamo in quali e quanti modi essa si articola e come si accentua nei
principali designer che hanno lavorato per l'azienda. Il gioco di Antonia
Astori risulta a prima vista mirante alla novità del prodotto, sensibile alle
mode esso stesso tendente a stabilire una moda. La sua connotazione si di­
'
rebbe quella di una fredda e distaccata ironia; ma ciò vale solo per alcuni
modelli: ricordo per esempio il letto Agra/e che, con il suo rotolo poggia-
250 Made in Italy

testa sospeso, sembra fare il verso al più celebre precedente miesiano, op­
pure le cimase di alcuni stipi degli A/orismz; da molti -considerati un ambi­
guo e ironico gioco con la tradizione; accenti diversi vanno individuati per
altri progetti. Di che tipo è il gioco che sottendono il Driade l, l'Oikos e i
sistemi da esso derivati? Si tratta anzitutto di giochi consapevoli. Non a ca­
so, infatti, la nascita del Driade l è accompagnata dal citato modellino in
perspex e dallo slogan «giochiamo con la Driade». Com'è noto, inoltre,
quella della flessibilità e della metaprogettualità sono delle costanti in tut­
ti i sistemi e quindi dei «giochi» che caratterizzano l'intera filosofia azien­
dale. Per questo e altri motivi il tipo di gioco che pertiene ai prodotti si­
stemici e segnatamente al maggiore di essi, l'Oikos, è da rapportare al la­
voro. In prima istanza infatti l'Oikos, pur nella vivacità dei suoi colori e nel
«bianco» del suo contenuto, richiama più il mondo dell'utile e del funzio­
nale che non quello del giocoso. Tuttavia, se ci richiamiamo alla non con­
traddizione fra gioco e lavoro, la valenza utilitaria del sistema in parola si
integra con quella Iudica. E ciò non solo e non tanto perché esso non si dà
in una conformazione unica, ma ne può assumere molte con l'intervento
del fruitore (cosa che sia pure in maniera più limitata si verifica anche per
altri mobili componibili) , ma perché il lavoro necessario a conformare
l'Oikos in vari modi (specie con l'arricchimento degli elementi offerti
nell'edizione Oikosdue) è pensato o almeno presupposto come lavoro «in­
teressante», creativo, con un margine di arbitrarietà e persino di gratuità;
insomma assimilato a un gioco.
A rafforzare il carattere ludico dei sistemi disegnati da Antonia Astori
interviene la considerazione linguistica. In generale, ricordando che ogni
sorta di linguaggio si fonda su un certo numero di elementi e di regole che
li combinano in molte conformazioni, si può dire che la logica stessa del
linguaggio è quella di un gioco. Ma, per uscire dall'ordine metaforico che
spesso accompagna ogni discorso sul linguaggio, notiamo che nel caso
Driade si tratta di un sistema linguistico finalizzato a sua volta a un gioco
conformativo con un accento estetico (e qui ritorna la definizione classica
di gioco con tutta la sua carica di piacere e di gratuità), per cui esso può
considerarsi il gioco di un gioco o, per così dire, un gioco al quadrato. Co­
sicché il carattere ludico dell' Oikos non va visto tanto, come s'è detto, nel­
la piacevolezza dei suoi elementi, nel suo rifarsi al tono gioioso ed essen­
ziale dei colori di De Stijl (una tendenza figurativa che deve molto alla pre­
senza dello spirito del gioco, quasi una riduzione di tutta la sua iconogra­
fia a giocattoli) , quanto soprattutto nel suo lato serio, quello in cui coesi­
stono gioco e lavoro, che trovano sul piano linguistico la loro migliore in­
tesa, la loro effettiva realizzazione.
Molteplici sono gli accenti che il gioco assume nel design di Enzo Ma­
ri. Alla base della sua operazione sta la vasta e apprezzata esperienza da lui
XVI. Il design come gioco 25 1

svolta nel settore dei giochi per bambini. Com'è stato osservato «Mari
ben dentro la cultura delle avan g uardie, sceglie la lingua che per:netta d i
operare nella maniera più articolata e funzionale, dunque la ricerca kleia­
na, e trova, in essa, una ragione per coUegare universo infantile e universo
dei grandi»l l . Anche Mari è un progettista di sistemi e questa sua attitudi­
ne precede di molto la sua collaborazione con la Driade. Sin dalle sue pri­
me esperienze, «Mari stabilisce un codice, più codici, quello delle forme,
delle strutture, quello dei segni, quello dei colori, li pone davanti ai ragaz­
zi e permette loro di organizzarli liberamente, quindi suggerisce un siste­
ma dedicato ma anche autorizza a enne infinite varianti di senso e di 'rac­
cordo' entro questo stesso sistema [ .. ] . Progettare, quindi, vuole dire pos­
.

sibilità combinatorie all'interno di un sistema dato; Mari è l'architetto, il


progettista del sistema»12. Ma oltre le peculiarità che tali sistemi hanno
avuto modo di mostrare nel progettare giochi per bambini, essi presenta­
no una serie di altre valenze: l'intento pedagogico, il riferimento simboli­
co, la dimostrazione che si può comunicare attraverso le immagini, ecc.
Quello di Mari, scrive ancora Quintavalle, «è certamente [ ] un progetto
...

per bambini, ma un progetto per bambini che diventano 'grandi', anzi che
sono adulti in potenza e che devono essere in grado di agire, compren­
dendola, nella comunicazione e nelle sue strutture nella nostra società»13.
Se queste sono le connotazioni del design di Mari nel settore specifico dei
giochi per bambini e altre caratterizzano l'applicazione divertita della sua
intelligenza di artista cupo - mi riferisco alle pregevoli prove degli oggetti
destinati agli adulti e prodotti da Danese, nonché a quelle grafiche delle
collane della Boringhieri - qual è l'accento ludico riscontrabile nei suoi
progetti per la Driade?
Oltre al divano letto Day-night, tutto il «giocare» di Mari per la Driade
assume due accenti particolari, a volte fusi insieme e forse includibili in un
terzo. Il primo può vedersi come l'estensione del suo mondo di favole a un
gioco per adulti: si vedano gli imbottiti delle serie Gambadilegno e Peco­
rella, in cui certamente anche la suggestione dei nomi contribuisce ad aval­
lare quanto affermo. Ma questo ricorso a una iconografia infantile è so­
p rattutto motivato dal programma di una figurazione estremamente ele­
mentare e dall'uso di una tecnica molto semplice. Il secondo accento ludi­
co, derivato dal primo ma tale, per così dire, da tradurre la necessità in
virtù, si può riconoscere in tutti quei modelli realizzati con materiali pove­
ri ed elementi discreti, cioè nettamente distinti l'uno dall'altro. Mi riferi­
sco alle sedie SofSo/ e Delfina (Compasso d'Oro 1 979), ai tavoli Frate, Fra­
tello, Cugino e all'altra serie di tavoli chiamati Capitello, contrassegnati da
una gamma di attacchi diversi fra piano e gambe.
Ora, in tutte queste esperienze, se è vero che la natura dei materiali è as­
sociabile alla poetica dell'Arte povera e se è vero che tutto il design di Ma-
252 Made in Italy

ri consiste nel disoccultare, nel rendere esplicito, si comprende come que­


sti prodotti presentino quale caratteristica invariante quella di una ridu­
zione del continuo al discreto, che si traduce nel fatto di rendere della mas­
sima evidenza non solo le singole parti ma gli stessi materiali coi quali cia­
scuna di esse è realizzata. Si coniugano allora lo spirito dell'Arte povera e
alcuni tipi di giochi di ragazzi; non quelli che si comprano bell'e fatti, ma
gli altri che essi si costruiscono da soli spesso utilizzando materiali ed ele­
menti trovati: la fionda ottenuta da un ramo a forcella e da un pezzo di ela­
stico; gli slittini composti da una tavola di legno e quattro ruote con cusci­
netti a sfera; i monopattini realizzati con lo stesso sistema con l'aggiunta di
un asse verticale funzionante da manubrio; le altalene in equilibrio su un
sasso, ovvero sospese a una doppia corda annodata, ecc. Non credo di er­
rare dicendo che alla base dei prodotti poveri progettati da Mari per la
Driade, ciò che li distingue dai classici modelli bauhausiani, stia il ricordo
di questi giochi popolari, stia proprio tutto questo bricolage così ingegno­
samente assemblato e conformato dai cosiddetti ragazzi di strada. Che Ma­
ri talvolta identifichi, per così dire, i suoi coi loro giochi è dimostrato dal­
la serie di mobili rustici intitolata Proposta per un 'autoprogettazione, che
doveva essere prodotta dalla Simon International. Benché irrealizzata, ta­
le proposta contiene molte suggestioni del design di Mari: la logica del si­
stema, la metaprogettazione, l'immaginario popolare, la polemica socio­
produttiva.
Questi ultimi accenti ci portano alla terza connotazione della sua opera
di designer: il rapporto fra gioco e politica. Notoriamente e come si evin­
ce anche da alcune dichiarazioni a commento dei suoi progetti per Driade,
Enzo Mari non è preoccupato solo dai problemi del suo specifico profes­
sionale ma anche da quelli più generali che lo condizionano. Di fronte al­
la latitanza dei partiti politici, dei sindacati e di ogni altra organizzazione
di interesse pubblico rispetto alla questione del design, la cultura di sini­
stra non può non riconoscere che tale questione è sostenuta solo dall'ini­
ziativa privata, anzi che nulla esprime meglio l'imprenditorialità privata
come la produzione industriale legata alla cultura del design. Ma come
conciliare questo dato di fatto con gli auspicati rinnovamenti nella gestio­
ne degli strumenti di produzione, con la critica spesso legittima di tante di­
storsioni che emergono nel rapporto fra produzione e consumo, con la
speranza che almeno il progetto, superando la logica del puro profitto, non
si faccia azione più ampia e socialmente coinvolgente? Nella contraddi­
zione che nulla sembra volgersi verso più radicali riforme mentre l'impre­
sa privata, con tutti i suoi limiti, costituisce l'unica possibilità di lavoro e di
espressione, la cultura di sinistra, per ciò che attiene al design, sembra non
trovare altro modo di coesistere con la «forza delle cose», se non facendo
ricorso alla dimensione del gioco. Caduta l'utopia di sostituire il mondo
226-227 . B. Sipek, oggetti della collezione Fol!ies per Driade, 1 994.
228. B . Sipek, dormeuse Prosim Sni per Driade, 1987.
254 Made in Italy

della prestazione con quello del gioco, i designer di sinistra sembrano ora
accettare lo stato di fatto con quelle inevitabili riserv.e, con quella vena di
dubbio e di scetticismo, quel distacco che solo un gioco partecipe, ma pur
sempre un gioco, può consentire.
Queste considerazioni sul rapporto gioco-politica possono estendersi
all'opera di altri designer della Driade, configurandone un ulteriore, ine­
dito aspetto: oltre a Enzo Mari, penso a Paolo Deganello e a Massimo Ma­
rozzi, entrambi ex-membri del gruppo Archizoom, peraltro essendo il pri­
mo progettista di modelli dall'indubbia vena ironica e il secondo autore
del letto Blbz' Blbò, il prodotto più vicino al gioco tra quelli che figurano
nel catalogo dell'azienda.
Con diverse motivazioni, indubbiamente più elitarie, sono gli oggetti
Driade datati agli anni Novanta, tra cui i più emblematici ci sembrano
quelli della collezione/o!lles. «Il termine/ollles, nato nel Settecento per de­
signare gli edifici fantastici ambientati nei parchi inglesi, ben si addice qua­
le titolo-tema a una collezione in cui i designers hanno puntato specifica­
mente sulla creatività e sui valori comunicativi capaci di investire l'oggetto
di un forte potere di attrazione. Lungo tale linea, Philippe Starck si muo­
ve scegliendo il gioco degli inganni che l'arte dell'arredare da sempre affi­
da alle trasparenze e alle superfici speculari. Componendo quindi in di­
verse posizioni un cono blu cobalto in un terso contenitore di cristallo, il
designer affronta quattro esercizi formali mediante i quali sovverte i tradi­
zionali canoni con cui siamo abituati a disporre i fiori nei vasi. Oscar Tu­
squets, associando alla rigorosa linea del design classico l'ironia e la con­
sumata arte del civettar celando, crea bottiglie, tazzine, teiere dall'intri­
gante sagoma antropomorfa, oppure tinge di rosso la base degli elementi
di un elegante servizio in porcellana bianca sì che il colore si sveli solo at­
traverso il riflesso proiettato sulla tovaglia. David Palterer, dal suo canto,
sperimenta la capacità che hanno le forme di contorcersi e intrecciarsi nel­
lo spazio, di esplodere come bolle di un magma incandescente, e di pro­
rendersi per raccogliere un raggio di luce capace di rivelare levigate iride­
scenze e ruvidi intagli. Borek Sipek, infine, nel presentare una vasta gam­
ma di proposte, offre l'occasione di commentare non solo il significato del
proprio contributo, ma anche quello dell'intera collezione /ollles»14.

Il gioco tra mlnlmallsmo e «high-tech»

Abbiamo visto in precedenza ciò che caratterizza l'una e l'altra delle


due tendenze stilistiche più significative del nostro tempo. Esiste tuttavia
un'area in cui esse concorrono a formare palesemente una sintesi. Si tratta
del gioco di quei prodotti che usano nuovi e speciali materiali per attene-
229. A. Meda, tavolo Dry per
Alias, 1 987.
230: A. Meda, sedia Light-Light
per Alias, 1 987 .
23 1 . M. Ferreri, sedia Less per
Nemo, 1 993 .
256 Made in Italy

re, tra l'altro, una insolita leggerezza, una trasparenza, un cambiamento di


colore. .
Emblematica del gioco come sintesi di tecnologia e gusto minimali­
sta può considerarsi buona parte della produzione di Alberto Meda; pen­
so in particolare alla serie Light progettata per Alias. Si tratta della sedia
Light-Light dell'87, di una seconda intitolata So/t-Light dell'89 e del tavo­
lo XLight dello stesso anno. Obiettivo generale del programma è trasferi­
re in ambito domestico una materia tecnologica ad alta prestazione qual è
la fibra di carbonio. Nella prima sedia «la stessa trattazione del materiale
nelle fasi produttive svela una natura artigianale, una naturale inclinazione
a essere lavorato manualmente secondo tecniche antiche che ricordano le
abilità del sarto o la lavorazione della cartapesta, più che una meccanizza­
zione asettica e robotizzata. La struttura a nido d'ape in Nomex viene in­
fatti ricoperta con il tessuto in fibra di carbonio che riveste il tutto grazie
a uno strato adesivo che lo fa aderire; una serie di 'pelli' di carbonio stra­
tificate vengono disposte seguendo le differenti direzioni delle linee di
sforzo e sollecitazione al peso; in seguito queste sono compattate dalla re­
sina e il tutto viene finito con un passaggio che sottopone il sandwich in
composito a un'azione di sottovuoto per comprimere tutti gli strati che lo
compongono»15.
Nella seconda sedia, la So/t-Light dell'89, al citato p rogramma generale
si aggiunge la razionalizzazione del taglio, della disposizione dei tessuti e
del nido d'ape durante le fasi di laminazione. Rispetto al precedente mo­
dello, la So/t-Light presenta il sedile e lo schienale affidati a bande di Dy­
metriol, un tessuto utilizzato per sedili di automobili. Meno significativo,
per la presenza di materiali più tradizionali, è il terzo prodotto della serie,
il tavolo XLight. Né la componente del gioco si limita a perseguire una leg­
gerezza che vale come intelligente sperimentazione ma praticamente inu­
tile. La sedia Light-Light, oltre a pesare qualche etto in meno delle altre,
presenta anche una immagine ironica, non so quanto consapevole: essa ri­
corda alcune sculture di Picasso e segnatamente quella della «testa di to­
ro» formata da un manubrio e da un sellino di bicicletta.
La ricerca come gara per raggiungere la maggiore leggerezza possibile,
ancora sintesi di minimalismo e high-tech, si riscontra nella sedia Less pro­
gettata da Marco Ferreri. Essa presenta una foggia assai semplice ed es­
senziale, come del resto dice il nome, che si avvale però di un artificio:
sfruttando le proprietà di leggerezza del legno associato ai materiali plasti­
ci, il sedile e la fascia dello schienale accolgono tra due superfici di legno
un sottile cuscino elastico. Un analogo connubio tra le due tendenze in esa­
me è la sedia Laleggera di Riccardo Blummer, che utilizzando la tecnologia
degli alianti realizza una seduta in tamburato di legno schiumato.
Un'altra specie di gioco, questa volta come misto di natura e artificio,
232-233 . C. Forcolini, Libreria Ran e Toletta Buiiuel per
Alias, 1 987 .
234. C. Forcolini, tavolo Apocalypse Now per Alias, 1984.
258 Made in Italy

vanno considerati numerosi altri prodotti: tra i più curiosi è il già citato ta­
volo di Forcolini, Apocalypse now, di cui è stato scr_itto: «mi sono chiesto
perché Carlo ha dato un nome così impegnativo al disegno di questo mo­
bile [. .. ]. Come se chi lo ha progettato, immaginato e disegnato, volesse in­
dicare qualcosa al di là della sua funzione, raccontare qualcosa che deve
pur avere un qualche riferimento al titolo di quel famoso film al quale si ri­
chiama esplicitamente. Il piano di questo tavolo è costituito da una lastra
di acciaio speciale che si chiama corten. È un metallo autossidante. L'ossi­
do rugginoso che si forma sulla sua superficie protegge la struttura inter­
na. Questo fenomeno conferisce alla superficie un aspetto particolare, il
colore dell'ossido cambia col tempo e assume infinite tonalità di rossi e
bruni, macchie più scure che virano verso il blu nero, altre più chiare che
si raggrumano in forme bizzarre. Avviene qualcosa su questa superficie
scabra e volutamente accidentata. Sospesa nel centro una lampada scher­
mata da una calotta conica illumina il piano con una luce circolare, dai
margini sfumati. Uno stelo di luce accende come un faro la notte di una su­
perficie lunare. Ecco che cosa succede, il piano sembra diventare suolo, un
deserto di metallo, il bordo tagliente del tavolo definisce un confine so­
speso, sotto il tavolo un sottosuolo di travi che lo sostengono e di fili che
alimentano la sua luce. Tutti i minacciosi elicotteri di 'Apocalypse Now' si
sono trasformati in una specie di modulo volante che è atterrato nel nostro
comodo salotto buono, uno strano veicolo per viaggi dell'immaginazione
con un nome un po' ingombrante»16.
Un altro designer classificabile nello stile del gioco, nel suo caso in equi­
librio tra minimalismo e ironia, è il fantasioso Philippe Starck. Tra le sue
stravaganze è quella di attingere da un libro di fantascienza, Ubik di Ph.K.
Dick, in quanto i nomi di molti suoi modelli sono corrispondenti ad al­
trettanti personaggi del romanzo. I pezzi migliori disegnati per Driade so­
no, a mio avviso, quelli caratterizzati da una valenza figurativa. Così lo sga­
bello Sarapis, apparentemente pensato solo in termini funzionali, richiama
al tempo stesso - come già la sedia Light-Light di Meda - immagini famo­
se quali il sellino-manubrio di Picasso e altre di marca dadaista e surreali­
sta. Così il tavolo pieghevole Titos Apostos a tre gambe, ciascuna delle qua­
li reca una sorta di squadro zoomorfo, è probabilmente ispirato alle ali di
una farfalla. Un secondo tavolo, anch'esso pieghevole e intitolato Tippy
]ackson, con le sue tre gambe curve e i suoi tratti rettilinei, allude alla strut­
tura di un ragno; ripiegandosi si riduce ad un netto ed essenziale segno gra­
fico, come nota Vanni Pasca, il quale così si esprime in un giudizio com­
plessivo sullo stile di questo designer: «tra essenzialità funzionale e spae­
samento formale, piacere dell'invenzione e poeticità surreale, 'gadget' tec­
nologico e raffinatezza del gusto, il metodo progettuale di Starck attraver­
sa il 'moderno' con disincanto [. .. ] È forse proprio in questa ambiguità sot-
235. H. Wettstein, sedia
]u!iette per Baleri Italia.
236. Ph. Starck, poltrona
Rzchard III per Baleri Italia,
1 985.
237. Ph. Starck, particolare
del tavolo President M
per Baleri Italia, 1 984.
260 Made in Italy

tile, in questa dichiarata 'disgiuntività', che sta l'attualità del fascino e del
successo degli oggetti di Philippe Starck»17. Ma eh� significa attraversare
il moderno? Alcuni di questi mobili possono persino ricordare quelli del
Bauhaus, magari facendone il verso, com'è il caso della sedia Von Vogel­
sang; altri, e lo abbiamo già notato, rievocano esiti dadaisti e surrealisti; al­
tri ancora rispolverano la vasta iconografia zoomorfa che per secoli ha ispi­
rato l'arte del mobiliere. Il tutto senza concedere molto al gratuito, all'ir­
razionale e all'arbitrario. Grazie a Starck possiamo ancora parlare in ter­
mini di forma-funzione con tutte le implicazioni introdotte nel binomio
dall'avanguardia storica e tutte le negazioni di esso affermate dalla neoa­
vanguardia. C'è in questi modelli la prova o almeno l'ipotesi di una nuova
sintesi? Forse. Certo è che per merito del loro autore ci troviamo nuova­
mente in presenza di oggetti che sono ad un tempo conformazione e rap­
presentazione. Né va infine taciuta la «povertà» dei mezzi adoperati (iro­
nizzata peraltro dalla verniciatura in oro e argento) che dovrebbe portare
ad una maggiore fattibilità produttiva e al tanto auspicato basso prezzo.
Quanto ai prodotti «giocati» tra semplicità di linee e materali traspa­
renti e colorati, esemplari sono la sedia Victoria Ghost (2006) dello stesso
Starck, espressiva anche di un'ironia neostorica, e la serie dei tavoli ]olly
(2003 ) progettata da Paolo Rizzatto, entrambe per la Kartell. Apparten­
,

gono al tipo di gioco che intitola il presente paragrafo quei prodotti che
vanno oltre la leggerezza e tendono addirittura alla dematerializzazione
mediante la riduzione di spessori, l'adozione di trasparenze e di superfici
ampie in colori chiari; si pensi ai prodotti di Antonio Citterio per B &B o
per Flexform, quelli di Piero Lissoni per Porro o quelli di Jean Nouvel per
Uniform.
Di tipo letteralmente opposto è il gioco introdotto nei progetti di Gae­
tano Pesce. L'effetto sorpresa caratterizza la scoperta dei suoi oggetti ed è
l'elemento immateriale su cui Pesce agisce per introdurre l'aspetto Iudica
dell'esperienza. La sorpresa è ottenuta sia attraverso le proprietà fisiche e
sensoriali dei materiali sia attraverso la destabilizzazione tipologica: non
più sedie con la forma di sedie, ma ombrelli che diventano sedie. A pro­
posito del progetto dell' Umbrella Chair afferma: «era una cosa che mi in­
teressava per l'idea di questo ombrello che diventava sedia, l'idea di ibri­
do, come I Feltri, che sono poltrone che assomigliano a delle giacche»18.
«L'ibridazione rappresenta una delle strategie più efficaci per suscitare
l'effetto sorpresa, ma anche per stimolare, con autocompiacimento, la
mente e la propria capacità di comprensione. Un po' come accade ai bam­
bini quando riescono a scoprire il corretto modo di utilizzare un gioco. Es­
sendo un creativo multidisciplinare, Pesce riesce a realizzare le ibridazioni
giocando su diversi terreni»19.
238. Ph. Starck, sedia Victoria ghost per Kartell, 2006.
2 62 Made in Italy

Il gioco antropomorfo

Che i prodotti del design, specie quelli più a contatto con la persona,
abbiano una relazione col corpo umano è cosa scontata. Lo è meno se si
considerano i modi e le forme di tale relazione, sia attraverso il tempo del­
la storia, sia nellè varie tipologie, sia grazie alle varie tecnologie chiamate
in causa oggi, sia infine per l'accentuazione semantica che alcuni designer
vogliono conferire ai loro oggetti: sedie, poltrone e divani, lampade, indu­
menti, specie quelli per lo sport, moto, biciclette, ecc. Quella antropo­
morfa è una linea nettamente distinta da tutte le altre, intrinsecamente Iu­
dica, ed essendo riscontrabile come una riconoscibile invariante nei più di­
versi articoli merceologici, deve logicamente costituire uno stile.
Una prima interpretazione di quest'ultimo potrebbe essere di tipo pros­
semico. Com'è noto, la prossemica è una disciplina derivata dalla semioti­
ca e proposta alla metà degli anni Sessanta da Edward T. Hall, che studia
il «significato» delle distanze poste dall'uomo fra sé e i suoi simili e/o fra
sé e gli oggetti di cui si circonda nella vita quotidiana. Ponendo l'accento
sul significato della distanza spaziale, dal rapporto erotico all'urbanistica,
tale disciplina s'interessa prevalentemente degli aspetti comunicativi, se­
mantici, semiotici, linguistici e per essi sociali del problema, tant'è che la
classificazione adottata dall'autore americano si fonda su quattro tipi di di­
stanza: quella intima, quella personale, quella sociale e quella pubblica.
Nella nostra esposizione possiamo solo parzialmente seguire la linea di
Hall: anzitutto perché non è soltanto il problema del significato della di­
stanza fra l'uomo e gli oggetti che ci interessa, quanto soprattutto quello
della forma che questi ultimi assumono in relazione alla distanza con l'uo­
mo. Si tratta in sostanza, accantonando temi sociali e comportamentistici,
di accogliere il suggerimento della distanza e di trasferirlo dal campo del­
la significazione a quello della conformazione. Ma per effettuare questo
passaggio è necessaria un'altra distinzione fra i nostri e i criteri di Hall.
Nella prossemica vera e propria si dà per nota e definita tanto l'entità del
soggetto quanto quella dell'oggetto, la distanza significando il loro rap­
porto. Nel nostro caso, mentre si dà per nota la struttura del soggetto-uo­
mo, anzi sulla sua capacità percettiva si fonda gran parte del nostro ragio­
namento, non si dà affatto per scontata quella degli oggètti. Conosciamo o
possiamo acquisire sì le loro valenze estetiche, funzionali e tecniche, ma
pur essendo necessarie esse non sono sufficienti per una definizione
morfologica.
Pertanto i tipi di manufatti da includere in ciascuna categoria vanno, in
prima istanza, riconosciuti proprio dalla nozione di «distanza» o, meglio,
dalla «distanza-funzione» dal fruitore: a questa si deve in gran parte la for­
ma degli oggetti. In tal modo riteniamo, per un verso, di accantonare il
239. R. Arad, poltroncina Little Alberi per Moroso, 2000.
240. R. Arad, libreria Bookworm per Kartell, 1994 .
24 1 . C. Weisshaar, tavolo Countach per Moroso, 2005.
242 . R. Arad, divano Victoria & Alberi per Moroso, 2000.
264 Made in Italy

problema della comunicazione del significato in quanto non pertinente il


nostro argomento e, per un altro, di superare il mero funzionalismo in
quanto, grazie alla distanza-funzione, attribuiamo a ciascun oggetto o
gruppo di oggetti un principio conformativo antropologico-spaziale; una
sedia, per esempio, non va considerata per la sua specifica utilità (un og­
getto che serve pe'r ), ma per la sua forma-contatto col corpo umano, in una
classificazione più ampia, quella di tutti gli oggetti che «sostengono» tale
corpo.
Assunta la nozione di distanza-funzione come parametro dello stile an­
tropomorfo, almeno per quanto concerne le indicazioni fornite dalla pros­
semica, al primo posto in una ideale classificazione andrebbero collocati
gli indumenti che indossiamo, la cui distanza dal nostro corpo è minima,
quasi una sua interfaccia, se non addirittura un suo stampo. Al secondo
posto andrebbero collocati i mobili, specie sedie e poltrone, con i quali sta­
biliamo uno spazio «contatto»; quindi andrebbero classificati i p rodotti
resi antropomorfi perché in contatto solo con una parte del nostro corpo:
posate, bicchieri, tazze, oppure maniglie, telecomandi e simili; ad un livel­
lo successivo andrebbero posti prodotti quali sci, biciclette, moto, ecc. in
cui, oltre la componente prossemica va considerata quella relativa al dina­
mismo: più avanti, nell'esemplificare queste merceologie citerò i modelli
più significativi del design italiano contemporaneo.
Precedenti dello stile che studiamo sono gli arredi del Settecento, il se­
colo in cui, specie con il Rococò, l'arredamento sembra prevalere sulle al­
tre arti sussumendole tutte. È in quest'epoca che il corpo, sia nell'accezio­
ne meramente fisica, sia in quella che rimanda alla significazione, diventa
il centro di ogni moto del gusto, di ogni manifestazione del costume. Alla
grande manière, che aveva contrassegnato il Barocco, specie in Francia, su­
bentra la douceur de vivre; a un atteggiamento di classico e razionale idea­
le eroico se ne alterna un altro prettamente edonistico, rivolto al piacere fi­
no al libertinaggio; l'austero pittore Le Brun lascia il campo al sensuale
Watteau e al disinibito erotismo di Boucher e di Fragonard. Nell'arreda­
mento si afferma il principio della convenance, da intendersi come il fun­
zionalismo di allora, grazie al quale sedie, poltrone e divani aderiscono tan­
to alla forma del corpo umano quanto al costume del tempo. Infatti alcu­
ne delle principali fogge di poltrone settecentesche - la cabriolet, la più im­
bottita bergère - hanno i braccioli rientranti rispetto al filo anteriore del se­
dile per consentire alle dame di sedere senza danno per le loro larghe ve­
sti con sostegni a «paniere». Analogamente gli schienali sono alti al punto
giusto affinché la dama possa poggiare le spalle senza rovinare l' acconcia­
tura dei capelli. La bergère presenta numerose varianti fra cui la «confes­
sionale», così detta per il suo schienale limitato in alto da due «orecchie»,
per poggiarvi il capo, e la voyeuse o pointeuse. Si tratta di una poltrona dal-
243 -245. T. Kita, poltrona Wink per Cassina, 1 980.
2 66 Made in Italy

lo schienale piatto, sormontato da un piccolo ripiano anch'esso imbottito,


che consentiva a una persona in piedi di appoggiarsi da dietro per unirsi
alla conversazione o puntare una posta in una partita a carte, donde il dop­
pio nome del modello. Dalla poltrona bergère deriva altresì la vasta serie
dei divani: il canapé à corbezlle, una dilatazione della citata poltrona per ac­
cogliervi più persone; la veilleuse, un divano che presenta uno dei suoi la­
ti corti del tutto simile alla bergère vista di profilo, ma con la variante di
avere un solo bracciolo mentre l'altro diventa un lungo schienale, via via
decrescente in altezza fino a raggiungere l'altro lato, ora senza più brac­
cioli. Oltre a proteggere con la sua parte più alta la testa e con la sua parte
più bassa i piedi della persona che giace distesa su un unico morbido cu­
scino, la veilleuse costituisce forse il modello più dissimmetrico e antropo­
morfo di tutta la produzione del tempo. Il tipo di divano descritto può
inoltre considerarsi una sintesi delle diverse versioni di poltrona con pro­
lunga per poggiarvi le gambe: la chaise longue duchesse, una bergère con
poggiapiedi; la duchesse brisée, ossia un mobile a tre pezzi, composto da
una poltrona a spalliera alta, un poggiapiedi e ancora una poltrona a spal­
liera bassa, ecc. Tanto grande è stato il successo della chaise longue du­
chesse che, nata nella linea del gusto rococò, si ritrova negli stili posteriori,
dal neoclassico ai giorni nostri: si pensi ad alcuni divani disegnati da De­
ganello, già citati in un precedente capitolo. Un altro modello antropo­
morfo ispirato alla chaise longue duchesse è quello disegnato da Borek Si­
pek per Driade nell'87 , classificabile anche nei modelli polimaterici per
l'uso dell'acciaio nella struttura, della gommapiuma, della pelle e del le­
gno. La più recente versione della chaise longue duchesse può riconoscersi
nella seduta Landscape '05 di J offrey Bernett del 2005 per B&B.
Un richiamo al Settecento - la presenza delle «orecchie» della bergère
«Confessionale» - mostra un'altra poltrona imbottita in forma antropo­
morfa, la Wink di Toshiyuki Kita per Cassina del 1 98 1 , ma si tratta di un
improbabile ricordo. Qui le parti laterali alla spalliera sono in funzione
dell'articolazione di questo originalissimo modello. Di esso si legge in una
pubblicazione del '90: «il mobile che merita la denominazione di classico
degli anni Ottanta e che può essere considerato una delle più significative
creazioni del decennio è opera di un giapponese. Il suo geniale progetto fu
realizzato, però, insieme alla ditta italiana Cassina. Il designer giapponese
Toshiyuki Kita non solo si è guadagnato di sicuro un posto nelle sacre sa­
le del museo di arte moderna, ma ha anche realizzato un colpo nel mondo
del design di produzione con la sua poltrona Wink che tramite le articola­
zioni mobili interne può essere collocata proprio come il corpo umano, in
posizione sdraiata o seduta e che, per di più, può scrollare le 'orecchie'. n
suo più elegante parente borghese, il sistema-veranda sviluppato da Cassi­
na [Magistretti disegnò nell'83 un divano intitolato Veranda] , può essere
XVI. Il design come gioco 267

mosso con le articolazioni interne, come anche i divani di Arflex ma non


eguaglia l'amabile originalità dell� bizzarra poltrona con gli or� cchioni.
Nel caso di Wink, le cose vanno come di solito per tutte le invenzioni. Le
prime soluzioni, quando l'idea è ancora fresca e illuminata, sono per lo più
le migliori e le più coerenti. Una Wink, come una sedia Thonet o una Frei­
schwinger, la si può variare ma non la si può migliorare»20.
Ritornando ai precedenti antropomorfi ereditati dalla tradizione, il de­
sign di oggi non è solo debitore verso il Settecento; pensiamo ai «mobili
brevettati» dell'Ottocento che richiamarono l'interesse di Giedion. Dopo
aver notato che, rispetto al gusto dominante dell'Ottocento, l'altra faccia
del secolo è rappresentata dalle costruzioni degli ingegneri e dai mobili
brevettati, egli dichiara questi ultimi meglio rispondenti, con la loro tra­
sformabilità e funzionalità, alle esigenze dei ceti medi in ascesa. Si soffer­
ma pertanto su alcune considerazioni di carattere tecnico. «Il mobile vie­
ne scomposto negli elementi singoli: si tenta, nei limiti delle possibilità, di
adattarlo al corpo umano. Non è un caso che il problema degli arti artifi­
ciali attiri nell'identico momento tanto interesse. I piani, sezionati in ele­
menti, vengono collegati e regolati da un congegno meccanico [ . . . ] il mo­
bile ha cessato di essere uno strumento inerte. Esso può adempiere con­
temporaneamente a parecchie funzioni. [ ... ] Ottenere if comfort con un
adattamento attivo al corpo e non offrendo cuscini, in cui il corpo sprofon­
di passivamente, rende evidente la differenza che intercorre fra i mobili es­
senziali e quelli transitori del secolo passato»21 . I mobili brevettati sono
prodotti soprattutto negli Stati Uniti e si possono distinguere in tipi desti­
nati a nuove esigenze e in tipi tradizionali realizzati con nuove soluzioni. I
p rimi comprendono poltrone articolabili e trasformabili per invalidi, per
studi medici - come quelli dei dentisti -, per barbieri; sedili ribaltabili per
vagoni ferroviari o per scuole e laboratori; interi arredi per vagoni letto,
ecc. I secondi comprendono poltrone con struttura metallica trasformabi­
li in divani, letti, poltrone a dondolo, letti che, per economia di spazio, si
combinano con divani, armadi, scrivanie.
Appare evidente che in questa categoria di mobili la componente Iudi­
ca si trasforma in una esplicitamente dinamica: «nei mobili brevettati, il
problema fondamentale è un problema di movimento. Pressappoco fra il
1 850 e il 1 893 , gli Americani disponevano di una fantasia quasi inesauri­
bile per quanto riguardava i vari modi di risolvere, nel mobile, i problemi
del movimento. Talvolta non approfondivano neppure a quale scopo par­
ticolare dovesse servire una seggiola, ma intendevano semplicemente sco­
prire un nuovo meccanismo, cioè in quale maniera si potesse dare al sedi­
le un'inclinazione all'indietro o in avanti, e successivamente fissarla. L'uf­
ficio americano dei brevetti fu costretto a stabilire una speciale categoria
per le seggiole inclinabili. Pur essendo molteplici i metodi, le soluzioni di
2 68 Made in Italy

movimento non sono ovvie. Anche nei mobili europei dopo il 1 920 s'im­
pose un adattamento alla forma del corpo umano. Ma la scomposizione in
piani mobili manca nella maggior parte dei casi. E quindi si resta immobi­
lizzati nella posizione del telaio e non si viene riportati ( come accade inve­
ce nella poltrona da barbiere americana) dalla posizione da sdraiati in
quella normale che rende naturale l'alzarsi in piedi. [ .. ] L'America, pur
.

partecipando alle grandi Esposizioni mondiali europee dal 1 85 1 al 1 889,


non si vergognava dei suoi mobili 'antiartistici', che sfiguravano di fronte
ai pezzi da parata europei»22.
Non è chi non veda come tutta l'ampia produzione high-tech di sedie
per ufficio non derivi direttamente dal settore indagato per primo da Gie­
dion. Qui non ci resta che segnalare qualche attuale modello italiano cor­
rispondente alla tendenza indicata dallo storico svizzero, come ad esempio
l'Isotron, apparecchiatura odontoiatra della Giugiaro Design per la Euro­
dent Industrie Spa, premiata con il Compasso d'Oro del 1 99 1 .
Passando alla linea antropomorfa legata ai materiali, l'influenza delle
materie plastiche è notevole ai fini delle opere di questo stile. Intanto, già
dalla loro iniziale conformazione, le plastiche non presentano una struttu­
ra propria ma acquistano forma da uno stampo, a sua volta ideato per
conformare un prodotto in molti casi antropomorfo. Il campo d'elezione
è quello già citato delle sedie, poltrone e divani. Questo, nel settore degli
imbottiti, acquista aderenza col corpo, grazie soprattutto alla morbidezza
dei cuscini o dell'imbottitura; le sedute di plastica invece svolgono la stes­
sa funzione grazie escusivamente alla loro forma modellata ad hoc e non si
possono modificare ad opera dell'utente. Le più belle e comode sedie e
poltrone in plastica, dalla Melanza di Rodolfo Bonetto per la Driade alla Se­
tenia di Vico Magistretti per Artemide, entrambe del '69, dall'intelligente
proposta della sedia Cattedrale di Afra e Tobia Scarpa del '68 per B &B al
modello 4850 in abs di Giorgina Castigliani del '70 per Kartell, dal mo­
dello 4854 di Gae Aulenti del '72 ancora per Kartell alla Vicario di Magi­
stretti del '70 per Artemide, costituiscono solo un piccolo qualificato cam­
pionario di una produzione tutta orientata ad ottenere il massimo del
comfort con sedute realizzate nella sola plastica a stampo. Un tappezziere
ottocentesco e/o un ingegnere progettista di mobili «brevettati» non
avrebbe puntato un soldo sul comfort di questa produzione novecentesca,
in parte non del tutto sbagliando perché, nonostante l'ergonomia e l'an­
tropometria, i modelli costruiti in plastica a stampo non consentono nes­
suno dei cento movimenti e aggiustamenti di una persona seduta su un
mobile imbottito o movibile meccanicamente.
Oltre che nel mobilio, le plastiche antropomorfe si addicono alla forma
di molti altri generi di prodotti domestici, già citati nella nostra ideale clas­
sifica prossemica, dagli apparecchi igienici alla vasta serie di contenitori e
246. G. Pesce, sedie Dalila uno, due, tre per Cassina, 1 980.
247 . G. Pesce, poltrone Feltri per Cassina, 1987 .
270 Made in Italy

bottiglie, dalle maniglie di porte e finestre a tutto ciò che è maneggiabile:


telefoni, telecomandi, pulsantiere, ecc. Ma le potenzialità delle materie
plastiche non si limitano agli usi finora citati; esse, come vedremo, sono
presenti anche nel campo rappresentativo, persino «espressionistico», del
design.
Com'è stato osservato, «oggi la plastica sta cambiando: seguendo un
processo evolutivo assolutamente unico,.essa abbandona l'universo super­
tecnologico che l'ha generata per lasciarsi manipolare con spirito artigia­
nale. [ . . . ] Le ricerche di Gaetano Pesce [ . ] sono volte alla scoperta delle
. .

qualità intrinseche del materiale, nei confronti del quale vi è un atteggia­


mento a-tecnologico. Esso viene spinto a rivelarsi nella sua tridimensiona­
lità, la traslucenza viene sfruttata per accrescere le sue qualità 'sferiche', la
massa viene lasciata libera di aggregarsi, generando superfici di volta in
volta lisce o ruvide, piane o corrugate, rigide o morbide, spesso sottili»23 .
La deformazione espressionista, ancora una volta ironica e Iudica, del­
la plastica (con un effetto simile a quando si bruciano, liquifacendosi, i ma­
nici delle pentole) e quella delle forme antropomorfe costituiscono la «ma­
teria prima» di molte opere di Pesce: si pensi alla serie di sedie e poltron­
cine Dalila uno, due e tre, prodotte da Cassina nell'SO. Quanto alle forme
antropomorfe, è stato notato che l'uomo cui egli pensa non è quello ag­
graziato del Rinascimento, bensì un altro, primitivo ma traboccante di vi­
talità di cui è interessante svelare ciò che nel suo corpo normalmente si na­
sconde, come il sesso, le imperfezioni e la deformità. Quest'ultima, sostie­
ne Martino, «riallacciandosi alla poetica del difetto, da lui tanto sostenuta
a supporto della teoria della serie diversificata, è fortemente rappresenta­
ta all'interno delle sue opere. Emblematico in questo senso il progetto del­
la sedia Green Street Chair, prodotta da Vitra nel 1 984: un essere deforme,
a otto zampe, con due fori circolari che ricordano due occhi profondi e un
altro quadrangolare che diviene una bocca [ ... ]. Infine, nei più recenti mo­
bili Nobody's Perfect, prodotti dalla Zerodisegno, alla simmetria dei falsi
occhi nello schienale della poltrona si oppone una variazione cromatica
che introduce l'irregolarità»24.
Ma che cos'è la poetica del difetto o del «mal fatto»? Nel catalogo che
accompagnava la mostra al Centre Georges Pompidou,. Le temps des que­
stions, del 1996, Pesce dà in parte una risposta all'interrogativo: «Noi tut­
ti sappiamo che la mano d'opera sapiente ed efficace che esisteva in altri
tempi è scomparsa con la sua epoca o, lì dove esiste ancora, è molto rara e
molto costosa. Riconoscendo agli uomini il diritto di guadagnarsi da vive­
re, dobbiamo sottolineare che il settanta per cento della mano d'opera
mondiale possiede un saper fare elementare, primitivo, dove le prestazio­
ni danno risultati non soddisfacenti. Creativi e insegnanti devono prende-
248. F. De Sanctis e U . Sterpini, poltrona Lunare, 1 964 .
249. Cristalliera in noce con sportelli Fiat 600 e zampe
in legno intagliato.
272 Made in Ita!y

re in considerazione questa povertà di esecuzione nei progetti architetto­


nici e nelle persone che creano gli oggetti»25 ..
Adattarsi alle reali capacità della manodopera non significa rinunciare
ad ogni ricerca qualificativa del design. Secondo l'autore, «Se il progettista
ricorre al 'fatto male', bisogna pur saperlo interpretare e trasformar!o
spontaneamentè al fine di tirarne fuori dei risultati altamente espressivi,
meno rivolti alla bellezza tradizionale e astratta del passato, ma più rap­
presentativa del presente e, a mio giudizio, del futuro. [. .. ] Il punto è am­
mettere una regola d'arte che contenga l'errore. Perché ammettere l'erro­
re significa liberare la materia delle sue possibilità espressive e permettere
a una mano d'opera anche non qualificata di lavorare secondo le sue ca­
pacità. Significa inoltre abbassare i costi e rientrare in un discorso di eco­
nomia»26.
Certo, resta il sospetto che Pesce adatti la sua natura di radicale anti­
conformista, ricercatore a tutti i costi della diversità, sia pure mediante la
«serie differenziata», ad una reale condizione socioculturale, ma è diffici­
le dargli torto quando sostiene che «il nostro futuro sarà il 'fatto male' cui
dovremo comunque fornire una vita poetica [. .. ] . Inutile seguire un ideale
di bellezza che poi nessuno sa realizzare o nessuno può comprare»27. Ciò
che osserva questo progettista conferma, da un lato, la natura paradossale
del design contemporaneo e, dall'altro, il punto limite cui può giungere la
concezione Iudica-antropologica di esso.
Accanto alle plastiche, un altro materiale utile ad uno stile non geome­
trico è la lamiera stampata che da sempre ha trovato impiego nel car design,
ed oggi in modo più antropomorfo, in quello degli scooter e delle moto.
Rispetto alle biciclette, dove prevale nettamente la forma meccanica su
quella antropomorfa, scooter e moto presentano uno strano connubio tra
le due linee, dovuto evidentemente alle influenze del gioco sui moti del gu­
sto. Specie nei modelli più recenti, alle parti meccaniche - motore, ruote,
sospensioni, manubrio coi suoi accessori - si sovrappone una parte dove
più diretto è il contatto con la persona che guida, totalmente modellata sul­
la forma del suo corpo. La distinzione che abbiamo fatto in altri capitoli
fra «discreto» e «continuo», nel caso in esame raggiunge il culmine di es­
sere presente in uno stesso prodotto. Si aggiunga che già da qualche anno,
specie nelle moto, il sellino posteriore, notevolmente più in alto rispetto al­
la seconda ruota, è sorretto a forte sbalzo da un braccio posto al disotto
della sella anteriore. Si veda, quale esempio, la Multistrada 620 della Du­
cati. Questa aerodinamica, qui dovuta alla posizione delle parti, altrove, a
cominciare, come altro esempio, dallo scooter Malaguti Spider Max 500,
anch'esso del 2004, è accentuata dalla forma a «spigolo sfuggente» dello
stesso disegno delle parti, ivi comprese quelle più meccaniche. Non è dif­
ficile associare questi segni e simboli della velocità ad alcune icone del Fu-
XVI. Il design come gioco 27 3

turismo: penso in particolare alla famosa scultura di Boccioni, Forme uni­


che nella continuità dello spazio, in'cui ciascun muscolo dell'uomo in cor­
sa si deforma nello sforzo dinamico, appunto, in spigoli sfuggenti.

Il grottesco nel design

Che sia il sonno o il sogno della ragione a generare mostri, entrambe le


interpretazioni riguardano il design. Nell'arte il «mostruoso» c'è da sem­
pre: le antiche decorazioni romane, ribattezzate grottesche negli anni del
Manierismo; le sculture delle cattedrali gotiche; l'opera di Hieronymus
Bosch; il bosco di Bomarzo e altre manifestazioni appunto manieristiche;
una componente dell'Espressionismo, del Surrealismo e via via fino alla
Body Art. Per ciò che attiene al design si può dire - tranne le forme del
kitsch, del quale non tutti però si accorgono - che finora non è stato ab­
bastanza invaso dal mostruoso. Ma con buona probabilità esso avrà ben
presto una larga presenza. Del resto, già alcune opere di Gaetano Pesce
tendono al grottesco. L'origine del fenomeno va vista nei fumetti, negli
«effetti speciali» filmici e televisivi, nell'iconografia degli Ufo, degli ani­
mali preistorici, di molte specie di esseri viventi scelti fra 'i più sgradevoli:
i serpenti, le rane, le tartarughe, peraltro deformate, ingigantite, rese più
violente e aggressive di quanto non lo siano in realtà.
Perché tutto questo immaginario - termine da intendere nel doppio
senso di iconografia e di parto della fantasia - ha avuto e sta avendo tanto
successo? Come ho notato in altra occasione, la futura morfologia del de­
sign può ipotizzarsi almeno in tre direzioni: quella dei prodotti usa-e-get­
ta; quella di un minimalismo tecnologico, dovuto alla miniaturizzazione
che riduce quasi tutto alla bidimensionalità, a una totale assenza di volu­
me; una terza linea, quella appunto del «mostruoso», che risponde alla do­
manda lasciata sopra in sospeso. Detta linea del gusto nasce, a mio avviso,
da una reazione alle altre due cui prima accennavo. Infatti, proprio in con­
trapposizione all'inespressivo usa-e-getta e al tecnologico minimalismo bi­
dimensionale, è prevedibile una sorta di vendetta dell'immaginario fanta­
stico contro il razionale-ipertecnico. Pertanto è possibile che ci si orienti in
forme sempre più voluminose, ricche, ridondanti, superdecorate, in una
parola: barocche.
Poiché abbiamo accennato al Manierismo, si tratterebbe in sostanza di
un ritorno alle forme adottate nell'inquieto Cinquecento da artisti quali
Giulio Romano, Bernardo Buontalenti, Federico Zuccari, Giorgio Vasari,
Wendel Dietterlin, ecc. Ma il precetto per cui <<nulla è nuovo sotto il sole»
è solo parzialmente vero. Infatti, la differenza fra il vecchio e il nuovo Ma­
nierismo, avendo in comune il desiderio dell' «inusitato», sta nel fatto che
250. Engines Engineering, Malaguti Madison 250, 1 999.
25 1 . Engines Engineering, Malaguti Spider Max 500, 2004.
252. P. Terblanche, Multistrada 620 per Ducati.
XVI. Il design come gioco 27 5

quello cinquecentesco era opera di geniali quanto stravaganti artisti, ope­


ranti con una tecnica artigianale, mentre quello attuale è appannaggio di
designer e decoratori che si avvalgono della tecnica industriale, della pro­
duzione in serie e dell'uso di nuovi materiali, segnatamente della plastica.
Ma forse la prova più convincente del successo del neomostruoso sta nel
fatto che esso informa il vasto campo dei giocattoli: è molto amato dai
bambini, che saranno gli uomini di domani, e a costoro probabilmente ca­
ro ancora per qualche tempo, non foss'altro che come nostalgia della loro
infanzia. Si aggiunga che dal mostruoso al kitsch il passo è talmente breve
che talvolta il secondo ingloba il primo. Non meravigliamoci pertanto se
avremo coltelli con manico a forma di serpente, auto con teste di tartaru­
ga e coda di balene, poltrone a mo' di fauci aperte, tappeti dentati in pla­
stica molle e simili, come del resto già qualcuno ha proposto.
Il gioco del «mostruoso» può dirsi metastorico, ricorrente in ogni età
del gusto, con la differenza che quello presente o prossimo venturo sarà,
grazie alla tecnologia, più iterato, invadente, addirittura donato; e poiché
il suo valore sarà sempre nell'inusitato e nell'imprevisto, non è escluso che
le nostre case saranno simili alla stanza degli orrori, immancabile in ogni
luna park. Certo, per chi di noi si è educato al gusto del buon design
(Werkbund, Bauhaus e dintorni) non sarà un ambiente bello da vivere e il
famoso detto di Goya riceverà un'ulteriore conferma.

Il design dei servizi

Nell'elencare i vari modi di associare il gioco al design, ponevo all'ulti­


mo posto il tema che intitola il presente paragrafo. Molti ricercatori, sem­
pre in riferimento alla tecno-scienza digitale, alla realtà virtuale, all'imma­
terialità, alla miniaturizzazione e simili - ormai leit motiv anche nel nostro
campo - stanno studiando la relazione possibile tra il design e i «servizi».
Premetto che considero il problema legato soprattutto a una metafora, pa­
ri a quelle che vedremo legare le principali voci dell'informatica all'arte,
all'architettura e al design. Ciononostante, l'idea di un design associato ad
un servizio non è del tutto infondata e quindi in grado di indurre a qual­
che riflessione.
Semplificando molto, proviamo a definire il termine «servizio» in rela­
zione, vera o presunta, col design. Quest'ultimo, nella sua più aggiornata
accezione «non si applica solo ad un prodotto fisico (definito da materia­
li, forma e funzione), ma si estende al sistema prodotto. Cioè l'insieme in­
tegrato dei prodotti, servizi e comunicazione con cui le imprese si presen­
tano sul mercato»28. Una ulteriore specificazione contribuisce a rendere
più chiara la nozione di design dei servizi: «dato rilevante, su cui porre l'a c-
276 Made In Italy

cento, è quello della natura dei servizi che non qualificandosi come pro­
prietà, differiscono in maniera sostanziale dai beni materiali che, vicever­
sa, inducono ali' acquisto, al possesso e alla proprietà. Il servizio o l' espe­
rienza, in quanto beni immateriali che non possono essere prodotti, ma so­
lo erogati, quindi messi a disposizione e consumati nel momento in cui ap­
paiono sul merc·ato, mal si adattano alla logica dell'acquisto per accumu­
lare o tramandare. Questo cambiamento pervade la natura stessa dei beni
che, perdendo la loro caratteristica di esclusiva funzionalità e corporeità,
evolvono in beni dall'alto contenuto informativo. [ . . . ] Attraverso la pre­
senza fisica del bene in casa o in ufficio, le aziende stabiliscono un contat­
to diretto con il cliente; ciò consente di realizzare una fornitura di servizi
che lo accompagna per l'intera durata di vita del prodotto. Così configu­
rata, la piattaforma di servizi rivoluziona la logica della produzione, poiché
diventa un costo associato all'attività d'impresa, una struttura ponte tra
questa e il cliente. Nella logica di vendere sempre più servizi ed esperien­
ze che beni, soprattutto in settori dove l'uniformità, la quantità e il p rezzo
hanno saturato i mercati, la sfida consiste nell'attrarre i clienti attraverso il
plusvalore offerto. Al limite, per conquistare sempre maggiori quote di
mercato, le aziende offrono gratuitamente i prodotti della prima genera­
zione, allo scopo di fidelizzare il cliente in una relazione di lungo termine
basata sull'erogazione di servizi sempre più agili e innovativi»29.
Anche a non seguire alla lettera le suddette definizioni e le relative teo­
rie, risulta tuttavia comprensibile che - come già accennato e come vedre­
mo meglio più avanti -, posto lo scollamento in molti casi tra forma e fun ­
zione, oppure che a d una forma corrispondano più funzioni, molti sono
portati a pensare all'esistenza di una funzione «immateriale», ovvero ad
una prestazione. Se un prodotto, avente comunque un senso, non denun­
cia chiaramente a cosa serve, vuoi dire che l'originaria funzione si è tra­
sformata appunto in qualcosa di più complesso. Ma se tutto questo è vero,
anzitutto siamo fuori dalla cultura materiale; in secondo luogo, preveden­
do la piega moralistica del discorso ecologico, mi chiedo fino a che punto
il p�oblema del servizio sia pertinente alla pratica del design.
E ben vero che «i ritrovati della tecnica non sono neutri e indifferenti,
strumenti possibili del bene e del male. Nella cattiveria dei loro effetti, ri­
producono quella della loro origine. Con ciò non si vuoi escludere la pos­
sibilità di un 'mutamento di funzione' (che è il problema capitale di una
critica progressiva) , ma si vuoi attirare l'attenzione sullo stretto rapporto
che intercorre tra il ritrovato tecnico e la sua funzione sociale, che lo pre­
determina nella sua costituzione oggettiva. Lo strumento contiene in sé -
nella sua struttura immanente - il cattivo fine a cui lo si adopera. Occorre
diffidare di un certo ottimismo a buon mercato, che si spaccia per illumi­
nistico, e che, sulla base della neutralità dello strumento, fa dipendere ogni
25 3 .
P. Cerri, divano Ouverture
per Poltrona Frau, 2006.
254. A. Castigliani e M . De Lucchi,
tavolo Sangirolamo
per Poltrona Frau, 2006.
255. L. Scacchetti, tavolo Corintia
per Poltrona Frau, 2006.
Made in Italy
278

cosa dalla buona volontà di chi se ne serve. Nulla,_ purtroppo, è neutrale,


per la semplice ragione che è un prodotto dell'uomo»30. Ora, a parte l'am­
missione del cambiamento di funzione che, pur introducendo una con­
traddizione, viene ammessa dall'autore citato, il passo è qui riportato per
distinguere un «ritrovato della tecnica» (nel nostro caso l'informatica e gli
annessi) da una prestazione immateriale qual è quella che invocano i so­
stenitori del «design dei servizi». Infatti, è la tecnoscienza a non essere
neutrale e quindi spesso oggetto di una malefica gestione, non certamente
il design. Beninteso, se per quest'ultimo s'intende un ��piano dei servizi» a
grande scala, allora 1' argomento è p rettamente politico ed economico, per
cui stanno in piedi le ricerche che si vanno sviluppando, ma se per design
intendiamo ciò di cui si occupa questo libro, il «design dei servizi» è una
«giocosa» metafora.

Note
1 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Uret, Torino 1 972, vol. VI, p. 798.
2 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.>>, n. 1 10, gennaio 200 1 .
3 J . Ch. Schiller, Lettere sull'educazione estetica, Firenze 1 93 7 , 6" lett.
4 I vi, 9" lett.
5 H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 190.
6 F. Menna, Profezia di una società estetica, Lerici, Roma 1968, pp. 148- 15 1 .
7 A . Alessi, La sfida, A/essi, fabbrica del design, in <<Civitas>>, n . 3 , novembre 2005.
8 F. La Ceci a, Family Follows Fiction, in L 'oggetto dell'equilibrio, Alessi Electa, Milano 1996, pp.
1 5 1 - 167.
9 Martino, Note sul design degli anni Novanta ci t.
1 0 V. Pasca, D. Russo, Sulla corporale image, in <<Op. cit.», n. 120, maggio 2004.
11
A.C. Quintavalle, Enzo Mari, Centro studi e archivio della comunicazione dell'Università di
Parma, Parma 1983 , p. 16.
1 2 Ivi, p. 1 8.
1 3 lvi, p. 19.
14 G. D'Amato, Glz oggetti del desiderio, in F. Irace, Driadebook, un quarto di secolo in progetto,
Skira, Milano 1995, p. 187.
15 D. Dardi, Il design di Alberto Meda, una concreta leggerezza, Electa, Milano 2005, p. 63 .
16
G. Pardi, Apocalypse Now, in C. Forcolini, Immaginare le cose, Electa, Milano 1990, p. 48.
17 V. Pasca, nel catalogo Aleph della Driade dedicato alla serie Ubik.
1 8 lntervista a Gaetano Pesce, aprile 2000, in C. Martino, Gaetano Pesce, materia e dz/ferenza, Te-
sto & tmmagme, Tonno 2003.
19 Martino, Note sul design degli anni Novanta ci t., p. 43 .
2° K.M. Armer, A. Bangert, E. Sottsass, Deszgn anni ottanta, Cantini Editore, Firenze 1990, p. 3 8 .
21 S. Giedion, L'era della meccanizzazione ( 1 948), trad. it. Feltrinelli, Milano 1967 ' p. 3 60.
22 lbid.
23 P.A. Tuminelli, Plastica '), in <<Domus», n. 776, novembre 1 995.
24 Martino, Note sul deszgn degli ann� Novanta cit . , pp. 42-43 .
25 G. Pesce, Le temps des questions, Editions du Centre Pompidou, Paris 1996.
26 Cit. in Martino, Note sul destgn degli anni Novanta cit. , pp. 78 sgg.
27 I vi, p. 85.
28 E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo di prodotti sostenibili, Maggioli Editore, San Marino 1 998,
p. 1 3 .
2 9 M.A. Sbordone, Deszgn e Activity Theory, i n <<Op. c it . » , n. 126, maggio 2006.
30 R. Salmi, Introduzione a T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 1954, p. XLI.
Capitolo diciassettesimo Lo stile usa -e-getta

Chiaramente in questo capitolo il termine «stile» denota più un pro­


blema tecnico e di costume, con tutti i suoi risvolti critici e sociologici,
piuttosto che gli aspetti morfologici dei prodotti in esame che tuttavia pu­
re vi sono; anzi, sono questi che, a mio avviso e come vedremo, possono
eliminare molti limiti dell'usa-e-getta.

Produzione corrente

In una nota con questo titolo, redatta nel '65 , Vittorio Gregotti scriveva:
«una gran parte degli oggetti che ci circondano sfugge al controllo formale
dei designers: a questi per convenienza psicologica essi pensano come ad
una realtà opaca sulla quale è possibile, e soprattutto necessario, collocare
le proprie invenzioni sotto forma di emergenze formalmente suggestive.
Tuttavia proprio questo mondo difficilmente catalogabile di oggetti (che in
questo caso si possono definire il design spontaneo) rivelerebbe di aver già
maturato, senza teorizzarle, molte delle vocazioni del design ufficiale. È un
mondo di oggetti semplici, dall'aspetto effimero, fatti di lamierini stampa­
ti, di ribattini, di tondini piegati; risolti con tecnologie elementari, ma in­
ventate di volta in volta. n materiale trattato per sezioni sottili si vitalizza,
diventa flessibile, aderisce e reagisce, scatta al comando più semplice con
effetti sorprendenti. C'è da essere sempre più convinti che è questa la vera
tecnologia: quella che opera la semplificazione dei mezzi in sé e del loro mo­
do di risultare»1 . Benché la nota si riferisca ad altro, mi sembra una intro­
duzione in qualche modo pertinente al tema dell'usa-e-getta.

Pro e contro l'usa-e-getta

I limiti del fenomeno, per cui risulta più economico e funzionale butta­
re via alcuni oggetti dopo averli usati piuttosto che conservarli con cura,
280 Made in Italy

sono noti a tutti: assenza di qualità, spreco di risor�e naturali, produzione


di rifiuti, incremento delle discariche urbane, danno ecologico, ecc. Una
più sofisticata definizione è stata data considerando l'usa-e-getta un feno­
meno di «iperspecializzazione o iperfinalizzazione», ovvero di ipertelia, se­
condo il termine . coniato da Gilbert Simondon2. Questa «iperfinalizzazio­
ne» è stata oggetto di una rassegna che raccoglie tutti i giudizi negativi sul
fenomeno in esame3. Tra i giudizi più significativi è quello di Ezio Manzi­
ni: «tutto è cominciato con l'idea moderna che ogni oggetto fosse riduci­
bile a un apparato funzionale: una protesi la cui qualità stava nello svolge­
re una determinata funzione nel modo più efficace e rapido. [. .. ] ma esso,
evolvendo nell'usa-e-getta, non è più percepito come un oggetto in senso
proprio, ma come una sorta di momentanea materializzazione della fun­
zione che svolge (un sacchetto o una bottiglia di plastica esistono solo nel
momento in cui svolgono la loro funzione. Al di là di questo sono rifiuti)»4.
Il più sintetico giudizio negativo si trova nel libro di Guido Viale, Un mon­
do usa e getta: «è ormai entrato a far parte dell" ordine naturale delle cose'
che tutto ciò che si produce non venga prodotto per durare. Si produce
per sostituire, ma il presupposto tacito di questo modo di agire è che tut­
to ciò che viene sostituito possa e debba essere gettato via. La civiltà
dell'usa e getta - che è il punto di approdo del consumismo, cioè di una
organizzazione sociale che si perpetua attraverso la moltiplicazione delle
merci [ . . . ] - ha i suoi presupposti tanto in un prelievo illimitato di risorse
naturali quanto in un accumulo illimitato di rifiuti»5 . La stessa autrice del­
la citata rassegna, Lucia Pietroni, scrive: «questo mondo artificiale usa-e­
getta, che non ci richiede attenzione né abilità, che consuma grandi quan­
tità di risorse e produce grandi quantità di rifiuti, contribuendo in modo
determinante all'aumento dell'inquinamento fisico e semiotico del nostro
ambiente, non può più esprimere qualità apprezzabili e valori legittimabi­
li universalmente. Nel momento stesso in cui la continua evoluzione tec­
nologica ha ampliato a dismisura le possibilità progettuali e produttive, li­
berando la cultura del progetto da molti dei tradizionali limiti tecnici, ha
iniziato a diffondersi la consapevolezza dell'esistenza di altri limiti: i limiti
fisici e semiotici del nostro ambiente»6.
La gran parte di questi rilievi si può condividere, non così l 'idea (o
l'ideologia) per cui ogni passività faccia capo al consumismo, esso stesso
soggetto ad un processo di rapida modificazione, di imprevedibili trasfor­
mazioni, quindi di «consumo», ma su questo ritornerò più avanti.
Intanto gli stessi critici dell' usa-e-getta riconoscono come positivi mol­
ti tipi di prodotti appartenenti a questa linea: si pensi a quelli relativi al
campo chirurgico, farmaceutico, igienico in generale. In secondo luogo so­
no indiscutibili qualità di tutti gli articoli usa-e-getta il loro basso prezzo;
il poco spazio che occupano prima di essere utilizzati, proprietà questa che
256. Composizione di articoli usa-e-getta.
2 82 Made in Italy

li rende compatibili con la ridotta dimensione delle nostre case, coi nostri
continui spostamenti da un luogo all'altro; il loro immediato sgombro e
appunto, per definizione, l'eliminazione del problema della loro conserva­
zione. Menzioniamo ancora alcuni modi di sentire la questione non avver­
titi da tutti gli ut€nti, ma di cui pure bisogna tener conto: essi, come già no­
tato in un precedente articolo, sono l'indifferenza al senso del possesso du­
raturo, il piacere di padroneggiare quanto ci occorre hic et nunc, la coinci­
denza col gusto per l'effimero, il rifiuto per ciò che suscita ricordi, ecc.
Un'altra qualità dei prodotti in esame sta nella loro immediata riconosci­
bilità. Ciò costituisce uno dei capisaldi della teoria classica del design che
indica nella funzione manifesta il principale significato di ciascun oggetto.
Tale proprietà è molto apprezzabile nel momento presente: infatti di fron­
te alla vasta polifunzionalità dei prodotti ad alta tecnologia e così spesso
non sfruttata in pieno dall'utente, impossibilitato a ricorrere continua­
mente alle «istruzioni per l'uso», il caposaldo della riconoscibilità sembra
presente solo nei manufatti la cui fruizione è consolidata dall'esperienza o
appunto in quelli usa-e-getta.

Il limite principale

Una volta accennato ai lati negativi e positivi del fenomeno, provo a in­
dicare qual è, a mio giudizio, il suo maggiore svantaggio. Questo non è l' as­
senza della qualità nei piatti, bicchieri e posate di carta o di plastica, sem­
pre fattibile di miglioramento; né il problema che nel produrre imballag­
gi, scatole e oggetti di resine sintetiche s'inquina l'aria, sempre risolvibile
con più efficienti sistemi di filtraggio; né infine che la sovrabbondanza di
rifiuti si traduce in discariche non biologicamente degradabili: anche per
questo possediamo sistemi tecnologici che limitano il danno all'ambiente.
Che il problema delle discariche riguardi soprattutto la politica ammini­
strativa è dimostrato dal fatto che in alcune regioni d'Italia esso è stato da
tempo tecnicamente risolto, mentre in altre siamo nel caos più completo.
La carenza maggiore, beninteso riguardante la cultura, è per me un'altra.
Essa consiste in ciò che, dopo aver gettato tutto ciò che si è usato, corria­
mo il rischio di avere una civiltà che non lascia dietro di sé alcun segno del­
la sua cultura materiale, praticamente alcuna testimonianza di buona par­
te della nostra storia. Com'è stato osservato, «gli antropologi spiegano che
l'uomo non si adatta all'ambiente ma adatta l'ambiente a sé; perciò la sua
esistenza sulla terra non lascia impronte casuali, ma segni che hanno valo­
re di messaggi e con i quali possiamo cominciare a ricostruire la sua storia.
Sono documenti per mezzo dei quali si ricorda e si è ricordati [. .. ] . Non v'è
documento che non sia il prodotto di un progetto e di un'operazione tec-
XVII. Lo stile usa-e-getta 2 83

nica; e il documento è sempre un oggetto, anche se si tratti di un raccon­


to, di una poesia, di un canto>/. E paradossalmente questa assenza di se­
gni è tanto più grande quanto più vasta è la massa dei prodotti che do­
vrebbero essere portatori di tali segni. Infatti, nelle culture del passato, lo
scarto fra ciò che si distruggeva e ciò che si conservava, oltre a riguardare
meno articoli e un minor numero di ciascuno di questi, era «fatto a mano»,
ovvero attraverso una più lenta e decantata selezione naturale. Oggi, evi­
dentemente, malgrado le opportune iniziative di raccolte differenziate,
dobbiamo sbarazzarci più rapidamente dei rifiuti, farlo meccanicamente e
senza sottilizzare sulle possibilità di ri-uso di un genere di articoli piutto­
sto che di un altro.
Sono apprezzabili i tentativi da parte di ricercatori e designer che, al­
meno nel loro campo, studiano il problema del riciclaggio di rifiuti in nuo­
vi materiali ed oggetti; a tal proposito segnalo le ricerche condotte da An­
na Castelli Ferreri, alcune delle quali documentate nel testo Inter/acce del­
la materia, esperienze progettuali: sedie e comportamenti, edito dalla Do­
mus Academy nel ' 9 1 ; tuttavia, nella convinzione che lo smaltimento dei
rifiuti, come già detto, riguarda essenzialmente le ammistrazioni politiche,
mi pare che il design possa far poco in questo settore e quel poco non ri­
guarda il costruire nuovi oggetti con vecchi rifiuti; si tratta, per così dire,
di una goccia nel mare.
Ritornando a quanto dicevo in precedenza, si pone la domanda: è pos­
sibile porre rimedio a questo rischio di vanificare la nostra storia che mi
sembra, dal punto di vista culturale, il maggior prezzo da pagare alla logi­
ca dell'usa-e-getta? In altri miei saggi ho indicato come positive alternati­
ve la necessità che gli stessi prodotti usa-e-getta diventassero oggetti addi­
rittura privilegiati della cultura del design (come ora avviene, ad esempio,
per il packaging) . A questo rimedio progettuale andrebbe affiancato uno
storico: solo il collezionismo, come è avvenuto in passato, potrà conserva­
re alcune testimonianze della nostra cultura materiale. Ma qui è necessario
svolgere altre considerazioni.
Notiamo anzitutto che quando parliamo di usa-e-getta non ci limitiamo
alla merceologia «povera» degli oggetti di carta, plastica e vetro, anche se
essa costituisce il modello di riferimento, ma estendiamo l'esame all'intero
mondo della produzione industriale, ivi compresi gli oggetti costosi e di
lusso. Quanti di questi raccolgono il consenso della critica e del pubblico?
Quanti sono passati di moda? Come spiegare che nelle varie pubblicazio­
ni sul design resistono i pochi prodotti di qualità e a firma dei soliti noti,
mentre gli articoli, magari i più vistosi e rumorosi, scompaiono al pari del­
le auto rottamate, un tempo ritenute anch'esse erroneamente paradigma­
tiche del gusto? Ma la questione della qualità è solo un aspetto del pro­
blema.
2 84 Made in Italy

Infatti, dato per scontato che il sistema industriale ha bisogno di p ro­


durre incessantemente, di incentivare costantemente la domanda, talvolta
di incrementare la produzione al fine di ridurre costi e prezzi, risulta pro­
prio della sua logica costruire articoli programmati per durare il meno pos­
sibile. A questo punto qual è la differenza fra una merceologia di lusso, ric­
ca, di lunga durata e un'altra povera che si consuma appena svolta la sua
unica prestazione? In realtà quasi nessuna; anzi la merceologia dell'usa-e­
getta costituisce addirittura un modello che senza ipocrisia ci fa conoscere
in anticipo quale sarà la sorte del nostro nuovo computer, della nostra au­
to fiammante, dell'elemento d'arredo appena acquistato. L'esperienza
quotidiana ci insegna che esiste una lunga e una breve durata, ma una ri­
flessione appena più attenta ci dice che la nozione di durata è molto rela­
tiva e che, con buona pace di Braudel, la longue durée è solo un paradig­
ma storiografico: tutto quanto appartiene al mondo dei viventi, ivi com­
presi gli utensili, ha durata breve.
In quest'ottica, la linea dell'usa-e-getta è la sintesi di tutto il design del
Novecento, emblematica di una mentalità e di una cultura propria del no­
stro tempo, suscettibile di miglioramenti, di riqualificazione, persino di
consentire, come ho appena ricordato, tramite una più attenta progetta­
zione e il collezionismo, la conservazione di tracce che rischiamo di per­
dere, ma non di essere considerata un fenomeno marginale. Anzi, essa è ta­
le da coinvolgere non solo gli aspetti materiali della produzione, ma anche
quelli psicologici che determinano il consumo dei prodotti. Com'è stato
osservato, «nei processi che definiscono la durata dei beni di consumo ri­
sulta con evidenza come la decadenza fisica di un prodotto, il suo deterio­
ramento, non rappresentino affatto il momento che fa scattare la sostitu­
zione: il logoramento delle cose non appare più legato alla funzione mate­
riale d'uso quanto a un più complesso sistema che coinvolge l'idea dei pro­
dotti come veicolo di significati. Un sistema per il quale il ciclo di vita dei
prodotti tende ad abbreviarsi sempre più. L'abbandono o la semplice so­
stituzione può dipendere da fattori diversi, come l'innovazione tecnologi­
ca rapida o innovazioni di gusto per seguire le quali occorre architettare
una ' cosmesi della forma consumata' [ ... ] lo stesso sistema produttivo che,
nell'urgenza di mantenere elevata la domanda di beni, agisce sulla ridu­
zione del fattore durata favorendone la sostituzione: poiché tuttavia non
può certamente agire sul piano della deficienza fisica (andrebbe contro
l'idea stessa di qualità) tende a intervenire sul contenuto comunicativo. La
domanda da porre dunque non è: quanto durano le cose? , bensì per quan­
to si usano?»8. A conferma di tale giudizio sta il fatto, raramente notato,
che non tutti i prodotti della categoria in esame vengono utilizzati una so­
la volta: col rasoio Gillette più economico sono possibili più rasature; i bic-
XVTI. Lo stile usa-e-getta 2 85

chieri e piatti di plastica possono -essere lavati e nuovamente adoperati,


ecc., cosicché la durata di molti articoli dipende dalla nostra volontà.

Un'etica dell'usa-e-getta

Che un fenomeno così utilitario e dispersivo abbia un risvolto etico ap­


pare strano, e tuttavia è possibile individuarlo. Anzitutto è positivo che i
prodotti di cui ci occupiamo siano alla portata di tutti, maggiormente ri­
chiesti dal pubblico senza distinzione di classe e di cultura. In secondo luo­
go, come abbiamo già detto, la corrispondenza in essi della forma alla fun­
zione - un binomio spesso attaccato dalla critica ma di fatto molto diffici­
le da smentire - esprime tutto lo sforzo del Movimento moderno volto a
produrre un articolo tanto utile quanto a basso prezzo. Inoltre gli oggetti
usa-e-getta si presentano per quello che sono e per ciò che servono senza
rimandi simbolici e semantici; anzi, dal punto di vista della cultura figura­
tiva, sono autoespressivi. Restando ancora nell'ambito artistico-culturale
lo stile dell'usa-e-getta è il più affine a quello del minimalismo, vale a dire
la tendenza più «sincera» dell'arte, dell'architettura e del· design contem­
porane1.
Come abbiamo visto, si parla attualmente e con insistenza di un «design
dei servizi» che, grazie alla smaterializzazione prodotta dalla tecnologia di­
gitale, andrebbe sostituendosi ad «un design dei prodotti», secondo il
motto «senza tempo, senza spazio, senza materia». Per alcuni settori tele­
matici è possibile impiegare questo trinomio, non certo per il design che è
per sua natura l'espressione più emblematica della cultura materiale. Su
questo tema ritornerò in altre parti del volume, ma qui esso mi offre un ul­
teriore spunto per l'etica dell'usa-e-getta. I prodotti rientranti in questa ca­
tegoria costituiscono uno dei pochi casi in cui ha senso la prevalenza del
servizio su quella dell'oggetto. E ciò grazie alla modestia dell'oggetto stes­
so, che resta comunque materiale, rispetto alla prestazione che esso è in
grado di offrire.
Un altro punto significativo riprende l'argomento della popolarità dei
prodotti usa-e-getta, stigmatizzata dai critici radicali del costume che ma­
gari appoggiano e giustificano quella della televisione e di altri mass media.
In ogni caso non hanno fatto tesoro di quanto ebbe a suggerire Adorno:
«proprio perché l'architettura (ma al suo posto potrebbe stare il design o
qualunque altra forma d'arte applicata) , oltre che autonoma, è anche, ef­
fettivamente, legata a uno scopo, non può semplicemente negare gli uo­
mini come sono; anche se, in quanto autonoma, deve farlo. Se scavalca gli
uomini te! quel, si adatta a un'antropologia e magari a un'antologia discu­
tibili; non a caso Le Corbusier inventò degli uomini modello; ma gli uo-
286 Made in Italy

mini viventi, anche i più arretrati e schiavi delle convenzioni, hanno dirit­
to al soddisfacimento dei loro pur falsi bisogni. Se -per investire il bisogno
vero, oggettivo, il pensiero passa sopra senza riguardo al bisogno soggetti­
vo, si ribalta, come ha sempre fatto la volonté générale contro la volonté de
tous, in oppressione brutale. Persino nel falso bisogno dei viventi sussiste
un moto di libertà: ciò che la teoria economica ha chiamato valore d'uso in
contrapposizione all'astratto valore di ·s cambio. Perché si rifiuta di dare
agli uomini ciò che così fatti - e non altrimenti - essi vogliono e di cui han­
no magari bisogno, l'architettura legittima appare loro necessariamente
nemica»9.
Ma il culmine dell'etica dei prodotti usa-e-getta sta in ciò che la loro
breve durata li affranca dall'ossessione del possesso, che da sempre s'è ma­
nifestata in maniera negativa. Ancora Adorno in Minima moralia sostiene:
«'fa parte della mia fortuna - scriveva Nietzsche nella Gaia scienza - non
possedere una casa'. E oggi si dovrebbe aggiungere: fa parte della morale
non sentirsi mai a casa propria»10. Il che non va inteso in senso destabiliz­
zante, ma in un altro che apre nuovi orizzonti, come quello di incrementa­
re appunto il valore d'uso al posto del valore di scambio. E veniamo al
punto conclusivo sull'etica dell'usa-e-getta; un'etica che paradossalmente
tocca l'incremento dei consumi. Il lavoro più socialmente redditizio, la
piena occupazione non si ottengono solo con il turismo d'arte e di natura
- come pretende tanta demagogia politico-sociologica - ma soprattutto
producendo cose che si consumano. Quanto al rapporto fra questa com­
plessa fenomenologia dell'utilizzo e il consumismo, è necessario finalmen­
te sgombrare il campo dall'ideologismo e moralismo che continuano ad
accompagnare quest'ultimo. Col tempo abbiamo acquistato la consapevo­
lezza che lo si può correggere ma non eliminare perché deve coesistere con
la produttività. Ci piaccia o no, questa è la condizione della società attua­
le e tale sarà certamente anche in futuro. L'abbandono di questa via è in­
conciliabile con lo sviluppo e produrrebbe una disoccupazione più grave
di quella che già oggi registriamo come uno dei maggiori problemi sociali
e quale principale pericolo imputabile alla tecnoscienza. Accennavo sopra
allo stesso consumo del consumismo, prima per indicare che si tratta di un
fenomeno non statico, bensì a sua volta soggetto alle diverse condizioni del
mercato, ai valori-interessi condivisi dalla mutevole massa di utenti, poi
perché molti sostengono il prevalere dell'informazione sull'uso di oggetti
materiali. E ognuno dovrebbe sapere che certe idee sono ancor più inqui­
nanti di tanti oggetti dismessi. Come che sia, il consumismo, un'organiz­
zazione economico-sociale che si perpetua attraverso la moltiplicazione
dei beni, ha il solo difetto - ripetiamo - di non essere esteso all'intera sfe­
ra sociale e a tutti i paesi del mondo.
XVII. Lo stile usa-e-getta 287

Oltre l'usa-e-getta ·

Sempre nel tema per cui il fenomeno dell'usa-e-getta rischia di cancel­


lare i segni della nostra storia, almeno nei·suoi aspetti di cultura materiale,
approfondiamo qui i rimedi proposti quali la progettazione e il collezioni­
smo.
Va notato che, per quanto pratici e funzionali, gli articoli usa-e-getta,
per essere senza scrupolo distrutti, in genere hanno l'aspetto e il carat­
tere di cose brutte o quanto meno insignificanti. La maggioranza dei con­
sumatori, indifferente al gradevole aspetto delle cose, non si pone il pro­
blema di usarle e disfarsene; la minoranza degli utenti, che è invece ac­
corta al carattere estetico, non si serve degli oggetti usa-e-getta o,
usandoli, ne conserverà alcuni, darà cioè inizio a una sorta di collezio­
nismo. In generale il collezionismo può intendersi come una sintesi di
storia e di estetica. Il collezionista raccoglie l'oggetto che è bello e, con­
servandolo, non solo conserva i segni del tempo in cui è nato, ma con­
ferisce durata, quindi storia, all'oggetto stesso: questo diventa storico in
quanto è bello e in pari tempo diventa apprezzabile in quanto storico.
Da tale nesso deriva la necessità che anche il prodotto usa-e-getta ri­
chieda una maggiore cura progettuale, rientri nella cultura del design, ri­
chiami l'attenzione del designer, diventi un prodotto d'autore. All'obie­
zione che il collezionismo costituisce un debole rimedio per salvaguar­
dare la cultura materiale si può facilmente replicare che esso, attraverso
le raccolte, le collezioni, i musei, è il fenomeno cui maggiormente si de­
ve la conservazione di tanta cultura del passato. Né l'altra obiezione per
cui un conto è collezionare opere d'arte, un altro prodotti d'arte appli­
cata e un altro ancora oggetti di vario genere, gusto e natura, vale a smen­
tire l'idea che il collezionismo sia un modo di correggere i rischi dell'usa­
e-getta. Non è forse vero che per secoli si sono conservati migliaia di og­
getti di uso quotidiano, come le anfore olearie e vinarie, per il frumento,
tutte uguali tra loro? Inoltre, da Riegl in poi, la teoria della critica non
ha più operato distinzioni fra arti maggiori e minori, pure o applicate,
ecc . ; non solo, ma i nuovi modi di schedare, documentare, trasmettere
a distanza le immagini degli oggetti ha allargato notevolmente il campo
dei beni culturali. Pertanto, se ammettiamo oggi di considerare bene cul­
turale qualsiasi cosa che sia portatrice di un significato storico e/o arti­
stico, risulta legittima la proposta di affidare anche gli oggetti più pove­
ri, quelli usa-e-getta in senso ristretto, alle cure di un designer.
Beninteso, non che il designer, l'autore (etimologicamente colui che
conferisce autenticità a un'opera), possa qualificare gli articoli usa-e-getta
aggiungendovi un elemento decorativo, pratica stigmatizzata dalla gran
parte del design contemporaneo, né soprattutto conferendo a essi una
288 Made in Italy

maggiore durata e/o stabilità. Se si verificasse il secondo caso, non avrem­


mo il genere di prodotti di cui ci occupiamo ma quelle opere che sfidano
il tempo, che sono ancora vive dopo secoli dalla loro creazione. Non si trat­
ta, per tutte le motivazioni già viste, di fermare un processo che va dalla na­
scita del prodotto alla sua fine tra i rifiuti, bensì di qualificarlo per il breve
tempo della sua esistenza, tal che, così qualificato, viene in parte collezio­
nato, conservato come traccia di un tempo e di un costume. Ciò può av­
venire grazie alle potenzialità della progettazione. Questa ha senso solo se
dà luogo a cose nuove: l'esistente non si progetta, nel migliore dei casi si
replica. Ma il nuovo, quale incipit del processo che accompagna ogni pro­
dotto, dal prototipo alla discarica, oltre ad alimentare il costante divenire
del ciclo produttivo, non nasce dal nulla: conserva residui del passato, trat­
tiene precedenti esperienze. Ecco come anche il fenomeno dell'usa-e-get­
ta non può, per così dire, uscire dalla storia. Del resto la biologia insegna
che l'unico modo per sopravvivere è quello di tramandare l'eredità geneti­
ca da padre in figlio.
Ciò che si richiede alla cultura del design non è conferire al prodotto
usa-e-getta (e in fondo abbiamo visto che tutti possono così definirsi) di­
rettamente una più lunga durata, come quando rafforziamo con iniezioni
di cemento la statica di un edificio, bensì, ripetiamo, qualificarlo per il bre­
ve tempo della sua esistenza: la progettazione, grazie al suo più libero im­
maginario, al rapporto col contesto socioculturale, all'essere alimentata dal
ricordo, alla propria natura che, in quanto imparentata con l'arte, è in pa­
ri tempo storica e metastorica, può meglio combattere il cinismo dell'usa­
e-getta, ricreando intorno agli oggetti una «affezione» perduta, l'inutile
necessario per compensare l'utilità meramente mercantile.
Come che sia, almeno nelle aree industrialmente sviluppate, vivremo
sempre più circondati dall'abbondanza di prodotti che non basta una vita
a consumare. La linea dell'usa-e-getta, non importa se i suoi prodotti sia­
no di breve o brevissima durata, può piacerei o no, ma rappresenta uno di
quei fenomeni tipici del nostro tempo che non ci consente di essere silen­
ziose formiche ma ci obbliga a essere rumorose cicale. Con questi pensie­
ri chiudevo la mia Storia del design, per così dire, generalista; essi non pos­
sono che essere ripetuti - e a maggior ragione - per la vicenda del design
italiano.

Note

1 V. Gregotti, Produzione corrente, in <<Edilizia moderna>>, n. 5, gennaio 1965.


2 Cfr. G. Simondon, Du mode d'exùtence des objets techniques, Aubier Montaigne, Paris 1 958.
3 Cfr. L. Pietroni, Gli oggetti «usa e getta»: l'ipertelia, in <<Op. ci t.>>, n . 100, 1997.
4 E. Manzini, Oltre zl mondo dell'oggetto, in <<Leggere», n. 40, 1992 .
5 G. Viale, Un mondo usa e getta. La Civiltà dei rifiuti della Civiltà, Feltrinelli, Milano 1 995 , p. 1 09.
XVII. Lo stile usa-e-getta 2 89

6 L. Pietroni, op. àt. ,

7 G.C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 25.


8 S. Pizzocaro, La lunga vita dez prodotti, in «Modo», n. 1 36, 1 99 1 .
9 T. W . Adorno, Parva aesthetica, Feltrinelli, Milano 1979, p. 1 2 1 .
10
T. W . Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1.954 , pp. 28-29.
Capitolo diciottesimo Gli oggetti a più funzioni

«Troppo spesso il discorso attorno al disegno industriale, oggi, parte so­


lo da presupposti estetici (anzi estetizzanti) : inventare immagini nuove,
blasfematorie, iperdecorate, comunque inattese giocando sui vecchi teore­
mi della Teoria dell'Informazione, dimostrando che è l'inaspettatezza a da­
re il massimo d'informazione e che quindi quel che conta è soltanto o so­
prattutto che l'oggetto ( del design) sia inedito anche se assurdo»1 . Così di­
chiarava Dorfles a un convegno dell'83 . Per parte mia, ho sostenuto re­
centemente la tesi per cui ci dà piacere solo ciò che già conosciamo. Nella
fruizione estetica, infatti, la «ripetizione» è spesso più gradevole e rassicu­
rante dell'inedito assoluto o presunto tale: si pensi al maggior gusto che
provoca l'ascolto di un motivo musicale già noto rispetto a uno inedito, do­
ve quel «già noto» può intendersi in vari modi, ivi compreso quello dell'in­
consapevole. Ma ritorniamo a Dorfles. «Troppo spesso - per un altro e op­
posto verso - si continua a pigiare il tasto del vetero-funzionalismo
(bauhausiano o addirittura sullivaniano) sbandierando il vecchio slogan
che identifica forma e funzione, senza rendersi conto che questo binomio
è il più delle volte desueto o addirittura inesistente (salvo per i grandi 'og­
getti' d'uso 'superindividuale' : jet, sottomarini, trattori, ecc.) »2• La confer­
ma di quanto egli afferma viene subito dopo, dandoci la vera «informazio­
ne», per usare il magico termine caro ai fanatici del digitale: «Spesso infat­
ti si parla di forma e funzione senza essersi resi conto che, per moltissimi
prodotti ancora ieri rispondenti a questo imperativo, oggi non esiste nep­
pure una forma ! Per portare semplici esempi: si pensi all'infinita gamma
degli elementi basati su microprocessori, su minime lamine di silicio gran­
di come un'unghia, capaci di registrare, mettere in moto, ordinare, ecc. in­
teri meccanismi automatizzati, laboratori, fabbriche [ ] o si pensi all'infi­
. . .

nita gamma degli strumenti Hi-/i: registratori, amplificatori, radio, mi­


crofoni, videocassette, ecc. ormai ridotti a minute scatolette nere che al­
bergano solo qualche piccola lamina su cui sono stampati misteriosi cir­
cuiti. Dove sta la forma in questi casi? La forma non esiste più o è inven-
XVIII. Gli oggetti a più funzioni 291

tata di sana pianta è senz'alcuna relazione con quanto essa ' ricopre' o na­
sconde, solo per dare all'utente, al compratore, un simulacro di quel con­
tenente, che è in realtà privo di un contenuto morfologicamente corri­
spondente. Che ciò che affermo sia vero ce lo dimostrano infiniti altri 'og­
getti' ancora in assurda produzione soprattutto nel settore dell'arreda­
mento. La stessa automobile - autentico simbolo e termometro della no­
stra ' società dei consumi' - negli ultimi tempi - ridotta a miserabile scato­
letta dal cruscotto inutilmente ipercomputerizzato - appare come un
esempio pietoso per chi abbia conosciuto e ancora ricordi la 'bellezza' di
antiche sontuose carrozzerie disegnate dai maghi di mezzo secolo addie­
tro; e, tuttavia, esempio tra i più significativi della fine di un'era estetica
(più ancora che tecnica) alla quale molti di noi avevamo ciecamente pre­
stato fede»3 .
Ancora sul rapporto fra l'involucro ed il circuito dei meccanismi inter­
ni, è stato osservato: «la parte funzionale di un oggetto, quell'insieme di
apparati meccanici che aveva svolto un ruolo di primo piano nella nascita
e stabilizzazione delle tipologie oggettuali, in larga misura non rappresen­
ta più un vincolo e neppure un punto di riferimento per la configurazione
formale degli oggetti microelettronici. Ora i vincoli vanno ricercati in
quell'involucro che, in precedenza, serviva quasi soltanto a 'rivestire' gli
oggetti e a proteggere gli utenti. Questa accresciuta libertà di manovra, tut­
tavia, non è stata finora in grado di produrre risultati apprezzabili dal pun­
to di vista formale. Anzi, a fronte di una grande varietà di oggetti si regi­
stra un'accentuata omogeneità delle rispettive configurazioni formali, la
diffusione di 'scatole nere' di diverse dimensioni, di 'forme pure il cui sco­
po è oscuro', come qualcuno le qualifica»4. Ora, la questione dei prodotti
di cui ci occupiamo non è solo semantica, bensì tecnica, economica, este­
tica, artistica e comporta, come accennavo, non pochi disagi pratici. Ma
tant'è. La tecnologia informatica, cui vanno ovviamente riconosciuti gran­
di meriti, non sembra tuttavia tener conto di questi aspetti, puntando es­
senzialmente sulle proprietà prestazionali, cosicché il nostro ambiente ri­
sulta affollato da telefonini cellulari, agende, dittafoni, videoregistratori,
assistenti digitali personali (Pda), penne elettroniche, modem, calcolatrici,
sistemi di posizionamento Loran, occhiali intelligenti, guanti, scarpe elet­
troniche da jogging che contano i nostri passi ed emettono segnali lumi­
nosi in caso di avvicinamento di veicoli, sistemi di monitoraggio medico,
pacemaker, cuffie del lettore di cd e quant'altre cose che si possono indos­
sare abitualmente o portare con noi occasionalmente.
292 Made in Italy

La miniaturizzazione

Tutto quanto precede si deve alla tecnologia digitale e segnatament e al­


la miniaturizzazi one, qui studiata relativamente ai prodotti in grado di
svolgere molteplici prestazioni, che risultano i più problematici ai fini del
design. La nuova tecnologia infatti consente di progettare e produrre og­
getti sempre più piccoli e leggeri, senZa alcuna relazione fra il loro involu­
cro e il meccanismo interno, predisposto a svolgere più funzioni; cosicché
l'utente non percepisce alcun appiglio morfologico espressivo di tale rela­
zwne.
Il processo che porta a questa tecnologia è noto:
1 823 : il chimico svedese Jons Jacob Berzelius fu il primo a isolare e a
descrivere il silicio, che è un minerale grigio scuro, duro e non metallico, e
si cristallizza facilmente. Non si trova mai allo stato libero, bensì unito
sempre ad altri elementi, come la sabbia comune.
1 945 : primo calcolatore elettronico, costruito negli Stati Uniti, funzio­
nante con circuiti di valvole termoioniche. In Italia, di questo tipo era il
calcolatore Elea della Olivetti, grande come due stanze, contenente 4000
valvole, quasi 10 km di fili e 1 00.000 parti di collegamento saldate. Per far­
lo funzionare erano necessari quasi 3 0 kw di energia elettrica, nonché un
completo sistema di aria condizionata.
1 948: primo transistor inventato da tre ricercatori dei Beli Telephone
Laboratories - John Bardeen, Walter H. Brattain e William B. Shockley ­
cui fu assegnato il premio Nobel per la Fisica nel '56. Il transistor consi­
steva in una sottile lastra di un metallo chiamato germanio ed era in grado
di sostituire le valvole termoioniche usate nella radio e nel telefono per la
ricezione, l'amplificazione e la trasmissione dei segnali. Il transistor fun­
zionava proprio come una valvola, ma aveva solo una frazione delle sue di­
mensioni e consumava, in confronto, ben poca corrente.
1 952: i tre scienziati suddetti sostituiscono nel transistor il germanio coi
cristalli di silicio, che rimane stabile anche alle alte temperature. Oltre che
come amplificatori di segnali, i transistor possono funzionare come inter­
ruttori, capaci di fornire corrente in un tempo inferiore a un centomilio­
nesimo di secondo, che è la velocità di reazione richiesta in un moderno
calcolatore elettronico.
1 958: costruzione del circuito integrato, consistente in un circuito a cri­
stallo unico, detto anche monolitico. In zone diverse di un cristallo di sili­
cio venivano introdotte delle impurità, cosicché ciascuna delle zone dive­
niva l'equivalente di un diverso componente elettronico, compresi diodi e
triodi. Mediante il collegamento delle varie zone con fili, si otteneva alla fi­
ne un circuito elettronico completo. La forma più versatile di circuito di­
venterà il microprocessore.
XVIII. Gli oggetti a più funzioni 293

1 969: invenzione· codificata del microprocessore. Questo viene definito


«elaboratore in miniatura», perché i suoi circuiti elettronici eseguono le
principali funzioni di un calcolatore elettronico, calcoli, immagazzina­
mento dei dati, ecc. I microprocessori sono i «cervelli» all'interno dei co­
muni orologi digitali, delle calcolatrici tascabili, ecc. L'ingegnere Edward
Hoff, invece di disporre in un'unica piastrina di silicio tutti i circuiti inte­
ressati al funzionamento dell'unità di elaborazione centrale che in un cal­
colatore esegue le operazioni aritmetiche e ne controlla le altre parti, col­
locò su piastrine diverse i circuiti con altre funzioni, quali il programma e
la memoria. Si ottenne così un'unità molto più flessibile, le cui singole par­
ti potevano agire autonomamente. Rendendo indipendente l'unità di ela­
borazione centrale, questa si rese disponibile a operazioni diverse.
1 980: nascita della piastrina a memoria istantanea. Continuando il pro­
cesso di perfezionamento, si è giunti a questa data alla realizzazione di un
microcircuito con una memoria tale che non deve essere necessariamente
letta da cima a fondo, come nel caso dei nastri magnetici. È possibile così
trarre da essa i dati necessari in appena un decimo di milionesimo di se­
condo.
La sommaria ed approssimativa descrizione del processo che ha porta­
to, tra l'altro, alla miniaturizzazione, ha l'intento di sottolineare, con buo­
na pace dei fautori della de-materializzazione, l'importanza in queste sofi­
sticate ricerche della stessa materia. Annotazione che ritrovo in Manzini:
«non ci sarebbe stata diffusione dell'elettronica senza silicio cristallino, né
miniaturizzazione dei prodotti senza materiali iperformativi, né moltipli­
cazione delle forme senza materiali e finiture che lo permettessero»5 .
In breve, il processo di miniaturizzazione, che non ha nulla in comune
con la immaterializzazione, si è rivelato di grande rilevanza, oltre che per
l'intera tecnologia digitale, anche per il fatto di aver consentito apparecchi
sempre più piccoli, compatti e al tempo stesso più potenti, nonché in gra­
do di offrire più prestazioni; in una parola, di avere oggetti dalle moltepli­
ci funzioni, a loro volta, come sappiamo, non privi di problemi. Il prodot­
to più emblematico di questa tecnologia è il telefonino cellulare, l'oggetto
oggi più diffuso e uno dei pochi casi in cui la quantificazione abbia pro­
dotto il miglioramento funzionale e la riduzione del prezzo. Nel 1 983 un
telefonino della Motorola costava 4000 dollari, mentre oggi è alla portata
di tutti e, tranne rare eccezioni, le aziende produttrici si fanno concorren­
za anche sul piano di un gradevole design, al punto che Jim Wicks, desi­
gner della Motorola, attribuisce al gusto della forma l'elemento che più de­
termina la scelta di un prodotto.
Certo, per tutti gli artefatti legati alla miniaturizzazione, la loro pluri­
funzionalità determina, come accennavo, qualche problema che discutere­
mo più avanti, ma prima è utile soffermarci sul binomio forma-funzione
294 Made in Italy

che è o sembra totalmente smembrato. Intanto va notato che esso non è


solo ;iducibile ;l rapporto lineare di causa-effetto-; nella storia della cultu­
ra materiale esso è costantemente cambiato: a parità di funzione si sono
succedute numerose linee formali.
Gli slogan cp e legano i termini di forma e funzione si presentano con
vari significati nei diversi momenti della storia dell'architettura e delle al­
tre arti applicate, tuttavia con aspetti invarianti. Operando opportune
semplificazioni, si possono distinguere tre modi d'intendere tale rapporto:
la propensione per l'uno o l'altro fattore, la concezione che vuole forma e
funzione uniti in un lineare rapporto di causa-effetto e il più recente mo­
do di vedere i due termini legati in un processo che, nonostante la sua com­
plessità, non esclude la possibilità di una loro autonoma analisi. L'accento
posto sulla forma indica generalmente una artisticità formalistica che ha
caratterizzato varie fasi della vicenda dei manufatti; l'accento posto sulla
funzione richiama, viceversa, un contenutismo socio-economico che ha
informato di sé, almeno quantitativamente, la maggioranza dei programmi
costruttivi; alla prevalenza della funzione si associa un criterio moralistico
che va dall'economia alla «sincerità» costruttiva, al modo più utile per as­
solvere un compito, ecc.
La crisi del funzionalismo si verifica dopo l'ultima guerra e il binomio
è revocato in dubbio. Peter Blake scrive: «nessuno è certo sul nome di chi
per primo proclamò lo slogan 'la forma segue la funzione'. La maggior par­
te degli storici ritiene che sia stato Horatio G reenough e tutti sono d'ac­
cordo che Louis Sullivan, il maestro dei grattacieli americani a cavallo tra
questo e il secolo scorso, fece suo il motto, senza però farne la regola asso­
luta. Come disse Marcel Breuer 'Sullivan non consumava il suo funziona­
lismo così caldo come lo cucinava' . In ogni caso, 'la forma segue la funzio­
ne' , o tout-court il 'Funzionalismo', divenne fin dall'inizio il dogma del
Movimento moderno»6. D'altra parte, il funzionalismo, com'è stato osser­
vato a proposito di Le Corbusier, «non è tanto rivolto alla rivalutazione
della funzione meccanica contro la funzione simbolica, quanto a spode­
stare simboli che ritiene ormai inattuali e insignificanti, a restaurare, come
simbolica di nuovi valori, la funzione pratica»7.
Se è vero che il significato del binomio in esame cambia col cambiare
dei tempi e delle tendenze, non dovrebbe affatto meravigliare che oggi
prevale la componente prestazionale su quella morfologica, la quale sem­
bra seguire linee sui generis; del resto il felice tema espresso dal titolo
adottato da Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproduci­
bilità tecnica, avrebbe certamente registrato gli effetti della miniaturizza­
zione sugli oggetti solo se questa fosse stata inventata al tempo dell' auto­
re tedesco.
XVIII. Gli oggetti a più funzioni 295

La riconoscibilità

Che la miniaturizzazione abbia contribuito, se non determinato, il di­


vorzio tra forma e funzione non è cosa che ci fa morire di vergogna o im­
pazzire di superbia, come ebbe a dire Argan a proposito dell'intero pro­
gresso tecnologico. Tuttavia, pur accolto come segno dei tempi, tale di­
vorzio presenta alcune distorsioni che non ci possono lasciare indifferenti;
prima fra tutte la scarsa riconoscibilità degli oggetti aventi più funzioni.
Accanto a molti prodotti che conservano da vari decenni poche e consoli­
date parti da azionare - si pensi all'automobile che ancora si guida mano­
vrando quasi gli stessi comandi degli anni Venti - si vanno proponendo an­
no dopo anno altri oggetti che, specie se polifunzionali, richiedono un ve­
ro e proprio tirocinio. Così, spesso uno stesso tasto aziona più funzioni o,
al contrario, per ottenere una stessa funzione è necessario digitare con­
temporaneamente più tasti, donde l'esigenza di ricorrere alle «istruzioni
per l'uso», piene di neologismi e tecnicismi, difficili da decifrare e general­
mente consultate in momenti di emergenza. Ne discende che, per evitarle,
molti prodotti neotecnologici vengono utilizzati, come si è detto, solo per
una parte delle loro potenzialità. Alle stesse conclusioni è giunto Dieter
Rams, commissario del Rat /iir Formgebung tedesco e responsabile del de­
sign per la Braun8. Naturalmente questa difficoltà di gestire i prodotti mi­
niaturizzati è solo un aspetto pratico, ma niente affatto trascurabile. Si è
calcolato quante prestazioni restano inutilizzate per l'inesperienza della
maggioranza dei fruitori? Non resta vero l'assunto per cui non siamo noi a
doverci adeguare alle proprietà dei fenomeni che vogliamo conoscere, ben­
sì questi alle nostre possibilità conoscitive? Se ciò vale per la conoscenza
della natura, a maggior ragione dovrebbe valere per quella degli artefatti.
Non siamo noi a doverci adattare alla tecnologia, ma è questa che, sia per
fini ideali che pratici, deve essere produttrice di oggetti riconoscibili alla
percezione dell'uomo e, quanto meno, grazie alla cultura del design, deve
cercare un punto d'incontro fra le due diverse potenzialità.
Paradossalmente questo rischia di verificarsi oggi solo nella logica
dell'usa-e-getta. È noto infatti che macchine fotografiche, telefoni cellula­
ri, persino computer diventeranno presto, a causa della loro diffusione a
basso prezzo, tutti oggetti rispondenti a questa logica. Con l'affermarsi
dell'usa-e-getta sarà inevitabile per i prodotti suddetti una semplificazio­
ne, l'abolizione della plurifunzionalità, una riduzione del loro volume d'in­
gombro; passando infine dalle «misteriose» funzioni molteplici al mano­
funzionale esplicito, ci libereremo anche dalle «istruzioni per l'uso». Que­
ste diventeranno necessarie per prodotti di alta tecnologia; la loro reda­
zione richiederà forse una specializzazione universitaria, ma esse non ac­
compagneranno più l'oggetto d'uso quotidiano che nella sua «rozza» stru­
mentalità ritornerà ad essere, come gli antichi manufatti, riconoscibile.
296 Made in Italy

Prima che l'informatica fosse associata al design, tutta la critica d'arte,


ivi compresa la semiologia delle comunicazioni visive, riteneva fiedleriana­
mente che le arti figurative fossero autoespressive; in particolare che ar­
chitettura e design avessero il principale significato nella loro funzione. Sia
che la forma seguisse la funzione sia viceversa, gli artefatti erano ricono­
scibili appunto dalla loro prima destinazione d'uso: quella delle tipologie
architettoniche e delle merceologie dei prodotti industriali; anzi era moti­
vo di elevata qualificazione accentuare la forma di un oggetto per esaltar­
ne la funzione, il che comportava anzitutto la sua identificabilità.
Questa va sempre più riducendosi. Ciò che ancora contrassegna un te­
lefono, una macchina fotografica, una radio, un apparecchio televisivo, un
computer, ecc. rischia di trasformarsi al punto da rendere questi oggetti ir­
riconoscibili. Né la miniaturizzazione elettronica si arresta alle «scatole ne­
re». William J. Mitchell, architetto e docente di Architecture e Media Arts
and Science presso il MIT, scrive: «aspettatevi che gli organi elettronici, di­
ventando sempre più piccoli e sempre più intimamente collegati a voi, per­
dano le loro tradizionali rigide scocche di plastica. Assomiglieranno sem­
pre di più a capi di abbigliamento e li indosserete, come fate oggi con le
scarpe, i guanti, le lenti a contatto o gli apparecchi acustici. I circuiti pos­
sono essere tessuti nella stoffa; i microapparecchi possono anche essere
impiantati chirurgicamente [ . . . ] : Alcuni chips sono così minuscoli da po­
ter essere iniettati; sono già stati usati per contrassegnare gli animali selva­
tici e per identificare i cuccioli»9.
Insomma, in questo connubio tra invisibili ricettori elettronici e or­
gani umani, trafitti per inocularvi i primi, stile Body Art, saremmo, tra­
mite le risultanti «informazioni», onnivedenti, presenti, pensanti, ecc. Il
tutto in assenza o quasi di ogni oggetto materiale. L'ottimismo fanta­
scientifico dell'autore americano non si può condividere. Intanto non ve­
diamo quale piacere starebbe nel ridurre qualunque cosa in uno scher­
mo o addirittura in qualcos'altro che non è neanche una immagine bidi­
mensionale. In secondo luogo, se non è improbabile che solo un settore
merceologico diventi così immateriale, non rientrando nella cultura del
design, questa dovrà sempre muoversi nell'ambito delle cose ottiche, tat­
tili e riconoscibili.
A tali caratteristiche corrisponde un settore particolare, quello degli og­
getti a più funzioni che non si basano sulla miniaturizzazione o, se lo fan­
no, ciò non impedisce la loro presenza materiale e la riconoscibilità delle
loro funzioni: penso ai vecchi compact che uniscono radio, giradischi e
mangianastri, e a quelli più nuovi che associano le prestazioni di stampan­
te, fax, telefono e scanner come nel caso del pregevole ]et-Lab 600, pro­
gettato da Michele De Lucchi nel '99 per la Olivetti Lexicon.
Ma prima di individuare una sorta di riconoscibilità anche per i p ro-
XVIII. Gli oggetti a più funzioni 297

dotti legati alla min'iaturizzazione, ip sostanza qualcosa che dia loro un si­
gnificato, occupiamoci del modo «tradizionale» di legare il binomio for­
ma-funzione alla sua significazione.

La signi/icazione

Accantonando momentaneamente le varie motivazioni ideologiche e di


poetica, l'essere cioè funzionalisti o formalisti, razionalisti od organici e ri­
conoscendo che, oltre il classico binomio esiste anche il fattore semiotico­
semantico (gli aggettivi, spesso confusi, hanno un diverso significato), cer­
chiamo di chiarire la relazione fra i termini suddetti, relazione già trattata
che qui vogliamo meglio analizzare.
In prima approssimazione, come sappiamo, il significato di un prodot­
to del design è l'espressione in forma evidente, qualificata e piacevole del­
la sua funzione. La teoria classica del design sostiene infatti che la destina­
zione d'uso identifica il genere, la specie e l'individualità di un articolo; co­
sicché laddove essa non è chiara la qualità stessa del prodotto ne risente.
Recentemente, la capacità di un oggetto di mostrare a cosa può essere adi­
bito è stata denominata a//ordance. Anche in semiologia q�alche autore ri­
conosce nel segno architettonico (ma lo stesso vale per quello del design)
«la presenza di un significante il cui significato è la funzione che esso ren­
de possibile»10. Lo stesso autore indica in tale segno un significato origina­
rio o denotativo, ossia appunto la funzione, e un significato assunto dalla
storica stratificazione o connotativo, ossia, tra l'altro, la valenza simbolica.
Abbiamo così due modi di significare: quello detto denotativo, che dà con­
to del valore formale e funzionale dell'oggetto in praesentia e l'altro, il con­
notativo, che rimanda a simboli, associazioni d'idee, esperienze passate, in
breve, a contenuti che sono in absentia. In tanto parlare, come oggi si fa, di
prodotti che «comunicano», dal valore altamente semantico, nuovi proprio
perché vanno oltre la vecchia dicotomia forma/funzione, il sostegno teori­
co più corretto è dato dal secondo modo d'intendere il significato.
Beninteso, che la connotazione non debba prevalere sulla denotazione
è necessario anzitutto per non letteraturizzare il design, per non ridurre un
prodotto della cultura materiale in un raccontino o in uno slogan pubbli­
citario o in un manifesto d'avanguardia. In tempi non sospetti di confu­
sione tra comunicazione e informazione, come quelli attuali, Brandi difen­
deva il suddetto carattere in praesentia dell'oggetto d'arte: «la casa non co­
munica di essere una casa, non più di quanto la rosa comunichi di essere
una rosa: la casa, il tempio, l'edificio termale si pongono, si rendono astan­
ti o come realtà di fatto o come realtà d'arte, ma non sono tramite di co­
municazione: solo in via subordinata trasmettono delle informazioni»1 1 .
298 Made in Italy

L'arbitrarietà

Nel richiamare nozioni linguistiche per chiarire il nodo forma-funzio­


ne-significazione, non possiamo non far cenno al concetto di «arbitra­
rietà», altrimenti intesa come immotivazione, convenzione e simili. In ge­
nerale, s'intende per convenzionalismo ogni dottrina secondo la quale la
verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta all'accor­
do comune o alla stipulazione (tacita o espressa) di coloro che si servono
delle proposizioni stesse. Inoltre l'arbitrarietà e segnatamente il suo con­
trario, la motivazione, cambiano col variare delle concezioni storiche, de­
gli usi e costumi e, grazie alla retorica, si risolvono in simboli, ovvero for­
me che significano qualcos' altro. Pertanto l'arbitrarietà è propria degli
eventi che non hanno una motivazione e in pari tempo un fenomeno mu­
tevole col tempo. La convenzione, dal canto suo, è un istituto che «prov­
visoriamente» fissa un'intesa; per esempio la tal cosa significa questo. Una
lingua è appunto una convenzione perché richiede di essere intesa nella
sfera sociale, ma al tempo stesso è per sua natura arbitraria perché nulla le­
ga una parola all'oggetto designato.
In origine, pare che non vi fosse arbitrarietà: il legame fra le parole e le
cose era motivato. Trasferendo questa originaria motivazione dalle parole
ai prodotti questa diventava di natura mimetica: una coppa derivava evi­
dentemente dalle mani accostate; i motivi della decorazione geometrica,
come la «greca», avevano origine, secondo Semper, dalla trama tissulare,
dal diverso colore e ritmo dei fili d'erba intrecciati; la figurazione architet­
tonica, il sistema trilitico, i cinque ordini, gli elementi della plastica mino­
re discendevano dalla mitica capanna o comunque da un primitivo sistema
costruttivo in legno.
Ma se in linguistica buona parte delle parole erano inizialmente moti­
vate, affinché la lingua non si riducesse ad una inerte nomenclatura, era ne­
cessario perdere col tempo tale caratteristica e passare nell'arbitrarietà, pe­
raltro la motivazione cessando di essere percepita. La trasformazione del­
la motivazione in arbitrarietà (nel nostro caso del mimetismo in una nuo­
va conformazione) è indispensabile per articolare un linguaggio, fatto ap­
punto di libera espressione e non di naturalistica imitazione.
L'arbitrarietà interviene infatti a risolvere il nodo, presunto inattaccabi­
le, che esiste tra forma e funzione. Tra queste ultime s'insinua appunto un
grado di indeterminazione - nel caso dell'arte, addirittura di ambiguità ­
che ne impedisce la relazione del tipo causa-effetto, come dimostra il fatto
che due designer, posti a progettare un oggetto-segno rispondente a una
precisa funzione, lo conformano in maniera affatto diversa. Cosicché, tran­
ne alcuni casi, ripeto, il significato di un segno-oggetto o sistema di ogget­
ti non è direttamente la funzione, ma qualcos'altro, denotativo e connota­
tivo, generato dall'arbitrarietà insita in quel segno.
XVIII. Gli oggetti a più funzioni 299

Siamo ora in grado di affrontareJa questione per cui l'oggetto digitale


miniaturizzato presenta un'unica forma con molteplici funzioni. Se in na­
tura il rapporto forma-funzione resta immutevole e non esiste arbitrarietà
- esemplari sono tutti o quasi i rapporti tra le parti del corpo umano e le
relative funzioni - nei fatti di cultura, come la lingua, l'arte e il design, in­
vece, l'arbitrarietà è ben presente: ad essa si deve la loro evoluzione. Co­
sicché, come il significato di qualunque oggetto di design contiene un gra­
do di arbitrarietà, questo risulta molto elevato nel caso dei prodotti che ab­
biamo posto al centro della nostra riflessione.
In sostanza, l'aver colto nell'arbitrarietà la prerogativa degli articoli plu­
riuso toglie a questi ultimi la misteriosa ammirazione, l'aura del potere tec­
nologico, la passiva sottomissione all'arcano funzionamento, tutti fattori
traducibili nel luogo comune che li definisce «oggetti intelligenti», ripor­
tandoli nell'ambito di una controllabile razionalità. Questo ridimensiona il
fatto che non ci troviamo in un'epoca basata solo su prestazioni e servizi,
fondata unicamente sull' «informazione» e priva del gusto per gli oggetti
materiali, disposta addirittura alla mortificazione dei sensi. Contrariamen­
te a questa moda, è stato opportunamente ricordato che il primo messag­
gio telefonico di Bell fu: «Sig. Watson, venga qui - devo vederla».

Note
1 G. Dm·fles, Dieci anni fra due convegni, in <<Caleidoscopio», n. 29, 1983 .
2 Ibzd.
3 Ibzd.
4 M . Chiapponi, Le forme degli oggetti, in <<Il Verri>>, n. 27, 2005.
5 E. Manzini, Nuovi materiali e ricerca progettuale, in Il design italiano 1964- 1 990, Electa, Mila­
no 1996, p. 326.
6 P. Blake, La forma segue il fiasco, Alinea, Firenze 1983 , p. 29.
7 G.C. Argan, voce Arte /zgurativa dell' Enclclopedza Universale dell'arte, vol. I, Istituto per la col-
laborazione culturale, Venezia-Roma 1958, col. 760.
8 Cfr. D. Rams, Al di là dell'usa e getta, in <<Ottagono>>, n. 1 02 , marzo 1992.
9 W.]. Mitchell, La città dei bits, Electa, Milano 1997 , p. 22.
lo . . .
U. Eco, Appunti per una semiologia delle comunicazioni virive, Bomp1am, Milano 1967, p. 164.
11
C. Brandi, Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1967, p. 3 7 .
Capitolo diciannovesimo Storia e design oggi

Archiviati i movimenti neo-storici dagli anni Cinquanta ai Novanta, le­


gati alla crisi del Razionalismo, da qualche tempo nella letteratura sull'in­
dustria! design ritornano spesso termini quali «storia», «storiografia»,
«Storicità» e simili, in analogia con quanto si parla, si scrive e si progetta in
campo architettonico. Qui concetti storicistici si sprecano; p rimo, perché
relativamente a una prospettiva autonoma l'architettura si può dire che
non abbia altro referente che non sia la storia; secondo, perché autonoma
o eteronoma che sia la prospettiva dalla quale si guardi, l'architettura, spe­
cie nei momenti di crisi, non fa che pensare alla storia con una sorta di mo­
vimento a stantuffo fra presente e passato. Insomma, per legittimi o no che
siano i motivi, la progettazione architettonica ha avuto e continua ad ave­
re una familiarità con la storia fin troppo evidente da non richiedere p ar­
ticolari sottolineature.
Diverso è o sembra essere il caso del design. La cultura volta a qua­
lificare il prodotto industriale, in linea di massima, non dovrebbe avere
alcun debito col passato: è nata con la rivoluzione industriale, ha in­
staurato nuovi processi ideativi e produttivi, si è addirittura data un no­
me nuovo rispetto a quello tradizionale di artigianato, ecc. In più la cul­
tura del design, che certamente fa parte del «progetto moderno», ha no­
tevoli parentele con l'avanguardia artistico-figurativa; presenta, secondo
alcuni autori, una soluzione di continuità con il passato, si pone come
esperienza antistoricistica. È stato persino osservato (Tafuri) che l' avan­
guardia artistica, architettonica e dello stesso design troverebbe la sua
storicità (vale a dire il legame con lo spirito del tempo) proprio nel suo
darsi come fenomeno antistorico. Trascurando in questa sede la veridi­
cità o meno di tali giudizi, è tuttavia certo che finora la letteratura sul
design, tutta presa a registrare i «fatti» man mano che accadevano, a teo­
rizzare aspetti tecnici, funzionali, promozionali, strategie di mercato,
ecc. , ha quasi completamente ignorato le esperienze del passato, il re­
taggia della tradizione, la continuità della storia, quasi si trattasse di una
XIX. Storia e design oggi 301

«rottura epistemològica», espressione che indica un mutamento profon­


do nella problematica teorica di una disciplina.
Ora, nel ripensamento generale di tutti i fondamenti della cultura con­
temporanea, nella constatazione del fallimento di molte utopie globali e
totalizzanti, nel toccare con mano che lo sviluppo comporta inevitabili
contropartite, ecc . , va sempre più eclissandosi l'idea di un design nato per
partenogenesi o da asettiche provette; donde la ricerca non solo di diretti
genitori ma addirittura di una genealogia. Beninteso, il «ritorno alla storia»
non va considerato come segno di riflusso, come ripensamento moderato
di più radicali attese; in una parola, come rimedio di una delusione. Que­
sta componente psicologica è anch'essa presente attualmente, ma non è
l'unica causa del suddetto ritorno. La verità ci sembra essere che il divor­
zio della cultura del design dalla storia fu semplicemente un errore; tant'è
che espulsa dalla porta quella storia è ritornata dalla finestra ed è indipen­
dente dai fattori contingenti quali la modesta creatività dei designer, la
stanchezza per alcune forme, la saturazione di alcune fasce del mercato. Il
ripensamento della storia è l'esigenza di colmare una lacuna concettuale,
la cui persistenza condanna la cultura del design ad una banausia senza via
d'uscita.
Quanto al rapporto fra storia e progettazione che, a mio avviso, ritengo
più legittimo, rimando il lettore all'inizio del presente capitolo. Qui mi
sembra utile toccare un altro argomento: il rapporto della progettazione,
nel nostro caso del design, non più con la storia bensì con la storiografia.
È nota la distinzione fra la storia (la storia-realtà) e la storiografia (la sto­
ria-studio), altrettanto noto che la storiografia si fonda su tre capisaldi:
l'unicità, la causalità e la selettività. Ai fini progettuali è quest'ultima che
più interessa il designer e il progettista in genere, non foss'altro perché sia
il progetto che la selettività comportano entrambi delle «scelte».
Premesso che quello che nella storia non è modificabile lo è nella sto­
riografia, questa altro non può essere se non un'attività ordinatrice, strut­
turante, riducibile ad alcuni parametri o «artifici»; in una parola: attività
progettuale. Ma ci sono altre ragioni per convincersi della vicinanza fra
progetto e storiografia. Anzitutto in ordine al pensiero, e sappiamo non es­
servi altra realtà al di fuori del nostro pensiero. Pertanto pensiamo al pas­
sato basandoci sul ricordo; pensiamo al presente basandoci sull'attenzio­
ne; pensiamo al futuro basandoci su ragionevoli ipotesi. E ricordo, atten­
zione e ipotesi sono categorie proprie di ogni forma di progetto.
In secondo luogo, tra le principali attitudini del pensiero storiografico,
così come anticipavo, è quella della selettività, la quale, essendo per sua na­
tura unica - non esiste una polarità fra scelta e non scelta -, diventa l'indi­
scusso centro risolutivo di ogni tema e problema: «tutta la storia è scelta»,
dichiara Febvre. Se questo è vero, com'è vero, abbiamo un altro punto a
3 02 Made in Italy

favore dell'idea della storiografia come progettazione, il progettare essen­


do anzitutto un atto selettivo fra le infinite possibilità di risolvere un pro­
blema costruttivo. Inoltre, resta vero quanto sostiene Lévi-Strauss: «la sto­
ria [intesa come storiografia] non è mai la storia, ma la storia-per», in ana­
logia con il progetto che non è fine a se stesso, ma è per realizzare qual­
cos 'altro.
Una terza motivazione per considerare la storiografia quale progetto è
suggerita dal fatto che la ricerca storica non è solo deduttiva, owero tale
che, fissato un principio lo si applica ai singoli casi, né è solo induttiva, ov­
vero tale che dall'esperienza dei singoli eventi si possa risalire ad un prin­
cipio generale, ma nasce da un continuo «aggiustamento» fra le due linee,
da una «manipolazione» di dati reali con altri concettuali, così come fa
chiunque abbia esperienza progettuale. Questa riflessione ci porta a rite­
nere che, se non la storia, certamente la storiografia si progetta al pari di
qualunque altra costruzione. Non è quindi un'utopia pensare di «aggiu­
stare» le cose, progettarle, utilizzare «artifici», ricostruire per il passato e
costruire per il presente ed il futuro, così come awiene nel progetto del de­
sign, anche per quanto attiene alla sua storiografia.
Avendo associato la storiografia con la progettazione, torna utile una ri­
flessione su due preconcetti che, tra l'altro, impediscono tale accostamen­
to. Il primo si traduce nell'espressione per cui la «storia non si fa con i se
e con i ma», il che è certamente vero: nessuno può negare l'esistenza del
«fatto», poniamo, della produzione di un'azienda o di un designer; tutta­
via, se pensiamo che esse non sono solo oggetto di storia ma anche di sto­
riografia, «i se e i ma», owero l'interpretazione, la riflessione e le ipotesi
hanno pieno diritto di esistere; e ciò non solo sul piano teorico: il ripensa­
mento sulle ipotetiche modificazioni del fatto storico, nel nostro caso un
prodotto o una serie di prodotti, sono basilari per una loro modificazione
o per produrne altre migliori. Il secondo topos da smentire è quello che ne­
ga la previsione storiografica. Che non sia prevedibile la storia futura ap­
pare assunto ragionevole, ma se passiamo dalla storia alla storiografia,
quella previsione risulta del tutto legittima. Com'è stato notato, «tutta la
conoscenza, come conoscenza di, come rivolgersi a, è un trascendere-pre­
vedere, un proiettarsi e un proiettare verso qualche cosa. Anche il più or­
todosso dei giudizi storici, rivolto cioè rigorosamente ad eventi del p assa­
to, già tutti accaduti, si atteggia come interpretazione, come proposta, co­
me trasformazione di una situazione di fatto in una situazione in movi­
mento [. .. ] . Per rendersi conto di codesto carattere progettante [corsivo
mio] e previsionale del giudizio storico, anche quando suo oggetto sono
eventi tutti accaduti, occorre correggere l'illusione ottica che proviene dal
suo dirigersi verso eventi non futuri ma passati, non più prevedibili perché
già accaduti. Eppure il giudizio si rivolge verso il non essere degli eventi
XIX. Storia e design oggi 3 03

accaduti, che è per l'appunto il loro.futuro, cioè l'acquisizione progressiva


di sempre nuovi, più ricchi e profondi significati raggiunti attraverso l'in­
dagine storiografica. Il giudizio, insomma, nel corso di quest'ultima, non
fa che prevedere, anticipare, cioè in fondo creare, gli eventi presi in esame,
rendendoli futuri nell'atto stesso che li qualifica come passati [ ... ] ; rende-
re presente il passato, inoltrarsi nell'accaduto è già trasforma do [ . . . ] ; il pas-
sato in prospettiva, lontano da noi di secoli e millenni, è il passato proiet­
tato dal non essere verso il non essere ancora»1 . Solo eliminando i due pre­
concetti suddetti è possibile una «critica operativa», ovvero ciò che unisce
storiografia e progettazione.

La storia e il nuovo artigianato

Ricollegandoci al tema del nuovo artigianato, notiamo come non sia ne­
cessario essere neo-luddisti per capire che uno dei maggiori problemi del
futuro, peraltro già cominciato, nel campo della produzione, è quello per
cui la nuova tecnoscienza espellerà gradualmente l'opera dell'uomo. No­
nostante i politici non ne parlino per non perdere il consenso popolare,
nonostante il vecchio proletariato vada di fatto scomparendo decimato dal
concetto di «esubero», nonostante le poco convincenti soluzioni proposte
da economisti e sociologi, a nessuno dovrebbe più sfuggire quanto abbia­
mo sopra asserito. La crisi occupazionale non riguarda tanto l'élite dei tec­
nici quanto soprattutto l'attività banausica, quella cioè che occupa la gran
parte della mano d'opera, perché nei prossimi anni, quasi in ogni settore
produttivo, basteranno poche unità di addetti per dare avvio a un mecca­
nismo di automazione in grado di fare e disfare da solo quasi tutto. Alcu­
ni autori sono giunti persino a ipotizzare una società futura in cui non si la­
vorerà affatto, come peraltro anticipa lo slogan «lavorare meno, lavorare
tutti» ( che è solo un provvisorio modo di rimediare alle esigenze più con­
tingenti) , senza tuttavia pervenire alla logica conseguenza per cui proprio
a una forma più razionale del tanto deprecato assistenzialismo dovrà se­
riamente pensare l'azione politica per assicurare la pace sociale. In questo
incerto scenario, quell'insieme di operazioni produttive che chiamiamo de­
sign e quell'altro che definiamo artigianato sono entrambi fortemente coin­
volti e non è detto a quale dei due toccherà la sorte migliore. Di primo ac­
chito si direbbe che sia prevedibile una maggior fortuna per il design, più
positivamente legato dell'altro agli sviluppi della tecnica e alla logica della
produzione industriale, ma quando si prospettano macchine 'intelligenti'
e radicali cambiamenti anche nel sistema dell'industria non è escluso che
quella stessa componente progettuale del design possa essere sostituita da
qualcos'altro, atto a surrogarla. Proviamo a ipotizzare alcune vie d'uscita
3 04 Made in Italy

per l'artigianato nel quadro sopra delineato. In linea generale potremmo


dire che esse si verificheranno per quei generi di hivoro dov'è ipotizzabile
l'insostituibilità del lavoro manuale. Ma anche questa risposta può risulta­
re semplicistica e invalidata dal fatto che, come già detto per il design, non
ci sarà campo in cui la meccanizzazione non tenderà a «prendere il co­
mando», vanificando ogni sorta di previsione contraria.
Per ragionare della futura via dell'artigianato occorre un principio più
forte che inglobi ma non si esaurisca in empiriche previsioni. Questo prin­
cipio sta nella tesi secondo cui la sopravvivenza dell'artigianato si basa sul
sostegno che a esso possono dare alcune caratteristiche concettuali della sto­
ria. La storia, com'è noto, è stata contrassegnata da numerosi fattori; ne
consideriamo solo tre: l'unicità e irripetibilità; la lunga durata e la proble­
matica dei valori.
La storia come regno dell'unico e dell'irripetibile si addice all'artigianato
perché esso opera tendenzialmente alla realizzazione del singolo prodotto
expressly made e hand made e ciò in opposizione all'industria, la quale,
tranne rare eccezioni, è costretta dal suo stesso sistema a operare per se­
quenze seriali. Infatti, pur adottando sistemi sofisticati che consentono va­
riazioni individuali nel contesto di una serie, il lavoro meccanico si avvici­
na all'unicità del prodotto solo per piccole varianti formali, non per so­
stanziali conformazioni uniche, che risulterebbero antieconomiche.
L'esempio, tanto calzante da rasentare l'evidenza, è dato dall'industria del­
le confezioni. Questa, per quanto in grado di preordinare ogni taglia d'abi­
to, resta ancora e forse per sempre incapace di uguagliare qualitativamen­
te la sartoria artigiana, che taglia e cuce abiti su misura perfettamente adat­
tati alle peculiarità di chi li indossa. Certo, in passato, ragioni economico­
sociali imponevano a tutti di vestire abiti confezionati in serie, sacrifican­
do la qualità alla quantità e al basso prezzo; ora la situazione è cambiata:
se l'industria opera in modo da creare vuoti occupazionali, una nuova esi­
genza sociale si fa strada, quella appunto di incrementare la produzione ar­
tigianale la quale, rivedendo i suoi costi di produzione e praticando un
prezzo almeno pari a quello dell'industria, fa sì che non convenga più ri­
nunciare all'unico e irripetibile abito su misura a favore di quello prodot­
to in serie. Ma evidentemente il concetto di unico e irripetibile proprio
tanto della storia quanto dell'artigianato non si limita al settore invocato
quale esempio ma si estende a numerosi altri campi: il mobile creato per
uno specifico spazio, l' attrezzo costruito per uno specifico lavoro, ecc.
La storia come regno della lunga durata s'addice all'artigianato molto
più che all'industria. Infatti, mentre l'oggetto artigianale, al pari dell'ope­
ra d'arte, è potenzialmente senza scadenza, anzi si valorizza col tempo, il
prodotto industriale al contrario «deve» scadere, consumarsi, far posto a
una nuova serie; conferma di tale caratteristica è il certificato di garanzia
XIX. Storia e design oggi 305

che accompagna ogni prodotto industriale, avente la funzione di fissare la


data di scadenza del prodotto stesso. L'industria è in grado di produrre
manufatti tanto solidi da durare quasi illimitatamente, ma non le conviene
farlo, altrimenti, in assenza di materiale consumo, il ciclo della produttività
si arresterebbe o quanto meno rallenterebbe sensibilmente. Nulla conce­
dendo al moralismo anti-consumistico, è tuttavia un dato di fatto che l'in­
dustria, pur di tenere velocizzato al massimo il ciclo produzione-consumo,
unisce alla relativa fragilità del prodotto anche la spinta ai rinnovamenti
dei moti del gusto; e tanto design si presta a questo gioco di continuo e su­
perficiale aggiornamento morfologico dello stesso manufatto. In breve,
mentre l'industria è il dominio dell'innovazione, l'artigianato, come la sto­
ria, è il dominio della conservazione.
Le considerazioni sopra esposte, il concetto di lunga durata e quello di
conservazione, nell'accezione più positiva del termine, ci consentono di
ipotizzare il campo del restauro come il più proprio dell'artigianato e di
conseguenza il settore della sua maggiore applicazione. Non ci riferiamo
solo al restauro riguardante le opere d'arte e l'artigianato antico, né a quel­
lo che pertiene al più modesto oggetto domestico cui, per un motivo o per
un altro, non vogliamo rinunciare, ma pensiamo al restauro nella sua più
vasta scala, come quello architettonico, dell'arredamento e· del cosiddetto
arredo urbano, rientranti tutti nelle potenzialità dell'artigianato. Evidente­
mente l'unicità dell'oggetto da restaurare, quali che siano la sua dimensio­
ne e natura, la cura particolare nel ricomporlo, completarlo, riportarlo al
suo stato p rimitivo e alla sua funzione originaria richiedono alcune opera­
zioni che solo la perizia artigianale è in grado di fare.
La storia quale mondo dei valori è il terzo paradigma che può garantire
la sopravvivenza dell'artigianato. Un valore, anche fuori da ogni concezio­
ne idealistica, anzi secondo la filosofia del pragmatismo, è una proprietà
soddisfattiva di determinati interessi. Questi possono sì valutarsi in base a
esigenze presenti, ma essere valutati più in generale nella prospettiva dei
passati valori coi quali sono continui; se non vi fossero altri motivi per as­
sociare i valori alla storia basterebbe già questa continuità di valori e valu­
tazioni per confermare la loro parentela col processo della storia. Quali le­
gami sussistono fra storia, valori e artigianato? Per rispondere a questa do­
manda è necessario ancora un confronto con l'industria. Che questa pro­
duca oggetti di valore è indubbio, ma vanno op� rate alcune distinzioni in
ordine proprio a quel concetto di «interesse». E indiscutibile il soddisfa­
cimento degli interessi immediati: la mancanza al momento opportuno di
un oggetto meccanico, elettrico ed elettronico può essere per l'uomo ad­
dirittura fatale, ma - c'è da chiedersi - tale interesse non si limita solo al
valore momentaneo di quel prodotto e segnatamente al suo valore funzio­
nale? N é occorrono altri ragionamenti per persuaderei che l'equazione va-
306 Made in ltaly

!ore-funzione sia la stella polare dell'intera produzione industriale. Se que­


sto è vero, è facile previsione che in un tempo norr lontano essa si orienterà
completamente verso il genere usa-e-getta.
A questo tema è stato dedicato un apposito capitolo; qui si accenna sol­
tanto al rapporto tra l'usa-e-getta e la nozione di valore. La gran parte del
danno prodotto dal fenomeno per cui risulta più conveniente disfarsi de­
gli oggetti subito dopo il loro uso, piuttosto che conservarli, dipende qua­
si esclusivamente dal senso dei valori. In breve, se le potenzialità della tec­
nica riusciranno a far salvo l'aspetto ecologico dell'usa-e-getta, riteniamo
che solo una svolta nella mentalità del consumatore, grazie ad un rinnova­
to interesse per i valori, riuscirà a restituire ai prodotti il carattere dell'usa­
e-conserva. Di fronte all'ipotesi dello svilupparsi dell'attuale tendenza in
atto e della sua squallida prospettiva che rischia di cancellare le tracce del­
la storia dell'uomo, è possibile forse un solo tentativo di modificazione:
puntare, oltre che all'ecologia della natura, anche all'ecologia dell'artificio.
Un compito che l'industria, per le ragioni dette sopra, non è in grado di ef­
fettuare, non ha interesse a effettuare, mentre risulterebbe il più adatto e
significativo per il nuovo artigianato. Abbiamo visto infatti che l'artigiana­
to ha tutto l'interesse a conservare l'esistente, non foss' altro perché solo
quest'ultimo, la sua riparazione, il suo ripristino, la sua tutela e conserva­
zione gli consentono quell'opera di restauro, da considerarsi la via maestra
della propria sopravvivenza. A questo punto e a mo' di conclusione, risul­
ta chiaro che le tre caratteristiche della storia - l'unicità, la lunga durata e
il valore - non sono aspetti isolati e separabili, ma stanno l'uno nell'altro
come scatole cinesi; non si dà infatti valore senza durata ed entrambi sen­
za la singolarità dell'oggetto sul quale devono concentrarsi tutta l'opero­
sità, la cura e l'impegno del lavoro artigianale.

Note

1 R. Franchini, Teorza della previsione, E.S.I., Napoli 1964, p. 1 3 3 .


Capitolo ventesimo Internet non s' addice al design

La macchina

Dev'esserci una ragione per spiegare l'anonimato, l'uniformità, l'assen­


za di caratteristiche, in una parola: la bruttezza degli apparecchi elettroni­
ci, specie i televisori e i computer. Facendo un confronto tra quelli prodotti
dalla Brionvega negli anni Sessanta e gli attuali televisori, si nota un preoc­
cupante appiattimento; si direbbe che essi tendono a «passare inosservati»
e che sia vali d<? il paradosso di J ean Gimpel, per cui: «a quanto pare è una
legge storica. E proprio all'inizio di una nuova tecnica espressiva che il li­
vello è più alto. [ .. ] La vetrata, l'arazzo, la pittura a olio non sono mai sta­
.

ti più grandi che nella loro prima età. La fotografia ottocentesca è spesso
più notevole di quella del nostro tempo. E i grandi film devono essere già
stati girati»1 .
Se modesta è la forma dei televisori, ancor più triste e monotona risul­
ta quella dei computer, per lo più una sorta di piramide con la base conte­
nente lo schermo e un lato poggiato su un sostegno informe; la parte più
interessante morfologicamente è data dal mouse, se non addirittura dalla
tastiera, standardizzata per definizione. Né la variante più recente del
computer - non più il compatto corpo piramidale, ma la sua quadriparti­
zione - un display, lo scatolone contenente il motore, lo scanner e la stam­
pante - ha migliorato molto l'estetica dell'apparecchiatura. Non c'è riu­
scito il bel modello di computer portatile, articolato in più parti, che Sap­
per progettò per la Ibm, né quello, intitolato Philos, che Michele De Luc­
chi progettò per Olivetti nel '92, ai quali sono stati preferiti i computer
portatili in forma di anonime valigette che si differenziano dalle classiche
ventiquattrore solo perché più sottili. Ma poiché i computer vanno sempre
più perfezionandosi, si è portati a concludere che a una tecnologia sempre
più avanzata corrisponda una forma dell'apparecchio sempre più povera.
Evidentemente ci dev'essere una ragione tecnica che impone una simile
forma a queste macchine che «hanno preso il comando» più di quanto fe-
3 08 Made in Italy

cero a loro tempo quelle meccaniche ed elettriche. È probabile che fra


hardware e software non ci sia posto per un contenitore con un minimo di
caratterizzazione formale. Non conosco la ragione tecnica di questa m an­
canza e provo ad avanzare un'ipotesi causale. Trattandosi di apparecchi
«visualizzatori», designer e costruttori affidano alla qualità visiva del solo
schermo, sia che si tratti di televisori che di computer, tutte le valenze for­
mali; essi probabilmente puntano esclusivamente sulla prestazione, pensa­
no che la qualità visiva dell'oggetto sia in ciò che visualizzano (con chia­
rezza, colori brillanti, mancanza di interferenze, eccetera) . L'immaginario
efficientista suppone che televisori e personal computer siano sempre in
funzione, sempre on, non considerando il loro aspetto quando sono spen­
ti, quando sono o//, che poi corrisponde alla maggioranza del tempo nel
quale sono visti. Che vi sia una «lotta interna» tra l'apparecchio visivo in
funzione e a riposo sembrerebbe confermato dal confronto con altre mac­
chine che non si basano sul video, ma sull'audio. Senza voler fare l'elogio
della radio, così come è di moda fra gli intellettuali, è tuttavia un fatto che
l'evoluzione della radio ha presentato una gamma di modelli sempre va­
riabili nel tempo: dal mobile-radio degli anni Venti-Trenta all'apparec­
chio-radio degli anni Quaranta-Cinquanta, fino al culmine della radiolina
AMIFM Ts 502 di Zanuso e Sapper per la Brionvega che risale al '63 . L'as­
senza di design negli attuali televisori e computer si deve a una momenta­
nea crisi o al fatto che la funzione visiva, propria di queste apparecchiatu­
re elettroniche, ha di fatto spodestato qualunque altra esigenza formale?
O, più semplicemente ancora, dobbiamo pensare che l'assenza di design
equivalga in realtà a una forma di design? Speriamo che il problema ri­
manga aperto.

L:elogio

Che la tecnologia digitale sia cosa di grande rilievo, tale da modificare


l'economia, il lavoro, i rapporti sociali, il costume, il nostro stesso modo di
pensare, è idea universalmente diffusa ed accettata. «Come l'introduzione
della informatica ha prodotto le sue influenze trasformatrici nella cultura
figurativa mediante la digitalizzazione della immagine sul video come stru­
mento tecnico dalle risorse creative insospettate, così è avvenuto in quella
del progetto e in particolare del disegno industriale; conseguenze queste ­
nella estesissima abbondanza di dati conoscitivi resa disponibile e nella lo­
ro elaborazione tramite il computer - delle quali gli effetti si sono avverti­
ti in più direzioni»2. Siamo tutti convinti che si tratta di «un fenomeno pro­
digioso suscitatore di emozioni stimolanti e di ipotesi sulle capacità inter­
pretative del design di fronte a 'grandezze di influenza' da rappresentare
XX. Internet non s'addice al design 309

in termini simbolici' quali: la trasmissione di dati in tempo reale; la tele­


presenza come rapporto interpersonale di tipo simulato; e in particolare la
interattività come intrattenimento di un ' colloquio' fra l'utilizzatore e la
macchina, capace di assumere per la sua .intelligenza artificiale quasi un
ruolo soggettivo>) .
Tutto ciò riconosciuto, la temo-ideologia oggi imperante presenta al­
cuni problemi che vanno risolti e si presta ad alcuni equivoci che vanno
chiariti. Qui ne discuterò soprattutto due: il tema della de-materializzazio­
ne e quello dell'informazione, entrambi associati, relativamente al design (e
alla stessa architettura) , ad Internet, scelta come emblema dell'intero cor­
pus disciplinare, ovvero come una sineddoche, una parte per il tutto, la più
popolare, del mondo informatico.

Due ipostasi

I temi suddetti costituiscono, a mio avviso, due ipostasi. Infatti, teoriz­


zando la immaterialità, alcuni autori hanno trasformato una parola in una
sostanza; analogamente hanno appunto ipostatizzato la nqzione di infor­
mazione. In termini più semplici, essi hanno esagerato, oltre le effettive
possibilità, il significato delle due nozioni menzionate applicandole all' ar­
chitettura e al design; operazione che trova immediata smentita nel fatto,
già notato, che esse sono tra le più rappresentative attività della cultura
materiale.
Quanto all'immaterialità, prendendo spunto dalla tecnologia digitale,
dall'uso di nuovi materiali e soprattutto dagli studi e dalle esperienze del­
la miniaturizzazione, alcuni studiosi teorizzarono questa idea, dandola per
una realtà già avvenuta. La manifestazione più nota dedicata all'argomen­
to fu una grande mostra organizzata nel 1 985 presso il Centre Pompidou
da Jean-François Lyotard dal titolo Les Immatériaux; oggetto dell'esposi­
zione voleva essere un'iniziativa filosofica tendente a mostrare il legame tra
la condizione post-moderna e la nuova materia immateriale di cui era fat­
to il mondo. Peraltro la crisi della materialità aveva il vantaggio - così si
continua a ritenere - di privilegiare la «comunicazione», donde l'implicito
legame con l'altra ipostasi, quella dell'informazione.
Maldonado riconosce il carattere positivo del dibattito sulla materia per
ciò che concerne la microfisica, ma esprime forti perplessità quando lo
stesso tema si pone nell'ambito della macrofisica: «vi sono infatti scienzia­
ti, sociologi, ingegneri, filosofi, artisti, economisti, architetti e giornalisti
che utilizzano oggi il termine dematerializzazione, questa volta, alla scala
della macrofisica, vale a dire alla scala del mondo così come viene quoti­
dianamente recepito dai nostri sensi. In questa accezione, lo ritroviamo ne-
3 10 Made in Italy

gli scenari che si prospettano sul ruolo della scienza e della tecnologia nel
secolo prossimo venturo. In tali scenari, si sostiene spesso, l'impatto delle
tecnologie emergenti (informatica, telecomunicazione, bioingegnerie, ro­
botica e tecnologia dei materiali avanzati) porterebbe a un progressivo as­
sottigliarsi della materialità del mondo, a una dematerializzazione della no­
stra realtà nel s�o complesso. In altre parole, si sarebbe ormai avviata una
contrazione dell'universo degli oggetti materiali, oggetti che verrebbero
sostituiti da processi e da servizi sempre più immateriali»4. Dopo aver
esposto il problema, lo stesso autore nega decisamente che, malgrado gli
ultimi sviluppi dell'informatica, i suoi filtri e diaframmi, si possa sfuggire
alla nostra materialità e all'esigenza di toccare con mano le cose di questo
mondo. Il suo dissenso è accompagnato da un'ipotesi che sembra affran­
care gli «immateriali» dalla perdita del buon senso. <& assai probabile che
dietro il discorso sulla dematerializzazione si nasconda, ancora una volta,
un abuso metaforico, e che quello che si vuoi dire sia qualcosa di diverso.
Se così non fosse, se si pensasse sul serio a un drastico processo di dema­
terializzazione, ci troveremmo di fronte alla riproposta di certe forme esa­
sperate di misticismo, o almeno di idealismo soggettivo. Probabilmente ci
sono malintesi terminologici, anche se alcuni di essi, di sicuro, sono resi­
dui di problemi teorici, rimasti finora irrisolti nell'ambito della filosofia
della scienza e della tecnica»5 .
Maldonado è ottimista. Tranne gli sprovveduti, i più motivati fautori
della dematerializzazione lo sono per convinte ragioni. Tra queste emerge
ancora una volta una ricerca di stile formale: dopo le insensate p roposte
del post-moderno e del post-industriale e le altre, ancora più irrazionali ed
inapplicabili, del decostruzionismo - tutte sostenute da una debole filoso­
fia - ecco che un nuovo «ismo» prende corpo, confortato questa volta da
una forte tecno-scienza, peraltro molto popolare, visto che i suoi effetti
toccano gli interessi di tutti. Una seconda motivazione a favore dell'imma­
terialità è il moralismo ecologico: visto che la logica produttivistica del si­
stema industriale è fondata sul consumismo e considerato che lo sviluppo
sostenibile è difficile da realizzare, non resta che sperare nel meno inqui­
nante dei prodotti, quello appunto di natura immateriale. Ma se questa au­
tarchia, o meglio, astinenza è pensabile se applicata ad altri campi, non lo
è affatto per il design, un settore, come ripeto, della cultura materiale nel
quale di immateriale sono solo le sovrastrutture verbali. Ancora a favore
della dematerializzazione sono quei circoli conservatori che, in campo ur­
banistico, vorrebbero la conservazione integrale dell'ambiente p reesisten­
te, e, in quello del design, la non adozione di nuovi materiali legati inevi­
tabilmente a nuove forme: ma i più convinti assertori dell'immaterialità so­
no quegli studiosi più intenti alle teorizzazioni che alle sperimentazioni sul
campo.
XX. Internet non s'addice al design 311

Che uno scrittorè di fantascienza,... un fanatico futurologo, un tecnologo


«puro» auspichi un mondo tutto on line, virtuale al punto di rinunciare ad
ogni piacere dei sensi, è comprensibile, ma che lo stesso atteggiamento sia
condiviso da un architetto o un designer risulta inconcepibile. La questio­
ne non è se oggi sia possibile, come in tanti altri campi, l'esistenza di un de­
sign virtuale, tutto affidato alle immagini e non alla sua consistenza mate­
riale, ma se «vogliamo» che sia così, ovvero se siamo disposti a rinunciare
a tutte le categorie che da sempre hanno costituito lo specifico della cul­
tura materiale; in tal caso, siamo del tutto fuori dal senso comune.
Peraltro, se aggiungiamo alle ragioni ideologiche, politiche, ammini­
strative, burocratiche di chi è contro il «costruire» sia edifici che manufat­
ti, le teorie degli utopisti dell'anti-spazio, della virtualità, dell'immateria­
lità, ecc., diamo sostegno alla politica del non-fare, della malintesa conser­
vazione contro l'innovazione.
Sull'ipostasi della immaterialità ritorna Maldonado, questa volta rife­
rendosi specificamente al design, con una posizione di vigile distacco cri­
tico: «gli oggetti saranno sempre meno numerosi, sempre più leggeri e, in
alcuni settori, addirittura scompariranno totalmente. Se questo scenario si
dimostrasse vero [ . . ] coloro che, a tutti i livelli, sono oggi partecipi della
.

progettazione degli oggetti non potranno prescindere, a rischio di smarri­


re la loro identità, dal rivedere metodi e scopi della professione che eser­
citano. [ . . ] Occorre ammettere che, con la comparsa dell'informatica,
.

qualcosa di radicalmente nuovo è in procinto di nascere, ma il radical­


mente nuovo si presenta, per il momento, solo in forma di vaticini, auspi­
ci e p rofezie. [ . . . ] Non vedo perché si debba necessariamente escludere
che alcuni oggetti adesso tangibili possano, grazie all'informatica, in avve­
nire diventare intangibili. Si pensi ai processi in atto nei più diversi campi
della telematica, dal telelavoro alla telemedicina, dal telebanking al tele­
shopping. Molto diverso è però quando si ipotizza che tutti gli oggetti po­
trebbero essere investiti da un processo generalizzato di dematerializza­
zione. I sostenitori si richiamano volentieri alle nuove tecnologie, ma ciò
che caldeggiano è, in sostanza, una sorta di cultura animistica, una cultura
insomma che si colloca agli antipodi di quel rapporto reale con le cose,
che, da sempre, è stato alla base della tradizione più feconda della cultura
tecnologica. [ . . ] Ma a dare senso a questo sviluppo sarà, come abbiamo già
.

suggerito, il ruolo che noi conferiremo alla progettazione. Benché dobbia­


mo dare per scontato che, nel futuro, la progettazione degli oggetti che
non sono cose sarà sempre più rilevante, io sono persuaso che la progetta­
zione degli oggetti che sono cose rimarrà un compito non meno impor­
tante. Perché, nella misura in cui gli umani vogliano restare umani, il mon­
do delle cose sarà sempre il nostro mondo»6.
E veniamo alla seconda ipostasi, quella dell'«informazione». Nel lin-
3 12 Made in Italy

guaggio cibernetico, un'informazione è un elemento di conoscenza recato


da un messaggio che ne è il supporto e di cui essa costituisce il significato.
Quando i messaggi sono redatti secondo un codice determinato, si può va­
lutare l'informazione che trasmette un messaggio in caratteristiche date,
introducendo delle unità d'informazione7. Da questa definizione emergo­
no tre cose: l'i�formazione è un elemento di conoscenza; può variare da
codice a codice ed è misurabile come vuole un'apposita teoria, quella ap­
punto dell'informazione. L'informazione pertanto non è materia o energia
(Norbert Wiener), né spirito o soggettività (Gotthard Gi.inter) ma solo e
semplice informazione, notizia, fattore di conoscenza da trasmettere ad al­
tri. A mio avviso, questa trasmissione non riguarda una «sostanza», altri­
menti anch'essa diventa un'ipostasi, bensì una tecnologia che, tra le altre
numerose sue potenzialità - interconnessione, abbattimento delle distan­
ze, virtualità, ecc. -, comprende anche la capacità di trasmettere in «tem­
po reale» non l'unica e metafisica «informazione», ma le numerose altre
pertinenti ad ogni reale e specifico campo: le notizie economico-finanzia­
rie, quelle politiche, i fatti di cronaca, gli ordinativi commerciali, ecc.
A questo punto è necessario distinguere la poetica del digitale applica­
ta all'architettura da quella connessa al design che, pur avendo una base
comune, si presentano con una diversa fenomenologia. Già quando si par­
la di informazioni al plurale si può cogliere il primo modo per ridimensio­
nare l'assunto centrale di alcuni teorici dell'architettura digitale per cui
l'informazione è la «materia prima dell'architettura», espressione a mio av­
viso assolutamente priva di ogni significato. Invece Gerhard Schmitt scri­
ve: «poiché sono sempre più sottili i confini che dividono realtà e astra­
zione, e la tendenza dell'architettura è quella di allontanarsi dall'arte di co­
struire edifici per rivolgersi all'arte di creare strutture virtuali, la realtà vir­
tuale diventa il mezzo perfetto per simulare la nuova architettura. Tutto ciò
alla fine potrà addirittura avere come risultato la smaterializzazione
dell'architettura, che diventerà una sorta di campo di applicazione natura­
le della realtà virtuale»8. Lo spazio proprio di quest'ultima è il Cyberspa­
zio, non quello delle relazioni fisiche continue, ma l'altro immateriale del­
le relazioni a distanza. Più radicale ed esplicito intorno alle nozioni di Cy­
berspazio, Internet ed architettura digitale è William J. Mitchell, nel so­
stenere, a proposito dell'immaterialità di Internet: «la rete nega la geome­
tria. Benché abbia per i bits una topologia definita di nodi di computer da
cui si irradiano le grandi arterie e benché le ubicazioni dei nodi e delle con­
nessioni possano essere tracciate come planimetrie che disegnano dia­
grammi sorprendentemente haussmanniani, la rete è sostanzialmente anti­
spaziale. Non ha niente a che fare con piazza Navona o Copley Square. È
impossibile dire dove si trovi, descriverne memorabili proporzioni o
conformazioni, suggerire a uno straniero come arrivarvi. Ma è possibile
XX. Internet non s'addice al desig� 3 13

scoprirvi delle cosè senza sapere dove siano. La rete è un ambiente globa­
le [. . ] non è in nessun luogo in particolare ma insieme è dappertutto. Non
.

si va da: ci si collega in rete, da qualunque luogo ci capiti di essere fisica­


mente»9.

Conformazione e rappresentazione

È necessario un chiarimento sui due termini che intitolano il paragrafo.


Architettura, scultura, pittura, design e quant'altro si progetta sono tutte
produzioni caratterizzate dalla conformazione e dalla rappresentazione.
Non c'è immagine, nel senso più ampio del termine, che non comporti, ac­
canto ad una valenza conformativa, anche una che sia rappresentativa.
Quel che conta è il prevalere dell'una caratteristica rispetto all'altra. Esem­
plificando, un dipinto, che pure nasce da una Gestaltung, da una compo­
sizione conformativa, ha prevalentemente un carattere rappresentativo;
una scultura che, di primo acchito, si offre percettivamente come una
conformazione, successivamente si caratterizza per ciò che rappresenta;
un'opera d'architettura, invece, che pure rappresenta tipologicamente,
funzionalmente, tecnicamente qualcosa, è prevalentemente una confor­
mazione, un modo di comporre e articolare gli spazi; un oggetto di design
- il più parlante che sia, come quelli classificati nello stile del gioco, pro­
dotti da Alessi, Danese, Driade - vale prevalentemente in senso confor­
mativo. Inoltre la distinzione non è sempre affidata ai generi propri di cia­
scuna arte, ma è anche relativa all'epoca storica cui essa appartiene. Così
un grande affresco o una quadratura su un soffitto barocco colpisce più
per la sua conformazione che per la sua rappresentazione: è più vicino
all'architettura che alla pittura da cavalletto. La questione si pone soprat­
tutto per quelle opere dove la prospettiva gioca un ruolo dominante: la fin­
ta abside di S. Maria presso S. Satiro di Bramante, col suo trompe l'oeil, va
annoverata più nel genere rappresentativo che in quello conformativo; per
non parlare di tante manifestazioni dell'avanguardia: la gran parte di tutta
la pittura e scultura astratta è più conformativa che rappresentativa. La Las
Vegas teorizzata da Venturi, da cui, a suo dire, bisognerebbe imparare l'ar­
chitettura dalla più flagrante modernità, è più l'insieme di insegne lumi­
nose, di pannelli reclamistici che non una conformazione architettonico­
spaziale. Ma si tratta evidentemente di casi particolari. Generalmente ar­
chitettura e design, ripeto, appartengono prevalentemente al genere
conformativo piuttosto che a quello rappresentativo, per il quale ha mag­
gior senso parlare di informazione.
3 14 Made in Italy

Le informazioni possibili

Certo, che tramite Internet si possano trasmettere informazioni riguar­


danti la nostra disciplina è indubbio, ma non ritengo che quelli dell'archi­
tettura e del design siano i campi più avvantaggiati da Internet a fronte di
altri che ormai non ne possono più fare a meno. Comunque, nella fase di
ricerca, l'architetto o il designer può ricevere dati provenienti da centri
progettuali, sedi universitarie, musei, industrie produttrici di materiali, si­
stemi costruttivi e simili. L'operazione informativa più utile e sperimenta­
ta è il collegamento con altri operatori, una volta apertosi questo poten­
ziale atelier progettuale con sedi in ogni paese del mondo. In particolare,
si va realizzando quell'ideale lavoro di gruppo tanto auspicato da decenni.
Infatti un progetto può avere inizio in uno studio ubicato in una città, ri­
preso e discusso in un'altra, continuato in una terza e magari completato
in una quarta dove si raccolgono i dati delle precedenti elaborazioni ed ap­
provato da tutti i precedenti autori. Ciononostante le suddette informa­
zioni non costituiscono affatto la «materia prima dell'architettura». Né la
costituiscono le ipotesi, per così dire, più moderate sul futuro dell'infor­
matica applicata all'architettura, alcune delle quali già in atto. Si ipotizza
che la potenzialità di Internet agevolerà notevolmente il telelavoro; che in
generale ridurrà il volume di traffico sia pubblico che privato; che di con­
seguenza porterà una diminuzione dell'inquinamento atmosferico e di tut­
ti gli effetti collaterali dovuti agli spostamenti; si suppone che, grazie alle
comunicazioni on line, ogni sorta di scambio culturale, finanziario, com­
merciale porterà a trasformazioni riguardanti gli edifici delle scuole e del­
le università, delle banche, degli uffici e dei negozi; che la rete delle reti
consentirà un consumo di energia molto minore nella conservazione di li­
bri, memorie, atti, documenti rispetto alle strutture fisiche oggi deputate a
questo compito; che i meeting internazionali saranno meno costosi e più
frequenti, ecc. Ma ancora una volta ripetiamo: tutto ciò non basta a soste­
nere che l'informazione è la «materia prima dell'architettura». Essa va cer­
cata altrove e, a costo di ribadire il già noto, anzitutto nella interna spazia­
lità delle fabbriche, nonché ovviamente nelle loro componenti materiali,
pietra, ferro, legno, ivi comprese le materie nuove, il tutto restando sem­
p re nell'ambito del ponderoso, del volumetrico, del senso della massa ste­
reometrica. In ciò la nostra disciplina non ammette deroghe: essa è un'ar­
te antica.
Che cosa ha portato ad estendere all'architettura e al design gli assunti
dell'informatica fino a ritenere che l'informazione sia la loro «materia pri­
ma»? C'è chi considera il computer poco più che un «tecnigrafo elettroni­
co» e chi gli conferisce le potenzialità di un deus ex machina. Le due vie so­
no sostanzialmente quella di fabbriche effettivamente realizzate e quella di
XX. Internet non s'addice al design 3 15

altre destinate a rimanere pure immagini, le une rientranti nel dominio del
reale, le altre in quello del virtuale.
Ai fini del presente paragrafo, ci interessa ovviamente discutere la se­
conda posizione, ma in tal caso si ripropone il quesito centrale: quale tipo
di ragionamento ha portato alcuni autori a snaturare l'architettura, a sosti­
tuire il suo essere topos, luogo comunque chiuso e delimitato, con tutto un
armamentario di cose invisibili e intangibili di cui l' «informazione» diven­
ta l'emblematica sintesi? Quale logica sostiene tale passaggio? La risposta
più interessante che associa l'architettura ai fattori dell'informatica lo è
proprio per la sua assurdità. Dopo le citate correnti post-moderne, post­
industriali, decostruzioniste, cosa poteva sembrare più conseguente a que­
sta serie di aporie se non una poetica che negasse lo specifico dell'archi­
tettura, la sua interna spazialità? Il paradosso non è nuovo; già al tempo
dell'avanguardia storica c'era chi lo avvertiva, Hans Sedlmayr, che scrive­
va: «per diventare 'pura', 'autonoma', l'architettura deve espellere da se
stessa tutti gli elementi di altre arti con le quali era collegata sino alla fine
del barocco e del rococò (e anche oltre) , e cioè: l . gli elementi scenici, pit­
torici, plastici e ornamentali; 2. gli elementi simbolici, allegorici e rappre­
sentativi; 3 . gli elementi antropomorfi. Propriamente, comé quarto punto,
dovrebbe espellere anche l'elemento oggettivo, che nell'architettura è [ . . . ]
lo scopo, la finalità dell'edificio. Solo un'architettura priva di scopo, non
legata a compiti pratici, sarebbe del tutto pura, architettura per l'architet­
tura. Quest'ultimo passo l'architettura, per motivi facilmente comprensi­
bili, non può compierlo. Tuttavia gli si avvicina là dove lo scopo non è pre­
so sul serio, ma diviene un pretesto per realizzare idee puramente archi­
tettoniche. Ed anche per questo gli esempi non mancano»10. Anzi, si sono
moltiplicati in questi ultimi anni in cui sta fiorendo un vero e proprio ge­
nere, quello dell'architettura «dipinta» ed esposta in gallerie d'arte. Allora
l'avanguardia architettonica tendeva ad un'architettura così autonoma da
rinunciare ad alcune prerogative tradizionali, oggi si tende addirittura a
renderla virtuale.
Dal canto suo lthiel de Sola Pool, studioso degli aspetti economico-so­
ciali connessi con le telecomunicazioni, sostiene: «non c'è ragione di cre­
dere che le città e i loro grandi centri (downtowns) siano destinati a spari­
re». Pur ammettendo che le telecomunicazioni possano dar luogo a nu­
merose comunità senza contiguità, disperse in un vasto territorio, egli re­
voca in dubbio che questo modello possa diventare dominante: «è una pu­
ra fantasia immaginare che le telecomunicazioni possano condurre la gen­
te a vivere in isolamento fisico. È infatti poco realistico giacché gran parte
dell'attività umana non consiste soltanto nell'interscambio di informazio­
ne ma comporta anche l'azione sugli oggetti fisici»1 1 . E quest'ultimo as-
3 16 Made in Italy

sunto costituisce, a mio avviso, ciò che taglia corto con tutte queste fanta­
sticherie di un design virtuale.
Ora, la gran parte dell'apporto digitale all'architettura e al design va as­
segnata alla componente rappresentativa, che va dall'iconico al semantico,
dal virtuale al possibile - e ricordiamo che il reale è solo un caso del pos­
sibile -, dalla comunicazione all'informazione. Tutte queste facoltà, evi­
dentemente di grande importanza, per essere «architettoniche» devono
sostenersi sulla componente conformativa, che va dallo spazio degli invasi
interni alle singole fabbriche, penetrabili ed agibili, al volume dei loro in­
volucri esterni, dalla solidità della materia alla sua trama, dal gioco tangi­
bile dei pieni e dei vuoti al fenomeno per cui ogni architettura contiene
uno spazio ed occupa uno spazio; insomma tutte cose che sono percepibi­
li e che si toccano con mano.
E veniamo all'argomento più pertinente al nostro saggio: il rapporto tra
il design ed Internet, scelta sempre per rappresentare simbolicamente tut­
to l'apparato informatico. Quale apertura di questo più specifico discorso,
citiamo una felice considerazione di Mario Bellini. Questi, in un'intervista
a proposito della sua macchina da calcolo Logos 50/60 per Olivetti, par­
lando dell'origine e del valore della forma di un prodotto, afferma: «spes­
so mi capita di riassumere questo problema con un esempio: provate a far
smontare una macchina elettronica a un bambino che ne stacca tutti i fili,
mettete il tutto in un sacchetto trasparente e ponetelo di fianco a un altro
sacchetto che contiene la macchina intera; la differenza che c'è tra i due
sacchetti è il design»12.
La frase può essere interpretata in vari modi, ma rimanda comunque al
fatto che, pur utilizzando elementi elettronici e non solo meccanici (dove
più immediato risulta il rapporto di causa ed effetto), il design scaturirà co­
munque dall'aver dato forma alle parti assemblate in un tutto.
Ma c'è più di un'altra ragione per sostenere la quasi estraneità del design
rispetto alla tecnologia digitale quale fattore risolutivo della sua confor­
mazione. Salvo per la costruzione di grandi «oggetti» d'uso «superindivi­
duale» - aerei, treni, sottomarini, macchinari, ecc. - che indubbiamente si
avvale del calcolatore, la gran parte delle merceologie del design può igno­
rare senza grave danno l'apporto della tecnologia digitale. Infatti, se da un
lato regge ancora il rapporto forma-funzione, nonché il doppio significato
sintagmatico (in praesentia) e associativo (in absentia) che peraltro soddi­
sfa l'esigenza della tanto invocata «comunicazione», e se dall'altro l'infor­
matica non sembra voler riconoscere la spazialità, la materialità, bensì so­
lo la discussa «informazione», si direbbe che siamo in presenza di due fe­
nomenologie divergenti, per di più con la volontà di procedere ognuna per
la propria strada. Nel campo del design e in quello dell'arredo in partico­
lare non siederemo mai su un'immagine virtuale, né la Stimmung propria
XX. Internet non s'addice al design 3 17

di un ambiente 'ben arredato sarà soppiantata da un'informazione. La


Stimmung, il senso dell'intimità, ecco qualcosa che nel campo del design
d'arredo non potrà essere sostituito, quale che sia la nuova tecnologia in
auge.
Limitando il nostro discorso conclusivo al campo del mobile e dell'ar­
redo domestico, poniamo a confronto le posizioni più lontane fra loro in
ordine alla questione neotecnologica. Da un lato il già citato Mitchell, l'in­
novatore, dichiara: dopo aver incorporato micro-chips, «comincerete a
proiettarvi anche nell'architettura [e negli oggetti di design] . In altre pa­
role, alcuni dei vostri organi elettronici potranno essere incorporati
nell'ambiente che vi circonda. Dopo tutto, non vi è molta differenza tra un
computer portatile e un modello da tavolo, tra un orologio da polso e uno
da parete, tra un apparecchio acustico inserito nel vostro orecchio e una
cabina telefonica pubblica per i non udenti. È solo questione dell'organo
a cui è fisicamente applicato; questo ha poca importanza, in un mondo
senza fili in cui ogni dispositivo elettronico ha possibilità di calcolo e di te­
lecomunicazione incorporate. In questo modo, !"abitare' assumerà un
nuovo significato - un significato che non ha tanto a che fare con il par­
cheggiare le vostre ossa in uno spazio definito architettonicamente, quan­
to piuttosto con il collegare il vostro sistema nervoso a organi elettronici
che si trovano in prossimità. La vostra stanza e la vostra casa diventeranno
parte di voi e voi diventerete parte di esse»13. La tesi degli elementi di de­
sign incorporati fisicamente prosegue con una serie di paralleli che dicono
tutto: Occhi/Televisione; Orecchi/Telefonia; Muscoli/Attuatori; Mani/Tele­
manipolatori; Cervelli/Intelligenza artz/iciale, ecc. Queste associazioni dal
più vieto materialismo - in altri momenti negato in omaggio alla presunta
immaterialità di tutto l'apparato informatico - sono inammissibili ove ap­
pena si ammetta che questo atomismo delle funzioni appartiene ad una
psicologia primitiva, quando cioè la conoscenza psicologica era affidata al­
la somma di tutti i dati percepiti e ora del tutto superata dalla percezione
unitaria e globale sostenuta dal gestaltismo in poi. Inoltre, quale esempio
di design realizzato, dagli oggetti dell'estroso Starck e quelli di Gaetano
Pesce, possono fornire un'idea di quanto vagheggia Mitchell?
Dall'altro lato, il conservatore Mario Praz scrive: «gallerie, chiese, cele­
bri punti di vista, paesaggi immortalati dai poeti, sì, a tutto questo son
tutt'altro che indifferente; ma per le case ho un debole, in esse non soltan­
to mi sento più a contatto col passato, ma la stessa disposizione degli arre­
di agisce su di me come un incanto. L'odore dei mobili, della cera dei pa­
vimenti, delle stanze antiche, mi è altrettanto grato quanto e forse di più
del profumo di prati primaverili; e tra i miei mobili mi fu un tempo parti­
colarmente cara una piccola toletta Restaurazione di cedro odorifero che
nella quiete effondeva il suo lieve sentore a folate rare, che occorreva cer-
3 18 Made in Italy

care mettendosi al punto giusto come per vedere un quadro»14. Ma lo stes­


so non può dirsi per il comò a quattro cassetti di Caccia Dominioni?
Lascio al lettore la scelta o, quanto meno, la vicinanza ad una o all'altra
posizione volutamente estreme, avvertendo che non si tratta di scegliere
fra un modello ed un altro, ma in definitiva dell' «arte di abitare», di rivi­
vere cose ed ambienti, ossia di una creatività connessa al piacere, al valore,
all'interpretazione e quest'ultima, si sa, è· una modificazione che, a sua vol­
ta, modifica noi stessi; ben si comprende che, per questo ed altro detto in
precedenza, resto della convinzione che Internet non s'addice al design.

Note
1 J. Gimpel, Contro l'arte e gli artisti, Bompiani, Milano 1 970, p. 193.
2 E. Frateili, Continuità e trasformazione. Una storia del diSegno industriale italiano 1 928- 1 988,
Alberto Greco Editore, Milano 1989, p. 208.
3 Ibid.
4 T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992, p. 10.
5 I vi, pp. 1 2 - 1 3 .
6 T . Maldonado, I l mondo delle cose e la sfida informatica, in <<Stile Industria>>, n. 4, dicembre
1995.
7 Cfr. A. Lalande, Dizionario critico difilosofia, ISEDI, Milano 1 97 1 , p. 424.
8 G. Schmitt, Information Architecture, Testo & Immagine, Torino 1998, pp. 29-30.
9 W.J. Mitchell, La città dei bits, Electa, Milano 1997, pp. 9-10.
10 H .
Sedlmayr, La rivoluzione dell'arte moderna, Garzanti, Milano 1958, p. 17.
11
Cit. in T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1 997, p. 96.
12
Cit. in A. Branzi, Il design italiano 1 964-1 990, Electa, Milano 1996, p. 200.
" Mitchell, La Città dei bits cit., pp. 22-23 .
14 M. Praz, La filosofia dell'arredamento, Longanesi, Milano 1964, pp. 37-38.
Indici
Indice dei nomi�·,

Aalto, A . , 67 , 100. Bagatti Valsecchi, P., 149.


Abruzzese, A., 1 96, 2 10. Baj, E., 169.
Acerbis, L., 236. Baldessari, L., 26, 57, 84, 185, 224.
Achilli, M., 147, 149. Balla, E., 25.
Adorno, T. W., 22, 278, 285-286, 289. Balla, G., 2 1 , 22-24, 25, 26, 29, 30-3 1 , 49.
,'Emilia Ars, 8. Ballo, A., 5 1 , 136.
Agam, ] . , 166. Balsamo Stella, A., 35.
Agazzi, ingegnere, 64. Balsamo Stella, G., 35, 3 7.
Agnelli, G., 62. Banfi, A., 1 19.
Albers, J . , 49-50, 163 . Banfi, G., 82.
Albini, f., 76, 82, 85, 86, 90, 94, 1 12 , 1 13, 1 14, Bangert, A., 278.
126, 136, 139-140, 1 7 1 , 188, 2 1 5 , 224, 232. Banham, R. , 3 1 , 150.
Alessi, A., 209-2 10, 242, 244, 278. Barbini, A., 39.
Alimandi, E., 3 1 . Bardeen, ]. , 292.
Alison, F., 1 5 3 , 154. Barilli, R. , 174, 176.
Baroni, D., 106.
Alviani, G., 169.
Barrese, A., 164.
Ambasz, E., 2 16, 2 1 7.
Barry, R., 169, 172.
Anastasio, A . , 246.
Barthes, R., 182.
Anceschi, G . , 164.
Bartoli, C., 186, 188.
Andre, C., 177.
Bartolini, D., 1 98.
Anselmo, G., 17 1 . Bartolini, L., 198.
Antoniani, M., 143. Basile, E., 9, 1 1 , 1 2 - 1 3 .
Apollinaire, G., 54. Bassi, A . , 9 5 , 23 1 .
Arad, R., 263. Battaglia, S., 278.
Archigram, 2 1 1 . BBPR, 82, 86, 90, 1 12 , 1 13, 1 14, 1 15, 130, 1 3 1 ,
Archizoom, 160, 1 8 1 , 188, 190, 198, 205, 234, 150, 224.
254. Beardsley, A., 14.
Argan, G.C., 3, 18, 50, 53, 5 5-56, 103, 140, 156, Becchi, A., 160.
168, 170, 176, 289, 295 , 299. Beecher, sorelle, 1 17 .
Armer, K . M . , 278. Beecher, C., 1 17 .
Arp , J. , 49, 53, 60, 74. Behrens, P . , 28, 32.
Asplund, G., 67, 153 . Belgioioso, L., 82.
Asti, S., 149, 1 5 1 , 2 1 3 , 224. Beli, A.G., 88.
Astori, A., 187, 1 90, 249-250. Bellini, M., 128, 152, 160, 188, 205, 2 16, 2 1 9 ,
Aulenti, G., 147, 149- 150, 160, 186, 224, 268. 3 16.
Aymonino, C., 143. Belotti, G., 189, 190.
Azumi, S., 222. Benjamin, W., 16, 18, 92, 106, 294.

'' I numeri in corsivo rin1andano alle pagine con illustrazioni.


322 Indice dei nomi

Berizzi, S . , 120. Bucci, A., 42.


Bernett, ]. , 266. Bulegato, F., 23 1 .
Berni, L., 18, 3 1 , 45, 95-96. Buontalenti, B . , 273.
Benone, G., 1 2 1 . Buquet, E. W., 224.
Benone, N . , 1 2 1 . Burgin, V., 172.
Berzeli us, J.J., 292. Bury, P., 166.
Bianchetti, A., 86. Buttè, C., 120.
Bianchi, E., 62. Buzzi, T., 42.
Bianchi, G., 66. Buzzi Ceriani, F., 149.
Bianconi, F., 126.
Bill, M., 162. Caccia Dominioni, L., 67 , 85, 86, 1 14, 1 3 9 , 143 ,
Binazzi, L., 198. 144, 145, 146, 147, 148, 1 5 3 , 192, 3 18.
Bing, S., 4. Calder, A., 5 1 , 163 , 226.
Birelli, G. , 198. Calderara, M., 64.
Blake, P., 299. Caldini, C., 1 98.
Blériot, L., 70. Calvesi, M., 19, 3 1 , 158, 1 7 1 , 175- 176.
Bloc, A., 47. Calvino, I., 53 -54, 56, 1 58.
Blummer, R., 256. Calzavara, M., 18, 149.
Bobbio, N., 96. Calzolari, P.P., 204.
Boccioni, U., 23, 27, 47, 49, 273. Cambellotti, D., 124.
Bocconi, F., 135. Cammeo, P., 1 98.
Bocconi, L., 135. Campo, F., 109.
Boeri, C., 188. Camus, R., 82 .
Boetti, A., 1 7 1 , 204. Canella, G., 147, 149.
Boggeri, A., 125, 128. Cangiullo, F., 24.
Boiro, C., 8. Cappiello, L., 124.
Bonacina, V., 1 7 1 . Caproni, G., 64.
Bonetto, R . , 188, 268. Caramel, L., 5 1 , 56.
Bonfiglioli, A., 44. Caramia, P., 244.
Bonfiglioli, P , 176. Carboni, E., 125- 126.
Bono, S., 139. Carini, A., 139.
Bonsiepe, G., 194, 2 1 0. Carmagnola, F., 155, 193 .
Bontempelli, M., 42, 125. Carmi, E., 1 69.
Borges, ].L., 174. Carminati, L., 81 -82.
Boriani, D., 164. Carosone, R., 206.
Borlerti, R., 135, 138- 140. Carothers, W.H., 104.
Borsani, 0., 1 14 , 2 15 . Carrà, C., 2 3 .
Bosch, H . , 273. Carwardine, G., 226.
Bosio, L., 122. Casati, C.M., 160.
Bosoni, G., 127, 132, 134. Casorati, F., 40, 67.
Boswell, J., 67. Cassirer, E., 55.
Botta, M., 190, 236, 237. Castagnoli, U., 44.
Bottoni, P., 75, 80, 184. Castellani, A., 1 19.
Boucher, F., 264. Castellano, M., 126.
Boulle, A.-C., 38. Castelli, G., 126, 140, 186.
Bourgeois, V., 40. Castelli Ferreri, A., 1 05, 186, 283 .
Bracci, T.A., 3 1 . Castigliani, A., 1 14, 1 17 , 1 3 9, 144, 149- 150,
Bramante, D., 3 12 . 152, 153, 159, 160, 17 1 , 184, 185, 188, 1 90,
Brancusi, C . , 7 4 , 193 . 224, 225, 228, 277.
Brandi, C., 297, 299. Castigliani, G., 105, 1 86, 188, 268.
Branzi, A., 103 , 106, 108, 127, 1 98, 202, 205- Castigliani, L., 85, 86.
207, 2 10, 23 1-232, 233, 234, 235, 242 , 3 1 8. Castigliani, P., 224.
Brasini, A., 72. Castigliani, P.G., 85, 86, 1 14 , 1 1 7 , 139, 144,
Brattain, W.H., 292. 149-150, 152, 1 5 3 , 159, 160, 1 7 1 , 1 84 , 1 85,
Braudel, F., 284. 188, 1 90, 224, 225, 228.
Breuer, M., 89, 139, 160, 178, 294. Carradori, D., 139.
Brigidini, D., 149. Celant, G., 170, 176, 1 99.
Brustio, C., 1 38-139. Ceretti, G., 159, 160, 1 98.
Indice dei nomi 323

Ceroli, M . , 158, 160. De Lucchi, M., 201 , 202, 204-205, 226, 277,
Cerri, P., 277. 296, 307.
Ceruti, U., 8, 1 3 . De Marchi, V., 26.
Chalk, W., 2 1 1 . De Martini, P., 172, 188.
Chessa, G . , 40, 67 , 75-76, 79, 95 . de Matteis, A., 1 17.
Chia, S . , 204. De Micheli, M., 48, 56, 95.
Chiapponi, M., 299. De Pas, ] , 158, 159, 160, 1 6 1 , 1 7 1 - 172, 188,
Chiara, P., 90. 190, 1 9 1 , 2 19.
Chiesa, P., 42, 76. Depero, F., 23-24, 26, 28, 3 1 , 38, 125.
Chini, G., 37. Derossi, P., 1 59, 160, 1 98.
Chiassone, E., 6. De Sanctis, F., 198, 2 7 1 .
Cibic, A., 205 . De Sola Pool, 1 . , 3 15 .
Citterio, A., 193 , 2 19, 260. D e Vecchi, G . , 164.
Clausetti, P., 82 . Dewasne, ]., 162.
Colbertaldo, A., 228. Deyrolle, J, 162.
Colombini, G., 139. Dick, Ph.K., 258.
Colombo, G., 164. Diderot, D., 1 93 .
Colombo, J., 99, 1 05, 150, 160, 169, 186, 224, Dietterlin, W . , 273.
236. Di Maggio , ] . , 160.
Confalonieri, G., 126. Dini, M., 23 1 .
Cook, P., 2 1 1 . Diulgheroff, N . , 26, 3 1 .
Coppedé, G . , 72. Dorazio, P., 50.
Corradi Dell'Acqua, C., 143 , 147. D01·fles, G., 48, 5 1 , 124, 127, 150, 162, 169,
Corradini, P., 1 06. 176, 193, 290, 299.
Corretti, G., 198, 23 1 . Dradi, C., 125- 126.
Cosenza, L . , 130. Drocco, G., 1 60.
Costa, T., 3 1 . Ducrot, V., 8, 1 3 .
Costanzi, C . , 70. Dudovich, M . , 1 7, 1 2 4 , 135.
Crasset, M., 246. Dudreville, L., 42.
Crispolti, E., 23 , 3 1 . D'Urbino, D . , 158, 1 59, 160, 1 6 1 , 1 7 1 - 172, 188,
Croceo, A . , 70. 190, 1 9 1 , 2 19.
Crompton, D., 2 1 1 .
Cruz-Diez, C., 169. Eco, U., 120, 155, 166, 176, 299.
Cutler e Girard, 8. Eiffel, G.A., 2 15.
Cuzzi, U . , 76, 79. Einstein, A., 74.
El Lissitzky (pseud di L. Lissitzky), 24, 49, 177.
D'Alembert, ].-B., 182, 193.
Dalisi, R., 198, 202, 208-2 10. Fabro, L., 1 7 1 .
Dal Verme, L . , 6. Facciali, A., 64.
D ' Amato, G., 2 10, 278. Farina, P., 18, 3 1 , 45, 95-96.
Danese, B., 245-246. Fassina, G., 226.
D ' Aniello, 1 7 1 . Fava, 0 . , 18.
D 'Annunzio, G . , 135. Favre, S., 149, 1 5 1 .
Dardi, D . , 278. Febvre, L . , 3 0 1 .
D'Aronco, R., 6, 7. Ferdinando I V d i Borbone, 12.
D'Ascanio, C., 1 10, 1 1 1 . Ferrari, L., 149.
Deabate, T., 40. Ferreri, M., 246, 255, 256.
de Bevilacqua, C., 230, 246. Fiedler, K., 47, 56.
De Carli, C., 1 14 , 216. Figini, L., 44, 75, 85, 86, 1 16, 128.
De Chirico, G., 41. Fillia (pseud. di L. Colombo), 26, 3 1 .
De Filippo, E., 209. Fiori, L., 149.
De Fusco, R., 3 1 , 1 93 . Fischer, E., 104.
Deganello, P . , 198, 224, 233, 234, 235, 254, Fiumi, F., 1 98.
266. Flavin, D., 177.
De Giorgi, M., 3 1 . Florio, V., 4.
D e Goetzen, G., 1 17. Focillon, H., 100- 1 0 1 , 103, 106.
de Guttry, 1., 18, 3 1 . Folgore, L., 28.
Delaunay, R . , 47, 49. Fontana, L., 49.
324 Indice dei nomi

Forcolini, C., 175, 226, 227, 240, 257, 258, 278. Gregotti, V., 18, 3 1 , 44-45, 59, 82, 94-96, 1 14,
Ford, H., 60. 127, 134, 147, 149- 150, 1 5 1 , 279, 288.
Foresi, R., 198. Griffini, E., 80, 1 17.
Fossati, P., 132, 134, 198, 210. Grignani, F., 125.
Foster, N., 2 16, 2 18. Grimaldi, A., 18, 3 1 , 45, 95-96.
Fragonard, ]. - H . , 264. Gropius, W., 34, 150, 209.
Franchini, R., 306. Grossi, A., 12.
Frassinelli, P., 198. Grotowski, ] . , 170.
Frateili, E., 74, 95, 130, 134, 2 10, 3 18. Gruppo dei sei, 67.
Frattini, G., 90, 1 7 1 , 186, 188. Gruppo dei sette, 42.
Frederick, Ch., 1 17. Gruppo 7, 44, 50, 58-59, 8 1 .
Frette, G., 44, 75. Gruppo G 1 4 , 99.
Freud, S . , 126. Gruppo Mid, 164.
Fronzoni, A.G., 180, 1 8 1 , 184, 190, 193. Gruppo 9999, 198.
Fukasawa, N., 246. Gruppo Strum, 198, 205, 208.
Fuller, B., 2 1 1 . Gruppo T, 164.
Fulton, H . , 169. Gruppo Ufo, 198, 202.
Fumagalli, fratelli, 1 17. Gualino, R., 67.
Funi, A., 42, 75. Guerriero, Ad., 202.
Fusco, G., 193. Guerriero, Al., 202.
Gi.inter, G., 3 12 .
Gabardini, G., 64.
Gabetti, R., 149. Hall, E.T., 262.
Gabo, N., 49, 5 1 . Hauser, A., VI, VIII.
Gabrielli, G., 70. Haussmann, R., 202.
Galante, N., 27, 67. Haussmann, T., 202.
Galbraith, J.K., 197. Helg, F., 126, 1 7 1 .
Galli, P., 198. Hélion, ]., 49.
Gardella, I., 67, 82, 1 14, 139, 143, 145, 150, Herbin, A., 49.
186, 1 90, 224. Herron, R., 2 1 1 .
Garnier, T., 32. Hitchcock, H . -R., 127.
Hoff, E., 293 .
Garroni, E., 59, 95 .
Hoffmann, J., 32, 34, 38, 42, 58, 7 1 .
Gatti, P., 158.
Hollein, H . , 205, 245 .
Gaudi, A., 4, 14, 58.
Hollington, G., 2 1 9.
Gemito, V., 12.
Horta, V., 4, 14, 1 6.
Germani, M., 139.
Huber, M . , 6, 125- 126, 136.
Ghini, G., 38.
Hi.ibner, A. von, 6.
Giacosa, D . , 68, 69, 1 10, 122, 139.
Huebler, D . , 172.
Giedion, S., 73-74, 95, 267-268, 278.
Hugo, V., 120.
Gigante, G., 12.
Husserl, E., 180.
Gimpei , J . , 307, 3 1 8.
Ginna, A., 26-27.
Ginsberg, A., 197 . Iliprandi, G., 126, 1 3 6.
Gioii, S . , 198. Irace, F., 278.
Giovannoni, S., 188, 243, 244-245. Irvine, ]., 246.
Gismondi, E., 186, 204. Isola, A., 149.
Giugiaro, G., 122. Isozaki, A., 205.
Goya, F., 275. Issel, A., 8.
Graffi, C., 109.
Grassi, A., 1 4 1 , 164, 2 10. J acober, 1 7 1 .
Graves, M., 205, 236, 245. Jacobsen, ] . , 226, 230.
Grcic, K., 222. Jencks, C., 245.
Greene, D., 2 1 1 . Judd, D., 177.
Greenough, H . , 294. Juhl, F., 100.
Gregari, A., 202.
Gregari, B., 202, 205. Kandinskij, W., 47, 49.
Gregorietti, S., 136. Kahn, L., 150.
Indice dei nomi 3 25
Kant, E., 6 1 . Magris, A., 198.
Katz, S . , 106. Magris, R., 1 98.
Kelly, E., 178. Maillart, R., 2 15.
Kennedy, J., 157. Maino, M.P., 18, 3 1 .
Kerouac, J . , 197. Majakovskij, V., 54.
Kircherer, S . , 1 3 3 - 134. Maldonado, T., v , v m , 73, 95, 136, 309-3 1 1 , 3 18.
Kita, T., 265, 266. Malerba, E., 42.
Klee, P., 23 , 46-47. Malevic, K., 47, 52, 177, 1 84.
Klier, H . von, 2 16. Mangiarotti, A., 130, 2 15 , 224, 232, 236.
Koenig, G.K., 1 10, 127. Mango, R., 1 1 3, 1 14, 139, 2 16.
Kosuth, J., 172-173, 204. Mantovani, A., 122.
Kounellis, J., 1 7 1 . Manzini, E., 1 02 - 103, 106, 123 , 127, 220, 23 1 ,
Kron, J., 2 1 1 . 278, 280, 288, 293 , 299.
Kubler, G . , VIIJ. Manzù, P., 122.
Kupka, F., 47, 49. Marangoni, G . , 40, 125.
Kuramata, S., 205. Marchelli, R., l 06.
Marcuse, H., 197, 24 1 -242, 278.
Labò, M., 132. Mare, A., 38.
La Ceda, F., 278. Marelli, M., 42.
Lalande, A., 95, 3 18. Mari, E., 103, 126, 139, 156, 166, 172, 186, 1 87,
Laminarca, G., 164. 188, 190, 236, 246, 248, 249-252, 254.
Lancia, E., 40, 42, 75, 1 3 5 . Marinetti, T., 28, 3 1 .
Lancia, V., 62. Martinet, A., 59, 95.
La Pietra, U., 236. Martino, C., 193 , 23 1 , 244, 270, 278.
Larco, S., 44, 59, 76. Martinoli, G., 89.
L.A. Silvers, 2 12 . Marussig, P., 42 .
Latis, V., 90. Marx, K., 1 94.
Lauda, G., 220. Maschietto, V., 198.
Laudani, M., 224. Massobrio, G., 18, 95.
Laum, L., 136. Matisse, H., 58.
Lazzani, L., 149. May, E., 1 18.
Le Brun, Ch., 264. Mazza, S., 186.
Le Corbusier (pseud. di Ch.-E. Jeanneret) , 34, Mazzacotelli, A., 38.
58, 63 , 153 , 285, 294. Mazzocchi, G., 140.
Léger, F., 47. Mazzoleni, G., 82.
Levi, C., 67 . Mazzucote!li, A., 8, 12.
Levi Montalcini, G., 67. McShine, K., 1 93 .
Lévi-Strauss, Cl., 302. Meda, A . , 190, 2 1 9 , 226, 228, 229, 230, 240,
LeWitt, S., 177. 246, 255, 256, 258.
Libera, A., 26, 75. Melani, A., 12.
Libiszewski, S . , 136. Mello, F., 160.
Lichtenstein, R. , 158, 169. Mendini, A., 99, 200, 202, 203, 204-205, 208,
Lissoni, P., 193, 260. 2 10, 245.
Lomazzi, L., 158, 1 59, 160, 1 6 1 , 1 7 1 - 172, 188, Meneghetti, L., 149-150, 1 5 1 .
190, 1 9 1 , 2 19. Meneguzzo, M . , 176, 1 86, 193 , 245.
Lonzi, C., 176. Menghi, R., 1 17 .
Loos, A., 32, 58, 100, 102. Menna, F . , 3 1 , 158, 166, 168, 176, 242, 278.
Lotto, L., 174. Menzio, F., 40, 67.
Lovegrove, R., 188. Meroni e Fossati, 76.
Lyotard, J.-F., 309. Merosi, G., 62.
Merz, M., 1 7 1 .
Mackintosh, Ch.R., 4, 18, 32, 34, 153 , 154. Meucci, A . , 88.
Mackmurdo, A., 14. Mezzacapo, marchese, 12.
Magistretti, V., 1 05, 1 15, 143, 1 7 1 - 172, 186, Mies van der Rohe, L., 44, 89, 177- 178, 184.
1 90, 266, 268. Minoletti, G., 70, 82.
Magnelli, Alberto, 47, 49, 89. Mitchell, W.J ., 296, 299, 3 12, 3 17 , 3 18.
Magnelli, Aldo, 89. Moholy-Nagy, L., 49.
Magni, P., 70. Mondrian, P., 46, 49-50, 52, 60.
326 Indice dei nomi

Monnet, G., 5 1 . Pagani, C., 1 17, 136.


Monroe, M., 157, 160. Pagano, G., 67, 71, 82-84, 86, 90, 1 12 , 125, 184.
Montagni, D., 1 17, 120. Paladini, V., 26, 3 1 .
Monti, A., 149. Paladino, M . , 204.
Monti, G., 149. Palanti, G., 82, 94.
Monti, P., 149. Pallavicina, C., 1 10, 1 1 1 .
Moore, H., 5 1 . Palterer, D . , 254.
Morandi, R., 1 3 , 18. Pandolfi, M., 37.
Morassutti, B., 130. Pannaggi, I., 26, 3 1 .
MoreLli, D., 12. Panofsky, E., 55-56, 178.
Morello, A., 136. Pansera, A., 18, 96, 109, 1 16, 125, 127, 1 3 4 ,
Moretti, G., IO, 1 3 . 1 4 1 , 2 1 0.
Morin, E., 1 5 7 , 176. Paolini, C., 158.
Morozzi, M., 198, 220, 238, 239, 254. Paolini, G . , 173 - 1 74.
Morris, W., 3 , 20, 54, 177, 186. Paolucci, E., 86.
Morrison, J., 224.
Papini, G., 8 1 .
Morrensen, R., 162.
Pardi, G . , 278.
Morteo, E., 2 19, 2 3 1 .
Parisi, I., 90.
Mount, R. , 69.
Pasca, V., 1 07 , 127, 1 3 4 , 1 5 5 , 1 83 - 184, 192-
Mucchi, G., 77, 82.
Munari, B., 46, 49-5 1 , 90, 125- 126, 128, 136, 1 93 , 258, 278.
156, 162-163, 165, 166, 186, 246, 248. Pascali, P., 1 7 1 .
Muratore, R., 125. Paulucci, E., 67.
Mussolini, B., 94, 109. Pea, C., 86.
Muthesius, H., 28. Pellizzari, A., 126, 140-1 4 1 .
Muzio, G., 33, 4 1 , 42, 75 , 79. Penati, ingegnere, 7 1 .
Peressutti, E., 82, 126.
Naralini, A., 198. Perret, A., 32.
Natta, G., 104. Persico, E., VIII, 42, 58, 67, 76, 78-79, 9 1 , 93,
Navone, P., 205 . 94-95, 1 12 , 125, 1 28, 170.
Negri, L., 126. Pesce, G., 160, 1 6 1 , 188, 205 , 220, 260, 269,
Nervi, P.L., 2 1 5 . 270, 272-273 , 278, 3 17 .
Newby, F., 2 1 2 . Pevsner, A . , 49.
Newman, B., 178. Piacentini, M., 45.
Nicholson, B., 49-50. Piano, R., 212, 2 1 5 .
Nicolais, L., 106. Picasso, P . , 46, 5 8 , 256, 258.
Nietzsche, F., 53, 286. Pietroni, L., 280, 288-289.
Nipkow, P.G., ! 19. Pininfarina, S., 109, 1 12 , 1 2 1 .
Nizzoli, M., 90, 91, 93, 94, 125, 128, 130, 132, Pintori, G., 125, 129.
!56. Piretti, G., 2 16, 2 1 7-218.
Noland, K., 178. Pistoletto, M . , 169, 1 7 1 , 204.
Noorda, B., 126. Pizzocaro, S., 289.
Nouvel , ] . , 1 93 , 260. Platone, 1 84 .
Nulli, A., 82-83, 96. Poggioli, R., 3 1 .
Pollini, G . , 26, 44, 7 5 , 85, 86, 1 16, 128.
Ojetti, U., 45, 8 1 . Ponti, G., 38, 40, 42, 44-45, 70-7 1 , 75, 78, 80-82,
Olbrich, ].M., 6. 90, 92, 94-95, 1 12 , 1 3 5 - 136, 138-14 1 , 224.
Oldenburg, C., 158, 169. Ponzio, E., 160.
Olivetti, A., 89, 128, 130, 132-133, 139. Portoghesi, P., 18, 95 , 155, 205, 245.
Olivetti, C., 89, 128. Poulton, N., 246.
Oppi, U . , 42. Prampolini, E., 26-28, 3 1 .
Oriani, P., 3 1 . Prati, S., 139.
Orlandi, R., 1 09. Praz, M., 3 17 -3 1 8.
Otto, F., 2 1 1 . Preti, E., 1 10, 1 1 1 .
Prini, G., 37, 17 1 .
Paci, E . , 1 40. Prouvé, J., 2 1 1 , 2 1 5 .
Pacioli, L., 138. Provinciali, M . , 126.
Packard, V., 196, 2 1 0. Pulitzer Finali, G., 72, 82.
Indice dei nomi 327
Puppa, D., 202. Saltini, L., 88.
Salvini, R., 56.
Quaroni, L., 143. Sambonet, R., 126, 136.
Quarti, E., 8, 12. Sandri, D., 149.
Quesada, M., 3 1 . Sanminiatelli, B., 27.
Quintavalle, A.C., 25 1 , 278. Santachiara, D., 224.
Sant ' Elia, A., 20, 27, 2 1 1 .
Sapper, R. , 87, 88, 1 03 , 120, 139, 186, 214, 2 1 5 ,
Raboni, F., 149.
2 1 7, 221 226, 307-308.
Radice, B., 204, 2 1 0 . '
Sarfatti, G., 90, 1 14, 228.
Radice, M . , 4 6 , 4 9 , 156.
Sarfatti, M., 42.
RRgghianti, C. L., 130.
Sartoris, A., 3 1 , 67.
Raggi, F., 18, 3 1 , 200, 202, 2 10.
Savio, P., 6.
Rams, D., 295 , 299.
Sbordone, M.A., 278.
Ranke, L., Vl.
Scacchetti, L., 277.
Rapi, L.F., 122.
Scaglione, F., 1 2 1 .
Rashid, K., 246.
Scarpa, A., 160, 1 7 1 , 268.
Rathenau, famiglia, 30.
Scarpa, C., 67, 130, 1 3 1 , 160, 190, 2 1 7, 224.
Rauschenberg, R., 1 69.
Scarpa, T., 1 15, 160, 1 7 1 , 268.
Rava, C.E., 44, 58-59, 76, 8 1 -82, 96.
Schawinsky, X., 125, 128.
Recchi, M . , 27.
Schiller, ].Ch., 241 -242, 278.
Reeves, R., 197.
Schlemmer, 0., 57.
Reggiani, M . , 46, 49, 156. Schmitt, G., 3 12 , 3 18.
Reinhardt, A., 178. Schoffer, N., 47.
Revelli, M., 68, 109, 140. Sch(itte-Lihotzky, G., 1 18.
Rho, M., 46, 49, 156. Schwitters, K., 24, 49.
Riccò, 8. Scoccimarro, A., 149.
Ridolfi, M., 143 . Scully, V., 155.
Riegl, A , 287 . Sedlmayr, H . , 3 15 , 3 18.
Riesmann, D., 196. Semper, G., 20, 53, 298.
Rietveld, G., 67, 153 , 177- 178. Serra, R., 177.
Rinaldi, G . , 1 14. Seuphor, M., 49.
Rinaldi, R. , 21 O . Severini, G., 23.
Riva, U., 149, 1 7 1 . Shockley, W.B , 292.
Rivolta, U . , 149. Simondon, G., 280, 288.
Rizzatto, P., 153 , 155, 1 9 1 , 1 92 , 224, 226, 228, Sinisgalli, L., 140.
229, 230, 235, 238, 240, 246, 260. Sipek, B., 253, 254, 266.
Rizzi, S . , 149. Sironi, M., 42 , 43.
Robbe-Grillet, A., 54. Slesin, S., 2 1 1 .
Rogers, E.N., 82, 1 07, 1 12, 127, 1 3 9- 140, 147, Sobrero, E., 40.
150, 155, 192. Soldati, A., 46, 49, 5 1 .
Rogers, R. , 2 12, 23 1 . Soto, ].R., 169.
Romanelli, M . , 224. Sottsass, E., jr., 128, 138, 183, 185, 201, 202,
Romano, G., 82, 94, 273. 204-205, 2 10, 2 15, 2 1 7, 224, 236, 242, 278.
Romeo, N., 62. Spadolini, P.L., 1 17, 120.
Rosatelli, C., 70. Stam, M., 89, 178.
Rosenquist, J ., 158. Starck, Ph. , 155, 190, 224, 240, 243, 245, 254,
Rosselli, A., 104, 126, 136, 138- 1 4 1 , 188, 205. 258, 259, 260, 261 , 3 17.
Rossi, A., 149-150, 160, 1 90. Staudinger, H., 104.
Rosso, M., 3 1 . Steiner, A., 125, 136.
Rosso, R., 159, 160, 198. Stella, U., 62, 177.
Ruffi, G., 159, 160, 1 98. Sterling, B., 245.
Ruhlmann, E., 38. Sterpini, U., 198, 2 7 1 .
Russo, D., 134, 278. Stirling, J. , 150, 2 12 .
Russolo, L., 23. Stoppino, G., 149-150, 1 5 1 , 236.
Sue, L., 38.
Sacchi, L., 23 1 . Sullivan, L., 294.
Salmi, R., 278. Superstudio, 198, 205.
328 Indice dei nomi

Tafuri, M., 300. Vianello, V., 224.


Tatlin, W., 24. Viberti, C., 109._
Tato (pseud. di G. Sansoni), 26. Viganò, V., 90, 1 1 1 .
Taylor, E., 157. Vignale, A., 1 12 .
Taylor, F., 1 18. Vignelli, E . , 172.
Teague, W.D., 75, 95. Vignelli, M., 172, 224.
Teodoro, F., 158. Villa, A., 124.
Terblanche, P., 274. Villaggio, P., 160.
Terragni, G., 44, 50, 75-76, 77, 78, 83 , 90, 1 12, Visconti, C., 42.
184. Vistosi, 0., 224.
Thonet, M., 16, 89, 267. Vittorini, E., 125.
Thovez, E., 8. Vodoz , J . , 245.
Tilson, ]., 169. Vogliazzo, M., 198.
Tintori, S., 149.
Tonelli Michail, M.C., 45, 80, 95-96, 1 4 1 . Wachsmann, K., 2 1 1 .
Toraldo d i Francia, C . , 198. Wagner, R., 5 3 .
Torlasco, 0., 139. Warhol, A., 1 5 8 , 160.
Tosi, F . , 143. Watteau, J.A., 264.
Tosi, M.T., 143. Webb, M., 2 1 1 .
Tovaglia, P., 126. Weber, M . , Vl.
Travasa, G., 1 7 1 . Weibl, H., 126.
Trione, V., 3 1 . Weiner, L., 172.
Tuminelli, P A., 278.
.
Weissahaar, C., 263.
Turina, C., 76, 79. Wesselman, T., 158.
Tusquets, 0., 254. Wettstein, H., 259.
Wicks , ] . , 293 .
Ubbens, H., 248. Wiener, N., 3 12 .
Ugo, A., 1 3 . Wirrkala, T., 100.
Wolfflin, H., 60.
Vacchetti, S . , 40. Wollheim, R., 177.
Valabrega, G., 8. Wright, F.Ll., 67 , 153.
Valéry, P., 155.
Valle, G., 1 16. Zagato, U., 1 12 .
Van de Velde, H., 14, 18, 102. Zampetti-Nava, E., 3 7 .
V an Doesburg, T., 49. Zanini, M . , 205.
Varisco, G., 162. Zanuso, M., 87, 88, 90, 96, 103, 1 12 , 1 13 , 1 14 ,
Varlonga, G., 139. 1 16-1 17, 120, 130, 136, 1 3 8- 140, 160, 186,
Vasarely, V., 50, 162, 169. 188, 205 , 2 1 4 , 2 15 -2 16, 220, 308.
Vasari, G., 273 . Zappata, F., 70.
Venet, B., 172. ZavaneUa, R., 109.
Venini, P., 42, 224. Zecchin, V., 38.
Venturi, L., 67, 170. Zecchini, A., 246.
Venturi, R., 245 , 3 13 . Zen, C., 8.
Venturini, G . , 243, 244-245. Zevi, B., 94, 96, 132, 143 , 150.
Vercelloni, V., 149. Zinn, H., 193.
Veronesi, G., 42, 44-45 , 95-96. Zorio, G., 1 7 1 .
Veronesi, L., 46, 49, 125, 128. Zorzi, R., 1 3 3 .
Vezzoli, C., 278. Zuccari, F . , 273 .
Viale, G., 280, 288. Zworykin , V., 1 19.
Indice del volume

Introduzione v
Note, p. Vlll

I. L'incipit liberty 3
Note, p. 1 8

II. La reazione futurista 19


Note, p. 3 1

III. L'Art Déco e il Novecento 32


Note, p. 45

IV. L' Astrattismo-concretismo 46


Il problema del referente, p. 5 1 - Avanguardia e sintesi delle arti, p. 54 - Note, p.
56

v. Il design razionalista 57
Discrezione/continuità, p. 59 - Il Razionalismo <<discreto», p. 61 - Il Razionalismo
«continuo», p. 68 - Il Razionalismo alla Triennale, p. 75 - Alcuni prodotti emble­
matici, p. 84 - Il razionalismo fascista, p. 90 - Note, p. 95

VI. Lo stile della plastica 97


Le plastiche storiche, p. 97 - Le plastiche moderne, p. 103 - Note, p. 106

VII. Lo stile degli anni Cinquanta 1 07


Gli elettrodomestici, p. 1 16 La cucina americana, p. 1 17 Il televisore, p. 1 19 -
- -

L'auto dagli anni Cinquanta, p. 1 2 1 - Il <<visual design>>, p. 123 - Note, p. 127

VIII. Lo stile Olivetti 128


La «corporate image», p. 1 3 3 - Note, p. 134

IX. Il Compasso d'Oro e l'ADI 135


Note, p. 1 4 1
330 Indice del volume

X. Lo stile «neo-storico» 1 42
Azucena, p. 143 Neoliberty, p. 147 - <<I Maestri>> della Cassina, p. 153 · Note, p.
.

155

XI. Il design e le arti 156


Pop Art, p. 156 - Op Art, p. 162 - L'arte utile, p. 167 - L'Arte povera, p. 169 -
L ' Arte concettuale, p. 172 - Note, p. 176

XII. La riduzione minimalista 177


La <<riduzione» culturale, p. 179 - Il design minimalista, p. 183 - Minimalismo e
plastica, p. 186 - Note, p. 193

XIII. Lo stile radica! 1 94


Radica! design, p. 197 - Il caso Dalisi, p. 208 - Note, p. 2 1 0

XIV. Lo stile «high-tech» 211


Storicità della tendenza, p. 2 1 1 - Il design <<high-tech», p. 2 15 - L'<<high-tech» e i
materiali, p. 2 1 9 - Il design della luce, p. 223 - Note, p. 23 1

XV. Lo stile polimaterico 232

XVI. D design come gioco 240


Il significato Iudica, p. 241 Alessi, p. 242 - Danese, p. 245 - Driade, p. 249 - Il
-

gioco tra minimalismo e <<high-tech», p. 254 - Il gioco antropomorfo, p. 262 - Il


grottesco nel design, p. 273 - Il design dei servizi, p. 275 - Note, p. 278

XVII. Lo stile usa-e-getta 279


Produzione corrente, p. 279 - Pro e contro l'usa-e-getta, p. 279 - Il limite principa­
le, p. 282 - Un 'etica dell'usa-e-getta, p. 285 - Oltre l'usa-e-getta, p. 287 - Note, p. 288

XVIII. Gli oggetti a più funzioni 290


La miniaturizzazione, p. 292 - La riconoscibilità, p. 295 - La significazione, p. 297
- L'arbitrarietà, p. 298 - Note, p. 299

XIX. Storia e design oggi 3 00


La storia e il nuovo artigianato, p. 303 Note, p. 306
-

XX. Internet non s'addice al design 3 07


La macchina, p. 307 - L'elogio, p. 308 - Due ipostasi, p. 309 - Conformazione e
rappresentazione, p. 3 13 - Le informazioni possibili, p. 3 14 - Note, p. 3 18

Indice dei nomi 321

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