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"Che interpreti una dama o una prostituta, una conquistatrice o una vittima,

Marlene Dietrich incarna sempre un sogno universale". Così Franz Hessel rivela al
lettore la sua totale ammirazione verso la Dietrich, che ebbe occasione di
incontrare a Berlino nel 1931, quando l'attrice era tornata nella sua città dopo i
primi successi a Hollywood. Nelle pagine di questo breve ritratto, inedito in
Italia, Hessel riesce a restituire un'immagine valida allora come oggi, cogliendone
con acume e lungimiranza le caratteristiche che i ruoli e i film successivi
avrebbero poi confermato. Nella prosa di cui è maestro, l'autore guarda l'attrice
con occhi affascinati e sedotti, a volte teneramente ingenui. Nello charme che l'ha
resa celebre, Hessel sa riconoscere con intelligente sensibilità non tanto i tratti
della vamp ma la bellezza e la levatura dell'artista. Infine, a chiusura di questo
breve omaggio, l'intellettuale ammirato rivela l'incontro personale, e descrive non
più la diva ma la donna e la madre cui ha fatto visita a Berlino. A vent'anni dalla
morte dell'attrice tedesca, il lettore non tarderà a trovare tra le righe di questo
libro, assieme al sorriso ammiccante della Lola Lola dell'Angelo azzurro, lo
spirito di un'intera epoca, che sperimenta la crescita del mondo patinato del
cinema mentre si prepara, ignara e sognante, agli anni più difficili e cupi del
Novecento.

Titolo originale: Marlene Dietrich: Ein Porträt

Traduzione dal tedesco di Alessandra Campo

I edizione ebook: marzo 2014

© 2012 Lit Edizioni Srl

ISBN 9788861924789

Elliot è un marchio di Lit Edizioni

Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma

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INDICE

Introduzione di Alessandra Campo

UN RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE

1
2

Note del traduttore

INTRODUZIONE

di Alessandra Campo

Franz Hessel, nato a Stettino nel 1880, ma cresciuto a Berlino, è stato un


esponente della flânerie, passeggiatore instancabile, flâneur nella metropoli
moderna: la sua penna è quella di chi si inoltra per le vie, con quel fare ozioso
tutt’altro che assente che, se non programma le tappe del suo inoltrarsi, tuttavia,
e tanto più, si mantiene aperto all’incontro con un oggetto forse non cercato, ma
già sempre atteso. Così, questo narratore berlinese, che la Germania ha spesso
prestato a Parigi, dove egli è stato di frequente, e dove, sebbene con riluttanza,
ha dovuto infine emigrare in un’epoca in cui per gli ebrei-tedeschi l’esilio pareva
spesso l’unica possibilità di esistenza – se non di vera e propria sopravvivenza –,
questo narratore, dunque, ha fatto dell’arte di andare a passeggio non solo
un’abitudine o, ancora di più, una condizione di esistenza, ma anche uno stile
letterario, una modalità di racconto e di scrittura e, per noi, di lettura. Non è
accessorio né casuale, in questo senso, l’uso magistrale che Hessel fa della kleine
Form1, la prosa breve diffusasi a Weimar e Berlino a partire dalla tradizione del
feuilleton. In modo significativo, Hessel fa della prosa breve un vero e proprio
racconto di istantanee, una narrazione di incontri subitanei. Foto grammi
narrativi, al modo della fotografia e del cinema, che condensano in un istante
tutta l’intensità di uno scambio di sguardi. Se la flânerie è la modalità più
adeguata con cui abitare le strade metropolitane invase dalla folla e dal caos
cittadino, la kleine Form pare essere l’unica forma adatta a rendere conto di una
tale esperienza. Ma non solo. Lo stile e l’atteggiamento di Hessel sono, inoltre,
un esercizio di memoria. Non una mera registrazione di ricordi accatastati
nell’ordinato catalogo della coscienza, ma l’inconsapevole attitudine a lasciarsi
colpire da un passato che ritorna. Non a caso Hessel sarà traduttore con Walter
Benjamin – che così tanto ci ha saputo dire sulla memoria – di alcuni volumi della
Recherche di Proust, alla fine degli anni Venti. La “ricerca del tempo perduto”,
infatti, non è solo un recupero archeologico di ciò che è stato e che tace nella
polvere del passato, ma l’incontro attuale con frammenti di tempo. Nessuno più del
flâneur sa lasciarsi incontrare da tali oggetti. E in nessun luogo meglio che nella
prosa breve il ricordo sa rovesciarsi in immagine attuale (sempre Benjamin parlerà,
in questo senso, in modo decisamente efficace, di “immagine dialettica”2).

Come si colloca l’icona Marlene Dietrich in questo contesto? L’attrice tedesca,


divenuta star di Hollywood, non passeggia oziosa per Parigi, ma si muove in aereo
tra Berlino e New York: come si incontrano il flâneur e la donna che tanto fascino
ha esercitato sul pubblico di tutto il mondo?

Hessel scrive questo saggio sulla Dietrich, apparso nel 1931, per l’editore Kindt &
Bucher. Proprio in quest’anno l’attrice è di passaggio a Berlino, appena rientrata
dagli Stati Uniti, per un breve periodo di pausa dal lavoro, e lo scrittore ha
occasione di incontrarla nella casa berlinese di lei. Queste pagine nascono
dall’esperienza di Hessel come “passeggiatore” tra i film e le parole del
l’attrice. Come attraverso Berlino o Parigi, così Hessel si incammina tra le
immagini, i fotogrammi e le scene di cui è protagonista questa donna, riuscendo a
incontrarla come solo un flâneur sa fare. E iniziando a costruirne quella memoria
che, ancora oggi, la rende icona e simbolo di un’epoca.

Nel periodo in cui Hessel scrive queste pagine, il successo di Marlene Dietrich è
già notevole, ma non ancora al vertice: tanto ancora questa artista saprà rivelare
di se stessa e del proprio tempo. E tuttavia l’autore già ne restituisce un quadro
che si candida a essere sempre attuale: ne sa cogliere il potenziale che la storia
avrebbe poi confermato. Di lei egli guarda affascinato la donna seducente e
ammaliante; di lei scopre ammirato il talento di attrice; di lei, con simpatia
evidente, apprezza l’incancellabile tratto berlinese, che ancora traspare in un
accento che non la lascerà mai. Perché, in fondo, Berlino è protagonista di queste
pagine tanto quanto Marlene Dietrich: la Berlino dei sobborghi e dei cabaret, dove
nasce la tradizione da cui la stessa Dietrich emergerà; la Berlino “dalle delicate
albe invernali e dalle lunghe sere estive”3, radicata nel cuore di chi l’abbia
vissuta fin dall’infanzia; la Berlino capace di contraddizioni catastrofiche, che
Hessel, allorché scrive queste righe, ancora non può vedere, ma che incombono tanto
più minacciose quanto più in contrasto con la ridente musicalità e la brillante
fascinazione del mondo da lui descritto. Con la Dietrich, infatti, Hessel condivide
non solo una città, ma un’intera epoca. Con lei – lo sappiamo – vedrà le pagine
buie della recente storia tedesca ed europea. È forse per questa vicinanza umana e
storica che Hessel sa restituire in queste pagine tutta la forza iconica che
Marlene Dietrich avrebbe mantenuto negli anni: immagine di una stagione europea e
mondiale, di una società in radicale trasformazione. Al contempo, coprotagonista di
questo quadro, sta il cinema, come luogo privilegiato, espressione più adeguata,
immagine perfetta di tali rivolgimenti. Il cinema, che “sa perfettamente incarnare
lo sguardo del XX secolo”4. Il cinema, che “con la dinamite dei decimi di secondo
ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere”5, e che permette a un’epoca di
vedere se stessa, di ritrarsi in immagini significative di sé, ma anche di trovare,
in quelle stesse immagini, il luminoso contraltare alle proprie ombre.

Così, radicata nel brusio delle vie berlinesi e tra le luci del mondo del cinema,
la prosa breve che Hessel ha dedicato all’attrice tedesca non sembra aver bisogno
di integrazione alcuna. Le parole e le immagini che l’autore offre bastano a se
stesse per efficacia e vividezza.

Non si può far altro che invitare il lettore a passeggiare con lui tra le vie
gremite di questo breve saggio, a metà tra l’affascinato ritratto e l’amichevole
omaggio.

UN RITRATTO DELL’ARTISTA

DA GIOVANE

Gli angeli non devono morire!

1.
Una giovane tedesca, figlia di Berlino, è diventata la stella di Hollywood e di New
York. Negli Stati Uniti, sulla testa delle persone, volano aerei con il suo nome
scritto a grandi lettere. I giornali americani annunciano a titoli cubitali e su
lunghe colonne quanto vi è da raccontare del trionfo di questa donna, quel che c’è
da sapere della sua vita privata, delle sue opinioni e delle sue esperienze. Il
film che ha sancito la sua fama in Europa1– in America il suo successo è stato
decretato da Marocco – viene proiettato in tedesco a Parigi. I francesi sono
naturalmente restii ad apprezzare le performance degli artisti stranieri e ne
esaltano soltanto gli aspetti singolari e insoliti, distinguendole da quelle dei
propri. In questa attrice, invece, ammirano e lodano la donna per antonomasia, la
femmina che rivela in forma attuale la propria essenza originaria.

A questa improvvisa fama mondiale, a suo modo unica, corrisponde l’effetto in


patria: fin nella più piccola città tedesca di provincia, i grammofoni suonano
continuamente la canzone di colei che è “dalla testa ai piedi fatta per l’amore”2,
e tanto le donne perbene quanto quelle frivole, ritrovano nelle parole e nel suono
di questa canzone la propria autentica essenza.

Solitamente, per le stelle del teatro, del cinema o del cabaret, è facile mettere
in risalto un solo tratto particolare, caratteristico della loro bellezza e della
loro arte, e spesso, anche quando danno del loro meglio, non piacciono a tutti. Nel
caso di Marlene Dietrich, invece, è difficile sottolineare uno solo aspetto
peculiare; ed è straordinario il modo in cui sia diventata di dominio pubblico. Ho
osservato i volti degli spettatori e degli ascoltatori sia a Kurfüsterdamm, sia in
un “cinema pidocchietto” nel sobborgo di Tegel, e ho scoperto sulle facce delle
persone più varie, degli esponenti delle più diverse professioni, il medesimo
incanto. Quest’artista ricorda l’effetto esercitato dalla bambola fatata di una
favola persiana su carpentieri, sarti, pittori, bramini e alcuni artigiani che a
essa hanno lavorato: litigano per averla, e quando si recano dal Kadi, questi ha la
pretesa di ritrovare in essa la sua sposa perduta.

Che interpreti una dama o una prostituta, una conquistatrice o una vittima, Marlene
Dietrich incarna sempre un sogno universale. È come l’eroina di uno dei suoi film:
la donna cui si anela3, e questo “si” non indica solo “alcuni”, ma “ciascuno”, il
popolo, il mondo, il tempo.

Qualunque cosa accada alle creature che impersona – e alcune di esse devono espiare
con la morte la propria empia esistenza – in un primo momento non destano affatto
compassione. Tutti i suoi personaggi diventano oggetto della brama generale, noi
spettatori ne siamo vittime insieme ai loro amanti. Non vien tanto da pensare a
come si sentano poiché il loro effetto è troppo forte.

Non c’è bisogno di mettersi nei suoi panni: è lei che ci possiede. Ma, allora, una
donna del genere è una “vamp”? Ah, no! “Vamp”, divenuto un caratteristico concetto
anglosassone a partire dall’antica saga dei vampiri, indica le donne che, per
vocazione o per bisogni legati al loro sesso, in un certo senso succhiano la linfa
vitale degli uomini. Questo sangue è un nutrimento necessario per loro come per
quegli antichi spettri, ed è lecito supporre che queste creature, designate in modo
così terribile, siano consapevoli di ciò che fanno. Nel caso delle donne pericolose
interpretate da Marlene Dietrich, invece, non si ha la sensazione che siano
consapevolmente crudeli. Nei panni della vivace Lola dell’Angelo azzurro, ella
prende tra le benevole mani materne la testa arruffata del professore, dà dei
buffetti alla guancia dell’uomo, teneramente commosso, come se fosse un bambino,
guarda alla sua povera vittima con il sorriso di una sposa, come se stesse
prendendo per moglie l’essere più indegno, e gli mostra, sorridendogli, il suo
sogno di felicità. Il giorno dopo la prima notte decisiva, gli versa il caffè come
una brava donnina di casa, e, per amore di lui, assume un atteggiamento del tutto
borghese. E non sembra affatto farle piacere che egli vada lentamente in rovina per
lei. Cerca in tutti di modi di educarlo al proprio stile di vita, ma alla fine, con
suo terrore, la catastrofe è inevitabile. Bonaria, ha per ognuno il volto di cui
questi ha bisogno: per il direttore e prestigiatore il viso freddamente riservato
della collega, per l’irruente capitano proprio ciò cui egli aveva anelato durante
il suo viaggio in mare, per Mazeppa, vivacemente apparso con la sua banale
sciccheria, lo sguardo ammiccante: be’, che ne dici?

Non vi è in lei un qualche sforzo demoniaco, tutto vien da sé. Ha un modo di


sedurre addirittura innocente. Per quanto la situazione possa essere sospetta o il
suo costume sfacciato e provocante, dispiega il suo leggiadro sorriso ben oltre
l’abito e il mondo. Non è il sorriso di chi vuole conquistare o farsi conquistare:
è al contempo dolcemente eccitante e rasserenante. E non vale solo per colui a cui
il sorriso è diretto, per quanto sia proprio per lui, ma lo oltrepassa, lo supera e
raggiunge il mondo intero. Con questo sorriso Marlene Dietrich ha conquistato
l’Europa e l’America. È al contempo più divino e più comune di quello di tutte le
sue rivali. Il sorriso di Greta Garbo è di una fragile tenerezza, suscita dolorosa
compassione, anche quando colei che lo mostra appare felice. È un sorriso
cristiano, angelico. Il sorriso di Elisabeth Bergner è virgineamente solitario,
quello di Asta Nielsen tragicamente fatale. Marlene Dietrich può sorridere come un
idolo, come le antiche divinità greche, e al contempo apparire innocente. Non si
può muovere alcun rimprovero al suo sorriso. Non intende “niente di male”. E
tuttavia può anche essere il sorriso di Astarte, capace di irretire, un’espressione
di quella Venus vulgivaga4 che come secondo lavoro faceva la dea della morte. Può
essere banale, grandiosamente banale, come le parole della canzone cantata dalla
frizzante Lola. Queste parole e la loro melodia sono l’invenzione del l’uomo che ha
colto in modo geniale le possibilità espressive della nostra grande berlinese,
Friedrich Hollaender.

Il ritornello divenuto famoso:

Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe

[eingestellt,

denn das ist meine Welt.

Und sonst gar nichts!

Das ist – was soll ich machen? – meine

[Natur,

Ich kann halt lieben nur

und sonst gar nichts 5

è cantato dalla Dietrich con una calma e una nudità naturale molto più semplice,
chiara e forte di qualsiasi “sex-appeal” intenzionale. Qui il sesso non si sforza
di irretire, è offerto spontaneamente, è a disposizione.

H. Stuckenschmidt, nel suo studio So wird heute gesungen (Così si canta oggi), dice
di Marlene Dietrich che esegue il suo couplet con una “seria sfacciataggine”,
distaccandosi da ogni stile cabarettistico tradizionale. “Il suono armonico
inferiore, che qui è decisivo, è nuovo in modo sconvolgente, è caratteristico del
presente. Di fronte a esso falliscono tutti i criteri estetici e morali. Il
concetto di bello è abolito, scalzato dall’accentuazione indubbiamente cultuale e
dalla celebrazione del sesso”. Queste parole suonano in qualche modo
inesorabilmente patetiche, tuttavia centrano pienamente il motivo della grande
popolarità di cui gode la voce di Marlene D
E per citare un po’ anche altri: Max Brod ha detto di lei, nel suo Liebe im Film
(Amore nel film), che sa perfettamente quanto la sua dolcezza incanti uomini e
donne, “anche se la voce sembra provenire da regioni più profonde delle corde
vocali o della bocca”. E sul suo modo sicuro, ma al contempo sobrio, di alludere
all’erotismo, egli dice: “Quando siede a cavalcioni sulla sedia, suscita un
richiamo dei sensi più eccitante e selvaggio della più esplicita intimità… Quando
solleva lievemente, solo accennando, la coscia, quest’unico movimento sostituisce
un’intera orgia”.

Ma, devo aggiungere, si ha l’impressione che ella – o il personaggio che interpreta


– non noti o non voglia tutto ciò. La sua bellezza si serve spontaneamente di tali
movimenti, rivestita di essi come della stoffa da varietà del suo costume succinto,
così come, allo stesso modo, la sua voce si serve di certi toni che risuonano quasi
resi rauchi da una sbornia. E quando canta “Männer umschwirr’n mich wie Motten das
Licht”6 da Motten vien fuori Mot-teen7 con un suono gutturale lungo. Questo suono
rievoca il lieve vociare delle donne di sevizio, o le cantanti dei locali della
Berliner Friedrichstadt che, in tempi antichi, in quelle grotte di sirene,
recitavano in scollati abiti di paillette con nastri rosa o celesti tra i capelli,
toccandosi le spalline, “Mut-teer, der Mann, der Mann, der Mann” oppure “Ich lass
mich nicht verfüh-rään”8. Proprio da questi esseri, queste misere e toccanti
creature, muove un percorso meraviglioso, una curiosa tradizione che porta fino
alla nostra grande star. Così, Marlene Dietrich ha conferito al carattere berlinese
un valore universale. In lei risuona anche il patois della sua città, per quanto
solo appena accennato: non è sottolineato, né è messo a tema come nel caso delle
esecuzioni di Claire Waldoff – a suo modo geniale – al cui fascino un non-
berlinese, e in generale uno straniero, può essere sensibile solo in parte. Con
Marlene Dietrich anche questo tratto particolare ottiene un suo effetto universale.
I parigini e i newyorchesi comprendono ciò che ella canta in berlinese.

ietrich.

2.

È cresciuta dove poi sarebbero sorti i quartieri berlinesi occidentali di


Wilmersdorf e Westend. Figlia di ufficiale, si è presto abituata ai trasferimenti
legati ai cambiamenti di guarnigione, ma è sempre stata di casa nella città dai
sobri e chiari colori del giorno e dai lunghi tramonti, dalle delicate albe
invernali e dalle lunghe sere estive, indimenticabili per chiunque sia stato
bambino a Berlino. Come figlia della Guerra di Prussia, è abituata ed educata a una
rigida disciplina.

Tutto questo è andato a vantaggio del suo lavoro artistico. Questa donna delicata,
il cui sguardo può essere così meravigliosamente indolente, laddove necessario, è
in grado di sopportare qualsiasi cosa. Durante le lunghe e snervanti prove dei film
è instancabile. Dell’infanzia diligente le è rimasta paradossalmente anche la
bizzarra operosità, la giocosità. Quando, nell’Angelo azzurro, nel ruolo della
canzonettista, si prepara di fronte a tre piccoli specchi, seduta alla rozza
toilette nel guardaroba di legno e circondata dai boccali degli speranzosi liceali;
quando prova le parrucche incipriate e il cappello a tricorno; o quando indossa
l’abitino la cui gonna di crinolina, nella parte anteriore, è sollevata in modo
così teneramente vizioso; quando così diligentemente si riveste della necessaria
lascivia o si trucca; questa operazione peccaminosa diviene un vivace esercizio, un
gioco grazioso, di cui subiamo gli effetti come il professore su cui ha spruzzato
la cipria. Egli la guarda estasiato, e da bramoso pedante si trasforma in un
piccolo giovane che vuole partecipare al gioco. La stretta scala a chiocciola, su
cui ella sgattaiola e da cui scende saltellando, diviene un divertente attrezzo
ginnico; l’intera baracca di legno un teatro di marionette. In questa atmosfera
scivoliamo dolcemente insieme alla sua vittima verso la rovina, cadiamo con
leggerezza in una tremenda ridicolaggine.

Nulla può avere un effetto più dissolutivo, distruttivo, demoniaco della sua
rinuncia a qualsiasi elemento demoniaco o della confusione puerile e dell’ordinata
disciplina infantile che la sua esistenza simula. Un tale incanto può essere
esercitato solo da una donna che ha avuto un’infanzia protetta.

Sembra che la piccola Marlene sia stata più sognatrice che civetta.

Non è mai stata la bimba da teatro, precocemente desiderosa delle luci della
ribalta e della fama, che si mette davanti allo specchio e prova le espressioni del
viso. Forse non si curava molto della piccola bambina che vedeva riflessa nello
specchio. E ancora adesso, in alcune foto di film, nelle quali la donna adulta si
guarda allo specchio, appare del tutto distaccata, sembra guardare a se stessa
soltanto di passaggio, come così spesso accade con i suoi partner, che solo
raramente incontrano il suo sguardo pieno. Il più delle volte guarda attraverso di
loro. Verso dove?

Il mondo dei desideri rapidamente realizzati, il teatro, non ha alcun ruolo


particolare in questa infanzia, fino a quando non vede al cinema Henny Porten e ne
ricava l’entusiasmo che generalmente le adolescenti provano per le star maschili.
Fa le poste, aspetta per ore di fronte alla casa da cui uscirà in carne e ossa il
mito cui anela. E nel far ciò, senza sospettarlo, ha già modo di imparare da questa
artista, che, come noto, corrispondeva a un desiderio ampiamente diffuso in
Germania e che per la piccola borghesia tedesca era quello che la sua giovane
estimatrice sarebbe divenuta per il mondo intero: la realizzazione di un sogno, un
“ideale”.

Intanto il tempo della scuola è finito: il talento musicale della bambina e la


passione per la musica reclamano formazione. I genitori la mandano a Weimar, dove
segue corsi di pianoforte e violino. Un periodo silenzioso, in cui legge, impara e
recita poesie per se stessa; un tempo in cui ha occasione di formarsi quel qualcosa
che tuttora appartiene a quest’artista versatile, e che ancora porterà con sé nel
lontano futuro. Una tendinite, a causa dell’esercizio senza sosta, danneggia
l’articolazione del suo polso. Torna a Berlino e per un po’ deve interrompere lo
studio. Comincia adesso il suo interesse per il teatro. Entra nella scuola di
recitazione di Reinhardt. Durante un esame vorrebbe recitare le parole della
fanciulla di Il folle e la morte di Hofmannsthal, ma viene preferita la più
consueta preghiera di Gretchen. Inoltre, nell’esame, è previsto che reciti in
ginocchio, ma la cosa non le va a genio. La sua declamazione è valutata priva di
tono e gestualità. Cominciano, così, una serie di rifiuti, tentativi inutili, mezzi
successi. È considerata graziosa, ma non particolarmente talentuosa. Talvolta
qualcuno si accorge delle sue potenzialità, di tanto in tanto viene “scoperta” e
ottiene piccoli ruoli in spettacoli che non vale la pena citare, poiché Marlene
Dietrich sopravvivrà a essi.

Si sposa e ha una figlia alla quale si dedica quasi esclusivamente per due anni.
Quindi debutta in un film. Ottiene “graziosi” successi. Conosciamo le sue
apparizioni. Ci si imprime nella mente quel viso: l’ampio spazio tra gli occhi
marroni e quello stretto tra il naso e le labbra superiori.

È invitata a recitare nella rivista da camera Es liegt in der Luft (‘È nell’aria’)
di Marzellus Schiffer e Mischa Spoliansky. Durante le prove la sua quieta sicurezza
e il suo talento per la chanson divengono sempre più evidenti; così si effettuano
modifiche a suo vantaggio. Le vengono assegnati nuovi couplet. Successivamente,
ottiene il primo grande successo della sua femminilità dolcemente pericolosa, nel
duetto della Beste Freundin (‘Migliore amica’), con Margo Lion, in equilibrata
contrapposizione al fascino duro, provocante e intellettuale di quest’artista.
Berlino ovest e i suoi ospiti cominciano a venerarla.

Uno degli ultimi film muti, prodotto dalla casa di produzione Terra, tocca un tema
che – fino a ora (perché, che ne sappiamo di quanto ancora possiamo aspettarci da
Marlene Dietrich?) – corrisponde più di ogni altro alla specificità di
quest’artista unica. Lo dice il titolo stesso: Die Frau, nach der man sich sehnt
(‘La donna cui si anela’)9. In questo film, dietro alla foschia di fumo e alla
finestra del vagone, Marlene Dietrich è un’apparizione di viaggio che guarda
nell’indefinito e il cui sguardo ci coglie all’improvviso come un richiamo, come il
destino: cambiando, creando e distruggendo la vita; è l’essere verso il quale non
esiste una lieve e ingegnosa scorciatoia, ma soltanto la diretta e pericolosa via
dell’amore, che rischia la vita per la vita stessa.

L’uomo che la ama, e al quale spezza l’ordinato destino per diventare la sua nuova
sorte, non saprà mai se la sua disposizione all’avventura e al piacere sia
dedizione o abbandono; lo tratta fedele al suo compito di donna, come lo ha
definito Weininger: di realizzarsi arruffianandosi l’uomo. Ma ella sembra
meravigliarsi di ciò che provoca: indimenticabile l’aggrottarsi della sua fronte,
altrimenti così liscia, quando si inginocchia spaventata accanto al ferito;
indimenticabile il rapido e vertiginoso movimento con cui salta il corpo sdraiato a
terra come un ostacolo al traffico. Spesso appare estranea agli avvenimenti, come
se tutto quel che accade attorno a lei e per lei non la riguardasse affatto: nulla
le accade, nulla le succede. E da ultimo non reagisce al proiettile mortale
indirizzatole contro, come se perfino la sua morte fosse soltanto un evento che le
capiti. Si immerge nella morte come la sirena ritorna nelle acque. Marlene
Dietrich, in questo ruolo, e in generale in questo periodo, non porta ancora la sua
chiara e bella fronte bombata libera dalla frangia. Vi ricadono avvolgenti capelli
che esaltano un’esistenza cupa. Nei suoi lenti movimenti sta in agguato la quiete
dell’animale feroce. Ma il milieu in cui si muove – vagoni letto, camere d’albergo,
saloni e bar – ha qualcosa dei limiti della mondanità, una forma di eleganza di
viaggio, un’atmosfera in cui ella deve rimanere l’avventuriera romanzesca, la
signora da salotto dallo sguardo freddo: non può dispiegare completamente la sua
elementare e innocente perico

Riceve, quindi, improvviso e inaspettato, il suo grande ruolo, con cui ottiene un
successo impensato, da allora in poi sempre crescente. Josef von Sternberg, il
geniale regista, che aveva già intuito il suo talento quando l’aveva vista, ancora
poco conosciuta, interpretare in modo riservato e modesto il proprio ruolo in un
lavoro insignificante, la sceglie tra tutte per il primo importante film sonoro
tedesco, l’Angelo azzurro, come controparte di Jannings. Questo film è stato
annunciato così: “Emil Jannings in Angelo azzurro con Marlene Dietrich”. E di
fatto, dal punto di vista puramente quantitativo, la figura del Professor Unrat,
che Jannings interpreta nel suo modo eccezionale, occupa lo spazio maggiore in
questo lavoro. Tuttavia è diventato ed è rimasto un film di Marlene Dietrich. È la
Dietrich ad aver dato il successo mondiale di questo film, la Dietrich con
Sternberg, il quale per primo ha compreso perfettamente le sue possibilità
espressive. Egli ha dato nuova immagine e nuova veste a questo capolavoro frutto di
collaborazione (lo splendido romanzo giovanile di Heinrich Mann, il manoscritto
realizzato con la cooperazione dei poeti Vollmöller e Zuckmayer, la musica e i
testi di Fiedrich Hollaender, e così via) e soprattutto ha dato la parte alla
nostra artista, quella di Lola Lola, incorniciata da quel magico mondo da fiera in
cui ogni suo movimento, ogni sua parola giungono alla più piena espressione,
all’effetto più immediato. I rozzi putti sulla balaustra e sullo sfondo dipinto sul
palco da varietà della città portuale; l’uccello sospeso, metà gabbiano, metà
blasfema colomba dello Spirito Santo, che svolazza subito accanto alle sue cosce,
di fronte al suo seno; la prorompente cariatide, vicino alla loggia da cui il
professore guarda in giù, estasiato, alla cantante; i salvagente alla ringhiera e
il pesce al di sotto; l’ancora, che pende sulla sua testa; la botte, su cui ella,
da sotto al suo sghembo cilindro carnevalesco, guarda eccentrica verso il pubblico,
al quale mostra la giarrettiera e la carne nuda sotto alla falda sollevata della
gonna; lo sguardo della Valetti, nella parte della moglie del direttore e collega,
su questa stessa carne; il viso del mago e direttore paffutamente sghignazzante o
indignato, interpretato da Gerron; le canzonettiste grassottelle come bambole, che
la circondano a semicerchio; il clown che, muto, allunga il suo naso dalla porta
aperta o schizza via su per le scale. E ancora queste scale che avvolgono le sue
gambe come la spirale di una pellicola; ovunque i manifesti con il suo curioso
doppio nome; la stretta stanzetta del suo guardaroba piena di barattoli, vasetti di
trucco e ciondolanti straccetti, fantastici costumi a buon mercato, gonne
scintillanti troppo corte; gli infantili mutandoni da donna: tutto questo si
assiepa e sta appeso con sfacciata miseria attorno alla sua bellezza spudorata e
innocentemente esposta. La viziosità, che la Dietrich sottolinea con gesti molto
piccoli, esercita un effetto eccitante e appagante al contempo.

È come il Libro del Paradiso del Divano occidentale-orientale:

Mit der Augen fängst du an zu kosten.

Schon der Anblick sättigt ganz und gar10

Non solo con la sua vittima, ma con tutto il mondo ella è la bona meretrix, la
cortigiana maternamente benevola, si dà indipendentemente da chi ha di fronte, in
tutti ha vanificato il desiderio di godere, è un dono di Dio e una messa nera. E
come Afrodite dalla schiuma di mare, ella sorge leggiadra dalla fanghiglia del
desiderio che si arena ai suoi piedi, ride con diletto e vacuità nell’universo che
in lei va a pezzi e che si sbriciola sotto di lei. E inoltre canta con la lingua
degli uomini e degli angeli, e con un che di berlinese:

Ich bin die fesche Lola,

der Liebling der Saison,

Ich hab’ein Pianola,

zuhaus in mei’m Salon11.

losità.

3.

Ancor prima che l’Angelo azzurro fosse girato, prima ancora che fosse chiuso un
contratto definitivo con Marlene Dietrich, Sternberg ne trattò con lei uno per la
Paramount. La Dietrich lo seguì allora a Hollywood e lì realizzò con lui due nuovi
film: Marocco e Disonorata.

In Disonorata, che conosco solo da alcune foto, Marlene Dietrich interpreta una
spia che finisce sul patibolo. Man mano che cambia il suo destino cambiano anche il
suo aspetto e il suo abbigliamento. Si veste, tra l’altro, da contadinella russa,
porta i capelli raccolti in alto, indossa gonne rozze e calzettoni, ha guance
imbellettate alla campagnola e l’indifferente sguardo fisso della serva. Non è
riconoscibile. Questo è solo uno dei molti esempi della molteplice varietà delle
sue espressioni e dei suoi gesti.

Di fronte a tali continue sorprese, ci si sente inermi: tutto ciò che finora è
stato pensato e detto di quest’artista diviene provvisorio. In questa nuova epoca,
da alcune immagini, emerge un tratto, un’espressione sempre più evidente, che nelle
foto della sua infanzia si profilava appena, mentre nel periodo della giovane
maternità, nel periodo di “Stascha” e “Lola Lola”, pareva completamente scomparso e
che ora, invece, torna meravigliosamente: un tratto che ricorda i volti della
pittura preraffaellita. La linea degli zigomi si accentua, la fronte libera fa
risaltare le sopracciglia ed esalta l’enigmatico spazio tra gli occhi, attorno ai
capelli si dischiude talvolta un’aura, un aspetto fiabesco. La sua figura, divenuta
più slanciata e tesa, passa in modo sempre più ricco dalla pacatezza
all’irrequietezza. È ancora la “frizzante Lola”?

Nella sala di proiezione della Parufamet, ho visto l’altro film, Marocco, che l’ha
resa star d’America, inaugurando il suo successo mondiale, e ancora esito a
parlarne. Ho potuto osservare in uno sguardo d’insieme e in tratti appena
abbozzati, la prima epoca dell’arte di Marlene Dietrich, la prima epoca della sua
bellezza, in parte matura, in parte ancora infantile. Tuttavia, con la sua
apparizione in Marocco, sembra iniziare qualcosa di completamente nuovo. È come se
un idolo dal rigido sorriso e dallo splendore immutabile prendesse vita. In un sol
colpo, l’occhio che guarda nell’ignoto, attraverso specchi e persone, si imprime in
un volto, e i suoi lineamenti delineano la sofferenza umana in modo nuovo.

Nel suo sguardo e nel suo corpo sperimentiamo, come per la prima volta, l’amore.
Non il patetico e lacrimevole “colpo di fulmine”, no, ma il tormentoso e beato
passaggio dalla curiosità combattiva dei sensi a un’estasiata caduta. Vediamo come
la forza, che si oppone all’invincibile Eros, diventi debole; vediamo la sconfitta
della vincitrice. In questo film Marlene Dietrich è una canzonettista francese che
va in Marocco, dove un ricco ed elegante viveur (Adolphe Menjou) le offre una vita
leggera e lussuosa. Ma dopo essere stata a lungo combattuta, insieme ad alcune
umili donne beduine decide di seguire, tra povertà e avventura, il reggimento dei
legionari che attraversano il Sahara. Infatti, tra i soldati marcia l’irriverente e
sfacciato giovanotto, che non le può offrire né ricchezza né delicatezza, ma che
ella deve continuamente conquistare (Gary Cooper).

Il nuovo capolavoro di Sternberg contorna la figlia del Nord di luce abbagliante,


la fa scivolare attraverso ombre taglienti, la fa procedere a tentoni lungo la
magnificenza delle meridionali mura arabe e l’oscurità di pietra di vicoli
stranieri. Compare l’uomo che ella non ha ancora conosciuto, il lanzichenecco, per
il quale l’amore è un’avventura tanto quanto uccidere. Così, dalla canzonettista
caparbia e frivola, che compare davanti al pubblico in un frak civettuolo e che
conferisce al suo cilindro una sghemba temerarietà con la spinta di un dito; dalla
ragazza viziata, allettata dalla possibilità di vivere un’avventura con uno dei
soldati, emerge la povera donna che fugge da stanze luminose per seguire l’amato e
trovare nella miseria sufficienti ostacoli per il suo cuore infranto.

Nei lievi mutamenti del suo volto ha luogo il dramma di questo amore.
Meravigliosamente evidenti divengono i momenti dell’esitazione, come quello in cui,
ancora seduttrice e già sedotta, dischiudendo come sempre il suo abituale sorriso,
sta accanto a lui e guarda davanti a sé. Il cesto di mele, che ella ha offerto a
tutti con una quieta spudoratezza, è appeso mollemente, come dimenticato, al suo
braccio; gli occhi, ancora un po’ socchiusi divengono fissi e ampi; le spalle
reprimono un tremito. Sceglie di nuovo, soffrendo, tra le sue possibilità.

E quindi, scena dopo scena, compaiono nuove dissimulazioni e rivelazioni del suo
sguardo: osservazione ostinata, terrore per il proprio dolore, gioia angosciosa
nell’eroismo, inerme dedizione. Alla fine però non vediamo più il suo viso, non ne
abbiamo più bisogno, tutto il destino sta nella sua figura quando, attraverso la
tempesta di sabbia, corre dietro alle altre donne che con le loro capre e i loro
fagotti seguono il reggimento, e quando le raggiunge, diventa una di loro, una loro
pari. Si è sfilata le scarpe; afferra la corda cui è legata la capra, corre a piedi
nudi con le altre. È soltanto un panno di donna spazzato dal vento.

4.

Scrivo queste righe durante le ferie che l’artista trascorre a Berlino, nella pausa
tra Hollywood e Hollywood, dove farà presto ritorno. L’ho incontrata nella stanza
dei giochi di sua figlia, tra una casa di bambole e un negozio-giocattolo, un
lettino e una carrozzina per pupazzi. Qui, ho potuto assistere a un’incantevole
“sequenza cinematografica”: una giovane madre che sfila e sbottona il vestito di
lana alla sua creatura, tornata a casa dalla pista di ghiaccio, e che la bacia
prontamente sul po’ di pelle scoperta.

In questa scena è stato possibile scorgere molti volti che non abbiamo potuto
conoscere da nessuno dei suoi ruoli. “Cosa sappiamo di questa donna?” mi sono
chiesto. È il destino e forse anche un po’ il lavoro delle grandi attrici del
cinema, quello di essere confuse con i personaggi che interpretano. Lo facciamo
tutti, involontariamente, e da questo deriva quello che raccontano le persone che
le conoscono solo superficialmente, a partire soltanto dal loro apparire in
società. Cosa le è possibile e lecito dire a sua volta?

Nell’opera di chiromanzia di Marianne Raschig, Hand und Persönlichkeit (‘Mano e


personalità’) ho letto un paragrafo sulla mano di Marlene Dietrich: “Possiede molti
segni e una sovrabbondanza di linee. Il monte di Venere, con il suo interessante
disegno, mostra molte scale sottili, come scale a corda; la linea della testa cade
nettamente sul monte della Luna, denunciando depressione e umore triste, che, per
fortuna, non trovano la propria eco in un anello di Saturno chiuso. L’anello di
Saturno, in questa mano, è aperto…”. Con tutto ciò vi è ancora molto mistero su
questa vita. Solo una cosa è chiara: “Il dono dell’artista è un segno sorprendente
di bellezza, forza e sensibilità. Dà l’impressione di rara magnificenza, come
l’asta del generale, che sulla cima reca una mezzaluna”12. Lo confermano le poche
parole che l’attrice mi dice del suo rapporto con l’arte, delle quali la più degna
di nota è che alla parola “bello” preferisce sempre reagire con un gesto. Mentre la
bimba tende la mano ai suoi giocattoli, Marlene dice: “Se ritenete giusto
raccontare alla gente qualcosa della mia vita personale, allora, per favore, dite
che lì” indica la bambina “c’è la cosa più importante, tutta la mia vita”.

Dopo di che le ho chiesto solo qualcosa a proposito di una esperienza, quella della
celebrità. “In realtà non sperimento davvero la mia fama. Quando a Berlino c’era la
prima dell’Angelo azzurro, io iniziavo il mio viaggio verso l’America. Il giorno in
cui sono ripartita da New York, aveva luogo, esattamente come allora, la prima
dell’Angelo azzurro. In ogni caso ero presente alla prima proiezione di Marocco,
grata e spaventata. Se però dovesse aver luogo qui, presumibilmente sarò di nuovo
in viaggio verso Hollywood. Quando l’aeroplano è volato su di me con il mio nome a
grandi lettere è stato angosciante. Be’, certo, devo essere soddisfatta; il lavoro
è stato sempre eccitante e a volte mi ha resa felice, ma la celebrità non ha niente
a che fare con la felicità, e… la nostalgia non svanisce”.

Quindi mi ha fatto sentire al grammofono una nuova canzone, composta e musicata per
lei da Friedrich Hollaender. Viene già cantata da altri, ma in realtà è la sua
canzone. Comincia così:
Wenn ich mir was wünschen dürfte,

käm ich in Verlegenheit13.

La voce di Marlene al grammofono canta la parola Verlegenheit (‘difficoltà’) con


una breve ö al posto di er, un grazioso accento berlinese – oh, appena
percettibile, una nuance molto leggera. Con lo stesso accento canticchia la sua
voce dal vivo. E ha cantato ancora la canzone della nostalgia per la tristezza, che
si prova nel mezzo della felicità. E stava lì, la donna che appaga il desiderio, il
sogno di migliaia di persone, la testa chinata di lato, verso la sua eco nel
grammofono; e aveva in viso un’espressione di malinconia e solitudine, dalla quale
i poeti, i musicisti e i registi avranno ancora molto da imparare e da creare.

NOTE DEL TRADUTTORE

Introduzione

1. E. Köhn, Strassenrausch. Flanerie und kleine Form. Versuch zur


Literaturgeschichte des Flaneurs von 1830-1933, Das Arsenal, Berlin 1989.

2. Tra i diversi scritti in cui Benjamin parla dell’“immagine dialettica”, cfr. in


particolare W. Benjamin, Das Passagenwerk, Suhrkamp Verlag, Frankfurter am Main
1982; trad. it. I “passages” di Parigi, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2002.
Per quanto riguarda i rapporti tra Benjamin e il nostro autore, cfr. anche il
saggio a questi dedicato: W. Benjamin, Die Wiederkehr des Flaneurs, in Gesammelte
Schriften, Bd. III, Suhrkamp Verlag, Frankfurter am Main 1980, pp. 194-199; trad
it. Il ritorno del flâneur, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di Giorgio
Agamben, Einaudi, Torino 1993, pp. 468-473.

3. Cfr. infra, p. 27.

4. F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani,


Milano 2007, p. 22.

5. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit,


Suhr kamp Verlag, Frankfurter am Main, 1955; trad. it. L’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 41.

Un ritratto dell’artista da giovane

1. L’autore allude al film L’Angelo azzurro di Josef von Sternberg (1930).

2. Celebre verso della canzone Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt,
cantata dalla Dietrich, nei panni di Lola Lola, nel film l’Angelo azzurro (1930).

3. Hessel si riferisce qui al titolo tedesco del film Die Frau, nach der man sich
sehnt (‘La donna cui si anela’), del 1929, uscito in Italia con il titolo Enigma.

4. L’inquieta ed errabonda dea dell’amore (N.d.A.).

5. ‘Dalla testa ai piedi sono fatta per l’amore,/questo è il mio mondo,/e il resto
è nulla!/Non ci posso far niente,/ son così di natura;/non posso far altro che
amare,/e il resto è nulla’.

6. ‘Gli uomini mi svolazzano intorno come falene attorno a una luce’.

7. L’autore altera la scrittura della parola Motten (‘falene’) per sottolineare la


pronuncia che la Dietrich usava nel canto. Stessa strategia sarà adottata
dall’autore nelle righe che seguono.

8. Nel primo dei versi citati, l’autore allunga la pronuncia di Mutter (‘madre’)
scrivendo Mut-teer. Nel secondo il verbo verführen (‘sedurre’), viene scritto
verfüh-rään, a sottolineare il suono lungo e aperto della e finale, reso con la
doppia ä.

9. Il film è uscito in Italia con il titolo Enigma, cfr. nota 2.

10. ‘Con gli occhi inizi ad assaggiarne /e la vista ne è già del tutto sazia’.

11. ‘Io sono la frizzante Lola,/la più amata della stagione,/posseggo una
pianola,/a casa, nel mio salotto’.

12. Il “dono dell’artista”, detto anche “segno del talento”, si trova sotto il dito
anulare ed è costituito da una linea verticale che si interseca, al proprio
vertice, con una linea perpendicolare leggermente curva. Richiama per forma il
“cappello cinese”, o “mezzaluna”, strumento della cavalleria ottomana che si è
diffuso in Europa a partire dalla metà del XVIII secolo. Esso è costituito da
un’asta alla cui sommità è posta una mezzaluna nonché una forma conica che ricorda,
appunto, i cappelli cinesi. Vi erano appesi sonagli e campanelli.

13. ‘Se potessi augurarmi qualcosa,/avrei difficoltà’. Colonna sonora del film Der
Mann, der seinen Mörder sucht, di Robert Siodmak (1931).

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