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RIFLESSIONI SUL COHOUSING

Università degli studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Architettura


Tesi in progettazione architettonica: Modelli di cohousing urbano_Riqualificazione di un edificio a Lisbona
Relatrice: Prof. D.Mandolesi Correlatore: Prof. F.Mollaioli Laureando: Alessandro Di Egidio
A chi non ha paura di scagliarsi contro
i mulini a vento
INDICE PARTE A
LA DISGREGAZIONE DEL TESSUTO SOCIALE: L’INURBAMENTO E LE
PROBLEMATICHE DI UN NUOVO MODELLO DI VITA

-Inurbamento e spaesamento: percezioni e conseguenze dell’ambiente


urbano all’inizio del XX secolo sul nuovo soggetto cittadino
-Funzionalizzazione della vita urbana e affermarsi dell’appartamento come
modo di abitare
-Appartamento moderno e comfort come palliativo

PARTE B
TENTATIVI DI RIGENERARE IL RAPPORTO TRA IL CITTADINO E L’AMBIENTE
FISICO E SOCIALE CHE LO CIRCONDA

-Dall’alloggio tecnocratico al Team X: analisi del tentativo di ristabilire una


relazione tra spazio ed utente. Analisi del metodo di John Habraken
-Il tentativo di educazione dell’utente allo spazio pubblico attraverso la sua
interazione con questo
-L’evoluzione delle sperimentazioni del XX secolo e l’ingresso dell’e-market
nell’architettura

PARTE C
UN ALTRO APPROCCIO AL CONCETTO DELL’ABITARE. IL COHOUSING.
ANALISI DI FORME, VANTAGGI E PROBLEMATICHE

-Un più complesso mutuo adattamento della collettività all’interno del suo
ambiente. Panoramica sul cohousing
-Promozione pubblica, iniziativa privata e associazione indipendente. Un
mondo a tre velocità differenti
-Un’alternativa ancora poco predisposta alla diffusione sistemica. È giusto
diffondere il cohousing?

PARTE D
PASSI VERSO LA DIFFUSIONE CAPILLARE. STRATEGIE DI INSEDIAMENTO
DEL COHOUSING URBANO

-Il cohousing è morto. Viva il cohousing! La scelta di un intervento non


radicale
-Riqualificazione di un edificio a Lisbona. Una strategia di intervento che
sia ripetibile
PREMESSA Una delle prime domande che viene sottoposta ad uno studente di sociologia
è la seguente: “sono gli individui che influenzano la società o è la società che
influenza gli individui?”; al dilemma non è allegata la soluzione, vengono però
forniti gli strumenti per formare la propria opinione.
Il quesito non resta isolato al solo ambito della sociologia generale, ma ha le
sue traduzioni in molti campi: l’architettura e l’urbanistica ne sono investite
dalle affermazioni, opposte, di Karl Marx ed Henri Lefebvre. Il filosofo tedesco
affermava che lo spazio urbano è il prodotto del tessuto sociale, il sociologo
francese, invece, che è lo spazio ad influire sulla società.
Le due correnti si pongono in maniera antinomica l’una con l’altra, anche
perché le varie letterature che si vanno compilando nel tempo sono relative
talvolta a situazioni concrete analizzate (Levi-Strauss che avvalora le tesi
di Marx quando studia la forma dei villaggi Bororo), talvolta ad astrazioni sul
carattere generale dello spazio e delle sue conseguenze (Remy e Voyé che
lo considerano come un elemento autonomo e determinante).
Questa tesi segue la seconda corrente di pensiero, sostenendo che lo
spazio influenzi quindi il prodotto sociale, e focalizza sull’abitare come
fattore identitario, che possa condizionare costumi e abitudini dell’individuo
contemporaneo. Adriano Favole, professore di antropologia all’Università di
Torino, scrive che “come noi abitiamo le case, le case ci abitano; non è un
caso che abitare, abiti, abitudini sono parole legate da una comune radice
etimologica”.
Nello sviluppo del volumetto, che correda il progetto di riqualificazione
di un edificio a Lisbona per insediarvi una forma di abitazione con spazi
condivisi, si vuole ripercorrere il ragionamento che è a monte delle azioni e
dei processi che tenteranno, attraverso l’intervento sullo spazio, di rivisitare
il rapporto tra l’individuo, il tessuto sociale urbano ed il concetto stesso di
città, osservandolo da una prospettiva più umana che valorizzi i vantaggi
che scaturiscono dalla vicinanza dei suoi abitanti.
A LA DISGREGAZIONE DEL
TESSUTO SOCIALE:
L’INURBAMENTO E LE
PROBLEMATICHE DI UN
NUOVO MODELLO DI VITA
INURBAMENTO E All’inizio del XX secolo molti studiosi si trovano ad analizzare il fenomeno
sociologico scaturito dal trasferimento di molti abitanti dalla campagna
SPAESAMENTO: verso la città. Ciò che suscita l’attenzione della scienza è la reazione
PERCEZIONI E psicologica dell’individuo rispetto alla nuova realtà con cui si trova a
CONSEGUENZE confrontarsi quotidianamente. Se precedentemente intellettuali come
DELL’AMBIENTE Engels si erano interessati alla condizione economico-sociale delle classi
operaie, prevalentemente immigrate nelle città1, ora la ricerca sociologica
URBANO ALL’INIZIO comprende il cittadino in generale, in quanto abitante di un agglomerato
DEL XX SECOLO urbano che lo astrae dalla scala umana delle relazioni e dal controllo dello
SUL NUOVO spazio circostante ridefinendolo come entità ripetibile all’interno di un
meccanismo di cui non si percepiscono i confini.
SOGGETTO
Georg Simmel è il sociologo tedesco che per primo dedicherà un volume al tema
CITTADINO della metropoli2. Egli effettua una diagnosi della vita urbana riconoscendo la
lotta del cittadino contro la città per mantenere la propria identità: questa Locandina del film “Metropolis” (1927)
infatti è minacciata e sopraffatta da un sistema che per esistere nella sua
molteplicità è costretto a imporre le leggi sovrane dell’economia monetaria,
subordinando la qualità alla quantità, e della razionalità più assoluta. Il
contesto fortemente denso ed eterogeneo in culture e comportamenti,
oltre che orari e abitudini, necessitava infatti, per sopravvivere, di regole
precise che dovevano sopprimere e plasmare i tratti irrazionali ed emotivi
degli abitanti. Dal canto suo, l’abitante doveva proteggere la sua stabilità
psicologica ed emotiva di fronte alla quantità di eventi e stimoli a cui la città
1. Friederich Engels, La lo esponeva, controllando e moderando le sue reazioni, a favore di una logica
condizione della classe operaia
in Inghilterra (Die Lage der
distanza dalle situazioni, di un’impassibilità necessaria.
arbeitenden Klasse in England), Simmel definisce questa forma di indifferenza attitudine blasé e la descrive
Otto Wigand, 1845 come una lontananza dagli eventi, una non partecipazione alla realtà fisica;
le emozioni vengono smussate, sia quelle traumatiche che quelle positive ed
2. Georg Simmel, La metropoli e edificanti, l’individuo perde la percezione dei colori, dei sapori, di tutto ciò
la vita dello spirito, “I classici della
sociologia”, Armando Editore,
che è sensoriale, per difendere la sua integrità in un sistema dall’equilibrio
1995 (Die Grostädte und das precario ed instabile.
Geistesblen, 1893)
Anche nei rapporti con gli altri il cittadino manteneva una forma di
riservatezza. Engels già nel 1845 parlando della grandezza incredibile
di Londra raccontava di milioni di persone che si passavano accanto, si
urtavano, senza guardarsi negli occhi né scambiarsi una parola, riconosceva
che lo sviluppo della metropoli era collegato al sacrificio della natura umana
e della sua naturalezza.
Agli studi di Simmel si aggiungono, verso la metà del secolo, le analisi di
Wirth3, che poi origineranno la teoria dell’ecologia urbana della scuola di
Chicago. Il sociologo americano riconosce l’urbanesimo come modo di vita,
sostenendo che la città agisce come un’entità autonoma che plasma i
comportamenti dei suoi abitanti, definendo un vero e proprio stile di vita
urbano. Questo paradigma si riflette sui singoli e sui rapporti sociali, che
divengono sempre più controllati, tesi e formali; la specificizzazione dei lavori
per esempio porta a riconoscere gli individui sempre più secondo la funzione
che possono svolgere e sempre meno come esseri umani, si accentuano
invece la competitività e la concorrenza, che alimentano una generica
insofferenza sociale.
Questa disgregazione delle relazioni ha delle altre conseguenze, non
ipotizzabili nella ristretta comunità rurale: vi è una grande emancipazione
dei cittadini, non più sottoposti allo sguardo, ormai impassibile, dei vicini.
L’individuo può divenire stravagante senza essere giudicato, sentendosi
padrone di un’enorme libertà. Questi non percepisce però la relatività di
questa libertà, enorme rispetto alla costrizione rurale, ma infinitesimale
rispetto ai gradi di controllo a cui è sottomesso in città.
Questa stravaganza può essere esasperata dalla coscienza del cittadino
di essere uno tra i molti e divenire, da libertà individuale, necessità di
3. Louis Wirth, L’urbanesimo
affermazione contro l’indifferenza generale. La non indispensabilità
come modo di vita, (Urbanism dell’individuo, poi, può trasformarsi in mancanza di autostima: anche la
As A Way of Life), Irvington Pub, percezione di appartenenza ai gruppi è instabile, tanto che non vi è un forte
L’individuo si sottomette alle leggi della
1938 legame di fedeltà, relativamente anche alla facilità di dislocazione fisica da un razionalità e della logica, anche quando non
luogo ad un altro e alla conseguente impossibilità di frequentazione del gruppo. è necessario.
FUNZIONALIZZAZIONE L’incremento demografico delle città è dovuto all’attrattiva che il lavoro
nelle fabbriche esercitava sui contadini; l’ambizione a condizioni di vita
DELLA VITA URBANA meno dure e più sicure fu il motore del trasferimento. Oltretutto, vivere in
E AFFERMARSI città significava avere accesso alle molte possibilità che essa offriva, con le
DELL’APPARTAMENTO sue infrastrutture ed attività. Le aspirazioni degli inurbati furono però presto
COME MODO DI turbate dalle condizioni abitative precarie in cui si trovarono ed a cui si
dovettero adattare, spesso negli slums o in complessi privi di qualsiasi forma
ABITARE di igiene, alle periferie dei centri urbani o in conglomerati nei dintorni degli
stabilimenti industriali.
L’architettura non seppe ignorare queste circostanze critiche e si concentrò
sul tema dell’alloggio operaio: si cercò una forma seriale ripetibile ed
economica, che fosse soddisfacente e dignitosa per gli inquilini. Per questo
motivo fu effettuata un’analisi dei comportamenti degli individui, definendo
un utente medio a cui rivolgersi. Questo processo comportò uno studio Spesso gli operai vivevano in condizioni senza
dell’essere umano di carattere scientifico, estrapolando secondo il principio igiene né dignità ai confini delle città.
del minimo comun denominatore i bisogni e le esigenze degli abitanti e
ordinando poi le misure necessarie per il loro soddisfacimento. Nel clima della
temperie positivistica pontificata da Auguste Comte4, l’architetto diviene
così un demiurgo che studia la società e l’umanità come fenomeni naturali,
“sottomessi a leggi invariabili” di cui egli può dominare le meccaniche.
Giancarlo De Carlo5 afferma nel suo L’architettura della partecipazione che
gli architetti, ingenuamente o forse per poter lavorare senza impedimenti,
si siano conformati anche alla volontà, implicitamente espressa, delle classi
dirigenti di formare dei cittadini che fossero ingranaggi perfetti del sistema
industriale, nei ritmi tayloristici che scandivano la vita urbana. Così le case
4. Auguste Comte, Politica
avrebbero dovuto essere inserite nel mondo della produzione, partecipare ad
positiva, 1824 esso ed esserne propaganda.
La necessità del dopo guerra di ricostruire le città europee porta
5. Giancarlo De Carlo, all’applicazione delle teorie funzionaliste. Le metropoli sono ripensate
Si deve accettare nella propria quotidianeità i
L’architettura della nell’urbanistica e nell’edilizia secondo criteri igienici e razionali; il boom ritmi di un sovrasistema meccanico.
partecipazione, Quodlibet, 2013 economico porta l’industria ad essere al centro delle attenzioni, riconosciuta
come capace di far fiorire la ricchezza sia del proprietario che dell’operaio.
Così il capitalismo assume il ruolo di condottiero della società e l’architettura
lo segue; “la vita domestica consiste in un susseguirsi di funzioni precise. Il
regolare susseguirsi di queste funzioni costituisce un fenomeno di circolazione.
La circolazione esatta, economica, rapida è il perno dell’architettura
contemporanea”6 scrivono Le Corbusier e Pierre Jeanneret. Nella casa vivono
i tempi della razionalità ed il rigore delle forme. La famiglia è connessa alla
sfera produttiva, i rapporti interpersonali anche.
La dimensione dell’appartamento (a cui era assegnata “la funzione di rifugio
dalle contraddizioni e dai conflitti della città, esso era il luogo privilegiato
dell’intimità, del riposo, della ricostruzione della forza lavoro”7) contribuì
inevitabilmente all’accentuarsi della tendenza disgregativa del sovrasistema
urbano, alimentando la percezione di incomunicabilità in un meccanismo
che vedeva tutti vicini ma allo stesso tempo distanti.
Anche gli spazi pubblici, che persero il loro carattere rappresentativo a
favore della possibilità di fruizione informale collettiva, furono concepiti o
recuperati per asservire le funzioni dell’igiene (contatto con la natura), della
ricreazione e della circolazione. Nella logica della subordinazione - ingenua?
- al volere moderatore delle classi dirigenti, gli spazi comuni costituirono solo
in minima parte, comunque, una valvola di sfogo alle pressioni esercitate
dalla città. Questo è dovuto in parte alla conformazione di questi luoghi,
spesso poco circoscritti e troppo vasti, e dunque di difficile utilizzazione
6. Le Corbusier e Pierre spontanea, in parte alla scala di utenza a cui erano destinati. Non in tutti i
Jeanneret, Analisi degli elementi
casi - come per esempio le case popolari progettate da Oud nei Paesi Bassi -
fondamentali del problema della
“Maison Minimum”, 1942 ma spesso, infatti, questi si estendevano all’utilizzo di troppe persone perché
si potessero creare delle abitudini e instaurare una familiarità con lo spazio:
7. Matilde Baffa Rivolta e Augusto
Rossari, Alexander Klein, lo studio
si pensi al la piscina sul tetto giardino dell’Unitè d’Habitation di Marsiglia
delle piante e la progettazione - in quanti si saranno spinti ad usarla senza indugi? - o alle esperienze
degli spazi negli alloggi minimi. fallimentari dei quartieri romani di Laurentino 38 o del Corviale.
La piscina dell’Unité d’habitation di Marsiglia:
Scritti e progetti dal 1906 al 1957,
in quanti si saranno spinti ad utilizzarla senza
Gabriele Mazzotta editore, 1975
indugi?
L’APPARTAMENTO Tom Wolfe nel suo saggio Maledetti architetti8 analizza l’avvento
dell’architettura razionalista nel continente americano. Negli Stati Uniti la
MODERNO ED IL
guerra non aveva distrutto le città, non c’era penuria di abitazioni e nemmeno
COMFORT COME una sovrappopolazione urbana che richiedesse la costruzione di alloggi nello
PALLIATIVO stile del Werkbund. Eppure si racconta di come Wright sia stato insidiato da
Gropius e dai suoi compagni. Nell’America del Nord che non aveva problemi
di spazi e dove le case erano ampie e ariose il razionalismo europeo propose
modelli di case minime, funzionali ed efficienti come quelle che si costruivano
nel vecchio continente. Wolfe descrive la reazione del cliente americano,
che non capiva la nuova distribuzione, ma l’accettava “virilmente”. Così il
Movimento Moderno iniziò a propagarsi anche oltreoceano, definendo in
maniera stabile uno stile che sarà quello che conformerà praticamente tutta
l’edilizia urbana della seconda metà del XX secolo.
L’appartamento moderno, descritto minuziosamente da molta letteratura9, L’omologazione delle aspirazioni
riflette e definisce infatti la società occidentale, è un organismo capace
di fornire risposte omogenee a quelle che si presumono essere esigenze
omogenee e costanti. Con il passare degli anni l’utenza si è impersonata
nella forma dell’appartamento e l’abitare è passato dal grado di funzione a
quello di concetto culturale. La casa ha assunto una funzione simbolica, ha
8. Tom Wolfe, Maledetti architetti. incarnato il progetto moderno di democratizzazione e autodeterminazione
Dal Bauhaus a casa nostra (From inteso come parte integrante della vita quotidiana. Le possibilità economiche
Bauhaus to our house), Bompiani, dei cittadini sono aumentate: grazie alla ricchezza derivata dal commercio
1981 massificato di prodotti si è diffuso un benessere di base, tanto che anche
9. http://www.fedoa.unina. le classi meno agiate sono diventate delle piccole consumatrici. Così ogni
it/2722/1/Paduano_Composizio- famiglia ha potuto permettersi un’automobile, degli elettrodomestici, una
ne_Architettonica.pdf televisione. Il benessere, la comodità, sono divenute un dato di fatto, un
pilastro portante della società.
10. Herman Hertzberger,
I cittadini spendono nell’allestimento della propria casa, per potersi appartare
Lezioni di architettura (Lessons
for students in architecture), nei propri spazi privati a godersi la comodità guadagnata; Hertzberger10
Laterza, 1991 affermerà con rammarico che il benessere ha svuotato le città.
Il comfort ha assunto un ruolo di base nel contesto domestico. Le analisi
sull’abitante non sono più condotte da architetti demiurghi sugli utenti
medi ma da aziende di mobili ed elettrodomestici sui consumatori medi. Da
l’ultimo reportage di Ikea sulla casa10 emerge il dato interessante riguardo
allo stress che il possesso di molti oggetti e l’impossibilità di disporli provoca
negli abitanti. Il 44% trova un grande sollievo dopo essersi sbarazzato di ciò
che aveva accumulato. Si legge ancora di come l’allestimento della casa
sia in sé un motivo di grande angoscia: la paura di modificare la situazione
esistente, la mancanza di economie o di energie e l’insoddisfazione o il senso
di incompletezza di fronte ad un alloggio che sembra non finito.
Kahill Gibran11 nel suo libro Il Profeta scriveva a proposito della casa:
Ditemi, popolo di Orfalese,
che avete in queste case? Le reazioni psicologiche che la casa può
E che mai custodite dietro l’uscio sbarrato? provocare nell’inquilino.
Forse la pace?
Il calmo desiderio che rivela in voi la forza?
Forse i ricordi?
Questi archi di pallida luce
che uniscono le cime della mente?
Forse la bellezza?
quella che sa condurvi il cuore
dagli oggetti creati nel legno e nella pietra
fino alla montagna sacra?
Ditemi, avete questo nelle vostre case?
Oppure é solo la comodità che esse contengono
11. http://lifeathome.ikea.com/ e l’avidità del benessere
home/en/beating-battles.html che furtiva entra in casa come ospite
per diventarne padrona e infine sovrana?
12. Kahill Gibran, Il Profeta, Si, essa vi domina,
Knopf 1923 e con il rampino e la frusta riduce a fantocci
le vostre aspirazioni più alte.
Benché abbia mani di seta,
il suo cuore è di ferro.
Vi addormenta cullandovi
per stare vicina al vostro letto
e prendersi gioco della dignità della carne.
Schernisce i vostri sensi integri
e li depone nella bambagia come fragili vasi.
In verità, l’avidità del benessere
uccide la passione dell’anima
e sogghigna alle sue esequie.
[...]
La vostra casa non sarà l’ancora,
ma l’albero della nave.
Non sarà il velo lucente che ricopre la ferita,
ma la palpebra a difesa dell’occhio.
Non ripiegherete le ali per attraversare le porte,
non chinerete la testa per non urtare la volta,
non tratterrete il respiro per paura
che le mura si incrinino e crollino.
Non dimorerete in sepolcri
edificati dai morti per i vivi.
E sebbene magnifica e splendida,
la vostra casa non custodirà il vostro segreto
né darà riparo alle vostre brame.
Nei suoi versi del 1923 il poeta libanese ha profetizzato il dato che Ikea
registrerà nel 2017. Il comfort entra a far parte delle case degli occidentali,
e poi li ghermisce, li addormenta e li sottomette alla propria sopravvivenza.
Come De Carlo13 ha giudicato il caso della cucina di Francoforte come 13.
un’ipostatizzazione del soggetto umano a favore della funzione cucina, oggi
si potrebbe verificare la stessa inversione rispetto agli oggetti che si hanno
negli alloggi. Si potrebbe osservare che il boom economico ha trasformato
gli utenti da ingranaggio del sistema produttivo a ingranaggi di quello
economico ma sarebbe anche giusto obiettare che siano stati gli stessi utenti
a partecipare spontaneamente come consumatori a questo mutamento;
è infatti innegabile il piacere che si trae dalla comodità dell’utilizzo di
determinati oggetti.
Riconoscendo che il comfort è oggi un elemento imprescindibile nella società,
una categoria a priori di cui si dà per scontata l’esistenza, ma dalla natura
ambigua in quanto provocatore sia di piacere che di sconforto, sarebbe
giusto analizzarlo più approfonditamente. L’etimologia di comfort viene dal
verbo confortare, che significa aiutare a sopportare una situazione, renderla
più dolce, meno traumatica, più facile da accettare e dimenticare, alleviata
dal miele della comodità. Se si collegasse questa analisi alle problematiche di
adattamento del cittadino all’ambiente della città da cui cerca di proteggersi Migliora la rete. Migliora la vita?
isolandosi, si prospetterebbe un quadro più preoccupante rispetto alla
relazione tra individui, contesto urbano e contesto domestico.
Se l’inurbamento aveva disgregato i rapporti sociali e l’abitare in appartamenti
contigui ma isolati aveva aumentato il livello di segregazione e di indifferenza,
l’avvento del comfort e del suo sempre più attraente sviluppo tecnologico
sta favorendo l’evoluzione dell’individuo: dall’alienato di Simmel ad un’entità
sempre più astratta e dipendente dal mercato, unico portatore di una felicità
istantanea, e senza alternative che le permettano di svincolarsi dal sistema,
in quanto queste le sono ad oggi troppo lontane ed estranee.
Sempre Hertzberger scriveva: “quanto più le persone sono isolate e alienate,
tanto più è facile controllarle attraverso decisioni che passano sopra le
loro teste”; ecco che l’interesse che aveva mosso la mano degli architetti
razionalisti ha cambiato volto, si è travestito della scelta autonoma degli
individui di rifugiarsi nel comfort.
B TENTATIVI DI RIGENERARE
IL RAPPORTO TRA IL
CITTADINO E L’AMBIENTE
FISICO E SOCIALE CHE LO
CIRCONDA
DALL’ALLOGGIO Come è stato affrontato brevemente in precedenza, la composizione
progettuale dell’alloggio - operaio e non - è preceduta da uno studio sulle
TECNOCRATICO AL esigenze dell’individuo, analizzato come un soggetto scientifico a cui fornire
TEAM X: ANALISI uno strumento efficiente per il soddisfacimento dei suoi bisogni. La fede
DEL TENTATIVO DI nel positivismo pontificato da Comte (“considerare tutti i fenomeni come
RISTABILIRE UNA sottomessi a leggi naturali invariabili, la cui scoperta e successiva riduzione
al minor numero possibile è il fine di tutti i nostri sforzi”14) porta l’architetto
RELAZIONE TRA a cercare quella tipologia di alloggio che conduca l’utente all’espletazione
SPAZIO ED UTENTE. di tutte le funzioni necessarie alla vita in maniera logica e facile. Nel suo
ANALISI DEL saggio Il buon abitare Inaki Abalos15 si lancia in una descrizione critica di
quello che fu il rapporto tra il pensiero filosofico positivista e le azioni degli
METODO DI JOHN
architetti, catalogando come “esperienza delirante” l’Existenminimum e la
HABRAKEN ricerca secondo quattro fattori - dati statistici, principi scientifici, aspetti
tecnici e costruttivi - che costituiva l’approccio metodologico di Klein. Dalla funzione alla forma, dalla forma
Abalos, riferendosi al film di Jacques Tati Mon Oncle, descrive lo spazio della all’utilizzo.
casa positivista degli Arpel come la “res extensa” cartesiana, uno spazio
virtuale, poco reale e poco adatto soprattutto all’esistenza umana, incarnata
dall’insofferenza naturale del figlio degli Arpel, sempre pronto a sgattaiolare
via insieme allo zio verso un mondo meno igienico ma più tangibile.
All’inizio del capitolo, Abalos descrive la discussione nel contesto del X
CIAM tenutosi a Dubrovnik nel 1956 tra i maestri e i membri più giovani:
questi ultimi denunciavano le problematiche derivanti dall’applicazione nella
ricerca architettonica del riduzionismo positivista. Il tema del congresso,
14. Auguste Comte, opera organizzato dagli stessi a partire dal 1953, era lo “Studio dell’habitat umano”;
citata si contestava il mero ridurre a funzioni la concezione dell’abitazione ed il
concetto che l’architetto fosse il solo intermediario tra lo spazio e l’utente.
15. Inaki Abalos, Il buon Questo rapporto tecnocratico fu attaccato poi nel tempo dagli stessi membri
abitare. Pensare le case della che avevano partecipato al CIAM o che sostenevano le tesi e le ipotesi del
modernità (La buena vida: movimento che si era generato e distaccato dall’architettura del Movimento
visita guidada a las casas de la Dalla contestazione dei maestri al X CIAM
modernidad), Christian Marinotti
Moderno, che prese il nome di Team X. nasce il movimento del Team X.
edizioni, 2000 Giancarlo De Carlo accusò, come esempio valido anche per le altre distorsioni
che le abitazioni potevano generare, la cucina di Francoforte progettata
da Margarete Schutte-Lihotzky per Ernst May di essere progettata
essenzialmente per svolgere la funzione di cuocere una frittata, spostando
l’attenzione sull’oggetto frittata, che diviene soggetto della cucina, e
distogliendola da chi compie l’azione, l’individuo che abita nella casa pensata
per le azioni che egli deve compiere16. Percorrendo a ritroso il ragionamento
di De Carlo, emerge la critica che egli dirige alla selezione scientifica
dell’individuo tipo che deve compiere le azioni per cui la casa è progettata,
un individuo senza storia né cultura, senza ovviamente emozioni che possano
turbare la sua maniera di agire.
La critica all’utente tipo per il quale sono progettate le case dai razionalisti
è mossa anche da Yona Friedman, che nega l’esistenza ed anche la
rappresentatività dell’utente tipo nei confronti della popolazione: “se si
soddisfano solo le esigenze dell’utente medio che non esiste, di conseguenza
un utente reale non avrà mai soddisfatte esigenze specifiche!”17.
Il Team X tenta dunque di riavvicinare lo spazio costruito all’utente a cui
è destinato, soprattutto negli ambiti della costruzione di massa; il Team X
non si è mai comunque definito come gruppo ufficiale, ma come corrente
filosofica alimentata dalle esperienze dei singoli. Per questo si troveranno
degli approcci differenti alla problematica: mentre De Carlo proporrà di
costruire il villaggio Matteotti solo potendo intraprendere una progettazione
partecipata con gli abitanti, l’architetto olandese John Habraken cavalcherà
le possibilità permesse dalla prefabbricazione e scriverà un manuale per
costruire delle abitazioni modulari nelle quali l’utente poteva cambiare
disposizioni e destinazioni degli ambienti.
16. Giancarlo De Carlo, opera In questa tesi si vuole approfondire la sperimentazione di Habraken, sia
citata perchè meno conosciuta, almeno in Italia, rispetto a quella di altri esponenti
del Team X quali Van Eyck e Bakema o Hertzberger, sia perché di cruciale
17.Yona Friedman, Utopie importanza per gli sviluppi dell’architettura open-source, pilastro delle
realizzabili (Utopies realisables), Con quante mosse si può cuocere la frittata
esperienze di progettazione partecipata contemporanea attraverso la perfetta? Con la cucina di Francoforte
Quodlibet, 1975
mediazione dell’e-market. solamente in 7
Come detto, Habraken partirà dalla possibilità attraverso la prefabbricazione
di creare un sistema ripetibile che permetta di essere modificato per
produrre delle nuove disposizioni. Nel suo testo Supports: An Alternative
to Mass Housing18 egli scompone l’organismo edilizio in supporti ed unità;
rispettivamente sui primi decide l’architetto o la sovrastruttura nella quale il
progetto si inserisce, sulle seconde decide l’utente del progetto. Non bisogna
assimilare i concetti di supporti ed unità alla struttura ed ai tamponamenti,
anche un semplice tramezzo infatti potrebbe essere considerato un supporto,
e quindi non modificabile.
L’analisi che Habraken effettua rispetto alla necessità di poter modificare
gli spazi di un alloggio non si limita all’utente iniziale per il quale la casa è
destinata (o destinabile nel caso della costruzione di massa) e quindi alla
critica dell’utente tipo, ma si estende alla già riconosciuta dinamicità della
società e all’avanzare dell’appropriazione del processo tecnologico che, con
l’aggiunta di elettrodomesici o dispositivi differenti, potrebbe determinare
una diversa disposizione degli spazi; inoltre, si considera l’eventualità che
gli spazi potrebbero un giorno avere una fruizione altra da quella domestica.
Habraken comincia da una catalogazione degli spazi secondo la funzione,
definendo spazi ad uso generale, specifico o di servizio, lasciando poi
all’utente la possibilità di scegliere, ad esempio, se la cucina deve essere
uno spazio di servizio o uno spazio generale con possibilità di vivibilità.
La classificazione degli spazi serve poi ad aiutare l’utente a comprendere
quale posizione potrebbero assumere le funzioni all’interno dello spazio della
casa; per questo lo spazio domestico si divide in zone e margini: le zone
rappresentano l’ingombro di base per un determinato spazio, che poi può
estendersi, occupando i margini in caso sia stato concepito come uno spazio
specifico, o occupando oltre i margini anche le zone nel caso sia uno spazio
generale.
18. N. John Habraken, Analogamente al ragionamento di Hertzberger rispetto al concepimento di
Studio delle differenze di appropriazione di
Supports, an alternative to mass uno spazio polifunzionale, Habraken afferma che l’architetto per disegnare una casa concepita in supporti-unità.
housing, Urban International, i supporti deve preliminarmente immaginare tutte le disposizioni possibili in
un dato spazio e fornire insieme al progetto della casa quello delle varianti
basiche possibili.
Sempre analogamente ad Hertzberger, Habraken sostiene che l’architetto
debba semplicemente fornire l’imput iniziale perché gli utenti si approprino
degli ambienti in cui vivono. In questo caso, il “manuale di istruzioni” per la
modifica della casa ha lo scopo di stimolare la fantasia e di indurre a non
accontentarsi di uno spazio non corrispondente alle proprie necessità.

Metodo delle zone e dei margini con consigli


di utilizzazione ed abaco degli arredi che vi si
possono inserire.
IL TENTATIVO Herman Hertzberger è un altro componente del Team X che ha perseguito
l’idea di riavvicinare i cittadini al contesto in cui vivono. Con la sua opera,
DI EDUCAZIONE soprattutto giovanile, negli anni ‘70 dei moti e delle contestazioni e della
DELL’UTENTE ALLO fede in una rigenerazione della società dalle basi, Hertzberger testimonia
SPAZIO PUBBLICO gli esperimenti per ribaltare il concetto di spazio e familiarizzazione con
ATTRAVERSO LA questo, in ambiti diversi del composto urbano. L’architetto ripenserà
infatti, osservandole dalla prospettiva delle relazioni e della loro possibilità
SUA INTERAZIONE di instaurarsi, la forma e la disposizione dei luoghi; dall’edilizia scolastica
CON QUESTO fino a quella degli asili per anziani, dalla composizione urbanistica delle
strade alla permeabilità di uffici e teatri, Hertzberger non mancherà di
fornire un’opinione ed un’alternativa che potessero rendere lo spazio un
catalizzatore sociale.
L’architetto riunirà queste sue esperienze in un manuale, Lessons for
students in architecture19 per formare gli studenti ad un pensiero alternativo Hertzberger resta impressionato dalla
e perché questi potessero un giorno riuscire dove la sua sperimentazione rivendicazione privata sugli spazi pubblici in
Indonesia.
aveva fallito. Il tentativo di riavvicinare gli individui al loro spazio vissuto non
fu sempre infatti un esperimento compreso dai cittadini; trovarsi in possesso
degli spazi urbani pubblici spaventò a volte le persone.
Il grande successo dei tentativi di Hertzberger è infatti da ricercare non tanto
nell’edilizia domestica di cui si è trattato fino ad ora ma piuttosto in quelle sfere
di vita che si svolgono all’interno di un “organismo speciale”: studentati, scuole,
ospizi per gli anziani, uffici e teatri reagiscono di fatto molto più positivamente.
Per studiare in maniera completa l’opera di Hertzberger si rimanda al
testo citato, qui si presenteranno degli esempi isolati che possano definire
il carattere insito nell’architettura del maestro olandese e avanzare delle
ipotesi sui motivi del suo successo o fallimento.
All’interno del suo libro, Hertzberger dedica una sezione al dominio pubblico,
focalizzando sulle rivendicazioni territoriali, il fruire di spazi pubblici
percependoli come propri e le modalità in cui questo avviene. Un suo viaggio
Da utenti ad abitanti dello spazio pubblico.
19. Herman Hertzberger, a Bali, in Indonesia, permette all’architetto di osservare quanto un luogo
opera citata all’apparenza pubblico possa essere intriso dei segnali del gruppo che se ne
considera proprietario: certe strade appartenevano infatti dichiaratamente
alla famiglia o clan che le utilizzava. Le unità abitative erano sparse intorno
al tracciato della strada, che si conformava in una sorta di cortile, dove il
passante si sentiva un estraneo: i membri del clan tenevano infatti gli animali
liberi a pascolare per la strada, si spostavano da una casa all’altra come se si
spostassero in una casa dalle molte stanze, pregavano di fronte alla cellula
mortuaria dei loro defunti. Di fatto, la strada non era altro che un’altra parte
dello spazio domestico, con la stessa valenza di privacy e di utilizzazione.
L’architetto comincia così a catalogare le forme di appropriazione esistenti
nel continente europeo e quelle che la rendono possibile: dalle strade
chiuse e dalle corti degli isolati che possono divenire il giardino delle case
che le delimitano alla disposizione dei ripiani nei banchi delle biblioteche,
che avrebbero reso possibile un sentimento di intimità anche all’interno
di uno spazio di dominio pubblico. L’analisi degli oggetti e dei luoghi che La strada soggiorno e la sua capacità di
egli intraprende è spesso diretta a comprendere i metodi attraverso i quali permettere relazioni.
l’architetto può agire per coinvolgere l’utente nello spazio, partendo proprio
dall’osservazione di quest’ultimo nell’utilizzazione spontanea che egli fa delle
circostanze in cui si colloca.
Nell’architettura che scaturisce da questi studi Hertzberger pone sempre
l’accento infatti sulla facilità di utilizzazione che l’individuo ha e può avere
dell’opera e nell’opera. Si analizzino per esempio le aule di una scuola
elementare: queste si aprono con delle numerose bucature alla vista dall’atrio
di distribuzione; i bambini hanno interpretato queste finestre come vetrina
per mostrare gli oggettini artistici che producono. Dietro le parti opache
che intramezzano le aperture l’architetto fa continuare il pianale su cui
sono esposte le piccole opere, che diventa il tavolo da lavoro individuale o di
coppia, dove l’artigiano o l’artista può creare nella giusta dimensione.
Sempre nel campo dell’architettura pubblica Hertzberger ottiene la
progettazione della sede degli uffici di una grande compagnia assicurativa.
Egli frammenta l’insieme in una grande struttura quasi alveolare composta
da moduli che avrebbero potuto ospitare funzioni differenti: dal servizio
dei bagni alla sala d’attese, da un’area ristoro ad una ricreativa di
intrattenimento, fino alle più canoniche sala riunioni e luogo di lavoro degli
impiegati. Focalizzando l’attenzione soprattutto su questo, ci si rende conto
di come Hertzberger aveva costruito uno spazio che gli utenti avevano
personalizzato, percependolo come il proprio spazio di lavoro, che li faceva
sentire a casa e di cui essi si prendevano cura: i dipendenti infatti avevano
arredato con piante, quadri, foto, tappeti e quant’altro l’intorno della propria
scrivania, conferendo all’ufficio un’atmosfera piacevole per lavorare insieme
agli altri.
Anche nell’ambito della progettazione di una casa di riposo per anziani,
l’architetto non manca di applicare quel metodo basato sullo studio degli
spazi e degli oggetti che avrebbe portato ad un processo di socializzazione
Anche un’accorta progettazione delle scale
degli utenti in uno spazio che avrebbero sentito come proprio. Non si può
può fornire dei piacevoli luoghi di incontro.
dire se Hertzberger riuscì addirittura a far dimenticare agli inquilini la loro
condizione di permanenza temporanea in quello che poteva essere il luogo
della loro ultima degenza, fatto sta che gli inquilini curavano la loro stanza
e lo spazio ad essa immediatamente esterno con una dovizia di particolari
ed effetti personali che gli inservienti, passando nei corridoi, avevano
l’impressione di percorrere le strade di una città con le sue case. La presenza
di piccole rientranze che dividevano lo spazio di circolazione da quello
intimo della stanza aveva infatti spinto gli abitanti a guarnire con piante e
tessuti lo spazio risultante; la sistemazione poi di una sedia o di una poltrona
permettevano la permanenza in quel salottino condiviso con i vicini che si
era venuto a creare, e il generarsi di rapporti di amicizia e socializzazione
con chi divideva lo stesso spazio. Addirittura, i pazienti più gravi avevano
una finestra che affacciava sul corridoio - oltre ovviamente a quella che
apriva sullo spazio esterno - per partecipare a quella vitalità che si andava
sviluppando all’interno.
Hertzberger è riuscito a comporre dei quadri che permettevano la nascita
di rapporti interpersonali e proiettavano l’utente nella responsabilità dello
spazio in cui viveva, facendolo riscoprire come foriero di possibilità altre e
più piacevoli di fruizione dei luoghi nello scorrere della vita quotidiana.
Rispetto all’edilizia domestica privata, anche se avrebbe registrato dei
successi nei suoi progetti, Hertzberger ebbe modo di rammaricarsi comunque
riguardo alle politiche di sviluppo delle città. Nelle sue commissioni per la
lottizzazione e la costruzione di quartieri, l’architetto cercò per quanto
possibile di allontanare il traffico motorizzato dalle strade che avrebbero
costituito l’estensione delle abitazioni. Nello stesso periodo, però, sempre
di più si irrobustiva il mercato delle automobili, le strade si articolavano in
corsie di percorrenza a seconda delle velocità o dei veicoli ed il loro tracciato
si allargava, rendendo maggiore la distanza tra le case e impossibile la
creazione di un tessuto urbano inclusivo per i propri abitanti. Ancora una volta
la città e la metropoli stavano mettendo in atto quel processo disgregativo
che le aveva caratterizzate fin dall’inizio del secolo. In una conferenza al L’importanza della soglia. Un allestimento
Centro Congressi di Belem a Lisbona un rappresentante dello studio BIG attento può contribuire alla socializzazione ad
alla piacevolezza del luogo.
Architects affermò che le infrastrutture collegano il distante e dividono
il vicino. Hertzberger e le sue idee di architettura a livello di strada e di
quartiere rimasero vittime di questa presa di coscienza e, come gli americani
tempo prima, la dovettero accettare “virilmente”.
Forse Hertzberger si fossilizzò sulla convinzione che perché lo spazio
permettesse di essere appropriato da chi lo vive sarebbe stato necessario
impedire il traffico motorizzato, in ogni caso quando ebbe occasione di agire
nelle condizioni che prediligeva i risultati sull’ambiente furono impressionanti.
Nello sviluppo di differenti progetti tentò attraverso la struttura delle scale di
creare dei punti di incontro per gli abitanti nei pianerottoli, che divenivano
luoghi di gioco per i bambini, abbastanza fuori da casa loro per sentirsi
intraprendenti e liberi ma abbastanza vicini per sentirsi nella sicurezza del
loro nido e di scambio di informazioni o dialogo per gli adulti; insistendo sul
concetto di strada-soggiorno che aveva incontrato in Indonesia, permise la
vivibilità di tracciati stradali sottratti al traffico automobilistico attraverso
l’appropriazione degli abitanti che potevano cambiare le mattonelle del
lastricato intorno al loro ingresso con delle piantumazioni o degli arredi
urbani, componendo una variegata quinta urbana espressione di chi la viveva;
dispose gli accessi delle abitazioni in maniera da non essere dirimpettai e di
poter scrutare curiosamente nelle case altrui, mantenendo così rispettati i
vincoli di intimità anche all’interno di un organismo strada che poteva vivere
insieme; demarcò con colori o aggetti o arredo urbano non invadente - ed
allo stesso tempo utilizzabile - le “aree di pertinenza” di fronte ogni singolo
alloggio, in maniera tale che il residente poteva contribuire al benessere
delle circostanze semplicemente occupandosi dello spazio direttamente
esterno alla propria abitazione.
L’imput spaziale di cui Hertzberger dota le sue realizzazioni è frutto
dell’immaginazione dell’architetto che ha studiato e vuole favorire i
comportamenti delle persone rispetto all’ambiente che le circonda, perché lo
rendano il luogo nel cui vorrebbero vivere e nel quale potranno identificarsi.
Queste non temeranno lo spazio esterno, ignoto e possibile di vandalismo
ed aggressione, ma se ne sentiranno parte, riconoscendo invece nei vicini
qualcuno con cui poter condividere il benessere di un luogo di cui sono
divenuti entrambi responsabili.
L’EVOLUZIONE Nel 1969 l’allora giovane architetto Philippe Boudon pubblicò uno studio
socio-architetturale20 riguardo l’evoluzione del complesso di Pessac, opera di
DELLE Le Corbusier; ad eccezione dell’impianto urbano, il quartiere non assomigliava
SPERIMENTAZIONI per nulla a quello che era stato consegnato ai suoi primi residenti. Nella
DEL XX SECOLO sua tesi sull’architettura Open Source21 Andrea Rosada riassume bene le
E L’INGRESSO descrizioni del libro di Boudon: “Le modifiche alle abitazioni eseguite dagli
abitanti stessi ne avevano completamente modificato l’aspetto: al posto dei
DELL’E-MARKET tetti piani si trovavano dei tetti a doppia falda; dove c’era una finestra a
NELL’ARCHITETTURA nastro ora vi erano due o più finestre a doppia anta; le porzioni di piano
libero a pilotis erano state chiuse e gli inquilini vi avevano ricavato un nuovo
ambiente.”
Nella sua opera Le Corbusier è un personaggio ambiguo: è significativo che
nel suo testo Hertzberger lo citi spesso come un esempio primogenito da
seguire, esaltandone le intuizioni che avrebbero aperto alla possibilità di
fruizione personalizzata e familiarizzata di uno spazio ripetuto e funzionale.
Anche nel volume di Boudon gli intervistati ed i critici si esprimono in un
misto di disprezzo ed ammirazione. Se alcuni infatti vedono nell’esperienza
di Pessac una sconfitta dell’architettura demiurgica di Le Corbusier, altri
affermano che “solo una definizione architettonica di quel tipo avrebbe
potuto permettere tali modifiche dal momento che, con molta probabilità,
una definizione di tipo tradizionale (sia per le tecniche costruttive che per la
sua forma) sarebbe stata molto più difficile da modificare”. Così Hertzberger
lo potrà lodare, facendo forza sui disegni che Le Corbusier presenta per
il Plan Obus di Algeri, dove le varie cellule abitative, le tipiche machines
20. Philippe Boudon, Pessac à habiter, sono in realtà tutte diverse negli stili: dove il moderno, dove il
de Le Corbusier, 1927-1967:
étude socio-architecturale,
moresco, dove il gotico e dove il romanico. Habraken invece riconoscerà nello
Laurent Bony, 1969 scheletro della Maison Dom-Ino un punto di partenza per la sua definizione
dei supporti: lo scheletro lecorbusieriano non era altro che una infrastruttura
21. https://issuu.com/ su cui costruire la propria casa - anche se non era in discussione che fosse
Immagini tratte dal libro di Boudon. Emergono
caporosso/docs/rosada_ l’architetto a disegnarla e costruirla e non l’abitante. le modifiche operate dagli abitanti al progetto
architettura_open_source/203 Gli sguardi interessati intravedono dunque nella costruzione di massa con la iniziale.
sua prefabbricazione pesante una significativa conquista socio-tecnologica,
favorendo questa la customizzazione di massa, “ovvero la possibilità per ogni
utente di apporre le modifiche necessarie secondo le sue necessità”22.
Anche altri esempi documentano la partecipazione degli utenti nelle opere di
Le Corbusier: si veda la stessa Unité d’Habitation di Marsiglia, dove sovente
la doppia altezza dei soggiorni fu eliminata a favore dell’ampliamento delle
camere del piano superiore, o l’esperienza degli immobili algerini nei quali gli
abitanti durante la notte chiudevano tutte le aperture verso l’esterno con
dei tamponamenti in mattoni, rinunciando addirittura all’apporto di luce ed
aria per salvaguardare la propria identità tradizionale23. In tutti questi casi si
può catalogare l’intervento degli utenti come una partecipazione durante lo
stadio finale dell’opera, quello della gestione.
Il professore in Master Buildings Duccio Turin della Barlett School of
Architecture in London nella seconda metà del XX secolo esplorò le
dinamiche del processo edilizio, identificandone le fasi e gli attori. Già dal
1975 egli nel suo articolo Building as a Process24 considerava l’utente finale
come uno dei protagonisti, insieme alle industrie di materiali, agli ingegneri
e agli architetti, dell’iter di costruzione nell’ambito dell’edificazione di massa.
Sempre nella tesi di Andrea Rosada si trova l’evoluzione del pensiero
che disciplina i gradi di partecipazione dell’abitante rispetto al progetto:
“Diversi autori hanno proposto schemi per classificare la partecipazione.
Waters distingue, in ordine decrescente: self help (i cittadini fanno da sé),
22. Andrea Rosada, opera partnership (sono partner con medesima dignità rispetto all’istituzione
citata pubblica), consultazione (sono coinvolti nel processo decisionale ma senza
23. https://issuu.com/ potere formale), informazione (ricevono passivamente ciò che è deciso da
sa2938/docs/memoire_abdallah_
altri). Sono ritenuti autentica partecipazione solo i primi due. Lo stesso
salim
schema riconosce anche quattro fasi del processo - avvio, pianificazione,
24. https://www. realizzazione e gestione - e afferma che perché la partecipazione sia
researchgate.net/
autentica deve attribuire un ruolo attivo almeno nelle prime due fasi.
publication/261667806_ La definizione di forme da comporre nel libro
Introduction_to_Duccio_ Evidentemente, si ha partecipazione al massimo grado quando i cittadini di Christopher Alexander.
Turin’s_’building_as_a_process’ sono contemporaneamente ideatori, costruttori e utilizzatori del proprio
spazio abitativo.”
All’interno delle sperimentazioni di Hertzberger e Habraken presentate
precedentemente si arricchirà l’analisi di Waters, fornendo quei metodi
che rendano possibile la partecipazione autentica dell’abitante ad opera
finita. De Carlo invece si inseriva nella corrente di pensiero che voleva che
l’architettura provenisse dagli abitanti stessi, e nel caso di Terni organizzerà
una serie di sedute durante le quali gli identificati utenti finali del progetto
discutevano con l’architetto circa le disposizioni e le infrastrutture che il
complesso avrebbe dovuto avere. Il ruolo di De Carlo era poi quello di rendere
possibile spazialmente i desideri espressi dall’utenza.
L’elemento comune ai processi di De Carlo, Hertzberger e Habraken
è comunque il ruolo dell’architetto, che assume la funzione di tecnico,
sapiente dello spazio, in grado di inscenare quelle possibilità che avessero
soddisfatto o potuto soddisfarre gli utenti. L’architetto era dunque una
sorta di piattaforma che forniva all’utenza una forma che permettesse di
dialogare con essa. Anche per i razionalisti del Werkbund l’architetto era una
piattaforma che forniva all’utente la casa per svolgere le funzioni abitative:
ciò che è mutato è appunto l’approccio verso l’inquilino ed il suo alloggio, con
l’attenzione che si sposta dalle funzioni che il primo deve poter compiere nel
secondo al primo e al suo utilizzo personalizzato del secondo.
Rosada, nella sua tesi che ha ispirato questo capitolo, identifica gli
avanguardisti dell’architettura open source: egli presenta Habraken,
Friedman, Seagal e Alexander. Il primo e l’ultimo sono quelli che hanno
preconizzato praticamente il funzionamento dell’e-market contemporaneo,
di cui si tratta qui poiché caratterizza e potrà caratterizzare i processi di
costruzione nell’ambito del cohousing di iniziativa pubblica, che saranno
affrontati nella prossima sezione.
25. Christopher Alexander, Christopher Alexander è un giovane architetto americano quando nel 1964
A pattern language, Center for viene dato alle stampe Note sulla sintesi della forma25, un libro che alterna
Environmental Structure di Ber- tratti poetici a caratteri di estrema razionalità compositiva. Si passa infatti
keley, 1964 dall’affermazione “L’obitettivo del progettare è la forma. La ragione per cui
la polvere metallica posta in un campo magnetico esibisce dei pattern - o,
come comunemente detto, prende forma - è che il campo all’interno del
quale viene posta non è omogeneo” ad un’analisi di tutti i patterns (dunque
le forme) che possono influenzare l’esito di una composizione architettonica.
Alexander affronta nel suo libro il tema della “defnizione chiara del problema
architettonico e della sua scomposizione e rappresentazione” spiegando
che la soluzione formale deriva dall’insieme delle singole soluzioni, le quali
possono essere rappresentate da opportuni diagrammi, o pattern26. Alexander
compila perciò una lista di singole situazioni che possano trovare posto nella
complessità di un progetto secondo la natura dell’inquilino che andrà ad
usufruirne, sono quei pezzi di puzzle singoli ma intrecciabili che andranno
a comporre il sistema architettonico, sono in pratica quelle - moltissime
- configurazioni standard tra cui l’utente può scegliere per definire il suo
spazio. Alexander considera anche il grado di conflitto e di interazione che
un pattern esercita sull’altro, ponendo così all’attenzione dell’utente i rischi
e le incompatibilità che certe disposizioni potrebbero generare sulle altre.
Il volume si correda così di 253 pattern, che spaziano dalla scala urbanistica
all’intimità domestica, utilizzabili come algoritmi interlacciabili nei differenti
progetti, meccanismo che non differisce di molto dal funzionamento di
programmi di progettazione come Grasshopper, con il quale oggi in Germania
si approccia al disegno urbanistico di insediamenti ideali.
La tecnologia dall’avvento di internet ha così potuto spalancare le porte
al mondo della progettazione partecipata: l’utente, grazie ad alcune
organizzazioni che forniscono una piattaforma telematica con la quale
interagire, può fornire le variabili, alle volte addirittura comporle, che
definiranno il luogo che andrà ad abitare.
Bisogna osservare però alcuni limiti di questo processo di partecipazione,
che ne definiscono oggi i campi di applicazione. Per poter infatti influire
sulla conformazione del prodotto, l’utente deve infatti essere identificato
26. Andrea Rosada, opera come già futuro fruitore del bene; nel caso dell’ediliza costruita per poi
citata vendere ad anonimi compratori questo meccanismo non è applicabile. Ha
invece successo in quegli ambiti dove l’abitante è quasi per antonomasia
costruttore del proprio habitat: in quello che oggi è l’universo del cohousing
infatti uno dei presupposti di base è che l’utente progetti il proprio alloggio
e gli spazi da condividere, paradigma che, come si vedrà, potrebbe anche
essere alla base della non diffusione di questo tipo di esperienze.
C UN ALTRO APPROCCIO AL
CONCETTO DELL’ABITARE:
IL COHOUSING.
ANALISI DI FORME,
VANTAGGI E
PROBLEMATICHE
UN PIÙ COMPLESSO In un intervento selezionato dalla raccolta di saggi riguardo il tema del
cohousing e del recupero del patrimonio edilizio sviluppata dall’Università
MUTUO di Roma Tre27 Andrea Calgarotto definisce il cohousing come un’alternativa
ADATTAMENTO “all’atomizzazione che attanaglia l’abitare contemporaneo”. Il professore
DELLA dello IUAV di Venezia lo descrive come “una declinazione contemporanea
COLLETTIVITÀ della tendenza naturale dell’uomo di aggregarsi con altri individui e vivere
in ‘branco’”. Il cohousing rappresenta infatti al giorno d’oggi una possibilità
ALL’INTERNO DEL di riconciliare l’abitante della città con la scala umana e sociale perduta
SUO AMBIENTE. quando ha abbandonato la realtà del villaggio.
PANORAMICA Il termine cohousing fu coniato dagli statunitensi McCamant e Durrett al
seguito di un viaggio in Nord Europa durante il quale avevano potuto visitare
SUL COHOUSING
alcuni insediamenti residenziali dove gli abitanti condividevano alcuni spazi
abitativi e cooperavano tra loro; i due americani riconobbero nell’insediamento
danese di Skraplanet il primo esempio di questa esperienza. I kibbutz israeliani, riconosciuti come
Dato che però ogni progetto è un caso a sé, attualmente non esiste ancora protocohousing agli inizi del XX secolo.
una definizione precisa del termine cohousing: analizzando comunque gli
elementi comuni ad ogni esemplare si è riuscito a fornire delle descrizioni
che circoscrivano il fenomeno. Luuk Boelens, del Centre Mobility and Spatial
Planning dell’Università di Ghent afferma che questo caratterizza “una
forma di abitare collaborativo tra unità abitative distinte, con l’aggiunta di
alcuni servizi condivisi” ma che quanto descritto “non è una chiara forma
di cooperazione (in cui tutti devono allo stesso modo oppure condividono il
tutto), né è una forma di comune (in cui tutti i beni materiali sono condivisi
e tutte le attività sono fatte insieme), piuttosto è un progetto in cui ciascun
27. Adolfo F. L. Baratta, nucleo ha un’abitazione ma condivide servizi e strutture aggiuntive per
Fabrizio Finucci, Stefano motivi sociali, pratici, economici o ambientali”.28 Sempre nella raccolta
Gabriele, Annalisa Metta, Luca esito della giornata di studio promossa dall’Università di Roma Tre si
Montuori, Valerio Palmieri (a legge nell’intervento del professor Bellini e della professoressa Bersani del
cura di), Cohousing. Programmi
e progetti per la riqualificazione
Politecnico di Milano che il cohousing rappresenta “una forma di vicinato
I moderni cohousing in ambito rurale.
del patrimonio esistente, Edizioni elettivo, intermedio tra le comuni e i condomini-dormitorio, dove coesistono
ETS, 2014 abitazioni private e servizi comuni in un equilibrio di ambiti e relazioni che
garantisce alle famiglie la massima privacy all’interno della cellula abitativa
e, al contempo, la possibilità di condividere, secondo principi di sostenibilità
economica e ambientale, risorse, spazi e servizi comuni, traendone
molteplici vantaggi da differenti punti di vista”. Rispetto al posizionamento
dell’individuo nel suo ambiente, poi, con una piacevole vena poetica i due
professori scrivono che “nel cohousing ricompare, in chiave laica, la matrice
insediativa del monastero nella riconciliazione di dimensione individuale,
animata dal desiderio di avere uno spazio proprio all’interno della società, e
dimensione collettiva, quale necessità, propria dell’essere umano, di essere
parte proprio di quella società”.
Si evince fortemente come dunque il cohousing sia riconosciuto capace
di colmare quel vuoto che si era creato tra l’individuo ed il suo ambiente
nella frenesia dell’insediamento nelle città e nei ritmi di una società che
lo sconvolgeva. Inoltre gli si conferisce la potenzialità di saper sopperire
alla fragilità ed alla crisi del welfare poiché “abbatte gli sprechi e rende
accessibili molti servizi” (Calgarotto). Questa sua identità di volano sociale
ed economico lo rende così adatto all’utenza che si considera essere nelle
cosiddette “zone grigie” (neo-disoccupati con un nucleo familiare, ragazze
madri, famiglie monogenitoriali, giovani neo-laureati) che rappresentano
una discreta parte della complessa composizione della società. Nel 2008
in un avviso pubblico della Presidenza del Consiglio dei Ministri (POGAS)
il cohousing viene citato come modello da applicare in una selezione di
progetti che favoriscano l’autonomia abitativa dei giovani. Il fenomeno si
inserisce oggi, quando preso in considerazione dalle amministrazioni, infatti
nelle situazioni che vedono il tema della residenza collegato all’emergenza
abitativa di categorie “speciali” (giovani, anziani, immigrati). Quando
sviluppato invece privatamente e spontaneamente da cooperative di
abitanti, il cohousing assume delle connotazioni tematiche, inerenti al
gruppo che lo ha promosso: si troveranno così nell’universo dell’abitare
collaborativo moltissime esperienze che nascono nell’intento di sviluppare
interessi comuni di individui con interessi simili.
Più rare sono invece quelle forme miste e non guidate da tensioni missionarie,
che poi rappresenterebbero la caleidoscopicità dell’abitare tradizionale.
Questa circoscrizione a gruppi o utenti “speciali” potrebbe rappresentare
una problematica circa la diffusione del cohousing, di cui si tratterà in seguito.
Interessante nell’ambito della panoramica è invece il ruolo che l’architetto
dovrebbe assumere per permettere lo sviluppo genuino di questo tipo di
esperienze: Luuk Boelens argomenta che “gli architetti e gli urbanisti
dovranno essere saggi nell’avere un atteggiamento modesto, in modo da
poter servire la collettività invece di servire altri interessi”. Sempre nello
stesso intervento: “Pensare di governare, pianificare, progettare il cohousing
è di per sé contraddittorio. Infatti il cohousing è talmente auto-organizzato
ed evolve, dall’interno, in modo condiviso verso sistemi adattivi complessi.
Questo cohousing deve quindi essere rimesso a fuoco dai politici, dai
pianificatori e anche dagli architetti. I progetti di cohousing dovrebbero
essere facilitati invece di essere programmati, controllati e organizzati.
Piuttosto che vincolare o condizionare le nuove opportunità di cohousing,
pianificatori e architetti dovrebbero essere utili intermediari tra gli attori
coinvolti ed i fattori più importanti, in modo da migliorare la flessibilità delle
crescenti iniziative di cohousing”. Emerge da queste parole la continuità
culturale tra Boelens, fiammingo, e gli olandesi Habraken e Hertzberger,
l’evolversi di quell’idea dell’architetto come tecnico che permetta l’attuarsi
degli eventi, anziché prevederlo ed imporlo come i paternalistici funzionalisti.
PROMOZIONE La storia dell’affermazione del cohousing si compone di momenti e luoghi
differenti: la tenacia con cui certe popolazioni hanno sostenuto l’iniziativa e
PUBBLICA, le forti motivazioni che le spingevano a farlo hanno generato oggi la divisione
INIZIATIVA PRIVATA dell’universo dell’abitare collaborativo in paesi dove questo è un’istituzione
E ASSOCIAZIONE ed altri dove, se se ne conosce l’esistenza, è percepito come un’esperienza
INDIPENDENTE. isolata e bizzarra.
Non è un caso che McCamant e Durrett lo nominarono dopo un viaggio in Nord
UN MONDO A Europa; rispetto ai paesi mediterranei, le nazioni del nord del continente erano
TRE VELOCITÀ molto più investite dalla crisi del welfare e dal fenomeno della dissoluzione
DIFFERENTI della famiglia tradizionale, tipici processi della società post-industriale che
vi erano emersi prematuramente. Nei paesi del sud ed in quelli del nord la
rivoluzione culturale degli anni ‘70 incide in modi differenti: sebbene porti
una ventata di libertà ed emancipazione rispetto alle costrizioni formali del
primo dopoguerra, in Italia, Spagna e Portogallo le mutazioni sociali danno Durante il projecto SAAL le “brigate di
vita ad esperimenti la cui vitalità andrà scemando con lo ristabilirsi di un architetti” operavano al servizio dei cittadini
che autocostruivano le loro case.
nuovo ordine nel sistema. Se in Portogallo, per esempio, il progetto SAAL
durerà solamente i due anni successivi alla rivoluzione del ‘74, in Olanda
o in Germania il movimento degli squatters resisterà fino ad obbligare i
governi a normalizzare gli esisti delle contestazioni che si erano intraprese.
Così nei Paesi Bassi oggi il cohousing si prospetta come un’opportunità a
grande scala per una riforma dell’abitare, mentre in Portogallo le esperienze
di abitare collaborativo si limitano a 150 alloggi nell’ambito di comunità
rurali. Sorvolando sulle ragioni sociali, morali o economiche che hanno
portato a questa divergenza, si deve prendere atto della diversa velocità che
caratterizza settentrione e meridione del continente, almeno per quando
riguarda l’universo del cohousing.
In Olanda, Svizzera, Germania, Danimarca e Paesi Scandinavi, l’abitare
collettivo ha assunto un carattere istituzionalizzante ed ha permesso alle
associazioni che lo sponsorizzavano di prendere posto tra gli organi che
Il movimento degli squatters obbligò i governi
pianificano lo sviluppo delle città. Così Friburgo ed Amburgo hanno destinato di Germania ed Olanda a normalizzare la
il 25% del suolo pubblico a complessi residenziali con spazi condivisi ed il diffusione dei cohousing.
23 %delle nuove edificazioni a Zurigo dal 20011 al 2014 sono stati dei
cohousing, In Italia invece, nonostante il sorgere di alcune associazioni
stia permettendone un minimo sviluppo nei dintorni di Milano e Torino, le
forme di insediamenti di questo tipo si trovano soprattutto nelle campagne,
risultato di iniziative private di individui con l’intento di dedicarsi ad una vita
scostata rispetto ai ritmi imposti dalla società. Manca così nei paesi del sud
quel modello che sia ripetibile alla scala urbana e possa inserirsi in un ambito
di quotidianeità del vissuto.
Va comunque considerata, oltre alla dimensione dell’istituzione e a quella
della singola cooperativa di abitanti, l’emergenza delle associazioni
indipendenti che promuovono il cohousing. Queste possono avere natura
diversa dal punto di vista degli scopi e delle modalità di amministrazione, ma
riescono comunque ad influire sulla diffusione culturale del fenomeno, sia
indirettamente con campagne informative, sia direttamente con costruzioni
o ristrutturazioni sul territorio, che costituiscono poi anche un esempio
tangibile con cui confrontarsi. In Francia le società HLM (habitations à loyer
moderé, abitazioni a canone calmierato), responsabili a volte di situazioni
di vivibilità traumatica nelle periferie con la ripetizione insensibili di barre
e torri dormitorio, si stanno interessando sempre di più al fenomeno del
cohousing come modello a cui convertirsi negli interventi futuri, nei Paesi
Baschi l’associazione Sostre Civic sta realizzando e recuperando con le stesse
modalità vari condomini, in Italia HousingLab e NewCoh stanno organizzando
un database delle esperienze in modo tale da metterle in contatto tra loro
e farle conoscere attraverso pubblicazioni ed eventi all’opinione pubblica.
Doveroso è menzionare anche l’attività che sviluppano le associazioni che si
riuniscono sotto la denominazione di Community Land Trust che, seppur non
operando esclusivamente nel dominio dell’abitare collaborativo, permettono
spesso agli abitanti di ottenere grazie alla cooperazione un alloggio dignitoso
con dei servizi assicurati dalla comunità.
Le Community Land Trust permettono a
Esistono dei vantaggi ad intervenire secondo le modalità del cohousing, sia cooperative di abitanti di entrare in possesso
per finanziatori pubblici che per investitori privati. Per le istituzioni infatti si di edifici a prezzo contenuto.
rivela un modo per valorizzare quanto è posseduto (aree inutilizzate o edifici
in disuso da cedere per un progetto di rilevanza sociale), per i privati il
cohousing potrebbe rappresentare il modo per equilibrare il “bilancio sociale”.
Per quanto riguarda i processi realizzativi si tratterà di quello relativo
all’iniziativa privata di singoli abitanti nella prossima sezione riguardante
le problematiche di diffusione, mentre si analizzerà subito quello promosso
da enti pubblici o società indipendenti. Se, come si vedrà, il processo della
cooperativa di abitanti è di tipo bottom-up, quello pubblico è invece top-
down. Nel caso che l’iniziativa sia supportata da una municipalità l’iter
spesso prevede la nomina previa gara di un gabinetto tecnico che svolga
le operazioni, rispettando le condizioni di selezione dell’utenza previste nel
bando; nell’ipotesi di un’iniziativa intrapresa da un’impresa indipendente il
risultato sarà conformato ai servizi che la società può fornire e alla sua
(eventuale) possibilità di guadagno. In entrambi i casi, comunque, gli spazi
condivisi possono assumere nature differenti: da quella auspicata da Boelens
di poca definizione e vincolo a favore della flessibilità, ad una forma risultante
dalle scelte dell’utenza selezionata con la mediazione di processi di free open
design (questa utilizzazione dell’e-market avviene prevalentemente nel caso
di iniziativa pubblica), fino a quella di spazi vincolati alla fruizione stabilita
dal progettista (come nel caso italiano di Coholonia in Emilia Romagna).
Anche la progettazione degli alloggi può essere sensibile dell’utilizzo dell’e-
market: l’universo del cohousing prevede spesso infatti delle residenze self
tailor made.
UN’ALTERNATIVA Ci sono dei fattori che caricano il cohousing di valenze che ne condizionano
la percezione e la diffusione. In questa sede non si vuole certo rinnegare
ANCORA POCO l’importanza che il fenomeno ha e può avere nel risanare le emergenze
PREDISPOSTA abitative e colmare i gap socio-culturali, di cui si è parlato in precedenza.
ALLA DIFFUSIONE Il considerare il cohousing come una soluzione per fornire alloggi ed
SISTEMICA. indipendenza alle “zone grigie” della popolazione ed anche a quelle
composizioni più emarginate derivanti dall’immigrazione circoscrive
È GIUSTO l’esperienza come metodo di intervento in determinati campi, escludendone
DIFFONDERE IL fortemente altri, che poi sono quelli che generano le situazioni critiche.
COHOUSING? Dalle osservazioni di Boelens emerge che il cohousing si instaura tra gruppi
omogenei, tra individui che perseguono uno specifico interesse comune,
e infatti una forte percentuale in tutti i paesi europei è caratterizzata da
progetti missionari, o destinati ad utenze specifiche, problematiche o no.
Sempre Boelens argomenta giustamente che il cohousing è un fenomeno
auto-prodotto, autonomo, che si alimenta e sviluppa dall’interno. Come si
può dunque coinvolgere tutta quella sfera della popolazione che non ha una
tendenza propria e che non si avvicinerà mai a questa forma di abitare?
In primo luogo è giusto chiedersi se sia opportuno diffondere il modello li
dove questo non attecchisce spontaneamente. Perchè si dovrebbe tentare
di espanderlo e proporlo a persone che vivono senza interessarsene, perché
magari denaturarlo per renderlo accessibile?
Questi dubbi hanno portato chi scrive a compiere un’indagine sulla
popolazione media, comune, che compone il vissuto quotidiano normale, e
che probabilmente non ha mai pensato di poter essere destinata ad abitare
una forma diversa da quella dell’appartamento tradizionale. Per la visione del
sondaggio si rimanda al documento allegato, qui si tenterà di operare una
sintesi di quanto emerso. In primo luogo l’inchiesta è stata diretta ad anonimi
intercettati in ambiti diversi dell’urbano, nei condomini, davanti alle chiese,
per strada etc. Le fasce d’età sono così varie, come varia è la composizione
Le “zone grigie” della popolazione. Famiglie
socio-economica di chi risponde. Il questionario interrogava circa il tipo di monogenitoriali, giovani disoccupati, lavoro
casa in cui si viveva (dimensione, proprietà, tipo) e sul grado di soddisfazione instabile.
che se ne aveva. Si virava poi sulla percezione del tempo libero di cui si
disponeva, sulle preferenze dei modi di trascorrerlo (se in casa o fuori,
se in compagnia o da soli) e sulle attività che si svolgevano. Emerge che
molte persone non riescono a fruire del proprio tempo come vorrebbero,
prevalentemente perché suppongono di non averne abbastanza, poi per
altre ragioni che sostengono impedirglielo: tra gli ostacoli più frequenti vi
sono la mancanza di qualcuno con cui condividere l’interesse - e la relativa
mancanza di motivazione quando si trovano da sole -, la mancanza di luoghi
adatti, la paura di danneggiare la propria casa, la mancanza di spazio in
casa. Alla fine dell’indagine si chiedeva se la presenza di aree condivise con i
vicini nel proprio condominio avrebbe migliorato la qualità del loro tempo. A
questa domanda il 65% degli intervistati ha risposto positivamente.
Perché dunque non tentare di estendere il cohousing anche a chi non ha
mai pensato ad avvicinarvisi, sia perché magari non conosce il fenomeno,
sia perché lo identifica con forme di esistenza troppo distaccate dalla
realtà quotidiana tradizionale? Il considerare l’abitare collaborativo solo
nei casi di emergenza, per le categoria di utenza “speciali” potrebbe aver
escluso dal suo raggio tutto il resto della complessità sociale. Ricondurlo
agli individui in situazioni di disagio economico potrebbe averlo etichettato
come fenomeno non adatto agli strati benestanti, ritrovarlo caratterizzato
dalla sfera tematica di una tensione missionaria potrebbe averlo allontanato
da chi vorrebbe solo vivere una vita comune, non volendo prendere parte
attiva, o prenderla senza impegno.
È qui, invece, che la diffusione del cohousing può apportare il cambiamento,
radicale. Estendere un grado di partecipazione implicita e minima all’ambiente
che si vive può colmare la distanza tra la paura e la non volontà di esporsi
in prima persona e quello del farlo realmente. Si è visto come in molti lo
hanno ritenuto capace di ritessere i fili di una trama coesa tra l’individuo
ed il suo posto nella società, di riproiettarlo nel contesto di cui aveva perso
il controllo, riportandolo ad una dimensione nella quale il suo apporto può
tornare ad incidere.
Oltre a migliorare dunque la qualità del tempo delle persone, la diffusione
del cohousing porterebbe ad una società attiva, consapevole della sua
dinamicità e complessità e pronta ad affrontarla senza subirla.
Il diffondersi di esperienze puntuali nei contesti urbani potrebbe essere il
volano di questa prospettive. Raggiungere quell’utenza oggi disinteressata,
proponendole un modello accessibile senza costringerla ad effettuare
cambiamenti radicali nella propria esistenza. In più ogni realizzazione
servirebbe anche come esempio, come testimone della natura della nuova
possibilità. Ragiona Rifkin: “si potrebbe obiettare che la dimensione familiare,
o condominiale, dell’impegno ambientale rappresenta una dimensione micro
universo troppo ridotta per incidere sull’inquinamento globale che trascina il
pianeta verso un futuro ad alto rischio: preso isolatamente un cortile verde
appare più una testimonianza che una soluzione. Ma la somma di molti
piccoli numeri può dare un totale di tutto rispetto e inoltre il contesto in cui La democratizzazione dell’intervento nello
la sfida si inserisce allarga la prospettiva”29. spazio pubblico.
Alla luce di queste riflessioni chi scrive può affermare che non sia sbagliato, e
nemmeno incompatibile con la sua natura, tentare di diffondere il cohousing
anche come esperienza non esclusivamente proposta dai suoi futuri inquilini
e fuori dalle fasce di reddito-disagio sociale a cui oggi si destina.
Lasciare, infine, la diffusione del fenomeno alla sola forza di volontà delle
cooperative di abitanti autonomi non velocizzerà la propagazione capillare,
anzi potrebbe circoscriverla sempre di più a gruppi di individui tenaci e
militanti. Per affrontare il processo che è previsto infatti per la realizzazione
di un singolo cohousing è necessaria una costanza impeccabile, sostenuta
dalla scelta di vita di andare in una certa direzione: i tempi sono molto
lunghi, e l’avanzamento da una fase a quella successiva è piena di ostacoli.
Oltre a creare un gruppo armonioso ed omogeneo, e svilupparlo anche con
l’aiuto di gestori e psicologi esterni, i promotori dovranno impegarsi a trovare
ed acquistare un lotto di terreno, ottenere le autorizzazioni necessarie alla
costruzione, contattare tecnici che siano disposti a seguire un processo dove
la loro mano deve contare meno delle disposizioni complesse e in procinto di
definizione degli abitanti stessi. Bisognerà poi sostenere gli oneri di
costruzione e possedere tutti i documenti relativi all’abitabilità e agibilità.
Quando finalmente il gruppo verrà in possesso del suo aulito cohousing,
questo sarà fortemente caratterizzato da tutte le scelte che essi hanno
espresso, rendendolo magari inadatto per qualcuno che volesse inserirvisi
nel momento ci fosse un posto vacante.
Circoscrizione ad ambiti specifici, sentimenti di lontananza rispetto
all’usuale scorrere della vita quotidiana e difficoltà di accesso possono quindi
identificarsi come i “demoni” interposti tra lo stato attuale dei fatti ed una
prospettiva di diffusione.
D PASSI VERSO LA
DIFFUSIONE CAPILLARE.
STRATEGIE DI
INSEDIAMENTO DEL
COHOUSING URBANO
IL COHOUSING È Quando nel 1981 in Olanda i cohousing affiancarono le comuni il numero
delle abitazioni collaborative conobbe un’impennata: si passò infatti dalle
MORTO. VIVA IL 52 esperienze conosciute nel 1979 alle 700 del 1981. Sull’onda dello stesso
COHOUSING! cambiamento Dorit Fromm, una paladina del cohousing, sostenne la nascita
LA SCELTA DI UN dell’associazione nazionale Landelijke Vereniging Centraal Wonen, che
INTERVENTO NON promuove, sostiene e registra le esperienze, basata sulla filosofia che c’è una
relazione tra la forma degli edifici e la struttura sociale. Attivista nello stesso
RADICALE movimento, Lies Van Doorenal affermava che il successo del cohousing era
dovuto al fatto che la popolazione aveva riconosciuto nelle case condivise un
aiuto per uscire dall’isolazione familiare e per alleggerire il carico di lavoro,
ma non osava avvicinarsi alle comuni perché ritenute troppo estreme.
Si può quindi oggi tentare di sgravare il cohousing da tutti i preconcetti
che porta con se, riportarlo al grado zero dell’esperienza ed immetterlo
nel mercato immobiliare sotto la definizione di “appartamento privato con Mappa dal sito del LVCW che permette di
spazi condivisi all’esterno”, riscontrabile tra le varie offerte di alloggio in un conoscere e mettere in comunicazione i
semplice catalogo pubblicitario. Avvicinarlo alle possibilità ed agli orizzonti progetti di abitare collaborativo.
di un’utenza comune, presentarlo come una normale forma di abitare con
delle caratteristiche aggiuntive di cui si può fruire liberamente. Se Boelens
afferma che il cohousing non vada programmato ma solo permesso, allora
questa dovrebbe essere la forma archetipa da cui partire.
Liberare quindi il concetto dalla filosofia che emana, per permettere a
quella stessa filosofia di rinascere spontaneamente in ogni esperienza che
si concretizza.
In molti interventi raccolti nella stessa pubblicazione esito della giornata
di studi dell’Università di Roma Tre di cui si parla nella sezione precedente,
l’architettura più comune del cohousing viene riconosciuta nella disposizione
degli appartamenti singoli intorno ad una casa comune condivisa, il tutto
inserito in uno spazioso cortile che permette attività diversificate. Senza
rinnegare nulla della bellezza di questa forma, bisogna chiedersi quale
applicabilità può avere nel contesto fitto e denso delle città, dove, per
definizione della sociologia urbana, si affermano le correnti e si riconoscono
i progressi. Bisognerebbe abbandonare l’idea di casa comune, di corte
catalizzatrice di relazioni e immergersi nelle problematiche e nei vincoli delle
città.
Ovviamente, questa idea non nasce con questa tesi, che ne vuole sono essere
una promotrice ed una seguace. Ci sono infatti molte esperienze di cohousing
urbano, anche inserito nei centri storici oltre a quello diffuso nelle periferie:
solo per citare alcuni esempi che si localizzano in territorio italiano si possono
elencare i vari “numero Zero” di Torino, “Coventidue” di Milano, “Cohousing
Porto 15” di Bologna. Questi progetti sono molto recenti e chissà quali altre
esperienze potranno alimentare. In “numero Zero” un edificio del centro di
Torino è stato acquistato e ristrutturato da un gruppo di amici che volevano
vivere in città, ma sotto l’egida dell’abitare collaborativo; “Coventidue” è
una sperimentazione promossa dalle associazioni HousingLab e Newcoh
e disegnata da Leonardo Freyrie, presidente dell’Ordine degli Architetti di
Milano, dove appartamenti di tagli differenti condividono una corte interna
che è stata allestita con sedute e giardini, in pratica un condominio che abbia
reso piacevolmente fruibili gli spazi comuni di cui è dotato; “Cohousing Porto
15” è invece rivolto a giovani e studenti. Sono tre esempi positivi, che possono
avere il loro sviluppo e suscitare apprezzamento nella comunità. Eppure
tutti e tre sono caratterizzati ancora da quei vincoli che ne limiteranno la
diffusione: a Torino per la circoscrizione al gruppo che lo ha realizzato, a
Milano perché lo spazio condiviso aperto ad una scala di utenza troppo larga
- un interno grande condominio a corte - potrebbe non riuscire a creare
quelle relazioni - tra i residenti e con lo spazio - che possono nascere in
ambienti più intimi, a Bologna per l’esclusività dell’utenza.
Si devono invece nominare delle esperienze che stanno sorgendo in Spagna,
soprattutto nelle comunità autonome della costa mediterranea e in quelle
riottose della Spagna nord-occidentale. Nelle periferie a sud di Valencia
il gruppo Improvistos ha infatti progettato il recupero dell’edilizia sociale
La tradizionale architettura del cohousing:
diminuendo leggermente la dimensione degli appartamenti - e creandone alloggi privati intorno ad una Common House.
quindi di tagli differenti per differenti utenze - e distribuendo lo spazio
risultante in spazi condivisi adiacenti allo sviluppo del corpo scala. Il progetto,
RECOOPERATION, che ha vinto il primo premio del concorso ONU-HABITAT
nel 2014, prevede quindi un accesso agli appartamenti per un’utenza mista
e non definita, che può approfittare degli spazi condivisi per momenti di
socialità con i vicini o per l’espletazione delle attività che ha intenzione di
svolgervi. Altra morfologia quella di EL BORN, cohousing sorto nel centro
di Barcellona, che applica i modelli del cloudhousing teorizzato da Mariona
Soler e che sta avendo una diffusione a macchia d’olio in Brasile grazie
all’opera dell’architetta Lilian Lubochinski: EL BORN ha uno spazio condiviso
per piano ed appartiene agli appartamenti che vi affacciano. Ultimo studio
di architettura che viene qui citato è Celobert, che nei Paesi Baschi sta
diffondendo una forma di cohousing riconducibile anch’essa al cloudhousing.

La proposta di Improvistos per il recupero del


quartiere Orban nelle periferie di Valencia.
RIQUALIFICAZIONE Questo testo nasce dalle riflessioni che hanno portato e accompagnato
lo sviluppo di un progetto di recupero urbano nel centro di Lisbona. Per
DI UN EDIFICIO quanto un progetto sia legato al luogo dove si attua, si è cercato in questo
A LISBONA. UNA caso di pensare una tipologia di interventi che possano essere tradotti in
STRATEGIA DI realtà simili nelle città europee, dove le condizioni di vita sono abbastanza
INTERVENTO CHE standardizzate ed omogenee.
Perciò si è selezionato un edificio che si trovasse nel mezzo del vissuto
SIA RIPETIBILE urbano nella sua pluralità e complessità per potersi confrontare con i vincoli
determinati da un intervento cittadino. Inoltre, si è posta un’attenzione sulla
composizione del tessuto residenziale circostante e, notando la quantità di
edifici abbandonati e da recuperare, si è giunti alla definizione del contesto: la
speranza è quella di fornire uno standard di operazioni e morfologie ripetibili
in tutti gli edifici da rigenerare nel quartiere, per eleggerlo a prototipo di
diffusione.
Ci si posiziona dunque lungo lo sviluppo dell’arteria di espansione Almirante
Reis, nel quartiere di Anjos, del municipio di Arroios. Dal sito del Comune si
apprende che nel municipio vivono persone di più 80 nazionalità differenti,
portoghesi, nord europei di diverse età immigrate in Portogallo alla ricerca
di un paradiso climatico, ex abitanti delle colonie ritornati in patria dopo
l’indipendenza ottenuta nel 1974, immigrati dal sud est asiatico, immigrati
dai paesi nord sahariani. Spesso gli appartenenti alle varie etnie vivono
autoghettizzati nei luoghi di città che hanno interpretato come propri,
fenomeno che ha causato non pochi problemi precedentemente proprio nel
quartiere di Anjos, dove sul lastricato della piazza Martim Moniz si svolgevano
delle verie e proprie lotte tra gang. Una grande multiculturalità legata ad
una altrettanto grande incomunicabilità tra le diversità, in un crescendo di
tensioni, risolte solamente nel 2010 dall’intervento severo della municipalità
che ha disposto squadre di polizia permanenti agli angoli delle strade. Il
problema più che risolto si può dire spostato, verso quelle aree di città non
ancora bersagliate dal turismo, quale Intendente era invece diventata.
La sfida lanciata dal quartiere al cohousing è allora ancora più accattivante,
immaginandolo come catalizzatore di relazione sociali e integrazione
culturale dove questa invece è ancora percepita come un problema.
L’edificio su cui intervenire rappresenta la tipologia prevalente del quartiere,
costruito durante un’emergenza abitativa riscontrata alla fine del XX
secolo, quando ingenti quantità di abitanti delle campagne dell’entroterra
si riversarono nella capitale in evoluzione: così questi stabili hanno strutture
elevate velocemente, immemori dei progressi in campo antisismico, necessari
nella ricostruzione immediatamente posteriore al terremoto del 1755.
Si è sviluppato un modo di intervento che sia ripetibile quindi anche per gli
edifici circostanti che versano nelle stesse condizioni critiche, recuperando
i solai di legno e reintegrandoli in una struttura ortogonale di setti in legno
lamellare e rinforzando quando necessario le murature portanti perimetrali
con dei blocchi di laterizio isolanti di tipo porotherm.
Nel quadro dell’intervento sull’edificio, caratterizzato da prospetti di mirabile
fattura, si è deciso di sostituire una facciata che non apportava l’adeguata
luminosità agli ambienti interni e che presentava delle aggiunte di balconi
coperti non armonizzati con l’immagine globale. Si è optato per un disegno
sobrio del nuovo elemento, che riprendesse i colori delle facciate esistenti
ma invertendoli: le modanature originarie in pietra grigia determinano il
rivestimento in calcestruzzo delle parti opache del nuovo prospetto, che nel
blu dei brise soleil scorrevoli ricorda le maioliche dell’edificio.
L’intento è quello di mostrare la novità dell’intervento, senza discostarlo dalla
natura del quartiere, che pure presenta nelle realizzazioni degli anni ‘60, ‘70
e ‘80 quinte stradali più moderne e squadrate, permettendo all’edificio di
rimanere amalgamato al suo contesto, così come si vorrebbe che il cohousing
si amalgamasse ai modi di abitare tradizionali.
Nella distribuzione interna si impaginano alloggi di tagli differenti pensati
per utenze differenti intorno a moduli di strada soggiorno: l’unico elemento
presente in questi sono pannelli scorrevoli che permettono di modificare lo
spazio a seconda delle attività che i residenti decideranno di svolgervi. Gli
spazi condivisi interessano solo gli appartamenti presenti sul piano specifico,
servendo un’utenza di 3-4 nuclei abitativi. La posizione di tramite tra lo
spazio esterno della strada e quello privato delle case permetterà una
frequentazione quotidiana ed indiretta dello spazio condiviso ed una
conseguente familiriazzione dei residenti con questo.
Portare il modello del cohousing con la sua informalità nella società quotidiana,
svuotarlo dei significati che ha per farlo rinascere in ogni signola esperienza
che si realizza, permettergli di influenzare i suoi utenti nella stessa maniera
in cui essi lo modificano e sperare in un’inversione di tendenza di un mondo
sempre più atomizzato è infine lo scopo di questo progetto.
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