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BRANDIFICATION

LA CRISI DELL’ADVERTISING TRADIZIONALE

BIBLIOGRAFIA

Elio Carmi, Brand 111. Centoundici domande e risposte per sapere di più sulla Brand e sul suo
futuro, 2013, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore
Marco David Benadì, Quando il coraggio cambia la storia di una marca, 2013, Bologna, Logo Fausto
Lupetti Editore
Philip Kotler, Il marketing secondo Kotler. Come creare, sviluppare e dominare i mercati, 1999,
Milano, Il Sole 24 ORE
Seth Godin, La mucca viola. Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marrone, 2004,
Sperling & Kupfer Editori
Vance Packard, I persuasori occulti, 2015, Torino, Giulio Enaudi editore
Gaetano Grizzanti, Brand Identikit. Trasformare un marchio in una marca, 2016, Bologna, Logo
Fausto Lupetti Editore
Pino Grimaldi, Blur Design. Il branding invisibile, 2014, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore
Annamaria Testa, La pubblicità. Suscitare emozioni per accendere desideri, 2003, Bologna, Il
Mulino
Varius Writers, The Copy Book. How some of the best advertsing writers in the world write their
advertising, 2018, Köln, Taschen
Paolo Bonsignore. Joseph Sassoon, Branded content. La nuova frontiera della comunicazione
d'impresa, 2014, Milano, Franco Angeli
M. Lindholm. F. Stokholm. L. Previ, Lego Story, 2017, Milano, EGEA
Naomi Klein, No Logo. Econonomia globale e nuova contestazione, 2007, Dalai Editore
Philip Kotler – Hermawan Kartajaya – Iwan Setiawan, Marketing 4.0. Dal tradizionale al digitale,
2017, Milano, Hoepli
Veronica Gabrielli, Il brand. Quando la marca è più di un prodotto, 2012, Bologna, Il Mulino
Jeff Swystun, Il glossario del brand. Termini significati e usi, 2007, Milano, EGEA
INDICE

Introduzione
1. Trasformare un marchio in una marca
1.1 Cenni storici
1.2 Il marchio come simbolo di appartenenza
1.3 Il marchio d'origine e di garanzia
2. La persuasione all’acquisto
3. Il product placement
3.1 Al cinema
3.2 Brand Avatar
3.3 Dove finisce il product placement e inizia l’influencer marketing?
3.4 Nei videogiochi
4. L’advertising è morto? Branded content
5. Verso le frontiere del “No Logo”
Conclusioni
Introduzione

Brandification
etimology
brand + fication

The permeation of commercial brands into other aspects of living.


La permeazione di marchi commerciali in altri aspetti della vita.

La brandification è diventata l'ultima sfida dei grandi e piccoli marchi che vogliano instaurare
con i propri utenti un contatto duraturo e connesso alle emozioni. Si tratta di insinuare il
marchio e i valori del brand in situazioni non convenzionali e che riguardano strettamente la
vita quotidiana o le piccole azioni di ognuno di noi.
Tale termine si discosta completamente dalla traduzione italiana: brandizzare. Il suo
significato infatti, come si può leggere su treccani.it, indica la caratterizzazione tramite
l'applicazione degli elementi distintivi di una marca aziendale. In sintensi brandizzare vuol
dire marchiare un prodotto, caratterizzarlo e differenziarlo. Probabilmente questa traduzione è
corretta solo in parte poiché per brandification vogliamo intendere qualcosa di più complesso
che richiede la diffusione di tale fenomeno in sfere esterne al brand.
Nella sfera commerciale si sta assistendo ad una trasformazione del brand sempre più radicata
nella nostra quotidianità. Il marchio non tende più a brandizzare esclusivamente il suo prodotto
ma fa sue vere e proprie personalità. Si sta assistendo ad un'umanizzazione del brand dovuta
all'irrigidimento da parte degli stakeholders nell'assorbire la pubblicità tradizionale.
“I consumatori sono come scarafaggi. Li spruzzi e li spruzzi, e diventano immuni dopo un po’”1
È su questa citazione che si focalizzano tutte le strategie di marketing dell’ultimo ventennio.
Il consumatore, dapprima conquistato da una modesta pubblicità che invitava semplicemente ad
acquistare, adesso ricerca nel prodotto valori estranei alla funzionalità dello stesso. Gli
uomini di marketing oggi devono affrontare la crescente mancanza di attenzione da parte dei
consumatori dovuta sia al ritmo sempre più frenetico e dilagante di informazioni ed immagini,
sia alla quantità davvero eccessiva di prodotti di ogni genere.
Negli anni ottanta gli stakeholders2 avevano una quantità di opzioni assai modesta, oggi tra
tutti i potenziali acquirenti di un prodotto, gran parte non verrà mai a sapere neppure che quel
prodotto esiste. Le alternative offerte sono talmente numerose che i mass media faticano a far
giungere il messaggio al pubblico.
Siamo immersi in un rumore eccessivo, incrementato dal cambiamento del sistema pubblicitario di
non soddisfare più bisogni quanto più desideri.
Le vecchie regole di marketing non funzionano più come dovrebbero, per questo e per altri
motivi, il brand è quasi obbligato a dover comunicare con ogni forma (come poi andremo ad
analizzare) i propri valori, così da identificare un segmento di mercato specifico a cui
rivolgersi e quindi far arrivare il proprio messaggio in maniera quanto meno dispersiva
possibile.
Rendersi indispensabili per un’acquirente è questione assai complicata in un mercato ove tutto è
già stato visto e tutto è replicabile. Allora perché marchi quali Apple, Disney o Coca Cola sono
insostituibili nonostante siano imitabili?
Esistono numerose imitazioni della famosa bevanda americana, alcune ritenute persino più buone
se assaporate senza conoscere il marchio, allora perché Coca Cola continua a essere inimitabile?
Per la ricetta segreta? Beh, senza dubbio l’ingrediente segreto gioca la sua parte, ma quello
che la rende insostituibile durante le cene di famiglia, durante le feste, tra i bambini, tra
gli amici sono tutta quella serie di valori immateriali che colleghiamo al brand facenti parte
del cosiddetto branding invisibile3, composto da numerosi fattori che ci fanno scegliere un

1
Naomi Klein, No Logo. Econonomia globale e nuova contestazione, 2007, Dalai Editore, p.32, citazione di David Lubars,
dirigente aziendale di Omnicom Group
2
Stakeholder, genericamente è un soggetto (o un gruppo) influente nei confronti di una iniziativa economica, una società o un
qualsiasi altro progetto. www.treccani.it
3
Pino Grimaldi, Blur Design. Il branding invisibile, 2014, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore
prodotto anziché un altro.
Come fa un brand a penetrare così profondamente nelle menti inculcando qualcosa di immateriale e
informe?
Questa tesi vuole analizzare, in modo quanto più concreto possibile, l’evoluzione del brand
marketing negli ultimi decenni definendo, tramite il case study del brand Lego, il fenomeno
della brandification.
Che cos’è la brandification? Per arrivarci sarebbe il caso introdurre alcuni concetti
fondamentali e storiografici sull’evoluzione del logo e conseguenzialmente del brand.
1. Trasformare il marchio in una marca
1.1 Cenni storici

L’idea che un simbolo identifichi un prodotto, un servizio o un brand risale agli albori della
civiltà umana. Da sempre l’uomo avuto l’esigenza di contraddistinguere, segnare e personalizzare
i propri prodotti, sia per un’esigenza formale sia per identificarsi in un gruppo. Anche se le
fonti storiografiche sono incerte, possiamo far risalire le prime forme di marchio all’Antico
Egitto (3500 a.C. cc) dove si usava marchiare i propri animali con un segno distintivo che ne
esplicitava il possesso, oppure dalle popolazioni mesopotamiche e poi dai romani contrassegnando
le terrecotte e i mattoni per distinguere le varie fornaci.
Altra forma forse più sostanziale è stata data dai greci, che applicarono in modo schematico i
loghi nel loro sistema monetario. Quello che potremmo definire come periodo arcaico della moneta
greca ha inizio con l’introduzione delle monete all’interno della loro economia. Si parla di un
periodo storico che parte dal 600 a.C. circa. In questo periodo le monete erano molto grezze e
recavano il nome della città di provenienza insieme, in alcuni casi, al valore del prezzo. Con
il passare degli anni, per l’esigenza di differenziare meglio le varie monete tra loro, si
cominciò ad incidere sui lati una divinità o un animale simbolico. Possiamo, tuttavia, associare
tali simboli con la definizione attuale di logo quando, data l’innumerevole mole di monete
diverse per provenienza e valore, si unificò il taglio e ogni città prese ad essere identificata
con un unico simbolo.4

1.2 Il marchio come simbolo di appartenenza

Le stesse religioni, in tutto il mondo, hanno scelto dei simboli per essere identificate:
pensiamo alla croce cristiana, alla stella ebraica o alla ruota del buddismo. Prendendo in
considerazione la croce cristiana, possiamo ben notare come il suo utilizzo all’interno del
sistema visivo della chiesa è pari a quello di una corporate identity: nelle insegne, nel
disegno dell’architettura (prettamente a croce), nel marchio applicato su ogni singolo
“prodotto”, nei gesti rituali condivisi in collettività.5
Il Medioevo fu un periodo estremamente prolifico per il logo design, furono creati stemmi
distintivi per identificare lo status nobiliare dei regnanti dell’epoca. I soldati di rango
impegnati sui campi di battaglia erano completamente rivestiti da armature metalliche e avevano
i volti celati sotto pesanti elmi. Erano dunque irriconoscibili, e ciò poteva significare un
serio pericolo soprattutto se ci si trovava nel bel mezzo della mischia. Porre sugli scudi dei
soldati facili segni di riconoscimento (fatti inizialmente di sole figure geometriche colorate,
di animali o di vegetali) era un modo semplice ma efficace per distinguere gli amici dai nemici.
Questi segni di riconoscimento si trasformarono presto in emblemi personali e, dal XII secolo in
poi, cominciarono a essere trasmessi in eredità alla famiglia. Utilizzati in origine solo da
principi e nobili, con il passare del tempo gli stemmi dilagarono ovunque: se li attribuirono le
donne, gli ecclesiastici, i borghesi, gli artigiani, le città, le corporazioni dei mestieri. In
certe regioni d’Europa (Normandia, Fiandre e Inghilterra) persino i contadini si procurarono i
loro stemmi. Ciò significa che gli stemmi non erano affatto prerogativa dei soli nobili, ma
ognuno poteva assegnarseli, a un’unica condizione: non copiare gli stemmi altrui.
Di fatto, furono signori e cavalieri a farne largo uso, e non si accontentarono di porli sopra
gli scudi ma li fecero riprodurre - come fossero sigilli di proprietà su abiti, opere d’arte,
libri, arredi, castelli, palazzi e cappelle gentilizie.
Grazie alla prerogativa e alla diffusione di tali stemmi, si sono definite quelle che sono le
nostre bandiere attuali.
Fino alla Rivoluzione francese, la bandiera era spesso lo stemma (le “armi”) della casata
regnante realizzata in forma di bandiera (“bandiera d’armi”) e in nessun caso veniva sentita
dalla popolazione come la propria “bandiera nazionale”. Spesso i disegni erano complessi e
ricercati, lontani dalla semplicità delle bandiere d’oggi. Quando, durante la Rivoluzione
francese, fu issato il primo Tricolore, si trattò quindi di una novità assoluta. Molte bandiere
di tutto il mondo, tra cui quella italiana, si sono ispirate al disegno francese.6

4
Moneta Greca, www.moneterare.net
5
Elio Carmi, Brand 111. Centoundici domande e risposte per sapere di più sulla Brand e sul suo futuro, Bologna, 2013, Logo
Fausto Lupetti Editore, cap.071. Le religioni sono brand?
6
La bandiera, www.treccani.it
1.3 Il marchio d’origine e di garanzia

La necessità di distinguere i propri prodotti dagli altri ha origini molto antiche, basti
pensare ai sigilli apposti sulle anfore durante il commercio dell’olio. Per questioni
logistiche, tutti i contenitori erano pressoché uguali e confondibili, nonostante la provenienza
e i sapori differenti. I fabbricanti quindi cominciarono a contrassegnare i prodotti usciti
dalla loro officina con bolli propri. Tali inscrizioni potevano essere punzonate, tramite una
pressione superficiale, oppure dipinte (i tituli picti)7 e potevano riportare il peso dell’anfora
vuota, peso del prodotto, luogo di provenienza o la data espressa in anni consolari.8
Il concetto di logo come lo conosciamo oggi, iniziò ad apparire solamente con le prime
produzioni artigianali. I manufatti presero ad essere marchiati con segni distintivi, che
identificavano in maniera univoca il proprio creatore, e ne favorivano quindi la conoscenza
(pubblicità) presso altri individui.
I cartai di Fabriano inventarono una specifica lavorazione per garantire e differenziare le
proprie carte. Ogni laboratorio modificò il proprio telaio inserendo nella maglia del setaccio
un segno identificativo costruito da un filo metallico. Al termine del processo di produzione si
percepiva in trasparenza un disegno: il Marchio di fabbrica. Le più antiche filigrane rinvenute
a Fabriano contrassegnano fogli in cui sono trascritti testi di documenti datati 1293, fu uno
dei primi utilizzi seriali e funzionali della marcatura della propria origine quale garanzia di
produzione, con una tecnica in uso ancora oggi.9
Con l’avvento della stampa a caratteri mobili, gli stampatori per contrassegnare i volumi
prodotti cominciarono ad apporre nel colophon un segno di riconoscimento chiamato marca
tipografica. La più antica marca tipografica certificata è degli stampatori Fust e Schöffer, del
1462, mentre la più celebre è quella di Aldo Manuzio, apparsa per la prima volta nel 1502.
Interessante quest’ultima perché, oltre ad avere il semplice scopo di contrassegnare e
distinguere i volumi tipografici, ha anche la valenza simbolica che spesso oggi attribuiamo al
logo, infatti i soggetti della marca, ossia l’ancora e il delfino, si rifanno alla sapienza
figurata degli antichi egizi, i geroglifici, e in particolare al famoso motto di Aldo, “festina
lente”, “affrettati con calma” cioè “pensa bene ma poi agisci”.10
Ma fu solo con la rivoluzione industriale che i simboli iniziarono ad essere usati per veicolare
concetti, idee e metafore. Fino ad allora la prima preoccupazione di un industriale era la
produzione di beni, successivamente aziende come Nike e Microsoft cominciarono a perseguire un
altro tipo di azienda. Affemavano che la produzione di beni era solo una parte secondaria delle
loro attività e che loro non producevano cose, bensì immagini dei loro brand. Tale politica era
incrementata dal sempre più frequente appaltazione della fabbricazione dei prodotti oltreoceano,
ove il costo era nettamente inferiore.
Il primo caso di costruzione di identità aziendale è attribuito all’architetto Peter Behrens per
l’azienda AEG. A partire dal 1908 egli realizzò l’intera identità visiva, dal logo al corporate,
dal progetto architettonico alla pubblicità.
Tale corporate assume una connotazione molto precisa e familiare con le attuale brand identity,
infatti Behrens definì addirittura un sistema di griglie, una segnaletica e un carattere
tipografico dedicato (il Behrens-Antiqua).11 Di conseguenza potremmo definire la AEG come una
delle prime brand progettate ad hoc.
I marchi diventati oramai simbolo di garanzia, influenzavano enormemente l’acquisto, questo ed
altri fattori incoraggiavano i concorrenti a copiarli. Tali condizioni richiedevano
indubbiamente l’introduzione di una legge che proteggesse gli imprenditori. Così, a mano a mano,
nei vari paesi vennero introdotti gli uffici per i brevetti nazionali ove poter registrare il
proprio marchio e proteggerlo da contraffazioni. Probabilmente uno dei marchi più vecchi
registrati risale al 1859 ed appartiene alla famosa birra ceca, la Pilsner. Nonostante il
primato spetti all’azienda ceca, la storia più famosa sulla registrazione di un marchio va
senz’altro ad un’altra compagnia: la Bass. In Gran Bretagna, l’atto di registrazione del marchio
è stato approvato nel 1875, formalmente fu possibile fare domanda per la registrazione dal 1°
Gennaio 1876. Anche se apparentemente non ci sono prove a riguardo, si racconta che un impiegato
di Bass abbia trascorso la notte di Capodanno sulle scale dell’ufficio brevetti per essere il

7
“Tituli picti, erano presenti sulla maggior parte delle anfore ed erano realizzate con argilla diluita di colore rosso-bruno”
Fabiola Ballarati Chechetto, Anfore come fossili-guida del traffico dell’olio d’oliva nel commercio antico, 2013
8
Fabiola Ballarati Chechetto, Anfore come fossili-guida del traffico dell’olio d’oliva nel commercio antico, 2013
9
Giancarlo Castagnari, Le origini dell’arte della carta, www.educa.univpm.it
10
Marco Galdenzi, L’evoluzione della pubblicità, 2004, www.delcos.it
11
Tommaso Bovo, Una, nessuna, centomila: l’identità visiva secondo Gianni Sinni, 2018, www.frizzifrizzi.it
primo il mattino successivo a presentare istanza. Ecco perché nel 2013 Bass è stata rinominata
Bass Trademark No.1.12
È solo alla fine del XIX secolo che comincia a svilupparsi l’idea di una strategia basata sul
marketing brand-oriented. Le pubblicità, prima utilizzate esclusivamente per informare
dell’esistenza di un prodotto, iniziano a reclamizzare l’incarnazione di un concetto o meglio i
valori di un brand. Bruce Barton, famoso pubblicitario americano, negli anni Venti trasformò la
General Motors nella metafora della famiglia americana, attribuendogli i valori e le storie
delle persone che possedevano le auto restituendo un’immagine calda, accogliente e personale.13
Gli anni novanta vedono il boom del marchio concepito dagli utenti come stile di vita, un modo
di pensare, una gamma di valori, un’idea.

…la Polaroid non è una macchina fotografica, è un lubrificante sociale.” (John Heilemann,
All Europeans are not Alike, New Yorker, 28 aprile e 5 maggio 1997, p. 175). La IBM non
vende computer, vende “soluzioni” per le aziende. La Swatch non è solo orologi, bensì il
concetto stesso del tempo. Il titolare della Diesel Jeans, Renzo Rosso, ha detto alla
rivista Paper: “Non vendiamo un prodotto, vendiamo uno stile di vita. Penso che abbiamo
creato un movimento… Il concetto Diesel è vasto. È il modo di vivere, di vestire, di fare
qualcosa.”14
INSERISCI TABELLI PRODUCT-PLACEMENT BRAND E COMPAGNIA BELLA

12
Mikołaj Lech, The oldest registered trademarks in the world, 2018, www.znakitowarowe-blog.pl
13
Naomi Klein, No Logo. Econonomia globale e nuova contestazione, 2007, Dalai Editore, p. 29
14
Naomi Klein, No Logo. Econonomia globale e nuova contestazione, 2007, Dalai Editore, p. 45
2. La persuasione all’acquisto15

Nonostante la maggior parte delle aziende oggi si basi ancora su una strategia product-oriented,
la società sta mutando velocemente prediligendo un meccanismo brand-oriented16, ossia la
creazione di approcci di business al mercato, basato non solo su una strategia legata al
prodotto ma orientata a vendere una marca. In un mercato saturo di prodotti largamente simili,
differenziarsi dai competitors diventa non solo questione di prodotto ma di personalità. Non si
sceglie più un prodotto esclusivamente per le sue caratteristiche o per le nostre esigenze. Se
tutti i bisogni primari sono stati largamente appianati (ossia bisogni fisiologici) quali sono
quelle che il brand deve colmare?
Rifacendoci alla celebre piramide di Maslow17, ciò che che costituisce attualmente le reali
necessità vitali sono i bisogni di autostima, autorealizzazione e soddisfazione. Possiamo
sintetizzare il concetto di brand asserendo che esso non è il logo, non è il prodotto, non è
l'identità visiva ma è l'insieme dei motivi per cui il cliente lo preferisce ad altri marchi.
È su tali considerazioni e motivazioni che a partire dal 1800, con la rivoluzione industriale e
l’incremento notevole di prodotti dello stesso genere, si ebbe una vera e propria guerra da
parte delle aziende per affermare la visibilità dei propri prodotti. In quegli anni in
pubblicità, grazie all’evoluzione della cultura di marketing, si fa strada una tendenza che
imporrà il superamento di una impostazione finalizzata alla generica presentazione di un marchio
o di un prodotto, per favorire un orientamento teso ad enfatizzarne le qualità e le prestazioni.
Il bisogno avvertito dalle aziende non era più solamente quello di far sapere che esisteva il
prodotto o l’azienda, ma di farli preferire dal cliente. In questo contesto la pubblicità
s’interroga su nuovi metodi, nel tentativo di migliorare la propria efficacia. Si fece largo uso
dei sondaggi per stabilire di cosa il consumatore avesse effettivamente bisogno e cosa
desiderasse cambiare nei confronti di un determinato brand. Ben presto però tali metodi
risultarono inefficaci.
“Pochissimi sono i casi in cui la gente sa realmente ciò che vuole, anche quando dice di
saperlo.” Advertising Age, periodico statunitense incentrato sulla pubblicità, scrive in tal
proposito dichiarando che non si può presumere che la gente dica la verità a proposito dei
propri desideri e delle proprie fobie, anche ammettendo che ne sia consapevole. Nella maggior
parte dei casi, si ottengono risposte miranti a proteggere gli intervistati, la cui costante
preoccupazione è di passare, di fronte al mondo, per esseri sensati, intelligenti e razionali.
Dunque le dichiarazione del cliente costituiscono l’indicazione meno sicura su cui il
fabbricante possa basarsi per estendere la propria clientela.
Molto interessante la ricerca condotta dal Color Research Institute che osservò un gruppo di
donne in attesa all’inizio di una conferenza.
Queste potevano scegliere tra due diverse sale d’aspetto. La prima era una stanza moderna
e funzionale, a tinte riposanti. L’arredamento era stato studiato in modo da eliminare
ogni tensione per l’occhio e creare un’atmosfera di quiete. L’altra stanza era invece
arredata tradizionalmente, con mobili «antichi», tappeti orientali e tappezzerie di
apparenza lussuosa. Risultò che quasi tutte le donne entravano istintivamente nella stanza
di gusto moderno. Solo quando tutte le sedie erano occupate si decidevano a passare nel
salotto in stile antico. Dopo la conferenza fu rivolta loro questa domanda: «Quale delle

15
Vance Packard, I persuasori occulti, 1958, Torino, Giulio Enaudi Editore
16
Vedi capitolo precedente
17
La piramide di Maslow

Nel 1954 lo psicologo statunitense Abraham Maslow, elabora la teoria della “Piramide dei bisogni” meglio conosciuta come
“Piramide di Maslow”. Secondo questa teoria i bisogni percepiti dagli esseri umani possono essere raggruppati in cinque
categorie che l'uomo deve soddisfare per poter sopravvivere (bere, mangiare, dormire, respirare), quindi i bisogni di sicurezza,
come possono essere il bisogno di protezione e tranquillità. Nelle società economicamente più progredite i bisogni che si trovano
a livello inferiore della piramide sono generalmente e ampiamente soddisfatti. Quando questi bisogni sono stati appagati,
sorgono nell'individuo necessità di altro tipo. A un gradino più alto di questa piramide si trovano quindi i bisogni sociali legati
all'esigenza dell'essere umano di essere considerato e apprezzato all'interno di una comunità. Poi vengono i bisogni di stima che
portano l'individuo a ricercare un certo status e un certo prestigio per accrescere la propria autostima. All'ultimo livello della
piramide si trovano i bisogni di autorealizzazione che spingono l'individuo a prefiggersi mete sempre più ambiziose al fine di
sentirsi realizzato una volta diventato ciò che desidera veramente essere.

Gaetano Grizzanti, Brand Identitikit – Trasformare un marchio in una marca, 2011, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore, p.22
due stanze preferite?» Le signore considerarono attentamente i due ambienti e poi l’84% do
esse rispose che la stanza «in stile antico» era decisamente più bella.18
Tale esempio mostra due scelte nettamente differenti, immaginate se quelle donne avessero dovuto
scegliere tra prodotti molto simili tra loro (questo accade nell’industria odierna, ove le
differenze sono ridotte al minimo). Come persuadere il consumatore ad acquistare un prodotto
anziché un altro? Come è possibile fidelizzare un cliente con argomenti logici a votare eterna
fedeltà alla marca, quando in realtà tutte le marche hanno le stesse caratteristiche?
Indubbiamente possiamo dichiarare che quanto maggiore è la somiglianza tra i prodotti, tanto
meno sarà la ragione a determinare la scelta della clientela. Psicologi e psichiatri vennero
presi in considerazione per attuare ricerche di mercato che aiutassero le aziende a comprendere
bene ciò che il consumatore desiderasse data l’inefficienza dei sondaggi e delle statistiche. La
necessità di individuare i meccanismi secondo cui un consumatore fa determinate scelte, animò
numerosi psicologi e psichiatri ad indagare. Partendo dal presupposto che siamo creature dai
riflessi condizionati, come sottolineava il professor Clyde Miller19, possiamo servirci di
parole-chiave e di immagini-chiave per suscitare reazioni desiderate. In tal modo si
condizionerebbe il consumatore a livello inconscio, l’esame del nostro comportamento verso beni
di consumo andrà a costruire il nerbo di una nuova scienza che va sotto il nome di analisi o
ricerca motivazionale, sinteticamente RM. Uno dei capi saldi e creatore di questa nuova scienza
fu Louis Cheskin20, fondatore della Color Research Institute e della scuola di pubblicitari di
Chicago. L’obiettivo di Cheskin era quello di entrare a livello inconscio nelle menti dei
consumatori, tramite lo studio dei colori influenzare l’acquisto o indurre a parlare di
argomenti servendosi del metodo della psicanalisi.
Se alcuni metodi prevedevano esclusivamente lo studio di quanto influenzasse un colore o una
determinata forma l’acquisto di un prodotto, altri erano praticamente estrapolati dalle cliniche
psichiatriche, come l’ipnosi. Anche se molte agenzie rifiutarono in seguito di servirsene come
metodo di ricerca, l’ipnosi fu molto usata come mezzo per sondare il nostro subcosciente.
Secondo l’agenzia di New York Ruthrauff e Ryan la nostra memoria ci permette di ricordare cose
che altrimenti rimarrebbero sepolte in noi. Un caso di rilievo citato dalla compagnia era di un
uomo che, in stato di ipnosi, avrebbe rivelato finalmente perché avrebbe acquistato una
determinata marca di automobile: parola per parola, fu in grado di ripetere uno slogan
pubblicitario che aveva letto vent’anni prima e che aveva colpito la sua immaginazione. Gli
esperimenti sulla RM e sull’effetto delle immagini a livello dell’inconscio non si fermò ai
salotti privati degli psicologi-psichiatri, nel 1956 apparve sulla prima pagina del London
Sunday Times la notizia che negli Stati Uniti alcuni esperti pubblicitari stavano sperimentando
speciali effetti subliminali, atti a trasmettere messaggi pubblicitari aggirando le difese
frapposte dalla coscienza. Secondo il corrispondente del giornale, in un cinematografo del New
Jersey, durante le normali programmazioni del film, veniva proiettata sullo schermo la
pubblicità di una marca di gelati. Il testo pubblicitario si sovrapponeva al fotogramma del
film, per una infinitesima frazione di secondo, in modo che gli spettatori non potessero
leggerlo ma tuttavia lo registrassero inconsciamente. Nonostante lo scetticismo di molti, le
vendite di quel gelato aumentarono notevolmente. C’è da sottolineare che indubbiamente la
spiegazione del comportamento del consumatore è dovuta a più fattori, non solo inconsci, quali
pubblicità, avversione verso un’altra marca, distribuzione, prezzo.
«Il vostro obbiettivo dev’essere sostanzialmente questo: creare una situazione illogica. Il
cliente deve innamorarsi del vostro prodotto, e rimanere legato ad esso da un profondo
attaccamento, quando in realtà il contenuto è quasi uguale a quello di centinaia di marche
concorrenti».21 Come ben asserisce Vance Packard nel suo libro celebre “I persuasori occulti”,
bisogna creare una fedeltà irrazionale, suscitare un senso di differenza, di individualità al
prodotto.
In tal modo un prodotto, per quanto imitabile dal punto di vista del contenuto, sarà
irriproducibile dal punto di vista dell’immagine.
“Il fatto che viviamo una vita sponsorizzata è oggi una realtà evidente; ed è probabile, visto
che la spesa pubblicitaria continua ad aumentare, che a noi scarafaggi verranno propinate molte

18
Vance Packard, I persuasori occulti, 1958, Torino, Giulio Enaudi Editore, p.14
19
Clyde Miller, noto studioso e professore di pedagogia presso la Columbia University, autore del celebre saggio “I meccanismi
della persuasione”, www.wikipedia.org
20
Louis Cheskin, fu fondatore e direttore del Color Research Institute e della scuola di studi pubblicitari di Chicago. La maggior
parte del lavoro svolto dal suo istituto consisteva nel determinare il potere di suggestione che hanno sul pubblico i vari tipi di
confezione ricorrendo all’utilizzo della psicanalisi, www.persuasionesubliminale.it
21
Pierre Martineau, conferenza a Filadelphia, 1956
altre di queste ingegnose trovate, rendendo sempre più difficile e inutile fare appello alla
minima traccia di risentimento.”22
Negli anni a seguire sono state adottate numerose tecniche di persuasione per indurre a creare
nel consumatore un’immagine ben precisa di un prodotto, attraverso la pubblicità, il cinema, il
packaging, esponenti del mondo dello spettacolo, azioni pubbliche, creando delle vere e proprio
personalità dei brand. Dapprima tali personalità erano incentrate sulle qualità che le persone
preferivano, poi i fabbricanti di immagini si resero conto che tutto ciò che un consumatore
ricercava nei prodotti non è altro che la propria immagine. Il brand designava una nicchia di
persone con una personalità comune e sulla base di quella creava la sua immagine. «La pubblicità
diretta a tutti è inutile. Occorre indirizzarla a persone interessate e influenti»23 Set Godin
basa le sue affermazioni, applicate alla strutturazione di un prodotto forte, sulla creazione di
un pubblico fedele in grado di influenzare altri consumatori, infatti avere una schiera di fan
del proprio brand è oggi essenziale per farsi voce in un mercato così largo e dispersivo.

22
Naomi Klein, No Logo. Econonomia globale e nuova contestazione, 2007, Dalai Editore, p. 33
23
Seth Godin, La mucca viola – Farsi notare (e fare fortuna) in un mondo tutto marone, 2004, Sperling & Kupfer, p.53
3. Il product placement
3.1 Al cinema

Chi meglio delle star di Hollywood erano in grado di influenzare la vendita di prodotto?
Per product placement si intende una: «Forma di pubblicità e promozione in cui i personaggi
principali di un film, un’opera teatrale, una serie televisiva, un video musicale, un videogioco
o un libro utilizzano un prodotto realmente in commercio.».24
Il cinema venne considerato fin da subito un ottimo veicolo per reclamizzare articoli di vario
tipo, poiché il pubblico, affascinato dal poter emulare i divi, poteva essere facilmente
coinvolto e indirettamente sedotto all’acquisto.
Il primo caso di product placement, in cui un prodotto venne inserito su espressa richiesta
della società produttrice del prodotto stesso, risale al 1945 in Mildred Pierce, quando Joan
Crawford viene inquadrata mentre beve un bicchiere di Jack Daniel’s. È da sottolineare che tali
inserimenti commerciali non sempre nascono per nascondere occulte finalità commerciali, ma
spesso sono utili per conferire ai prodotti artistici una realisticità che altrimenti non
avrebbero.
Come sarebbe stata la saga di “Ritorno al futuro” senza le famose Nike futuristiche? In Italia,
fino al 2004 era illecito posizionare marchi o prodotti nei film a fini promozionali: tali
condotte venivano sanzionate quali forme di pubblicità ingannevole e occulta. Con il D.Lgs. n.
28 del 22 gennaio 2004, noto come Decreto Urbani, l’inserimento di un prodotto o di un brand
all’interno di un’opera cinematografica è consentito laddove esso sia veritiero, palese,
corretto, coerente ed integrato nello sviluppo dell’azione, senza costituire interruzione del
contesto narrativo del film (art. 9 del Decreto Urbani). Perché il PP sia lecito, occorre che
sia dato avviso alla spettatore della sua presenza nel film nei titoli di coda, con specifica
indicazione delle aziende titolari che ne hanno fatto uso. Un espresso divieto di product
placement sussiste ad oggi per sigarette e tabacco, medicinali e cure mediche con prescrizione
obbligatoria, mentre forti limiti, che si estrinsecano in un sostanziale divieto, sono previsti
per gli alcolici.25
Ovviamente prima di questi decreti non vi erano limitazioni e l’industria del tabacco, durante
gli studi scientifici sull’associazione del fumo al cancro fu utilissimo che stelle del cinema
abusassero del prodotto in tal modo rendendolo socialmente accettabile. Le nuvole di fumo che
avvolgevano negli anni ’40 e ’50 Humphrey Bogart o Bette Davis davano l’idea che fumare non
fosse poi così dannoso, se lo facevano personalità così affascinanti, e rassicurava il pubblico
sugli effetti nefasti del tabacco.26
Possiamo far riferimento a quattro tipi di product placement:
1. Screen placement
Il posizionamento ‘visivo’ (screen) si realizza quando il prodotto/marchio è inserito nel
contesto scenico/scenografico, in primo piano o sullo sfondo. Di solito, all’interno dello
stesso prodotto cinematografico il posizionamento visivo viene realizzato attraverso differenti
combinazioni delle due forme.
Ci sarebbero da citare moltissimi esempi che hanno fatto la storia ma ci limiteremo ad osservare
quelli utilizzati nel film Ritorno al futuro.
Il regista e sceneggiatore Robert Zemeckis si è apertamente espresso sull’uso dei prodotti
all’interno dell’intera trilogia di Ritorno al Futuro affermando che l’utilizzo di brand era un
modo per creare un mondo del futuro realistico all’interno del film. “Abbiamo scelto volutamente
dei prodotti che in passato avessero avuto loghi diversi. Nei film degli anni ’60 o degli anni
’70, le auto si fermavano ai distributori e su questi non c’era alcun nome. È ridicolo, quel
distributore di benzina è per forza di proprietà di qualcuno!” afferma il regista. I brand sono
particolarmente evidenti nel secondo episodio di Ritorno al Futuro, modificati per l’occasione
in versioni futuristiche create appositamente per il mondo del 2015. Così a Hill Valley vediamo
i più noti Pepsi, Nike (le scarpe di Marty sono diventate un cult e sono state vendute all’asta
per 104 mila dollari), Mattel (famosissima la scena dell’hoverboard), ma anche Pizza Hut, Black
& Decker, The Weather Channel, Texaco, 7-Eleven, AT&T e molti altri. Pizza Hut non ha fornito
solo il nome, ma anche uno stylist di cibo presente sul set per creare nuove pizze per ogni
ripresa.

24
Jeff Swystun, Il glossario del brand. Termini, significati e usi, 2007, Milano, EGEA, p.106
25
Product Placement nei film, 2004, www.ferpi.it
26
Gabriele Caramia, La discreta popolarità della sigaretta nell’arte e nel cinema, 2017, www.auralcrave.com
2. Script placement
Il posizionamento ‘verbale’ (script) si realizza quando sono gli attori sullo schermo,
protagonisti o meno, a parlare del prodotto, inserendolo nel contesto narrativo. È più raro del
posizionamento visivo, poiché meno incisivo e più difficile da realizzare in maniera efficace e
convincente senza sembrare avulso dal contesto. Ci si ricorderà della Qantas in Rain Man (Rain
Man - L’uomo della pioggia) («La compagnia che ha avuto meno incidenti») o al più recente caso
di Alberta Ferretti in Mine vaganti (2010).

3. Land placement
Il collocamento visivo della marca tra l’arredo scenico; in questo caso viene fatto spesso
ricordo all’inquadratura di un pannello pubblicitario o di un’insegna con la rappresentazione
visiva della marca

4. Plot placement
Si parla, invece, di posizionamento ‘integrato’ (plot) quando la storia viene costruita intorno
al prodotto, che viene inserito razionalmente all’interno della storia stessa, arrivando, in
talune ipotesi, a diventarne il protagonista, esaltando il valore artistico della narrazione.
Caso di grande rilievo è sicuramente Toy Story della Pixar, in cui tutti i personaggi,
giocattoli Playskool e Mattel, diventano i veri protagonisti della storia.

5. Naming placement
Come ben si può intendere dal nome, per naming placement si intende l’inserimento di un marchio
nel titolo di un film. Strategia di marketing già usata negli Stati Uniti per pellicole come
Herbie il maggiolino tutto matto, Colazione da Tiffany e Il diavolo veste Prada.27
Il product placement permette di creare un’immagine radicata nella mente del consumatore, che si
rifarà al brand associandolo alle forti personalità del mondo del cinema. Considerando inoltre
che l’attore non verrà solo sfruttato nelle vesti di testimonial ma anche in quelle, assai più
efficaci in termini emozionali, del personaggio che interpreta nel film e dunque del suo ruolo,
dei valori e delle idee di cui si fa portatore nel contesto narrativo, in altre parole della sua
personale storia dentro la storia cinematografica.
Questo permetterà ai brand con gli anni di acquisire una forte associazione mentale, si pensi al
al film Colazione da Tiffany che consentirà al brand di presentarsi in termini di raffinatezza,
lusso ed eleganza.

3.2 Brand Ambassador

Ci sono casi in cui il personaggio diventa il volto, o meglio la personificazione del brand
definendone appunto la personalità.
Ci si riferisce in termini di brand avatar o brand ambassador quando nella mente del consumatore
viene traposta la marca con le caratteristiche di una persona.28
Tra i più noti volti, che si sono prestati a rappresentare un marchio, troviamo George Clooney,
da anni legato all'immagine di Nespresso. La presenza dell'attore ha permesso l'associazione tra
il brand e un'identità basata sull'eleganza, sulla raffinatezza e sulla classe. Il ruolo di
ambassador29 del brand non si ferma solo alla comparsa nello spot pubblicitario, ma deve
includere forme di coinvolgimento più attive da parte della persona scelta. Prevede un impegno
sistematico, durevole nel tempo e che implica l'associazione soprattutto ai valori e alla
mission del brand. Da molto tempo Nestlé porta avanti una strategia di sostenibilità sociale e
ambientale, grazie all'attività del Nespresso Sustainability Advisory Board che si occupa
proprio di trovare delle soluzioni e delle iniziative che promuovano la sostenibilità
all'interno d tutta la catena di produzione. George Clooney è un personaggio attivo nella causa
di Nestlé, membro del Nespresso Sustainability Advisory Board, si è recato anche in Costa Rica

27
Cfr. Roberto Paolo Nelli, Paola Bensi, Il product placement nelle strategia di convergenza della marca nel settore
dell’intrattenimento, 2007, Milano, Vita e Pensiero, p. 30
28
Gaetano Grizzanti, Brand Identitikit – Trasformare un marchio in una marca, 2011, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore, p.253
29
“Brand Ambassador - Individui che rappresentano un brand ma non sono direttamente coinvolti nelle funzioni di
comunicazione dei marketing.”

Jeff Swystun, Il glossario del brand. Termini, significati e usi, 2007, Milano, EGEA, p.14
per conoscere da vicino la realtà di alcuni dei coltivatori di caffè che lavorano per l'azienda.
Insomma, il ruolo di brand ambassador implica aver abbracciato appieno la mission dell'azienda.
Associare il brand ad una marca consente al consumatore di riflettersi nel testimonial durante
il corso di tutta la sua vita, poiché il personaggio stesso muterà nel corso del tempo e la
marca lo farà con esso.
L’idea che una marca debba mantenere sempre la stessa immagine ed identità è sbagliata, il
mercato è in continua evoluzione e come afferma Richard Love, presidente della Hewlett-Packard,
“Il ritmo del cambiamento è così rapido che la capacità di cambiare costituisce oggi un
vantaggio competitivo”.

3.3 Dove finisce il product placement e inizia l’influencer marketing?

Meno evidente è quando dei personaggi noti si prestano per un periodo limitato ad esaltare un
determinato brand attraverso la condivisione di foto in cui utilizza un determinato prodotto.
Parliamo dei ben noti influencer, persone con una nota schiera di seguaci che esibiscono
prodotti che i loro milioni di seguaci potrebbero decidere di acquistare.
Qual è il loro punto di forza? Sono autentiche e normali.30
La loro forza sta nel fatto che vengano percepite più vicine al nostro vicino o al nostro amico,
sono spontanee e vere non delle attrici da cui tenere le debite distanze. Inoltre, è
sbalorditivo di come, nonostante per regolamentazione la partnership va palesata e non quasi
celata come nel product placement, il brand finisca per aumentare la propria awarness
notevolmente con i giusti accorgimenti.
Le tipologie più comuni sono:
1. Product placement semplice
All’interno di un video o di una foto viene mostrato il prodotto elencandone il nome ed il brand
ma senza entrare nei dettagli.
2. Recensione o Unboxing
Viene recensito il prodotto spesso mostrando l’intero processo di “spacchettamento” (unboxing)
se è previsto un packaging, parlando delle caratteristiche e dei motivi per cui “adorano” il
prodotto.
3. Video sponsorizzato da un brand
Sempre più comune è la creazione di video sponsorizzati da brand. Esempi lampanti sono i video
dei Jackal in collaborazione con Spotify.
Scegliere l’influencer giusto è essenziale come tende ben a sottolineare Tomaso Trussardi, CEO
del Gruppo Trussardi: “Il concetto di lavorare con gli ‘influencer’ è parte di un progetto più
ampio, il cui obiettivo è quello di raccontare la storia del brand in un modo che risulti
rilevante per il nostro pubblico, oppure quello di raggiungere un nuovo pubblico. Oggigiorno, la
quantità di contenuti presenti sui social media ha raggiunto un livello tale che non si può
pensare di influenzare un pubblico soltanto sulla base di un elevato numero di follower.
Lavoriamo con coloro che dimostrano un’affinità con il nostro brand e rivestono un’importanza
all’interno di un determinato segmento di mercato. Lavorare con più web influencer
contemporaneamente sugli stessi contenuti costituisce un’opportunità per acquisire visibilità
tanto per i brand di nicchia, quanto per quelli più noti. Al giorno d’oggi, quando un progetto o
un prodotto viene ritenuto adatto per uno stile comunicativo più giovane, fresco e meno
aziendale, il processo di diffusione verso il mondo esterno non può prescindere da questi
rappresentanti con cui collaboriamo.”
Scegliere l’influencer sbagliato o fare un product placement non coerente con l’identità del
brand può avere effetti devastanti sulla brand reputation31 e di conseguenza minare alla sua
credibilità.

3.4 Nei videogiochi

30
Rosanna Ryan, Il product placement sui social media per i brand della moda, www.launchmetrics.com
31
“La reputazione di una persona è tutto”. Ciò che dice la saggezza popolare vale anche per ogni brand. Se qualcuno parla di una
Marca esprime un giudizio, esercita un’influenza sul vissuto della marca stessa. Quando ne parla bene e la sostiene , la
reputazione viene danneggiata, se ne parla male e la critica, la reputazione viene danneggiata, se poi non ne parla per niente la
brand viene lentamente dimenticata.”
Elio Carmi, Brand 111. Centoundici domande e risposte per sapere di più sulla Brand e sul suo futuro, Bologna, 2013, Logo Fausto
Lupetti Editore, cap 059 Cos’è la brand reputation?
Il product placement, nato con il cinema, si estende a tutti gli altri mezzi di comunicazione,
dalla radio alla televisione, dall’editoria alla musica fino ai videogiochi (noto anche come in-
game advertsing32).
Solo negli Stati Uniti, secondo una stima del PQ Media, il product placement nei videogiochi
stima i 70,6 milioni di dollari nel 2009, tra i principali investitori si collocano il settore
dei giocattoli e dei prodotti sportivi con il 22% della spesa complessiva, seguiti dal settore
dei mezzi di trasporto (17,9%) e dal settore alimentare (14,9%).33
Il target mirato sono principalmente ragazzi di età compresa tra i 18 e i 34 anni ma non mancano
investimenti nei videogiochi rivolti ai bambini, in particolar modo da parte di imprese del
settore alimentare (Coca Cola, Pepsi, McDonald’s, Burger King).
Al contrario dei film o dei libri, l’intrattenimento videoludico ha bisogno di una maggiore
attenzione e partecipazione per essere portato a termine, il giocatore deve impegnarsi
attivamente per risolvere la richiesta e proseguire nei contenuti. In questi casi il livello di
concentrazione è molto più intenso rispetto ai media tradizionali e di conseguenza nasce un
forte interesse verso l’eventuale oggetto commerciale posizionato.
Uno dei primi casi più riusciti, forse per la forte immedesimazione da parte del fruitore, è
stato The Sims. Numerose marche, tra cui Dove, Renault e Alienware, si susseguivano nei
videogames della serie conferendo un aspetto più vicino alle nostre case.
Nel gioco Fifa si reclamizzano, per esempio, carte di credito e riviste sportive. Nel gioco
sulle corse automobilistiche “Need for Speed” si sfreccia davanti a grandi manifesti, che
pubblicizzano prodotti per automobili, deodoranti da uomo, catene fastfood ed altro.
Ancora più rilevante è però la cosiddetta pubblicità dinamica, ideata da Massive Inc., famosa
compagnia pubblicitaria statunitense. Quest’ultima ha ideato, già dal 2004 un modo per cambiare
dinamicamente la pubblicità tramite un apposito server. Il videogiocatore, tramite un
collegamento ad Internet, può scaricare durante il gameplay marchi e annunci pubblicitari sempre
nuovi, in modo da contestualizzare e aggiornare il videogame. Questo permette addirittura di
pubblicizzare in tempo reale degli eventi o programmi televisivi, ed il fruitore non si sente
infastidito anzi sembra apprezzare tale ambientazione, che assume connotati più realistici. 34
Possiamo contraddistinguere due principali forme di IGA, catalogate come estetiche ed integrate.
Il posizionamento estetico prevede il semplice inserimento passivo del marchio durante il
gameplay, manifestabile attraverso un cartellone pubblicitario sullo sfondo o tramite un oggetto
presente nella scena. Ovviamente un messaggio pubblicitario inserito nel campo di gioco (come un
cartello pubblicitario dinamico in Batterfield 2142) è molto più efficace di uno che fa da
contorno all’azione (come in Fifa ove i riferimenti pubblicitari sono collocati, come nella
realtà, sulle bande laterali del campo).
Ancora più proficuo è il posizionamento integrato, ove il brand assume un ruolo attivo nel
gameplay. Ciò non solo conferisce maggiore attenzione al prodotto, ma spingerà l’utente, che
vuole emulare il personaggio, a diventare membro attivo della comunità del brand. Probabilmente
uno dei casi più riusciti di IGA di questo genere è stato quello inserito in Tom Clancy’s
Splinter Cell: Pandora Tomorrow. Per completare le missioni il giocatore doveva scattare delle
foto con un telefono cellulare, una fedele imitazione di un modello Sony Ericsson,
un’integrazione perfettamente intersecabile con lo storytelling che ha aggiunto valore non solo
al marchio in questione ma anche al videogame stesso che ne ha acquistato di veridicità.35
C’è da porre molta attenzione a questo tipo di pubblicità, poiché se applicata in maniera
sbagliata potrebbe essere troppo invasiva. Esempio attuale è quello di Capcom che a gennaio 2018
ha inserito nell’update del celebre Street Fighter V: Arcade Edition alcuni annunci
pubblicitari. Tali annunci erano posizionati sugli elementi di vestiario del personaggio e
permettevano a chi li indossa di ricevere molti più Fight Money (i coins del videogioco che
permettono di acquistare contenuti extra). Tale aggiornamento ha subito suscitato numerose
polemiche da parte degli utenti e, a sole due settimane, Capcom si è visto costretto a rimuovere
le inserzioni.36

4. L’advertising è morto?

32
Noto con la sigla IGA, è una forma di comunicazione commerciale molto vicina all’idea del pubblicità indiretta, che consiste
nell’inserimento di prodotti o marche all’interno dei videogiochi. www.treccani.it
33
Roberto Paolo Nelli, Paola Bensi, Il product placement nelle strategia di convergenza della marca nel settore
dell’intrattenimento, 2007, Milano, Vita e Pensiero
34
Alessandro Rapisarda, Advergaming e In-gaame advertsing, Tesi di laurea in economia aziendale, 2009, Bologna
35
Alessandro Rapisarda, Advergaming e In-gaame advertsing, Tesi di laurea in economia aziendale, 2009, Bologna
36
Street Fighter V: Capcom ha deciso di rimuovere le pubblicità in-game, 2018, www.techprincess.it
Perchè l'advertsing non funziona più? In sostanza perchè è il consumatore ad essere cambiato,
non si fida più della pubblicità tradizionale, preferisce invece pareri da persone facenti parte
della sua comunità.

Quanti strumenti sono nati per evitare le interruzioni pubblicitarie? Da Adblock al tradizionale
zapping le persone hanno iniziato a ignorare questa massa informe di annunci. La saturazione di
continui messaggi rende sordo l'utente, che devia in qualsiasi modo il messaggio pubblicitario
rendendolo inefficace. Basti pensare alla banner blindness37, Bisogna trovare il modo di farsi
ascoltare, di attirare l'attenzione senza infastidire l'utente interrompendo le sue attività.

La strategia pull38, secondo cui i messaggi tradizionali sono letteralmente gettati addosso agli
stakeholders, evidentemente non basta più per convincere l'utente a preferire un brand anziché
un altro.
Bisogna utilizzare una pull strategy39, in cui è l'utente ad essere attratto da contenuti di
qualità. Non si tratta esclusivamente di contenuti sponsorizzati, ma di qualcosa che ha il
potere guidare i consumatori verso un marchio.
“Occorre la volontà di raggiungere un'audience a livello emozionale. Non si tratta delle
caratteristiche tecniche e dei benefit di un prodotto, ma piuttosto di creare una
connessione emotiva tra il tuo brand e un'audience. Se un'azienda non ha questa mentalità,
sarà un obbiettivo difficile da raggiungere.40”
Così asserisce Billie Goldman, innovatrice di Intel per ben diciotto anni. Il potere di
coinvolgimento di un brand è dato dalla sua capacità di raccontarsi ed emozionare.
Sostanzialmente c'è bisogno di progetti artistici non direttamente correlati alla marca, che
però esprimano implicitamente i suoi valori e tutto ciò che intenda rappresentare. Possiamo
parlare più specificatamente di brand equity41, ossia l'insieme dei valori distintivi e
differenzianti con cui una marca presiede il territorio mentale dell'individuo.42
Uno dei modi per trasmettere al meglio tale potere emozionale è tramite delle storie,
raccontando la marca e i valori sotto il punto di vista puramente narrativo attraverso le varie
piattaforme. Parliamo di storytelling, un vero e proprio perno per la comunicazione
pubblicitaria odierna che consente di creare il collegamento emozionale con il consumatore.
Nasce con il cinema e trova la sua prima applicazione in Carosello, un grande mezzo televisivo
italiano che ha permesso a brand come Lavazza di raccontarsi tramite personaggi divenuti ormai
storici come Carmencita e Caballero. Lo storytelling rappresenta lo strumento utile per
improntare la strategia di marketing sul brand e non più sul prodotto. Se come abbiamo ribadito
nel capitolo 3, la scelta di un determinato brand anziché un altro elude ai meccanismi della
ragione, per raggiungere la parte inconscia che implica le scelte decisionali la strada più
breve e senz’altro quella del legame emotivo.
Quando si parla di storytelling non si può fare a meno di citare IKEA che tramite spot, store ed
eventi, riesce a coinvolgere gli utenti trasmettendo tutti i propri valori.
Le storie di IKEA non vergono sulle caratteristiche dei prodotti ma girano intorno alla vita
delle persone, il brand funge da cornice intorno a piccoli gesti quotidiani in cui tutti possono
identificarsi.
Il modello di storytelling di IKEA si può intuire già nei cataloghi, con le sue immagini non
mostra semplicemente pezzi di arredamento, racconta esperienze familiari. I mobili diventano
parte integrante di un entourage familiare, dove uno sgabello può diventare un tavolo per far
giocare un bimbo oppure un contenitore in pino che normalmente verrebbe utilizzato per metterci
piante o frutta, viene utilizzato come libreria o portariviste.

37
Kara Pernice, Banner Blindness Revisited. Users Dodge Ads on Mobile and Desktop, 2018, www.nngroup.com
38
Rebecca Lieb, Content Marketing. Think like a publisher – How to use content to Market online and in social media, 2011,
Pearson Education
39
Rebecca Lieb, Content Marketing. Think like a publisher – How to use content to Market online and in social media, 2011,
Pearson Education
40 Paolo Bonsignore. Joseph Sassoon, Branded content. La nuova frontiera della comunicazione d'impresa, 2014, Milano, Franco
Angeli s.r.l.
41
“Brand Equity – Si dice brand equity -o, talora, capitale di reputazione . la somma delle caratteristiche distintive di un brand.
Un prodottto o un servizio che gode di una considerevole brand equity beneficia di un vantaggio competitivo che talora consente
una politica di premium pricing.”
Jeff Swystun, Il glossario del brand. Termini, significati e usi, 2007, Milano, EGEA, p.19
42
Gaetano Grizzanti, Brand Identitikit – Trasformare un marchio in una marca, 2011, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore p.30
Il catalogo Ikea ripropone gli stessi oggetti in ambienti diversi per sottolineare la loro
polifunzionalità e sollecitare al contempo la creatività e l’immaginazione dell’acquirente. Il
suo democratic design che ha reso possibile mobili di qualità ad un prezzo abbordabile ha
sdoganato in questo modo il concetto di mobile come oggetto statico, da preservare nel tempo
perché in esso era stato investito molto capitale.
Ma l’universo narrativo di Ikea non è fatto solo di immagini; anche il testo gioca un ruolo
fondamentale. Esso affianca le immagini mettendo in risalto determinati oggetti, pezzi di
arredamento e l’utilizzo che la famiglia può farne, il modo in cui essi possono migliorare la
vita delle persone.
Inoltre altro ruolo significativo assumono gli store, studiati e realizzati per le famiglie,
offrono gli strumenti necessari per godere dell’esperienza d’acquisto in un ambiente che rimanda
le comodità e il calore delle nostre case.
Quindi fare storytelling non vuol dire esclusivamente narrare attraverso contenuti testuali o
multimediali, come avviene nel branded content, vuol dire trasmettere emozioni attraverso la
narrazione continua e efficacemente studiata per funzionare su ogni piattaforma. Bisogna infatti
considerare che ogni mezzo di comunicazione per funzionare adeguatamente avrà bisogno di
contenuti differenti ma che mantengano la stessa voce, linea e abilità di narrazione.

Prendendo in considerazione ancora una volta IKEA e l’ultima campagna riguardante il lancio del
catalogo 2019, possiamo analizzare come questa faccia interfacciare la stessa campagna sui
diversi broadcaster.
"Ogni persona cambia idea 12.600 volte al giorno, ma quando esce un nuovo catalogo IKEA il
numero aumenta. Ecco perché abbiamo pensato a qualcosa di rivoluzionario. La prima idea per le
tue idee che cambiano", così recita una voce teatrale in uno degli ADV sponsorizzati su Youtube
e Facebook per il lancio del nuovo catalogo IKEA. In poche frasi sono espressi i valori delle
famiglie in continuo mutamento e del brand stesso che cerca di stare al passo con esse.
Ogni anno questo brand riesce a rendere l’uscita del catagolo un vero e proprio evento
mediatico. Quest anno la vera novità è stata nel piccolo oggetto che i clienti che si sono
presentati in negozio il giorno della presentazione del nuovo potevano avere: la famosa matita
del brand, ma stavolta corredata di gomma per cancellare, perfettamente il linea con lo slogan
della campagna: "Siamo fatti per cambiare". Probabilmente, oltre all’esclusività dell’oggetto,
ciò che ha contribuito al successo di questa campagna sono state le tantissime campagne on field
realizzate in particolar modo su territorio nazionale a Milano.
Sono state allestite, in aree strategiche della città, delle experience room nelle quali oltre
18.000 matite hanno composto il claim sulle pareti di fondo e dove è stato possibile consultare
un’anteprima del catalogo online su diversi schermi touch dedicati. Un’alto engagement è stato
ottenuto grazie ad appositi mockup della matita, alti 180 cm, con cui è stato possibile scattare
foto ricordo, e se le matite dimensione uomo sembravano essere potenzialmente visibili anche a
media distanza, non ci si può rendere conto della visibilità che la stessa ha avuto durante il
F1 Fan Festival grazie ad un’installazione di 5mt.43
Si potrebbe affermare quindi un alto coinvolgimento emotivo reso unanime dal reclutamento su
varie piattaforme e dalla pianificazione strategica e perfettamente congruente per ognuna di
esse.
Nonostante si lavori a stretto contatto con piattaforme sempre più diverse l’una dall’altra (si
pensi alla differenza sostanziale tra una campagna messa in onda e una su facebook) ci si deve
rendere conto che per gli stakeholders è essenziale una visione di insieme che rimandi sempre
allo stesso messaggio, seppur in forma differente. Un bravo programmatore saprà quindi mantenere
la freschezza del messaggio, sfruttando i punti forti di ogni broadcaster.
Pianificare ogni strumento di comunicazione separatamente, è per Kotler uno delle pratiche
frequenti nel marketing di Neanderthal44, ossia del marketing superato che non consente alle
imprese di svilupparsi come dovrebbero. Per sviluppare un buon storytelling è essenziale avere
una visione integrata dell’intero processo comunicativo, proprio come ha fatto IKEA per il suo
catalogo 2019.
Ma cosa crea esattamente emozione nelle storie? Perché alcune di esse ci coinvolgono in modo
particolare mentre altre ci lasciano indifferenti? Indubbiamente non è possibile prevedere in
modo preciso il coinvolgimento del pubblico ma si possono controllare determinate dinamiche che
hanno in comune storie di successo. Quando si parla di scrivere una storia coinvolgente si fa

43
La matita con la gomma nella nuova campagna pubblicitaria di Ikea, www.engage.it
44
Philip Kotler, Il marketing secondo Kotler. Come creare, sviluppare e dominare i mercati, 1999, Milano, Il Sole 24 ORE, p.15
sempre riferimento alla teoria del pallone ideata da Christopher Vogler45. Tale teoria può essere
perfettamente riassumibile nella metafora che egli stesso scrive in The Writer’s Journey il suo
saggio più famoso:
Le emozioni umane sembrano avere certe proprietà elastiche, più o meno come i palloni da
basket. Quando sono scagliati a terra con forza, essi rimbalzano più in alto. In ogni
storia si cerca di elevare l’audience, accrescerne consapevolezza, innalzare le emozioni.
La struttura di una storia funziona come una pompa per aumentare il coinvolgimento
dell’audience. Una buona struttura lavora abbassando e alzando alternativamente le fortune
dell’eroe e, con esse, le emozioni dell’audience. Deprimere le emozioni di un’audience ha
lo stesso effetto di tenere un pallone gonfio sottacqua: quando la spinta verso il basso
viene a mancare, il pallone schizza su dall’acqua e vola.46
Certo, per scrivere una storia che funzioni non basta inserire drammi e difficoltà nella trama,
ma la partecipazione dell’audience è particolarmente attiva quando sono presenti elementi
irrisolti che, nonostante appaiano senza via d’uscita, prevedono una soluzione o una
trasformazione.

4.1 Il branded content

Il contesto su cui si è sviluppato questo nuovo modello di business basato sullo storytelling,
ha dato vita a numerosi modi per raccontarsi attraverso le nuove piattaforme comunicative. In
questa lotta continua per accaparrarsi l’attenzione dello stakeholder, assume maggiore rilievo
una forma di comunicazione che non tutte le aziende sembrano avere correttamente inquadrato: il
Branded Content.
“È il marketing dell'attrazione” 47 L'azienda offre contenuti , in maniera del tutto gratuita, in
grado di attrarre il pubblico su temi pertinenti ai suoi valori ma non immediatamente
riconducibili ai suoi prodotti o servizi.
In tal modo le aziende stanno divenendo delle vere e proprie media company, mettendo in dubbio
la loro funzione attuale, ponendo quesiti sul ruolo sociale della marca e sul ritorno di tale
investimento.
Non c’è alcun dubbio che poche cose sono in grado di generare ritorni positivi come il
coinvolgimento emozionale ma quasi sempre le aziende diffidano a spendere per una produzione in
cui non si utilizza una strategia improntata sul prodotto, in particolar modo perché si chiedono
se ci sia un effettivo ritorno. Il mondo del marketing è pieno di esempi che dichiarano
l’efficacia di questo metodo, ma probabilmente il più esorbitante è quello di Red Bull.
Grazie al fluente e ricco portfolio di contenuti creati, Red Bull si è guadagnata il titolo di
regina del branded content. Non a caso, data la portata delle creazioni e del ROI, è stata
creata una compagnia affiliata costituita da più di 500 persone: la Red Bull Media House. Nel
sito web dichiara come mission quella di affascinare il pubblico con la creazione di prodotti
mediali su sport, cultura e stili di vita, indubbiamente materiali con un’elevata capacità di
storytelling. Il ROI di questo ingente investimento è stato largamente ripagato dall’aumento
della quota del 44%.
La Red Bull nei propri contenuti non fa alcun riferimento al prodotto, talvolta nemmeno alla
marca, ciononostante la bevanda è riconosciuta in tutto il mondo ed è associata ai numerosi
sport estremi a cui fa spesso riferimento.
Il branded content accresce quindi la possibilità per i consumatori, ma non solo, di definire le
associazioni di marca, essenziali per consentire al brand di essere richiamato alla mente
facilmente ogni volta che viene coivolto uno dei nodi di significato della marca.
Indubbiamente i social media hanno svolto un ruolo essenziale nella diffusione di tale fenomeno.
Un tempo il consumatore guardava la pubblicità non perché ne fosse attratto (cosa assai rara) ma
perché era costretto. Con l’avvento dei social media, il consumatore può scegliere con cosa
intrattenersi e i numerosi contenuti degli utenti danno una valida alternativa alle innumerevoli
interruzioni pubblicitarie da parte dei brand. Sono nate molteplici sfide da parte dei marketer
per attirare l’attenzione del fruitore, una di queste è quella detta dei 5 secondi. Proprio come
un manifesto pubblicitario su di una strada provinciale, lo spot deve attirare nei primi 5

45
Christopher Vogler è uno sceneggiatore statunitense di Hollywood. Ha lavorato per la Disney ed insegna alla UCLA. Il suo nome
è legato al saggio The Writer's Journey: Mythic Structure For Writers. Fonte: www.wikipedia.org
46
Christopher Vogler, The Writer's Journey: Mythic Structure For Writers, 1998, p. 165
47 Paolo Bonsignore. Joseph Sassoon, Branded content. La nuova frontiera della comunicazione d'impresa, 2014, Milano, Franco

Angeli p.14
secondi. Tale sfida è stata incrementata dal sempre più ingente metodo TrueView48, ossia quel
meccanismo che consente di skippare49 una pubblicità dopo 5 secondi o più, a seconda della
piattaforma. Inizialmente tale metodo applicativo era utilizzato esclusivamente su youtube, oggi
anche facebook lo utilizza per sponsorizzare brand. Per fare in modo che l’adv sia efficace,
deve essere l’utente a decidere se guardarla o meno, la sfida per i marketer sta appunto nel
renderla interessante. Ciò vale sia per i tradizionali spot pubblicitari sia per i contenuti
sponsorizzati dal brand che vengono presentati
sui social media. Per quanto possano essere
interessanti è importante che l’utente
inizialmente non riconosca il contenuto come
brandizzato, questo per una questione di
sfiducia accumulata da anni di pubblicità
assorbita. Ad affermarlo c’è lo studio
condotto da Google nel 2015 su migliaia di
spot TrueView. Si è scoperto che includere il
logo o riferimenti alla marca nei primi 5
secondi diminuisce il tempo di
visualizzazione. I video, invece, più
visualizzati sono quelli in cui sono presenti
delle storie, dei volti o delle informazioni
che vanno oltre la sponsorizzazione
dell’azienda o del prodotto ma che possano aiutare il consumer.50
Gli studi condotti dal Content Marketing Institute e da MarketingProfs non fanno che confermare
questa tendenza da parte delle aziende. Si stima infatti che nel 2016 l’88% delle aziende B2B
utilizza il content marketing nelle loro strategie di comunicazione, mentre nel 2017 la
percentuale arriverebbe addirittura al 91%. I numeri non fanno altro che salire, basti pensare
che la ricerca condotta per l’anno 2018 ha rivelato che il 93% è impegnata attivamente nella
produzione di content marketing.

Il content marketing riesce inoltre a facilitare l’acquisizione di valori da parte di brand che
altrimenti potrebbero utilizzare esclusivamente una strategia product oriented incentrata sulle
caratteristiche degli stessi. L’advertsing di Intel del 2012 è un esempio ad hoc. La difficoltà
del brand è quella di creare un coinvolgimento emozionale data la funzione e la presenza scenica
dei microprocessori e circuiti elettronici. Billie Goldman, insieme al team Intel e Toshiba, ha
ideato la campagna transmediale51 “The Beauty Inside”. L’iniziativa, sviluppata su diverse
piattaforme, ha risultato un prodotto di altissimo livello artistico oltre che un’insight
spettacolare grazie all’engagement che ha procurato. Il film, composto da sei brevi episodi
pubblicati sui social media a intervalli regolari, ha coinvolto milioni di utenti, spingendoli
anche ad interagire quando gli è stato richiesto. La storia è quella di Alex, un ragazzo che si
sveglia ogni giorno in un corpo diverso. Questo non gli consente di instaurare relazioni
durature con altre persone poiché non è mai riconosciuto come la stessa persona. Ogni giorno il
ragazzo registra un messaggio con la webcam del suo Toshiba per tenere traccia dei volti sempre
diversi. La trama, già alquanto drammatica, si complica quando Alex si innamora di Leah. Come
sperare di essere ricambiati se ogni giorno si appare come una persona differente? Già da questa
premessa si può intuire il forte legame con il marchio di microprocessori che cambia
continuamente corpo rimanendo sempre lo stesso, in tal caso il brand si umanizza in Alex. La
trama da subito ha conquistato gli utenti, ma ciò che ha incrementato la relazione tra gli
utenti e la produzione artistica è stato quando il brand ha chiesto di impersonificarsi nel
protagonista e di recitare, registrare un video in cui fingevano di essere Alex. L’iniziativa ha
reclutato milioni di persone che si sono messe in gioco, i migliori video sono poi stati
inseriti nella serie. Probabilmente il forte coinvolgimento è stato dato dall’interattività
transmediale della storia. Infatti per chi volesse mettere assieme tutti i pezzi del puzzle che

48
TrueView è un metodo sviluppato da Google per Youtube che ad una quantità definita di minuti di visualizzazione da parte
dell’utente fa corrispondere uno spot pubblicitario. Tale spot può essere saltato dopo 5 secondi se l’utente non vuole
visualizzarlo e il brand pagherà solo quando verranno visualizzati almeno 30 secondi. www.thinkwithgoogle.com
49
Skippare, neologismo. Dall’inglese to skip: saltare, evitare. www.treccani.it
50
Youtube Insights, The first five seconds: creating unskippable, 2015, www.thinkwithgoogle.com
51
Storytelling transmediale, termine utilizzato per la prima volta da Henry Jenkins in un articolo su www.technologyreview.com
nel 2003. Lo storytelling transmediale viene definito come una storia raccontata attraverso vari media e piattaforme di
comunicazione. Questo contenuto può essere proposto tramite blog, video, ebook, social network, film, etc. Tutti questi
contenuti hanno un denominatore comune, all’interno del quale il consumatore gioca un ruolo attivo.
compongono la storia, è stato un profilo su Facebook dove Alex pubblicava regolarmente dei video
in cui si raccontava, altri contenuti sono stati pubblicati sul sito web. Tramite post, foto e
video, gli utenti si sono completamente catapultati nella vita del personaggio, la serie ad oggi
conta 70 milioni di visualizzazioni e 26 milioni di interazioni sui social.52 Per il suo
approccio originale, il film è stato premiato con ben tre Grand Prix al Festival internazionale
della creatività Leoni di Cannes e un Emmy Award come Outstanding New Approach to an Original
Daytime Program. Oltre a generare una visibilità per Intel e Toshiba, il film è stato un ottimo
strumento per coinvolgere emotivamente gli stakeholders.
“I contenuti sono sempre nuovi, su ogni mezzo e su ogni piattaforma. È un puzzle nel quale tutti
i pezzi si incastrano tra loro per completare la storia, mentre all’utente viene data
un’informazione nuova in ciascun pezzo” Laia Vidal, esperta transmediale.

52
Dati reperibili su www.showcase.noagencyname.com/thebeautyinside
5. Verso le frontiere del “No Logo”

Come si può intendere da quanto si è discusso finora, il marchio sta attraversando un periodo di
crisi. I consumatori non ne possono più di vederli ovunque, dunque tendono a respingere tutto
ciò che lo contenga. Sta nascendo una nuova tendenza che vedrà scomparire il logo come elemento
costantemente presente nella produzione del brand, per fare posto a una serie di immagini
(spesso immateriali), colori e stili. Aggettivi che renderanno comunque il brand riconoscibile
ma che accompagneranno il consumatore verso una pulizia sistematica delle immagini acquisite nel
tempo costituite da enormi loghi piazzati su qualsiasi superficie.
Come ben specificato nei cenni storici al marchio, il logo principalmente aveva la funzione di
contraddistinguere e dare garanzia sulla provenienza di un prodotto. Oggi riconduciamo un grosso
logo a un contenuto sponsorizzato e, se pubblicità è uguale a invasione, non solo lo ignoriamo
ma, come sta avvenendo soprattutto per i grandi brand d’abbigliamento, non vogliamo acquistarlo.
Avete avvertito il cambiamento? Molte delle più grandi aziende si!
Abercrombie and Fitch, casa di moda statunitense che produce abbigliamento per giovani dal 1892,
ha da sempre contraddistinto i suoi capi d’abbigliamento con il suo famoso alce soprattutto
durante il boom del marchio. Alla fine degli anni ’70 la logo-moda esplose sui capi
d’abbigliamento divenendo stile di massa. Il coccodrillo Lacoste saltò dall’etichetta alla
camicia divenendo anno dopo anno sempre più grande, infatti, negli anni ’80 il logo divenne, da
affermazione ostentata, accessorio di moda. I capi d’abbigliamento A&F sostenevano l’idea di
uniforme, utilizzando il grosso logotipo sul torace e sponsorizzando l’idea di bello e sexy. I
commessi dei negozi dovevano essere attraenti e girare a torso nudo, i punti vendita erano
costantemente inondati da fumi quasi da night-club e le campagne pubblicitarie non facevano che
urlare se sei sexi indosserai Abercrombie. In sintesi, la sua immagine era quella giovanile e
spensierata, rappresentata in carne e ossa da modelli muscolosi e rigorosamente a petto nudo per
un pubblico che si identifica in un immaginario popolato da cheerleaders e sportivi vincenti.
Nonostante la popolarità, Abercrombie and Fitch nel 2012 ha avuto una sostanziale perdita sulle
quote di mercato e un depennamento notevole delle vendite diminuendo le entrate del 2,5% nel
primo trimestre53.
“I ragazzini che una volta cercavano vestiti firmati, sono passati a comprare abiti più
economici e senza loghi o scritte, che possono utilizzare per creare un loro stile
personale”54
Per il Wall Street Journal, è questo il motivo per cui Abercrombie and Fitch è in declino.
D’altronde brand attualmente di grande successo come Zara, H&M o Bershka utilizzano un modello
di marketing basato sul design dei prodotti piuttosto che sull’applicazione del logo sui capi,
quindi tale affermazione aveva basi fondate. Abercrombie dal 2014 sotto la supervisione del
nuovo direttore artistico Katia Kuethe, ha quindi avuto il coraggio di riposizionarsi con una
politica differente. La strategia applicata è stata quella di riformulare un look #madeforyou55,
ha spogliato i suoi vestiti da ogni logo rendendoli pronti ad un utilizzo individuale.56 Se
questa si è rivelata una scelta corretta aumentando le vendite, non si può dire lo stesso della
scelta di ripulire il brand di ogni personalità. Gli store Abercrombie sono mutati, eliminando
la musica altissima, il profumo spruzzato in modo insistente, la temperatura più alta rispetto
agli altri negozi, i commessi che erano più dei modelli, le borse con i pettorali fotografati,
divenendo asettici e senza personalità. Se da un lato tali impronte non riuscivano più a
coinvolgere i giovani ed erano state soggetto di molte accuse e controversie legali, dall’altro
è stato uno sbaglio lasciare il brand senza dei forti valori a contraddistinguerlo. Con gli
anni, infatti, ha perso quell’alone di unicità lasciando il posto a una mera immagine
insignificante. Dal 2014 al 2017 l’azienda ha registrato un forte calo del -25,38 (68,24%)
mettendo in grave crisi la sua stabilità. Nonostante le numerose perdite, il brand ha avuto il
coraggio di agire rimettendosi in gioco.
Il coraggio di riposizionarsi… Una possibile strada è quella di riconnettersi
continuamente con il mercato e riposizionarsi adottando scelte creative.57
Così Abercrombie & Fitch ha iniziato un lento riposizionamento di marca e di immagine per non
uscire dal mercato. La crescita è stata guidata da enormi investimenti negli store, chiudendo
quelli poco redditizi, sviluppando una gamma di prodotto con più personalità, impostando una

53
Marianna Tognini, Ascesa e declino di Abercrombie & Fitch: lo storico brand di abbigliamento casual è ora a un passo dalla
cessione, www.businessinsider.com, 20 Giu. 2017
54
Rory Satran, Can I Wear Logos Without Them Wearing Me? An Investigation, Wall Street Journal, 31 Gen. 2019
55
#madeforyou – letteralmente fatto per te
56
Mariachiara Colombo, Che fine ha fatto l’alce di Abercrombie and Fitch?, www.losbuffo.com, 15 Giu. 2017
57
Marco David Benadì, Quando il coraggio cambia la storia di una marca, 2013, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore, p. 31
nuova strategia marketing e un’esperienza multicanale. Si è passati da una scontistica molto
forte che dava l’idea di liberarsi del magazzino in eccesso, ad una promozione mirata, ad
esempio con prezzi convenienti sul secondo capo acquistato, esattamente come attua il competitor
Zara. La visual identity di Abercrombie & Fitch è stata costruita congruentemente in tutte le
piattaforme, dal sito ufficiale ai social collegati. Le pubblicità hanno assunto carattere,
prediligendo un look anni ’90 e cambiando in tal modo il target di riferimento. Se prima
l’obiettivo erano gli adolescenti, adesso si può dire comprenda ragazzi dai 18 ai 25 anni che
abbiano una sensibilità più raffinata, una grande comprensione di sé stessi anziché una tendenza
esclusivamente provocatoria. Grazie al riposizionamento la società ha mantenuto una tendenza al
rialzo rispetto all’anno scorso, dimostrando di essere in ripresa. In conclusione, possiamo
affermare, data la seguente case history, che i cambiamenti in una società in continua
evoluzione come la nostra sono essenziali e prevederanno quasi per tutte le aziende un
ridimensionamento della logo-moda a favore di una politica concentrata più sui valori del brand
anziché sulla sua parte visibile.
Ciò quindi non implica la scomparsa del brand a favore di un’asetticità, anzi uno sviluppo del
marchio non più basato sul visual ma su caratteri esterni al brand che si riconducono
estremamente alla nostra quotidianità. Per comprendere appieno a cosa ci riferiamo quando
parliamo di tali caratteri è il caso definire i termini brand-visibile e brand-invisibile.
Secondo Pino Grimaldi fare branding è una scienza definita che va ben oltre le pure competenze
grafiche.
Un brand (una marca) non è solo quello che si vede. Non è solo un progetto di design. Non
si può iniziare la costruzione di un sistema valoriale articolato, come è un brand,
partendo solamente dal progetto grafico.58
Costruire un brand non significa esclusivamente attribuire all’azienda un naming e un logo,
bensì costruire un’identità umanizzata, attribuirgli dei valori, delle caratteristiche.
Sistematicamente parlando, per fare branding bisogna creare delle esperienze che vanno oltre la
parte visibile e che rendano il marchio riconoscibile attraverso operazioni studiate ad hoc per
il brand. Grimaldi struttura una piramide del brand suddivisa in due sezioni. Nella parte
superiore, proprio come la punta di un iceberg, troviamo il brand visibile (naming, design). In
quella inferiore ci sono il suo posizionamento, il vantaggio competitivo e tutti i valori
immateriali del brand.
Effettivamente poche competenze grafiche non possono gestire un brand e tutto il mondo ad esso
legato. Bisognerebbe essere consapevoli che le scienze legate ad esso si allargano anno dopo
anno e che la piramide cresce in maniera sostanziale verso l’immaterialità nella quotidianità.
Per catturare l’attenzione del fruitore occorrerà rivolgersi sempre più rivolgersi ad esso in
maniera discreta e per concretizzare la fidelizzazione bisognerà suscitare emozioni e sensazioni
che lo rendano non più solo inimitabile ma essenziale per le proprie vite. Stiamo parlando di
una strategia di marketing non nuova, quella della creazione di bisogni59 rivolta però in tal
caso a prodotti non unici del loro genere. Perché dovrei avere l’impellente bisogno di possedere
un iPhone se ho già uno smartphone che esercita le stesse funzioni? Non saremmo esaustivi se
attribuissimo al successo di Apple esclusivamente i valori da essa trasmessi. Probabilmente ciò
che le ha conferito il potere che adesso le appartiene sono stati innumerevoli fattori, tra cui
il design studiato nei minimi dettagli, il retail che ha reso i punti vendita un vero e proprio
luogo d’incontro per amanti del brand, il posizionamento strategico, il packaging raffinato e
senza tempo, la qualità del prodotto, l’ADV studiato per attribuire ai prodotti un’aura
esclusiva, l’area di sviluppo all’interno dell’azienda… Si potrebbe continuare per molto ma ciò
che si vuole intendere è che il successo di un brand è determinato da tanti componenti e che per
costruirlo non è da escludere la collaborazione di molte scienze, dalla psicologia
all’architettura, dal marketing alla statistica. Non è un caso se P. Grimaldi attribuisce al
design l’aggettivo blur per indicare quell’area indistinta in cui si opera quando si parla di
brand.
Il design è una disciplina onnicomprensiva delle numerose attività umane che utilizzano il
progetto per realizzare prodotti, offrire servizi, produrre comunicazione, risolvere
problemi, con un’intenzionale valenza estetica ed una produzione seriale di tipo

58
Pino Grimaldi, Blur Design. Il branding invisibile, 2014, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore, p. 109
59
“Il marketing raggiunge il massimo livello quando un’impresa introduce un prodotto o un servizio in precedenza non richiesto
né immaginato da alcuno. … Le imprese market driving, cioè quelle imprese che con la loro attività creano nuovi mercati o
modificano in modo sostanziale quelli esistenti, sono quelle che ampliano i propri orizzonti e fanno progredire la nostra
civilizzazione.”
Philip Kotler, Il marketing secondo Kotler. Come creare, sviluppare e dominare i mercati, 1999, Milano, Il Sole 24 ORE, p. 28.29
industriale. … il design è un’attività che opera nell’area dell’indistinto, in una
dimensione disciplinare sfocata dentro un inseparabile insieme di competenze.60

5.1 Il retail

Il punto dove maggiori discipline si incontrano è il retailing61. I punti vendita sono il luogo
ove i valori del brand si incontrano con la sua estetica per dare luogo a vere e proprie
esperienze emozionali. I colori, i materiali, le luci, il personale riflettono la brand equity
inducendo il fruitore a comportarsi come previsto grazie ad alcune tecniche di persuasione
psicologica o attraverso la strutturazione architettonica. Possiamo definire il retail come
l’arte di saper vendere oltre il prodotto. Obbiettivo è quello di incrementare la customers
experience, in modo da renderla unica nel suo genere e degna di essere vissuta.
Vero e proprio perno del retail è stato Michael Ovitz. Presidente della Walt Disney Company dal
1995 al 1997, realizza nel 1998, sulla scia di quello che aveva appreso nella compagnia, il
primo centro commerciale a tema. Situato in Ohio, strutturato a tema Columbus, l’enorme centro
commerciale sfrutta l’esperienza dello sport per attirare tifosi che vogliano viverlo sotto ogni
forma.62 Il retail porta l’immaterialità di un brand nel mondo tangibile, incrementando
l’esperienza del consumatore e catapultandolo nell’universo del marchio.
Prima dei centri commerciali a tema c’era però già un grande colosso che ha da sempre avuto come
mission quella di creare emozioni: Walt Disney. Nel 1955 ad Anaheim, nella periferia di Los
Angeles, venne inaugurato Disneyland, il primo parco a tema del mondo, ed è stato solo l’inizio
di una lunga serie di iniziative. Così Walter Disney dichiarava durante l’inaugurazione:
“A tutti coloro che vengono in questo luogo felice: Benvenuti. Disneyland è la vostra terra. Qui
l’età rivive i bei ricordi del passato, e qui i giovani possono assaporare le sfide e le
promesse del futuro. Disneyland è dedicato agli ideali, ai sogni e ai fatti che hanno creato
l’America, con la speranza che sarà una fonte di gioia e ispirazione per tutto il mondo”63
Una vera e propria affermazione da parte di un rivoluzionario che tiene d’occhio il presente ma
guarda sempre al futuro. Molti pensavano che l’investimento utilizzato per realizzare il parco
non avrebbe reso quanto lo stesso, la maggior parte dei marketer erano pronti ad aspettarsi un
vero e proprio fallimento. Bastarono pochi mesi per recuperare i 17 milioni di dollari impiegati
per la costruzione. W. Disney aveva scommesso e investito bene, ma non si fermò al parco a tema.
Difatti dopo l’enorme successo, la Walt Disney Company continua a costruire altri parchi nel
mondo: il Walt Disney World Resort in Florida nel 1971 e nel 1983 il Tokyo Disney Resort, in
Giappone. Nel 1992 venne inaugurato forse il parco più famoso a Parigi, progetto di 2,3 miliardi
di dollari, ad oggi chiude ogni anni con un numero spropositato di visitatori (nel 2018 15
milioni di visitatori)64.
Sulla base dei successi acquisiti dai parchi tema, la Walt Disney Company decide nel 1987 di
aprire uno store dedicato al mondo Disney. Così apre a Glendale, in California, il primo Disney
Store, importante perché primo nel suo genere. È stato il primo retail-tainment65 (negozio-
intrattenimento). Lo store si trasforma e diventa un vero e proprio teatro dove i clienti sono i
protagonisti circondati da atmosfere studiate, realizzate appositamente per far vivere delle
esperienze di consumo ma non solo. Questa è la nuova concezione di Shopping Experience, ovvero
una vera propria esperienza d’acquisto a 360°, orientata non più alla mera acquisizione di un
prodotto ma alla necessità di stimolare emozioni e sensazioni ai clienti che si trovano in
negozio. Caratteristiche degli store è l’atmosfera magica che si respirerebbe se si vivesse in
un lungometraggio Disney. La musica (esclusivamente colonne sonore dei film di produzione), i
colori, gli odori e il personale permettono di vivere un percorso oltre quello di acquisto
aumentando il valore aggiunto percepito dei prodotti.
Prima del punto vendita, altro fattore per incrementare il valore percepito è il packaging. Step
finale tra la produzione e la distribuzione, il packaging indica tutte le attività e i materiali
necessari a progettare e produrre l’involucro o il contenitore del prodotto per la sua

60
Pino Grimaldi, Blur Design. Il branding invisibile, 2014, Bologna, Logo Fausto Lupetti Editore, p. 17
61
“Retailing – Consiste nella vendita di prodotti o servizi a consumatori per il loro utilizzo personale o famigliare (in questo senso,
anche chi presta servizi, come dentisti, hotel, parrucchieri e negozi online come Amazon.com sono da considerarsi retailer).”
Jeff Swystun, Il glossario del brand. Termini, significati e usi, 2007, Milano, EGEA, p.114
62
Naomi Klein, No Logo. Econonomia globale e nuova contestazione, 2007, Dalai Editore, p. 86
63
Giada Sponza, Disneyland Paris. Un caso di globalizzazione dei consumi e omologazione culturale?, 2009, p. 123
Walt Disney nel discorso di apertura di Disneyland il 17 luglio 1955
64
Disneyland Paris: 15 milioni di visitatori nel 2018, 15 Genn. 2019, www.guidaviaggi.it
65
Fenomeno che combina il retail e l’entertainment.
presentazione al pubblico66. Oltre ad avere come funzione quella di proteggere il prodotto e
renderlo funzionale per il trasporto, fornisce informazioni importanti su di esso e lo promuove.
Realizzare un buon packaging è essenziale soprattutto quando si parla di beni di largo consumo.
Differenziarli sugli scaffali è diventata una vera e propria sfida per i marketer che escogitano
continuamente nuove forme, colori e materiali per attirare l’attenzione del consumatore di
passaggio. L’arte del packaging ricopre una delle aree blur di cui abbiamo parlato
precedentemente, unendo l’arte del design alla psicologia, enfatizza le qualità del prodotto
dandogli un’aura di superiorità. Naturalmente il packaging è anche una questione di
posizionamento. Di fatti un brand che punta sul prezzo non può permettersi un packaging
complesso e costoso, uno che lavora sul market-oriented67 realizza invece un packaging complesso
anche a discapito di un incremento del prezzo.
Portare un cliente alla vendita è un’operazione assai complessa. Sono stati

66
Jeff Swystun, Il glossario del brand. Termini, significati e usi, 2007, Milano, EGEA, p.100
67
Market-Oriented – Filosofia aziendale incentrata sulla scoperta e soddisfamento dei bisogni dei propri clienti attraverso il
product mix. www.investopedia.com
Conclusioni

L'advertising è davvero morto? Non è esattamente così. La pubblicità funziona, meno che in passato e
probabilmente a costi più elevati ma richiama comunque l'attenzione e genera vendite. Occorre essere
consapevoli che tali metodi non vanno a sostituire la comunicazione tradizionale ma a integrarla. Deve essere
collocato all'interno di una strategia più ampia di cui si ha una visione completa prima di metterla in atto,
ricordandosi che però ogni mezzo di comunicazione ha i suoi punti forza da sfruttare. Pianificare le
piattaforme di comunicazione tenendo conto che far parte di un'unica visione che enfatizzi e fortifichi
l'idea che si vuole trasmettere, facendo leva sulle caratteristiche di ogni broadcaster, Ciò che potrebbe
funzionare in TV può non essere incisivo sui social.

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