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INTRODUZIONE
Negli anni sono aumentati i progetti artistici che si interessano alla partecipazione e collaborazione, un interesse che
cresce a partire dai primi anni Novanta a livello globale. Queste pratiche si svolgono fuori dallo studio dell’artista
(post-studio practices) e ci sono vari termini per indicare quest’arte, come: arte impegnata socialmente, arte incentrata
sulla comunità, comunità sperimentali, fino a “arte partecipativa” in quanto sottolinea il coinvolgimento di molte persone.
Parlare solo di “impegno sociale” è ambiguo, in quanto comprende una serie di lavori, come anche la pittura. Nell’arte
partecipativa le persone sono sia il medium sia il materiale artistico fondamentale, come nel teatro o la performance.
Gli artisti della Bishop sono meno interessati all’estetica relazionale; Bourriaud voleva rendere i progetti discorsivi nel
contesto di musei e gallerie.
Fino ai primi anni Novanta l’arte incentrata sulle comunità era confinata nella periferia del mondo dell’arte, mentre oggi è
un genere vero e proprio. È un fenomeno globale che va dall’America al sud-est Asiatico e alla Russia, tuttavia con un
profilo debole nel mondo commerciale in quanto i progetti collettivi sono più difficili da vendere e questo tipo di eventi
sociali o performance vengono più difficilmente percepiti come opere. Hanno rilievo nelle commissioni pubbliche, con
commissioni, biennali e mostre a tema politico. Il comune denominatore tra queste pratiche è stato il desiderio di voler
rovesciare il rapporto tradizionale tra l’oggetto d’arte, l’artista e il pubblico. L’artista non è produttore di un oggetto, ma di
situazioni; l’opera è ripensata come progetto in corso; il pubblico è co-produttore o partecipante. Questa discussione
rientra nella tradizione critica marxista e post-marxista secondo cui l’arte è vista come sforzo di uscita dall’alienazione,
che non dovrebbe essere soggetta alla specializzazione professionale.
Secondo una prospettiva europea occidentale, l’interesse per il sociale nell’arte contemporanea si può contestualizzare in
tre momenti storici di sconvolgimenti politici:
1. Le avanguardie storiche europee, nate attorno al 1917
2. Le neo-avanguardie nel 1968
3. L’arte partecipativa riemerge negli anni Novanta, con la caduta del comunismo nel 1989.
Queste fasi sono state accompagnate da un ripensamento utopico della relazione tra l’arte, il campo sociale e il suo
potenziale politico, riconsiderando i modi in cui l’arte è prodotta, consumata, discussa.
Il teatro e le performance sono cruciali per molti di questi case studies a causa dell’impegno partecipativo espresso con
forza nell’incontro dal vivo tra gli attori in contesti particolari. La Bishop ripensa la storia dell’arte del XX secolo
attraverso la lente del teatro più che della pittura o del ready-made. Evita, inoltre, una ri-narrazione della storia dell’arte
nord-americana, nonostante includi alcuni esempi, per dare maggiore importanza all’Europa dell’est e l’America del Sud,
con una eredità dalle avanguardie storiche, a differenza dell’Asia.
Comprendere l’arte partecipativa dalle sole immagini è quasi impossibile: fotografie occasionali di persone che mangiano,
parlano, partecipano ad un laboratorio ci raccontano poco o nulla del progetto e non comunicano nulla della dinamica
emotiva degli artisti. Nell’arte concettuale degli anni Sessanta e Settanta si cercò comunque di rifiutare l’oggetto-merce,
ma la visualità resta comunque importante, dove una fotografia può provocare divertimento o imbarazzo sarcastico. Al
contrario, l’arte partecipativa non può essere sintetizzata in un’immagine finita in quanto tende a valorizzare l’invisibile:
una dinamica di gruppo, una situazione sociale, una maggiore consapevolezza. Dipende quindi dall’esperienza di prima
mano e spesso di lunga durata. Solo pochi hanno la possibilità di avere un quadro generale dei progetti partecipativi,
mentre studenti e ricercatori si affidano alle spiegazioni dell’artista o del curatore o dei partecipanti stessi, come accade in
questo libro con viaggi sul campo. Tuttavia più si diventa coinvolti e più è difficile essere obiettivi, nel momento in cui lo
stato di outsider viene minato da questo coinvolgimento. C’è infatti una differenza tra la polemica del capitolo 1, scritto
nel 2006, e la conclusione del 2011. Il titolo “Inferni artificiali”, preso in prestito da Andrè Breton, serve a descrizione
positiva e negativa dell’arte partecipativa.
Importante è anche l’approccio intradisciplinare, tendendo conto della sociologia, storia del teatro, filosofia politica. L’arte
partecipativa ci richiede nuovi modi di analizzare l’arte che non sono più legati solo alla visualità. Non bisogna fare
riferimento a questi fenomeni come a oggetti di un nuovo formalismo, ma analizzare come essi contribuiscono e
rafforzano l’esperienza sociale e artistica che generano. Il progetto centrale del libro è spiegare l’arte partecipativa
mettendo a fuoco ciò che essa produce e non il processo.
1.LA SVOLTA SOCIALE: LA COLLABORAZIONE E LE SUE INSODDISFAZIONI
Ci sono molti critici che dominano la letteratura sull’arte collaborativa e partecipativa, ma il più frequentemente citato è
Guy Debord, per la sua accusa contro gli effetti alienanti e separatori del capitalismo nella Società dello spettacolo del
1967 e per aver teorizzato la produzione collettiva di situazioni. La sua critica ci indica perchè la partecipazione è
importante come progetto: ri-umanizza una società frammentata dagli strumenti repressivi della produzione capitalista. Il
mercato è saturo di immagini e la pratica artistica non può più costruire oggetti consumati poi da uno spettatore passivo.
Deve esserci un’arte dell’azione che si interfaccia con la realtà e cerca di ricostruire il legame sociale. Gli artisti non sono
più interessati a un processo passivo basato sulla dicotomia presentatore-spettatore, un modello di comunicazione, questo,
che è stato fatto proprio dal mercato. E anche Bourriaud nel descrivere l’arte relazionale degli anni Novanta fa riferimento
allo spettacolo come punto centrale.
L’arte d’avanguardia dell’ultimo decennio ha visto la riaffermazione della collettività rispetto all’individuale, considerato
sinonimo dei valori del liberalismo della guerra fredda e della sua trasformazione, con l’esercizio economico della
proprietà privata e del libero mercato. Ciò che si pone contro questo modello è la dimensione collettiva: la pratica
collaborativa offre un contro-modello di unità sociale, a prescindere dalla sua posizione politica effettiva.
Le linee seguite sono molte, come i video malinconici di Johannesburg Billing che mostrano giovani riuniti grazie alla
musica, fino agli eventi di Sharon Hayes per le comunità GLBT. Anche quando un’opera d’arte non è esplicitamente
partecipativa, i riferimenti a comunità, collettività e rivoluzione, bastano per indicare la distanza dall’ordine neo-liberista
mondiale. I progetti partecipativi agiscono contro il mercato lasciando che l’autorialità del singolo si diffonda in attività
collaborative. L’arte partecipativa non bada al mercato, ma incanala il capitale simbolico dell’arte verso un costruttivo
cambiamento sociale. Potremmo dunque dire che si tratti dell’avanguardia che abbiamo oggi, con artisti che disegnano
situazioni sociali come progetti de-materializzati, contro il mercato e politicamente impegnati. Non possono esistere opere
d’arte partecipativa fallimentari, non riuscite poichè sono tutte essenziali nel ricostruire il legame sociale. Tuttavia è
importante affrontare questo lavoro criticamente come arte, perchè è questo il campo in cui le pratiche partecipative sono
divulgate.
5.Spettatori emancipati
Una discussione così ampia su Orgreave è possibile solo grazie alla mediazione che c’è oltre la performance dal vivo,
raggiungendo così pubblici differenti: i partecipanti diretti, quelli che guardarono la trasmissione del film di Figgis o che
comprarono il DVD, quelli che hanno letto il libro. Dunque si moltiplicano le categorie artistiche della pittura di storia,
del documentario, della performance, mettendole in dialogo con il teatro comunitario.
Di norma si ritiene che la posizione resti pura se non si entra nelle gallerie e nei musei, pensate per una ricezione passiva e
per una élite culturale. Da qui si diffonde il binomio di attivo/passivo, per cui un pubblico emancipato sarebbe capace di
comprendere passivamente le opere in un museo, mentre la classe operaia continua ad essere legata unicamente al lavoro
manuale e dunque alla partecipazione. Come nota Rancière, in risposta a Bourdieu, se si dà per scontato che la
partecipazione sia adatta all’inclusione sociale, si ammette già in principio che i partecipanti siano in una posizione di
impotenza, ma questo status quo non dovrebbe essere mantenuto. Se l’opera d’arte non si impegna nella “questione
estetica” - cosa che Bourdieu evita - tutto resta al proprio posto, dando ancora grande importanza alla morale. Tuttavia in
tutte le arti che usano le persone come medium, l’etica non scomparirà mai completamente e dunque va unita all’aisthesis.
Seguendo la tesi di Lancan secondo cui è più etico per il soggetto agire in conformità con il proprio desidero che
modificare il proprio comportamento agli occhi del grande Altro, seguire i bisogni individuali non indica un’esclusione
dal sociale. Le forme più avanzate della pratica artistica di oggi derivano dalla necessità di ripensare le connessioni tra
l’individuale e il collettivo secondo queste linee. Dunque le forme più sorprendenti di arte partecipativa sono prodotte
quando gli artisti agiscono intervenendo nel sociale con spirito d’indagine senza sensi di colpa. Queste situazioni danno
grande dignità all’autore, fondendo la realtà con un artificio regolato, districando nodi complessi delle situazioni sociali
riguardanti impegno politico, affettività, lotta di classe. Al momento, i criteri filosofici dell’arte partecipativa e impegnata
socialmente si basano sull’ anticapitalismo e il “buono” cristiano, dunque un ragionamento etico che non riesce ad
accogliere quello estetico o a comprenderlo nell’esperienza. In questa prospettiva non trova spazio la perversione o la
negazione, elementi cruciali nell’aisthesis. La riformulazione etica nell’arte partecipativa attravrso Lacan ci permette di
avere altri strumenti per occuparci di tale arte. I migliori esempi di arte partecipativa occupano un territorio ambiguo che
si trova tra la vita e l’arte. Questo ha delle implicazioni nella metapolitica di Rancière che diventa un’arma a doppio taglio
perchè ci lascia l’urgenza di dover esaminare il contesto storico e politico dell’epoca delle opere che analizziamo.
Riportiamo tre momenti chiave delle avanguardie storiche che anticipano l’emergere dell’arte partecipativa, tutte con delle
posizioni diverse riguardo all’inclusione del pubblico e con un differente contesto politico.
1. La rottura operata dal Futurismo italiano con i modi convenzionali della spettatorialità, inaugurando la pratica
performativa come pratica artistica, cercare per l’arte un pubblico di massa;
2. Gli sviluppi della cultura russa dopo il 1917, con la formulazione di due diversi modelli di performance, il teatro
di Proletkult e lo spettacolo di massa;
3. Dada a Parigi sotto l’influenza di André Breton, dove il gruppo modificò il suo rapporto con il pubblico verso
eventi sempre più partecipativi nella sfera pubblica.
Essi suggeriscono che i recenti sviluppi dell’arte contemporanea si trovano nell’ambito del teatro e della performance e
non nella storia della pittura o del ready-made.
2.Teatralizzare la vita
Negli anni successivi alla Rivoluzione del 1917 si riprogrammò l’arte, il teatro e la musica, con l’obiettivo di allineare la
pratica culturale alla Rivoluzione bolscevica. Si iniziarono a rifiutare le opere d’arte borghesi, realizzate da individui
(come la pittura) e prodotte per il mercato, in favore di pratiche progettate per una fruizione collettiva, usando come
veicoli privilegiati il teatro e la performance per la loro immediatezza, fornendo il confronto più semplice con l’arte
partecipativa di oggi. Tuttavia risulta difficile isolare questi sviluppi artistici russi dal loro contesto politico. La questione
era quindi produrre una nuova forma di cultura prodotta da e per il proletariato, rompendo il legame con l’eredità
culturale. Il Proletkult (organizzazione culturale-educativa proletaria) si dedicò alla definizione di queste nuove forme di
cultura proletaria dal 1918 e il suo teorico fondatore fu Aleksandr Bogdanov, energico promotore della soppressione della
cultura borghese del passato. Queste sue idee finirono per metterlo in conflitto con Lenin, attaccato all’arte tradizionale e
scettico nei confronti dei piani di Bogdanov, dato l’analfabetismo dilagante; lo scontro portò a una grande riduzione dei
finanziamenti. La cultura precedente doveva essere rifiutata in quanto prodotta e consumata da individui e non dalla
collettività. L'originalità quindi non doveva più essere intesa come un’espressione autonoma della soggettività dell’artista,
ma come l’espressione della sua partecipazione alla creazione e sviluppo della vita collettiva. Tuttavia al proletariato era
consentito di esprimere liberamente la propria volontà, ma solo secondo la propria posizione di classe, l’arte doveva
mobilitare sentimenti esclusivamente politici. Anche Trockij critica Bogdanov, per il privilegiare la psicologia collettiva
rispetto a quella individuale nel Proletkult, facendo notare come la classe parli attraverso gli individui.
Il Proletkult insiste sul collettivismo del teatro e si sviluppò a partire dalle innovazioni della partecipazione
anti-gerarchica, sperimentata nel teatro poco prima della Rivoluzione. Un esempio è Vsevolod Mejerchol’d con la
rimozione del proscenio, provando a unire attori e pubblico, suggerendo di coinvolgere quest’ultimo in modo da allenare
la popolazione a essere attori.
Un altro teorico importante del Proletkult fu Kerzencev, il quale sosteneva la fine dei repertori e attori borghesi,
promuovendo i momenti cruciali della lotta di classe come scioperi o rivolte, messe in scena dal proletariato. Divenne
quindi un modo per esprimere la coscienza collettiva. Gli attori erano dilettanti, non professionisti, al fine di essere vicini
alle masse. Nonostante le difficoltà, questo teatro amatoriale prolifera per tutto il paese dopo il 1917, moltiplicando i
circoli teatrali. Erano i lavoratori a scrivere gli spettacoli collettivamente e li mettevano in scena, con sceneggiature
appesantite da affermazioni ideologiche. Tuttavia questa enfasi sul contenuto sociale era un problema per chi voleva
preservare la cultura classica, come il consulente chiave di Lenin che scrive a Kerzencev riportando la noia di quegli
spettacoli. Non sorprende quindi che solo alcuni spettacoli del Proletkult trovino posto all’interno della storia del teatro,
come Protivogazy prodotto da Ejzenstejn: quando gli uomini, con il rischio di morire, si calarono giù nel pozzo per
salvare la fabbrica, il realismo fu tale che nessuno spettacolo teatrale con professionisti vi è paragonabile. Questo
entusiasmo per il teatro porta a cortei storici e manifestazioni che includevano scene allegoriche sul lavoro manuale
l’industria, fino poi ad arrivare allo spettacolo di massa all’aperto che ha il suo picco a San Pietroburgo nel 1920.
Quest’ultimo fenomeno ha due diverse genealogie:
● Per la storia dell’arte nasce nel 1918 con la rielaborazione scenica dell’assalto al Palazzo d’Inverno e della sua
piazza, dove si prese in prestito un battaglione armato, a cura dei futuristi russi
● Per gli storici del teatro nasce da un insieme di teorie e ideologie che si erano sviluppate fin dal 1900, dove la
figura chiave è ancora Kerzencev, il quale promosse i cortei storici e lo spettacolo di massa come forme di teatro
efficace perchè invitavano all’uso dello spazio pubblico, incoraggiando così la partecipazione di massa,
rimuovendo l’individualismo.
James von Geldern evidenzia alcuni dei problemi artistici nella produzione degli spettacoli di massa: l’utilizzo di dilettanti
comportava che la recitazione fosse debole; l’azione teatrale era confusa; l’uso di tanti corpi portava a performance lente;
le trame erano ripetitive e avrebbero avuto bisogno di più variazioni, ma questo non era possibile senza compromettere la
storia. Il culmine degli spettacoli del 1920 si ha con L’assalto al Palazzo d’Inverno tenuto il 7 novembre per celebrare il
terzo anniversario della Rivoluzione, con più di 8000 partecipanti e 100.000 spettatori. L’organizzazione seguì il modello
militare, con performer raggruppati a unità di 10 che ricevevano istruzioni a catena dalla regia. Il teatro di massa non solo
metteva in scena la Rivoluzione, ma era la messa in scena della Rivoluzione, ricreando le condizioni del rovesciamento
rivoluzionario. Questo combaciava con l’ambizione bolscevica di “teatralizzare la vita”, una propaganda ambientale con
una performance più grande della realtà. L’obiettivo era anche quello di riattivare continuamente la memoria visiva,
mantenere viva la promessa rivoluzionaria.
Gli spettacoli di massa vengono anche criticati da Fulop-Miller che polemizza contro gli intenti bolscevichi e definisce
queste folle come “la massa” in maniera negativa, sostenendo che alla base vi sia uno spreco di risorse e che questi
spettacoli servano solo a risollevare il morale, ma non aveva niente a che fare con i problemi della vita quotidiana
(razionamento di cibo, confisca delle case); la stessa distanza tra rappresentazione e realtà viene individuata da Emma
Goldman che descrive le condizioni di povertà e miseria, mentre gli spettacoli restituivano una rappresentazione
superficiale e ipocrita. Sempre la Goldman offre una visione più complessa e problematica: questi spettacoli non facevano
altro che aumentare la delusione della Rivoluzione e la performance appariva piatta al confronto di quanto successe nel
1917. Bisogna anche concentrarsi su questioni come l’autenticità dell’impegno, dal momento che le descrizioni
dell’azione nello spettacolo di massa sono noiose da leggere non rendono conto dell’ accozzaglia di stili con cui furono
eseguite. Anche la prevedibilità dei vari spettacoli ha l'effetto di renderli indistinguibili tanto che- come nel teatro del
Proletkult - ci sembra un unico spettacolo. Tuttavia la partecipazione era più importante della piacevolezza.
Il voler eliminare gerarchie individualismo lo si ritrova anche nella musica, ad esempio nella nascita dell’orchestra senza
direttore, come la Persimfans.
3.Escursioni e processi
È significativo che gli esempi dell’avanguardia russa di questo periodo tendano a riferirsi a singoli autori piuttosto che a
produzioni scritte collettivamente, come nel caso de L’assalto al Palazzo d’Inverno che è attribuito ad un singolo regista.
Questo è anche sintomo della debolezza artistica del teatro del Proletkult di autore collettivo.
Diverso accade con la Stagione Dada della primavera del 1921, prova che la dimensione collettiva sopravvive solo con
difficoltà ed è penalizzata dal fatto di non essere basata su un oggetto. Dada a Parigi si fondò sulle innovazioni del
Cabaret Voltaire a Zurigo (1915-17) e organizzò programmi misti di performance, musica e poesia. Il gruppo inoltre
organizzava rappresentazioni fuori dal contesto del cabaret e dentro spazi pubblici non istituzionali. Questi eventi entrano
in forte contrasto con i contemporanei esperimenti russi: entrambi cercavano di coinvolgere il pubblico e usare lo spazio
pubblico seppur con fini diversi; lo spettacolo di massa russo era ideologico, mentre Dada era totalmente anti-ideologico e
anarchico. Si ricordino anche la serie di manifestazioni tenute nel 1921 che cercavano di coinvolgere il pubblico parigino,
una serie di incontri di cui i più salienti furono un’escursione alla chiesa di Saint Julien-le Pauvre e Le procès Berrès.
Breton identificò tre fasi dell’’attività Dada per come si era sviluppata a Parigi:
1. Una fase vivace iniziata con l’arrivo di Tzara in città;
2. Una fase più incerta che aveva gli stessi obiettivi ma sotto la spinta di Aragon e Breton
3. Una fase di “malessere” dove il tentativo di ritornare alle forme iniziali causò maggiori divisioni fino allo
scioglimento del gruppo nell’agosto del 1922.
Dada concepì se stesso come un insieme di individui uniti dall’opposizione alle stesse cause (guerre, nazionalismo);
tuttavia lo stesso Breton spiega che nonostante si parli di “gruppo” ciò che domina è la forza immaginativa individuale,
tradendo così le origini romantiche del gruppo. Tuttavia non riuscirono a raggiungere la classe operaia, pur evitando le
provocazioni, in quanto era difficile digerire l’ “unico calderone” di idee che mettevano insieme.
La Stagione Dada prende così una direzione diversa. La prima parte della Stagione comprendeva “Escursioni e Visite”,
entrando nello spazio pubblico: la prima ebbe come punto d’incontro nel cimitero della chiesa di Saint Julien-le-Pauvre,
una chiesa abbandonata e sconosciuta, in una zona poco interessante, in quanto l’intento del gruppo era proprio quello di
organizzare escursioni in luoghi che “non hanno ragione di esistere”, al contrario di siti pittoreschi. I volantini su cui
queste iniziative erano sponsorizzate venivano decorati con una serie di slogan con grafica tipica Dada. La quantità di
pubblico che prese parte, invece, è controversa: Richter riferisce che piovve e non venne nessuno; Breton invece che
c’erano cento spettatori; le fotografie attestano un gruppo di diverse persone nonostante la pioggia. Breton lesse il
manifesto ad alta voce, lesse definizioni a caso prese dal vocabolario davanti a monumenti o sculture e ci sarebbe dovuta
essere anche un’asta di opere astratte. Valutando l’evento, Breton avrebbe voluto che fosse disturbante e sovversivo, ma
era arrivato a un punto morto. È cruciale quanto un mese dopo dirà in Inferni artificiali: il pubblico aveva preso gusto ai
loro spettacoli e si aspettava una provocazione, tanto che durante i prossimi spettacoli gli artisti vennero attaccati con
uova, monete e bistecche e fu per loro un grande successo. Raggiunto il massimo potenziale della provocazione, non c’era
più bisogno di ripeterlo, in quanto la tattica di provocare il pubblico stava diventando ormai stereotipata e il pubblico era
ormai loro complice. Da quel momento in poi, Breton ripensò gli eventi Dada in modi meno scandalosi, in quanto ormai
“lo scandalo sarebbe insufficiente a produrre il godimento che ci si può aspettare da un inferno artificiale”.
Per Breton era cruciale che Dada entrasse nello spazio pubblico, liberandosi del teatro per far confrontare il pubblico con
nuove azioni artistiche e spettatorialità. Ed è questo desiderio che porta ad un grande cambiamento nella modalità Dada:
ora bisognava trovare continuità tra l’opera d’arte e le loro vite, scende in piazza, verso forse di esperienza partecipativa
più accurate. Tuttavia questa novità non venne accettata da tutti, come da Picabia, mentre Breton conferma il
ri-orientamento verso obiettivi morali e politici, come dimostra Le procès Barrès.
Quest’ultimo si tenne a maggio del 1921, pubblicizzato come un’udienza dell’autore Barrès, il quale aveva sostenuto
l’anarchia, la libertà e il totale individualismo, m negli ultimi tempi era diventato borghese e nazionalista. L’evento era
basato su una forma sociale, il processo e coinvolge la partecipazione del pubblico, ora con un uomo più attivo, come
nella giuria. Ogni membro del gruppo aveva un ruolo specifico - difesa, pubblica accusa, presidente, testimoni ecc, mentre
Barrès fu sostituito da un manichino su misura. Vi è una frattura rispetto ai cabaret, in quanto qui vi è una collaborazione
non aggressiva con il pubblico. Nella trascrizione degli atti, Breton porta avanti una auto-riflessione: cerca di formarsi di
comprendere la posizione di Dada attraverso il caso di Barrès, ma la discussione fu molto demenziale rispetto ad altre
performance Dada. Ormai il gruppo doveva allontanarsi dal nichilismo che aveva caratterizzato il no-sense del Dada a
Zurigo. Breton descrive gli eventi della Stagione Dada come una discussione su argomenti morali e insinua che Dada a
Parigi ormai stia finendo.
Il Processo a Barrès è un punto di svolta nella performance Dada e un passo verso il Surrealismo, dove inizia a pregare
l’approccio intellettualistico di Breton sulle provocazioni anarchiche di Picabia e Tzara, i quali cercarono di provocare
disordine nell’aula. Il cambiamento più grande è che Dada ora voleva giudicare piuttosto che negare, quindi tentava di
prendere posizione piuttosto che opporsi al rifiuto a priori di ogni posizione. Non era uno spazio di caos senza senso, ma
si sta cercando un dibattito, ruotando su criteri politici e morali: il tradimento di cambiare ideologia applicato non solo a
Barrès ma anche a Breton, nell’ allontanare l’attenzione di Dada dalla negazione anarchica a giudizi di denuncia più
articolati. Ormai ben poco rimaneva di Dada in quanto si stava facendo strada un sistema di valori che ha portato Breton
ad aderire a Marx e Freud.
4.Coesione e rottura
Il Futurismo creava situazioni in cui il pubblico veniva sollecitato a partecipare contro gli artisti e un tale attacco ai
performer non era un fallimento ma un segno di successo, un indicatore della disponibilità attiva del pubblico ad
accogliere gli obiettivi degli artisti. Questi pubblici volevano avere un ruolo attivo. Breton si impegnò per evitare che
questo passaggio non fosse violento attraverso la creazione di azioni sociali di piccola scala realizzate in modo
collaborativo.
Parigi e San Pietroburgo funzionano come i poli opposti nell’ immaginare un’arte senza cornice nello spazio pubblico. In
Dada a Parigi, una tradizione autoriale e sovversiva tenta di provocare il publico dei partecipanti a un esame
auto-riflessivo delle proprie norme e dei propri costumi; nello spettacolo di massa russo, lo Stato impone la potenza
estetica della presenza collettiva per offrire una visione sullo sforzo nazionale mascherato come celebrazione dell’identità
proletaria transanazionale.
In tutti e tre i casi la questione della partecipazione diventa sempre più inestricabile da quella dell’impegno politico. La
partecipazione si accompagnava a un’attivazione adozione del nazionalismo di destra nel Futurismo; a un’affermazione
degli ideali rivoluzionari in Russia; solamente in Dada vi era invece una alternativa convincente alla partecipazione
motivata a livello ideologico. La relazione tra forma artistica e impegno politico diventa sempre più complessa, perchè
questi primi case studies subiscono delle trasformazioni nei decenni successivi: le escursioni Dada e surrealiste diventano
la derive situazionista, mentre lo spettacolo di massa russo diventa le grottesche esibizioni del valore militare e del
conformismo nei raduni di Norimberga, con lo slogan “no spettatori, solo attori”
La partecipazione si allontana da un’uguaglianza sociale imposta per andar verso la ricerca della libertà: la celebrazione
del lavoratore comune fu rimpiazzata da una valutazione degli oggetti ed esperienze quotidiane come elemento di
opposizione alle gerarchie culturali.
La “derivè” ha le sue radici nelle escursioni Dada e nelle passeggiate notturne surrealiste; venne utilizzata dai membri
dell'Internazionale Situazionista dai primi anni Cinquanta fino alla fine degli anni Sessanta come un modo di
disorientamento comportamentale. Spesso si svolgeva durante il giorno e in piccoli gruppi ed era fondamentale per la
“psicogeografia”, cioè comprendere gli effetti di un ambiente sul comportamento affettivo degli individui. Dunque una
presa di coscienza dell’ambiente circostante, diverso dall’ automatismo surrealista perchè dava meno importanza
all’inconscio dell’individuo. La derivè era un sistema di raccolta dati per l’urbanismo unitario dei situazionista, i quali
tentavano di oltrepassare l’effetto disumanizzante delle forme moderniste della società urbana, esemplificate
dall’architettura modulare di Le Corbusier.
Da una prospettiva storico-artistica, la derivè offre poco per l’analisi visiva. I resoconti scritti di Debord sono vari: il
primo rapporto del 1953 racconta che Debord intraprese una “derivè estesa” che comportava il girovagare per bar. La
notte di San Silvestro, parlando a voce alta per irritare gli altri clienti finchè Debord non è ubriaco. I resoconti successivi
sono simili e molto flauneristici. Altri racconti sono più analitici, come quelli di Khatib, il quale descrive l’atmosfera
diurna e notturna del quartiere di Halls, dando suggerimenti su come ripensare questo quartiere di Parigi come spazio per
le manifestazioni della “vita collettiva liberata”.
Guy Debord nella VII conferenza dell’IS del 1966 osservava come le strategie di derivè di gruppo e l’urbanismo unitario
dovessero seguire la loro lotta contro l’architettura utopica, la Biennale di Venezia, gli happening e il GRAV. Questi ultimi
due si svilupparono sempre a Parigi negli anni Sessanta e sono altre forme di arte partecipativa. Nessuna di queste tre è
una forma canonica di arte: esiste poca letteratura sul GRAV, l’attenzione su Label è recente e l’IS non può essere
considerata solo un gruppo di artisti e soprattutto non sono un gruppo di produttori di arte partecipativa. L’interesse per
l’IS per la partecipazione deriva da un’adesione completa alla società, dunque non è da intendere nel senso di Lebel e del
GRAV, ovvero per descrivere una strategia artistica di natura laboratoriale.
Continuano a prevalere le metafore teatrali: Lebel fu influenzato dal Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud; il primo
trattato della sezione francese dell’IS porta il titolo di “Nuovo teatro delle operazioni nella cultura”. Ciascuno dei gruppi
presenta una diversa soluzione al problema della raffigurazione delle esperienze partecipative effimere: il GRAV lascia
sculture e installazioni; Lebel fotografie da interpretare o disegni; l’IS lascia film, trattati discorsivi o modelli
architettonici per continuare lo spirito del loro progetto. Vi sono anche differenze politiche tra i tre gruppi (populismo,
anarchismo, marxismo).
È importante collocare queste attività nel loro contesto politico: nel 1959 ci fu la Rivoluzione cubana che riaccese la
speranza di sinistra; crolla anche la Quarta Repubblica in Francia e viene eletto de Gaulle che inaugurò la Quinta
Repubblica. Il Presidente parlava anche di "partecipazione dipendente”, termini usati poi per indicare la società del
consumo da Touraine, ma per de Gaulle denotava una società basata sul consenso volontario e degna di essere celebrata.
Alcuni artisti furono entusiasti nel fare della partecipazione un principio fondamentale della loro pratica, mentre altri la
rifiutarono in quanto modalità di coercizione artistica equivalente alle strutture sociali, “come se la partecipazione fosse
dovuta”. Si arriva poi nel ‘68 a slogan come “essere liberi vuol dire partecipare”.
Nei circoli artistici la partecipazione fu intesa inizialmente come arte interattiva e cinetica, una nuova modalità popolare e
democratica. Si inizia così a parlare di un’arte democratica: Michel Ragon vede questa maggiore accessibilità negli
esperimenti del GRAV con il gioco e il labirinto o nella collaborazione con l’industria, mentre Frank Popper collega la
partecipazione all’uguaglianza sociale, traendone quindi vantaggi sociali nonostante la scomparsa dell’opera e la ridotta
responsabilità dell’artista. Gli scrittori vedono nell’arte partecipativa una nuova tendenza democratica con implicazioni
sociali e anche questo va contestualizzato, tenendo conto dell’arte francese degli anni Cinquanta, dominata dall'astrazione
dell’arte informale e dal realismo figurativo. Il surrealismo era ancora una presenza culturale molto forte, anche se in
maniera decadente, in quanto per la generazione di artisti più giovani l’inconscio era sopravvalutato; man mano il punto di
riferimento divenne Dada al posto del Surrealismo, non solo per l’IS ma anche per Lebel e i Nouveaux Realistes del 1960.
Tuttavia, come dimostra la prima Biennale di Parigi del 1959 con una convergenza tra arte e alta moda o la
popolarizzazione dei multipli d’artista, l’arte partecipativa nella Parigi degli anni Sessanta seguiva un’idea di democrazia
intesa come uguaglianza nel sistema capitalista consumista e in rari casi si mostrò interesse per l’approfondimento di
questioni come la differenza di classe.
1.L’IS: oltre l’arte
L’Internazionale Situazionista nacque da un certo numero di gruppi artistici e letterari del dopo guerra, come il Lettrismo
(1946-52), l’Internazionale Lettrista (1952-7), il Movimento Internazionale per il Bauhaus Immaginista (1953-7) e CoBrA
(1948-51). Vi sono diversi passaggi:
1. Guy Debord e Gil Wolman si erano raccolti già nei primi anni Cinquanta intorno al poeta rumeno Isidore Isou,
attratti dalla sua ambizione di voler distruggere il linguaggio letterario;
2. Nel 1952 si dividono dal poeta perchè ritenevano che i suoi ideali fossero troppo estetici e venne formata
l’Internazionale Lettrista, con l’obiettivo di trasformare la vita quotidiana. Lo scopo dell’arte non era produrre
oggetti, ma criticare la mercificazione dell’esistenza;
3. Nel 1957 i membri dell’Internazionale Lettrista si uniscono agli altri artisti danesi e italiani per creare l’IS.
Le loro attività principali si diffusero in molte città europee (Parigi, Amsterdam ma anche Germania e Italia) e presero la
forma di film, collage, oltre molti scritti pubblicati nei dodici numeri della rivista “Internationale Situationniste” tra il
1958.72, su argomenti quali il razzismo, situazioni politiche, resoconti di conferenze, mentre sull’arte c’era poco, di cui si
ricordano solo i due tentativi di rovesciare i modelli espositivi con il “labirinto” e la “manifestazione”. Dunque vi è subito
un grande interesse per l’attualità più che per l’arte visiva, anche se la prima uscita della rivista si basa sulle dichiarazioni
del surrealismo, rivendicando la libertà di spirito. Tuttavia, il movimento perse importanza e fu sostituito da Dada,
essendo così “figli di entrambi”, come riporta Bernstein.
Il rapporto tra l’IS e l’arte visiva fu contraddittorio: l’arte doveva essere abolita affinchè si realizzasse come vita. Si
possono individuare due fasi sulla base di questo rapporto.
La prima fase (1957-62) è il periodo più ben disposto nei confronti dell’arte: in questi anni vi furono mostre di Asger Jorn
e Giuseppe Pinot Gallizio nel ‘59. Entrambi volevano mettere in discussione il concetto di autorialità singola: Jorn
dipingendo su quadri già dipinti e comprati al mercato, e Pinot Gallizio presentando quadri astratti su rotoli di tela che si
potevano comprare a metraggio, definiti come “pittura industriale”.
Nel 1960 l’equilibrio inizia a mutare: i due artisti vennero espulsi dall’IS. Dopo il 1962 il gruppo si oppose sempre di più
all'arte intesa come attività separata dalla prassi rivoluzionaria, mentre Lefebvre, che dialogava con Debord, proponeva
un’arte in grado di trasformare la vita quotidiana, attaccando il Surrealismo per il suo ricorrere al “meraviglioso”. I
membri si chiusero fino ad escludere gli artisti, le cui attività non andavano d’accordo con l’arte radicale voluta da
Debord. L’arte non fu più inclusa nel programma della quinta conferenza dell’IS che si tenne nel 1961. È quindi in questi
anni che si ha una secca fase, quella della spaccatura, teorizzata per la prima volta da Peter Wollen. Per Debord non
c’erano mai stati movimenti rivoluzionari nella politica o nell’arte a partire dagli anni Trenta e quindi il compito dell’IS
era quello di superarle entrambe, integrando l’arte con la vita. Questa negazione hegeliana porta alla tabula rasa: bisogna
rinunciare all’arte e farlo per raggiungere una vita quotidiana ricca ed entusiasmante quanto l’arte, superando così
l’alimentazione schiacciante. Ecco perchè i loro scritti sono anti-visivi, ma ciò non significa che rifiutino la dimensione
estetica tutta, in quanto arte e poesia restano comunque importanti per un’esperienza non alienata.
Debord scriveva che non c’erano opere d’arte situazioniste, ma solo usi situazionisti delle opere d’arte: riporta l’esempio
di un gruppo di studenti di Caracas che durante una mostra d’arte francese portarono via cinque dipinti, chiedendo poi il
rilascio dei prigionieri politici in cambio delle opere. Questo era un modo esemplare di trattare l’arte del passato,
rimettendola in gioco per ciò che davvero importava nella vita. Per Debord, una pratica culturale di tipo critico non
avrebbe creato nuove forme, ma avrebbe usato quelle già esistenti attraverso la tecnica situazionista del dètournement,
cioè l'appropriazione sovversiva di immagini esistenti al fine di rovesciare il loro significato stabilito. Per l’IS un buon
detournement capovolgeva la funzione ideologica, ma senza inventirne a forma dell’originale per mantenere la sua identià
(esempio di Debord: la messa nera, inverte il rito cattolico ma mantiene la sua struttura). Questa teoria trova dei
precedenti nel fotomontaggio dadaista e nell’assemblaggio surrealista che tentavano di distruggere il significato delle
immagini (es. i fotomontaggi anti-hitleriani di Heartfield). Debord, inoltre, riteneva che la critica non dovesse avere una
forma razionale, tant’è che anche le alternative dell’IS all’arte visiva, cioè la derivè e la situazione costruita, enfatizzavano
l’importanza del gioco. Sono attività poco documentate e quindi difficili da analizzare, ma vi sono molte mappe e schemi,
come la Guida psicogeografica di Parigi di Debord, dove la città è mostrata frammentata, collegata da aree vuote e frecce
rosse, dunque non ha una funzione, è una pessima guida della città, è una interpretazione personale di Debord; ci aiuta a
valutare le nostre sensibilità rispetto all'ambiente urbano, suggerendo una tecnica.
Quando l’Internazionale Lettrista confluì nell’Internazionale Situazionista, prevalse un terzo concetto: la situazione
costruita. Nella prima uscita della rivista fu definita come un “momento della vita, concretamente costruito tramite
l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti”. La situazione costruita aveva una
struttura partecipativa, in opposizione al non-intervento, l’alienazione dello spettacolo. Furono realizzate collettivamente
in opposizione al capitalismo, negano l’autorialità individuale e rifiutando la burocrazia e il consumismo attraverso il
gioco. Molto si deve a Lefebvre, soprattutto per la “teoria dei momenti”, ovvero quegli istanti che intensificano la
quotidianità. Tuttavia una difficoltà era individuare il suo inizio e la fine, cosa in comune con forme del teatro
post-brechtiano, come gli happening. Vi era inoltre una certa avversione contro la documentazione per evitare l’imitazione
o la reificazione in opera d’arte; l’enfasi era posta su l'istantaneità, l’immediatezza. Basandosi sul gioco, la vita poteva
essere concepita come una serie di situazioni costruite. Mentre oggi l’autorialità del singolo è percepita in maniera
negativa e gerarchica, l’IS non era interessato a lavorare con un pubblico generico, ma le situazioni erano prodotte
insieme agli altri membri, dato anche dalla linea intransigente di Debord che rende il gruppo esclusivo; c’era quindi una
gerarchia, dei ruoli precisi, un capo che organizzava i viveurs.
L’unico tentativo di costruire una situazione per un pubblico più vasto è stata la mostra “Il mondo come labirinto” per lo
Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1960: una derivè di tre giorni, con una micro-derivè in due sale del museo; si
sarebbe trattato di una installazione con un sistema che produceva nebbia, pioggia e vento artificiali. La derivè all’aperto
comprendeva due gruppi, ciascuno con dentro tre situazionisti che avrebbero vagato per la città per raggiungere i luoghi
indicati dal regista. È significativo che il gruppo faccia notare un “certo aspetto teatrale nel suo effetto sul pubblico”,
alludendo allo spettacolo visivo del gruppo per la città: questa esperienza è confrontabile con il teatro visivo di Dada,
quando Breton e gli altri producono una “scultura sociale” con il pubblico generico nel cimitero di Saint Julien-le-Pauvre.
4.Un’insurrezione teatrale
Ognuna di queste attività di gruppo mirava a colpire direttamente la coscienza dell’osservatore per liberarla in modi
diversi. L’IS offrì modelli per giochi creativi e concettuali all’interno di una città consumista e ciò portò anche a rifiutare
le altre forme d’arte e il concetto di pubblico di massa. Il paradosso è che l’IS rifiutava l’arte ma la invocava
continuamente come parametro per una vita non alienata. La logica contraddittoria di questa posizione è produttiva e
supera l’interattività tecnologica del GRAV, che insistendo sulle esperienze fisiche finisce per semplificare l’opera d’arte.
Lebel, al contrario, creava riti collettivi quasi terapeutici in cui erano espressi e sfidati i tabù e le inibizioni sociali. Il suo
lavoro tentava di superare le consolidate dicotomie che strutturavano il pensiero sull partecipazione, come la distinzione
tra artista e pubblico o spettatorialità attiva e passiva. Queste tre tendenze sono state un apripista per il rifiuto sociale del
‘68 ed è significativo che dopo quel maggio Lebel smise di fare happening perchè riteneva che fossero stati fatti nelle
occupazioni e nelle proteste. Così il sogno avanguardista di trasformare l’arte in vita attraverso l’esperienza collettiva era
stato realizzato. Che l’IS definì il maggio del ‘68 come la realizzazione delle sue idee. Dopo questo momento l’IS e il
GRAV si sciolsero.
Questi esperimenti partecipativi prima del ‘68 portano a diverse importanti opinioni sul pubblico. Nessuno di loro da
importanza all’identità dei partecipanti, ma anzi c’era assenza di coscienza di classe tra gli artisti. Debord e Lebel
venivano da famiglie benestanti e non guardavano al di là della comunità di artisti. Il GRAV, al contrario, cercava un
pubblico generico. Dunque il desiderio degli artisti di oggi di raggiungere gruppi sociali senza diritti o marginali è uno
sviluppo più recente che riflette l’influenza delle arti di comunità degli anni Settanta.
Nonostante non si possa ridurre l’attività dell’IS all’arte partecipativa, le loro esperienze assieme a quelle del GRAV e di
Lebel, servirono a consolidare il dibattito degli anni Sessanta intorno all’arte partecipativa come arte fondata sulla
polarizzazione tra spettatorialità attiva e passiva. Questi esperimenti furono messi in discussione negli stessi anni in
Argentina dove si affrontò la partecipazione in maniera diversa, attraverso esperimenti di separazione sociale e non
situazioni di unione collettiva.
4.SADISMO SOCIALE ESPLICITATO
L’Occidente ha iniziato ad interessarsi all’arte argentina degli anni Sessanta solo di recente, tuttavia figure come Léon
Ferrari non si sono ancora affermate come dovrebbero, come anche i singoli artisti che partecipano a progetti collettivi, ad
esempio Tacumàn Arde del 1968. Vi sono comunque diverse forme di arte partecipativa date dall’influenza di Oscar
Masotta, mentre un ponte tra azione artistica e politica di sinistra sono le azioni teatrali del regista brasiliano Augusto
Boal che ebbe un seguito notevole negli anni Settanta. Questi artisti non si conoscevano tra loro ma utilizzavano le stesse
strategie artistiche: considerare la realtà e coloro che la abitano come materiale, voler politicizzare quelli che entrano in
contatto con questo tipo di opera. La priorità di Boal era la rivoluzione in sè, come per l’Internazionale Situazionista, che
rifiutava l’arte in favore del cambiamento sociale; tuttavia la sua premessa era quella di aderire a nuovi metodi di
educazione pubblica e la costruzione della fiducia in se stessi dei partecipanti.
Le azioni partecipative prodotte in Argentina erano in contrasto con quanto succedeva in Brasile, dove le forme fredde
dell’astrazione europea vanno verso un’esperienza fatta di colore e tattilità. Quindi se l’arte brasiliana si basava sul
sensuale, l’arte argentina era meno visiva e tendeva a produrre situazioni, con una storia di gesti isolati che invitavano gli
spettatori a pensare e analizzare, seguendo quindi un approccio più analitico. Si dà inizio a una controparte importante
dell’arte partecipativa che contemporaneamente si sviluppava in America del Nord e in Europa. In Argentina il modello
degli happening fu contestato quasi subito e criticato tramite lo strutturalismo e la teoria dei media.
Questa scena è anche causata da dittature sempre più coercitive (si ricordi ad esempio la Rivoluzione argentina del ‘66-70
o la Guerra “sporca” del ‘76-83 dove i mezzi di comunicazione di massa passarono sotto il controllo delle forze armate)
che imposero nuove forme di censura e repressione.
1
A giugno del 1966 inizia la Rivoluzione argentina
venti anziani di ceto medio-basso, vestiti da “poveri”; inoltre inizialmente dovevano anche avere delle bandierine per
chiedere di andarsene, ma questo avrebbe addolcito la situazione e l’effetto cercato, al contrario, era quello di
un’esperienza nuda e dura, in contrasto con l’immagine frivola mediatica degli happening. L’atto di manipolazione
avveniva nella reificazione, enfatizzando la distanza economica e psicologica tra spettatore e attore, in contrasto con la
tendenza degli happening ad eliminare questa distinzione. L’happening fu definito da Masotta come un “atto di sadismo
sociale esplicitato”, sempre secondo l’interesse lacaniano di Masotta. Il titolo dell’happening inoltre richiama quello di
Lebel Per esorcizzare lo spirito della catastrofe anche se le due opere erano molto diverse in quanto Lebel faceva
riferimento alla politica della Guerra fredda e cercava l’emancipazione collettiva tramite la nudità e l’espressione sessuale,
rifiutate da Masotta, mentre probabilmente la sua intenzione era quella di avere un punto di riferimento internazionale per
il proprio lavoro. Tuttavia un riferimento più pertinente può essere un evento di La Monte Young a New York a cui
Masotta partecipò nel 1966 in cui un suono elettronico esasperante veniva emesso dall’opera. L’interesse dell’artista per
l’aggressione nei confronti del pubblico viene svelato da Suceso Plàstico di Minujin nel 1965 dove uomini e bambini
erano sollevati da body-building, altre donne si rotolavano per terra, alcune coppie attaccate insieme da nastro adesivo,
fino a che un elicottero non rovesciò dal cielo farina, lattuga e 500 polli vivi in testa al pubblico che non poteva lasciare lo
stadio. Fu un importante precedete per lo sviluppo di una performance in cui i partecipanti erano al centro come oggetto e
materiale del lavoro.
Le altre due performance di Masotta furono L’elicottero e Il messaggio fantasma: ciò che le accomuna è la divisione dei
pubblici per formare due gruppi d'esperienza inconciliabili, come nella performance vista, dove uno dei due gruppi pagava
per vedere il disagio degli altri. Il punto centrale era la frammentazione, la mancanza di un’esperienza unificata,
interrompendo il flusso comunicativo, che così nega l’happening stesso, in confronto alle esperienze americane ed
europee.
4.Teatro Invisibile
Il regista brasiliano Augusto Boal (1931-2009) porta il teatro negli spazi pubblici dell’America del Sud e sembrasse avere
molto in comune con gli ultimi eventi del Ciclo. I suoi lavori inizialmente adattavano i classici stranieri come Gogol o
Molière, negli anni Sessanta, arrivando a ripensare la relazione pubblico/attore secondo le nuove forme della performance
partecipativa, con il fine di elevare la consapevolezza e dare potere alla classe operaia. Si concentrò molto
sull’eliminazione degli spettatori per renderli “spett-attori”, come “prova della rivoluzione”.
Una delle sua innovazioni più importanti per l’arte contemporanea fu quella del Teatro Invisibile, creato a Buenos Aires,
come modalità di azione pubblica e partecipativa senza cornice, evitando di essere individuati dalla polizia, così che
sarebbe sembrato uno spettacolo senza esserlo. Collaborando con un gruppo di attori, l’idea era quella di creare una legge
umanitaria così che la gente povera potesse mangiare nei ristoranti mostrando una particolare carta d’identità. Alcuni
attori si sedettero in un ristorante molto affollato, il protagonista decide di mangiare alla carta ma alla fine ammette di non
poter pagare e si offre di lavorare in cambio dei pasti, tuttavia il cameriere non lo asseconda nonostante l’insistenza e i
clienti sono sempre più interessati alla questione, finchè uno degli attori non inizia a raccoglie soldi per pagare il conto.
Questa integrazione tra artificio e realtà la si può paragonare agli ultimi eventi del Ciclo dove si opera di nascosto, senza
ammettere l’opera d’arte. In entrambi i casi il pubblico è agente attivo e la riuscita dell’opera dipende dal suo intervento,
tuttavia il lavoro di Boal va oltre: porta il teatro ad un pubblico che non riconosce se stesso come tale, inscenando un
dibattito sul tema del lavoro. Il Teatro Invisibile mirava a educare il pubblico, a essere più consapevole della differenza di
classe, fornendo uno spazio per il dissenso, dunque non si può negare la natura didattica di questo approccio, riuscendo
comunque ad entrare nello spazio pubblico senza dichiararlo.
Oggi Boal è più conosciuto per il Teatro Forum, più spontaneo, improvvisato e avviene all’interno di una cornice
educativa protetta. Inizia con una situazione che è presentata dagli attori al pubblico, che poi diventa protagonista
nell’ideare percorsi alternativi agli eventi iniziali. Lo scopo è imparare ad esercitarsi, preparando gli spett-attori alla vita
reale, imparando le possibili conseguenze delle loro azioni. Boal quindi cercava di avere un impatto positivo e non
provocare reazioni emotive davanti alla rappresentazione della difficile realtà sociale. Dunque la partecipazione poteva
essere usata per raccogliere idee su come cambiare la realtà. Un teatro didattico ma non come una volta, qui si impara tutti
insieme, pubblico e attori. Nel contesto dell’arte contemporanea è significativo il fatto di non avere immagini di queste
esperienze: la forza del pensiero di Boal si comunica meglio verbalmente, richiamando le innovazioni di Ejzenstejn negli
anni Venti che usava la realtà come scenario e le persone reali come attori.
Il Teatro Invisibile di Boal sembra anticipare molti episodi che hanno luogo negli spazi pubblici, senza preavviso e fuori
dalle gallerie, opere come Real Time Movie di Pawel Althamer si inseriscono nel flusso quotidiano senza preavviso, col
rischio di essere ignorate. Tuttavia a differenza di Boal che ricercava l’azione da parte dello spettatore partecipante, queste
nuove pratiche hanno paura che le possano essere soggette a una “manipolazione invisibile”.
È l’episodio più complicato della storia dell’arte partecipativa perchè il collettivismo, in questo periodo storico, è un
obbligo ideologico, una norma imposta dallo Stato. L’arte partecipativa nell’Europa dell’est e in Russia dai tardi anni
Sessanta agli anni Ottanta si caratterizza per il desiderio di una estetica più soggettiva e privata, rovesciando così il
modello occidentale. Le esperienze individuali, che costituivano l’obiettivo dell’arte partecipativa, sotto il comunismo
furono concepite come esperienze private condivise, con la costruzione di uno spazio artistico collettivo tra colleghi che si
fidavano tra loro. Queste esperienze sono complesse: gli artisti non consideravano politica la loro opera, ma esistenziale,
apolitica, legata alle idee di libertà e di immaginazione individuale, cercando una produzione artistica più vasta,
democratica, in contrasto con il sistema regolamentato dell’Unione degli Artisti Socialisti Sovietici.
Ci sono state diverse reazioni artistiche al regime, in linea con la relazione che ogni nazione aveva con Mosca, dalla
dittatura in Romania a tendenza più liberali nell’ex Jugoslavia con Tito. Tuttavia cambiamenti vi furono anche nella stessa
Mosca, dalla parziale destalinizzazione di Chruscev al ritorno alla linea dura conservatrice con Breznev. Per questi motivi
anche le relazioni tra est e ovest non furono semplici.
L’arte partecipativa è rara nei contesti sovietici, ma ci sono due blocchi che fanno eccezione: la ex Cecoslovacchia - Praga
e Bratislava - e Mosca con il gruppo di Azioni collettive. A differenza di quanto accadde in Argentina, qui fu alieno il
concetto di collaborare con comunità prive di diritti perchè tutti i cittadini erano uguali, co-produttoi, non esisteva
differenza di classe. Il problema era trovare partecipanti ffidabili che non avrebbero informato nessuno. Dunque la
partecipazione fu intesa come strumento per mobilitare l’esperienza soggettiva in amici artisti e non in un pubblico
generico. Tutte le registrazioni del regime determinarono anche l’aspetto formale di queste opere che erano sobrie e brevi,
spesso svolte in campagna, lontane dalla sorveglianza. Il fatto che molte di esse non sembrassero arte non è perchè si
volesse confondere “arte e vita”, ma più una strategia di auto-protezione.
5.Contro la dissidenza
L’arte partecipativa ai tempi del socialismo reale degli anni Sessanta e Settanta è un contro-modello rispetto agli esempi
occidentali. Non aspirano alla creazione di una sfera pubblica partecipativa in contrapposizione ad un mondo privatizzato
e di consumi individuali, ma gli artisti cercano di lavorare in modo collaborativo per coltivare l’individualismo, per cui le
loro opere non sono politiche ma operano sul piano esistenziale, rivendicando la libertà individuale in forme silenziose.
Gli artisti argini usavano la partecipazione per premere sulle coscienze del pubblico e sulle condizioni sociali; gli artisti
sotto il regime comunista non avevano obiettivi del genere, ma era un modo per esprimere una modalità più autentica (in
quanto individuale) rispetto a quella stabilita dallo stato nelle parate ufficiali. Ad oggi vengono criticati perchè indicano u
rifiuto da parte degli artisti di impegnarsi nella loro realtà politica, ma questo evidenzia la nostra scarsa capacità di saper
difendere il valore intrinseco dell’esperienza artistica. Se queste performance sono politiche, lo sono nel senso di Ranciere
e quindi metapolitiche. La realtà della vita quotidiana sotto questi regimi necessita di un’interpretazione più sobria dei
gesti artistici e bisogna riconoscere l’astuzia con cui molti di essi furono compiuti.
Dopo il ‘68 in Gran Bretagna ci furono due tentativi per ripensare il ruolo dell’artista nella società:
1. APG, Artist Placement Group, fondato da John Latham e Barbara Steveni, criticato nel giro di qualche anno;
l’artista si impegnava a lavorare in una azienda o un ente;
2. Il movimento delle arti di comunità, grazie ad una spinta internazionale che cercava di rendere democratica e più
accessibile l’arte a pubblici meno privilegiati; l’artista assume il ruolo di facilitatore della creatività della gente
“comune”.
Tuttavia bisogna considerare che c’è poca bibliografia a riguardo, ad esempio l’APG solo di recente è stata oggetto di
rivalutazione storica nel Regno Unito alla morte dell’artista e con la consegna dell’archivio alla Tate, ma anche grazie a
una nuova generazione di artisti e curatori che ha individuato dei paralleli tra le loro attività a quella del gruppo.
6.Declino
The Blackie e Inter-Action sono esempi atipici del movimento delle arti di comunità, dato che la maggior parte delle
organizzazioni fondate alla fine degli anni Sessanta non esistono più. Entrambi sono rarità perchè sono sopravvissuti ai
tagli di finanziamenti per l’arte negli anni ‘80. L’impulso originario delle arti di comunità si trasformò in una situazione di
dipendenza dalle sovvenzioni pubbliche, ove gli artisti di comunità assunsero sempre di più la posizione “non di attivisti”,
ma di quasi-impiegati di diverse agenzie di Stato,mentre allo stesso tempo negavano di sta lavorando per lo Stato. Gli
artisti di comunità si professionalizzarono, furono soggetti al controllo manageriale e la politica radicale non defnì più le
loro idenità. La missione egualitaria fu sostituita dalle politiche conservatrici di coloro i quali controllavano i piani di
spesa. Questo fu colpa degli artisti di comunità ma anche del governo, in quanto non fu elaborato un insieme di
definizioni corrispondenti alle attività di comunità, ma solo un seno etico di cosa fosse “buono” fare. Come si è visto con
la relazione del ‘74 dell’Arts Council, la definizione di arte di comunità è vaga, ci si concentra su come essa opera e non
su cosa facesse. Si seguirono quindi criteri più etici che artistici, con una politica implicita in modo da non compromettere
i finanziamenti. Data questa forma di cautela, si può capire come nel successivo rapporto dell’Arts Council cambia il
significato di arti di comunità: le arti di comunità non erano più indirizzate al processo di democratizzazione della
produzione culturale, ma erano un mezzo per introdurre le persone all’arte delle elites, un percorso di civilizzante che
porta le persone verso la cultura alta, al posto di disfare le gerarchie stesse. L’impulso originario delle arti di comunità
diede origine negli anni Ottanta all’emergente tendenza del rave.
Oggi le arti di comunità tendono ad auto-censurarmi nella paura che i partecipanti in condizioni di Isacco non possano
comprendere altri modi di produzione artistica. Uno dei problemi, in comune con l’arte impegnata socialmente oggi, è che
le arti di comunità non hanno un pubblico secondario perchè non hanno in mente un pubblico critico. Comparazione e
valutazione con altre attività creeebbero gerarchie, nemiche del principio di uguaglianza. Tuttavia la mancanza di un
dibattito critico rese l’arte di comunità inoffensiva e non minacciosa per lasabilità sociale e culturale.
Negli anni Sessanta le arti di comunità avevano un carattere oppositivo dato che i finanziamenti della cultura erano nelle
mani dell’alta borghesia che valutava la qualità estetica. Ad oggi la de-gerarchizzazione è meno urgente in quanto tutti
possono produrre immagini e condividerle globalmente sui social network. Boris Groys avanza la tesi che i social network
siano una forma d’arte concettuale di massa, uno “spettacolo senza spettatori” al posto della società dello spettacolo.
Tuttavia se da un lato proliferano le comunità virtuali, d’altra parte c’è il richiamo alle interazioni dal vivo negli ultimi
decenni, dando spazio alla specificità del luogo (site specificity).
7.EX OVEST: ARTE COME PROGETTO NEI PRIMI ANNI NOVANTA
Abbiamo visto i tentativi di ripensare il ruolo dell’artista e dell’opera d’arte in rapporto alla società in varie forme di arte
partecipativa, ma è da notare che il tutto giri attorno a due momenti rivoluzionari: il 1917, quando la produzione artistica
viene allineata al collettivismo bolscevico; il 1968, quando la produzione artistica inizia a criticare l’autorità,
l’oppressione e l’alienazione. Un terzo momento è quello del 1989, che segna la caduta del socialismo reale, inizialmente
celebrato come la fine di un regime repressivo e poi compianto come la perdita di un orizzonte politico collettivo
(smantellamento dello stato sociale ad occidente e introduzione del mercato capitalista a est).
In questo contesto l’arte degli anni Novanta inizia ad essere indicata con la parola “progetto”, usata inizialmente dagli
artisti concettuali nei tardi anni Sessanta, ora tende a indicare una proposta per un’opera d’arte. Il progetto sostituisce
l’opera d’arte, intesa come un oggetto finito, con un processo sociale aperto che si sviluppa fuori dallo studio dell’artista,
basato sulla ricerca sul campo e che può estendersi nel tempo e mutuare forma. Dagli anni Novanta questo termine
comprende vari tipi di arte, in particolare guardando all’arte partecipativa e impegnata socialmente, sperimentazioni
curatoriali. La Bishop fornisce così una contronarrazione della storia dell’arte mainstream sancita dal mercato e dalle
istituzioni. Questi “progetti” iniziano proprio nel momento in cui non c'è più un obiettivo politico condiviso
collettivamente, dunque c’è una grande relazione fra la progettualità artistica e quella politica.
Ad oggi l’interesse per la partecipazione e per l’impegno sociale caratterizzano la scena dell'ultimo ventennio, ma in realtà
nell’89 furono lenti ad emergere, indifferenti all’apertura dei confini da e verso l’est o all’ambito non occidentale della
mostra “Magiciens de la Terre” di Jean Hybert Martin, prima mostra globale, da confrontare con la Documenta 9 che
aveva solo una piccola parte di artisti non occidentali, ma di fatto era una mostra di scultura e pittura europea e
nord-americana. Diversa. Invece la Documenta 10, nel ‘97, in cui Catherine David si interessa a un’arte orientata
politicamente e socialmente, nonostante la poca presenza di pratiche collettive.
Il 1993 è l’anno di un passaggio chiave: fino ad allora i collettivi erano un fenomeno nord-americano, con un approccio
attivistico in risposta, ad esempio, alla crisi dell’AIDS. Questo tipo di lavoro deriva da pratiche site-specific e non dal
teatro o la performance. Il 1993 segna anche il consolidamento di un nuovo tipo di mostra site-specific, con mostre che si
riferiscono al sito dove si svolgono come a un fenomeno socialmente costituito. Ciò è in contrasto con “Skulpture
Projekte” e “Places Wittkower a Past: new site-specific art at Charleston’s Spoleto Festival”, dove entrambi utilizzarono il
sito espositivo come sfondo per un lavoro pieno di risonanze storiche. Ci sono tre mostre che vedremo che segnano il
passaggio dalla site specificity interpretata come oggetti in un luogo, al progetto di inserire l’artista stesso nel contesto
sociale.
2.Mostre performative
Altri esperimenti di esito tipo ebbero luogo in Francia, ma posero l’accento sulla “socievolezza” piuttosto che sulla
responsabilità sociale. Artisti come Philippe Parreno e Dominique Gonzalez-Foerster, concepirono la mostra come un
medium creativo in sè. I loro esperimenti comprendevano elementi come: il prolungamento della mostra, includere lavori
assenti dalla sede della mostra, cambiare l’allestimento nel corso della mostra; a volte sono anche stati proposti altri
formati di presentazione, letti attraverso la lente della mostra, come una rivista nel caso di Permanent Food di Cattelan o
una fattoria in Tailandia, come The land di Tiravanija. Bourriaud afferma che “è il socius che è il vero luogo espositivo
per gli artisti di questa generazione”, dove socius va interpretato non come un individuo della società, quanto utenti di un
canale di distribuzione attraverso il quale fluiscono informazioni e prodotti.
Il desiderio di sperimentare con il formato stesso della mostra deriva dall’ insoddisfazione verso l’approccio
convenzionale, ereditato dagli anni Ottanta, di realizzare mostre sulla presentazione di oggetti destinati a essere consumati
dal mercato. Già nel 1991 il curatore Eric Troncy sminuiva la mostra, paragonandola ad uno show-room. Troncy preferiva
pensare la mostra come un progetto artistico a priori, un esperimento dal risultato incerto. Si passa quindi dalle mostre di
gruppo realizzate attorno ad un tema alla creazione di un progetto che si dispiega nel tempo, rinunciando all’autorialità.
Troncy si pone come un collaboratore che lavora fianco a fianco con l’artista. Per Troncy, Bourriaud e i loro collaboratori,
questa idea di apertura era in opposizione all’arte critica degli anni Sessanta e Settanta, vista come un’arte dai significati
definiti e chiusi (es. Bourriaud dice che la speranza rivoluzionaria ha lasciato il posto a delle micro-utopie quotidiane).
Guardando la mostra “No Man’s Time” di Troncy, si evidenzia il suo essere un progetto aperto, concentrandosi sulla
collaborazione e sull’idea di presentare il lavoro nel suo farsi. Gli artisti presso la Villa Arson di Nizza passarono un mese
in residenza, durante il quale furono creati diversi progetti per quel sito. Il catalogo contiene il diario di queste settimane
scritto dal curatore, sottolineando il carattere conviviale di questo metodo di lavoro. Una delle idee chiave è la mostra
vista come un film, dove ci sono opere con ruoli principali e altre che sono solo comparse. Il riferimento al cinema era
evidente anche nel cartellone stradale di Parreno con la scritta “Benvenuti a Twin Peaks”. La mostra non proponeva tanto
una tesi sulla società o sulla cultura popolare, quanto un’affermazione degli interessi culturali comuni a dei particolari
artisti. Tuttavia l’osservatore era soggetto a un’esperienza di incompletezza perchè si ritrovava a dover rimettere insieme i
pezzi della mostra, crea su delle relazioni a loro invisibili, ovvero quelle che ci sono state nel mese di residenza che ha
preceduto la mostra. Il pubblico quindi aveva un accesso solo parziale a queste relazioni, riportate in chiave diaristica nel
catalogo. Le mostre relazionali di questo periodo appaiono come totalità non individualizzate piuttosto che come raccolte
di opere di molti individui, anche se spiccano alcuni lavori come frutto di autori ben distinti.
Uno degli autori importanti in questo contesto fu Rirkrit Tiravanija: le sue installazioni ed eventi hanno spinto l’ambito
conviviale e la partecipazione aperta verso il mainstream artistico e istituzionale. Molti dei suoi lavori nascevano a un
periodo di gestazione collettiva che precedeva l’inaugurazione di una mostra. In “Backstage” curata da Barbara Steiner,
gli artisti furono incoraggiati a interagire con lo spazio espositivo appena inaugurato con lo scopo di indagare il ruolo
dell’istituzione. Il contributo di Tiravanija comprendeva un tavolo, due panche delle scaffalature industriali con sopra
degli utensili da cucina. La cosa funzionò prima della mostra e non durante, difatti uno dei paradossi delle sue pratiche è
che le relazioni conviviali tra un piccolo gruppo di persone, produce allo stesso tempo una condizione di maggiore
esclusione verso il pubblico generale.
Tuttavia questa sperimentazione curatoriale era possibile se gli artisti stessi fossero interessati a progetti aperti e indefiniti,
stabilendo un dialogo reciproco tra loro. Quando invece questo modello di mostra è imposto dal curatore a un gruppo di
artisti che non sono in dialogo tra loro, i risultati sono più complessi. È il caso della mostra “Interpol”, una collaborazione
tra il curatore russo Viktor Misiano e lo svedese Jan Aman, con artisti che appartenevano a due scene politiche molto
diverse tra loro dopo la fine del socialismo. Lo scopo era realizzare un progetto russo-occidentale sul modello
collaborativo e democratico, tuttavia questo non accadde in quanto venne a mancare il dialogo tra gli artisti stessi, creando
risentimento tra le due parti. Questa struttura aperta aveva funzionato con le mostre di Troncy perchè gli artisti erano stati
all’altezza della situazione, cosa che non poteva accadere con delle differenze ideologiche che generavano conflitto tra i
partecipanti e portavano ad una mostra sconnessa e incoerente. Misiano riconosce che la mostra fallì. A causa del suo
romantico desiderio di esportare nel contesto dell’Europa occidentale l’esperienza collettivista dell’est, tentando di forzare
un processo collaborativo tra due gruppi di artisti con interpretazioni del tutto diverse del loro ruolo nella società, in
quanto per gli artisti russi l’arte è l’esperienza del vivere, per gli artisti svedesi è la propria posizione all’interno dei
confini del sistema dell’arte. Tutttavia “Interpol”, come anche “No Man’s Time”, dimostra come nei primi anni Novanta
la mostra veniva pensata come un progetto aperto, processuale, conviviale e senza un obiettivo definito oltre a quello della
collaborazione come valore in sè, seppur il risultato finale per i visitatori era fallimentare in quanto avrebbero visto solo
un frammento di una processo più grande in corso.
Durante il periodo post-‘89 ci fu una manifestazione ulteriore della svolta sociale nell’arte contemporanea con la nascita
di un nuovo genere di performance, ovvero la performance per delega. Il tratto distintivo fu l’ingaggio di performer non
professionisti, essendo questi eventi intrapresi non dagli artisti stessi. Tutte queste opere mantengono un facile rapporto
con la galleria, sia assumendola come cornice per una performance, sia come spazio dove esibire fotografie o video.
Questa strategia è diversa dalla tradizione teatrale e cinematografica, di persone dirette dal regista: gli artisti
tendenzialmente ingaggiano persone che mettono in scena la propria categoria socio-economica di appartenenza, rispetto
al genere, la classe, l'etnia o la professione. Sono opere diverse da quelle dei capitolo precedenti, si tratta di una novità e la
valutazione critica è ancora in fieri. Uno degli obiettivi è affrontare la performance per delega in maniera più articolata
come pratica artistica, non semplicemente come micro-modello di reificazione. Ci sono tre diverse manifestazioni di
questa tendenza, attingendo dalla body art, Judson Dance, Fluxus.
3.Perversione e autenticità
Klossowski rappresenta nella teoria francese un ponte tra Bataille e Lacan e i filosofi della generazione successiva, come
Lyotard e Baudrillard. Questi ultimi prendono da. Lui l’idea dell’economia libidinale e del discorso istituzionale. Il suo
interesse per il corpo umano come moneta vivente appare come una meditazione sul mondo in cui i soggetti possono
arrivare a pervertite e quindi godere la propria stessa alienazione sul lavoro. Seguendo la sua logica è come se l’artista
della performance per delega si ponesse in una posizione sadiana, di auto-sfruttamento percè sanno per esperienza che
auto-sfruttamento ed esibizione di sè possono essere essi stessi una forma di piacere. Dunque è una mezza verità
affermare che la performance per delega reifica chi partecipa. Da un punto di vista saziano, questa lettura non mostra il
piacere occulto del partecipante nello sfrutta la propria subordinazione in queste opere d’arte nè rende conto del piacere
evidente che provano gli spettatori nel guardarlo. Gli scritti di Klossowski ci invitano ad andare oltre l’impasse delle
posizioni degli anni Sessanta, facendoci carico di una rete più complessa di impulsi libidinali che richiedono
di-negoziazioni infinite. Nonostante l’artista deleghi il potere al performer, la delega non è un gesto a senso unico rivolto
verso il basso. Anche i performer delegano qualcosa all’artista: una garanzia di autenticità, negata per convenzione
all’artista che si occupa solo di rappresentazioni. L’artista appalta all’esterno l’autenticità e confida che i suoi performer la
comunichino senza filtri. Allo stesso tempo il realismo chiamato in causa da questa operazione non è un tipo di autenticità
modernista, demolito dal post-strutturalismo, ma danno vita a una forma di autenticità eterodiretta: l’autorialità
individuale è messa in dscussione dal delegare il controllo dell’opera ai performer, i quali sono una garanzia di realismo,
ma lo fanno tramite una posizione autoriale di cui nno può prevedresti il risultato. L’artista allo stesso tempo perde e
rivendica il potere, accetta di perdere temporaneamente il controllo della situazione prima di tornare a elezionare, definire
e fare circolare la rappresentazione. È essenziale servirsi di dilettanti perchè questo assicura che la performance per delega
non assuma mai il carattere della recitazione professionale, tiene aperto lo spazio di rischio e ambiguità. E quando gli
artisti rendono visibili e disponibili a una piacevole fruizione esperienza al gi schemi della subordinazione istituzionale
quotidiana, il risultato è una nausea morale. Il piacere della reificazione in queste opere è analogo a quello che proviamo
nel nostro auto-sfruttamento. Questo è il senso dell’analisi perturbante di Klossowski.
4.Performance nel contesto
La Bishop quindi tenta una interpretazione della performance per delega più complessa rispetto a quella offerta dal quadro
marxista della reificazione o del miglioramento sociale (cap 1) perchè queste posizioni riportano le opere a problemi
ordinari di correttezza politica. I piaceri perversi di questi gesti artistici offrono una forma alternativa di conoscenza
riguardo alla mercificazione dell’individuo propria del capitalismo, specie quando sia partecipanti che spettatori godono
della trasgressione di subordinazione all’opera d’arte. L’arte quindi va vista come offerta di uno spazio specifico di
esperienze dove quelle norme sono sospese e volte in piacere in modi pervers. Invece che giudicare. L’arte come modello
di organizzazione sociale è più produttivo vedere la concettualizzazione di queste performance come vere decisioni
artistiche. Questo non significa che gli artisti siano disinteressati all’etica, ma che la loro etica è il grado zero di ogni arte
collaborativa. Giudicare un’opera sulla base della sua fase preparatoria significa trascurare l’approccio individuale di ogni
artista. Ci sono quindi questioni più ampie: gli artisti scelgono di usare le persone come loro materiale per molte ragioni,
come sfidare i criteri artistici tradizionali, introdurre effetti estetici di probabilità. Rischio, dare visibilità a determinati
gruppi sociali. La differenza sta tra l’arte da fiera d’arte e i migliori esempi di questi lavori che reificano allo scopo di
mettere in discussione la reificazione o sfruttano per tematizzare lo sfruttamento in sè. Nei casi peggiori, la performance
per delega produce una specie di reality fittizio pensato per i media, invece di una presenza che svela la mediazione stessa.
Tuttavia nei casi migliori produce venti che testimoniano una realtà condivisa tra osservatori e performer, sfidando i modi
in cui siamo abituati a pensare riguardo al piacere e all’etica.
9.PROGETTI PEDAGOGICI: È’ POSSIBILE FAR VIVERE UNA CLASSE COME FOSSE UN’OPERA
D’ARTE?
Quando la pratica artistica si dichiara pedagogica si creano delle contraddizioni: l’arte è fatta per essere vista, mentre
l’istruzione non ha immagine. Il pubblico non è fatto di studenti e gli studenti non sono il pubblico, nonostante le loro
relazioni con l’artista e l’insegnante creino dinamiche simili. Tuttavia l’esperienza dell’arte partecipativa ci spinge a
pensare a queste categorie in modo più elastico, mentre gli artisti si riferiscono come arte ai loro interventi nei processi
sociali. La partecipazione mette in crisi l’idea tradizionale di spettatorialità, ripensando d un’arte priva di pubblico, dove
tutti sono produttori, anche se il pubblico non si può eliminare perchè non tutti possono partecipare a tutti i progetti.
Negli anni Duemila sono aumentati i progetti pedagogici da parte degli artisti e curatori contemporanei. La cancellazione
di Manifesta 6 (2006), un tentativo di riorganizzare la biennale europea itinerante come scuola d’arte a Nicosia, segnò il
momento in cui questa tendenza subì una accelerazione, aumentando l’interesse ad esaminare la reazione tra arte e
pedagogia, motivati sia da argomenti artistici, come la crescita del contenuto intellettuale della convivialità relazionale, m
anche dalla nascita del capitalismo accademico. Dunque artisti e curatori si sono impegnati in progetti che utilizzano gli
elementi caratteristici dell’istruzione come conferenze, seminari, biblioteche, pubblicazioni e laboratori e scuole. Questo è
avvenuto insieme alla crescita dei dipartimenti educativi nei musei, le cui attività non sono più solo lezioni o laboratori,
ma includono reti di ricerca con le università e convegni interdisciplinari il cui obiettivo va oltre la valorizzazione del
programma espositivo del museo. Musei e scuole d’Europa hanno organizzato convegni volt a riesaminare le politich e le
potenzialità dell’educazione artistica e anche molte riviste d’arte si sono impegnate in questo. Tuttavia i progetti
pedagogici sono ancora marginali rispetto al mercato dell’arte.
Bisogna sicuramente notare la relazione tra arte e accademia: in passato quest’ultima veniva considerata come
un’istituzione arida ed elitaria, mentre oggi è un potenziale alleato dell’arte in un’era in cui tutto è sempre più
privatizzato. Tuttavia come nota Irit Rogoff, ad oggi si cerca di confondere gli aspetti dell’arte e della pedagogia con
l’impulso neoliberista a rendere la formazione un prodotto o uno strumento all’interno dell’economia della conoscenza.
Secondo Rogoff, sia l’arte che l’istruzione ruotano attorno alla nozione foucaltiana di “parresia”, ovvero di “unn parlare in
pubblico fin troppo libero e incontrollato”; una svolta educativa nell’arte e nella curatela potrebbe essere il momento in
cui partecipano alla produzione delle verità, ovvero la soggettività e che non si riflette in altre forme di espressione; una
teoria convincente ma generica perchè non vengono date ulteriori informazioni o dati. Nell’emisfero australe le revisioni
radicali della diattica furono necessarie per incrementare l’accesso all’istruzione e dotare le persone di nuovi strumenti
creativi, mentre negli Stati Uniti e in Europa, al contrario, studenti e oppressi erano sullo stesso piano, portando così dei
cambiamenti solo nei contenuti della didattica, dando per scontato che il processo democratico si sarebbe sviluppato di
conseguenza. Questo viene dimostrato anche dall’artista Luis Camnitzer, centrale per gli artisti che lavorano con la
pedagogia, quando indaga la storia dell’arte concettuale latino-americana, dove arte e pedagogia cercarono di resistere
agli abusi di potere da parte dello Stato. Si creano delle fratture che portano all’allontanamento dai modelli autoritari di
trasmissione del sapere e di avvicinamento all’obiettivo di trasferire il potere attraverso la diffusione della coscienza di
classe.
Tuttavia il punto di riferimento è Joseph Beuys per quanto riguarda l’impegno degli artisti contemporanei nella pedagogia
sperimentale, tanto da dichiarare che “essere insegnanti è la più grande opera d’arte”. Espulso dalla Kunstakademie dopo
aver protestato contro l’ammissione a numero chiuso, decise di fondare la Free International University nel 1973, con lo
scopo di rendere tutti delle persone creative attraverso un’accademia aperta, gratuita, non competitiva e con un piano di
studi interdisciplinare. Tramite questa Università cercò di realizzare la sua convinzione per cui l’economia non dovrebbe
essere confinata a una questione di denaro ma includere forme alternative di capitale, come la creatività delle persone.
Prima della creazione della FIU, le performance di Beuys avevano già preso le distanze da azioni simboliche per
rivolgersi ad un modello pedagogico, attraverso conferenze e seminari sulle strutture politiche e sociali. Uno dei progetti
successivi pi importanti fu 100 days of the Free International University organizzato per “Documenta 6” (1997) dove
tredici laboratori interdisciplinari, aperti al pubblico, includevano sindacalisti, avvocati, economisti, politic, giornalisti e
giovani artisti, andando oltre quindi gli studi umanistici per abbracciare le scienze sociali. Dunque Beuys prefigura un
importante filone della recente attività artistica, anche se non ci sono leader carismatici come lui, m spesso gli artisti
contemporanei tendono ad appaltare il lavoro di insegnamento a specialisti del settore. È stata data poca attenzione
all’attività di Beuys negli anni Settanta e solo Jan Verwoert fornisce una lettura più articolata del suo personaggio come
insegnante. Egli nota come Beuys fu allo stesso tempo troppo provocatorio e troppo progressista, in quanto rifiutava il
piano di studi, analizzava tutto il giorno il lavoro degli studenti e se necessario attaccava fisicamente l’arte degli studenti
stessi. Verwoert ritiene, inoltre, che bisogna concentrarsi sul parlare in pubblico dell’artista non come meta-discorso sulla
sua arte, ma come medium artistico sui generis. Dunque possiamo considerare il tenere discorsi e anche l’insegnare come
medium artistici.
Programmare eventi, seminari e dibattiti possono essere considerati tutti risultati artistici equivalenti alla produzione di un
oggetto finito o performance. Tuttavia l’arte pedagogica solleva un serie di problemi: cosa significa fare didattica come
arte? Come giudichiamo queste esperienze? I progetti pedagogici hanno uno status ambiguo. Le implicazioni
spettatorialità dell’arte che diventa formazione sono il tema ricorrente nei case studies indicati, ognuno con un approccio
differente al problema della spettatorialità in relazione al compito pedagogico, mostrando gli sviluppi che ci sono stati sia
nel lavoro basato sul progetto che nella sua documentazione a partire da “Culture in Action”.
1.Arte utile
Il primo progetto pedagogico degli anni Duemila è stato Catedra Arte de Conducta ovvero una scuola pensata come opera
d’arte dall’artista cubana Tania Bruguera. La sede era nella sua casa ne L’Avana Vecchia e gestita con l’aiuto di due
collaboratori era rivolta a fornire agli studenti d’arte cubani una formazione nell’arte politica. Bruguera fondò Arte de
Conducta (o “arte comportamentale”) alla fine del 2002, dopo la partecipazione a Documenta 11, per dare un contributo
concreto alla scena artistica cubana, in risposta alla sua mancanza di strutture istituzionali e infrastrutture espositive, in
parte in risposta alle continue restrizioni dello Stato sui viaggi e sull’accesso all’informazione dei cittadini cubani. Un
terzo fattore fu il nuovo consumo di arte urbana da parte dei turisti statunitensi sull’onda della Biennale de L’Avana del
2000, con molti artisti integrati nel mercato occidentale senza che ne avessero controllo. Uno degli obiettivi del progetto
era quindi preparare una nuova generazione di artisti ad affrontare questa situazione in modo auto-riflessivo, con la
consapevolezza delle logiche del mercato globale anche quando producono arte indirizzata al loro contesto locale.
Arte de Conducta va intesa come corso di due anni più che come una scuola d’arte vera e propria, in quanto gli studenti
non ricevevano crediti per la frequenza, ma l’iscrizione era necessaria per assicurare i visti ai professori esterni.
“Comportamento” è il termine alternativo che l’artista sceglie al posto di quello occidentale di “performance”, ma esso
indica anche la Escuela de Conducta, una scuola per giovani delinquenti in cui Bruguera aveva insegnato arte. Dunque il
suo focus era l’arte che si impegna nel reale, in modo particolare la connessione tra utilità e legalità, due aspetti che per
Bruguera devono essere messi sempre alla prova. Un esempio di lavori è il Registro della popolazione di Celia e Yunior,
in cui gli artisti avevano sfruttato la scappatoia legale per cui è possibile richiedere più volte le carte di identità, queste
sono state accumulate, evocando un lavoro di On Kawara, ma contemporaneamente indeboliscono l’unicità certificata che
associamo alle prove di identità.
Il rospo studentesco della scuola era rigido, ma allo stesso tempo fluido: Bruguera prendeva solo otto studenti all’anno
tuttavia i laboratori erano poi aperti a tutti. Questa è una differenza importante rispetto alle altre scuole di artisti, rendendo
la scuola contemporaneamente ufficiale e informale. Altri aspetti del corso sono invece più convenzionali, come
l’insegnamento strutturato attorno ai laboratori, presentazioni degli studenti. La maggior parte degli artisti invitati viene
coinvolta in qualche modo nella performance, molti provengono da Paesi ex socialisti, in modo da aiutare gli studenti
cubani a comprendere ciò che accadrà anche nella loro società. Questo è utile anche per far circolare nell’isola immagini e
idee che altrimenti non ci sarebbero a causa delle restrizioni su Internet. Gli insegnanti, inoltre, sono incoraggiati a
considerare Arte de Conducta una scuola mobile, usando l’intera città come base per le operazioni, realizzando azioni ad
esempio in un albergo, fuori dal Museo della Rivoluzione o di un barbiere. Lo scopo è di creare uno spazio di discussione
libera in opposizione all’autorità dominante e di formare gli studenti non solo per fare arte ma anche per fare esperienza di
un modello di società civile.
La questione di come comunicare questa scuola-come-arte a un pubblico esterno è un problema aperto. Bruguera non
tentò subito di farlo, ma ci furono poi diverse occasioni, come la Biennale di Gwangju del 2008 dove l’artista decise di
presentare Arte de Conducta esponendo un campione rappresentativo del lavoro degli studenti, anche se tramite
un’installazione convenzionale; più dinamica fu la soluzione dopo la chiusura della scuola durante la Biennale de L'Avana
del 2009, dove furono presentate nove mostre in nove giorni e ogni notte venivano disallestite e riallestite, puntando sulla
prontezza e l’intensità della scuola nel suo insieme. Ogni giorno la mostra ruotava attorno ad un tema diverso, come “Arte
utile” o “informazioni sul traffico di droga” con la presentazione di una serie di brevi lavori, presentando quelli degli
studenti accanto a quelli degli artisti, spesso impegnati politicamente e umoristici più di altri lavori presenti durante la
Biennale.
Definiamo Arte de Conducta un’opera d’arte e non un progetto educativo in primis per la sua identità autoriale come
artista e la scuola può essere descritta come una variante dell’arte utile, che rifiuta la visione occidentale per cui l’arte
sarebbe senza funzione, trovandosi così a cavallo tra gli ambiti dell’arte e dell’utilità sociale. Presentare Arte de Conducta
alla Biennale de L’Avana fu “utile” perchè permise a Bruguera di mostrare ad un pubblico internazionali dei giovani artisti
che altrimenti non sarebbero stati commissionati dal comitato della biennale. Bruguera definisce l’arte utile in modo
ampio, come un gesto performativo che ha effetto sulla realtà sociale. La sua pratica punta ad avere impatto sia sull’arte
che sulla realtà e richiede di sviluppare l’abitudine a dare giudizi paralleli, considerando così l’impatto delle sue azioni in
entrambi gli ambiti. In ambito di un’istruzione sperimentale, questa scuola testimonia un ripensamento della scuola d’arte,
anche per il rapporto informale che crea con gli studenti; come opera d’arte, la soluzione dinamica basata sul tempo -
come la mostra che cambia rapidamente - è stato uno dei contributi migliori alla Biennale de L’Avana.
La difficoltà di chi giudica sta nell’essere abituati ad. avere un modo fisso di guardare a questi progetti, precludendo
l’emergere di nuovi criteri. Nonostante si consideri il progetto come un’opera d’arte, Bruguera non indica cosa potrebbe
essere artistico in Arte de Conduca e anche se privilegia il sociale all’artistico, tutta la configurazione del progetto dipende
da un’immaginazione artistica, quindi l’arte è integrata all’interno della concezione di ciascun progetto e questo risulta
evidente nel modo in cui decide di esporre alla Biennale. Sia l’arte che l’istruzione possono avere obiettivi a lungo
termini, possono essere de-materializzate, ma l’immaginazione è sempre cruciale.
3.Compiti comuni
L’interpretazione concettuale di Chan è vicina alle operazioni di Pawel Althamer il cui lavoro è a metà strada tra la
scultura e progetti collaborativi, intende dando tutte le parti del processo come un evento artistico. La sua collaborazione
più lunga fu quella con il gruppo Nowolipie che si occupa di adulti con invalidità mentali o fisiche, a cui l’artista dava
lezioni di ceramica. Nonostante il corso sia iniziato con una modalità pedagogica convenzionale, man mano i rapporti
sono cambiati ed è la classe a condurre Althamer, con un processo educativo bidirezionale, insegnandogli ad essere “più
matto” (esempio di un partecipante che ostruiva sempre un aereo di argilla non curandosi del tema della settimana,
ispirando Althamer che portò il gruppo in viaggio su un biplano, soggetto di un suo breve film). Nascono una serie di
lavori chiamati Compito comune dove l’artista porta il gruppo a visitare l’Atomium di Bruxelles, tutti vestiti da piloti.
Dal 2000 il suo lavoro è diventato sempre più difficile da esibire ed è cresciuto il suo l’interesse per la formazione.
Altro progetto da ricordare è Einstein Class, un progetto di sei mesi mirato a insegnare fisica a un gruppo di delinquenti
minorenni di Varsavia, opera commissionata da un’istituzione tedesca per il centenario della teoria della relatività. I
ragazzi hanno poi mostrato i loro esperimenti ai vicini e l’intero progetto è stato documentato tramite un video, inserendo
anche interviste all’artista, ai genitori e ai ragazzi, anche se non riesce a dimostrare quanto l’esperienza fu vivace e
impegnativa. È un’opera tipica della sua immedesimazione in soggetti emarginati.
Althamer ha tentato di affrontare il problema della documentazione in modo performativo: quando si aprì la mostra su
Einstein a Berlino, l’insegnante e i aguzzi andarono in Germania come inaugurazione del progetto educativo e
successivamente l’artista insistette affinchè i ragazzi polacchi fossero invitati alla prima di Londra. L’altruismo è
inseparabile da una condizione di disagio e disordine sociali, che la mostra di Londra rese esplicito nel titolo “cosa ho
fatto per meritarmelo?”.
La formazione accademica di Althamer è alla base di molti suoi progetti: fece parte del Kowalski Studo, professore che
rifiutava il modello di maestro/allievo in favore di “giochi visivi” - compiti aperti che funzionavano anche come forma di
autoanalisi collettiva. Kowalski mise al centro dell’interesse l’opera d’arte come effetto di una comunicazione non verbale
complessa eseguita da artisti che interagivano tra loro, neutralizzando l’individualismo. Una forma aperta, quindi, che
incoraggia la partecipazione con la realtà, a differenza di una forma chiusa in cui non avviene.
5.Formazione, in teoria
Hirschhorn è un caso particolare perchè insiste sul fatto che l’arte sia la motivazione centrale del suo lavoro e che è più
interessato agli osservatori che agli studenti. Altri artisti suoi contemporanei hanno in genere affrontato la questione
facendo interagire la produzione degli studenti e degli spettatori in modi diversi, come Arte de Conducta della Bruguera
che richiede una domanda di partecipazione ma di fatto è aperta a tutti, come anche Night School di Anton Vidokle.
Tuttavia in questi esempi l’artista delega il lavoro didattico ad altri, come se volesse tornare ad essere studente, mettendo
in piedi la propria scuola. Il modello teorico più noto è Il maestro ignorante di Rancière, in cui il filosofo esamina il caso
dell’insegnante anticonformista del XIX secolo Joseph Jacotot, che si trova ad insegnare in una classe che sa solo il
fiammingo. Non essendoci linguaggio in comune non può esserci una trasmissione diretta di conoscenza, ma il maestro
risolve il problema leggendo un libro bilingue. Ciò che interessa a Rancière è l’uguale intelligenza che il maestro pone tra
se stesso e i suoi studenti. Per il filosofo l’uguaglianza è continuamente verificata dalla una messa in pratica e critica, così,
il suo maestro, Althusser, il quale riteneva che l’educazione fosse una trasmissione di conoscenza indirizzata a chi non la
possiede.
Interessante è che non faccia alcun riferimento all'emergere della pedagogia critica che tentava di emancipare i soggetti
attraverso l’uso di mezzi simili, tramite quindi pratiche partecipative e collettive. Importante è la Pedagogia degli
oppressi di Paulo Freire, il quale propone la figura dell’insegnante come co-produttore di conoscenza, facilitando
l’emancipazione dello studente attraverso una collaborazione collettiva e non autoritaria. Tuttavia Freire sostiene che la
struttura gerarchica non potrà mai essere cancellata in quanto il dialogo non esiste in un “vuoto politico”, dunque non si
può dire ciò che si vuole. La pedagogia critica ma niente l’autorità, ma non l’autoritarismo. Questa pedagogia si applica
alla storia dell’arte partecipativa. In un un artista singolo concede all’osservatore libertà all’interno di una nuova forma di
autorità. I migliori esempi forniscono programma e contenuto e non uno spazio utopico di collaborazione non diretta.
La pedagogia critica è quindi direttamente legata all'esaurimento della specificità del medium e alla maggior attenzione al
ruolo e alla presenza dell’osservatore, così. come si vuole far cadere la gerarchia studente/insegnante.
L’avanguardia storica si trova nella scuola sperimentale di Summerhill, fondata da A.S. Neill nel 1921 a Desdra e poi
spostata nel Regno Unito. I primi studenti furono bambini problematici che erano stati espulsi, come nel progetto di
Althamer. Li affrontò sconvolgendo la sua posizione di autorità, ad esempio incoraggiandoli a distruggere le finestre.
Come in Freire la sua organizzazione si basa sul controllo e la possibilità di azione. Tuttavia negli ultimi decenni la
pedagogia critica e l’arte partecipativa sono due modelli che convergono e bisogna interrogarsi sui risultati.
6.Capitalismo accademico
Anton Vidokle, artista-curatore di Night School, ha osservato che le scuole sono uno dei pochi luoghi rimasti dove la
sperimentazione è in parte incoraggiata. Tuttavia tale enfasi sulla sperimentazione libera può sembrare idealistica. A
partire dagli anni Ottanta, nel Regno Unito e in Europa, l’Accademia ha subito una riduzione di finanziamenti pubblici,
portando la formazione a operare all’interno di una cornice economica. A causa del processo di globalizzazione
economica, la funzione dell’università non ha più riguardato la produzione di valori culturali o morali, ma il concetto di
“eccellenza” è stato svuotato, dando vita al “capitalismo accademico” che incoraggia la collaborazione con l’industria o il
reclutamento di studenti stranieri affinchè paghino rette più alte. Il capitalismo accademico, teorizzato da Readings, porta
a cambiamenti sia nel ruolo degli studenti che degli insegnanti e ha effetti sia sull’atletica sia sull’ethos dell’esperienza
educativa. Oggi la figura centrale dell’università è l’amministratore più che il professore e i risultati dell'apprendimento, la
garanzia di qualità sono più importanti del contenuto e del processo di trasmissione di tipo sperimentale. La valutazione
deve adattarsi a procedure standardizzate che permettano la comparazione dei crediti tra tutti i soggetti dell’università e
con l’introduzione del Processo di Bologna del 1999, l’equivalenza in tutta Europa. L’educazione diventa quindi un
investimento finanziario e non uno spazio creativo di libertà e scoperta, introducendo molta burocrazia sia per gli
insegnanti che per gli studenti, come ad esempio la compilazione dei piano di studi individuali. L’università oggi sembra
formare soggetti adatti a vivere sotto il capitalismo globale, iniziando gli studenti a una vita condizionata da un debit
permanente.
L’interesse curatoriale per la formazione è una reazione a questa tendenza. Nel 206 il Van Abbemuseum di Eindhover e il
Museum van Hedendaagse Kunstkompass di Anversa hanno collaborato a un progetto di mostra chiamato
A.C.A.D.E.M.Y. che prendeva posizione in modo esplicito nei confronti di questi cambiamenti e del Proesso di Bologna.
Per i curatori, l’autonomia dell’università e del museo sono minacciate, tuttavia entrambe le istituzioni offrono il più
grande potenziale per ripensare a come generariamo conoscenza. È più difficile sostenere che gli artisti contemporanei si
stiano impegnando direttamente in queste trasformazioni, in quanto i modelli pedagogici e formativi sembrano essere
spesso dovuti a favori particolari, come i loro insegnanti (Althamer) o Joseph Beuys (nei casi di Bruguera e Hirschhorn).
Inoltre esiste un’opinione comune tra gli artisti che insegnano nelle scuole d’arte secondo cui la formazione intesa come
esperienza contro-culturale è in pericolo, anche a causa di una formazione obbligatoria che segue l’ideologia della facoltà,
eliminando i rischi di condotta impropria.
Tutta questa burocrazia dell’istruzione occidentale non tiene conto degli artisti che si dedicano alla formazione in altri
contesti, dove i loro progetti vanno a compensare carenze istituzionali. Questa differenza è evidente in due progetti di
biblioteca fatti da artisti: Martha Rosler Library e l’Archivio di arte contemporanea di Lia Perjovschi a Bucarest, con
articoli fotocopiati e pubblicazioni accumulate a partire dalla fine delle dittatura di Ceausescu. Se la biblioteca della
Rosler ha una prospettiva interdisciplinare e una funzione doppia (sala lettura e deposito dell’artista), quella di Perjovschi
fornisce una risorsa che non esiste altrove a Bucarest e accoglie in particolare studenti dell’Accademia dove le pratiche
performativa non sono ancora materia di insegnamento. L’atto di mettere insieme le informazione è continuazione della
sua pratica e risorsa collettiva per i giovani artisti di Bucarest. Le due situazioni non sono comparabili, ma posiamo
sostenere che i due progetti pedagogici rispondono ad urgenze diverse in contesti diversi, offrendo uno spazio sulla
funzione e sul ruolo della cercare all’interno dell’arte.
7.Educazione estetica
Anche l’arte stessa è da considerare una forma di educazione. Le 28 Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di
Friedrich Schiller furono pubblicate nel ‘75, in parte in risposta alla Rivoluzione Francese, che aveva trasformato il
popolo francese in una società non libera, ma violenta e spaventata. L’educazione politica diventa per il filosofo il
problema del progresso umano in generale. L’uomo può trovare una via di miglioramento morale attraverso l’educazione
estetica, prendendo così posizione contro la Critica del giudizio di Kant e la sua bellezza disinteressata. Le sue idee
trovano un’applicazione pratica nell’influenza esercitata su Wilhelm von Humboldt, che integrò la sua nozione del sistema
educativo universitario del 1809 in Prussia. Lo stesso problema dell’educazione reale o ideale, di un pubblico universale o
di studenti specifici interessa i progetti artistici attuali e pochi riescono a superare il divario tra un pubblico primario
formato di studenti e un pubblico secondario, i visitatori. L’educazione non ha spettatori e quella più efficace, come
osserva Barthes, ha un rapporto di docenza tra discenti, non tra docente e discente.
La pedagogia istituzionale non ha bisogno di affrontare il problema della sua comunicabilità verso chi è fuori dall’aula,
ma diventa un compito essenziale per i progetti artistici. Va notato che i progetti più riusciti riescono a comunicare
l’esperienza educativa attraverso video, mostre (Bruguera), conferenze (Chan) o pubblicazioni (Hirshhorn). Il pubblico
secondario non si può eliminare, ed è anche essenziale perchè è così che tutti imparano qualcosa da questi progetti.
Felix Guattari in Caosmosi si chiede se sia possibile far vivere un classe come fosse un’opera d’arte. Per lui l’arte è una
fonte di energia e creazioni vitali, una forza sempre in mutamento e sostiene che l’arte non sarà più in debito con il
Capitale, ma dovrà richiamare una posizione di trasversalità in rapporto agli altri universi di valore, portando a nuove
forme di soggettività. È la trasversalità a portare una creatività militante, sociale, fuori dagli ambiti disciplinari. Un
esempio importante è la clinica La Borde, dove Guattari fu assunto e seguì un progetto di de-gerarchizzazione,
producendo così nuove soggettività singolari in quanto infermieri, dottori e pazienti si scambiavano di ruolo. È un
esempio organizzativo importante per comprendere i progetti artistici che cercano di riavvicinare l’arte e la sfera sociale.
Questo non deve portare a una totale estetizzazione del sociale ma bisogna impegnarsi su due fronti: come critica d’arte e
come critica delle istituzioni in cui opera, perchè se l’arte si confonde totalmente con la vita rischia di estinguersi.per
evitare ciò, ogni opera, secondo Guattari, deve avere una doppia finalità, concentrandosi sia nell’arte che nell’ambito
sociale (quello che accade oggi con i progetti artistici pedagogici). Senza questa doppia finalità, i progetti rischiano di
diventare divertimento educativo o estetica pedagogica.
I progetti di arte pedagogica, quindi, si concentrano su un problema centrale delle pratiche artistiche in ambito sociale: ci
chiedono di esaminare le nostre ipotesi su entrambi i campi d’azione e comprendere le incompatibilità o meno che
potrebbero nascere dalla loro unione, con la conseguenza di una re-invenzione di entrambi. Per gli osservatori secondari
l’aspetto più educativo è l’insistenza di questi progetti nel farci imparare a pensare insieme entrambi gli ambiti, a
concepire nuovi linguaggi e criteri per comunicare queste pratiche trasversali.