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INFERNI ARTIFICIALI - CLAIRE BISHOP

INTRODUZIONE

Negli anni sono aumentati i progetti artistici che si interessano alla partecipazione e collaborazione, un interesse che
cresce a partire dai primi anni Novanta a livello globale. Queste pratiche si svolgono fuori dallo studio dell’artista
(post-studio practices) e ci sono vari termini per indicare quest’arte, come: arte impegnata socialmente, arte incentrata
sulla comunità, comunità sperimentali, fino a “arte partecipativa” in quanto sottolinea il coinvolgimento di molte persone.
Parlare solo di “impegno sociale” è ambiguo, in quanto comprende una serie di lavori, come anche la pittura. Nell’arte
partecipativa le persone sono sia il medium sia il materiale artistico fondamentale, come nel teatro o la performance.
Gli artisti della Bishop sono meno interessati all’estetica relazionale; Bourriaud voleva rendere i progetti discorsivi nel
contesto di musei e gallerie.
Fino ai primi anni Novanta l’arte incentrata sulle comunità era confinata nella periferia del mondo dell’arte, mentre oggi è
un genere vero e proprio. È un fenomeno globale che va dall’America al sud-est Asiatico e alla Russia, tuttavia con un
profilo debole nel mondo commerciale in quanto i progetti collettivi sono più difficili da vendere e questo tipo di eventi
sociali o performance vengono più difficilmente percepiti come opere. Hanno rilievo nelle commissioni pubbliche, con
commissioni, biennali e mostre a tema politico. Il comune denominatore tra queste pratiche è stato il desiderio di voler
rovesciare il rapporto tradizionale tra l’oggetto d’arte, l’artista e il pubblico. L’artista non è produttore di un oggetto, ma di
situazioni; l’opera è ripensata come progetto in corso; il pubblico è co-produttore o partecipante. Questa discussione
rientra nella tradizione critica marxista e post-marxista secondo cui l’arte è vista come sforzo di uscita dall’alienazione,
che non dovrebbe essere soggetta alla specializzazione professionale.
Secondo una prospettiva europea occidentale, l’interesse per il sociale nell’arte contemporanea si può contestualizzare in
tre momenti storici di sconvolgimenti politici:
1. Le avanguardie storiche europee, nate attorno al 1917
2. Le neo-avanguardie nel 1968
3. L’arte partecipativa riemerge negli anni Novanta, con la caduta del comunismo nel 1989.
Queste fasi sono state accompagnate da un ripensamento utopico della relazione tra l’arte, il campo sociale e il suo
potenziale politico, riconsiderando i modi in cui l’arte è prodotta, consumata, discussa.
Il teatro e le performance sono cruciali per molti di questi case studies a causa dell’impegno partecipativo espresso con
forza nell’incontro dal vivo tra gli attori in contesti particolari. La Bishop ripensa la storia dell’arte del XX secolo
attraverso la lente del teatro più che della pittura o del ready-made. Evita, inoltre, una ri-narrazione della storia dell’arte
nord-americana, nonostante includi alcuni esempi, per dare maggiore importanza all’Europa dell’est e l’America del Sud,
con una eredità dalle avanguardie storiche, a differenza dell’Asia.
Comprendere l’arte partecipativa dalle sole immagini è quasi impossibile: fotografie occasionali di persone che mangiano,
parlano, partecipano ad un laboratorio ci raccontano poco o nulla del progetto e non comunicano nulla della dinamica
emotiva degli artisti. Nell’arte concettuale degli anni Sessanta e Settanta si cercò comunque di rifiutare l’oggetto-merce,
ma la visualità resta comunque importante, dove una fotografia può provocare divertimento o imbarazzo sarcastico. Al
contrario, l’arte partecipativa non può essere sintetizzata in un’immagine finita in quanto tende a valorizzare l’invisibile:
una dinamica di gruppo, una situazione sociale, una maggiore consapevolezza. Dipende quindi dall’esperienza di prima
mano e spesso di lunga durata. Solo pochi hanno la possibilità di avere un quadro generale dei progetti partecipativi,
mentre studenti e ricercatori si affidano alle spiegazioni dell’artista o del curatore o dei partecipanti stessi, come accade in
questo libro con viaggi sul campo. Tuttavia più si diventa coinvolti e più è difficile essere obiettivi, nel momento in cui lo
stato di outsider viene minato da questo coinvolgimento. C’è infatti una differenza tra la polemica del capitolo 1, scritto
nel 2006, e la conclusione del 2011. Il titolo “Inferni artificiali”, preso in prestito da Andrè Breton, serve a descrizione
positiva e negativa dell’arte partecipativa.
Importante è anche l’approccio intradisciplinare, tendendo conto della sociologia, storia del teatro, filosofia politica. L’arte
partecipativa ci richiede nuovi modi di analizzare l’arte che non sono più legati solo alla visualità. Non bisogna fare
riferimento a questi fenomeni come a oggetti di un nuovo formalismo, ma analizzare come essi contribuiscono e
rafforzano l’esperienza sociale e artistica che generano. Il progetto centrale del libro è spiegare l’arte partecipativa
mettendo a fuoco ciò che essa produce e non il processo.
1.LA SVOLTA SOCIALE: LA COLLABORAZIONE E LE SUE INSODDISFAZIONI

Ci sono molti critici che dominano la letteratura sull’arte collaborativa e partecipativa, ma il più frequentemente citato è
Guy Debord, per la sua accusa contro gli effetti alienanti e separatori del capitalismo nella Società dello spettacolo del
1967 e per aver teorizzato la produzione collettiva di situazioni. La sua critica ci indica perchè la partecipazione è
importante come progetto: ri-umanizza una società frammentata dagli strumenti repressivi della produzione capitalista. Il
mercato è saturo di immagini e la pratica artistica non può più costruire oggetti consumati poi da uno spettatore passivo.
Deve esserci un’arte dell’azione che si interfaccia con la realtà e cerca di ricostruire il legame sociale. Gli artisti non sono
più interessati a un processo passivo basato sulla dicotomia presentatore-spettatore, un modello di comunicazione, questo,
che è stato fatto proprio dal mercato. E anche Bourriaud nel descrivere l’arte relazionale degli anni Novanta fa riferimento
allo spettacolo come punto centrale.
L’arte d’avanguardia dell’ultimo decennio ha visto la riaffermazione della collettività rispetto all’individuale, considerato
sinonimo dei valori del liberalismo della guerra fredda e della sua trasformazione, con l’esercizio economico della
proprietà privata e del libero mercato. Ciò che si pone contro questo modello è la dimensione collettiva: la pratica
collaborativa offre un contro-modello di unità sociale, a prescindere dalla sua posizione politica effettiva.
Le linee seguite sono molte, come i video malinconici di Johannesburg Billing che mostrano giovani riuniti grazie alla
musica, fino agli eventi di Sharon Hayes per le comunità GLBT. Anche quando un’opera d’arte non è esplicitamente
partecipativa, i riferimenti a comunità, collettività e rivoluzione, bastano per indicare la distanza dall’ordine neo-liberista
mondiale. I progetti partecipativi agiscono contro il mercato lasciando che l’autorialità del singolo si diffonda in attività
collaborative. L’arte partecipativa non bada al mercato, ma incanala il capitale simbolico dell’arte verso un costruttivo
cambiamento sociale. Potremmo dunque dire che si tratti dell’avanguardia che abbiamo oggi, con artisti che disegnano
situazioni sociali come progetti de-materializzati, contro il mercato e politicamente impegnati. Non possono esistere opere
d’arte partecipativa fallimentari, non riuscite poichè sono tutte essenziali nel ricostruire il legame sociale. Tuttavia è
importante affrontare questo lavoro criticamente come arte, perchè è questo il campo in cui le pratiche partecipative sono
divulgate.

1.Creatività e politica culturale


Questo compito è sentito con urgenza in Europa. Nel Regno Unito, il New Labour (1997-2010) ha diffuso una retorica
simile a quella degli artisti dell’arte impegnata socialmente per giustificare la spesa pubblica impiegata nelle arti. L’arte,
per la società, portava alla crescita dell’impiego, alla riduzione della criminalità, l’incremento delle ambizioni, dunque
tutto tranne la sperimentazione e la ricerca artistica in sè. Per il New Labour, se le persone si allontanano dalla scuola e
dalla formazione e dunque dal mercato del lavoro, aumentano le probabilità che esse pongano problemi al sistema dello
stato sociale e alla società. Il partito, quindi, incoraggiò le arti affinchè fossero socialmente inclusive. Il programma fu
criticato dalla sinistra in quanto cercava di nascondere la disuguaglianza sociale. L’obiettivo era quello di superare il
confine tra incluso ed escluso, così che tutti potessero essere autosufficienti, consumassero e indipendenti dalle necessità
dello stato sociale avendo un reddito disponibile. Dunque la partecipazione non era altro che uno strumento per eliminare
gli individui di disturbo. Francois Matarasso prova l’impatto sociale positivo dell’arte partecipativa, dando prova del fatto
che essa riduca l’isolamento dell persone sviluppando reti di comunità; tuttavia allo stesso tempo Paola Merli mette in
evidenza come nessuno di questi risultati cambi la consapevolezza delle condizioni strutturali, ma aiuta le persone solo ad
accettarle. Il programma di inclusione sociale vuole far sì che tutti i membri della comunità si amministrino
autonomamente e siano consumatori in un mondo privatizzato. Il Regno Unito non è il solo a mostrare questa tendenza.
Anche l’Europa del nord, in Olanda, questi termini sono diventati il caposaldo della politica economica post-industriale.
Dagli anni Novanta al crollo del 2008, la “creatività” era una parola di moda, tanto che si cercò di potenziare il sistema
economico della cultura e della creatività olandese. Il tutto continua a ridursi a una questione e finanziaria. Uno dei
modelli per l’Olanda fu sicuramente il New Labour che aveva enfatizzato l’economia della conoscenza.
Quello che emerge è una confusione problematica tra arte e creatività: due termini che si sovrappongono ma che hanno
due retoriche diverse. Attraverso la retorica sulla creatività, l’attività elitaria dell’arte è democratizzata, portando agli
affari. La pratica artistica, invece, possiede la negazione critica che non si può conciliare con questo tipo di economia. Gli
artisti e le opere d’arte possono operare in uno spazio di antagonismo o di rifiuto rispetto alla società, mentre l’ideologia
creativa si riduce ad un contesto omologato ed è volta al profitto.
Questa fusione tra arte e creatività si ritrova anche negli scritti sull’arte partecipativa: un esempio è il curatore Charles
Esche che scrive sul progetto del collettivo danese Superflex dal titolo “Tenantspin”, una stazione internet televisiva per i
residenti anziani in un casermone abbandonato di Liverpool (2006). Il suo giudizio finale sul progetto riguarda la sua
efficacia come strumento che cambia l’immagine sia del casermone che dei residenti, creando un forte senso della
comunità dell’ edificio. Tuttavia il nno parlare del progetto in quanto arte rende i suoi giudizi simili ai programmi
governativi che abbiamo visto, i quali si concentrano su risultati verificabili. Dunque cosa è successo all’estetica? Una
parola molto controversa, questa, che riesce a mascherare la disuguaglianza sociale e l’esclusione. L’estetica è diventata
sinonimo di mercato e di gerarchia culturale conservatrice. Solo nel nuovo millennio è stato messo sotto scatto questo
paradigma grazie agli scritti di Jacques Ranciere, che ha riabilitato l’idea di estetica collegandola alla politica totalmente.
Prima dei suoi scritti, pochi artisti che cercavano di realizzare opere di impegno socio-politico avrebbero definito
“estetiche” le loro pratiche. Nonostante tratti di filosofia e non di arte, il suo contributo è stato utile per eliminare alcune
opposizioni binarie come individuale/collettivo, autore/spettatore o vita reale/arte, aprendo invece a una nuova
terminologia artistica con la quale discutere la spetatorialità, dominata fino a quel momento da Walter Benjamin (autore
come produttore) e da Debord. Se non troviamo un linguaggio più articolato per questi lavori, richiamo di discutere tali
pratiche solo in termini positivistici, concentrandoci sulla dimostrabilità del loro impatto. Importante è quindi ricondurre
l’estetica al senso di “aisthesis”: un regime autonomo di esperienze che non è riducibile alla logica o alla morale.

2.La svolta etica


Spesso risulta difficile discutere delle pratiche artistiche impegnate socialmente all’interno del sistema convenzionale
della critica d’arte. Ad esempio “Che tempo fa a Vyborg?” di Liisa Roberts, un progetto sul confine russo-finnico che
comprende una serie di laboratori, mostre, performance ed eventi. Il critico Reginaldo Laddaga ha commentato dicendo
che fosse “difficile da giudicare come progetto d’arte” in quanto i criteri non erano artistici. L’obiettivo della Roberts era
quello di creare una comunità temporanea che si impegnasse a risolvere una serie di problemi pratici, per cui qualsiasi
valutazione avrebbe dovuto essere allo stesso tempo artistica ed etica, pratica e politica. Da qui si aprono una serie di
problemi, come la distinzione tra partecipanti diretti e pubblico secondario e la distinzione tra fini artistici e risoluzione di
problemi/risultati concreti. Laddaga mette in campo anche una tacita gerarchia in quanto l’esperienza estetica è
semplicemente offerta, mentre il compito di reale efficacia è implicitamente di maggior valore. La propensione a favore
dell’elemento sociale del progetto suggerisce che la “svolta sociale” dell’arte contemporanea non solo è orientata a fini
concreti, ma anche la percezione critica che questi ultimi siano più importanti delle esperienze artistiche. Allo stesso
tempo, questi risultati sociali non sono mai paragonati ai progetti sociali reali fuori dal campo dell’arte, dunque alla fine il
punto di riferimento per i progetti partecipativi riporta sempre all’arte contemporanea, continuando a paragonare questi
progetti con quelli di altri artisti. Per la Bishop è fondamentale concentrarsi sul processo e non sul prodotto finale,
andando contro ciò che vorrebbe il capitalismo (come abbiamo visto con i partiti precedenti).
Un altro esempio utile riguarda il collettivo di Oda Projesi, un gruppo di tre artiste che, tra il 1997 e il 2005, hanno
realizzato le loro attività in un appartamento di tre stanze nel quartiere Galata a Instabul. L’appartamento forniva una
piattaforma per progetti prodotti dal gruppo in collaborazione con i loro vicini, come il laboratorio per bambini con il
pittore turco Komet. Il collettivo sostiene di voler aprire un contesto per rendere possibile scambio e dialogo con l’intento
di integrarsi con l’ambiente che le circonda, senza voler migliorare la situazione. Le artiste evidenziavano di voler
produrre un tessuto sociale più creativo e partecipativo, creando “spazi vuoti” in una società che è super organizzata.
Poichè la loro pratica artistica è basata sulla collaborazione, Oda Projesi ritiene che estetica sia una parola pericolosa che
non dovrebbe entrare nella discussione. Il loro approccio è riproposto dalla curatrice Maria Lind in un saggio sulla loro
ricerca, dove osserva che il gruppo non è interessato a esporre arte ma a usarla come mezzo per creare nuove relazioni tra
le persone. Paragona il progetto che aveva curato con il gruppo a Riem assieme a una comunità turca locale per
l’organizzazione di una festa pomeridiana a Bataille Monument di Thomas Hirschhorn, ove l’artista collabora con una
comunità turca per la Documenta 11 ma pagando la gente per lavorare con lui a questa installazione. Oda Projesi sono
artiste migliori perchè instaurano egualità con i loro collaboratori, essendo così co-creatori e non semplici esecutori come
nel caso di Hirschhorn. Il paragone proposto dalla Lind si basa sul rinuncio autoriale: Oda Projesi è meglio di Hirshhorn
perchè sopprime l’autorialità del singolo per facilitare la creatività degli altri. I giudizi visivi e concreti vengono messi da
parte in favore di un giudizio sulla relazione degli artisti con i loro collaboratori. Tuttavia Lind minimizza ciò che in Oda
Projesi potrebbe essere interessante come arte, cioè rendere il dialogo sociale un medium o l’importanza della
smaterializzazione dell’opera in un contesto sociale. Il suo giudizio, invece, si basa sull’etica rispetto a procedure e
intenzioni, mentre arte ed estetica sono denigrate come meramente visive e superflue.
Questa propensione verso l’etica non aiuta nel definire quelli che dovrebbero essere i criteri artistici per valutare le opere
partecipative. Tuttavia la si riscontra anche in Mapping the Terrain di Suzanne Lacy dove si fa riferimento ad “azioni
etiche”; anche Lucy Lippard in The Lure of the Load parla di “etica del luogo”. Si arriva quindi a privilegiare
l’intenzione dell’artista (come l’umile mancanza di autorialità) rispetto al dibattito sull’identità artistica dell’opera.
Se i criteri etici sono diventati la norma per giudicare quest’arte, allora bisogna anche interrogarsi su quale etica si stia
sostenendo. In Conversation Pieces, Grant Kester afferma che l’arte basata sulla consultazione e “dialogica” ci richiede di
cambiare la nostra comprensione di ciò che è arte - da visualità e sensorialità (che sono individuali) a “scambio discorsivo
e di negoziazione”. È tipico dell’arte partecipativa far prevalere l’etica dell’interazione interpersonale su una politica della
giustizia sociale. Il filosofo Peter Dews ha descritto quest’evoluzione tipica degli anni novanta come una “svolta etica”, in
cui questioni di coscienza e impegno, accettazione e rispetto sono tornate al centro dell’attenzione.
All’opposto di questa tendenza si trovano filosofi come Jacques Ranciere, che mostrano scetticismo verso il gergo dei
diritti umani e della politica identitaria. Questi pensatori offrono una lente efficace attraverso cui osservare l’umanitarismo
che si incontra in questo discorso critico artistico. Se ci si concentra sul dialogo consensuale, la sensibilità alla differenza
rischia di diventare un nuovo tipo di norma repressiva in cui le strategie artistiche di decostruzione o intervento sono
tacciate come “non-etiche”, in quanto tutte le forme di autorialità sono equiparate all’autorialità e accusate di essere
totalizzanti. Queste denigrazioni dell’autorialità portano ad alcune opposizioni semplicistiche, come osservatore attivo
contro passivo, artista egotico contro artista collaborativo, autonomia fredda contro comunità conviviale. La resistenza a
rompere queste categorie è evidente nel rifiuto di Kester di ogni tipo di arte che possa offendere o turbare il pubblico,
come l'avanguardia storica. Critica infatti Dada e Surrealismo perchè cercano di scioccare gli osservatori affinchè
diventino più sensibili nei confronti del mondo. Kester dunque sostiene che questo serva a rinforzare una divisione di
classe in cui l’elitè istruita parla in modo semplificato a una classe meno privilegiata. Alla Bishop “spaventa” proprio
questa avversione al disturbo, che porta a soggiogare le idee controverse in favore di un comportamento consensuale. Al
contrario, il disagio può essere di cruciale importanza per l’impatto artistico di ogni opera. Questo non significa che l’etica
non sia importante per l’opera o la politica, ma che non c’è sempre bisogno di esprimerla in maniera diretta e buonista. I
partecipanti, infatti, sono capaci anche di avere a che fare con artisti che offrono un accesso più complesso alla verità
sociale. Non bisogna quindi arrivare a una sorta di autocensura sulle previsioni del giudizio altrui.

3.Il regime estetico


Uno dei maggiori problemi nel dibattito sull’arte socialmente impegnata è il suo rapporto rinnegato con l’estetica. Spesso
le opere non si adattano alle nozioni consolidate del bello, ad esempio le pessime fotografie che ci comunicano poche
informazioni riguardo al contesto, cruciale per capire l’opera. I sostenitori dell’arte socialmente collaborativa vedono
l’estetica come qualcosa di meramente visivo, un ambito elitario complice con lo spettacolo. L’arte viene quindi percepita
come troppo separata dal mondo reale e tuttavia com l’unico spazio in cui è possibile sperimentare: l’arte deve rimanere
autonoma al fine di avviare o realizzare un modello per il cambiamento sociale. È stato Rancière ad aver elaborato un
resoconto della relazione tra estetica e politica: sostiene che il sistema dell’arte come lo consideriamo a partire
dall’Illuminismo implica una confusione tra autonomia ed eteronomia (confusione tra arte e vita). Rancière prende in
esempio il momento in cui Schiller descrive una statua greca, la Giunone Ludovisi, come esemplare di “libera
appartenenza”; non è la rappresentazione di una divinità o qualcosa da adorare, ma è autonoma, chiusa in se stessa,
potenzialmente disponibile a tutto. La scultura in questo caso è l’esempio di una comunità nuova, che sospende ragione e
potere in stato di parità. Il regime estetico dell’arte di Schiller e dei Romantici, parte dal presupposto che l’arte sia tale in
quanto è qualcosa di diverso dall'arte, cioè una sfera estranea sia alla politica sia sempre in sé politica perchè contiene la
promessa di un mondo migliore.
Rancière, al contrario, non considera autonoma l’opera d’arte, ma considera l’autonomia della nostra esperienza in
relazione all’arte. Per lui l’estetica e la politica si sovrappongono nel loro interesse per la distruzione e condivisione di
idee, quindi quello che Rancière chiama “la partizione del sensibile”. In questa cornice non è possibile concepire un
giudizio estetico che non sia anche politico. Tuttavia uno degli inconvenienti di questa teoria è quindi tutta l’arte è
politica. Attacca quindi la “svolta etica” nel pensiero contemporaneo, per colpa della quale la politica o l’arte oggi sono
sempre più sottomesse al giudizio morale circa la validità dei loro principi e delle conseguenze delle loro pratiche. Egli si
riferisce in particolare alle tesi di Lyotard riguardanti l'irrappresentabilità del sublime e all’arte relazionale come teorizzata
da Bourriaud. La svolta etica porta alla fine del dissenso politico e artistico, preferendo nuove forme di ordine
consensuale. Non è contrario all’etica, ma solo alla sua strumentalizzazione per appiattire il conflitto tra politica ed
estetica. L’estetica non necessita di essere sacrificata sull’altare del cambiamento sociale in quanto contiene già questa
promessa di emancipazione. La teoria della politica e dell’estetica di Rancière è stata usata per difendere pratiche
artistiche molto diverse. Si oppone ad esempio all'arte critica” che vuole mostrarci i segni del capitalismo dietro oggetti
quotidiani, preferendo opere che offrono un’esplicita forma di opposizione rispetto a problematiche specifiche.
Rancière ha influenzato la Bishop principalmente in due modi:
1. L'attenzione verso un’arte che preferisce la rottura e l’ambiguità; la buona arte deve negoziare la tensione che da
un lato spinge l’arte verso la vita e dall’altro separa la sensorialità estetica dalle altre forme di esperienza
sensibile
2. L’idea dell’arte come sfera autonoma di esperienze in cui non esiste un medium privilegiato. Il significato delle
forme artistiche cambia anche in base agli usi che ne vengono fatti dalla società nel suo complesso. La
partecipazione è quindi costantemente in movimento e ad oggi la partecipazione comprende anche i siti di social
network e le varie tecnologie, pur essendo partiti negli anni Sessanta dagli happening e sperimentazioni teatrali

4.Dirigere la realtà: la battaglia di Orgreave


Nonostante Rancière sostenga che la politica dell’estetica sia metapolitica, non pensa a come effettivamente potremmo
affrontare in maniera più specifica le appartenenze ideologiche di ogni opera. Un esempio utile è The battle of Orgreave
(2001) di Jeremy Deller. Dagli anni Novanta la sua ricerca ha portato a incontri tra diversi gruppi sociali, con un forte
interesse per le classi, la sottocultura e l’autorganizzazione. Questo è il suo lavoro più conosciuto, una performance in cui
ri-mette in atto un violento scontro avvenuto tra miniatori e poliziotti a cavallo nel 1984 durante uno sciopero; uno dei
tanti scontri violenti provocati dalla politica della Thatcher, che indebolì i sindacati permettendo al governo di consolidare
un programma di libero commercio. La ricostruzione dell’evento unì ex-miniatori e residenti del luogo, mettendo in scena
il conflitto di fronte al pubblico, sul suolo originario. Il lavoro consiste anche in un lungometraggio di Mike Figgis,
usando l’evento per veicolare in maniera esplicita la sua accusa verso il governo Thatcher in una pubblicazione di storia
orale e in un archivio. In primo luogo la performance sembra avere una funzione terapeutica, facendo rivivere agli
ex-miniatori gli eventi traumatici, cambiando anche il loro ruolo con quello dei poliziotti. Tuttavia non guarisce, ma riapre
una ferita, come dimostrato dalle testimonianze dei protagonisti. La loro rabbia è ancora viva ed emerge in alcune riprese
casuali del giorno prima. Importante è che il libro e il film sono di parte nell’approccio allo sciopero dei minatori, mentre
la performance è più ambigua: sembra quasi essere una festa di paese, con bande, bambini e bancarelle, dunque da un lato
la violenza e dall’altro l’intrattenimento per famiglie. È difficile quindi ricondurre l’opera a un semplice messaggio o a
una funzione sociale perchè il suo carattere era contraddittorio.
Deller afferma di essere interessato al ricreare questa contraddizione, rifare qualcosa che di per sè è caotico e proprio
questo problema del caos ha un doppio rischio: che il re-enactment diventasse una coreografia o che al contrario sfuggisse
tutto di mano. Questa polarità venne contenuta perchè la struttura concettuale era salda, quindi la rievocazione dello
sciopero, ma con una certa libertà formale e improvvisazione. È qui che si individua la zona grigia artistica di un lavoro di
arte partecipativo, cioè decidere quanto la sceneggiatura debba essere seguita e non il bianco/nero della buona o cattiva
collaborazione. Si parla di “realtà diretta” e il brivido di tensione che Deller prova quando attraversa il campo senza
sapere cosa accadrà più non si può separare dall’opera, in quanto tutte le sue scelte avevano una risonanza sociale e
artistica. Questo re-enactment ebbe imbatto sia sul processo che sul risultato del progetto: nel primo caso portò gli attori
(di classe media) a interfacciarsi con i miniatori; infatti i primi erano spaventati dagli ultimi a causa delle notizie degli
anni Ottanta, credendo fossero veri rivoluzionari, dunque Deller riuscì a smantellare l’unità di classe. Allo stesso tempo
però le compagnie teatrali erano essenziali per il processo teatrale, ma anche per allontanare la performance da un registro
giornalistico. Deller ha descritto la sua contro-narrazione, come “pittura di storia dal basso”, una sorta di dipinto della
storia contemporanea attraverso il medium della performance, unita all’hobby della rievocazione, spesso di
intrattenimento.
The battle of Orgreave funziona perchè è eticamente ammirabile per il lavoro a contatto con gli ex-miniatori, ma anche
politica, in quanto riporta alla coscienza popolare una storia rimasta in sospeso. Ci pone il problema di quando
consideriamo “politica” un’opera d’arte: venne definita politicamente non definita, solo un’esperienza, mentre altri
ritengono che fosse di parte; tuttavia per l’artista si tratta di un’opera politica, anche se impostata in modo neutrale per
assicurarsi la collaborazione delle compagnie teatrali. La performance riflette su come i movimenti di protesta sociale
siano cambiati, evidenzia il motivo dello sciopero, il conflitto tra persone e governo, le scelte di una classe sociale.
Ritorna quindi la metapolitica di Rancière, anche se questo non basta. Orgreave è uno dei primi esempi di arte
partecipativa perchè si impegna in una stratificazione più complessa della storia sociale e artistica, evocando la forza della
presenza collettiva e delle manifestazioni politiche per correggere la memoria storica, diventando un simbolo per tutti gli
atti di repressione della polizia. Deller non si autocensura, ha combattuto le critiche per cui avrebbe sfruttato i suoi
collaboratori; il suo ruolo autoriale, invece, serve a stimolare un evento che altrimenti non sarebbe esistito.

5.Spettatori emancipati
Una discussione così ampia su Orgreave è possibile solo grazie alla mediazione che c’è oltre la performance dal vivo,
raggiungendo così pubblici differenti: i partecipanti diretti, quelli che guardarono la trasmissione del film di Figgis o che
comprarono il DVD, quelli che hanno letto il libro. Dunque si moltiplicano le categorie artistiche della pittura di storia,
del documentario, della performance, mettendole in dialogo con il teatro comunitario.
Di norma si ritiene che la posizione resti pura se non si entra nelle gallerie e nei musei, pensate per una ricezione passiva e
per una élite culturale. Da qui si diffonde il binomio di attivo/passivo, per cui un pubblico emancipato sarebbe capace di
comprendere passivamente le opere in un museo, mentre la classe operaia continua ad essere legata unicamente al lavoro
manuale e dunque alla partecipazione. Come nota Rancière, in risposta a Bourdieu, se si dà per scontato che la
partecipazione sia adatta all’inclusione sociale, si ammette già in principio che i partecipanti siano in una posizione di
impotenza, ma questo status quo non dovrebbe essere mantenuto. Se l’opera d’arte non si impegna nella “questione
estetica” - cosa che Bourdieu evita - tutto resta al proprio posto, dando ancora grande importanza alla morale. Tuttavia in
tutte le arti che usano le persone come medium, l’etica non scomparirà mai completamente e dunque va unita all’aisthesis.
Seguendo la tesi di Lancan secondo cui è più etico per il soggetto agire in conformità con il proprio desidero che
modificare il proprio comportamento agli occhi del grande Altro, seguire i bisogni individuali non indica un’esclusione
dal sociale. Le forme più avanzate della pratica artistica di oggi derivano dalla necessità di ripensare le connessioni tra
l’individuale e il collettivo secondo queste linee. Dunque le forme più sorprendenti di arte partecipativa sono prodotte
quando gli artisti agiscono intervenendo nel sociale con spirito d’indagine senza sensi di colpa. Queste situazioni danno
grande dignità all’autore, fondendo la realtà con un artificio regolato, districando nodi complessi delle situazioni sociali
riguardanti impegno politico, affettività, lotta di classe. Al momento, i criteri filosofici dell’arte partecipativa e impegnata
socialmente si basano sull’ anticapitalismo e il “buono” cristiano, dunque un ragionamento etico che non riesce ad
accogliere quello estetico o a comprenderlo nell’esperienza. In questa prospettiva non trova spazio la perversione o la
negazione, elementi cruciali nell’aisthesis. La riformulazione etica nell’arte partecipativa attravrso Lacan ci permette di
avere altri strumenti per occuparci di tale arte. I migliori esempi di arte partecipativa occupano un territorio ambiguo che
si trova tra la vita e l’arte. Questo ha delle implicazioni nella metapolitica di Rancière che diventa un’arma a doppio taglio
perchè ci lascia l’urgenza di dover esaminare il contesto storico e politico dell’epoca delle opere che analizziamo.

2.INFERNI ARTIFICIALI: LE AVANGUARDIE STORICHE

Riportiamo tre momenti chiave delle avanguardie storiche che anticipano l’emergere dell’arte partecipativa, tutte con delle
posizioni diverse riguardo all’inclusione del pubblico e con un differente contesto politico.
1. La rottura operata dal Futurismo italiano con i modi convenzionali della spettatorialità, inaugurando la pratica
performativa come pratica artistica, cercare per l’arte un pubblico di massa;
2. Gli sviluppi della cultura russa dopo il 1917, con la formulazione di due diversi modelli di performance, il teatro
di Proletkult e lo spettacolo di massa;
3. Dada a Parigi sotto l’influenza di André Breton, dove il gruppo modificò il suo rapporto con il pubblico verso
eventi sempre più partecipativi nella sfera pubblica.
Essi suggeriscono che i recenti sviluppi dell’arte contemporanea si trovano nell’ambito del teatro e della performance e
non nella storia della pittura o del ready-made.

1.Provocazione, promozione e partecipazione


Il luogo comune sul Futurismo è che segua un approccio convenzionale per la perfomance, dato che il palcoscenico
divideva i ruoli dei performer e quelli del pubblico. Tuttavia non erano spettacoli tradizionali, ma azioni brevi con l’uso di
vari media che anticipano la performance art, comprendendo declamazioni di politica e manifesti artistici, composizioni
musicali, di poesia e di pittura. La prima serata si tenne il 12 gennaio 1910 al Politeama Rossetti di Trieste e dalla terza
furono coinvolti anche artisti visivi. I racconti verbali e visivi restituiscono l’impressione di un caos completo, come si
vede nella Serata futurista a Perugia di Gerardo Dottori dove i quadri sono mostrati sul palco con oggetti che venivano
lanciati dal pubblico. Offrono quindi uno spazio di esposizione alternativo in cui potersi confrontare direttamente con il
pubblico senza la mediazione di una mostra. Un impegno innovativo verso la spettatorialità.
Le attività futuriste erano basate su performance in teatri ma anche nelle strade, supportate da materiale stampato come
manifesti e volantini per attirare l’attenzione, dunque qualcosa che va oltre la sola performance art. Marinetti era
consapevole del bisogno di raggiungere un pubblico vasto per raggiungere i suoi obiettivi culturali e politici
(nazionalismo patriottico) e a tal fine utilizzò una strategia di comunicazione di tipo populista. Il primo manifesto futurista
fu stampato per intero sulla prima pagina de Le Figaro il 20 febbraio del 1909 e fu una grande impresa promozionale.
A partire dal Manifesto del teatro futurista sintetico del 1915 inizia quella divisione in attivo/passivo che diventerà poi
importante nel XX secolo nel tema della partecipazione: il teatro tradizionale è deriso perchè produce passività, mentre la
performance futurista induca a una spettatorialità attiva e più dinamica. Il modello infatti era il teatro di varietà che aveva
connotazioni popolari comprendeva diverse apparizioni come esercizi ginnici, comiche, canzoni. Si attestava così la
fedeltà dei futuristi alla cultura popolare. Il pubblico è collocato al centro dell’esperienza, quando già nella pittura i
futuristi proclamavano che lo spettatore in futuro sarebbe stato “al centro del quadro” e parteciperà all’azione. Il teatro di
varietà forniva diverse opportunità per le interruzioni e le azioni di disturbo, ma anche per l’improvvisazione. Nella sua
versione futurista, performer e pubblico si aggredivano l’un l’altro fino a culminare in una rissa. Non sono gesti di un
orientamento ostile al pubblico, ma per esagerare la loro presenza, istigarla, dare coraggio. Dunque i performer futuristi
ribaltano i criteri convenzionali del coinvolgimento del pubblico: erano pronti a subire il loro disprezzo e c’era da parte
del pubblico il desiderio di partecipare a eventi del genere, un desiderio di auto-affermazione che si era già manifestato in
precedenza anche nelle gallerie europe, dove il pubblico aveva sputato o tagliato le tele. L’innovazione futurista
consistette nello sfruttare l’energia del pubblico, unendo la violenza alla sfera artistica e il loro desiderio di essere parte di
un’opera d’arte. L’obiettivo era produrre uno spazio di partecipazione, per convertire la maggior parte degli italiani alla
causa nazionalista e militarista. Finchè il pubblico continuò a dar loro attenzione, il Futurismo raggiunse il suo obiettivo di
progetto politico; l’unico insuccesso poteva essere la neutralità del pubblico. Tuttavia vi erano anche degli aspetti
negativi, come la riduzione alla mentalità di massa e quindi l’abbandono della distanza critica.
Dopo il 1918, quando Marinetti tornò dal fronte, le performance futuriste diventarono sempre più spettacolari e più
palesemente politiche. Fino al 1914 la serata futurista non aveva una struttura regolare e consisteva in letture di poesie e
declamazioni politiche. Le ambizioni politiche man mano crebbero e dopo il 1914 l’improvvisazione divenne meno
casuale, con performance che seguivano le convenzioni teatrali.
Si privilegia comunque la performance rispetto ad altre operazioni artistiche. L’approccio futurista fu per “via negativa” -
cioè una forma di risposta emotiva totale in cui non si poteva essere osservatori distaccati, ma si era incitati; il modello
degli anni Sessanta segue una visione più ottimista, una esperienza amplificata del quotidiano. Le opzioni creative
disponibili al pubblico sembrano meno autoritarie nelle performance futuriste che nella partecipazione guidata degli
happening e altri esperimenti degli anni Sessanta, implicando che modi distruttivi possano essere più inclusivi di quelli
democraticamente aperti. Anche Walter Benjamin notava come il fascismo fosse la formazione politica che permette al
popolo di partecipare; Tockij individua invece affinità tra fascismo e Rivoluzione russa, con la differenza che la
partecipazione al primo è distruttiva, mentre il secondo si fonda su strategia positive di cambiamento sociale.

2.Teatralizzare la vita
Negli anni successivi alla Rivoluzione del 1917 si riprogrammò l’arte, il teatro e la musica, con l’obiettivo di allineare la
pratica culturale alla Rivoluzione bolscevica. Si iniziarono a rifiutare le opere d’arte borghesi, realizzate da individui
(come la pittura) e prodotte per il mercato, in favore di pratiche progettate per una fruizione collettiva, usando come
veicoli privilegiati il teatro e la performance per la loro immediatezza, fornendo il confronto più semplice con l’arte
partecipativa di oggi. Tuttavia risulta difficile isolare questi sviluppi artistici russi dal loro contesto politico. La questione
era quindi produrre una nuova forma di cultura prodotta da e per il proletariato, rompendo il legame con l’eredità
culturale. Il Proletkult (organizzazione culturale-educativa proletaria) si dedicò alla definizione di queste nuove forme di
cultura proletaria dal 1918 e il suo teorico fondatore fu Aleksandr Bogdanov, energico promotore della soppressione della
cultura borghese del passato. Queste sue idee finirono per metterlo in conflitto con Lenin, attaccato all’arte tradizionale e
scettico nei confronti dei piani di Bogdanov, dato l’analfabetismo dilagante; lo scontro portò a una grande riduzione dei
finanziamenti. La cultura precedente doveva essere rifiutata in quanto prodotta e consumata da individui e non dalla
collettività. L'originalità quindi non doveva più essere intesa come un’espressione autonoma della soggettività dell’artista,
ma come l’espressione della sua partecipazione alla creazione e sviluppo della vita collettiva. Tuttavia al proletariato era
consentito di esprimere liberamente la propria volontà, ma solo secondo la propria posizione di classe, l’arte doveva
mobilitare sentimenti esclusivamente politici. Anche Trockij critica Bogdanov, per il privilegiare la psicologia collettiva
rispetto a quella individuale nel Proletkult, facendo notare come la classe parli attraverso gli individui.
Il Proletkult insiste sul collettivismo del teatro e si sviluppò a partire dalle innovazioni della partecipazione
anti-gerarchica, sperimentata nel teatro poco prima della Rivoluzione. Un esempio è Vsevolod Mejerchol’d con la
rimozione del proscenio, provando a unire attori e pubblico, suggerendo di coinvolgere quest’ultimo in modo da allenare
la popolazione a essere attori.
Un altro teorico importante del Proletkult fu Kerzencev, il quale sosteneva la fine dei repertori e attori borghesi,
promuovendo i momenti cruciali della lotta di classe come scioperi o rivolte, messe in scena dal proletariato. Divenne
quindi un modo per esprimere la coscienza collettiva. Gli attori erano dilettanti, non professionisti, al fine di essere vicini
alle masse. Nonostante le difficoltà, questo teatro amatoriale prolifera per tutto il paese dopo il 1917, moltiplicando i
circoli teatrali. Erano i lavoratori a scrivere gli spettacoli collettivamente e li mettevano in scena, con sceneggiature
appesantite da affermazioni ideologiche. Tuttavia questa enfasi sul contenuto sociale era un problema per chi voleva
preservare la cultura classica, come il consulente chiave di Lenin che scrive a Kerzencev riportando la noia di quegli
spettacoli. Non sorprende quindi che solo alcuni spettacoli del Proletkult trovino posto all’interno della storia del teatro,
come Protivogazy prodotto da Ejzenstejn: quando gli uomini, con il rischio di morire, si calarono giù nel pozzo per
salvare la fabbrica, il realismo fu tale che nessuno spettacolo teatrale con professionisti vi è paragonabile. Questo
entusiasmo per il teatro porta a cortei storici e manifestazioni che includevano scene allegoriche sul lavoro manuale
l’industria, fino poi ad arrivare allo spettacolo di massa all’aperto che ha il suo picco a San Pietroburgo nel 1920.
Quest’ultimo fenomeno ha due diverse genealogie:
● Per la storia dell’arte nasce nel 1918 con la rielaborazione scenica dell’assalto al Palazzo d’Inverno e della sua
piazza, dove si prese in prestito un battaglione armato, a cura dei futuristi russi
● Per gli storici del teatro nasce da un insieme di teorie e ideologie che si erano sviluppate fin dal 1900, dove la
figura chiave è ancora Kerzencev, il quale promosse i cortei storici e lo spettacolo di massa come forme di teatro
efficace perchè invitavano all’uso dello spazio pubblico, incoraggiando così la partecipazione di massa,
rimuovendo l’individualismo.
James von Geldern evidenzia alcuni dei problemi artistici nella produzione degli spettacoli di massa: l’utilizzo di dilettanti
comportava che la recitazione fosse debole; l’azione teatrale era confusa; l’uso di tanti corpi portava a performance lente;
le trame erano ripetitive e avrebbero avuto bisogno di più variazioni, ma questo non era possibile senza compromettere la
storia. Il culmine degli spettacoli del 1920 si ha con L’assalto al Palazzo d’Inverno tenuto il 7 novembre per celebrare il
terzo anniversario della Rivoluzione, con più di 8000 partecipanti e 100.000 spettatori. L’organizzazione seguì il modello
militare, con performer raggruppati a unità di 10 che ricevevano istruzioni a catena dalla regia. Il teatro di massa non solo
metteva in scena la Rivoluzione, ma era la messa in scena della Rivoluzione, ricreando le condizioni del rovesciamento
rivoluzionario. Questo combaciava con l’ambizione bolscevica di “teatralizzare la vita”, una propaganda ambientale con
una performance più grande della realtà. L’obiettivo era anche quello di riattivare continuamente la memoria visiva,
mantenere viva la promessa rivoluzionaria.
Gli spettacoli di massa vengono anche criticati da Fulop-Miller che polemizza contro gli intenti bolscevichi e definisce
queste folle come “la massa” in maniera negativa, sostenendo che alla base vi sia uno spreco di risorse e che questi
spettacoli servano solo a risollevare il morale, ma non aveva niente a che fare con i problemi della vita quotidiana
(razionamento di cibo, confisca delle case); la stessa distanza tra rappresentazione e realtà viene individuata da Emma
Goldman che descrive le condizioni di povertà e miseria, mentre gli spettacoli restituivano una rappresentazione
superficiale e ipocrita. Sempre la Goldman offre una visione più complessa e problematica: questi spettacoli non facevano
altro che aumentare la delusione della Rivoluzione e la performance appariva piatta al confronto di quanto successe nel
1917. Bisogna anche concentrarsi su questioni come l’autenticità dell’impegno, dal momento che le descrizioni
dell’azione nello spettacolo di massa sono noiose da leggere non rendono conto dell’ accozzaglia di stili con cui furono
eseguite. Anche la prevedibilità dei vari spettacoli ha l'effetto di renderli indistinguibili tanto che- come nel teatro del
Proletkult - ci sembra un unico spettacolo. Tuttavia la partecipazione era più importante della piacevolezza.
Il voler eliminare gerarchie individualismo lo si ritrova anche nella musica, ad esempio nella nascita dell’orchestra senza
direttore, come la Persimfans.

3.Escursioni e processi
È significativo che gli esempi dell’avanguardia russa di questo periodo tendano a riferirsi a singoli autori piuttosto che a
produzioni scritte collettivamente, come nel caso de L’assalto al Palazzo d’Inverno che è attribuito ad un singolo regista.
Questo è anche sintomo della debolezza artistica del teatro del Proletkult di autore collettivo.
Diverso accade con la Stagione Dada della primavera del 1921, prova che la dimensione collettiva sopravvive solo con
difficoltà ed è penalizzata dal fatto di non essere basata su un oggetto. Dada a Parigi si fondò sulle innovazioni del
Cabaret Voltaire a Zurigo (1915-17) e organizzò programmi misti di performance, musica e poesia. Il gruppo inoltre
organizzava rappresentazioni fuori dal contesto del cabaret e dentro spazi pubblici non istituzionali. Questi eventi entrano
in forte contrasto con i contemporanei esperimenti russi: entrambi cercavano di coinvolgere il pubblico e usare lo spazio
pubblico seppur con fini diversi; lo spettacolo di massa russo era ideologico, mentre Dada era totalmente anti-ideologico e
anarchico. Si ricordino anche la serie di manifestazioni tenute nel 1921 che cercavano di coinvolgere il pubblico parigino,
una serie di incontri di cui i più salienti furono un’escursione alla chiesa di Saint Julien-le Pauvre e Le procès Berrès.
Breton identificò tre fasi dell’’attività Dada per come si era sviluppata a Parigi:
1. Una fase vivace iniziata con l’arrivo di Tzara in città;
2. Una fase più incerta che aveva gli stessi obiettivi ma sotto la spinta di Aragon e Breton
3. Una fase di “malessere” dove il tentativo di ritornare alle forme iniziali causò maggiori divisioni fino allo
scioglimento del gruppo nell’agosto del 1922.
Dada concepì se stesso come un insieme di individui uniti dall’opposizione alle stesse cause (guerre, nazionalismo);
tuttavia lo stesso Breton spiega che nonostante si parli di “gruppo” ciò che domina è la forza immaginativa individuale,
tradendo così le origini romantiche del gruppo. Tuttavia non riuscirono a raggiungere la classe operaia, pur evitando le
provocazioni, in quanto era difficile digerire l’ “unico calderone” di idee che mettevano insieme.
La Stagione Dada prende così una direzione diversa. La prima parte della Stagione comprendeva “Escursioni e Visite”,
entrando nello spazio pubblico: la prima ebbe come punto d’incontro nel cimitero della chiesa di Saint Julien-le-Pauvre,
una chiesa abbandonata e sconosciuta, in una zona poco interessante, in quanto l’intento del gruppo era proprio quello di
organizzare escursioni in luoghi che “non hanno ragione di esistere”, al contrario di siti pittoreschi. I volantini su cui
queste iniziative erano sponsorizzate venivano decorati con una serie di slogan con grafica tipica Dada. La quantità di
pubblico che prese parte, invece, è controversa: Richter riferisce che piovve e non venne nessuno; Breton invece che
c’erano cento spettatori; le fotografie attestano un gruppo di diverse persone nonostante la pioggia. Breton lesse il
manifesto ad alta voce, lesse definizioni a caso prese dal vocabolario davanti a monumenti o sculture e ci sarebbe dovuta
essere anche un’asta di opere astratte. Valutando l’evento, Breton avrebbe voluto che fosse disturbante e sovversivo, ma
era arrivato a un punto morto. È cruciale quanto un mese dopo dirà in Inferni artificiali: il pubblico aveva preso gusto ai
loro spettacoli e si aspettava una provocazione, tanto che durante i prossimi spettacoli gli artisti vennero attaccati con
uova, monete e bistecche e fu per loro un grande successo. Raggiunto il massimo potenziale della provocazione, non c’era
più bisogno di ripeterlo, in quanto la tattica di provocare il pubblico stava diventando ormai stereotipata e il pubblico era
ormai loro complice. Da quel momento in poi, Breton ripensò gli eventi Dada in modi meno scandalosi, in quanto ormai
“lo scandalo sarebbe insufficiente a produrre il godimento che ci si può aspettare da un inferno artificiale”.
Per Breton era cruciale che Dada entrasse nello spazio pubblico, liberandosi del teatro per far confrontare il pubblico con
nuove azioni artistiche e spettatorialità. Ed è questo desiderio che porta ad un grande cambiamento nella modalità Dada:
ora bisognava trovare continuità tra l’opera d’arte e le loro vite, scende in piazza, verso forse di esperienza partecipativa
più accurate. Tuttavia questa novità non venne accettata da tutti, come da Picabia, mentre Breton conferma il
ri-orientamento verso obiettivi morali e politici, come dimostra Le procès Barrès.
Quest’ultimo si tenne a maggio del 1921, pubblicizzato come un’udienza dell’autore Barrès, il quale aveva sostenuto
l’anarchia, la libertà e il totale individualismo, m negli ultimi tempi era diventato borghese e nazionalista. L’evento era
basato su una forma sociale, il processo e coinvolge la partecipazione del pubblico, ora con un uomo più attivo, come
nella giuria. Ogni membro del gruppo aveva un ruolo specifico - difesa, pubblica accusa, presidente, testimoni ecc, mentre
Barrès fu sostituito da un manichino su misura. Vi è una frattura rispetto ai cabaret, in quanto qui vi è una collaborazione
non aggressiva con il pubblico. Nella trascrizione degli atti, Breton porta avanti una auto-riflessione: cerca di formarsi di
comprendere la posizione di Dada attraverso il caso di Barrès, ma la discussione fu molto demenziale rispetto ad altre
performance Dada. Ormai il gruppo doveva allontanarsi dal nichilismo che aveva caratterizzato il no-sense del Dada a
Zurigo. Breton descrive gli eventi della Stagione Dada come una discussione su argomenti morali e insinua che Dada a
Parigi ormai stia finendo.
Il Processo a Barrès è un punto di svolta nella performance Dada e un passo verso il Surrealismo, dove inizia a pregare
l’approccio intellettualistico di Breton sulle provocazioni anarchiche di Picabia e Tzara, i quali cercarono di provocare
disordine nell’aula. Il cambiamento più grande è che Dada ora voleva giudicare piuttosto che negare, quindi tentava di
prendere posizione piuttosto che opporsi al rifiuto a priori di ogni posizione. Non era uno spazio di caos senza senso, ma
si sta cercando un dibattito, ruotando su criteri politici e morali: il tradimento di cambiare ideologia applicato non solo a
Barrès ma anche a Breton, nell’ allontanare l’attenzione di Dada dalla negazione anarchica a giudizi di denuncia più
articolati. Ormai ben poco rimaneva di Dada in quanto si stava facendo strada un sistema di valori che ha portato Breton
ad aderire a Marx e Freud.

4.Coesione e rottura
Il Futurismo creava situazioni in cui il pubblico veniva sollecitato a partecipare contro gli artisti e un tale attacco ai
performer non era un fallimento ma un segno di successo, un indicatore della disponibilità attiva del pubblico ad
accogliere gli obiettivi degli artisti. Questi pubblici volevano avere un ruolo attivo. Breton si impegnò per evitare che
questo passaggio non fosse violento attraverso la creazione di azioni sociali di piccola scala realizzate in modo
collaborativo.
Parigi e San Pietroburgo funzionano come i poli opposti nell’ immaginare un’arte senza cornice nello spazio pubblico. In
Dada a Parigi, una tradizione autoriale e sovversiva tenta di provocare il publico dei partecipanti a un esame
auto-riflessivo delle proprie norme e dei propri costumi; nello spettacolo di massa russo, lo Stato impone la potenza
estetica della presenza collettiva per offrire una visione sullo sforzo nazionale mascherato come celebrazione dell’identità
proletaria transanazionale.
In tutti e tre i casi la questione della partecipazione diventa sempre più inestricabile da quella dell’impegno politico. La
partecipazione si accompagnava a un’attivazione adozione del nazionalismo di destra nel Futurismo; a un’affermazione
degli ideali rivoluzionari in Russia; solamente in Dada vi era invece una alternativa convincente alla partecipazione
motivata a livello ideologico. La relazione tra forma artistica e impegno politico diventa sempre più complessa, perchè
questi primi case studies subiscono delle trasformazioni nei decenni successivi: le escursioni Dada e surrealiste diventano
la derive situazionista, mentre lo spettacolo di massa russo diventa le grottesche esibizioni del valore militare e del
conformismo nei raduni di Norimberga, con lo slogan “no spettatori, solo attori”
La partecipazione si allontana da un’uguaglianza sociale imposta per andar verso la ricerca della libertà: la celebrazione
del lavoratore comune fu rimpiazzata da una valutazione degli oggetti ed esperienze quotidiane come elemento di
opposizione alle gerarchie culturali.

3.JE PARTICIPE, TU PARTECIPE, IL PARTECIPE…

La “derivè” ha le sue radici nelle escursioni Dada e nelle passeggiate notturne surrealiste; venne utilizzata dai membri
dell'Internazionale Situazionista dai primi anni Cinquanta fino alla fine degli anni Sessanta come un modo di
disorientamento comportamentale. Spesso si svolgeva durante il giorno e in piccoli gruppi ed era fondamentale per la
“psicogeografia”, cioè comprendere gli effetti di un ambiente sul comportamento affettivo degli individui. Dunque una
presa di coscienza dell’ambiente circostante, diverso dall’ automatismo surrealista perchè dava meno importanza
all’inconscio dell’individuo. La derivè era un sistema di raccolta dati per l’urbanismo unitario dei situazionista, i quali
tentavano di oltrepassare l’effetto disumanizzante delle forme moderniste della società urbana, esemplificate
dall’architettura modulare di Le Corbusier.
Da una prospettiva storico-artistica, la derivè offre poco per l’analisi visiva. I resoconti scritti di Debord sono vari: il
primo rapporto del 1953 racconta che Debord intraprese una “derivè estesa” che comportava il girovagare per bar. La
notte di San Silvestro, parlando a voce alta per irritare gli altri clienti finchè Debord non è ubriaco. I resoconti successivi
sono simili e molto flauneristici. Altri racconti sono più analitici, come quelli di Khatib, il quale descrive l’atmosfera
diurna e notturna del quartiere di Halls, dando suggerimenti su come ripensare questo quartiere di Parigi come spazio per
le manifestazioni della “vita collettiva liberata”.
Guy Debord nella VII conferenza dell’IS del 1966 osservava come le strategie di derivè di gruppo e l’urbanismo unitario
dovessero seguire la loro lotta contro l’architettura utopica, la Biennale di Venezia, gli happening e il GRAV. Questi ultimi
due si svilupparono sempre a Parigi negli anni Sessanta e sono altre forme di arte partecipativa. Nessuna di queste tre è
una forma canonica di arte: esiste poca letteratura sul GRAV, l’attenzione su Label è recente e l’IS non può essere
considerata solo un gruppo di artisti e soprattutto non sono un gruppo di produttori di arte partecipativa. L’interesse per
l’IS per la partecipazione deriva da un’adesione completa alla società, dunque non è da intendere nel senso di Lebel e del
GRAV, ovvero per descrivere una strategia artistica di natura laboratoriale.
Continuano a prevalere le metafore teatrali: Lebel fu influenzato dal Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud; il primo
trattato della sezione francese dell’IS porta il titolo di “Nuovo teatro delle operazioni nella cultura”. Ciascuno dei gruppi
presenta una diversa soluzione al problema della raffigurazione delle esperienze partecipative effimere: il GRAV lascia
sculture e installazioni; Lebel fotografie da interpretare o disegni; l’IS lascia film, trattati discorsivi o modelli
architettonici per continuare lo spirito del loro progetto. Vi sono anche differenze politiche tra i tre gruppi (populismo,
anarchismo, marxismo).
È importante collocare queste attività nel loro contesto politico: nel 1959 ci fu la Rivoluzione cubana che riaccese la
speranza di sinistra; crolla anche la Quarta Repubblica in Francia e viene eletto de Gaulle che inaugurò la Quinta
Repubblica. Il Presidente parlava anche di "partecipazione dipendente”, termini usati poi per indicare la società del
consumo da Touraine, ma per de Gaulle denotava una società basata sul consenso volontario e degna di essere celebrata.
Alcuni artisti furono entusiasti nel fare della partecipazione un principio fondamentale della loro pratica, mentre altri la
rifiutarono in quanto modalità di coercizione artistica equivalente alle strutture sociali, “come se la partecipazione fosse
dovuta”. Si arriva poi nel ‘68 a slogan come “essere liberi vuol dire partecipare”.
Nei circoli artistici la partecipazione fu intesa inizialmente come arte interattiva e cinetica, una nuova modalità popolare e
democratica. Si inizia così a parlare di un’arte democratica: Michel Ragon vede questa maggiore accessibilità negli
esperimenti del GRAV con il gioco e il labirinto o nella collaborazione con l’industria, mentre Frank Popper collega la
partecipazione all’uguaglianza sociale, traendone quindi vantaggi sociali nonostante la scomparsa dell’opera e la ridotta
responsabilità dell’artista. Gli scrittori vedono nell’arte partecipativa una nuova tendenza democratica con implicazioni
sociali e anche questo va contestualizzato, tenendo conto dell’arte francese degli anni Cinquanta, dominata dall'astrazione
dell’arte informale e dal realismo figurativo. Il surrealismo era ancora una presenza culturale molto forte, anche se in
maniera decadente, in quanto per la generazione di artisti più giovani l’inconscio era sopravvalutato; man mano il punto di
riferimento divenne Dada al posto del Surrealismo, non solo per l’IS ma anche per Lebel e i Nouveaux Realistes del 1960.
Tuttavia, come dimostra la prima Biennale di Parigi del 1959 con una convergenza tra arte e alta moda o la
popolarizzazione dei multipli d’artista, l’arte partecipativa nella Parigi degli anni Sessanta seguiva un’idea di democrazia
intesa come uguaglianza nel sistema capitalista consumista e in rari casi si mostrò interesse per l’approfondimento di
questioni come la differenza di classe.
1.L’IS: oltre l’arte
L’Internazionale Situazionista nacque da un certo numero di gruppi artistici e letterari del dopo guerra, come il Lettrismo
(1946-52), l’Internazionale Lettrista (1952-7), il Movimento Internazionale per il Bauhaus Immaginista (1953-7) e CoBrA
(1948-51). Vi sono diversi passaggi:
1. Guy Debord e Gil Wolman si erano raccolti già nei primi anni Cinquanta intorno al poeta rumeno Isidore Isou,
attratti dalla sua ambizione di voler distruggere il linguaggio letterario;
2. Nel 1952 si dividono dal poeta perchè ritenevano che i suoi ideali fossero troppo estetici e venne formata
l’Internazionale Lettrista, con l’obiettivo di trasformare la vita quotidiana. Lo scopo dell’arte non era produrre
oggetti, ma criticare la mercificazione dell’esistenza;
3. Nel 1957 i membri dell’Internazionale Lettrista si uniscono agli altri artisti danesi e italiani per creare l’IS.
Le loro attività principali si diffusero in molte città europee (Parigi, Amsterdam ma anche Germania e Italia) e presero la
forma di film, collage, oltre molti scritti pubblicati nei dodici numeri della rivista “Internationale Situationniste” tra il
1958.72, su argomenti quali il razzismo, situazioni politiche, resoconti di conferenze, mentre sull’arte c’era poco, di cui si
ricordano solo i due tentativi di rovesciare i modelli espositivi con il “labirinto” e la “manifestazione”. Dunque vi è subito
un grande interesse per l’attualità più che per l’arte visiva, anche se la prima uscita della rivista si basa sulle dichiarazioni
del surrealismo, rivendicando la libertà di spirito. Tuttavia, il movimento perse importanza e fu sostituito da Dada,
essendo così “figli di entrambi”, come riporta Bernstein.
Il rapporto tra l’IS e l’arte visiva fu contraddittorio: l’arte doveva essere abolita affinchè si realizzasse come vita. Si
possono individuare due fasi sulla base di questo rapporto.
La prima fase (1957-62) è il periodo più ben disposto nei confronti dell’arte: in questi anni vi furono mostre di Asger Jorn
e Giuseppe Pinot Gallizio nel ‘59. Entrambi volevano mettere in discussione il concetto di autorialità singola: Jorn
dipingendo su quadri già dipinti e comprati al mercato, e Pinot Gallizio presentando quadri astratti su rotoli di tela che si
potevano comprare a metraggio, definiti come “pittura industriale”.
Nel 1960 l’equilibrio inizia a mutare: i due artisti vennero espulsi dall’IS. Dopo il 1962 il gruppo si oppose sempre di più
all'arte intesa come attività separata dalla prassi rivoluzionaria, mentre Lefebvre, che dialogava con Debord, proponeva
un’arte in grado di trasformare la vita quotidiana, attaccando il Surrealismo per il suo ricorrere al “meraviglioso”. I
membri si chiusero fino ad escludere gli artisti, le cui attività non andavano d’accordo con l’arte radicale voluta da
Debord. L’arte non fu più inclusa nel programma della quinta conferenza dell’IS che si tenne nel 1961. È quindi in questi
anni che si ha una secca fase, quella della spaccatura, teorizzata per la prima volta da Peter Wollen. Per Debord non
c’erano mai stati movimenti rivoluzionari nella politica o nell’arte a partire dagli anni Trenta e quindi il compito dell’IS
era quello di superarle entrambe, integrando l’arte con la vita. Questa negazione hegeliana porta alla tabula rasa: bisogna
rinunciare all’arte e farlo per raggiungere una vita quotidiana ricca ed entusiasmante quanto l’arte, superando così
l’alimentazione schiacciante. Ecco perchè i loro scritti sono anti-visivi, ma ciò non significa che rifiutino la dimensione
estetica tutta, in quanto arte e poesia restano comunque importanti per un’esperienza non alienata.
Debord scriveva che non c’erano opere d’arte situazioniste, ma solo usi situazionisti delle opere d’arte: riporta l’esempio
di un gruppo di studenti di Caracas che durante una mostra d’arte francese portarono via cinque dipinti, chiedendo poi il
rilascio dei prigionieri politici in cambio delle opere. Questo era un modo esemplare di trattare l’arte del passato,
rimettendola in gioco per ciò che davvero importava nella vita. Per Debord, una pratica culturale di tipo critico non
avrebbe creato nuove forme, ma avrebbe usato quelle già esistenti attraverso la tecnica situazionista del dètournement,
cioè l'appropriazione sovversiva di immagini esistenti al fine di rovesciare il loro significato stabilito. Per l’IS un buon
detournement capovolgeva la funzione ideologica, ma senza inventirne a forma dell’originale per mantenere la sua identià
(esempio di Debord: la messa nera, inverte il rito cattolico ma mantiene la sua struttura). Questa teoria trova dei
precedenti nel fotomontaggio dadaista e nell’assemblaggio surrealista che tentavano di distruggere il significato delle
immagini (es. i fotomontaggi anti-hitleriani di Heartfield). Debord, inoltre, riteneva che la critica non dovesse avere una
forma razionale, tant’è che anche le alternative dell’IS all’arte visiva, cioè la derivè e la situazione costruita, enfatizzavano
l’importanza del gioco. Sono attività poco documentate e quindi difficili da analizzare, ma vi sono molte mappe e schemi,
come la Guida psicogeografica di Parigi di Debord, dove la città è mostrata frammentata, collegata da aree vuote e frecce
rosse, dunque non ha una funzione, è una pessima guida della città, è una interpretazione personale di Debord; ci aiuta a
valutare le nostre sensibilità rispetto all'ambiente urbano, suggerendo una tecnica.
Quando l’Internazionale Lettrista confluì nell’Internazionale Situazionista, prevalse un terzo concetto: la situazione
costruita. Nella prima uscita della rivista fu definita come un “momento della vita, concretamente costruito tramite
l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti”. La situazione costruita aveva una
struttura partecipativa, in opposizione al non-intervento, l’alienazione dello spettacolo. Furono realizzate collettivamente
in opposizione al capitalismo, negano l’autorialità individuale e rifiutando la burocrazia e il consumismo attraverso il
gioco. Molto si deve a Lefebvre, soprattutto per la “teoria dei momenti”, ovvero quegli istanti che intensificano la
quotidianità. Tuttavia una difficoltà era individuare il suo inizio e la fine, cosa in comune con forme del teatro
post-brechtiano, come gli happening. Vi era inoltre una certa avversione contro la documentazione per evitare l’imitazione
o la reificazione in opera d’arte; l’enfasi era posta su l'istantaneità, l’immediatezza. Basandosi sul gioco, la vita poteva
essere concepita come una serie di situazioni costruite. Mentre oggi l’autorialità del singolo è percepita in maniera
negativa e gerarchica, l’IS non era interessato a lavorare con un pubblico generico, ma le situazioni erano prodotte
insieme agli altri membri, dato anche dalla linea intransigente di Debord che rende il gruppo esclusivo; c’era quindi una
gerarchia, dei ruoli precisi, un capo che organizzava i viveurs.
L’unico tentativo di costruire una situazione per un pubblico più vasto è stata la mostra “Il mondo come labirinto” per lo
Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1960: una derivè di tre giorni, con una micro-derivè in due sale del museo; si
sarebbe trattato di una installazione con un sistema che produceva nebbia, pioggia e vento artificiali. La derivè all’aperto
comprendeva due gruppi, ciascuno con dentro tre situazionisti che avrebbero vagato per la città per raggiungere i luoghi
indicati dal regista. È significativo che il gruppo faccia notare un “certo aspetto teatrale nel suo effetto sul pubblico”,
alludendo allo spettacolo visivo del gruppo per la città: questa esperienza è confrontabile con il teatro visivo di Dada,
quando Breton e gli altri producono una “scultura sociale” con il pubblico generico nel cimitero di Saint Julien-le-Pauvre.

2.Il GRAV: rieducazione percettiva


A differenza di quanto accade con l’IS, il GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel) attuò diversi tentativi per cercare di
raggiungere un maggior pubblico, attirando diverse critiche. Fondato a Parigi nel 1960, il GRAV comprendeva molti
artisti internazionali che lavoravano con l’arte cinetica e optical. Il teorico principale del gruppo era Julio le Parc,
argentino che aveva studiato con Lucio Fontana. L’epicentro era Parigi, ma il gruppo partecipò a mostre in tutto il mondo
tra Europa, Stati Uniti e Giappone. La loro attenzione era posta sugli ambienti polisensorali e sulla scultura cinetica come
mezzi capaci di stimolare degli effetti sulla percezione dell’osservatore, ripensando il rapporto opera-occhio, costruendo
nuovi strumenti per il contatto diretto con il pubblico. Nel manifesto del 1967, affermavano di voler “sostituire l’opera
d’arte o la performance teatrale con una situazione che si evolve e invita lo spettatore alla partecipazione”.
Il GRAV attacca anche la mistificazione dell’artista individuale e il mercato dell’arte, secondo una posizione
esplicitamente antielitaria. La loro produzione comprendeva installazioni ottiche e fisiologiche al movimento, ma anche
opere che coinvolgevano direttamente il pubblico e i passanti, come questionari o giochi organizzati. Fino al suo
scioglimento, nel 1968, il GRAV fu un gruppo di lavoro comune.
A lungo andare l’enfasi sul gioco sembrò un po’ debole, ma fu un primo passo contro l’alimentazione e il raggiungimento
di una maggiore autonomia. Il Labirinto del GRAV (1963) per la III Biennale di Parigi, comprendeva una serie di
esperienze ambientali progettate per stimolare nove diverse categorie di spettatorialità: dalla “percezione corrente” e
“contemplazione” all’”attivazione visuale” o la “partecipazione attiva involontaria”. L’osservatore ideale era concepito in
termini universalistici, un soggetto senza appartenenza di classe capace di ritornare ad un occhio innocente. Tuttavia il
manifesto presente “Basta con le mistificazioni” conteneva messaggi contraddittori: la stessa idea di voler “far”
partecipare qualcuno rende lo spettatore incapace fin dall’inizio e l’unica cosa che potrà fare sarà seguire le richieste degli
artisti. Questo è quello che accade anche nel Labirinto, dove lo spettatore ha diverse risposte limitate prestabilite.
Se l’IS voleva trasformare il mondo partendo dalle proprie esperienze di vita, il GRAV fu più modesto nel cercare di
valorizzare l’individualità e di espandere la percezione degli osservatori che partecipano. Tuttavia le esperienze prodotte
dal gruppo sono più individuali che sociali e sarebbe corretto definirle interattive piuttosto che partecipative, ma
continuarono a credere nelle implicazioni sociali.
Inizialmente il GRAV criticava l’arte come merce, ma se c’è un’azione politica da attribuire al gruppo è nella percezione
che ha l’osservatore, basata sulle proprie capacità sensoriali e di interpretazione. Questa enfasi sulla percezione fu man
mano considerata come il primo passo verso un maggiore impegno. Quasi anticipando il 1968, il GRAV sottolinea nel
manifesto che le loro opere sono politiche nelle implicazioni, attraverso la partecipazione sociale e collettiva come
antidoto all’individualismo, anche se questa linea non fu mai legata ad un progetto politico preciso. È significativo che
l’IS non vede l’individualismo come un problema centrale, ma anzi rappresenta la strada per esperienze di vita più
stimolanti.
Lo sforzo più grande del GRAV alla ricerca di una coesione sociale fu Une journèe dans la rue, un itinerario di azioni
pubbliche in giro per Parigi, realizzato nel ‘66. L’itinerario iniziava dalla fermata di Chatelet; poi sugli Champs Elysèes
venivano assemblate e smontate le strutture modificabili; vicino l’Opera c’erano oggetti cinetici abitabili dai passanti e la
giornata finiva con un passeggiata lungo la Senna con luci elettroniche lampeggianti. Al pubblico fu anche consegnato un
questionario sull’utilità dell’arte moderna nelle gallerie e nei musei. La premessa non è diversa da quella fatta per
l’urbanismo situazionista, anche se le risposte dei due gruppi sono diverse: il GRAV confessa di non essere in grado di
spezzare la routine di una giornata qualunque a Parigi, ma spera di poter cambiare comunque le cose, superando i rapporti
tradizionali tra l’opera d’arte e il pubblico. È importante che il GRAV guardasse al parco divertimenti, un luogo dove il
tempo è in movimento, a differenza che nei musei. L’IS non era d’accordo con queste azioni in quanto il desiderio di
trasformare lo spettatore passivo in stimolato significava chiedere all’osservatore di contemplare uno scenario preesistente
creato dall’artista. Questo non faceva altro che replicare il controllo sistematizzato sui cittadini all’interno della società
dello spettacolo. Dunque non c’è uno spettatore libero di essere semplicemente passivo, perchè anche la sua passività è
organizzata. L’impegno del GRAV nella sperimentazione formale, con l’uso di metafore con connotazioni politiche quasi
supplementari, ha molto in comune con la difesa che Bourriaud fa dell’estetica relazionale. Il gruppo, quindi, replicava in
tutto la struttura capitalista.
Dunque nonostante il GRAV utilizzasse il termine “situazioni”, il suo tentativo di incoraggiare la partecipazione fu
abbastanza banale, ma comunque erano eventi meno esclusivi rispetto a quelli dell’IS. La banalità delle opere del GRAV
pongono in primo piano un paradosso della partecipazione come dispositivo artistico: la possibilità di manipolare
un’opera diventa una consuetudine secondo cui l’osservatore di turno è manipolato affinchè completi l’opera
“correttamente”.

3.Lebel: esorcismo collettivo


Non furono solo Le Parc e il GRAV ad essere accusati di pseudo-partecipazione. Gli happening, nel tentativo di far
accadere qualcosa, furono comunque oggetto di critiche. I primi happening in Europa ci furono durante i festival
“Anti-Procès” di Jean-Jacques Lebel dal 1960 in poi, una mostra con protesta itinerante contro la guerra in Algeria. Il
primo happening europeo realizzato da un autore singolo fu creato durante il secondo festival tenuto a Venezia e terminò
con Il funerale della cosa di Tinguely di Lebel, con una complicata performance quasi rituale che si rifà al Marchese de
Sade.
Lebel arrivò a questo format guardando alle esperienze Dada e surrealiste piuttosto che l’avanguardia newyorkese come
John Cage o Pollock; aveva base a Parigi e a New York nei primi anni Sessanta e partecipò anche a diversi happening di
Kaprow. Per lui gli happening europei e statunitensi avevano in comune la preoccupazione di restituire all’attività artistica
l'intensificazione delle emozioni, il gioco degli istinti e l’abitazione sociale. Tuttavia tra i due vi erano delle differenze.
Gli happening statunitensi, come teorizzato da Allan Kaprow, guardavano alle innovazioni compositive di John Cage e si
svilupparono in risposta all’action painting di Pollock. Il primo happening fu Eighteen Happenings in Six Parts dello
stesso Kaprow, nella galleria Reuben di New York nel 1959. Kaprow pone gli happening in opposizione al teatro
convenzionale in quanto rifiutano la trama, i personaggi, la divisione tra pubblico e performer, in favore di eventi
parzialmente preparati che portavano il rischio nel quotidiano. Dalla metà degli anni Sessanta il pubblico di Kaprow iniziò
ad essere coinvolto nella realizzazione dell’opera, ma questa fu un’eccezione perchè altri artisti, come Oldenburg,
portarono avanti il “teatro d’artista”. A differenza degli eventi di Kaprow, quelli di Lebel non erano organizzati, ma
seguivano le maniere dettate dalle circostanze attorno a scene o episodi, a cui si arrivava attraverso una discussione di
gruppo (stessa tecnica del Living Theater).
Tuttavia è il riferimento agli eventi politici contemporanei a separare gli happening europei da quelli nordamericani. Il
lavoro degli europei (come Lebel o gli azionisti viennesi) conteneva una notevole critica socio-politica nei confronti della
società dei consumi, mentre i nordamericani consideravano la loro attività come un mezzo apolitico per cambiare
l’atteggiamento delle persone nei confronti della vita. Berghaus nota come gli happening europei siano un confronto con
la nostra esistenza alienata nella società tardo-capitalista. Anche nel lavoro di Lebel vi sono molti riferimenti all’attualità,
ponendo l’accento sulla libera espressione, sul mito e sull’esperienza allucinatoria. Nel suo happening del ‘62, Per
esorcizzare lo spirito della catastrofe, il manifesto denunciava l’impegno in un “esorcismo collettivo”. L’evento
comprendeva un. Flusso di azioni accompagnate da un gruppo di jazz la cui musica era improvvisata come gli eventi
attorno al pubblico; Lebel portava un televisione di cartone in testa e parlava degli obiettori di coscienza e
successivamente spingeva una carrozzina avvolta nella bandiera francese, per poi impersonare un nazista robotico. Il
culmine si raggiungeva quando Lebel e altre tre persone si toglievano i vestiti e facevano un action painting in cui Lebel si
lanciava attraverso la tela fuori dalla galleria. Con il suo riferimento alla società dei consumi e ai tabù sessuali e politici, il
lavoro di Lebel non era molto diverso dalla maggior parte degli happening degli artisti statunitensi e si avvicina molto al
Living Theatre che, provenendo da New York, girava molto l’Europa. In entrambi gli eventi la nudità era un veicolo per la
liberazione sessuale e la coscienza politica. Tuttavia vi sono delle differenze: gli eventi del Living Theatre erano portati in
tournèe, mentre quelli di Lebel erano performance uniche, anche se Per esorcizzare lo spirito della catastrofe è stata
un’eccezione perchè fu ripetuto in uno studio cinematografico nel ‘63 per un documentario sugli happening.
Lebel presenta una particolare interpretazione della partecipazione dell’osservatore e del ruolo dell’artista: nel suo saggio
“Le Happening” vede il ruolo dell’artista nella società come quello del trasgressore morale, quindi non una guida o un
educatore, ma un canale per i desideri collettivi. Il suo approccio è lontano da quello del GRAV, per il quale il ruolo
dell’artista era una questione organizzativa, producendo situazioni per rendere il soggetto osservante ed espandere la sua
percezione. Lebel invece si rifiuta di riconoscere la distinzione tra performer e pubblico, senza alcuna frontiera tra arte e
vita. L’artista sostiene che chiunque fosse presente ad un happening fosse partecipe dell’esperienza prodotta in maniera
collettiva. L’artista è un “dispositif” attraverso il quale i desideri delle persone convergono in un’unica voce collettiva, in
analogia con Felix Guattari quando parla di “concatenamento collettivo d’enunciazione”. Per eliminare l’organizzazione
razionale del capitalismo, egli ricorre all’abbandono sessuale e alle droghe allucinogene così da eliminare il soggetto e
l’oggetto.
L’esempio più estremo fu 120 minuti dedicati al divino marchese nel ‘66 al Theatre de la Chimère. Circa 400 persone
entrarono nell’edificio passando dall’ingresso per gli artisti, accolte da donne nude che prendevano le loro impronte
digitali prima di passare per un corridoio insanguinato, un ritorno al grembo materno. Gli spettatori entravano
direttamente sulla scena dove si stava svolgendo l’azione, ma potevano anche scendere nell’auditorium. Lebel indossava
una parrucca blu e officiava una funzione sul corpo di una donna nuda stesa su un altare; una volta finito lei si alzava e
indossava la maschera di de Gaulle. Fu avvertita la polizia e alla fine Lebel fu arrestato, a cui risposero con una lettera
aperta in sua difesa Breton, Duchamp, Sartre e de Beauvoir.
L’happening di Lebel è un esempio calzante per le tesi della Sontag quando parla di aggressione nei confronti dello
spettatore: negli happening newyorkesi in realtà non troviamo mai questo antagonismo nei confronti del pubblico ma più
che altro rappresentazioni teatrali tradizionali. Anche Sartre parla di “sadismo nei confronti del pubblico” citando Label.
Tra gli happening statunitensi, solo Meat Joy del ‘64 della Schneemann si avvicina alla trasgressione di Label, costituita
da attori che si contorcevano mezzi nudi su musica pop, sporcandosi a vicenda con vernice, pesce e polli. La
partecipazione del pubblico non era parte formale dell’opera, ma quando venne presentata a Parigi si arrivò anche a gesti
molto estremi, di cui non vi è alcuna denuncia da parte dell’IS quando critica gli happening. Lebel sostiene che Debord
non avesse mai partecipato ai suoi eventi. A livello artistico, i due avevano molti aspetti in comune: entrambi erano nati
dal Surrealismo per poi rifiutarlo, si scagliavano contro il museo e la commercializzazione, cercavano esperienze
autentiche per liberare il quotidiano. Tuttavia Debord intendeva una liberazione in termini marxisti (sconfitta
dell’alimentazione), mentre Lebel trova un modello anarchico nelle droghe e nella liberazione sessuale.
Gli artisti degli happening cercavano di portare il quotidiano all’interno dell’opera d’arte, mentre Debord e l’IS negavano
l’arte in favore di una vita quotidiana più intensa. L’IS tende a criticare queste tecniche in quanto partivano dalle loro
stesse idee, ma in maniera più banale. Ma se davvero avessero partecipato, si sarebbero resi conto di una poetica della
trasgressione diversa con una nuova esperienza di gruppo, entrando in uno spazio di trasformazione collettiva, dove
individuale e sociale, attivo e passivo si disintegrano, scatenando le tensioni represse.

4.Un’insurrezione teatrale
Ognuna di queste attività di gruppo mirava a colpire direttamente la coscienza dell’osservatore per liberarla in modi
diversi. L’IS offrì modelli per giochi creativi e concettuali all’interno di una città consumista e ciò portò anche a rifiutare
le altre forme d’arte e il concetto di pubblico di massa. Il paradosso è che l’IS rifiutava l’arte ma la invocava
continuamente come parametro per una vita non alienata. La logica contraddittoria di questa posizione è produttiva e
supera l’interattività tecnologica del GRAV, che insistendo sulle esperienze fisiche finisce per semplificare l’opera d’arte.
Lebel, al contrario, creava riti collettivi quasi terapeutici in cui erano espressi e sfidati i tabù e le inibizioni sociali. Il suo
lavoro tentava di superare le consolidate dicotomie che strutturavano il pensiero sull partecipazione, come la distinzione
tra artista e pubblico o spettatorialità attiva e passiva. Queste tre tendenze sono state un apripista per il rifiuto sociale del
‘68 ed è significativo che dopo quel maggio Lebel smise di fare happening perchè riteneva che fossero stati fatti nelle
occupazioni e nelle proteste. Così il sogno avanguardista di trasformare l’arte in vita attraverso l’esperienza collettiva era
stato realizzato. Che l’IS definì il maggio del ‘68 come la realizzazione delle sue idee. Dopo questo momento l’IS e il
GRAV si sciolsero.
Questi esperimenti partecipativi prima del ‘68 portano a diverse importanti opinioni sul pubblico. Nessuno di loro da
importanza all’identità dei partecipanti, ma anzi c’era assenza di coscienza di classe tra gli artisti. Debord e Lebel
venivano da famiglie benestanti e non guardavano al di là della comunità di artisti. Il GRAV, al contrario, cercava un
pubblico generico. Dunque il desiderio degli artisti di oggi di raggiungere gruppi sociali senza diritti o marginali è uno
sviluppo più recente che riflette l’influenza delle arti di comunità degli anni Settanta.
Nonostante non si possa ridurre l’attività dell’IS all’arte partecipativa, le loro esperienze assieme a quelle del GRAV e di
Lebel, servirono a consolidare il dibattito degli anni Sessanta intorno all’arte partecipativa come arte fondata sulla
polarizzazione tra spettatorialità attiva e passiva. Questi esperimenti furono messi in discussione negli stessi anni in
Argentina dove si affrontò la partecipazione in maniera diversa, attraverso esperimenti di separazione sociale e non
situazioni di unione collettiva.
4.SADISMO SOCIALE ESPLICITATO

L’Occidente ha iniziato ad interessarsi all’arte argentina degli anni Sessanta solo di recente, tuttavia figure come Léon
Ferrari non si sono ancora affermate come dovrebbero, come anche i singoli artisti che partecipano a progetti collettivi, ad
esempio Tacumàn Arde del 1968. Vi sono comunque diverse forme di arte partecipativa date dall’influenza di Oscar
Masotta, mentre un ponte tra azione artistica e politica di sinistra sono le azioni teatrali del regista brasiliano Augusto
Boal che ebbe un seguito notevole negli anni Settanta. Questi artisti non si conoscevano tra loro ma utilizzavano le stesse
strategie artistiche: considerare la realtà e coloro che la abitano come materiale, voler politicizzare quelli che entrano in
contatto con questo tipo di opera. La priorità di Boal era la rivoluzione in sè, come per l’Internazionale Situazionista, che
rifiutava l’arte in favore del cambiamento sociale; tuttavia la sua premessa era quella di aderire a nuovi metodi di
educazione pubblica e la costruzione della fiducia in se stessi dei partecipanti.
Le azioni partecipative prodotte in Argentina erano in contrasto con quanto succedeva in Brasile, dove le forme fredde
dell’astrazione europea vanno verso un’esperienza fatta di colore e tattilità. Quindi se l’arte brasiliana si basava sul
sensuale, l’arte argentina era meno visiva e tendeva a produrre situazioni, con una storia di gesti isolati che invitavano gli
spettatori a pensare e analizzare, seguendo quindi un approccio più analitico. Si dà inizio a una controparte importante
dell’arte partecipativa che contemporaneamente si sviluppava in America del Nord e in Europa. In Argentina il modello
degli happening fu contestato quasi subito e criticato tramite lo strutturalismo e la teoria dei media.
Questa scena è anche causata da dittature sempre più coercitive (si ricordi ad esempio la Rivoluzione argentina del ‘66-70
o la Guerra “sporca” del ‘76-83 dove i mezzi di comunicazione di massa passarono sotto il controllo delle forze armate)
che imposero nuove forme di censura e repressione.

1.Sadismo sociale esplicitato


Oscar Masotta (1930-79) è stato un intellettuale conosciuto per aver introdotto in Argentina la psicoanalisi lacaniana, ma
realizzò solo tre opere d’arte. Tuttavia il suo coinvolgimento nella produzione artistica degli anni Settanta fu importante:
si impegnò molto nell’arte contemporanea: conia il termine de-materializzazione, aiuta lo sviluppo dell’arte mediale in
Argentina ed anche la ricezione nel Paese delle ultime novità artistica dell’America del Nord. Nel 1966 fu a capo di un
gruppo di lettura che si incontrava ogni giorno, per applicare la linguistica strutturale e la teoria della comunicazione alle
opere d’arte e alla vita quotidiana, affrontando testi di McLuhan, Barthes e la Sontag.
Contemporaneamente si stava formano Il Gruppo delle Arti Mediali (1966-68), il cui evento più famoso fu un
“anti-happening” nel 1966, conosciuto anche come Prima opera d’arte mediale o Partecipation Total o Happening per un
cinghiale defunto. Realizzato da Jacoby, Escari e Costa, con anche la partecipazione di Marta Minujìn e Masotta, l’opera
era la risposta diretta al modo in cui il termine happening era diventata una parola di moda nei media. L’happening fu
annunciato tramite un comunicato stampa degli artisti, apparendo su molte riviste, ma di fatto non avvenne ma: consisteva
solo in fotografie per la diffusione mediatica. Il secondo comunicato stampa svelò l’inganno, mettendo a nudo il modo in
cui i media operano. Quindi mentre in Europa e America del Nord si enfatizzava il brivido esistenziale della presenza non
mediatica, questo happening esisteva solo come informazione e circolazione de-materializzata dei fatti, cancellando la
linea divisoria tra partecipante e spettatore in quanto non c’era alcun evento a cui partecipare, ma i media stessi erano il
medium dell’opera e il suo contenuto primario. Masotta viaggiò molto in quell’anno, fino a produrre, in estate, con il
gruppo di lettura Sugli Happening, ovvero un happening formato da happening di altri artisti come Oldenburg o la
Schneemmann; le azioni non erano basate sull’esperienza in prima persona delle opere, ma sulla descrizione di esse sulle
riviste, quindi erano già mediate. Lo scopo era de costruire l’insistenza degli happening sull’immediatezza e prendersi
gioco delle persone che vi partecipavano in quanto un evento dal vivo era tenuto in piedi da complessi strati di
mediazione.
A novembre del 1966, Masotta realizza il suo primo happening, Per indurre lo spirito dell’immagine, con la caratteristica
di un atteggiamento aggressivo verso i partecipanti. Per comprendere l’evento bisogna guardare anche alla difesa scritta
successiva, “Ho commesso un happening”: venti anziani furono pagati per stare in un magazzino, di fronte a un pubblico
ed essere esposti al getto di estintori, sotto un suono assordante. Masotta all’inizio dell’evento fece una conferenza sul
controllo, anche se sembrò che stesse per accadere il contrario non appena entrarono i visitatori. Il testo di Masotta
riprende più volte la questione della colpa, racchiusa anche nel titolo (I committed), una confessione diretta
all’intellettuale Klimovsky che riteneva gli happening uno spreco di risorse, in quanto la posizione giusta della sinistra
sarebbe stata quella di astenersi da tutto e dedicarsi ai problemi reali; questa visione viene rifiutata da Masotta, che
giustifica il suo esperimento nel testo, definendolo una lente attraverso la quale impegnarsi in maniera diretta con le
contraddizioni del contesto sociale e politico1 (e quindi non un modello sociale ideale come per l’avanguardia utopica). In
realtà vi furono alcuni cambiamenti, in quanto al posto di reclutare i performer nel proletariato, Masotta alla fine scelse

1
A giugno del 1966 inizia la Rivoluzione argentina
venti anziani di ceto medio-basso, vestiti da “poveri”; inoltre inizialmente dovevano anche avere delle bandierine per
chiedere di andarsene, ma questo avrebbe addolcito la situazione e l’effetto cercato, al contrario, era quello di
un’esperienza nuda e dura, in contrasto con l’immagine frivola mediatica degli happening. L’atto di manipolazione
avveniva nella reificazione, enfatizzando la distanza economica e psicologica tra spettatore e attore, in contrasto con la
tendenza degli happening ad eliminare questa distinzione. L’happening fu definito da Masotta come un “atto di sadismo
sociale esplicitato”, sempre secondo l’interesse lacaniano di Masotta. Il titolo dell’happening inoltre richiama quello di
Lebel Per esorcizzare lo spirito della catastrofe anche se le due opere erano molto diverse in quanto Lebel faceva
riferimento alla politica della Guerra fredda e cercava l’emancipazione collettiva tramite la nudità e l’espressione sessuale,
rifiutate da Masotta, mentre probabilmente la sua intenzione era quella di avere un punto di riferimento internazionale per
il proprio lavoro. Tuttavia un riferimento più pertinente può essere un evento di La Monte Young a New York a cui
Masotta partecipò nel 1966 in cui un suono elettronico esasperante veniva emesso dall’opera. L’interesse dell’artista per
l’aggressione nei confronti del pubblico viene svelato da Suceso Plàstico di Minujin nel 1965 dove uomini e bambini
erano sollevati da body-building, altre donne si rotolavano per terra, alcune coppie attaccate insieme da nastro adesivo,
fino a che un elicottero non rovesciò dal cielo farina, lattuga e 500 polli vivi in testa al pubblico che non poteva lasciare lo
stadio. Fu un importante precedete per lo sviluppo di una performance in cui i partecipanti erano al centro come oggetto e
materiale del lavoro.
Le altre due performance di Masotta furono L’elicottero e Il messaggio fantasma: ciò che le accomuna è la divisione dei
pubblici per formare due gruppi d'esperienza inconciliabili, come nella performance vista, dove uno dei due gruppi pagava
per vedere il disagio degli altri. Il punto centrale era la frammentazione, la mancanza di un’esperienza unificata,
interrompendo il flusso comunicativo, che così nega l’happening stesso, in confronto alle esperienze americane ed
europee.

2.Artista come torturatore


La performance di Masotta non ebbe spazio sulla stampa del tempo perchè si svolse in una piccola sala prove dell’Istituto
Di Tella e non fu parte di un programma ufficiale. Tuttavia l’anno seguente la risposta di Oscar Bony all’opera creò un
grande dibattito sui media, grazie alla creazione della La Familia Obrera (operaia) : rappresentata nella controversa
mostra Experiencias 68, la performance prevedeva una famiglia operaia seduti su una pedana per otto ore al giorno,
guadagnando due volte il salario abituale solo per stare seduti, mangiare, fumare o leggere in mezzo al pubblico. L’uso di
una famiglia “reale” complica la lettura dell’opera in quanto è soggetta all’esame minuzioso di un pubblico borghese
andato lì per vederla, come si vede nella fotografia dove una famiglia “perbene” ispeziona quella di livello inferiore.
L’opera di Bony venne considerata fra le più autentiche esperienze presentate alla mostra, dove molte delle opere erano
legate al superamento dello spazio tra artista e osservatore, tradizionalmente occupato all’opera d’arte figurativa. Molte
opere furono poi distrutte dagli artisti stessi contro la censura dell’opera di Roberto Plate, un simulacro di un gabinetto
pubblico ma senza servizi, solo uno spazio vuoto che venne imbrattato di graffiti. I critici accusarono anche l’opera di
Bony in quanto sarebbe stata per loro più efficace se mostrata all’interno di un sindacato, mentre in un museo evidenziava
il rifiuto di voler comunicare con un pubblico di non specialisti. Bony al contrario aveva portato un frammento della
classe operaia nella mostra, interessandosi anche alla de-materializzazione. Quest’ultima si manifestava nell’arte argentina
in diversi modi: lavori che esistevano solo nei media come abbiamo visto o come l’opera di Bony che assume la forma di
una presenza materiale dal vivo (il corpo umano) e oggi esiste solo come fotografia. Il lavoro, attività e retribuzione, era il
tema centrale dell’opera, come anche la rappresentazione di un ideale familiare esemplare.
L’opera può essere contrapposta ad altre due:
● Living Sculptures di Pi Lind, dove vengono esposte venti persone sui piedistalli per il Moderna Museet di
Stoccolma, come fossero ritratti di persone “normali” (insegnanti, un fotografo, una casalinga, un papà), una
sorta di esposizione sociologica, con continuità tra i performer e il pubblico
● L’esposizione di Paolo Rosa, un uomo con la sindrome di Down alla Biennale di Venezia del ‘72, esposto da
Gino De Dominicis; seduto su una sedia, fissa una palla di gomma e una pietra sul pavimento e a sua volta viene
guardato dal pubblico. L’opera quindi rappresenta due tipi incompatibili di visione: lo sguardo per performer e
quello di coloro che lo guardano.
È significativo che Bony non sapesse ancora come definire questo suo lavoro in quanto era un’opera concettuale ma anche
materiale, anche se delle persone non possono costituire il materiale dell’opera; non era performance, ma neanche body
art e neanche la Bishop trova una categorizzazione precisa. L’osservatore davanti alla famiglia prova imbarazzo in quanto
guarda persone che sono state pagate per essere guardate. A causa di questa complicata dinamica, Bony si definì un
“torturatore”, esponendo quelle persone al ridicolo. La Familia Obera consolida la storia delle opere performativa
dell’Argentina degli anni Sessanta dal momento in cui adotta strategie di reificazione aggressive, giocando sulla classe
sociale. In Argentina, durante gli anni Sessanta, la pressione della dittatura militare diede avvio ad un tipo di arte
partecipativa che trasformò l’immediatezza degli happening in un contesto fatto di costrizione, manipolazione e negazione
mediatiche.

3.La galleria chiusa, la rissa, la prigione


Un nuovo approccio creativo viene manifestato in maniera più evidente nel Ciclo de Arte Experimental organizzato dal
Gruppo di artisti d’avanguardia nella città di Rosario nel 1968. Il gruppo nacque da un desiderio di autonomia, per avere
un proprio spazio espositivo, organizzare proprie mostre e scrivere della propria opera, essendo così i curatori e critici di
se stessi, senza dipendere dalle strutture internazionali. Nonostante vi fossero artisti individuali, c’era sempre un dibattito
continuo e le loro azioni erano sempre più politicizzate. Il Ciclo assunse la forma di dieci azioni, molte delle quali si
appropriavano di forme e comportamenti sociali, ritirandosi dagli spazi istituzionali, trovare nuovi pubblici e mescolare
l’arte con la vita quotidiani, rendendo il pubblico il materiale dell’azione artistica.
Il primo evento del ciclo, di Norberto Julio Puzzolo, prevedeva che lo spazio della galleria fosse riempito di sedie rivolte
verso la vetrina sulla strada, creando una sorta di “spettacolo invertibile”: gli spettatori osservavano la strada e nello stesso
tempo erano trasformati in una performance per i passanti. Verso la fine del Ciclo, gli artisti iniziarono ad uscire dalle
gallerie, ad esempio Edoardo Favario lascia lo spazio espositivo in stato di abbandono, lasciando un avviso rivolto ai
visitatori in cui diceva che l’opera si trovava in una libreria dall’altra parte della città. Così lo spettatore doveva cercare
l’opera, abbandonando la sua posizione statica e dovrà partecipare attivamente, andando a costituire l’azione costituirà
l’opera d’arte. Durante il nono evento, invece, fu simulata una rissa fuori dalla galleria, mentre i passanti cercavano di
separare i due uomini; l’intenzione era quella di provocare una reazione diretta del pubblico.
L’intenzione di questi artisti era creare un’arte sociale, rompendo la sfera del mercato dell’arte istituzionale, invalidando
lo spazio espositivo tradizionale, coinvolgendo il pubblico così che il vero lavoro d’arte fosse nella realtà quotidiana.
L’evento più sorprendente fu realizzato per la fine del Ciclo, da Graciela Carnevale e a differenza delle azioni precedenti,
questa volta non vennero svelate le sue intenzioni. L’opera consisteva in una stanza vuota, spoglia, dove i partecipanti
sono stati poi rinchiusi, resi prigionieri, così che siano obbligati a partecipare con violenza e la fine dell'opera fosse un atto
intenzionale. Tuttavia nessuno all’interno della galleria prese l’iniziativa e il vetro fu spaccato dall’esterno.
Il Ciclo di Rosario offre molti spunti di riflessione per la genealogia dell’arte partecipativa: non solo il passaggio dalla
galleria allo spazio pubblico e il ripensamento della mostra come eventi collaborativi, ma in argentina vengono utilizzate
le persone come materiale. Masotta presenta l’opera come un esperimento critico, mentre Carnevale fa sì che il pubblico
sia consapevole della violenza che stava vivendo.
Molti degli artisti del Ciclo si impegnarono anche nel progetto Tucumàn Arde, contro lo sfruttamento degli operai sfruttati
dallo zuccherificio della provincia, seguendo un approccio attivista nei confronti di una crisi sociale e politica. Lo scopo
era esporre l’osservatore alla realtà dell’ingiustizia sociale, svelando la realtà della situazione. Il pavimento dell’ingresso
della mostra fu coperto da striscioni che portavano i nomi dei proprietari delle piantagioni e i contatti che essi avevano
con la classe dirigente, mentre le pareti furono investite con un collage di articoli di giornale; nella stanza centrale c’erano
le fotografie degli abitanti della provincia e delle loro condizioni di vita. Ogni due minuti un blackout nell’edificio
ricordava i bambini morti in quell’intervallo di tempo. Tucuman Arde è diventato un esempio importante per le mostre
politiche, nonostante si sacrificò la partecipazione intesa come strategia artistica per tornare a una modalità più
convenzionale di spettorialità.

4.Teatro Invisibile
Il regista brasiliano Augusto Boal (1931-2009) porta il teatro negli spazi pubblici dell’America del Sud e sembrasse avere
molto in comune con gli ultimi eventi del Ciclo. I suoi lavori inizialmente adattavano i classici stranieri come Gogol o
Molière, negli anni Sessanta, arrivando a ripensare la relazione pubblico/attore secondo le nuove forme della performance
partecipativa, con il fine di elevare la consapevolezza e dare potere alla classe operaia. Si concentrò molto
sull’eliminazione degli spettatori per renderli “spett-attori”, come “prova della rivoluzione”.
Una delle sua innovazioni più importanti per l’arte contemporanea fu quella del Teatro Invisibile, creato a Buenos Aires,
come modalità di azione pubblica e partecipativa senza cornice, evitando di essere individuati dalla polizia, così che
sarebbe sembrato uno spettacolo senza esserlo. Collaborando con un gruppo di attori, l’idea era quella di creare una legge
umanitaria così che la gente povera potesse mangiare nei ristoranti mostrando una particolare carta d’identità. Alcuni
attori si sedettero in un ristorante molto affollato, il protagonista decide di mangiare alla carta ma alla fine ammette di non
poter pagare e si offre di lavorare in cambio dei pasti, tuttavia il cameriere non lo asseconda nonostante l’insistenza e i
clienti sono sempre più interessati alla questione, finchè uno degli attori non inizia a raccoglie soldi per pagare il conto.
Questa integrazione tra artificio e realtà la si può paragonare agli ultimi eventi del Ciclo dove si opera di nascosto, senza
ammettere l’opera d’arte. In entrambi i casi il pubblico è agente attivo e la riuscita dell’opera dipende dal suo intervento,
tuttavia il lavoro di Boal va oltre: porta il teatro ad un pubblico che non riconosce se stesso come tale, inscenando un
dibattito sul tema del lavoro. Il Teatro Invisibile mirava a educare il pubblico, a essere più consapevole della differenza di
classe, fornendo uno spazio per il dissenso, dunque non si può negare la natura didattica di questo approccio, riuscendo
comunque ad entrare nello spazio pubblico senza dichiararlo.
Oggi Boal è più conosciuto per il Teatro Forum, più spontaneo, improvvisato e avviene all’interno di una cornice
educativa protetta. Inizia con una situazione che è presentata dagli attori al pubblico, che poi diventa protagonista
nell’ideare percorsi alternativi agli eventi iniziali. Lo scopo è imparare ad esercitarsi, preparando gli spett-attori alla vita
reale, imparando le possibili conseguenze delle loro azioni. Boal quindi cercava di avere un impatto positivo e non
provocare reazioni emotive davanti alla rappresentazione della difficile realtà sociale. Dunque la partecipazione poteva
essere usata per raccogliere idee su come cambiare la realtà. Un teatro didattico ma non come una volta, qui si impara tutti
insieme, pubblico e attori. Nel contesto dell’arte contemporanea è significativo il fatto di non avere immagini di queste
esperienze: la forza del pensiero di Boal si comunica meglio verbalmente, richiamando le innovazioni di Ejzenstejn negli
anni Venti che usava la realtà come scenario e le persone reali come attori.
Il Teatro Invisibile di Boal sembra anticipare molti episodi che hanno luogo negli spazi pubblici, senza preavviso e fuori
dalle gallerie, opere come Real Time Movie di Pawel Althamer si inseriscono nel flusso quotidiano senza preavviso, col
rischio di essere ignorate. Tuttavia a differenza di Boal che ricercava l’azione da parte dello spettatore partecipante, queste
nuove pratiche hanno paura che le possano essere soggette a una “manipolazione invisibile”.

5.Arte com atto terroristico


Le azioni partecipative in Argentina nascono in risposta a un contesto più duro rispetto all’Europa. Se l’arte partecipativa
europea e nordamericana critica lo spettacolo nel capitalismo e cerca di promuovere l’attività collettiva contro la passività
individuale, gli artisti argentini reagivano e si interrogavano su questa valorizzazione dell’immediatezza, opponendosi alle
dittature che avevano abolito la protesta pacifica. Ciò portò a due impulsi contraddittori: da una parte si avvicinava l’arte
alla vita ma contemporaneamente si prendevano le distanze da entrambe. Questo porta alla reificazione del corpo umano
nelle installazioni (Masotta, Bony) o alla produzione di eventi alienanti in cui lo spettatore recita un ruolo in una
situazione non dichiarata ma pensata (il Ciclo, Boal). Questi lavori si basano sulla teoria francese (come il lavoro di
Merleau-Ponty): si può affermare che questi lavori siano non-occidentali per la risposta alla dittatura, ma ultra-occidentali
nell’uso delle teorie europee. Sono un precedente importante per gli usi attuali della partecipazione ma allo stesso tempo
mettono in discussione che la partecipazione sia sinonimo di democrazia, a causa del contesto da cui provengono; basti
pensare anche al fatto che molto spesso in Argentina le persone sono utilizzate come materiale artistico e vengono pagate
per questo, proprio per prendere coscienza contro la dittatura (es anche solo guardare la famiglia esposta non è
democratico). Se i contenuti devono essere rivoluzionari, il materiale deve essere sconvolgente, violento, l’arte deve
disturbare per essere efficace. Per l’IS, al contrario, l’arte non aveva ruolo nel far avanzare la rivoluzione, non era un
apripista verso la rivoluzione, ma un anticipazione delle conseguenze del fervore rivoluzionario.
La dittatura divenne sempre più surreale e molti artisti scelsero l’esilio. Negli anni Settanta queste pratiche cessarono e
suono sostituite da manifestazioni pubbliche, come Madres de Plaza de Mayo nel 1977.

5.IL SOCIALE SOTTO IL SOCIALISMO

È l’episodio più complicato della storia dell’arte partecipativa perchè il collettivismo, in questo periodo storico, è un
obbligo ideologico, una norma imposta dallo Stato. L’arte partecipativa nell’Europa dell’est e in Russia dai tardi anni
Sessanta agli anni Ottanta si caratterizza per il desiderio di una estetica più soggettiva e privata, rovesciando così il
modello occidentale. Le esperienze individuali, che costituivano l’obiettivo dell’arte partecipativa, sotto il comunismo
furono concepite come esperienze private condivise, con la costruzione di uno spazio artistico collettivo tra colleghi che si
fidavano tra loro. Queste esperienze sono complesse: gli artisti non consideravano politica la loro opera, ma esistenziale,
apolitica, legata alle idee di libertà e di immaginazione individuale, cercando una produzione artistica più vasta,
democratica, in contrasto con il sistema regolamentato dell’Unione degli Artisti Socialisti Sovietici.
Ci sono state diverse reazioni artistiche al regime, in linea con la relazione che ogni nazione aveva con Mosca, dalla
dittatura in Romania a tendenza più liberali nell’ex Jugoslavia con Tito. Tuttavia cambiamenti vi furono anche nella stessa
Mosca, dalla parziale destalinizzazione di Chruscev al ritorno alla linea dura conservatrice con Breznev. Per questi motivi
anche le relazioni tra est e ovest non furono semplici.
L’arte partecipativa è rara nei contesti sovietici, ma ci sono due blocchi che fanno eccezione: la ex Cecoslovacchia - Praga
e Bratislava - e Mosca con il gruppo di Azioni collettive. A differenza di quanto accadde in Argentina, qui fu alieno il
concetto di collaborare con comunità prive di diritti perchè tutti i cittadini erano uguali, co-produttoi, non esisteva
differenza di classe. Il problema era trovare partecipanti ffidabili che non avrebbero informato nessuno. Dunque la
partecipazione fu intesa come strumento per mobilitare l’esperienza soggettiva in amici artisti e non in un pubblico
generico. Tutte le registrazioni del regime determinarono anche l’aspetto formale di queste opere che erano sobrie e brevi,
spesso svolte in campagna, lontane dalla sorveglianza. Il fatto che molte di esse non sembrassero arte non è perchè si
volesse confondere “arte e vita”, ma più una strategia di auto-protezione.

1.Praga: dalle azioni alle cerimonie


La Cecoslovacchia entrò sotto il controllo sovietico nel febbraio del 1948. Questo portò a minare ogni spazio di pensiero
privato e ogni momento personale venne organizzato così da dimostrare fedeltà al regime, senza più tempo per i propri
interessi privati. La proprietà privata fu eliminata, insieme alla privacy e all’individualià. Quando Breznev annullò le
innovazioni positive di Chruscev, la liberalizzazione continuò in Cecoslovacchia nel corso degli anni Sessanta: l’aumento
delle difficoltà economiche portò alla crescita delle idee riformiste che si opponevano allo stalinismo. Gli artisti ora
potevano viaggiare ed erano in contatto con i colleghi internazionali. Tuttavia questa parentesi durò molto poco.
L’invasione sovietica del 21 agosto del 1968 portò alla “normalizzazione” cioè la ricostruzione del controllo centralizzato,
un processo molto duro che comprese la censura sui media, restrizioni sui viaggi e un’aggressività polizia segreta. Gli
anni Settanta, quindi, furono molto duri.
Lo spazio pubblico nell’arte partecipativa inizia ad essere percepito in maniera diversa rispetto al ‘60 ed era vietato
riunirsi in pubblico. Importante fu Milan Knizak: era in contatto con Allan Kaprow e Lebel, tuttavia rigettò sia Fluxus
(per la forzata provocazione degli eventi) che gli happening (per l’eccessiva teatralità). La sua opera era più naturale,
vicina alla realtà umana e preferiva il termine “azioni”, lontano dalle tendenze occidentali. Importante era lo status dei
partecipanti: Knizak nota come in occidente si confidi più sugli spettatori che sui partecipanti, creando dei tableaux
vivants con impatto immediato, cadendo così nelle modalità tradizionali. L’arte d’azione per lui non era una questione
artistica ma una necessità e non un “argomento di conversazione” come in occidente. Tuttavia non era un’urgenza
politica: Knizak cercava una fusione tra arte e vita che non ha equivalenti nell’ovest, in quanto non segue un approccio
politico come Debord o Label ed è più poetico di quello di Kaprow.
La maggior parte delle sue azioni avvenivano all’aperto, in strada e nei cortili e non duravano più di venti minuti. Una
delle più famose fu una passeggiata per Novy Svet del ‘64, una passeggiata lungo una delle serate più pittoresche di
Praga; l’azione fu pubblicizzata solo con il passaparola. Il pubblico doveva eseguire compiti semplici, come nei primi
happening di Kaproww. Le azioni dovevano valorizzare tutti i sensi: ricevevano un oggetto da tenere consè per la
passeggiata, un uomo poi iniziava a mangiare, un altro steso per terra suonava un contrabbasso; poi dovevano strappare
pagine da un libro e dopo queste azioni tornavano a casa. Knizak definì “seconda dimostrazione” quanto avvenne nelle du
settimane successive per concentrare l’attenzione, in maniera quasi pedagogica, sulla risonanza che queste azioni ebbero
nei giorni a seguire. L’accento era posto sul gioco, nell’esperienza condivisa e nell’annullamento ra quotidianità ed evento
artistico. L’opera voleva cambiare la mentalità dei partecipanti, decostruendo il loro comportamento abituale con un
atteggiamento che rompesse la routine, cercando così di generare un territorio di libera espressione, celebrando
l’individualità e non uguaglianza sociale.
Nel 1965 teorizzò la differenza tra due tipi di partecipazione:
1. Azione forzata, che causava disorientamento ma era meno produttiva
2. Reazione spontanea, con un coinvolgimento totale del partecipante
Inoltre riteneva che gli artisti dovessero utilizzare sia una partecipazione attiva che passiva, come dimostra in Un evento
per l’ufficio postale, la polizia, gli inquilini del n.26 di via Vacklakova e per i loro vicini, parenti e amici nel 1966. Gli
abtanti ricevevano per posta pacchi con vari oggetti, all’ingresso degli edifici venivano sparsi altri oggetti e in fin gli
abitanti della casa ricevevano biglietti gratuiti per andare a vedere un film in modo da stare tutti insieme. La prima parte
corrisponde all’idea di esecuzione forzata, ci si impone sul partecipate; mentre la seconda - andare al cinema - è
l’elemento spontaneo perchè il partecipante prende volontariamente parte all’azione. Sperava di spostare le persone da un
edificio all’altro come una grande improvvisata scultura sociale, creando una situazione che incoraggia la conversazione.
Tuttavia dai resoconti dell’artista capiamo che la maggior parte delle persone non comprese il suo intervento artistico.
Cerca di documentare le loro reazioni ma solleva anche molti interrogativi, come: dal momento che nessuno dei
partecipanti si recò al cinema, l’opera era un fallimento?
Tra il 1963 e ‘71 Knizak fondò a Praga Komunita A, dove A stava per Aktual, sottolineando il legame di Fluxus con il
quotidiano. Il gruppo si occupava di musica, performance e altre “attività necessarie” ch richiedevano il massimo
coinvolgimento dei partecipanti. Era un gruppo di persone che volevano essere diverse per una vita quotidiana più vivida
(ebrezza alcolica, droghe), dunque senza essere legati ad una presa di coscienza politica ma solo una comunità alternativa
parallela. A differenza dell’Argentina, le preoccupazioni di Knizak erano estetiche e non politiche: quello che importava
era solo la libertà dii percezione del singolo e la sua esperienza col mondo.
Il carattere delle sue azioni cambia dopo il suo viaggio in occidente. Sono note le opere realizzate negli Stati Uniti dove
pone attenzione sulla solitudine e sul silenzio meditativo, come in Cerimonia da sdraiati o Cerimonia difficile dove i
partecipanti dovevano stare insieme per 24h senza mangiare, bere o parlare e alla fine l’evento si sciolse in silenzio. Sono
eventi caratterizzati dal privilegiare l’esperienza soggettiva. Knizak utilizza la parola “cerimonia” per descrivere
un’estinzione eventi alludendo all’azione collettiva e anticipa le opere degli anni Settanta che saranno sempre più
silenziose e ritualistiche. Torna presto dall’America a causa delle differenze ideologiche, anche perchè a Praga era l’unico
a proclamare la fusione radicale tra arte e vita. Tuttavia negli anni Settanta la “normalizzazione” rese più difficili
provocazioni simili allo Stato e fu vietato riunirsi negli spazi pubblici. I lavori divennero più intimi e messi in scena in
spazi domestici. La pratica di Knizak divenne più ritualistica, con azioni collettive come Crimonia con pietre del ‘71 in
cui i partecipanti creavano piccoli cerchi di pietre e se ne stavano in silenzio al loro interno. Queste opere sono in forte
contrasto con l’allegria della Passeggiata iniziale.

2.Slovacchia: manifestazioni permanenti


Le forme di Praga possono essere paragonate a quanto accadde a Bratislava. L’artista slovacco Alex Mlynarcik era più
interessato a forme consensuali e ottimistiche di attività collettiva che fossero radicate nella tradizione rurale. Somiglia
alla recente arte impegnata socialmente. Iniziò a lavorare nei primi anni Sessanta realizzando combinazioni di materiali
misti. Dopo la sua visita a Parigi nel 1964 trovò affinità con il Nouveau Realisme di cui si può notare l’influenza in
Happsoc I (neologismo di happenings, happy, society, socialism), una serie di episodi di realtà nel maggio del 1965. Nel
manifesto programmatico gli artisti spiegarono la loro idea di arte, fondata sul nominalismo, cioè prendere un evento dal
flusso della vita quotidiana e proclamarla opera d’arte. In questo caso tutta la città di Bratislava e la sua comunità furono
presentati comme materiali di una mostra, includendo una parodia del censimento nazional che c’era stato il mese prima,
con la stesura di una lista di 23 oggetti e delle loro quantità che si trovavano in città. Ttto questo si svolse tra il 2 e il 9
maggio, ovvero tra la Fsta dei lavoratori e la memorazione della liberazione della Slovacchia da parte dell’Armata Rossa.
Si tratta quindi di una struttura che pone l’attenzione su due tipi di partecipazione: le parate ufficiali e la creazione di una
partecipazione invisibile, involontaria. Happsoc può essere interpretato come “società felice” o “socialismo felice”,
tuttavia gli artisti non propendevano per nessuna delle due forme e posero l’accento sull’assenza del loro intervento, che
vedevano come principale differenza tra Happsoc e happening: una realtà libera da. Interventi diretti, in cui ciò che esiste
viene utilizzato per innescare punì di vista soggettivi. Era impossibile per i residenti di Bratislava nno essere parte di
Happsoc I e dunque tutte le foto scattate in quella settimana potrebbero rientrare nella documentazione dell’opera. Il
punto di riferimento è il Neo Dada, guardando alla produzione d’arte non destinata alla gallleria ma alla vita quotidiana,
cosa più facile nell’est in quanto non c’erano gallerie commerciali. Happsoc I invitava 400 partecipanti che avevano
ricevuto l’invito a conoscere la città doppiamente, cioè come realtà e come opera d’arte, investigando la loro percezione e
l’esperienza. Era quindi una partecipazione mentale più che fisica, con la completa dispersione dell’opera d’arte nella vita
quotidiana. È una manifestazione esemplare di esistenza sociale.
Happsoc II fu pi ambizioso: ebbe luogo pochi mesi dopo e consisteva in un invito con una serie di istruzioni epr i
partecipanti formulate solo parzialmente.
Happsoc III si spinse a considerare l’intero territorio della Cecoslovacchia come opera personale dell’artista nel 1966,
gesto rappresentativo del suo concettualismo.
Queste opere sono in forte contrasto con le successive opere dei tardi anni Sessanta, più fisiche e collettive. Questi eventi
alludevano alla tradizione vernacolare (matrimoni e feste di paese) e alla storia dell’arte che viene rimessa in campo con
eventi dal vivo, spesso prevedendo la partecipazione di persone che non sapevano di far parte di un’opera d’arte. Molti di
questi eventi avvenivano in campagna perchè erano azioni che avvenivano illegalmente. Una delle opere più significative
è Primo festival della neve del ‘70 dove si ricrearono opere d’arte dal Rinascimento al contemporaneo utilizzando la neve,
dando così importanza. Al materiale e alla riappropriazione giocosa dellle opere d’arte, una biennale temporanea sulla
neve.
Il matrimonio di Eva si basò su un’opera d’arte, il dipinto del Matrimonio al villaggio di L’udovit Fulla. Dopo lunghe
ricerche, Mlynarcik trovò una giovane coppia a Zilina che aveva intenzione di sposarmi e si offrì per organizzare l’intera
cerimonia comme un evento teatrale. I due recitarono la parte degli attori principali al loro stesso matrimonio, organizzato
in due atti e otto scene. L’opera fu profondamente radicata nelle celebrazioni popolari, insistendo sul tema della vita
teatralizzato, importante dagli albori dello spettacolo sovietico (cfr cap 2). Come per Happsoc I l’artista utilizzò un evento
convenzionale per dargli uno status doppio: matrimonio e happening, realtà e gioco, vestito da matrimonio e costume
teatrale, foto di matrimonio e documentazione artistica. Tuttavia successivamente egli fu cacciato dall’Unione degli Artisti
Socialisti Sovietici e queste tensioni resero evidente la distanza tra la retorica ottimistica di Mlynarcik e le condizioni
della normalizzazione: il tono delle sue manifestazioni permanenti era in forte contrasto con la realtà politica. Eventi come
quello del Matrimonio di Eva mirano alla co-creazione di un’esperienza più tollerabile del quotidiano, una fuga attraverso
la festa, interessandosi alla liberazione indivudale piuttosto che alla giustizia sociale. Mlynarcik, come Knizak, è
interessato a formare una sfera pubblica alternativa creando un ambito autonomo di cui è il solo organizzatore. Un altro
esempio è l’invenzione del paese di Argìllia dove tutto quello che aveva a che fare con i cerimoniali era riservato
all’artista e ai suoi colleghi, nonostante vi fosse un contadino Re.
Artisti del genere costituiscono un problema per i critici occidentali che cercano sempre gesti eroici e di opposizione ai
regimi totalitari, quando invece per Mlynarcik partecipazione e collaborazione erano un mod di stare più facilmente al
mondo. L’arte slovacca di questo periodo pur assumendo una posizione di avanguardia rispetto alla produzione collettiva,
resta legata alla tradizione e alla mitologia folklorica per far sopravvivere una cultura nazionale che era stata cancellata
dalla presenza sovietica.

3.Problematiche dello spazio pubblico


Mlynarcik rappresenta il lato pubblico e sociale dell’arte slovacca degli anni Settanta, mentre quella prodotta. A Praga è
molto più intima, come con Knizak. L’auttosacrificio di Jan Palach in piazza San Venceslao nel gennaio del ‘69, in segno
di protesta contro il regime, rappresentò un decisivo cambiamento di tono. Il congresso dell’Unione degli Artisti Socialisti
Sovietici nel ‘72 si attivò per denunciare tutte le attività sperimentali di quegli anni, aumentato le restrizioni sulle
pubblicazioni, collezioni pubbliche ed esposizioni, costringendo l’arte ad un maggior isolamento: le azioni si realizzavano
solo per una ristretta cerchia di amici fidati. La vena collettivista e ottimista fu sostituita dall’espressione di individui
solitari con enfasi sul corpo nello spazio. Gli artisti che si associano a questo periodo sono Jan Mllcoch e Jiirì Kovanda, i
quali non fanno arte partecipativa con un pubblico generico, ma opere minimali che testimoniano la natura ristretta dello
spazio pubblico.
I primi lavori di Mlcch richiedono resistenza fisica e il corpo viene inteso come un’estensione materiale dello spirito.
Alcune azioni sono realizzate solo da lui, altre in gruppi. Si ricorda Lavarsi (Mytì) del ‘74 dove anche la fotografia è
intima: alla presenza di alcuni amici, l’artista si lava tutto il corpo. Opere successive diventarono più aggressive verso
altre persone. Si ricorda anche Notte del ‘77, un riferimento agli integratori della polizia segreta, dove una ragazza veniva
portata in un ufficio e dopo un’ora di interrogatorio poteva andare via. Questi artisti continuando a non voler essere
considerati politici anche se sembra difficile non interpretare le loro azioni come opposizioni critiche alla società
dell’epoca, come Fuga classica del ‘77, dove l’artista caccia i presenti e si cala con una corda nel cortile. È da confrontare
con il progetto di Carnevale dove l’artista aveva usato una stanza chiusa per catalizzare una reazione collettiva da parte
del pubblico, mentre Mlcoch cerca l’autoesclusione. Le sue opere si svolgevano all’interno di interni domestici o in
periferia. Kovanda utilizzava, al contrario, Praga e i suoi abitanti, come una sorta di Teatro Invisibile. Nella sua ultima
azione, nel ‘78, Kovanda è catturato dalla fotografia mentre si allontana da un gruppo di persone spaventate. Sono
attentati allintimità che sembrano testimoniare lo sforz di vivere in una società in cui la privacy era quasi completamente
repressa. La loro forma di espressione era semplice: voler trovare l’individualità. Kovanda continua a rifiutare una lettura
politica della sua opera in quanto trovandosi in una società così tanto politicizzata non voleva farne parte. Anche Mlcoch
dice di battersi per l’integrtà della sua personalità.
La rottura con questo orientamento soggettivo avviene con Jan Budapest a Bratislava. Si impegnò negli spazi pubblici con
mezzi vivaci e fu l’unico ad indirizzare la sua opera ad un pubblico qualsiasi e non di amici. Il pranzo (Obed) del ‘78
consisteva nel trasferimento del suo tavolo da cucina, delle sedie e del pasto in un punto in ista del parcheggio del
complesso abitativo di Dubravka e nell’ inquadramento della composizione con un nastro bianco. L’azione rafforzò
l’assenza di privacy sotto lo stato socialista, presentando una scena domestica esposta a sorveglianza. Allo stesso tempo
cercava di inventarsi uno spazio pubblico e di occuparlo in maniera eccentrica. Fondamentale è che non vi sia
documentazione fotografica, l’esperienza è l’evento non più privatizzato. Brucai cercava di provocare attraverso la
parodia, come con la Settimana della cultura fittizia nel ‘79 dove il suo gruppo affisse manifesti che annunciavano eventi
che non ci sarebbero mai stati, ma che incontrano i desideri inespressi del pubblico in quanto i luoghi pubblicizzati furono
riempiti per vedere concerti, mostre, opere teatrali.
Gli interventi urbani di Budaj ruppero l’introspezione ceca degli anni Settanta ed iniziarono a immaginare cosa poteva
essere lo spazio pubblico. Questi eventi servirono per mettere sotto pressione un sistema che alla fine si sbriciolò nell’89.

4.Mosca: zone di indistinguibilità


Gli artisti di Mosca trovarono soluzioni diverse al problema dell’esperienza individuale e dello spazio pubblico. L’”arte
non ufficiale” era iniziata a Mosca nel 1964, quando Chruscev definì “distorsioni private della coscienza pubblica”
un’esposizione di quadri non figurativi e astratti. Cresce quindi l’isolamento degli artisti indipendenti con il divieto di
esporre le loro opere in pubblico. Tuttavia l’arte non ufficiale proseguì fino alla metà del ‘70, quando ci furono le prime
esibizioni legalizzate per gli artisti non ufficiali. Si ricorda la mostra “bulldozer” quando nel ‘74 un’esposizione di arte
non ufficiale venne distrutta e solo dopo le attività regolarizzarono i rapporti con l’arte attraverso il KGB.
La maggior parte dell’arte non ufficiale aveva luogo negli appartamenti, forzando la convergenza tra arte e vita. Il
fenomeno della apt-art può essere paragonato alle opere cecoslovacche dei primi anni Settanta con le piccole reti di amici.
In questo contesto Ilya Kabakov sviluppò la sua ricerca insieme al mestiere ufficiale di illustratore per bambini. Gli
Al’bomy sono storie illustrate su un personaggio inventato, racchiuse in un mondo privato di sogni. Il primo, Primakov
che siede nell’armadio parla di un ragazzo che siede in un buio armadio e non vuole uscirne. Questi album non erano
destinati ad un piccolo gruppo di amici. Boris Groys ricorda che si prendeva appuntamento con Kabakov e a casa sua si
poteva leggere il testo. L’esperienza era noiosa ma aveva un valore rituale e il gesto di girare le pagine era centrale; il
linguaggio era neutro, analitico, concentrandosi solo su cosa è visibile, sul banale. Questo interesse per le forme testuali
porta al formazione del gruppo Azioni collettive o K/D nel ‘76: Andrey Monastyrsky ne fu il teorico più importante e i
primi lavori furono percepiti come letture pubbliche di poesie. Monastyrsky complica le situazioni rispetto a Knizak o
Kaprow perchè i partecipanti non sapevano cosa sarebbe successo, testimoni poi di un evento minimale, misterioso, tanto
che ra difficile capire se avevano realmente fatto esperienza di qualcosa o no. Ogni evento è un’”azione vuota”, ideata per
evitare che l’interpretazione avvenisse durante la performance e fosse utile a sollecitare una vasta gamma di reazioni
individuali ma condivise all’interno del gruppo.
La prima azione determinante fu Apparizione del ‘76: all’arrivo di un campo lontano si chiese al gruppo di aspettare e di
guardarsi intorno fincheè sarebbe apparso qualcosa; alla fine fu visibile una coppia di organizzatori nella “zona di
indistinguibilità”, cioè il momento in cui si può dire che sta avvenendo qualcosa ma le figure sono troppo lontane e non si
comprende. Monastyrsky spiegò che quanto successo nel campo non era il fatto che loro fossero apparsi ai partecipanti,
ma che i partecipanti erano apparsi a loro. C’è quindi un capovolgimento dell’azione artistica, dove l’attesa è l’elemento
principale e non la produzione di un evento memorabile. L’esperienza fenomenologica era subordinata all’attività
concettuale che avveniva nelle menti dei partecipanti. L’artista sosteneva che le azioni del gruppo generassero nei
partecipanti un’esperienza reale, ma non un’immagine dell’esperienza. La presenza esistenziale dell’evento aveva luogo
nella coscienza dell’osservazione, come uno stato di realizzazione dell’attesa e non può essere quindi rappresentata.la
documentazione è qualcosa che ha accompagnato l’esperienza artistica: sembra non accada nulla perchè ciò che accade è
irà presentabile. Ciò a cui diedero vita non era una presenza collettiva unificata, ma l’opposto, la diversità, il dibattito, uno
spazio di esistenza privatizzata, di indecisione. Anche l’uso del campo per la maggior parte di queste azioni è
fondamentale, perchè come ricorda l’artista, si è in uno spazio flessibile in cui si può guardare ciò che si vuole, non solo
quello che è rappresentato, c’è libertà. Inoltre la campagna non è quella dei contadini ma dove si ritira la classe
intellettuale. Queste prospettive multiple della campagna corrispondevano alle azioni neutrali e aperte del gruppo. Il
risultato era uno spazio privatizzato libero che esisteva in modo clandestino.

5.Contro la dissidenza
L’arte partecipativa ai tempi del socialismo reale degli anni Sessanta e Settanta è un contro-modello rispetto agli esempi
occidentali. Non aspirano alla creazione di una sfera pubblica partecipativa in contrapposizione ad un mondo privatizzato
e di consumi individuali, ma gli artisti cercano di lavorare in modo collaborativo per coltivare l’individualismo, per cui le
loro opere non sono politiche ma operano sul piano esistenziale, rivendicando la libertà individuale in forme silenziose.
Gli artisti argini usavano la partecipazione per premere sulle coscienze del pubblico e sulle condizioni sociali; gli artisti
sotto il regime comunista non avevano obiettivi del genere, ma era un modo per esprimere una modalità più autentica (in
quanto individuale) rispetto a quella stabilita dallo stato nelle parate ufficiali. Ad oggi vengono criticati perchè indicano u
rifiuto da parte degli artisti di impegnarsi nella loro realtà politica, ma questo evidenzia la nostra scarsa capacità di saper
difendere il valore intrinseco dell’esperienza artistica. Se queste performance sono politiche, lo sono nel senso di Ranciere
e quindi metapolitiche. La realtà della vita quotidiana sotto questi regimi necessita di un’interpretazione più sobria dei
gesti artistici e bisogna riconoscere l’astuzia con cui molti di essi furono compiuti.

6.PERSONE INCIDENTALI: L’APG E ARTI DI COMUNITA’

Dopo il ‘68 in Gran Bretagna ci furono due tentativi per ripensare il ruolo dell’artista nella società:
1. APG, Artist Placement Group, fondato da John Latham e Barbara Steveni, criticato nel giro di qualche anno;
l’artista si impegnava a lavorare in una azienda o un ente;
2. Il movimento delle arti di comunità, grazie ad una spinta internazionale che cercava di rendere democratica e più
accessibile l’arte a pubblici meno privilegiati; l’artista assume il ruolo di facilitatore della creatività della gente
“comune”.
Tuttavia bisogna considerare che c’è poca bibliografia a riguardo, ad esempio l’APG solo di recente è stata oggetto di
rivalutazione storica nel Regno Unito alla morte dell’artista e con la consegna dell’archivio alla Tate, ma anche grazie a
una nuova generazione di artisti e curatori che ha individuato dei paralleli tra le loro attività a quella del gruppo.

1.La formazione dell’APG


L’APG viene solitamente associata alla mente di John Latham (1921-2006), artista poliedrico coinvolto nell’Arte
dell’assemblaggio e in Fluxus. Nel 1966 fonda l’APG in collaborazione con Barbara Steveni, artista e partner.
L’organizzazione era basata sull’idea che l’arte ha un contributo utile da dare al mondo e che gli artisti possono servire
alla società, non facendo arte ma attraverso i loro scambi verbali nel contesto delle istituzioni e organizzazioni. Con
questo fine, i due organizzarono inserimenti o residente per artisti britannici in molte aziende ed enti pubblici. Steveni
racconta come in realtà l’idea di questa organizzazione fu sua in quanto si rese conto - mentre raccoglieva detriti per
Spoerri e Filliou - che gli artisti sarebbero stati più utili alla società se avessero lavorato all’interno delle fabbriche
piuttosto che raccoglierne i materiali all’esterno. Grazie ad un incontro con Robert Adeane, influente presidente di varie
società, nel 1966 l’APG divenne un’organizzazione pronta a negoziare inserimenti tra artisti e mondo degli affari. Da
quel momento la Steveni scriveva a potenziali organizzazioni ospitati delineando i loro obiettivi; queste organizzazioni
dovevano pagare uno stipendio all’artista, il quale non avrebbe dovuto produrre un’opera d’arte, ma dare beneficio in
un’auto outsider creativo nel loro organico, essendo coinvolto nell’attività quotidiana dell’organizzazione. Il progetto,
inoltre, prevedeva tre fasi:
1. Studio di fattibilità;
2. Accordi legali tra APG e l’azienda (compenso, proprietà dei prodotti)
3. Un’esposizione
Lo status dell’APG nella storia dell’arte è quindi molto complesso perchè bisogna confrontare molteplici autorialità in
contesti specifici, come la pratica degli artisti che vennero inseriti e il ruolo delle aziende. Molti di questi artisti sono noti
nella scena britannica, ma solo alcuni a livello internazionale, come David Hall che fu collocato presso le British
European Airways e la Scottish Television, mentre John Latham fu collocato all’ospedale Clare Hall di Cambridge.
Tuttavia la maggior parte di loro fu collocata presso l’industria presente e le società nazionalizzate, da notare anche che gli
artisti siano tutti uomini seppur la forza motrice era Barbara Steveni.
Lo slogan fu “il contesto è metà lavoro”, in sintonia con le tendenze dell’arte fuori dallo studio dell’artista degli anni
Sessanta e che doveva molto ai White Paintings di Rauschenberg del 1951. Tuttavia invece che coinvolge il pubblico nel
lavoro, l’APG operò al contrario, spingendo l’artista fuori nella società.
L’APG seguì dei modelli di riferimento in quanto l’idea di artisti al lavoro con l’industria e imprese fu diffusa durante la
fine degli anni Sessanta, come il GRAV in Francia che era sponsorizzato da industrial interessati allo sfruttamento di
tecniche e fenomeno visivi; in Olanda la Philips lavorò con un artista per fare arte robotica; in Italia i concorsi furono
sponsorizzati dalla Esso e Pirelli. L’APG comunque si differenzia da un’estinzione modelli sia per le tesi fortemente
teoriche e perchè non basò gli inserimenti su sponsorizzazioni, ma tra arte e scienza avveniva un confronto ideologico.
Si è tentati di credere che gli inserimenti debbano portare un effetto positivo e umanizzante sull’industria garanzie alla
creatività, ma Steveni parla di “istruzione aperta” perchè i risultati non erano concordati prima, cambiavano in base
all’artista e al contesto per cui alcuni furono più politicizzati di altri se decidevano di lavorare con gli operai o con i
dirigenti. Ad esempio Stuart Brisley decise di lavorare con gli operai della Hille Forniture, l’obiettivo fu sociale, ottenere
la loro fiducia e non realizzare una scultura. I lavoratori inizialmente furono sospettosi nel vedere un artista alla loro
direzione, ma quando Brisley iniziò ad interessarsi al miglioramento della catena di montaggio, ne furono sorpresi perchè
nessuno si era mai interessato a loro. La sua posizione di outsider lo faceva sentire libero di proporre cambiamenti, come
dipingere le lucidatrici con colori scelti dai lavoratori o introdurre bacheche mobili che facilitassero la comunicazione tra
loro. Si stava allontanando dall’arte per una situazione più collettiva. Tutto questo portò Brisley ad allontanarsi dall’APG,
più affezionata ai dirigenti che ai lavoratori.

2.Processo espositivo: “Inno70”


Inserimenti di lunga durata non si prestano facilmente all’allestimento espositivo. Grazie alla sua ambizione e alla fiducia
nel gruppo, la Steveni riuscì ad assicurarsi i finanziamenti per una mostra dell’APG alla Hayward Gallery nel ‘68. La
mostra venne intitolata “Inno 70”, conosciuta anche come “Art and Economics” ed espose i risultati raggiunti nel ‘69-70,
tuttavia ebbe poco riscontro di pubblico.
I contenuti della mostra furono decisi dagli artisti in collaborazione con le organizzazioni che li ospitavano. Furono affissi
poster sulle finestre con slogan, era disponibile un rapporto in chiave parodistica delle attività dell’APG. Si potevano
distinguere tre diversi tipi di spazio espositivo: restituzioni visive delle attività sviluppate durante l’inserimento,
installazioni che occupavano tutta la stanza e una zona di discussione interattiva, chiamata “The Sculpture”. Questo terzo
tipo fu quello che anticipò di pi i modelli espositivi contemporanei: una sala riunioni che ospitava incontri quotidiani tra
l’APG e i membri delle organizzazioni invitate. Gli incontri furono registrati e archiviati e al pubblico non era permesso
partecipare, ma resta separato dalla sala riunioni da una tenda di plastica trasparente. L’esposizione voleva essere
polemica, stimolando reazioni severe da parte di critici e artisti. Il tema principale delle lamentele era l’impenetrabilità
della mostra e l’aspetto aziendale, dove le fotografie esposte sembrano pubblicità all’azienda. È impressionante come tutti
i critici si siano concentrati sull’atmosfera burocratica della mostra, in quanto quota atmosfera era troppo simile al
conservatorismo politico che connotava il mondo dell’impresa, segnalando la collaborazione con la dirigenza più che una
distanza critica da essa. La critica più forte fu quella del marxista Peter Fuller: per lui le premesse dell’APG erano
importanti, tuttavia era ingenuo pensare che bastasse inserire un’artista nell’organizzazione per dichiararlo un agente
libero. Per Fuller quindi era un sistema di collaborazione difettoso dal principio e gli organizzatori avrebbbero dovuto
avere una conoscenza minima della teoria marxista. Tuttavia per Latham l’artista come persona incidentale trascende i
partiti politici e prende una posizione ideologica terza che è estranea alle aree di collisione. Latham credeva che i conflitti
umani nascessero dall’assenza di una teoria complessiva sull’umanità, che essi cominciarono a produrre identificando
caratteristiche ricorrenti all’interno di varie discipline. Un’altra idea chiave era “l’unità Delta” un nuovo modo per
determinare il valore di un’opera d’arte, definendo la sua importanza non in termini monetari ma attraverso il grado di
consapevolezza che essa produce. Per Latham, il valore Delta poteva andare oltre il capitalismo e socialismo che avevano
poco a vedere con il cambiamento, cambiando la parola “artist” con “persona incidentale”. Quest’ultima anticipa il lavoro
di molti artisti contemporanei che lavorano nella sfera sociale oltre la sola produzione di oggetti. Il fatto che l’economia
del terziario sia subentrata all’industria pesante ha permesso all’APG di apparire come precursore dei recenti tentativi di
rimodellare la figura del lavoratore flessibile seguendo linee artistiche (cap 1).

3.Inserimenti negli anni Settanta e in seguito


Dopo “Inno70” Steveni cercò di evitare le accuse di collaborazione con il mondo degli affari re-indirizzando la sua
attenzione verso inserimenti all’interno di uffici governativi, collocando gli artisti accanto ai dipendenti pubblici.
L’esperienza più nota fu quella di Ian Breakwell al Department of Healt and Social Security nel 1976 durante la quale si
concentrò sugli ospedali ad alta sicurezza e lavorò accanto a una squadra di specialisti per dare il via ad alcune riforme
all’interno del sistema della sanità. Breakwell fu assunto come osservatore professionale e il team si servì del suo Diario
peer introdurre un approccio consultivo dove si teneva conto del punto di vista dei pazienti. I risultati fecero infuriare i
dirigenti dell’ospedale, che sentendosi scavalcati decisero di censurare la ricerca. L’inserimento fu quindi fallimentare, ma
fornì delle indagini sulle squallide condizioni a Rampton, utilizzate poi per un documentario sugli ospedali di massima
sicurezza, portando ad una protesta pubblica e un’inchiesta governativa. Dal punto di vista artistico, l’inserimento ebbe
come risultato un taccuino con il racconto del tempo trascorso sul posto e un film intitolato The Institution. La sua
esperienza è eccezionale in quanto gli artisti dell’APG generalmente si trovano a lavorare in modo individuale. Si
differenzia dagli altri anche per il mandato volto direttamente a migliorare l’oggetto della ricerca.
Un altro inserimento noto alla fine degli anni Settanta è History within living memory di Stuart Brisley per Peterlee
Newtown, una delle otto nuove città pianificate dopo la seconda guerra mondiale per affrontare il problema della scarsità
di alloggi di aree degradate. I nuovi alloggi furono assegnati a persone dei paesi limitrofi in quanto Peterlee era una citttà
senza storia. Brisley raccolse un archivio di fotografie e interviste alla popolazione locale, costruendo una storia della città
dal 1900 fino al suo arrivo nel 1976, anni della “memoria vivente”. Uno dei modelli fu l’arte di comunità, come
l’Hackney Writers Workshop nella periferia di Londra dove scrittori non professionisti creavano la loro storia attraverso
racconti di vita individuale. Tutt’oggi Brisley sostiene che ciò che prodotte a Peterlee sia un archivio e non un’opera
d’arte, sperimentando tecniche di performance nel contesto sociale per poter offrire un modello che altri possano usare in
diverse situazioni, nel caso esso dimostri di avere qualche qualità. Brisley quindi è l’autore di questo progetto, ma il suo
archivio ha una funzione più sociale che estetica.
Le attività dell’APG entrano nei dibattiti contemporanei sulla funzionalità dell’arte contemporanea, sul poter avere
obiettivi sociali e sulla possibilità di usare diversi modi di valutazione. L’APG cercò di dare all’artista più potere
all’interno della società piuttosto che conferirlo ai lavoratori. Dunque gli obiettivi erano più percettivi che sociali:
trasformare la consapevolezza di chi lavora all’interno delle organizzazioni e non spronare all’insurrezione.
Il contributo dell’APG riguarda anche la questione della valutazione è quella del periodo di tempo nel quale tali giudizi
dovrebbero essere formulati. Per Latham il mondo aveva bisogno di un nuovo sistema di valutazione dell’arte, fuori dalle
logiche finanziarie. Tuttavia anche l’APG finì per ricorrere ad esse per giustificare l’investimento pubblico
nell’organizzazione, un punto dolente perchè come risultato della mostra Inno70, l’Arts Council della Gran Bretagna ritirò
il suo finanziamento destinato all’APG perchè questa si occupava più di ingegneria sociale che di arte vera e propria,
assumendosi direttamente la responsabilità degli investimenti artistici, per cui solo il governo aveva il diritto di finanziare
gli artisti (portando così alla banalizzazione degli inserimenti).
L’APG può essere ritenuto precursore dell’uso degli artisti da parte delle società di consulenza aziendale e di aver
accompagnato la crescita delle “industrie creative”. La sfida è identificare i traguardi specificamente artistici
dell’organizzazione, in quanto nonostante il carattere amministrativo, i suoi risultati furono principalmente discorsivi e
teorici. Ad esempio crebbe un nuovo mecenatismo basato sull’istruzione libera. Anche dal punto di vista uratoriale
l’inclusione di uno spazio di discussione in Inno70 è cruciale, in quanto non usano il format della mostra, ma dei tavoli di
discussione, anticipando una strategia espositiva contemporanea dove l’arte non è oggettuale ma un processo.
Quello che possiamo apprezzare è la determinazione dell’APG nel fornire una nuova cornice alla produzione artistica
fuori dallo studio e nel ripensare alla funzione della mostra da sala espositiva a luogo di dibattito. L’APG pone la
questione se sia meglio per l’arte essere impegnata nella società o mantenere una purezza ideologica al prezzo
delll’isolamento sociale. L’APG mancava di una posizione politica e questo gli permise di realizzare tali manovre.

4.Il movimento delle arti di comunità


L’antagonista dell’APG negli anni Settanta fu il movimento britannico delle arti di comunità. Entrambi tentavano di
stabilire un nuovo ruolo per l’artista nella società, condividendo gli stessi elementi, ovvero le persone e il tempo.
Entrambi inoltre hanno storie che si intrecciano con il finanziamento pubblico: ll’APG collocava gli artisti negli organi
decisionali, il movimento invece operava a livello di attivismo comunitario dal basso. L’APG voleva avere impatto sul
modo di pensare delle aziende e delle organizzazioni governative piuttosto che dare potere direttamente alle persone che
vi lavorano. Al contrario, le ideologia delle arti di comunità si focalizzavano sugli emarginati che cercavano di
emancipare attraverso una pratica creativa partecipativa, opponendosi alle gerarchie culturali elitarie. Le caratteristiche del
movimento possono quindi essere: prendere posizione contro le gerarchie del mondo dell’arte internazionale e i suoi
valori basati su qualità e abilità tecnica; sostenere la partecipazione e la co-autorialità delle opere d’arte; proporsi di dare
forma alla creatività di tuti i settori della società, in particolare chi vive in aree degradate; essere un medium di
trasformazione sociale e politica, con il progetto di una democrazia partecipativa.
Nel Regno Unito i primi gruppi di arte della comunità si formarono alla fine degli anni Sessanta dove gli artisti assunsero
ruoli paritari con i membri della comunità nella produzione collaborativa di un progetto artistico (murales, teatro di strada,
festival, fino all’occupazione abusiva di case e alle comuni), si voleva quindi restituire il potere al popolo. Gli
organizzatori non avevano un serio ma riuscivano a sopravvivere grazie alla disoccupazione. La partecipazione era la
strategia centrale e lo spirito per una produzione culturale democratica. Trovare una definizione per queste nuove attività
era considerato un problema fin dall’inizio. Nel 1974 la Commissione per progetti sperimentali dell’Arts Council tentà di
definire la nuova tendenza, arrivando a definire che gli “artisti di comunità” di distinguono per l’atteggiamento nei
confronti del contesto sociale dove svolgono le loro attività; il loro interesse principale è l’impatto su una comunità e la
relazione con essa, cercando di trasformare la comunità. L’accento quindi è posto sul processo sociale e non sui risultati.
La commissione riconosce anche l’importanza della specificità del luogo (site specific) in quanto i progetti potevano
essere valutati solo tramite un’indagine e un’osservazione sul posto. Tuttavia alla fine non si sviluppò un metodo per
stabilire come queste pratiche e l’impatto che avevano potevano essere misurati.

5.The Blackie e Inter-Action


Uno dei progetti delle arti di comunità fu The Blackie, iniziato nel 1968. Il suo scopo originario era ugello di fondare un
centro per la comunità e di fornire il meglio che le Arti Contemporanee potrebbero offrire. Il gruppo si impegnò a mostra
arte “alta” accanto alle produzioni quotidiane della gente locale. Durante i primi anni Settanta vi erano attività
partecipative come la tombola per le madri e i parchi giochi per i bambini oltre a laboratori di ogni genere (scrittura,
burattini, fotografia, cucina). The Blackie ospita oggi alcune sale prova, attrezzature per le produzioni in studio e uno
spazio positivo. La partecipazione era la chiave di tutti gli aspetti del progetto.
Il secondo esempio è Inter-Action, fondato dal egoista teatrale Ed Berman a Londra nel 1968. Per molti anni occupò il
primo centro del Regno Unito dedicato alle arti di comunità. Inter-Action funzionò come organizzazione ombrello di
molte compagnie di teatro sperimentale che si dedicavano all’allargamento del pubblico, supportando nuove forme di
teatro identitario come il Gay Sweatshop e il Women’s Theater. Gli intenti del gruppo erano sia educativi sia artistici,
comme si può vedere nel progetto performativa Community Cameos dove attori formati a parlare come figure storiche
furono mandati in giro per Londra, come archivi ambulanti di informazioni sui personaggi che interpretavano.
Una caratteristiche di The Blackie e di Inter-Action è l'impegno nei giochi che sono cooperativi e non competitivi. I giochi
sono metafore delle relazioni sociali e dimostrano la possibilità di produrre trasformazione. Un esempio fornito da The
Blackie è la rivisitazione del gioco delle sedie musicali, dove i bambini saltano sul riquadro anche se è già occupato,
perchè il punto è la cooperazione, non l’eliminazione. Il gioco, qui, diventa metafora della disoccupazione perchè i
giocatori scoprono di non essere necessari man mano che il gioco va avanti, restando a guardare senza giocare. Nel gioco
al contrario, invece, tutti sono coinvolti e danno il proprio contributo, dando un’immagine diversa della società.
Ricordiamo anche il Metodo creativo dei giochi di Inter-Action, un allenamento per persone che sono interessate a una
professione che implichi il lavoro con altri, come ad esempio il gioco di Berman in cui vince chi arriva ultimo e non
primo, rendendo la gara più cooperativa e creativa. Le performance partecipative di The Blackie tendevano ad essere
un’esposizione di come la società operasse realmente. Queste produzioni erano per metà strutturate e per metà
improvvisate, ponendosi in contrasto con i programmi educativi delle compagnie teatrali ed anche alle produzioni teatrali
in cui i membri del pubblico facevano tutti la stessa cosa nello stesso momento. Berman invece ebbe più difficoltà ad
introdurre il teatro partecipativo in Inter-Action perchè vi erano pochi drammaturghi interessati a questo genere; il format
più usuale fu quello del teatro in un atto. Tuttavia in teatro l’autorialità collettiva. Non richiedeva un radicale
sconvolgimento del suo tradizionale modus operandi, da sempre collaborativo, a differenza dell'arte visiva, storicamente
dominata dall’espressvità del singolo. Inter-Action riuscì comunque a realizzare delle sculture di cemento nel quartiere di
Milton Keynes dove le maquettes furono prodotte in collaborazione con i residenti locali. Anche The Blackie provò a
sperimentare un’arte visiva partecipativa in “Towards a Common Language”: nella mostra c’erano tele vuole, cartoncini e
fogli di carta appesi, pronti per essere dipinti dai visitatori, che potevano guardare i lavori completati o crearne uno
proprio. Le tele non restano in mostra con l’intento di mettere in discussione le gerarchie museali in quanto l’uso delle tele
esta legato al modo conservatore dell’arte tradizionale e all’autorialità del singolo, così come anche al museo come sede
espositiva.

6.Declino
The Blackie e Inter-Action sono esempi atipici del movimento delle arti di comunità, dato che la maggior parte delle
organizzazioni fondate alla fine degli anni Sessanta non esistono più. Entrambi sono rarità perchè sono sopravvissuti ai
tagli di finanziamenti per l’arte negli anni ‘80. L’impulso originario delle arti di comunità si trasformò in una situazione di
dipendenza dalle sovvenzioni pubbliche, ove gli artisti di comunità assunsero sempre di più la posizione “non di attivisti”,
ma di quasi-impiegati di diverse agenzie di Stato,mentre allo stesso tempo negavano di sta lavorando per lo Stato. Gli
artisti di comunità si professionalizzarono, furono soggetti al controllo manageriale e la politica radicale non defnì più le
loro idenità. La missione egualitaria fu sostituita dalle politiche conservatrici di coloro i quali controllavano i piani di
spesa. Questo fu colpa degli artisti di comunità ma anche del governo, in quanto non fu elaborato un insieme di
definizioni corrispondenti alle attività di comunità, ma solo un seno etico di cosa fosse “buono” fare. Come si è visto con
la relazione del ‘74 dell’Arts Council, la definizione di arte di comunità è vaga, ci si concentra su come essa opera e non
su cosa facesse. Si seguirono quindi criteri più etici che artistici, con una politica implicita in modo da non compromettere
i finanziamenti. Data questa forma di cautela, si può capire come nel successivo rapporto dell’Arts Council cambia il
significato di arti di comunità: le arti di comunità non erano più indirizzate al processo di democratizzazione della
produzione culturale, ma erano un mezzo per introdurre le persone all’arte delle elites, un percorso di civilizzante che
porta le persone verso la cultura alta, al posto di disfare le gerarchie stesse. L’impulso originario delle arti di comunità
diede origine negli anni Ottanta all’emergente tendenza del rave.
Oggi le arti di comunità tendono ad auto-censurarmi nella paura che i partecipanti in condizioni di Isacco non possano
comprendere altri modi di produzione artistica. Uno dei problemi, in comune con l’arte impegnata socialmente oggi, è che
le arti di comunità non hanno un pubblico secondario perchè non hanno in mente un pubblico critico. Comparazione e
valutazione con altre attività creeebbero gerarchie, nemiche del principio di uguaglianza. Tuttavia la mancanza di un
dibattito critico rese l’arte di comunità inoffensiva e non minacciosa per lasabilità sociale e culturale.
Negli anni Sessanta le arti di comunità avevano un carattere oppositivo dato che i finanziamenti della cultura erano nelle
mani dell’alta borghesia che valutava la qualità estetica. Ad oggi la de-gerarchizzazione è meno urgente in quanto tutti
possono produrre immagini e condividerle globalmente sui social network. Boris Groys avanza la tesi che i social network
siano una forma d’arte concettuale di massa, uno “spettacolo senza spettatori” al posto della società dello spettacolo.
Tuttavia se da un lato proliferano le comunità virtuali, d’altra parte c’è il richiamo alle interazioni dal vivo negli ultimi
decenni, dando spazio alla specificità del luogo (site specificity).
7.EX OVEST: ARTE COME PROGETTO NEI PRIMI ANNI NOVANTA

Abbiamo visto i tentativi di ripensare il ruolo dell’artista e dell’opera d’arte in rapporto alla società in varie forme di arte
partecipativa, ma è da notare che il tutto giri attorno a due momenti rivoluzionari: il 1917, quando la produzione artistica
viene allineata al collettivismo bolscevico; il 1968, quando la produzione artistica inizia a criticare l’autorità,
l’oppressione e l’alienazione. Un terzo momento è quello del 1989, che segna la caduta del socialismo reale, inizialmente
celebrato come la fine di un regime repressivo e poi compianto come la perdita di un orizzonte politico collettivo
(smantellamento dello stato sociale ad occidente e introduzione del mercato capitalista a est).
In questo contesto l’arte degli anni Novanta inizia ad essere indicata con la parola “progetto”, usata inizialmente dagli
artisti concettuali nei tardi anni Sessanta, ora tende a indicare una proposta per un’opera d’arte. Il progetto sostituisce
l’opera d’arte, intesa come un oggetto finito, con un processo sociale aperto che si sviluppa fuori dallo studio dell’artista,
basato sulla ricerca sul campo e che può estendersi nel tempo e mutuare forma. Dagli anni Novanta questo termine
comprende vari tipi di arte, in particolare guardando all’arte partecipativa e impegnata socialmente, sperimentazioni
curatoriali. La Bishop fornisce così una contronarrazione della storia dell’arte mainstream sancita dal mercato e dalle
istituzioni. Questi “progetti” iniziano proprio nel momento in cui non c'è più un obiettivo politico condiviso
collettivamente, dunque c’è una grande relazione fra la progettualità artistica e quella politica.
Ad oggi l’interesse per la partecipazione e per l’impegno sociale caratterizzano la scena dell'ultimo ventennio, ma in realtà
nell’89 furono lenti ad emergere, indifferenti all’apertura dei confini da e verso l’est o all’ambito non occidentale della
mostra “Magiciens de la Terre” di Jean Hybert Martin, prima mostra globale, da confrontare con la Documenta 9 che
aveva solo una piccola parte di artisti non occidentali, ma di fatto era una mostra di scultura e pittura europea e
nord-americana. Diversa. Invece la Documenta 10, nel ‘97, in cui Catherine David si interessa a un’arte orientata
politicamente e socialmente, nonostante la poca presenza di pratiche collettive.
Il 1993 è l’anno di un passaggio chiave: fino ad allora i collettivi erano un fenomeno nord-americano, con un approccio
attivistico in risposta, ad esempio, alla crisi dell’AIDS. Questo tipo di lavoro deriva da pratiche site-specific e non dal
teatro o la performance. Il 1993 segna anche il consolidamento di un nuovo tipo di mostra site-specific, con mostre che si
riferiscono al sito dove si svolgono come a un fenomeno socialmente costituito. Ciò è in contrasto con “Skulpture
Projekte” e “Places Wittkower a Past: new site-specific art at Charleston’s Spoleto Festival”, dove entrambi utilizzarono il
sito espositivo come sfondo per un lavoro pieno di risonanze storiche. Ci sono tre mostre che vedremo che segnano il
passaggio dalla site specificity interpretata come oggetti in un luogo, al progetto di inserire l’artista stesso nel contesto
sociale.

1.”Projet Unitè”, “Sonsbeek93” e “Culture in Action”


In Europa furono due le mostre che aprirono la strada a questo cambiamento: “Skulpture Projekte” del 1987 curata da
Kasper Kooning a Munster e “Chambres d’Amis” del 1986 curata da Jan Hoet, un’esposizione sperimentale nella quale
gli artisti furono invitati a realizzare un’installazione in più di cinquanta case private di Ghent. In questo ultimo caso ogni
effetto di tipo sociale fu collaterale e non intenzionale, tuttavia la mostra portò a molti contatti, anche tra gli ospitanti e i
visitatori. La maggior parte delle opere non si occupavano di questioni di classe o identitarie, ma riproponevano lo spazio
domestico.
L’artista Christian Philippe Müller vide questa mostra, la quale influenzerà la successiva “Projet Unitè”: quest'ultima si
tenne in un complesso residenziale a Firminy realizzato da Le Corbusier, un edificio che era in stato di abbandono e che fu
visitato dall’artista stesso. Era isolato dal centro e abitato da ragazze-madri, studenti e immigrati e il progetto
dell’architetto di realizzare un piano pieno di negozi non era mai stato realizzato. Dalla metà del 1983 l’edificio era vuoto
e chiuso, con interi appartamenti disabitati. Così Müller suggerì a Aupetitallot di realizzare qui la mostra, assegnando ogni
appartamento ad un artista, sul modello di “Chambres d’Amis”, usando però spazi disabitati; da ricordare anche che lo
stesso curatore, Aupetitallot, aveva già realizzato una mostra con artisti francesi chiamati a produrre opere site-specific
all'interno di appartamenti privati, dove l’incontro tra privato e pubblico in questo caso si basa sull’accoglienza. Ci vollero
quattro anni affinchè la mostra fosse realizzata e artisti, architetti e designer europei e statunitensi furono invitati a
lavorare in situ, assumendo il ruolo di abitanti. La maggior parte degli artisti decise di utilizzare gli appartamenti come
gallerie per le loro opere, molte delle quali avevano riferimenti all’edificio stesso (un esempio è Individual Comfort di
Müller che si occupava della scadente acustica degli appartamenti, l’incubo di sentire sempre i vicini). Alcuni artisti
riuscirono a coinvolgere gli abitanti dello stabile, come Clegg&Guttmann che progettarono la Firminy Music Library in
cui i residenti lasciarono delle raccolte di brani dalle loro collezioni di musica, raccolte che poi sono state inserite in un
mobile costruito sul modello dell’edificio e ogni cassetta aveva uno spazio che corrispondeva all’appartamento del
donatore; il lavoro di Martha Rosler fu più sociologico, Come facciamo a sapere come appare una casa?, comprendendo
statistiche e video-interviste con alcuni residenti. Ci fu un piccolo gruppo di artisti che si impegnò nella riflessione sul
processo di realizzare opere site-specific, come il lavoro di Renèe Green, Appartamento abitato dall’artista prima
dell’inaugurazione, che indaga i problemi di un artista nomadico, dove i visitatori potevano vedere tracce della sua attività
e i vari tentativi nei fogli di appunti e disegni del paesaggio. C’era quindi una grande varietà di opere e proprio per questo
“Projet Unitè” segna un momento di transizione, passando da una mostra tradizionale a una posizione che ha una
maggiore coscienza sociale, a partire dalla sua collocazione in un edificio parzialmente abitato, nato per una vita
comunitaria; anche l’uso del titolo “progetto” e non “mostra” lascia comprendere che la situazione dell’edificio, abitanti
eccetera fosse più importante di una esposizione di opere finite. L’arte si sovrappone e si confronta con la sfera sociale,
non sono due cose separate. L’arte si confronta direttamente con un pubblico ordinario, tuttavia questo incontro non fu
facile e Renèe Green ricorda come all’inaugurazione il gruppo degli artisti e quello degli abitanti restarono separati.
Sull’argomento intervenne Hal Foster, ritenendo che invitare gli artisti ad operare in modo site-specific in zone abitate da
persone a basso reddito può essere problematico, in quanto nelle opere ci sarà comunque una maggiore proiezione del sè
nel proprio lavoro che compromette l’alterità. Questo avviene quando l’artista per rendere più credibile il suo messaggio
si appropria dell’altro, diventa l’altro e la mostra di Firminy è stata un mezzo fallimento per questo motivo. Secondo
Decter ciò che mancava era l’aspetto relazionale autentico, in quanto occupando l’area dell’edificio disabitata i progetti
diventavano una sorta di luogo autonomo e privilegiato, lasciando marginale il rapporto con i residenti. Tuttavia resta uno
dei primi tentativi di indagare la specificità di un luogo e di immergere l'artista nel contesto sociale.
La tesi di Foster evidenzia la distanza tra i criteri su cui, negli anni Novanta, si basava l’impegno sociale nell’America del
Nord e gli approcci europei. “Projet Unitè” includeva artisti francesi che sarebbero stati poi associati all’estetica
relazionale (Dominique Gonzalez Foerster e Philippe Parreno) i quali produssero un coinvolgimento soltanto obliquo,
creando correlati narrativi, letterari, immaginari. Gli artisti tedeschi e statunitensi, al contrario, avevano un approccio più
pragmatico e critico (come il documentario della Rosler). C’è quindi una separazione tra la “relazionalità” francese e la
“criticalità” tedesca e nordamericana.
Dopo un mese dall’apertura, venne inaugurata “Sonsbeek93” ad Arnhem, dove già esisteva una tradizione di arte
pubblica. La curatrice Valerie Smith produsse un catalogo in forma di diario, molto utile per capire come veniva
commissionata l’arte site-specific. Smith riproduce le proposte fallite o respinte degli artisti, mostrandoci i suoi criteri di
inclusione o esclusione, volendo realizzare una mostra orientata verso il contesto e sulla relazione dell’individuo con
l’ambiente sociale. L’opera dee creare un significato a partire da o per il luogo dove esiste. Gli artisti dovevano passare
almeno 24h nella città e sviluppare una risposta in base al contesto. Il curatore quindi non è più un mediatore tra l’artista e
il pubblico, ma ha il desiderio di co-produrre un’arte rilevante per diversi tipi di pubblico. La maggior parte degli
interventi erano scultorei, ma c’erano anche altri due progetti chiave:
1. L’intervento di Mark Dion a Bronbeek, un museo annesso alla casa reale per i veterani in pensione, la cui
collezione comprendeva oggetti che i soldati avevano portato dalle loro missioni. L’artista vuole riallestire il
museo, partendo dal conflitto tra i veterani e il curatore. Il progetto di Dion portò invece alla ricostruzione di due
vetrine del XIX secolo, dove in una furono posti gli oggetti che comparivano nella litografia originale, nell’altra i
ricordi dei veterani che non sarebbero stati ammessi nella collezione ma che avevano un grande significato per
loro, come libri di cucina, una figurina di una donna;
2. Il lavoro di Irene e Christine Hohenbuchler che, durante una residenza nella prigione di Arnhem, produssero con
le carcerate una serie di dipinti, allestiti poi in piccole capsule fuori dal carcere.
Quello che risulta curioso è che la curatrice non volle considerare questo tipo di lavoro come sociale o politico a causa
della cattiva reputazione che avevano queste categorie; ciò che le interessava era solamente il processo,, il modo in cui gli
artisti sviluppavano i loro lavori. Anche Aupetitallot si mostra restio a queste categorie, indice del grado di
conservatorismo che dominava nel mondo dell’arte, ma anche della mancanza di un vocabolario in grado di descrivere
questo tipo di lavoro nella sfera sociale.
Tuttavia se i due curatori si mostrano restii, allo stesso tempo negli Stati Uniti si stava definendo il New Genre Public Art,
con una grande fiducia in questa missione, portando avant un esplicito programma di sinistra. Suzanne Lacy fu una degli
otto a partecipare a “Culture in Action”, curata da Mary Jane Jacob nel 1993, l’esempio più evidente della svolta sociale
dell’arte in quell’anno. Fu intesa inizialmente come una critica di Sculpure Chicago, una delle prime città a installare nello
spazio pubblico un’opera su larga scala in seguito al programma della NEA sull’arte negli spazi pubblici, quando nel 1967
l’opera di Picasso Senza titolo (Testa di donna) fu installata in Daley Plaza. Questo era un chiaro esempio di “plop art”, e
la mostra della Jacob ne fu in contrasto, spostandosi verso quartieri marginali. Il risultato furono otto progetti in cui gli
artisti collaborarono con la comunità locale per diversi mesi o anni, ma ci soffermiamo solo su due progetti.
Il primo è quello della Lacy, Full Circle, una scultura temporanea di una serie di massi che formava un monumento
dedicato alle donne di Chicago in quanto nessuna donna era mai stata onorata in città. Il progetto culminò in una cena a
cui parteciparono 14 leader femminili di tutto il mondo. È l’unica opera scultorea convenzionale, ma non è da leggere in
termini unicamente visivi (verrebbe facile paragonarla alle 7000 querce di Beyus).
L’altro progetto è quello di Mark Dion, il quale partecipò a tutte e tre le mostre. A Chicago lavorò con un gruppo di
studenti di scuole medie superiori. Il progetto prevedeva tre fasi: un programma di studio sulla foresta pluviale, un viaggio
in Belize e la creazione del Chicago Urban Ecology Action Group, la cui sede doveva funzionare da installazione artistica,
un centro di informazione ecologica per tutta l’estate in cui si tennero diverse conferenze e incontri. Tuttavia la risposta
del pubblico fu deludente e quasi nessuno si presentò, questo perchè, secondo l’artista, solo oggi il pubblico ha imparato a
rivolgersi a questo tipo di lavoro, non si era abituati ad un’opera di oggetti da vedere e la gente faceva fatica a trovare le
opere. Questo cambiamento di approccio curatoriale - l’inserimento di artisti in un dato contesto sociale e la richiesta che
il lavoro si indirizzi a specifici gruppi - modifica il rapporto degli artisti con l’opera d’arte ma anche il modo in cui il
pubblico guarda all’arte. Le mostre site-specific hanno trasformato il visitatore in un flaneur, dove la città prende il posto
del museo e all’osservatore vengono fatte richieste difficili.
Dunque il termine “progetto” è molto utile per indicare tutti questi esperimenti. “Projet Unitè” di auto-riferisce in modo
esplicito a questo passaggio, nominandosi come progetto. Nel catalogo di “Sonsbeek93” la curatrice afferma che la sua
intenzione fosse quella di includere “progetti collaborativi”. Lo stesso accade per “Culture in Action” dove le otto
esperienze sono comunque progetti che implicano la partecipazione di comunità disagiate. Tuttavia i progetti di
quest’ultima appaiono contraddittori perchè se da un lato vogliono aprirsi a una interazione con nuovi pubblici, dall’altra
parte l’artista è un facilitatore della creatività altrui. In questo risulta inadeguato l’adozione del catalogo tradizionale in
quanto le fotografe pubblicate sono poco utili e non si comprende la complessità dei progetti. Le due mostre europee, al
contrario, tentano una nuova forma di catalogo, come “Sonsbeek93” con la forma di diario, anche se confuso; nel caso di
Firminy la ricerca sul campo sarebbe dovuta trasformarsi in cinque libri, di cui solo tre vennero prodotti.
“Culture in Action” era pienamente radicata in una teoria critica e coerente, mentre le mostre europee erano meno
analitiche e più evocative, esplorando il tema del sociale tramite un processo collaborativo, valorizzando il patrimonio
culturale. Dunque in questo momento il “sociale” ha molteplici connotazioni: il dialogo, la collaborazione, il processo, la
partecipazione democratica. Come valutare la riuscita di questi progetti rimane tuttora oggetto di dibattito. Furono tutti
percepiti come fallimenti, ma il compito di queste mostre fu importante perchè concepivano il pubblico come pluralità.

2.Mostre performative
Altri esperimenti di esito tipo ebbero luogo in Francia, ma posero l’accento sulla “socievolezza” piuttosto che sulla
responsabilità sociale. Artisti come Philippe Parreno e Dominique Gonzalez-Foerster, concepirono la mostra come un
medium creativo in sè. I loro esperimenti comprendevano elementi come: il prolungamento della mostra, includere lavori
assenti dalla sede della mostra, cambiare l’allestimento nel corso della mostra; a volte sono anche stati proposti altri
formati di presentazione, letti attraverso la lente della mostra, come una rivista nel caso di Permanent Food di Cattelan o
una fattoria in Tailandia, come The land di Tiravanija. Bourriaud afferma che “è il socius che è il vero luogo espositivo
per gli artisti di questa generazione”, dove socius va interpretato non come un individuo della società, quanto utenti di un
canale di distribuzione attraverso il quale fluiscono informazioni e prodotti.
Il desiderio di sperimentare con il formato stesso della mostra deriva dall’ insoddisfazione verso l’approccio
convenzionale, ereditato dagli anni Ottanta, di realizzare mostre sulla presentazione di oggetti destinati a essere consumati
dal mercato. Già nel 1991 il curatore Eric Troncy sminuiva la mostra, paragonandola ad uno show-room. Troncy preferiva
pensare la mostra come un progetto artistico a priori, un esperimento dal risultato incerto. Si passa quindi dalle mostre di
gruppo realizzate attorno ad un tema alla creazione di un progetto che si dispiega nel tempo, rinunciando all’autorialità.
Troncy si pone come un collaboratore che lavora fianco a fianco con l’artista. Per Troncy, Bourriaud e i loro collaboratori,
questa idea di apertura era in opposizione all’arte critica degli anni Sessanta e Settanta, vista come un’arte dai significati
definiti e chiusi (es. Bourriaud dice che la speranza rivoluzionaria ha lasciato il posto a delle micro-utopie quotidiane).
Guardando la mostra “No Man’s Time” di Troncy, si evidenzia il suo essere un progetto aperto, concentrandosi sulla
collaborazione e sull’idea di presentare il lavoro nel suo farsi. Gli artisti presso la Villa Arson di Nizza passarono un mese
in residenza, durante il quale furono creati diversi progetti per quel sito. Il catalogo contiene il diario di queste settimane
scritto dal curatore, sottolineando il carattere conviviale di questo metodo di lavoro. Una delle idee chiave è la mostra
vista come un film, dove ci sono opere con ruoli principali e altre che sono solo comparse. Il riferimento al cinema era
evidente anche nel cartellone stradale di Parreno con la scritta “Benvenuti a Twin Peaks”. La mostra non proponeva tanto
una tesi sulla società o sulla cultura popolare, quanto un’affermazione degli interessi culturali comuni a dei particolari
artisti. Tuttavia l’osservatore era soggetto a un’esperienza di incompletezza perchè si ritrovava a dover rimettere insieme i
pezzi della mostra, crea su delle relazioni a loro invisibili, ovvero quelle che ci sono state nel mese di residenza che ha
preceduto la mostra. Il pubblico quindi aveva un accesso solo parziale a queste relazioni, riportate in chiave diaristica nel
catalogo. Le mostre relazionali di questo periodo appaiono come totalità non individualizzate piuttosto che come raccolte
di opere di molti individui, anche se spiccano alcuni lavori come frutto di autori ben distinti.
Uno degli autori importanti in questo contesto fu Rirkrit Tiravanija: le sue installazioni ed eventi hanno spinto l’ambito
conviviale e la partecipazione aperta verso il mainstream artistico e istituzionale. Molti dei suoi lavori nascevano a un
periodo di gestazione collettiva che precedeva l’inaugurazione di una mostra. In “Backstage” curata da Barbara Steiner,
gli artisti furono incoraggiati a interagire con lo spazio espositivo appena inaugurato con lo scopo di indagare il ruolo
dell’istituzione. Il contributo di Tiravanija comprendeva un tavolo, due panche delle scaffalature industriali con sopra
degli utensili da cucina. La cosa funzionò prima della mostra e non durante, difatti uno dei paradossi delle sue pratiche è
che le relazioni conviviali tra un piccolo gruppo di persone, produce allo stesso tempo una condizione di maggiore
esclusione verso il pubblico generale.
Tuttavia questa sperimentazione curatoriale era possibile se gli artisti stessi fossero interessati a progetti aperti e indefiniti,
stabilendo un dialogo reciproco tra loro. Quando invece questo modello di mostra è imposto dal curatore a un gruppo di
artisti che non sono in dialogo tra loro, i risultati sono più complessi. È il caso della mostra “Interpol”, una collaborazione
tra il curatore russo Viktor Misiano e lo svedese Jan Aman, con artisti che appartenevano a due scene politiche molto
diverse tra loro dopo la fine del socialismo. Lo scopo era realizzare un progetto russo-occidentale sul modello
collaborativo e democratico, tuttavia questo non accadde in quanto venne a mancare il dialogo tra gli artisti stessi, creando
risentimento tra le due parti. Questa struttura aperta aveva funzionato con le mostre di Troncy perchè gli artisti erano stati
all’altezza della situazione, cosa che non poteva accadere con delle differenze ideologiche che generavano conflitto tra i
partecipanti e portavano ad una mostra sconnessa e incoerente. Misiano riconosce che la mostra fallì. A causa del suo
romantico desiderio di esportare nel contesto dell’Europa occidentale l’esperienza collettivista dell’est, tentando di forzare
un processo collaborativo tra due gruppi di artisti con interpretazioni del tutto diverse del loro ruolo nella società, in
quanto per gli artisti russi l’arte è l’esperienza del vivere, per gli artisti svedesi è la propria posizione all’interno dei
confini del sistema dell’arte. Tutttavia “Interpol”, come anche “No Man’s Time”, dimostra come nei primi anni Novanta
la mostra veniva pensata come un progetto aperto, processuale, conviviale e senza un obiettivo definito oltre a quello della
collaborazione come valore in sè, seppur il risultato finale per i visitatori era fallimentare in quanto avrebbero visto solo
un frammento di una processo più grande in corso.

3.La città per progetti


L’uso del termine progetto indica una nuova consapevolezza sociale degli artisti negli anni Novanta, tuttavia questo
slittamento deve essere ancora teorizzato da storici dell’arte e critici. Un chiaro esempio di progetto come modalità
operativa la si trova in sociologia, nel Nuovo spirito del capitalismo di Luc Boltanski e Evè Chiapello: sostengono che
l’attuale spirito del capitalismo è emerso negli anni settanta e ottanta come reazione alla critica artistica (richiedendo
maggiore autonomia) e alla critica sociale (richiedendo maggiore uguaglianza). Molti punti della loro analisi sembrano
una descrizione del mondo globalizzato dell’arte contemporanea e quello dell’artista che lavora fuori dallo studio,
confrontandosi con il contesto. Descrivono la vita lavorativa di oggi come una successione di progetti, basati su
connessione con gli altri, dando vita alla “città dei progetti”. Oggi una carriera non consiste nel riempire posti vacanti, ma
nell’ impegnarsi in molteplici progetti, spesso diversi tra loro. Un buon progetto è quello che ne genera altri attraverso le
connessioni che si riescono a stabilire tra i lavoratori. Il termine progetto rappresenta anche una strategia di sopravvivenza
per individui creativi sottoposti alle condizioni del neoliberismo. Negli anni Novanta si da priorità alle qualità personali
nell’interazione piuttosto che alla produzione di oggetti. Tuttavia quando questi nuovi esperimenti processuali vengono
inseriti all’interno di vecchie modalità come la mostra, è inevitabile che fra questi modelli si determini un conflitto.
Spesso nelle mostre non c’è nessun oggetto da vedere e il ruolo del pubblico è limitato. Mostre come “Culture in Action”
se da un lato cercano di democratizzare la produzione e la ricezione del’arte, dall’altro non sono eque perchè privilegiano
quelli che non devono spostarsi e chi può essere davvero parte del progetto sono coloro che possono restare molto tempo
in quello stesso posto. Dunque le parole “progetto” e “mostra” sembrano escludersi a vicenda.
La mostra è stata spesso celebrata come luogo d’incontro, come un forum che espone noi come visitatori tanto quanto gli
oggetti, costringendoci a riflettere sulla nostra stessa posizione e prospettiva. Tuttavia le mostre che abbiamo preso in
considerazione propongono l’idea della mostra come un’assemblea unitaria ma sottoposta a pressioni contrastanti,
moltiplicando e frammentando i pubblici. La loro tendenza all’apertura viene percepita dal pubblico come una mancanza,
visto che il processo di formazione del significato centrale raramente viene reso visibile ed esplicito. Nonostante la logica
dell’arte partecipativa sia quella di precludere l’esistenza stessa di un pubblico secondario perché ognuno è produttore,
bisogna fare in modo che queste azioni artistiche siano comunicate in modo adeguato a chi arriva in un secondo momento,
dopo i partecipanti diretti. Esperienze successive nel corso degli anni duemila hanno dato luogo a modalità più chiare.
8.PERFORMANCE PER DELEGA: L’AUTENTICITA’ IN APPALTO

Durante il periodo post-‘89 ci fu una manifestazione ulteriore della svolta sociale nell’arte contemporanea con la nascita
di un nuovo genere di performance, ovvero la performance per delega. Il tratto distintivo fu l’ingaggio di performer non
professionisti, essendo questi eventi intrapresi non dagli artisti stessi. Tutte queste opere mantengono un facile rapporto
con la galleria, sia assumendola come cornice per una performance, sia come spazio dove esibire fotografie o video.
Questa strategia è diversa dalla tradizione teatrale e cinematografica, di persone dirette dal regista: gli artisti
tendenzialmente ingaggiano persone che mettono in scena la propria categoria socio-economica di appartenenza, rispetto
al genere, la classe, l'etnia o la professione. Sono opere diverse da quelle dei capitolo precedenti, si tratta di una novità e la
valutazione critica è ancora in fieri. Uno degli obiettivi è affrontare la performance per delega in maniera più articolata
come pratica artistica, non semplicemente come micro-modello di reificazione. Ci sono tre diverse manifestazioni di
questa tendenza, attingendo dalla body art, Judson Dance, Fluxus.

1.Una tipologia provvisoria


Il primo tipo di performance per delega comprende azioni appaltate a non professionisti, cui viene chiesto di mettere in
scena un aspetto della loro identità. Sono le “installazioni dal vivo” e si ritrovano nelle prime opere di Pawel Althamer
che lavora con i senzatetto in Observator nel 1992 o Elmgreen&Dragset che ingaggiano in vari modi uomini omosessuali
in Try del 1997 o disoccupati affinchè diventino i sorveglianti della galleria.
Questa opera si realizzò per la prima volta in Europa: il tono leggero e giocoso segna una rottura con le forme più serie
della politica identitaria. Uno dei primi esempi di questa tendenza è Maurizio Cattelan, che nel 1991 mise insieme una
squadra di calcio di immigrati nord africani, schierati per giocare le partite del calcio locale in Italia. Le magliette vennero
decorate con uno sponsor fittizio, RAUSS, ovvero la parola tedesca per “via da qui”. Il titolo del lavoro, Southern
Suppliers F.C. allude al lavoro manuale degli immigrati, ma anche alla tendenza di ingaggiare calciatori stranieri per
giocare nelle squadre italiane. Il gesto di Cattelan segna un contrasto tra i due tipi di lavoro straniero che si trovano
alll’opposto dello spettro economico. Produce un’immagine che disorienta, in quanto la parola RAUSS associata ad. Una
squadra di calcio italiana fatta di immigrati, ha una potenza ambigua e provocatoria, specie quando circola nei media, per
la paura nascosta di essere sommersi dagli immigrati. Il processo collaborativo risiede nella parziale condivisione con i
giocatori dell’attenzione rivolta alla performance.
Cattelan si è rivolto allo sport, ma molti artisti fanno riferimento all’ambito della musica. È il caso del Copenhagen
Postmen’s Orchestra dell’artista svedese Annika Eriksson, da cui fu tratto un video di cinque minuti e Acid Brass di
Jeremy Deller da cui fu tratto un CD. Il fascino di questi progetti è che gli artisti usano bande reali. Non si tratta di attori
per suonare musica elettronica con gli ottoni, ma veri collaboratori della classe operaia che avverano accettato di
partecipare ad un esperimento artistico. I musicisti mettono in scena le loro maschere pubbliche, date dal loro impiego e
legate alla classe, mostrando una passione condivisa. Seguono la tendenza verso modalità leggere e divertenti con cui la
performance per delega in Europa, negli anni Novanta, indicava la classe, razza, genere o età. Il fatto che non sia il vero
corpo dell’artista a essere messo in scena significa che questa politica può essere perseguita con ironia fredda e una certa
distanza.
Una rottura si ha nel 1999 con le performance di Santiago Sierra. La sua opera passò da installazioni prodotte da
lavoratori sottopagati ad allestimenti in cui egli metteva in mostra i lavoratori stessi, ponendo in primo piano le
transazioni economiche con loro, da cui dipendevano le installazioni. Il primo lavoro in cui furono resi visibili i
partecipanti è 465 persone pagate che portò ad un’opera che continua a suscitare polemiche, 250 cm di linea tatuata su 6
persone pagate. Molte di queste prime performance implicano il dover trovare persone disposte ad assumere incarichi
banali o umilianti a un salario minimo. Le opere di Sierra quindi perdono l’humor leggero, anche perchè spesso hanno
luogo in Paesi al limite estremo del disagio provocato dalla globalizzazione. Sierra è stato criticato per aver replicato così
le ingiustizie del capitalismo, ma in realtà il suo intento è quello di porre l’attenzione sui sistemi economici con cui
vengono realizzate le opere e il modo in cui questo influenza la ricezione dell’opera. La transazione economica avviene
tramite agenzia di collocamento e l’artista è a dovuta distanza dal performer; questa distanza è evidente quando lo
spettatore incontra l’opera, restando freddo ed alienato. Sierra inoltre rende i dettagli di ogni pagamento parte della
descrizione dell’opera, trasformando il contesto economico in una delle sue “materie prime”.
Questo tipo di performance per delega deve molto alla body art degli ultimi anni Sessanta, ma allo stesso tempo vi sono
delle differenze: gli artisti del passato usavano il proprio corpo come medium e materiale dell’opera, spesso seguendo una
trasgressione fisica e psicologica; la performance per delega invece oggi affida ancora valore all’immediatezza, ma il
carattere trasgressivo si ritrova nella percezione che gli artisti stiano esibendo e sfruttando altri soggetti, aprendo un
dibattito sull’etica della rappresentazione.
Un secondo filone della performance per delega riguarda l’uso di professionisti da altre sfere di competenza, come cantati
d’opera, pianisti, o il caso di Tania Bruguera che ingaggia poliziotti a cavallo per dimostrare tecniche di controllo della
folla. Questi performer quindi sono specialisti di altri campi rispetto a quello dell’arte; intorno a questi lavori c’è una
controversia minore. L’attenzione dei critici si sposta sulle abilità specifiche del performer, le cui doti sono incorporate
nella performance come un ready-made. L’opera è instruction-base di, quindi si basa sul fornire istruzioni, facilitando la
riproducibilità e il poter essere collezionata nei musei. Un esempio importante è Tino Sehgal il quale non parla di
performance art per la sua pratica, ma di “situazioni” e che i suoi performer siano “interpreti”. Importante è anche la sua
relazione con la danza in quanto l’artista si era formato come coreografo. This Objective of That Object colloca lo
spettatore all’interno di un’esperienza ad alto controllo: appena entri nella galleria, cinque performer girati di schiena ti
spingono a partecipare a una discussione su soggettività e oggettività; generalmente sono studenti di filosofia, ma il loro
dialogo proviene da un copione e viene ripetuto in maniera meccanica, mentre qualsiasi contributo al di fuori del dibattito
viene percepito come imbarazzante, in quanto non si può alterare la struttura dell’opera, ma solo assumere un ruolo al suo
interno.
Un approccio simile si trova nelle performance concettuali di Dora Garcìa, dove alcune delle sue prime performance
alludono ad avatar e sorveglianza come in Proxy del 2001, mentre altri progetti più interessanti possono durare anche anni
e si confondono con il mondo esterno, come in The Messenger del 2002 dove un performer deve recapitare un messaggio
in una lingua straniera che non capisce, ma per farlo deve cercare qualcuno che possa comprendere quella lingua. Il
performer è l’affidatario dell’incarico. Questa forma di Teatro Invisibile agire non tanto per suscitare consapevolezza
come in Boal, ma per insinuare un momento di dubbio e sospetto nelle esperienze di vita abituali dello spettatore. Dunque
se i lavori di Sehgal sono autoriflessivi e incoraggiano il contributo soggettivo del pubblico, quelli di Garcìa sono meno
visibilmente partecipativi e rafforzano il dubbio e il disagio. I due artisti mettono in atto un tipo di performance che
enfatizza anche le istruzioni, fornite in modo da consentire variazioni individuali e un’estetica che cambia di giorno in
giorno. Un altro punto di riferimento potrebbe essere Fluxus per l’assegnazione di compiti, ma il precedente più
immediato è la Judson Dance con la sua enfasi su gesti, abiti e movimenti quotidiani per le coreografie.
Un terzo tipo di performance per delega comprende situazioni costruite per video e film, come per Galliani Wearing,
Artur Zmijewski e Phil Collins. Le immagini registrate sono cruciali in quanto questo genere cattura spesso situazioni
difficili o delicate per essere ripetute. Queste situazioni possono mettere in discussione il confine tra l’azione dal vivo e
quella meditata, fino al punto in cui il pubblico non capirà se è finzione o realtà. Questo terzo tipo solleva di nuovo
questioni etiche in quanto un ruolo fondamentale ce l’ha l’artista per la revisione e il controllo. Un esempio è They Shoot
Horses del 2004 di Phil Collins dove ha selezionato e pagato 9 ragazzi palestinesi per una maratona di disco-dancing con
musica pop. Molti si sono preoccupati dello sfruttamento da parte dell’artista dei performer, anche perchè non vengono
riportati i loro nomi. Tuttavia Collins dialoga con la specificità del luogo: i Territori Occupati non vengono mai mostrati
esplicitamente ma sono sempre presenti come cornice. L’artista qui li ritrae come semplici adolescenti globalizzati, mentre
la loro solita rappresentazione mediatica è quella della vittima o del fondamentalista. Si rifà al ritratto, alla body art e al
reality televisivo.
La genealogia di questo tipo di performance è complessa. Ha uno stretto rapporto con il reality televisivo, ma anche con il
documentario simulato emerso negli anni Sessanta e con il cinema neorealista dove venivano utilizzati attori non
professionisti, come Rossellini o sperimentatori come Peter Watkins, i cui film possono durare anche per ore. Dunque la
performance per delega si allontana dalle convenzioni della body art: non privilegia il corpo dell’artista o il momento dal
vivo, ma si basa sulla delega e la ripetizione. Inoltre la body art era prodotta in poco tempo e a basso costo - in quanto il
materiale era il corpo dell’artista - mentre questo tipo di performance è un “gioco di lusso”, non a caso nasce in occidente
e ebbe luogo nelle fiere d’arte e biennali. Jack Bankowsky parla di “arte da fiera d’arte” in quanto laddove una volta la
performance cercava di rompere con il mercato dell’arte smaterializzando l’opera in eventi effimeri, oggi la
smaterializzazione e le testimonianze sono diventate forme di battaglia pubblicitaria. La performance suscita l’attenzione
dei media, che a loro volta intensificano il capitale simbolico dell’evento. Tuttavia la Bishop ritiene che non tutte le
performance per delega debbano essere marchiate così in quanto gli esempi migliori offrono esperienze mirate e
inquietanti, mentre altre, come le “decorazioni da tavola” dell’Abramovic, sono solo spettacoli grotteschi che i musei
utilizzano per raccogliere denaro.

2.Performance come lavoro manuale e piacere


La ripetibilità della performance per delega è centrale nell’economia della performance fin dal principio, perchè così può
essere acquistata e venduta e rimessa in scena in molte sedi. Questa tendenza va di pari passo con i cambiamenti
dell’economia in generale. Appaltare a terzi il lavoro è diventato di moda nei primi anni Novanta, spesso ingaggiando
operai e società virtuali in Paesi in via di sviluppo, traendo vantaggio dalle differenze del costo del lavoro, facilitando lo
sfruttamento senza regole. Sia la performance che l’economia premiano il reclutamento e molto spesso è il curatore a
dover trovare il performer. Ogni performer è rimpiazzabile, in quanto è necessaria una turnazione all’interno della mostra
per ripetere la performance. Dunque c’è minor enfasi per l’unicità della performance ma resta l’impatto dell’evento dal
vivo. I cambiamenti economici influenzano la ricezione che abbiamo dell’arte contemporanea: le transazioni finanziarie
sono sempre più essenziali alla realizzazione della performance per delega e i salari dei performer sono la spesa più alta in
queste mostre, rispetto alle installazioni di arte convenzionale (tenere una scultura di Serra costa molto meno del far
ripetere per più giorni una performance di Sehgal in mostra). Tuttavia è raro che gli artisti facciano riferimenti espliciti
alle operazioni finanziarie e spesso si tratta di taciti accordi.
La mostra itinerante di tre giorni “La Monnaie Vivante” (la moneta vivente) ha affrontato questo incrocio tra performance
ed economica. La maggior parte delle opere esibite sono performance per delega, eseguite da diverse fasce generazionali
in sedi geografiche diverse. Pone la performance art in dialogo con i coreografi contemporanei interessati al grado zero
della danza. Tuttavia la mostra si distingue dal punto di vista curatoriale perchè presenta le performance sovrapposte in un
unico spazio-tempo. Per esempio alla Tate Modern, nel 2008, performance di durata variabile ebbero luogo sul ponte della
Turbine Hall, spaziando tra l’installazione dal vivo di sei ore di Santa Ivekovic ai lavori effimeri basati sulle istruzioni di
Lawrence Weiner. Questo portava a una serie di sovrapposizioni sublimi come Gruppo di persone con il viso rivolto al
muro di Sierra e Tatlin’s Whisper di Bruguera in cui due poliziotti a cavallo davano dimostrazione di tecniche di controllo
della folla. Il titolo della mostra di Bal-Blanc è tratto dal libro di Pierre Klossowski in cui parla della preoccupante
sovrapposizione tra economia e piacere. La moneta vivente nel suo titolo è il corpo umano e il testo si basa sulla premessa
che la meccanizzazione industriale produce nuove forme di perversione e piacere. In pratica dall’avvento
dell’industrializzazione, l’emozione voluttuosa non si lega più all’oggetto artigianale, ma al frivolo bene di consumo di
massa che permette al desiderio di manifestarsi. Bal-Blanc sostiene che tutte le opere che esibisce mostrano il modo in cui
gli impulsi individuali sono sottomessi ai rapporti economici e sociali e come queste regole sono analizzate nelle leggi di
trasmissione e ricezione dell’industria dello spettacolo. L’interpassività (utilizzata al posto dell’interattività) è il
linguaggio segreto del mercato, che degnata i corpi in oggetti, ed è anche il linguaggio che l’artista usa per riflettere su
questa degradazione. Non a caso lo sviluppo di questo progetto parte da Go-go Dancing Platform di Felix Gonzalez
Torres, dove il desiderio di depressione e sudditanza ch il curatore provò gli fece sorgere molte domande, a cui seppe
rispondere Sierra. L’artista utilizza la perversità come meditazione sul livello a cui le istituzioni sociali ed economiche
assicurano il trionfo della perversione. Per Bal-Blanc la differenza fra le opere e il capitalismo è che gli artisti si
appropriano del potere pervertito per loro stessi, al fine di produrre nuovi ruoli, a differenza di quelli unidimensionali
dell’industrializzazione. Nella performance per delega sono presenti due tipi di perversione: quella esercitata dalle
istituzioni e quella degli artisti che appare anomala.

3.Perversione e autenticità
Klossowski rappresenta nella teoria francese un ponte tra Bataille e Lacan e i filosofi della generazione successiva, come
Lyotard e Baudrillard. Questi ultimi prendono da. Lui l’idea dell’economia libidinale e del discorso istituzionale. Il suo
interesse per il corpo umano come moneta vivente appare come una meditazione sul mondo in cui i soggetti possono
arrivare a pervertite e quindi godere la propria stessa alienazione sul lavoro. Seguendo la sua logica è come se l’artista
della performance per delega si ponesse in una posizione sadiana, di auto-sfruttamento percè sanno per esperienza che
auto-sfruttamento ed esibizione di sè possono essere essi stessi una forma di piacere. Dunque è una mezza verità
affermare che la performance per delega reifica chi partecipa. Da un punto di vista saziano, questa lettura non mostra il
piacere occulto del partecipante nello sfrutta la propria subordinazione in queste opere d’arte nè rende conto del piacere
evidente che provano gli spettatori nel guardarlo. Gli scritti di Klossowski ci invitano ad andare oltre l’impasse delle
posizioni degli anni Sessanta, facendoci carico di una rete più complessa di impulsi libidinali che richiedono
di-negoziazioni infinite. Nonostante l’artista deleghi il potere al performer, la delega non è un gesto a senso unico rivolto
verso il basso. Anche i performer delegano qualcosa all’artista: una garanzia di autenticità, negata per convenzione
all’artista che si occupa solo di rappresentazioni. L’artista appalta all’esterno l’autenticità e confida che i suoi performer la
comunichino senza filtri. Allo stesso tempo il realismo chiamato in causa da questa operazione non è un tipo di autenticità
modernista, demolito dal post-strutturalismo, ma danno vita a una forma di autenticità eterodiretta: l’autorialità
individuale è messa in dscussione dal delegare il controllo dell’opera ai performer, i quali sono una garanzia di realismo,
ma lo fanno tramite una posizione autoriale di cui nno può prevedresti il risultato. L’artista allo stesso tempo perde e
rivendica il potere, accetta di perdere temporaneamente il controllo della situazione prima di tornare a elezionare, definire
e fare circolare la rappresentazione. È essenziale servirsi di dilettanti perchè questo assicura che la performance per delega
non assuma mai il carattere della recitazione professionale, tiene aperto lo spazio di rischio e ambiguità. E quando gli
artisti rendono visibili e disponibili a una piacevole fruizione esperienza al gi schemi della subordinazione istituzionale
quotidiana, il risultato è una nausea morale. Il piacere della reificazione in queste opere è analogo a quello che proviamo
nel nostro auto-sfruttamento. Questo è il senso dell’analisi perturbante di Klossowski.
4.Performance nel contesto
La Bishop quindi tenta una interpretazione della performance per delega più complessa rispetto a quella offerta dal quadro
marxista della reificazione o del miglioramento sociale (cap 1) perchè queste posizioni riportano le opere a problemi
ordinari di correttezza politica. I piaceri perversi di questi gesti artistici offrono una forma alternativa di conoscenza
riguardo alla mercificazione dell’individuo propria del capitalismo, specie quando sia partecipanti che spettatori godono
della trasgressione di subordinazione all’opera d’arte. L’arte quindi va vista come offerta di uno spazio specifico di
esperienze dove quelle norme sono sospese e volte in piacere in modi pervers. Invece che giudicare. L’arte come modello
di organizzazione sociale è più produttivo vedere la concettualizzazione di queste performance come vere decisioni
artistiche. Questo non significa che gli artisti siano disinteressati all’etica, ma che la loro etica è il grado zero di ogni arte
collaborativa. Giudicare un’opera sulla base della sua fase preparatoria significa trascurare l’approccio individuale di ogni
artista. Ci sono quindi questioni più ampie: gli artisti scelgono di usare le persone come loro materiale per molte ragioni,
come sfidare i criteri artistici tradizionali, introdurre effetti estetici di probabilità. Rischio, dare visibilità a determinati
gruppi sociali. La differenza sta tra l’arte da fiera d’arte e i migliori esempi di questi lavori che reificano allo scopo di
mettere in discussione la reificazione o sfruttano per tematizzare lo sfruttamento in sè. Nei casi peggiori, la performance
per delega produce una specie di reality fittizio pensato per i media, invece di una presenza che svela la mediazione stessa.
Tuttavia nei casi migliori produce venti che testimoniano una realtà condivisa tra osservatori e performer, sfidando i modi
in cui siamo abituati a pensare riguardo al piacere e all’etica.

9.PROGETTI PEDAGOGICI: È’ POSSIBILE FAR VIVERE UNA CLASSE COME FOSSE UN’OPERA
D’ARTE?

Quando la pratica artistica si dichiara pedagogica si creano delle contraddizioni: l’arte è fatta per essere vista, mentre
l’istruzione non ha immagine. Il pubblico non è fatto di studenti e gli studenti non sono il pubblico, nonostante le loro
relazioni con l’artista e l’insegnante creino dinamiche simili. Tuttavia l’esperienza dell’arte partecipativa ci spinge a
pensare a queste categorie in modo più elastico, mentre gli artisti si riferiscono come arte ai loro interventi nei processi
sociali. La partecipazione mette in crisi l’idea tradizionale di spettatorialità, ripensando d un’arte priva di pubblico, dove
tutti sono produttori, anche se il pubblico non si può eliminare perchè non tutti possono partecipare a tutti i progetti.
Negli anni Duemila sono aumentati i progetti pedagogici da parte degli artisti e curatori contemporanei. La cancellazione
di Manifesta 6 (2006), un tentativo di riorganizzare la biennale europea itinerante come scuola d’arte a Nicosia, segnò il
momento in cui questa tendenza subì una accelerazione, aumentando l’interesse ad esaminare la reazione tra arte e
pedagogia, motivati sia da argomenti artistici, come la crescita del contenuto intellettuale della convivialità relazionale, m
anche dalla nascita del capitalismo accademico. Dunque artisti e curatori si sono impegnati in progetti che utilizzano gli
elementi caratteristici dell’istruzione come conferenze, seminari, biblioteche, pubblicazioni e laboratori e scuole. Questo è
avvenuto insieme alla crescita dei dipartimenti educativi nei musei, le cui attività non sono più solo lezioni o laboratori,
ma includono reti di ricerca con le università e convegni interdisciplinari il cui obiettivo va oltre la valorizzazione del
programma espositivo del museo. Musei e scuole d’Europa hanno organizzato convegni volt a riesaminare le politich e le
potenzialità dell’educazione artistica e anche molte riviste d’arte si sono impegnate in questo. Tuttavia i progetti
pedagogici sono ancora marginali rispetto al mercato dell’arte.
Bisogna sicuramente notare la relazione tra arte e accademia: in passato quest’ultima veniva considerata come
un’istituzione arida ed elitaria, mentre oggi è un potenziale alleato dell’arte in un’era in cui tutto è sempre più
privatizzato. Tuttavia come nota Irit Rogoff, ad oggi si cerca di confondere gli aspetti dell’arte e della pedagogia con
l’impulso neoliberista a rendere la formazione un prodotto o uno strumento all’interno dell’economia della conoscenza.
Secondo Rogoff, sia l’arte che l’istruzione ruotano attorno alla nozione foucaltiana di “parresia”, ovvero di “unn parlare in
pubblico fin troppo libero e incontrollato”; una svolta educativa nell’arte e nella curatela potrebbe essere il momento in
cui partecipano alla produzione delle verità, ovvero la soggettività e che non si riflette in altre forme di espressione; una
teoria convincente ma generica perchè non vengono date ulteriori informazioni o dati. Nell’emisfero australe le revisioni
radicali della diattica furono necessarie per incrementare l’accesso all’istruzione e dotare le persone di nuovi strumenti
creativi, mentre negli Stati Uniti e in Europa, al contrario, studenti e oppressi erano sullo stesso piano, portando così dei
cambiamenti solo nei contenuti della didattica, dando per scontato che il processo democratico si sarebbe sviluppato di
conseguenza. Questo viene dimostrato anche dall’artista Luis Camnitzer, centrale per gli artisti che lavorano con la
pedagogia, quando indaga la storia dell’arte concettuale latino-americana, dove arte e pedagogia cercarono di resistere
agli abusi di potere da parte dello Stato. Si creano delle fratture che portano all’allontanamento dai modelli autoritari di
trasmissione del sapere e di avvicinamento all’obiettivo di trasferire il potere attraverso la diffusione della coscienza di
classe.
Tuttavia il punto di riferimento è Joseph Beuys per quanto riguarda l’impegno degli artisti contemporanei nella pedagogia
sperimentale, tanto da dichiarare che “essere insegnanti è la più grande opera d’arte”. Espulso dalla Kunstakademie dopo
aver protestato contro l’ammissione a numero chiuso, decise di fondare la Free International University nel 1973, con lo
scopo di rendere tutti delle persone creative attraverso un’accademia aperta, gratuita, non competitiva e con un piano di
studi interdisciplinare. Tramite questa Università cercò di realizzare la sua convinzione per cui l’economia non dovrebbe
essere confinata a una questione di denaro ma includere forme alternative di capitale, come la creatività delle persone.
Prima della creazione della FIU, le performance di Beuys avevano già preso le distanze da azioni simboliche per
rivolgersi ad un modello pedagogico, attraverso conferenze e seminari sulle strutture politiche e sociali. Uno dei progetti
successivi pi importanti fu 100 days of the Free International University organizzato per “Documenta 6” (1997) dove
tredici laboratori interdisciplinari, aperti al pubblico, includevano sindacalisti, avvocati, economisti, politic, giornalisti e
giovani artisti, andando oltre quindi gli studi umanistici per abbracciare le scienze sociali. Dunque Beuys prefigura un
importante filone della recente attività artistica, anche se non ci sono leader carismatici come lui, m spesso gli artisti
contemporanei tendono ad appaltare il lavoro di insegnamento a specialisti del settore. È stata data poca attenzione
all’attività di Beuys negli anni Settanta e solo Jan Verwoert fornisce una lettura più articolata del suo personaggio come
insegnante. Egli nota come Beuys fu allo stesso tempo troppo provocatorio e troppo progressista, in quanto rifiutava il
piano di studi, analizzava tutto il giorno il lavoro degli studenti e se necessario attaccava fisicamente l’arte degli studenti
stessi. Verwoert ritiene, inoltre, che bisogna concentrarsi sul parlare in pubblico dell’artista non come meta-discorso sulla
sua arte, ma come medium artistico sui generis. Dunque possiamo considerare il tenere discorsi e anche l’insegnare come
medium artistici.
Programmare eventi, seminari e dibattiti possono essere considerati tutti risultati artistici equivalenti alla produzione di un
oggetto finito o performance. Tuttavia l’arte pedagogica solleva un serie di problemi: cosa significa fare didattica come
arte? Come giudichiamo queste esperienze? I progetti pedagogici hanno uno status ambiguo. Le implicazioni
spettatorialità dell’arte che diventa formazione sono il tema ricorrente nei case studies indicati, ognuno con un approccio
differente al problema della spettatorialità in relazione al compito pedagogico, mostrando gli sviluppi che ci sono stati sia
nel lavoro basato sul progetto che nella sua documentazione a partire da “Culture in Action”.

1.Arte utile
Il primo progetto pedagogico degli anni Duemila è stato Catedra Arte de Conducta ovvero una scuola pensata come opera
d’arte dall’artista cubana Tania Bruguera. La sede era nella sua casa ne L’Avana Vecchia e gestita con l’aiuto di due
collaboratori era rivolta a fornire agli studenti d’arte cubani una formazione nell’arte politica. Bruguera fondò Arte de
Conducta (o “arte comportamentale”) alla fine del 2002, dopo la partecipazione a Documenta 11, per dare un contributo
concreto alla scena artistica cubana, in risposta alla sua mancanza di strutture istituzionali e infrastrutture espositive, in
parte in risposta alle continue restrizioni dello Stato sui viaggi e sull’accesso all’informazione dei cittadini cubani. Un
terzo fattore fu il nuovo consumo di arte urbana da parte dei turisti statunitensi sull’onda della Biennale de L’Avana del
2000, con molti artisti integrati nel mercato occidentale senza che ne avessero controllo. Uno degli obiettivi del progetto
era quindi preparare una nuova generazione di artisti ad affrontare questa situazione in modo auto-riflessivo, con la
consapevolezza delle logiche del mercato globale anche quando producono arte indirizzata al loro contesto locale.
Arte de Conducta va intesa come corso di due anni più che come una scuola d’arte vera e propria, in quanto gli studenti
non ricevevano crediti per la frequenza, ma l’iscrizione era necessaria per assicurare i visti ai professori esterni.
“Comportamento” è il termine alternativo che l’artista sceglie al posto di quello occidentale di “performance”, ma esso
indica anche la Escuela de Conducta, una scuola per giovani delinquenti in cui Bruguera aveva insegnato arte. Dunque il
suo focus era l’arte che si impegna nel reale, in modo particolare la connessione tra utilità e legalità, due aspetti che per
Bruguera devono essere messi sempre alla prova. Un esempio di lavori è il Registro della popolazione di Celia e Yunior,
in cui gli artisti avevano sfruttato la scappatoia legale per cui è possibile richiedere più volte le carte di identità, queste
sono state accumulate, evocando un lavoro di On Kawara, ma contemporaneamente indeboliscono l’unicità certificata che
associamo alle prove di identità.
Il rospo studentesco della scuola era rigido, ma allo stesso tempo fluido: Bruguera prendeva solo otto studenti all’anno
tuttavia i laboratori erano poi aperti a tutti. Questa è una differenza importante rispetto alle altre scuole di artisti, rendendo
la scuola contemporaneamente ufficiale e informale. Altri aspetti del corso sono invece più convenzionali, come
l’insegnamento strutturato attorno ai laboratori, presentazioni degli studenti. La maggior parte degli artisti invitati viene
coinvolta in qualche modo nella performance, molti provengono da Paesi ex socialisti, in modo da aiutare gli studenti
cubani a comprendere ciò che accadrà anche nella loro società. Questo è utile anche per far circolare nell’isola immagini e
idee che altrimenti non ci sarebbero a causa delle restrizioni su Internet. Gli insegnanti, inoltre, sono incoraggiati a
considerare Arte de Conducta una scuola mobile, usando l’intera città come base per le operazioni, realizzando azioni ad
esempio in un albergo, fuori dal Museo della Rivoluzione o di un barbiere. Lo scopo è di creare uno spazio di discussione
libera in opposizione all’autorità dominante e di formare gli studenti non solo per fare arte ma anche per fare esperienza di
un modello di società civile.
La questione di come comunicare questa scuola-come-arte a un pubblico esterno è un problema aperto. Bruguera non
tentò subito di farlo, ma ci furono poi diverse occasioni, come la Biennale di Gwangju del 2008 dove l’artista decise di
presentare Arte de Conducta esponendo un campione rappresentativo del lavoro degli studenti, anche se tramite
un’installazione convenzionale; più dinamica fu la soluzione dopo la chiusura della scuola durante la Biennale de L'Avana
del 2009, dove furono presentate nove mostre in nove giorni e ogni notte venivano disallestite e riallestite, puntando sulla
prontezza e l’intensità della scuola nel suo insieme. Ogni giorno la mostra ruotava attorno ad un tema diverso, come “Arte
utile” o “informazioni sul traffico di droga” con la presentazione di una serie di brevi lavori, presentando quelli degli
studenti accanto a quelli degli artisti, spesso impegnati politicamente e umoristici più di altri lavori presenti durante la
Biennale.
Definiamo Arte de Conducta un’opera d’arte e non un progetto educativo in primis per la sua identità autoriale come
artista e la scuola può essere descritta come una variante dell’arte utile, che rifiuta la visione occidentale per cui l’arte
sarebbe senza funzione, trovandosi così a cavallo tra gli ambiti dell’arte e dell’utilità sociale. Presentare Arte de Conducta
alla Biennale de L’Avana fu “utile” perchè permise a Bruguera di mostrare ad un pubblico internazionali dei giovani artisti
che altrimenti non sarebbero stati commissionati dal comitato della biennale. Bruguera definisce l’arte utile in modo
ampio, come un gesto performativo che ha effetto sulla realtà sociale. La sua pratica punta ad avere impatto sia sull’arte
che sulla realtà e richiede di sviluppare l’abitudine a dare giudizi paralleli, considerando così l’impatto delle sue azioni in
entrambi gli ambiti. In ambito di un’istruzione sperimentale, questa scuola testimonia un ripensamento della scuola d’arte,
anche per il rapporto informale che crea con gli studenti; come opera d’arte, la soluzione dinamica basata sul tempo -
come la mostra che cambia rapidamente - è stato uno dei contributi migliori alla Biennale de L’Avana.
La difficoltà di chi giudica sta nell’essere abituati ad. avere un modo fisso di guardare a questi progetti, precludendo
l’emergere di nuovi criteri. Nonostante si consideri il progetto come un’opera d’arte, Bruguera non indica cosa potrebbe
essere artistico in Arte de Conduca e anche se privilegia il sociale all’artistico, tutta la configurazione del progetto dipende
da un’immaginazione artistica, quindi l’arte è integrata all’interno della concezione di ciascun progetto e questo risulta
evidente nel modo in cui decide di esporre alla Biennale. Sia l’arte che l’istruzione possono avere obiettivi a lungo
termini, possono essere de-materializzate, ma l’immaginazione è sempre cruciale.

2.Un progetto in tre parti


Se Bruguera fonde l’arte e la formazione, Paul Chan le tiene vicine. È conosciuto per le sue videoinstallazioni e ha spesso
difeso una interpretazione adorniana dell’arte come linguaggio che non può essere soggetto a una razionalità
strumentalizzata e la sua potenzialità politica si trova proprio in questo. L’opera che prendiamo in considerazione è
Waiting for Godot in New Orleans: dopo aver visitato New Orleans nel 2006, vide per la prima volta l’impatto
dell’uragano Katrina, che un anno prima aveva distrutto le aree più povere della città, avendo la sensazione di tutte le
messe in scena di Godot che aveva visto. Realizza poi un disegno per una scenografia che fu realizzata nel 2007. La scelta
del lavoro di Beckett era dolorosamente appropriata alla situazione, dopo lo scandalo politico causato dal ritardo con cui il
governo statunitense aveva risposto alle conseguenze dell’uragano.
Chan afferma che lo spettacolo non comprese solo la produzione teatrale, che quindi era solo il punto di partenza, ma lo
scopo era utilizzare l’arte per organizzare una nuova immagine della vita nella città a due anni di distanza dall’uragano.
Per questo il sottotitolo parla di “progetto in tre parti”, che comprende: una residenza di otto mesi di laboratori e
insegnamento; spettacoli all’aperto; un fondo per raccogliere i soldi per la ricostruzione della città. Tuttavia la critica si è
sempre e solo concentrata sullo spettacolo, mentre la Bishop va controcorrente e cerca di dare lo stesso messo a tutti e tre
gli aspetti del progetto, come voluto dall’artista.
Chan ha preferito la forma della residenza all'attività di insegnamento sia per motivi etici, in quanto così non si imponeva
la visione di un singolo su una popolazione, ma anche strategici, perché così avrebbe creato un gruppo di sostenitori per la
sua visione. Inoltre incontrò molta opposizione a New Orleans perchè i residenti non volevano arte ma aiuti concreti e da
qui nacque la proposta di collaborare con le scuole, dove iniziò a insegnare gratuitamente e creare un fondo. È
significativo che Chan non metta in discussione gli usi della formazione in sè per sè, ma il mezzo per raggiungere un fine:
usando le sue competenze per integrarsi nella comunità, costruì alleanze e realizzò la sua visione. Diversamente da
Bruguera, lui si mise in gioco personalmente. La separazione tra organizzazione, raccolta fondi e produzione finale
mantiene una chiara separazione tra gli aspetti gestionali e creativi del progetto, agendo quasi in maniera conservativa, a
differenza della Bruguera che insisteva nel considerare tutte le parti di un processo del genere come arte.
Le immagini del progetto che circolano si concentrano su alcuni momenti accuratamente scelti della produzione, come il
disegno iniziale di Chan e dei fermo immagine che pubblicizzavano Godot. Di recente Chan ha venduto l’archivio al
MoMa dove è stato allestito su tre pareti con fogli incollati sovrapposto a ingrandimenti fotografici, tre sculture usate
come arredamento scenico: diversamente dall’archivio di Jeremy Deller di The Battle of Orgreave, la selezione degli
oggetti serve a rappresentare la produzione teatrale piuttosto che gli eventi sociali e politici alla base del lavoro. L’artista
cura anche un libro di documentazione del progetto, tuttavia ci si rende conto che la migliore documentazione di questo
progetto è la modalità performativa della lezione accompagnata da una presentazione power point, in cui fa una riflessione
tra arte, politica e costruzione di una comunità, cose che non troviamo nell’archivio del MoMa.
Nonostante il progetto non fosse partecipativo in senso convenzionale, Chan trova due tipologie di lavoro sociale e
politico che si realizzarono: quello prima dell’evento e quello durante l’evento che rese possibile un luogo in cui la
politica non importa più. È una figura inusuale nel panorama artistico attuale: piuttosto che usare l’arte per portare al
cambiamento sociale, egli usa le strategie dell’ attivismo per realizzare un’opera d’arte.

3.Compiti comuni
L’interpretazione concettuale di Chan è vicina alle operazioni di Pawel Althamer il cui lavoro è a metà strada tra la
scultura e progetti collaborativi, intende dando tutte le parti del processo come un evento artistico. La sua collaborazione
più lunga fu quella con il gruppo Nowolipie che si occupa di adulti con invalidità mentali o fisiche, a cui l’artista dava
lezioni di ceramica. Nonostante il corso sia iniziato con una modalità pedagogica convenzionale, man mano i rapporti
sono cambiati ed è la classe a condurre Althamer, con un processo educativo bidirezionale, insegnandogli ad essere “più
matto” (esempio di un partecipante che ostruiva sempre un aereo di argilla non curandosi del tema della settimana,
ispirando Althamer che portò il gruppo in viaggio su un biplano, soggetto di un suo breve film). Nascono una serie di
lavori chiamati Compito comune dove l’artista porta il gruppo a visitare l’Atomium di Bruxelles, tutti vestiti da piloti.
Dal 2000 il suo lavoro è diventato sempre più difficile da esibire ed è cresciuto il suo l’interesse per la formazione.
Altro progetto da ricordare è Einstein Class, un progetto di sei mesi mirato a insegnare fisica a un gruppo di delinquenti
minorenni di Varsavia, opera commissionata da un’istituzione tedesca per il centenario della teoria della relatività. I
ragazzi hanno poi mostrato i loro esperimenti ai vicini e l’intero progetto è stato documentato tramite un video, inserendo
anche interviste all’artista, ai genitori e ai ragazzi, anche se non riesce a dimostrare quanto l’esperienza fu vivace e
impegnativa. È un’opera tipica della sua immedesimazione in soggetti emarginati.
Althamer ha tentato di affrontare il problema della documentazione in modo performativo: quando si aprì la mostra su
Einstein a Berlino, l’insegnante e i aguzzi andarono in Germania come inaugurazione del progetto educativo e
successivamente l’artista insistette affinchè i ragazzi polacchi fossero invitati alla prima di Londra. L’altruismo è
inseparabile da una condizione di disagio e disordine sociali, che la mostra di Londra rese esplicito nel titolo “cosa ho
fatto per meritarmelo?”.
La formazione accademica di Althamer è alla base di molti suoi progetti: fece parte del Kowalski Studo, professore che
rifiutava il modello di maestro/allievo in favore di “giochi visivi” - compiti aperti che funzionavano anche come forma di
autoanalisi collettiva. Kowalski mise al centro dell’interesse l’opera d’arte come effetto di una comunicazione non verbale
complessa eseguita da artisti che interagivano tra loro, neutralizzando l’individualismo. Una forma aperta, quindi, che
incoraggia la partecipazione con la realtà, a differenza di una forma chiusa in cui non avviene.

4.Ciò che funziona, produce


L’ultimo esempio è lo scultore residente a Parigi, Thomas Hirschhorn, che nell’ultimo decennio ha organizzato a intervalli
regolari progetti sociali su larga scala in forma di “monumenti”, dedicati spesso a filosofi o realizzati in collaborazione
con gli abitanti che vivono vicino al luogo di costruzione, generalmente sobborghi. Dal 2004 l’elemento pedagogico è
diventato sempre più importante. Musèe Prècaire Albinet incluse la collaborazione e la formazione di alcuni residenti del
luogo per l’allestimento di sette mostre con opere di Beuys, Warhol, Duchamp e Dalì, prese. In prestito dal Centre
Pompidou. Le mostre avevano anche un programma settimanale di eventi, con laboratori per piccoli e grandi. Il pubblico
primario erano gli abitanti del luogo e coloro che ci tornavano regolarmente, piuttosto che gli addetti ai lavori. Nel 2009
l’artista affronta il problema di questa divisione all’interno di un grande progetto in un sobborgo di Amsterdam, dal titolo
The Bijlmer-Spinoza Festival chiamato così anche se non si trattò di un festival ma di una grande installazione ambientale,
che ospitava un programma di conferenze e di laboratori giornalieri. La costruzione era sormontata da una grande scultura
di un libro - L’etica di Spinoza. Per attirare i passanti, fu messa anche una bacheca e giornali gratuiti. Entrando nella
struttura si passava per un bar non autorizzato alla vendita di alcolici, mentre il resto dell’installazione era una veduta
aerea di un libro aperto, dove le pagine erano i muri e gli spazi tra essi le stanze con diverse funzioni (ad es. una
biblioteca, un ufficio per la produzione del giornale, un’esposizione con materiali d’archivio sulla storia del quartiere).
Alcuni di questi elementi erano una parodia dei metodi convenzionali dell’allestimento didattico. Nonostante ci fosse la
biblioteca, era importante il programmma dei laboratori e delle conferenze: ogni giorno si seguitava lo stesso orario,
iniziando con i giochi per bambini, poi una conferenza e poi uno spettacolo. Tuttavia durante la conferenza la Bishop nota
come i bambini gironzolavano attorno al bar e queste due giustapposizioni furono dense di significato rispetto al
contenuto apparentemente accademico della conferenza. Quello che seguì fu difficile da definire spettacolo: tutti
recitavano un copione con tono incerto mentre svolgevano anche compiti fisici, come correre sul tapis roulant o sollevare
il peso di una grande copia in cartone dell’Etica. La funzione della conferenza era la condivisione di un’esperienza in cui
molti e differenti settori della società venivano riuniti, per cui non c’era bisogno di seguire il contenuto ma solo di
arrendersi allo spazio e di usare quel tempo per riflettere su qualsiasi cosa venisse in mente. Anche con la pioggia, durante
lo spettacolo, le persone continuavano ad essere lì per condividere ciò che l’artista aveva avviato. Il nucleo del Festival
era la giustapposizione di tipi sociali attorno a una serie di oggetti di mediazione che non erano quasi mai ciò che
sembravano: la conferenza era in realtà una performance di filosofia, il significato della produzione teatrale sta anche nell’
ostinazione con cui la performance cambia luogo ogni giorno, incurante del clima o del numero di attori che si
presentavano. Non è importante la conferenza, ma la sua processualità, voluta dall’artista che riusciva a motivare le
persone nel mettere in scena qualcosa di strano da richiamare il pubblico. Anche il giornale doveva essere prodotto ogni
giorno, anche se non vi erano notizie o immagini rilevanti. In nessun momento del Festival c’è un contenuto da analizzare
in momento diretto, ma è più simile ad una macchina, dove ognuno deve continuare a produrre e c’è la presenza
collettiva. Hirshhorn non è interessato alla partecipazione o all’arte di comunità, ma preferisce parlare di “presenza e
produzione”, in quanto per lui la partecipazione parte dal pensiero. Riesce a evitare le insidie dell’arte partecipativa in cui
spesso non c’è spazio per la riflessione o per una posizione spettatorialità.
Come Chan, anche Hirshhorn tiene conferenze sul progetto, esponendo con chiarezza le fasi (preparazione, allestimento,
mostra smontaggio), tuttavia questo quadro non riesce a comunicare l’imprevedibile miscuglio sociale che rimaneva
affascinato dal Festival.
C’è differenza tra le installazioni da galleria che riportano immagini raccapriccianti di violenza alla cultura e alla filosofia,
piene di pessimismo sociale e rabbia, e i progetti pubblici, che affiancano classi sociali, razze e generazioni diverse
attraverso la difesa dell’arte e della filosofia. Il Festival riuniva una serie di elementi apparentemente incompatibili per
stimolare incontri collettivi inaspettati e durevoli. Queste esperienze, come anche l’uso delle conferenze, sono in parte
ereditate dalla performance art ma richiedono un allargamento verso nuove direzioni.

5.Formazione, in teoria
Hirschhorn è un caso particolare perchè insiste sul fatto che l’arte sia la motivazione centrale del suo lavoro e che è più
interessato agli osservatori che agli studenti. Altri artisti suoi contemporanei hanno in genere affrontato la questione
facendo interagire la produzione degli studenti e degli spettatori in modi diversi, come Arte de Conducta della Bruguera
che richiede una domanda di partecipazione ma di fatto è aperta a tutti, come anche Night School di Anton Vidokle.
Tuttavia in questi esempi l’artista delega il lavoro didattico ad altri, come se volesse tornare ad essere studente, mettendo
in piedi la propria scuola. Il modello teorico più noto è Il maestro ignorante di Rancière, in cui il filosofo esamina il caso
dell’insegnante anticonformista del XIX secolo Joseph Jacotot, che si trova ad insegnare in una classe che sa solo il
fiammingo. Non essendoci linguaggio in comune non può esserci una trasmissione diretta di conoscenza, ma il maestro
risolve il problema leggendo un libro bilingue. Ciò che interessa a Rancière è l’uguale intelligenza che il maestro pone tra
se stesso e i suoi studenti. Per il filosofo l’uguaglianza è continuamente verificata dalla una messa in pratica e critica, così,
il suo maestro, Althusser, il quale riteneva che l’educazione fosse una trasmissione di conoscenza indirizzata a chi non la
possiede.
Interessante è che non faccia alcun riferimento all'emergere della pedagogia critica che tentava di emancipare i soggetti
attraverso l’uso di mezzi simili, tramite quindi pratiche partecipative e collettive. Importante è la Pedagogia degli
oppressi di Paulo Freire, il quale propone la figura dell’insegnante come co-produttore di conoscenza, facilitando
l’emancipazione dello studente attraverso una collaborazione collettiva e non autoritaria. Tuttavia Freire sostiene che la
struttura gerarchica non potrà mai essere cancellata in quanto il dialogo non esiste in un “vuoto politico”, dunque non si
può dire ciò che si vuole. La pedagogia critica ma niente l’autorità, ma non l’autoritarismo. Questa pedagogia si applica
alla storia dell’arte partecipativa. In un un artista singolo concede all’osservatore libertà all’interno di una nuova forma di
autorità. I migliori esempi forniscono programma e contenuto e non uno spazio utopico di collaborazione non diretta.
La pedagogia critica è quindi direttamente legata all'esaurimento della specificità del medium e alla maggior attenzione al
ruolo e alla presenza dell’osservatore, così. come si vuole far cadere la gerarchia studente/insegnante.
L’avanguardia storica si trova nella scuola sperimentale di Summerhill, fondata da A.S. Neill nel 1921 a Desdra e poi
spostata nel Regno Unito. I primi studenti furono bambini problematici che erano stati espulsi, come nel progetto di
Althamer. Li affrontò sconvolgendo la sua posizione di autorità, ad esempio incoraggiandoli a distruggere le finestre.
Come in Freire la sua organizzazione si basa sul controllo e la possibilità di azione. Tuttavia negli ultimi decenni la
pedagogia critica e l’arte partecipativa sono due modelli che convergono e bisogna interrogarsi sui risultati.
6.Capitalismo accademico
Anton Vidokle, artista-curatore di Night School, ha osservato che le scuole sono uno dei pochi luoghi rimasti dove la
sperimentazione è in parte incoraggiata. Tuttavia tale enfasi sulla sperimentazione libera può sembrare idealistica. A
partire dagli anni Ottanta, nel Regno Unito e in Europa, l’Accademia ha subito una riduzione di finanziamenti pubblici,
portando la formazione a operare all’interno di una cornice economica. A causa del processo di globalizzazione
economica, la funzione dell’università non ha più riguardato la produzione di valori culturali o morali, ma il concetto di
“eccellenza” è stato svuotato, dando vita al “capitalismo accademico” che incoraggia la collaborazione con l’industria o il
reclutamento di studenti stranieri affinchè paghino rette più alte. Il capitalismo accademico, teorizzato da Readings, porta
a cambiamenti sia nel ruolo degli studenti che degli insegnanti e ha effetti sia sull’atletica sia sull’ethos dell’esperienza
educativa. Oggi la figura centrale dell’università è l’amministratore più che il professore e i risultati dell'apprendimento, la
garanzia di qualità sono più importanti del contenuto e del processo di trasmissione di tipo sperimentale. La valutazione
deve adattarsi a procedure standardizzate che permettano la comparazione dei crediti tra tutti i soggetti dell’università e
con l’introduzione del Processo di Bologna del 1999, l’equivalenza in tutta Europa. L’educazione diventa quindi un
investimento finanziario e non uno spazio creativo di libertà e scoperta, introducendo molta burocrazia sia per gli
insegnanti che per gli studenti, come ad esempio la compilazione dei piano di studi individuali. L’università oggi sembra
formare soggetti adatti a vivere sotto il capitalismo globale, iniziando gli studenti a una vita condizionata da un debit
permanente.
L’interesse curatoriale per la formazione è una reazione a questa tendenza. Nel 206 il Van Abbemuseum di Eindhover e il
Museum van Hedendaagse Kunstkompass di Anversa hanno collaborato a un progetto di mostra chiamato
A.C.A.D.E.M.Y. che prendeva posizione in modo esplicito nei confronti di questi cambiamenti e del Proesso di Bologna.
Per i curatori, l’autonomia dell’università e del museo sono minacciate, tuttavia entrambe le istituzioni offrono il più
grande potenziale per ripensare a come generariamo conoscenza. È più difficile sostenere che gli artisti contemporanei si
stiano impegnando direttamente in queste trasformazioni, in quanto i modelli pedagogici e formativi sembrano essere
spesso dovuti a favori particolari, come i loro insegnanti (Althamer) o Joseph Beuys (nei casi di Bruguera e Hirschhorn).
Inoltre esiste un’opinione comune tra gli artisti che insegnano nelle scuole d’arte secondo cui la formazione intesa come
esperienza contro-culturale è in pericolo, anche a causa di una formazione obbligatoria che segue l’ideologia della facoltà,
eliminando i rischi di condotta impropria.
Tutta questa burocrazia dell’istruzione occidentale non tiene conto degli artisti che si dedicano alla formazione in altri
contesti, dove i loro progetti vanno a compensare carenze istituzionali. Questa differenza è evidente in due progetti di
biblioteca fatti da artisti: Martha Rosler Library e l’Archivio di arte contemporanea di Lia Perjovschi a Bucarest, con
articoli fotocopiati e pubblicazioni accumulate a partire dalla fine delle dittatura di Ceausescu. Se la biblioteca della
Rosler ha una prospettiva interdisciplinare e una funzione doppia (sala lettura e deposito dell’artista), quella di Perjovschi
fornisce una risorsa che non esiste altrove a Bucarest e accoglie in particolare studenti dell’Accademia dove le pratiche
performativa non sono ancora materia di insegnamento. L’atto di mettere insieme le informazione è continuazione della
sua pratica e risorsa collettiva per i giovani artisti di Bucarest. Le due situazioni non sono comparabili, ma posiamo
sostenere che i due progetti pedagogici rispondono ad urgenze diverse in contesti diversi, offrendo uno spazio sulla
funzione e sul ruolo della cercare all’interno dell’arte.

7.Educazione estetica
Anche l’arte stessa è da considerare una forma di educazione. Le 28 Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di
Friedrich Schiller furono pubblicate nel ‘75, in parte in risposta alla Rivoluzione Francese, che aveva trasformato il
popolo francese in una società non libera, ma violenta e spaventata. L’educazione politica diventa per il filosofo il
problema del progresso umano in generale. L’uomo può trovare una via di miglioramento morale attraverso l’educazione
estetica, prendendo così posizione contro la Critica del giudizio di Kant e la sua bellezza disinteressata. Le sue idee
trovano un’applicazione pratica nell’influenza esercitata su Wilhelm von Humboldt, che integrò la sua nozione del sistema
educativo universitario del 1809 in Prussia. Lo stesso problema dell’educazione reale o ideale, di un pubblico universale o
di studenti specifici interessa i progetti artistici attuali e pochi riescono a superare il divario tra un pubblico primario
formato di studenti e un pubblico secondario, i visitatori. L’educazione non ha spettatori e quella più efficace, come
osserva Barthes, ha un rapporto di docenza tra discenti, non tra docente e discente.
La pedagogia istituzionale non ha bisogno di affrontare il problema della sua comunicabilità verso chi è fuori dall’aula,
ma diventa un compito essenziale per i progetti artistici. Va notato che i progetti più riusciti riescono a comunicare
l’esperienza educativa attraverso video, mostre (Bruguera), conferenze (Chan) o pubblicazioni (Hirshhorn). Il pubblico
secondario non si può eliminare, ed è anche essenziale perchè è così che tutti imparano qualcosa da questi progetti.
Felix Guattari in Caosmosi si chiede se sia possibile far vivere un classe come fosse un’opera d’arte. Per lui l’arte è una
fonte di energia e creazioni vitali, una forza sempre in mutamento e sostiene che l’arte non sarà più in debito con il
Capitale, ma dovrà richiamare una posizione di trasversalità in rapporto agli altri universi di valore, portando a nuove
forme di soggettività. È la trasversalità a portare una creatività militante, sociale, fuori dagli ambiti disciplinari. Un
esempio importante è la clinica La Borde, dove Guattari fu assunto e seguì un progetto di de-gerarchizzazione,
producendo così nuove soggettività singolari in quanto infermieri, dottori e pazienti si scambiavano di ruolo. È un
esempio organizzativo importante per comprendere i progetti artistici che cercano di riavvicinare l’arte e la sfera sociale.
Questo non deve portare a una totale estetizzazione del sociale ma bisogna impegnarsi su due fronti: come critica d’arte e
come critica delle istituzioni in cui opera, perchè se l’arte si confonde totalmente con la vita rischia di estinguersi.per
evitare ciò, ogni opera, secondo Guattari, deve avere una doppia finalità, concentrandosi sia nell’arte che nell’ambito
sociale (quello che accade oggi con i progetti artistici pedagogici). Senza questa doppia finalità, i progetti rischiano di
diventare divertimento educativo o estetica pedagogica.
I progetti di arte pedagogica, quindi, si concentrano su un problema centrale delle pratiche artistiche in ambito sociale: ci
chiedono di esaminare le nostre ipotesi su entrambi i campi d’azione e comprendere le incompatibilità o meno che
potrebbero nascere dalla loro unione, con la conseguenza di una re-invenzione di entrambi. Per gli osservatori secondari
l’aspetto più educativo è l’insistenza di questi progetti nel farci imparare a pensare insieme entrambi gli ambiti, a
concepire nuovi linguaggi e criteri per comunicare queste pratiche trasversali.

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