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C’è tutto al mio mercato.

rilessioni su narratività e valori


Maria Pia Pozzato

Viene prima la narratività-uovo o la valorizzazione-gallina?

Negli anni Settanta il progetto greimasiano di una grammatica narrativa si prefig-


geva di rendere l’analisi dei testi oggettiva e sganciata dalle variabili della discorsi-
vità. Da questo punto di vista è esemplare il saggio “Gli oggetti di valore. Un pro-
blema di semiotica narrativa” pubblicato per la prima volta nel 1973 e poi inserito
nella raccolta Del senso 2 (Greimas, 1983). Qui l’autore distingue i valori modali,
propri di una grammatica narrativa, e i valori culturali “facenti parte di universi
semantici sociali o integrati in universi culturali, non importa” (Greimas, 1983: 42,
trad. it.). Questi ultimi, “semantici nel senso ristretto del termine”, devono essere
inquadrati “da strutture sintattiche elementari che assicurano la loro comprensione
e rendono conto della loro narrativizzazione” (ibidem). In altri termini, a questo
stadio della sua teorizzazione, Greimas pensa che le strutture narrative, fatte di
enunciati (di stato e di trasformazione) e di modalità, siano il solo modo scientifico
di inquadrare il problema della valorizzazione culturale. La narratività è irruzione
del discontinuo nella permanenza di una vita e di una cultura, dice anche l’autore
in un altro passaggio dello stesso saggio, quindi ci dobbiamo sforzare di costruire
“una sintassi evenemenziale di ispirazione antropomorfa” (ivi: 43, trad. it.). Quello
che non è chiaro è come una sintassi di questo tipo possa assicurare la comprensio-
ne dei valori. In altri passaggi, forse fra i più importanti di questo saggio, Greimas
parla della natura non ontologica ma valoriale dell’Oggetto ricercato dal Soggetto
che intraprende il suo Programma Narrativo.

Si potrebbe utilizzare una metafora logica e dire che l’oggetto è compa-


rabile al concetto dal momento che, quest’ultimo, è manipolabile solo
a livello di comprensione e la comprensione non è altro che un insieme
di valori differenziali. L’oggetto sembra così uno spazio in cui si fissano
e si riuniscono le occorrenze di determinazioni-valori. Non ha dunque
senso parlare di oggetti in sé […].

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Per semplificare, senza tuttavia tradire il pensiero di Greimas, si potrebbe dire


che non ha senso prendere in considerazione l’oggetto di valore per quello che è
in sé e per sé (un’automobile per chi la voglia acquistare, la donna amata per l’in-
namorato, la libertà per il recluso ecc.) bensì i valori che fanno di questo oggetto
un oggetto di desiderio per quel soggetto. Per una teoria narrativa, non basta dire
che un soggetto vuole un’automobile, bisogna capire che cosa vede in quell’auto-
mobile, se un mezzo di locomozione efficace, o uno status symbol, o un mezzo per
sedurre le donne. L’oggetto è dunque

[…] un termine-risultato della nostra relazione con il mondo. […] La


comprensione del senso incontra nel suo svolgersi solo i valori che de-
terminano l’oggetto e non l’oggetto stesso. […] L’oggetto sintattico, che
coincide con il progetto del soggetto, non può essere riconosciuto se
non attraverso uno o più valori semantici che lo manifestano. Ed è il
riconoscimento del valore che permette di presupporre l’oggetto come
luogo sintattico della sua manifestazione (ivi: 20-1, trad. it.).

Insomma sembra la storia dell’uovo e della gallina: sono le strutture narrative che
permettono di comprendere i valori o solo l’articolazione dei valori permette di
istituire la relazione sintattica fra Soggetto e Oggetto? Visto che Greimas stesso,
nell’ambito di uno stesso saggio, sembra oscillare fra queste due posizioni, pas-
siamo a un esempio che forse ci permetterà di chiarire questione. Abbiamo scelto
un articolo di giornale in cui non succede, a dire il vero, granché. Da tempo però
sappiamo che la narratività non va confusa con la narrativa perché quest’ultima è
un genere, per lo più finzionale (racconti, romanzi ecc.) mentre per narratività si
intende un principio organizzatore del senso che è presente in quanto tale anche in
una singola immagine, o in una descrizione. Da questo punto di vista, una descri-
zione appartiene solo superficialmente a un genere diverso di unità testuale rispetto
al racconto.1
Non ci dobbiamo quindi preoccupare se gran parte dell’articolo che stiamo per
analizzare è dedicata alla descrizione di un mercato rionale in un paese della Po-
lonia e tutto quello che vi succede consiste nei comportamenti più tipici e comuni
in ogni mercato del mondo: gironzolare fra le bancarelle, provare degli articoli,
confrontarne i prezzi, acquistarne alcuni.

1
Come dice Greimas nell’analisi del racconto Lo spago (Greimas, 1983: 148, trad. it.): “Le distinzioni
classiche secondo cui si riconoscono le unità testuali come ‘descrizioni’, ‘racconti’, ‘dialoghi’ ecc., pur
restando pertinenti a livello di manifestazione discorsiva superficiale, cessano di essere tali quando
l’analisi passa all’organizzazione profonda del testo considerato come totalità significante. […] L’anali-
si che abbiamo fatto mostra in particolare che la parte puramente descrittiva del testo di Maupassant,
parte che in genere si oppone a quella narrativa vera e propria, è di fatto organizzata secondo le regole
canoniche della narratività e rappresenta, nel suo svolgimento sintagmatico, una struttura narrativa
facilmente riconoscibile”.

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Vediamo quindi il testo, apparso sul settimanale L’Espresso (21 maggio 2009) in
una rubrica che si intitolava “Senza Frontiere”, e firmato da Andrzej Stasiuk. 2

C’è tutto al mio mercato

Il mio vicino di casa, da quando ricordo, ogni martedì mette in moto


la sua vecchia automobile e va nella città vicina, distante 25 chilometri.
È una cittadina di media grandezza, di circa 30 mila abitanti, ai piedi
dei Carpazi, che da sempre costituisce un centro commerciale e ammi-
nistrativo per i paesi confinanti. Il martedì, sulla grande piazza lungo il
fiume, è giorno di mercato. Era così dieci, venti, cinquanta e cento anni
fa. È proprio lì che è diretto il mio vicino di casa. Lo stesso facevano suo
padre e certamente suo nonno.
Ricordo che, ancora una decina di anni fa, in quel mercato si vendevano
animali. Il martedì si potevano trovare maialini, vitelli, galline e oche.
Nei sacchi si trovavano granaglie e foraggi. Si vendevano finimenti per
cavalli, semplici attrezzi agricoli e oggetti di uso quotidiano indispen-
sabili in ogni azienda agricola: rastrelli, secchi, vanghe, scuri, forconi
e così via. Una volta a settimana da quel luogo nel centro della città si
innalzava il profumo della campagna.
Ora di tutto ciò non è rimasto nulla. La piazza del mercato odora di
stoffe cinesi, che emanano al sole odore di gomma e di plastica. I fre-
quentatori, come il mio vicino, sono rimasti gli stessi, ma non c’è quasi
più nulla che possa servire ai lavori agricoli. Se si vuole acquistare un
animale, si può trovare un cucciolo di chissà che razza raffinata, che
crescendo diventerà un comunissimo bastardino. Sulle bancarelle invece
si trova una quantità sconfinata di abiti e di calzature. Centinaia di stili e
di colori. Giacche da uomo, vestiti da donna, jeans, abiti da sposa, cap-
potti, biancheria intima, ogni tipo di vestito utile a un essere umano in
ogni occasione, dal battesimo al funerale. E tutto costa poco. Mai prima
era esistita merce tanto a buon mercato, tanto svariata – e ovviamente
tanto scadente. Cinquanta centesimi per un paio di calzini è un prezzo
che si avvicina allo zero. Scarpe per tre euro. Un completo da uomo
per 30. E gli acquirenti sono persone che ricordano ancora i tempi in
cui l’acquisto di un vestito o di un paio di scarpe costituiva uno sforzo
finanziario molto serio. Ricordano addirittura i tempi quando d’estate
si girava semplicemente scalzi.
E dunque degli animali non è rimasta traccia. Non è rimasto neanche
molto delle merci legate al lavoro, alla produzione, alla fabbricazione.
Al loro posto c’è un banco con spezie da tutto il mondo. E un altro

2
Alcune informazioni sul paratesto: l’immagine che correda l’articolo mostra alcune bancarelle e la di-
dascalia dice “Il mercato nella cittadina polacca di Grenzstradt Slubice”. Nulla però, all’interno dell’ar-
ticolo, fa riferimento a questa specifica cittadina. Accanto a questa foto principale, ce n’è un’altra più
piccola, in cui viene raffigurato, in primissimo piano, l’autore. Il sommario che compare in basso,
scritto in un carattere diverso, grassettato e decisamente più grande di quello dell’articolo, recita: “Di
colpo siamo stati gettati in un mondo in cui il problema maggiore è scegliere tra le merci”.

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dove si vendono a due euro profumi dai nomi che ricordano strana-
mente marchi celebri. Oppure un banco con copie di armi da fuoco.
Poi numerosi banchetti con bigiotteria di latta dorata o argentata e ve-
trini multicolori; un tempo, i viaggiatori che si recavano in terre remote
e sconosciute certamente si portavano appresso orpelli simili. Oppure
bancarelle con musica a metà strada fra la disco e il folk. In mezzo a
questa infinita ricchezza di forme e di colori, passeggiano folle di gente
che fino a poco tempo fa vivevano in un mondo di disavanzo cronico. E
ora, di colpo, senza preannuncio, sono stati gettati in un mondo in cui il
problema maggiore è scegliere fra una mercanzia e l’altra. I loro genitori
o forse loro stessi ricordano ancora i tempi in cui la fame era un’espe-
rienza comune e quotidiana. Ora devono confrontarsi con l’esperienza
della sovrabbondanza e dell’accesso illimitato a ogni bene.
Quando passeggio così per il mio mercato non riesco a evitare l’im-
pressione che ci stiamo veramente dirigendo verso un’epoca nella quale
riceveremo le cose gratuitamente. L’utopia comunista si realizzerà in
modo perverso e postcapitalistico. La plebe sempre all’opra china verrà
finalmente abbigliata, cibata e condotta verso il paese dell’abbondanza,
dove regnano la paccottiglia cinese, la stoffa sintetica, la bigiotteria di
plastica.
Mi piace il mio mercato lungo il fiume. È un luogo perfetto per medi-
tare su come il mondo si va trasformando. Ancora una decina di anni
fa era un simbolo del localismo, dell’autosufficienza, quasi, addirittura,
dell’autarchia. Oggi, come un tappeto volante, trasporta folle di gente
dritto nel postmoderno. Massicce donne di campagna si misurano décol-
leté dorati con tacchi di dieci centimetri. Ragazzi rasati a zero prendono
in mano copie di Uzi israeliani e ripetono gesti imparati al cinema.
Su tutta la piazza del mercato si innalza un effluvio di profumi contraf-
fatti e spezie esotiche. Come su tutti i mercati del mondo.

1. L’analisi narrativa classica

Il saggio di Greimas da cui siamo partiti elenca varie modalità di circolazione degli
oggetti in un mondo dove tutti condividano gli stessi valori: rinunce, attribuzioni,
spoliazioni, appropriazioni, scambi, doni reciproci, possesso partecipativo di uno
stesso bene. Dal punto di vista della circolazione degli oggetti di valore, nel nostro
mercato non vige nessuna complicazione. Siamo in un regime di scambio: la merce
viene data in cambio di denaro. L’organizzazione narrativa è sintatticamente sem-
plice: vediamo dei soggetti i quali, ieri come oggi, intraprendono un programma di
spostamento per recarsi al mercato e lì comprano alcune cose. Già a livello di mo-
dalità però ci sono delle differenze fra quanto accadeva un tempo e quanto accade
oggi: l’acquisto, una volta, quando le merci erano più care, era più difficoltoso, i
soggetti erano solo parzialmente dei soggetti del poter fare; inoltre compravano
solo merci necessarie e quindi erano, nel momento dell’acquisto, dei soggetti del

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dover fare. Ora, con l’invasione delle bancarelle da parte di merci scadenti e in gran
parte voluttuarie, il soggetto è pienamente dotato di poter fare (acquisti) e compra
ciò che desidera (voler fare), più che ciò di cui necessita (dover fare). Se volessimo
prendere in considerazione una sovra modalizzazione, cioè la modalizzazione da
parte di un’altra modalizzazione, potremmo considerare quella del voler fare e del
saper essere nei confronti del /sembrare essere + non essere/ (ovvero della menzo-
gna), dato che molte delle mercanzie odierne sono descritte come decisamente ta-
roccate ma al contempo desiderate, e per nulla svalorizzate dal fatto di essere delle
imitazioni quando non dei falsi. In termini più piani, in questo mercato moderno si
vuole comprare cioè che si sa benissimo essere falso o comunque privo di qualità.
Infine, se si volesse ascrivere al piano narrativo anche la categoria timica eu-
foria/disforia3 e quindi le attrazioni/repulsioni di cui sono investiti i protagonisti
dell’articolo,4 vedremmo che le passioni dei clienti del mercato sono solo suggerite
in base alle loro azioni e mai lessicalizzate come tali. Per esempio si può pensare a
una coloritura euforica, nel senso semiotico del termine, laddove “massicce donne
di campagna si misurano décolleté dorati con tacchi di dieci centimetri”. Le passio-
ni dell’enunciatore sono invece assenti (adiaforia) durante tutta la lunga descrizio-
ne del mercato. I cambiamenti epocali vengono registrati senza che l’enunciatore
ne tragga gioia o sconforto (“Ricordo che, ancora una decina di anni fa, in quel
mercato si vendevano animali. […] Ora di tutto ciò non è rimasto nulla”), fino al
penultimo capoverso quando invece viene lessicalizzata una timìa euforica (“Mi
piace il mio mercato lungo il fiume”).
Analogamente, i clienti del mercato appaiono prevalentemente adiaforici nella
fase del mercato agricolo tradizionale, se non per una certa disforia dovuta alle
ristrettezze economiche (“ricordano ancora i tempi in cui l’acquisto di un vestito
o di un paio di scarpe costituiva uno sforzo finanziario molto serio. Ricordano
addirittura i tempi quando d’estate si girava semplicemente scalzi”). Nel mercato
attuale invece i clienti appaiono investiti da un’euforia irriflessa e generica, che non
approda a nessuna specifica passione. Ritorneremo su questa questione nell’analisi
del discorso, dove potrà essere trattata in modo più pertinente.

2. L’influenza sull’interpretazione degli schemi etnoletterari e dei sistemi di valori


depositati

Un’analisi narrativa in senso classico non porterebbe molto oltre. Eppure questo
pezzo, che ho dato più volte da analizzare agli studenti, provoca puntualmente un
abbaglio di interpretazione, segno che c’è qualcosa in esso, in qualche parte della

3
Ovviamente “euforico” e “disforico” sono da intendersi qui non secondo l’uso comune ma come
termini della cosiddetta categoria timica euforia/disforia che sovradetermina, rispettivamente in senso
positivo e negativo, le valorizzazioni semantiche.
4
Che le passioni possano essere identificate con le modalità dell’essere e che possano in quanto tali
appartenere alla sintassi narrativa è una cosa tutt’altro che scontata.

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sua organizzazione, che non è affatto semplice. Nella stragrande maggioranza dei
casi, infatti, gli studenti danno dell’articolo un’interpretazione che potrebbe essere
riassunta così: “Una volta in quel mercato si vendevano cose utili, di buona qualità,
mentre adesso la situazione è degenerata, si compra solo merce di bassa qualità,
inutile. L’articolo propone quindi un confronto fra il buon vecchio mondo antico
della campagna polacca contro la società postmoderna e globalizzata di oggi, dove
la gente è ingannata e portata ad acquistare cose false che per di più non servono
a niente”.
Nel saggio sugli oggetti di valore già citato, Greimas dice che, soprattutto in
ambito etnoletterario, è molto difficile concepire che gli oggetti di valore arrivino
dal nulla. Anche quando la loro provenienza non venga specificata, anche qualora
il soggetto ne entri in possesso casualmente, gli oggetti di valore sono sempre visti
come se fossero giunti da qualche parte e da parte di qualcuno. L’interpretazione
degli studenti è basata su una struttura di destinazione così articolata: da una parte
ci sarebbe un Destinante che fornisce merci buone e utili. Si tratta, a livello atto-
riale, di personaggi locali come fabbri, falegnami, sarti, calzolai e allevatori. Tutti
costoro fornivano un tempo ai contadini della zona gli utensili per il loro lavoro, i
capi di abbigliamento di cui avevano bisogno, e gli animali con cui rimpinguare le
loro stalle e le loro mense. Nel mondo contemporaneo invece ci sarebbe un Anti
Destinante che, con una specie di gioco delle tre carte, ha sostituito questi beni con
beni fasulli, paccottiglia, orpelli, stoffe di plastica, animali di nessun pregio e di
nessuna utilità. Questo Anti Destinante è attorializzato da una serie di personaggi
esotici, non locali (“spezie esotiche”, “stoffe cinesi”, “Uzi israeliani”…) che propi-
nano la loro merce a basso costo in tutti i paesi del mondo, senza nessun riguardo
per le esigenze e le tradizioni locali, con l’intento neocolonialista di conquistare
sempre nuovi mercati. Quando il testo dice “Un tempo, i viaggiatori che si recava-
no in terre remote e sconosciute certamente si portavano appresso orpelli simili”,
installa automaticamente i clienti contemporanei del mercato nella posizione del
“selvaggio” da abbindolare. Quindi gli studenti non ricavano la loro interpretazio-
ne dal nulla ma da indizi semantici presenti nel testo come, altro esempio, il riferi-
mento all’utopia comunista delle merce gratuita per tutti che “si realizzerà in modo
perverso e postcapitalistico”. Sul termine “perverso” ci sono state molte discussioni
durante le quali i ragazzi tendevano a considerare l’aggettivo come intrinsecamente
negativo. Indubbiamente dire che un’utopia si realizza in modo perverso non getta
una luce particolarmente favorevole su di essa, così come parlare di “orpelli” non
depone a favore degli oggetti definiti come tali. Per dirla con Umberto Eco, ci
sono marche dizionariali che sono difficilmente ribaltabili a livello enciclopedico-
testuale.5 E tuttavia, come dice François Rastier, ci sono semi afferenti dal contesto
che sono in grado di modificare, o quanto meno di narcotizzare, i semi cosiddetti
inerenti, cioè più legati appunto alla definizione dizionariale dell’unità lessicale.6

5
Sull’opposizione fra dizionario ed enciclopedia, cfr. Eco, 1984.
6
In Rastier, Cavazza, Abeillé, 1994.

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Nel caso del “perverso” di cui sopra, l’aggettivo viene applicato a una trasforma-
zione che sta portando comunque alla realizzazione di un’utopia: in questo modo
si narcotizza il sema /distorsione rispetto a una giusta norma/ a vantaggio di un
sema /distorsione rispetto a una norma prevedibile/. In termini più semplici, la tra-
sformazione socio-economica attuale, per quanto sia avvenuta in una forma assai
lontana dall’utopia comunista, sta portando forse ugualmente, per una via diversa,
allo stesso risultato.
In generale convivono nel pezzo due isotopie che si contendono il primato iso-
topico e quindi valoriale. I tratti semantici dell’/inutile/, del /falso/, dell’/artificia-
le-sintetico/, della /bassa qualità/, dell’/ibridazione di generi/ vanno ad alimentare
l’isotopia, assiologizzata negativamente, del /degrado/; mentre i tratti semantici
della /varietà/, della /disponibilità/, dell’/affrancamento dalla necessità/ e dell’/af-
francamento dalla povertà/ (“vivevano in un mondo di disavanzo cronico”, “ricor-
dano ancora i tempi in cui la fame era un’esperienza comune quotidiana”) alimen-
tano l’isotopia, assiologizzata positivamente, del /progresso/.
Come tenterò di dimostrare, in base alla sua struttura discorsiva l’articolo dà
una preminenza gerarchica relativa all’isotopia del /progresso/. Invece gli studenti
insistono sempre molto sul tema dell’inganno, della frode, dell’abbaglio costitui-
to dalle nuove mercanzie attribuendo così il racconto al genere trickster, con un
protagonista ingannatore che distrugge e sconvolge il mondo conosciuto. Questo
schema etnoletterario classico, in aggiunta ai discorsi che circolano nella semiosfe-
ra attuale (si pensi per esempio al movimento no global), fanno sì che il giovane
lettore dell’articolo forzi l’argomentazione del suo enunciatore a favore di una let-
tura più conforme alle sue aspettative. In altri termini, gli studenti procedono senza
eccezione a una normalizzazione del significato del testo che invece possiede una
struttura narrativa e valoriale più complessa e difforme rispetto al senso comune.

3. L’analisi discorsiva

Una delle prime osservazioni che si impongono a livello di organizzazione discorsi-


va del testo riguarda l’aspettualizzazione dei processi poiché il tema centrale della
storia raccontata è quella di una trasformazione radicale e improvvisa. Si è passati
infatti da un’economia rurale e statica a una circolazione nuova di merci completa-
menti diverse. All’inizio l’articolo dice:

Il mio vicino di casa, da quando ricordo, ogni martedì mette in moto


la sua vecchia automobile e va nella città vicina, distante 25 chilometri
[…]. Era così dieci, venti, cinquanta e cento anni fa. […]. Lo stesso fa-
cevano suo padre e certamente suo nonno.

Vediamo che in questo passaggio si stabilisce un’aspettualizzazione di tipo iterativo.


Le cose sono andate sempre così, ripetutamente (ogni martedì, per decenni, per

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secoli), come sa il vicino di casa e i suoi avi che vengono installati nel discorso da
un débrayage enunciativo classico. Ma questa strategia di enunciazione, che ren-
de altri protagonisti della storia, cambia nel secondo capoverso che inizia con un
ricordo personale (“Ricordo che, ancora una decina di anni fa, in quel mercato si
vendevano…”). Il tema del ricordo quindi è assunto in prima persona dal narratore
e si riferisce a un passato “intermedio” (“da quando ricordo”, “una decina di anni
fa”), che è un tempo più recente rispetto a quello degli avi e meno recente rispetto
all’oggi del vicino che continua ad andare al mercato di quel villaggio. Questi dé-
brayages temporali collocano l’enunciatore in una posizione etnograficamente pri-
vilegiata che è quella mediana: abbastanza interna alla cultura che va a descrivere
ma anche abbastanza distanziata da permettergli di interpretarla. Questa posizione
mediana dell’enunciatore si consolida grazie ai débrayages attoriali: nel racconto è
modulata finemente la soggettività dell’enunciatore che parla dell’esperienza degli
abitanti del villaggio ma partendo da un attore specifico che sta in una relazione
personale con lui, in quanto qualificato come “il mio vicino di casa”; poi l’enuncia-
tore assume direttamente il ricordo (“Ricordo che…”); infine opta per un punto di
vista percettivo ambiguo in quanto “la piazza del mercato odora di stoffe cinesi…”
ma non si può assolutamente dire se si tratta ancora di un ricordo dell’enunciatore,
dell’esperienza attuale del vicino, o dell’esperienza in generale di chiunque si rechi
a quel mercato. Oltre alle posizioni enunciazionali formali, che installano nel di-
scorso un “egli” (il vicino, i suoi avi) e un “io” (il narratore), è utile prendere in con-
siderazione quelle che Jean-Claude Coquet (2008) chiama delle istanze enuncianti,
di carattere non più grammaticale ma esistenziale. Nella costruzione discorsiva che
stiamo analizzando, il fatto che l’enunciatore risulti in parte protagonista e in parte
osservatore/giudicatore esterno della realtà descritta, ha conseguenze notevoli sul-
lo statuto finale dei valori. Una versione “normalizzata” del testo vorrebbe che il
buon vecchio mercato di una volta appartenesse al ricordo del narratore mentre gli
odori plasticosi e gli orribili orpelli di oggi appartenessero all’esperienza diretta del
suo sfortunato vicino. In realtà il testo non dice questo, la dimensione del ricordo
viene rimpallata dall’enunciatore agli abitanti del villaggio:

La piazza del mercato odora di stoffe cinesi, che emanano al sole odore
di gomma e di plastica. I frequentatori, come il mio vicino, sono rimasti
gli stessi, ma non c’è quasi più nulla che possa servire ai lavori agricoli.
Se si vuole acquistare un animale, si può trovare un cucciolo […]. Sulle
bancarelle invece si trova una quantità sconfinata di abiti […]. E gli ac-
quirenti sono persone che ricordano ancora […]. Ricordano addirittura
i tempi quando d’estate […].

Anche le forme impersonali (“se si vuole”, “si trova”) o oggettivate (“il mercato
odora”), producono zone di indeterminazione circa l’assunzione dell’esperienza da
parte dell’enunciatore o degli abitanti del villaggio. Gli effetti di senso si innestano
qui decisamente sul livello della manifestazione linguistica: persino la forma pre-
valentemente parattatica di tutta la prima parte del testo, con brevi frasi descrittive

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interrotte dal punto prima che l’elenco degli oggetti trovi un qualsiasi verbo, con-
tribuisce a un effetto di oggettivazione del discorso dove la parola del narratore si
limita a una posizione constativa. Si potrebbe parlare anche di un effetto di senso
di arretramento o di sospensione del giudizio. Quello che mi sembra interessante
sottolineare è come, alla produzione di questo effetto di senso, contribuiscano sia
meccanismi discorsivi formali (débrayages attoriali e temporali), sia posizioni esi-
stenziali dei soggetti (ricordo/esperienza attuale, attribuzione/indeterminazione dei
punti di vista), sia strutture linguistiche (forme impersonali, paratassi). Se non si
tiene conto dei vari livelli di organizzazione del testo e si corre immediatamente
alle stereotipie narrative, il rischio è quello di farsi trascinare in un’interpretazione
aberrante come quella che prevede un soggetto della nostalgia, ancorato al ricordo
del buon tempo antico, contrapposto a una modernità dolente.
In realtà non c’è, in questo racconto, un Anti Destinante ingannatore: come si
è detto, la gente compra volentieri qualcosa che è inutile, di bassa qualità e non di
rado fasullo, sapendo bene che lo è. Il fatto è che queste persone investono altri tipi
di valori in questa merce di per sé scadente: come direbbe Jean-Marie Floch nella
sua celebre classificazione dei valori di consumo, non si tratta più di valori pratici
bensì di valori ludici ed estetici.
Per tornare al nostro punto di partenza e cioè l’idea di Greimas secondo cui
l’oggetto di valore non debba essere colto nella sua ipseità ma attraverso la rete dei
valori che vi vengono investiti, ecco che la paccottiglia del nostro mercato acquista
l’enorme valore di una emancipazione dalla povertà, dalla penuria di merci, dalla
mancanza di comunicazione con il resto del mondo, dalla monotonia di una vita
legata unicamente ai ritmi del lavoro. La struttura polemica che si delinea non è
quella fra un buon Destinante antico e un cattivo Anti Destinante moderno, ma
quella che si colloca dentro il tempo antico, in un universo di risorse limitato, dove
le persone vivevano in condizioni stabilmente sfavorevoli. L’Anti Destinante qui è
impersonale e lo potremmo definire abbreviativamente /durezza delle condizioni
della vita rurale/, per non entrare nel merito delle cause strutturali e sovrastruttu-
rali, nel senso marxiano del termine, di queste condizioni. Si fatica invece, arrivati
a questo punto, a individuare un Destinante positivo nel passato. Non c’è nulla,
nel testo, a parte il riferimento estesico al “profumo della campagna” che emanava
dal vecchio mercato, che possa far pensare a una valorizzazione euforica del tempo
antico. Fino a che punto possiamo considerare “intrinsecamente euforici” oggetti
come sacchi pieni di granaglie, maialini, rastrelli, secchi, forconi e così via? E fino
a che punto possiamo considerare intrinsecamente disforici oggetti come stoffe
che odorano di plastica, vetrini multicolori, décolleté dorati, profumi e scarpe da
pochi euro?
Dopo una prima riflessione collettiva7 su come i valori proposti da questo te-
sto non fossero poi così scontati, alcuni studenti hanno acutamente osservato che

7
Sono personalmente convinta che l’analisi del testo sia una pratica e non una tecnica. In quanto tale si
giova del lavoro di una collettività di interpreti che discutono e negoziano i significati, su base testuale
e mantenendo come orizzonte quello di un’interpretazione condivisa. Ringrazio quindi gli studenti

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c’era qualcosa che accomunava la gente di una volta e quella attuale, e proprio
dal punto di vista delle strutture di Destinazione: una sostanziale impossibilità di
scegliere. Etero-diretti nella penuria del passato, che non erano in grado di modi-
ficare, gli abitanti del villaggio lo sono anche nell’abbondanza odierna, che non è
stata determinata da uno sviluppo dell’economia locale ma dal cambiamento delle
condizioni mondiali nella produzione e circolazione delle merci (“e ora di colpo,
senza preannuncio, sono stati gettati in un mondo in cui il problema maggiore è
scegliere fra una mercanzia e l’altra”). “La plebe sempre all’opra china” menzio-
nata nell’Internazionale8 sembra mantenere il suo ruolo tematico ma, come dice
l’articolo nel suo terz’ultimo capoverso, “verrà finalmente abbigliata, cibata e con-
dotta verso il paese dell’abbondanza […]”. Se la necessità attanagliava la loro vita
nell’epoca precedente, ora però “sono stati gettati in un mondo…”. Il dover fare
della vita rurale si esercitava all’interno del mantenimento dello status quo mentre
il poter fare + poter non fare della modernità (libertà di “scegliere fra le merci”,
come recita anche il sommario dell’articolo, segno che è un punto ritenuto cru-
ciale) è stato raggiunto dopo una rottura dello status quo secolare precedente. Di
nuovo sono interessanti le aspettualizzazioni: la vita rurale era intessuta di necessità
e di duratività mentre il cambiamento epocale odierno è singolativo e intenso (“di
colpo”), anche se instaura una nuova duratività, espressa dai verbi all’indicativo
presente (“Sulle bancarelle si trova una quantità sconfinata di abiti”, “tutto costa
poco”, “c’è un banco con le spezie da tutto il mondo” ecc.). Nel livello discorsivo,
com’è noto, alla pura successione sintattica del piano narrativo si sostituisce una
temporalizzazione e una qualificazione dei processi.9 La sola analisi modale non
può rendere conto di questo, e, nel nostro caso, non può rendere conto del fatto
che il dover fare è qui processualmente lento, stabile, immutabile mentre il poter
fare + poter non fare è estemporaneo, recente, instabile. La valorizzazione sostan-
zialmente positiva dell’attualità, suggerita verso la fine dell’articolo, non sarebbe
leggibile senza questa aspettualizzazione dei processi. Il fatto di poter scegliere fra
diverse mercanzie è positivo soprattutto perché modifica due orizzonti aspettuali
negativi: spaziale (/localismo/, /autarchia/, /chiusura/) e temporale (/stabilità/, /man-
canza di evoluzione/).

del mio laboratorio di analisi testuale (Laurea Magistrale in Semiotica, Università di Bologna, anno
accademico 2010-2011) che hanno discusso con me questa analisi.
8
La strofa del celebre inno dice, nella traduzione italiana, “Noi non siam più nell’officina/ entro la
terra, pei campi, in mar/ la plebe sempre all’opra china/ senza ideale in cui sperar/ Su lottiam! L’ideale
nostro alfine sarà/ l’Internazionale futura umanità.”
9
Le due procedure non vanno confuse: la temporalizzazione instaura nell’enunciato dei tempi che
hanno un rapporto specifico con il tempo dell’enunciazione. Per esempio, un tempo futuro nell’enun-
ciato indica una relazione di posteriorità rispetto all’“ora” dell’enunciazione. L’aspettualizzazione in-
vece qualifica i processi indipendentemente dal tempo dell’enunciazione. Per esempio un processo può
essere colto al suo inizio (aspettualizzazione incoativa) sia che se ne parli al presente che al passato o
al futuro.

100
C’è tutto al mio mercato. Riflessioni su narratività e valori

4. In conclusione, il testo

Abbiamo visto che il testo in questione ha dei piccoli vortici, soprattutto lessicali,
che trascinano l’interpretazione verso un’assiologia negativa. Il fatto che si parli
di “paccottiglia” o di “perversione” autorizza il lettore ingenuo, come forse lo
qualificherebbe Umberto Eco, o il lettore orientato dalla propria cultura, come for-
se direbbe Jurij Lotman, a propendere per un investimento disforico del mercato
odierno. Non abbiamo ancora considerato il titolo dell’articolo: “C’è tutto al mio
mercato”, un titolo in cui il possessivo lega all’enunciatore la realtà di cui si va a
parlare e che la qualifica come meravigliosamente positiva, dato che un mercato
in cui si può trovare tutto è il mercato che tutti indubbiamente vorremmo. Ma
proprio il carattere iperbolico della frase deve metterci in guardia circa la sua accet-
tabilità letterale. E questa sostanziale ambiguità viene confermata dall’articolo che
sembra, come si è detto, camminare sul filo di una descrizione neutrale, constativa,
a volte ironica, a volte personale ma il più delle volte distaccata, del nuovo merca-
to della cittadina polacca. Sul filo del ricordo e dell’osservazione, l’enunciatore di
fatto si astiene dal dare una valutazione ben definita dei fatti. È un vero progresso,
per la gente del villaggio, questa nuova disponibilità di mercanzie?
Ma all’inizio del terz’ultimo capoverso qualcosa cambia: l’enunciatore abbando-
na il ricordo e l’osservazione e parla delle proprie impressioni: “Quando passeggio
così per il mio mercato non riesco a evitare l’impressione che ci stiamo veramente
dirigendo verso un’epoca nella quale riceveremo le cose gratuitamente…”. Il discor-
so diventa interpretativo, è un discorso del sapere ed è tuttavia basato non su una
convinzione ragionata ma su un’impressione ricevuta, quasi imposta (“non riesco a
evitare l’impressione”). In questo modo cambia lo statuto dell’oggetto-mercato che
da mercato-fenomeno diventa un mercato-sintomo: il sintomo di una tendenza più
ampia, che va al di là del ricordo personale dell’enunciatore o dell’esperienza del
vicino. Ed è in quanto mercato-sintomo che piace finalmente all’enunciatore che lo
trova (penultimo capoverso) “un luogo perfetto per meditare su come il mondo si
va trasformando […]. Come un tappeto volante trasporta folle di gente dritto nel
postmoderno”.
La distanza etnografica è diventata ancora più ampia: l’enunciatore non apprez-
za le merci del nuovo mercato come gli abitanti del villaggio ma apprezza il nuovo
mercato come spunto di riflessione e come dispositivo di emancipazione delle per-
sone da una vita di stenti e di immobilismo. Certo, non è la nuova mercanzia in sé
ad avere valore, ma ciò che essa rappresenta per la gente in termini di cambiamento
e per l’enunciatore in termini di riflessione socio-politica. Negli ultimi capoversi
dell’articolo, i programmi narrativi diventano modali: non si tratta più di acqui-
stare merci ma di acquisire un potere per gli abitanti del villaggio, e un sapere per
l’enunciatore.
Come si è detto all’inizio di questo lavoro, partendo dalle considerazioni grei-
masiane sulla relazione fra oggetto e valore, non bisogna analizzare degli oggetti in
sé ma vedere, in ogni universo di discorso, quali valori vi vengono investiti. Gli stu-

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Maria Pia Pozzato

denti invece hanno analizzato queste merci in vendita al mercato come se fossero
degli oggetti reali e non delle costruzioni discorsive. Si sono così trovati in mano, si
fa per dire, “bigiotteria di latta dorata o argentata”, “stoffe cinesi che emanavano
al sole odore di gomma e di plastica”, “copie di armi da fuoco”, “profumi dai nomi
che ricordano stranamente marche celebri”. Ma se queste povere cose vengono
collocate non sulle bancarelle dove ciascuno di noi le può trovare in un qualsiasi
mercato rionale, ma all’interno di un testo dove acquistano il loro senso in base a
una rete di relazioni semantiche, allora esse acquisiscono una valorizzazione com-
pletamente diversa perché, come ci dice l’enunciatore, tramite queste stesse povere
cose un intero mondo accede a una trasformazione antropologica epocale. Questa
trasformazione ha dei lati oscuri, non viene qualificata dal testo come univocamen-
te positiva. Abbiamo visto come i soggetti non ne siano gli artefici, per esempio; ab-
biamo visto una mancanza di passioni definite, a vantaggio di un’euforia generica;
e soprattutto non abbiamo visto dove siano andate a finire le valorizzazioni delle
merci che Floch avrebbe chiamato pratica e critica: questi utensili, questi animali
che sono spariti dal mercato, dove e come possono essere reperiti oggi? Cosa ne
sarà della produttività locale e quindi dell’autonomia economica di questa zona
di campagna? L’enunciatore lascia in sospeso questi aspetti della questione, crea
insomma delle zone di sospensione valoriale, che il lettore affrettato si precipita a
colmare con quanto lui pensa a proposito della globalizzazione, del rapporto fra
tradizione e innovazione ecc.
In imbarazzo sullo statuto valoriale del “suo” nuovo mercato, l’enunciatore in-
vece neutralizza sia l’opposizione fra /merce buona/ e /merce cattiva/, sia quella fra
/progresso/ e /degenerazione/,10 e sposta il discorso su altre opposizioni che sono
/penuria/ e /abbondanza/, da un lato; e /capire i tempi/ e /essere all’oscuro del-
le trasformazioni in atto/, dall’altra, naturalmente assiologizzando positivamente
l’abbondanza e la possibilità di capire. È come se dicesse: non mi importa del
valore intrinseco di questi oggetti e non so dire se il cambiamento sia in assoluto
positivo, ma so che la mia gente è uscita dalla povertà e che io giornalista, io let-
tore del mondo contemporaneo, guardando il mio mercato attuale, ho un punto
di osservazione ottimale per capire ciò che devo raccontare.
Se si confronta questo riassunto con quello che sintetizza l’interpretazione degli
studenti, se ne può misurare la radicale differenza. Uno schema narrativo classico
(qui, quello del racconto del genere trickster), o ampie valorizzazioni culturali pre-
gresse (convinzioni no global, nostalgia del buon tempo antico ecc.), non sono in
grado di fare da punto di appoggio per la comprensione corretta del brano. Solo la
paziente analisi di strutture linguistiche, discorsive e modali, in stretta interrelazione
reciproca, può portare a un’interpretazione testualmente attestata dell’articolo.
Quindi chiedersi se viene prima la narratività-uovo o la valorizzazione-gallina
è abbastanza assurdo, poiché i valori illustrati e proposti da un testo non possono

10
Per neutralizzazione di una categoria si intende l’affermazione di entrambi i subcontrari di un qua-
drato semiotica: in questo caso, il discorso afferma /né merce buona né merce cattiva/, /né progresso
né degenerazione/.

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C’è tutto al mio mercato. Riflessioni su narratività e valori

che promanare dall’organizzazione dei vari livelli del testo stesso, uno dei quali è
costituito dalla narratività.

Postfazione teorica
Questa analisi ha lo scopo di proseguire idealmente una riflessione sul rapporto
fra semantica e narratività che avevo intrapreso e illustrato in un lavoro di qualche
anno fa (Pozzato, 2007). In quel caso, il punto di partenza era il primo libro di
Greimas, Semantica Strutturale (1966) dove l’autore inizia con una teoria strut-
turale del significato per approdare negli ultimi capitoli a una teoria dei modelli
narrativi. L’ipotesi che avanzavo allora e della quale sono tuttora convinta, è che
rimangano, nella riflessione greimasiana, queste due diverse ispirazioni mai bene
integrate: la prima di origine linguistica e la seconda di origine etnoletteraria. Fino
alla fine degli anni Settanta, e quindi anche nel saggio sugli oggetti di valore che
ha dato l’avvio al presente saggio, Greimas considerava un vantaggio metodolo-
gico l’abbandono delle problematiche dell’enunciazione, del punto di vista, dei
débrayages attoriali, spaziali, temporali: in breve, delle forme del discorso. Egli era
convinto che le strutture semionarrative avessero una maggiore oggettività e che
fossero quindi più affrontabili da una semiotica a vocazione scientifica. Questo av-
veniva, a mio avviso, sotto una triplice influenza: quella di Ferdinand de Saussure
che propugnava l’importanza dello studio della langue a scapito di quello della
parole; quella del neopositivismo che sottolineava l’importanza dei metalinguaggi
di descrizione; e quella del generativismo chomskiano con cui Greimas si è sempre
confrontato, come appare evidente soprattutto nel primo volume del celebre Di-
zionario (Greimas, Courtés, 1979).
Mentre nei primi capitoli di Semantica Strutturale Greimas riflette attentamen-
te sull’articolazione dell’universo semantico, poi, affascinato dalla potenza confi-
gurante degli schemi sintattici, sembra abbandonare questa via. Negli ultimi ca-
pitoli dello stesso libro, infatti, l’autore appare attratto dall’idea di una struttura
narrativa come dato invariante e quindi come una costante che poteva accomunare
grandi corpora mitici o fiabeschi e singole frasi.11 Tuttavia, grazie all’ancoraggio fe-
nomenologico e antropologico che è già presente nella sua prima opera, Greimas si
rende conto che il modello sintattico ha una ineliminabile componente semantica:

Il problema che si pone allo studioso è come costruire una propria sin-
tassi semantica […]. Tale sintassi resterà infatti sempre semantica mal-
grado le illusioni degli studiosi che pensano di poter operare con forme
senza significazione: noi siamo chiusi definitivamente nel nostro uni-
verso semantico, e quanto di meglio possiamo fare è ancora e sempre
prendere coscienza della visione del mondo che in esso è implicita come

11
“Ci rendiamo conto che in una simile concezione la proposizione non è in realtà altro che uno
spettacolo che l’homo loquens offre a se stesso. Lo spettacolo ha tuttavia di specifico il fatto che esso
è permanente: il contenuto delle azioni cambia continuamente, gli attori variano, ma l’enunciato spet-
tacolo resta sempre il medesimo, perché la sua permanenza è garantita dalla distribuzione unica delle
parti.” (Greimas, 1966: 208-209, trad. it.).

103
Maria Pia Pozzato

significazione e insieme condizione di tale significazione (Greimas,


1966: 141, trad. it.).

In seguito, a partire dall’analisi del racconto di Maupassant Deux Amis (Greimas,


1979), il livello discorsivo acquisterà pienamente i suoi diritti all’interno della teo-
ria e non a caso, secondo me, questo avvenne dopo un’approfondita analisi testuale
nel corso della quale Greimas si rese conto operativamente che la sintassi narrativa
non poteva essere ricostruita senza l’individuazione dei valori profondi e che questi
ultimi, a loro volta, non potevano essere individuati senza un’analisi dei livelli di-
scorsivi e linguistici del testo. I microuniversi semantici non sono descrivibili, come
sembrava inizialmente, sotto forma di strutture attanziali semplici. Attraverso le
strutture modali si approda a universi generali ma anche generici (l’“universo del
potere”, l’“universo del dovere” ecc.), ma se si vuole rendere conto di una globalità
di significato specifica, come quella di un testo, allora il punto di partenza devo-
no essere le ipotesi sulla struttura semantica e non i modelli sintattici. Ogni testo
pone delle relazioni di contrarietà proprie, stabilendo che cosa si contrapponga
a che cosa. Abbiamo visto per esempio nel nostro articolo una contrapposizione
fra un universo dell’/utile-dotato di qualità/ e un universo dell’/ornamentale-privo
di qualità/ dove il primo, contro il senso comune, è considerato negativo. Questo
comporta che, in quell’universo di discorso specifico, anche i programmi narrativi
dei soggetti debbano essere ri-orientati e questo non risulta facile perché le valoriz-
zazioni assunte sono difficili da collocare entro il già noto.
Quello che viene rivoluzionato è il punto di vista: se ci cercano ampie generaliz-
zazioni antropologiche sull’immaginario umano, emergono alcuni schemi narrativi
stabili, funzionali alla saisie del senso, in cui vengono investiti contenuti semantici
variabili; ma se si vuole rendere conto del significato di un determinato testo, la
sua configurazione specifica adatta a sé i modelli narrativi. Questi ultimi possono
essere quindi visti come moduli costanti che possono però essere “montati” in
modi complessi e infinitamente variabili. In definitiva, si tratta di tenere nel giusto
conto la svolta testuale della semiotica (Fabbri, 2001), che mette l’accento più sulla
resa configurativa dei testi che non sulle grandi generalizzazioni antropologiche.
In questo modo, tramonta definitivamente il primato metodologico dei model-
li narrativi che rimangono però importanti per rendere conto delle logiche delle
azioni-intenzioni che muovono i Soggetti di una storia all’interno della specifica
configurazione semantico-valoriale della storia stessa. Ed è per questo che, come
già nella mia precedente riflessione, l’auspicio finale è diretto a un’attenta e filolo-
gica considerazione dei singoli testi “altrimenti saremo portati a proiettare su ogni
testo, indifferentemente, la stessa griglia teorica, con il rischio di leggere ovunque
le stesse cose”, dice Rastier;12 e, aggiungerei oggi, a proiettare in sovraimpressione
su ogni testo, come hanno fatto gli studenti menzionati, il già detto e le nostre
convinzioni.

12
Rastier, 2001: 39.

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