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INDICE

INTRODUZIONE ……..………………………………………………….4

CAPITOLO I IL PENSIERO DI DELEUZE ATTRAVERSO I


FILOSOFI

I.1 Desiderio di filosofia ……………………………………………….12

I.2 Hume e il problema della soggettività .………………………...20

I.3 L’incontro tra Deleuze e Spinoza come passione propriamente

filosofica ..………..…………………………………………….30

I.4 Bergson: Differenza ontologica e ontologia della molteplicità …....41

I.5 Leibniz: La piega che unisce la filosofia e l’arte barocca ….…52

I.6 Nietzsche il filosofo dell’avvenire ....………………………………63

I.7 Foucault e la critica del linguaggio …..………………….………….75

1
CAPITOLO II FIGURAZIONE DEL NOMADISMO NELLA TEORIA
SOCIALE E POLITICA CONTEMPORANEA

II.1 Deleuze e il “concetto nomade” ……………………………….91

II.2 Il “divenire donna” ……………………………………………..102

II.3 Soggettività nomade e mito .……………………………………..105

II.4 Il poliglotta e la lingua ….…………………………………..110

II.5 Lotta per il riconoscimento ………………………………………113

II.6 Il soggetto femminista ………………………………………118

II.7 Le differenti uguaglianze ……………………………………….125

II.8 Il “divenire” del femminismo ………………………………..132

II.9 Femminismo e modernismo ……………………………………….138

CAPITOLO III LE DONNE E LA FILOSOFIA

III.1 Le filosofe e la filosofia ………………………………………144

III.2 La politica culturale delle differenze .……………………….149

III.3 Essere filosofa ed essere donna ……………………………….154

2
III.4 Il femminile in gioco …..………………………………………….164

III.5 La liberazione della filosofia ……………………………….169

BIBLIOGRAFIA …..…………………………………………………186

3
INTRODUZIONE

Uno dei paradossi della nostra condizione storica è dato dallo svilupparsi

simultaneo di tendenze contraddittorie. Da un lato, la globalizzazione dei

processi economici e culturale i quali, generano conformismo; dall’altro

assistiamo alla frammentazione di questi stessi processi, il riaffiorare di

differenze regionali, locali, etniche , culturali, non solo tra i vari blocchi

geopolitici, ma anche all’interno di essi.

Uno degli effetti della postmodenità, è il fenomeno della transculturalità,

ossia l’avvento di un contesto multietinico o multiculturale.

Il fenomeno della migrazione su scale mondiale, dalla periferia verso il

centro, costituisce una sfida alla presunta omogeneità culturale degli stati

nazione europei.

Questo nuovo contesto storico ci impone di spostare l’oggetto del dibattito

politico delle differenze tra le culture alle differenze all’interno della stessa

cultura.

Il movimento Femminista è consapevole di questa necessità.

Uno dei paradossi centrale della condizione storica postmoderna, è

costituito dai terreni instabili di dibattito, su cui periferia e centro vengono

4
posti l’una contro l’altro, in maniera cosi complessa da sfidare modi di

pensiero dualistici, richiedendo una articolazione più sottile e dinamica.

Il declino dello stato nazione, rappresenta il declino dei valori che esso

rappresenta, costituita dall’autorità maschile basata e incarnata dalla

famiglia patriarcale, dall’eterosessualità coatta e dallo scambio delle donne,

strutture articolate sull’egemonia maschile.

Il mito dell’omogeneità culturale riveste un ruolo determinante per la

narrazione del nazionalismo europeo.

Una figurazione, è una mappa cognitiva politicamente aggiornata, che legge

il presente nei termini di situazione radicata e individuale.

La nozione di figurazione è stata ridefinita dal contributo delle concezioni

poststrutturaliste sul discorso, evolvendosi nell’idea elaborata da Donna

Haraway di “saperi situati” in quanto genealogie incarnate.

La questione è molto semplice, noi abbiamo bisogno di imparare a pensare

differentemente la nostra condizione storica; dobbiamo re inventare noi

stesse.

Questo progetto inizia con l’abbandono di quelle modalità del pensiero

storicamente istituite, che hanno fornito una visione standard della

soggettività umana.

Il nomade esprime la figurazione di una comprensione situata e

culturalmente differenziata del soggetto.

Queste collocazioni differiscono e sono importanti; nella misura in cui gli

assi della differenzazioni quali classe, razza, etnia, genere, età e altri ancora,

5
interagiscono reciprocamente nella costruzione della soggettività, il

concetto di nomadismo si riferisce al realizzarsi simultaneo di molti di essi.

La soggettività nomadica riguarda la simultaneità di identità complesse e

multilivello.

Il soggetto nomadico è un mito, che ci consente di pensare e muoverci

attraverso categorie costituite e livelli di esperienza.

È implicita la scelta di fare uso di tale figurazione, la fiducia nel potere

della pertinenza dell’immaginazione, della mitopoiesi, quale strada per

uscire dalla crisi politica e intellettuale di questi tempi post-moderni.

La scelta di una figura iconoclasta, mitica quale è quella del soggetto

nomadico, rappresenta di conseguenza, una mossa contro il pensiero

teoretico e soprattutto, filosofico convenzionale.

La nostra analisi si muove nell’ambito di elaborazioni del pensiero, che

vanno dal post-strutturalismo alle teorie del femminismo.

In questo ambito si inserisce il contributo straordinario che ci viene offerto

da Gilles Deleuze.

Il soggetto nomadico si ricollega a Deleuze e ha una contro tradizione

alquanto polemica presente nella filosofia occidentale.

Questa figurazione possiede un richiamo immaginario che si trova in

sintonia con il movimento transnazionale che segna la nostra situazione

storica.

6
Il nomadico è affine a ciò che Foucaoult ha definito come contro memoria,

una forma di resistenza all’assimilazione o all’omologazione ai modelli

dominanti di rappresentazione del sé.

Le femministe sono coloro che possiedono una coscienza periferica; si sono

dimenticate di dimenticare le ingiustizie e la povertà simbolica: la loro

memoria è attivata contro corrente; mettono in atto una ribellione dei saperi

soggiogati.

Lo stile nomadico riguarda le transizioni e i passaggi senza destinazioni

predeterminate o patrie perdute.

Così, il nomadismo si riferisce a quel tipo di coscienza critica che resiste a

integrarsi in modi socialmente codificati di pensiero e di comportamento.

È la sovversione delle convinzioni stabilite, che definisce la condizione

nomadica, non l’azione puramente fisica del viaggiare.

All’interno degli “etnico paesaggi”, della post-modernità, stiamo

attualmente sperimentando una proliferazione di figure alternative della

soggettività post-umanista.

Basti pensare ai lavoratori itineranti, agli immigrati illegali, al ciborg di

Donna Haraway e alla accoppiata post-moderna di Zygmunt-Bauman: il

turista e il vagabondo.

L’essere senza casa e senza radici costituiscono significati forti della nostra

situazione presente.

7
La teoria femminista è all’avanguardia in questo processo, avendo prodotto

costruzioni politiche forti, al fine di riscrivere la donna non come “l’Altro

del Medesimo” ma piuttosto come l’altro nella sua grande diversità.

Deleuze sottolinea che le identità fisse devono essere lasciate alle spalle, in

quanto luogo della sedentarietà, che generano passioni reattive quali

cupidigia, paranoia, gelosia edipica e altri forme di costipazione simbolica.

Si tratta di qualcosa di completamente diverso al tipo di cosmopolitismo

elitario che in questi tempi viene affermato, e che in precedenza fu

sostenuto da Virginia Wolf nella sua famosa dichiarazione “In quanto

donna non ho patria, in quanto donna la mia patria è il mondo intero”.

La coscienza nomade, che rappresenta la decostruzione dell’idea

fallologocentrica ed eurocentrica di una coscienza trionfante, il cui compito

si ritiene debba essere quello di sovrintendere all’agire umano in tutti i suoi

aspetti.

L’occhio sempre vigile della ragione, che scruta e controlla i propri domini

rappresenta una figurazione efficace di questa visione ossessiva della

soggettività.

Il nomade è letteralmente un viaggiatore “spaziale”, che di volta in volta

costruisce e smantella gli spazi in cui vive prima di procede nel viaggio.

Lui/Lei funziona secondo uno schema di ripetizione che non è privo di un

certo ordine benché non abbia una destinazione definitiva.

L’opposto del turista, l’antitesi dell’emigrante, il viaggiatore nomadico è

interessato soltanto all’atto dell’andare, dell’attraversare.

8
Il nomadismo è una forma di divenire intransitivo: segna un insieme di

trasformazioni senza un prodotto finale.

I soggetti nomadici, creano mappe politicamente consapevoli per la loro

stessa sopravvivenza.

Il nomadismo femminista segna lo specifico itinerario politico delle donne

femministe, che sono a favore della molteplicità, della complessità,

dell’antiessenzialismo di coalizione antirazzista ed ecologista.

Le femministe nomadiche, mirano a smantellare le strutture di potere che

sostengono le opposizioni dialettiche dei sessi, rispettando al contempo la

diversità delle donne e la molteplicità, che è presente in ogni singola donna.

Le femministe non cessano mai di mettere a nudo e smantellare il razzismo,

il maschilismo, la violenza maschile e la stolidità di un patriarcato che

annichilisce l’anima, senza per questo fare mai concessioni, ne a fedi

essenzialistiche nella superiorità femminile, ne ad una possibile

omologazione all’idea postmoderna di un flusso di identità, che si vorrebbe

trascendere il genere.

Esse cercano di coniugare la complessità, con l’impegno nei confronti del

progetto di rafforzamento delle differenze rese possibili dal femminismo.

Sia per la psicanalisi che per la teoria della conoscenza scientifica, il tema

della soggettività femminile è iscritto in un doppio registro, quello della sua

fondazione, e quello della definizione della caratteristica di genere.

Nell’ambito della filosofia il soggetto si fonda a partire da se, nel senso che

solo pensandosi soggetto può porsi.

9
La possibilità per il sesso femminile di porsi come soggetto, è ancorata

all’accoglimento della differenza sessuale come un a priore “l’essere donna

è un fattore ontologico, costitutivo”; il soggetto donna è “un fatto”.

La filosofia rivendica una posizione di primato cioè qualcosa che deve

venire prima nel processo fondativo della soggettività femminile.

La difficoltà delle donne di oggi non è più quello di accettare un destino

segnato a priori dall’appartenenza al genere. E’ quella di vivere un’identità

molto composita, che appare difficile da pensare.

La produzione di pensiero e il dibattito sulla differenza dei sessi è stata

opera di donne, collocate all’interno dei saperi.

Quel complesso di ricerche che và sotto il nome di “pensiero delle donne“,

basato sull’incrocio di diverse discipline, produce delle conoscenze

importanti, e sulla base di queste pone domande significative e spesso

cruciale ai saperi costitutivi.

10
Capitolo I

Il Pensiero di Deleuze attraverso i Filosofi

11
I.1 Desiderio di filosofia

L’opera di Deleuze, suscita una curiosità polimorfa, irriducibile a un

singolo ambito disciplinare. Ciò non è certo dovuto al carattere divulgativo

o alla fruibilità dei suoi scritti.

La scrittura non canonica che li caratterizza non deve ingannare. Si tratta di

testi filosofici che si rivendicano esplicitamente come tali, con la tecnicità

che ovviamente ne consegue. Da un simile punto di vista chiara è la presa di

distanza da tutte le prospettive che parlano di crisi, esaurimento, declino

della filosofia.

Per Deleuze la filosofia trova la propria specificità in un’operazione, la

creazione di concetti, che la distingue da qualsiasi altra pratica. “Ovunque

mi giro vedo tristezza” disse una volta Deleuze ed è proprio da questa

miseria, che deprime il nostro modo di stare al mondo e dalle innumerevoli

difficoltà di credere ancora a questo mondo, l’ambito di riferimento da cui

partire.

Da qui la rabbia e la lotta, perché l’intollerabile quando lo si è visto non

possiamo più fare finta di niente , allora combatti, prendi un’arma la

filosofia di Deleuze e distruggi la tristezza, i poteri costituiti , le nostre

inutili accademie e fai della filosofia una battaglia , una libertà per amare

ciò che ami , perche è questa la cosa più difficile : continuare ad amare ciò

che si ama e che da tutte le parti viene mutilato, intrappolato reso triste.

12
Infatti, il nostro primo compito nel descrivere la filosofia deleuziana, come

filosofia del desiderio, è proprio quello di dare al desiderio la forma della

creazione, della produzione, quindi la stessa filosofia diventa filosofia della

creazione.

Il desiderio, finalmente inteso come produzione, significa soprattutto che

esso non manca di nulla1, ma produce e funziona, cioè crea sempre e

ovunque: ovunque produzione di realtà, in quanto la realtà stessa è

produzione; ovunque, quindi, produzione di produzione, in quanto il

prodotto stesso è uguale al produrre; e tutto questo, quindi, esclude sia un

soggetto che un oggetto, “non c’è più né uomo né natura, ma unicamente

processo che produce l’uno nell’altra”2.

Ma creare, è anzitutto generare “il pensare nel pensiero, il problema non è

di opporre all’immagine dogmatica del pensiero un’altra immagine, quanto

alla possibilità del pensiero, che non si rivela a questo riguardo, se non

nell’abolizione dell’immagine”3.

La filosofia deleuziana ha quindi sempre una doppia esigenza: quella critica

e quella affermativa o creatrice. Esse non sono però mai separabili o divise,

in quanto il discorso deleuziano è sempre una molteplicità, dove non vi è né

un tutto, né un uno. Deleuze riprende il percorso nietzscheano, insistendo

sull’aspetto affermativo di tale critica, perché ad un’esigenza critica si

accompagna sempre un’esigenza affermativa, che è propriamente quella

1
Per Deleuze si tratta di una vera e propria guerra alla “mancanza”, lotta che è fondamentale per
una reale comprensione del desiderio come produzione e che viene combattuta senza posa da
Deleuze.
2
Deleuze Gilles, Guattari Felix, Anti-edipo, Einaudi, Milano, 1979, p. 4.
3
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 240.

13
della creazione, cioè del desiderio come produzione desiderante, come

“volontà di potenza”, che gioisce della propria differenza, poiché

“affermare non è farsi carico, ma liberare, togliere peso a ciò che vive;

affermare è creare nuovi valori di vita che la trasformino in leggerezza e

attività”4.

Un’affermazione, che in quanto critica, riguarda anche il pensiero, liberato

dalla sua immagine dogmatica. Quindi il pensiero stesso è desiderio

inconscio attivo, che produce la realtà, l’afferma .Il rischio reale di un

lavoro sulla filosofia di Deleuze, è quello di ridurre le sue analisi, il suo

linguaggio, il suo desiderio, esattamente a una rete rappresentazionale.

La complessità di Deleuze è la sua stessa forza, o meglio, Deleuze rinuncia

alle false chiarificazioni del filosofo, per immettersi nella verità delle

complicazioni. Gli stessi concetti nuovi che lui crea, lo stesso linguaggio

nuovo che lui usa, sono concetti e linguaggio della “molteplicità”. Il

concetto di molteplicità è presente ovunque nei lavori di Deleuze, proprio

perché esso appartiene interamente al discorso filosofico e allo stesso stile

di Deleuze: “ogni cosa è una molteplicità in quanto incarna l’Idea” 5. La

molteplicità quindi è un concatenamento continuo e incessante in cui,

attraverso connessioni successive, si verificano delle trasformazioni, dei

divenire: “un rizoma o molteplicità, non si lascia mai codificare”. Le

molteplicità si definiscono dal di fuori per mezzo della linea astratta, linea

di fuga o di deterritorializzazione, secondo la quale cambiano di natura

4
Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano, 1992, pp 211-212.
5
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna, 1981, p.295.

14
collegandosi ad altre”6. Quindi, per una lettura “nomade”, che sia “leggera”

e di “superficie”7,è indispensabile che si realizzi un incontro con questo

grande filosofo, nel processo del suo divenire-filosofo, dove l’accento è

proprio sul divenire del filosofo, in cui “ciò che ciascuno diviene cambia

tanto quanto colui che diviene”8. Quindi non ci si incontra attraverso un

imitarsi reciproco, ma solo sul percorso di una deterritorializzazione, dove

non vi è uno scambio, ma una “confidenza senza interlocutore possibile”, in

cui il divenire si evolve in un’altra cosa, ma sempre felice.

Cerchiamo ora di delineare cosa significa filosofia del desiderio; che forza

ha una filosofia tale nella realtà pratica-sociale-politica. Per noi queste

esigenze vengono analizzate entrambe nel percorso di Deleuze, e

cercheremo di individuare queste domande-problema nelle sue opere. Ma

tale filosofia del desiderio è anche un desiderio di filosofia, che viene

espresso da Deleuze nell’incontro del suo pensiero con le filosofie. La

nostra ricerca, dunque, vuole analizzare il pensiero di Deleuze, secondo

l’asse del desiderio e del concetto, a partire dai lavori monografici sui

filosofi e intrecciandoli alle sue opere fondamentali, quasi a voler tracciare

una genealogia del pensiero di Deleuze, che proprio dalle monografie è

possibile rinvenire. Gilles Deleuze ha scritto, nel corso della sua lunga e

complessa produzione filosofica, moltissimi libri dedicati ai filosofi. Questi

scritti rappresentano un confronto molto ampio con l'intera tradizione

6
Deleuze Gilles, Guattari Felix, Rizoma, Pratiche Editrice, Parma-Lucca, 1977, p. 31.
7
Superficie, nel senso in cui la superficie stessa è il più profondo, dove accadono gli eventi, così
come ci
suggerisce Deleuze stesso in Logica del senso.
8
Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 7.

15
filosofica occidentale, fino alle sue manifestazioni contemporanee. Questi

studi, che potremmo definire di critica filosofica, secondo il nostro modo di

vedere, si intrecciano con quelli teoretici, come Differenza e ripetizione9 e

Logica del senso10, ma anche con quelli scritti insieme a Felix Guattari,

come L'anti-Edipo11. Infatti, noi cercheremo di evidenziare una coerenza

all’interno dell’intera opera deleuziana, una coerenza che però non significa

appiattimento di un sistema filosofico su un principio o su un unico

discorso, ma quella di un’esigenza filosofica, che pur nelle sue diverse

prospettive, rimane sempre un potenziare che è il compito originario della

filosofia, come pensiero positivo e affermativo della molteplicità della vita.

Quindi è a partire da queste monografie sui filosofi che ritroviamo il

pensiero stesso di Deleuze, infatti queste opere non si presentano come

scritti di storia della filosofia, ma sono essi stessi già filosofia, perché “la

storia della filosofia è la riproduzione della filosofia stessa” 12. Quindi, non

si tratta per Deleuze di una interpretazione dei filosofi, ma di una

sperimentazione reciproca con essi. Per cui, più che di una storia della

filosofia, si tratta di una geografia filosofica, come arte dell’incontro, che

pone il problema del divenire in filosofia. Qui emerge il significato non solo

metodologico dell’incontro, ma anche quello teorico, in quanto l’incontro

come “doppia cattura”13 ci pone “nel mezzo”, filosoficamente in relazione

9
Deleuze Gilles, Différence et répétition, Paris, Ed. P.U.F., 1968, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1972.
10
Deleuze Gilles, Logique du sens, Ed. de Minuit, Paris, 1969, tr. it., Feltrinelli, Milano, 1975.
11
Deleuze Gilles, L’AntiOedipe, Ed. de Minuit, Paris, 1972, tr. it. L’Anti-edipo, Einaudi, Torino,
1975.
12
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. p. 7.
13
Anche qui intendiamo per doppia cattura una moltiplicazione attraverso un incontro per cui due
divenire si
intrecciano formando un terzo. Lo stesso Deleuze dice a proposito di tale incontro: “noi eravamo

16
all’altro, sconvolgendo la stessa storia della filosofia. Bisogna spingersi più

lontano: fare in modo che l’incontro con le relazioni penetri e corrompa

tutto, mini l’essere, lo faccia vacillare. Deleuze, non opera quindi una

riduzione del filosofo che tratta al suo personale Pensiero, ma esperimenta

con esso, una relazione che si produce fuori dei due, poiché “tutte le

relazioni sono esterne ai loro termini”14.

Esiste quindi una vera e propria contaminazione tra Deleuze che legge i

filosofi e come egli intende la filosofia. Quindi è nella relazione che si

viene a creare dall’incontro con gli altri filosofi che Deleuze costruisce

combinazioni nuove, per cui ogni libro di Deleuze è “un divenire della

metà, è un libro che preme nel mezzo, che produce metà sempre nuove” 15; è

da questo movimento creativo che Deleuze leggendo i filosofi, ripetendoli,

fa la differenza.

Leggere non è più un atto passivo ma creativo. La filosofia consiste sempre

nell'inventare dei concetti”16.

Quindi se Deleuze sceglie proprio alcuni filosofi e non altri il perché è lui

stesso che ce lo dice: “tutti gli autori di cui mi sono occupato avevano per

me qualche cosa di comune”17 “tutti questi pensatori hanno una costituzione

fragile, eppure sono attraversati da una vita insuperabile. Procedono solo

piuttosto come due ruscelli che si incontrano per fare ‘un’ terzo che sarebbe stato noi” (in
Magazine
littéraire, n. 257, set. 1988, p. 17)
14
Deleuze Gilles, Empirisme et subjectivité, Paris, Ed. P.U.F., 1953. tr. it. Empirismo e
soggettività, Cappelli, Bologna, 1981, p.102.
15
Deleuze Gilles, Spinoza et le probléme de l'expression, Ed. de Minuit, Paris, 1968 e Spinoza,
philosophie pratique,
Paris, Ed. P.U.F., 1970, tr. it. Spinoza. Filosofia Pratica, Guerini e Associati, Milano, 1991, p.
164.
16
Magazine littéraire, n. 257, set. 1988, p. 16.
17
Ibidem.

17
per potenza positiva e per affermazione. Hanno una sorta di culto della

vita”18. Questi filosofi sono per Deleuze i filosofi-comete, frammenti di

gioia scagliati come lampi sul mondo delle nostre ostinate certezze. Nel

mettere in rilievo l’aspetto creativo di ogni filosofia incontrata, Deleuze

opera sempre una analisi rigorosa e articolata, che libera le filosofie trattate

dall’assoggettamento ad un’interpretazione storica, dialettica, totalizzante,

che riduce le filosofie ad una classificazione di principi, secondo gerarchie

già fissate da valori e principi che si pretendono superiori e a cui esse

vengono adattate.

Infatti “la storia della filosofia è sempre stata l’agente del potere nella

filosofia, e anche nel pensiero. Essa ha giocato un ruolo repressivo 19. Ora,

l’istanza da cui parte Deleuze nell’analisi di una filosofia è il problema che

“una teoria filosofica è una questione sviluppata, e nient’altro: essa consiste

non nel risolvere un problema, ma nello sviluppare fino all’estremo, le

implicazioni necessarie di una questione formulata.

In filosofia, la questione e la critica della questione, fanno tutt’uno; non può

esserci critica delle soluzioni, ma solo critica dei problemi. 20. Infatti il

problema concerne l’attività del pensare stesso, liberata dalla ricerca di

soluzioni precostituite: “è un pregiudizio infantile che il maestro dia un

problema e il nostro compito sia quello di risolverlo, mentre il suo risultato

è giudicato vero o falso da un’autorità indiscussa”21. È in questa liberazione

dalle soluzioni che si attua la vera libertà come potere di decisione dei
18
Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, op. cit., p. 21.
19
Ib. p.18.
20
Deleuze Gilles, Empirisme et subjectivité, op. cit., pp. 114-115.
21
Deleuze Gilles, Différence et répétition, op. cit., p. 256.

18
problemi, come diritto ai problemi:”questo potere semi-divino fa in modo

che i falsi problemi si dileguino e che quelli veri sorgano in modo

creativo”22, per cui il problema è l’idea come elemento differenziale del

pensiero.

22
Deleuze Gilles, Le bergsonisme, Paris, Ed. P.U.F., 1966, tr. it. Il bergsonismo, Feltrinelli,
Milano, 1983, p. 9.

19
I.2. Hume e il problema della soggettività

Fin dai suoi primi scritti, la ricerca deleuziana si orienta verso

l’affermazione di un pensiero del molteplice, di un pensiero come

movimento reale, che liberi la differenza dal giogo della rappresentazione,

che la sottomette all’identità e alla dialettica della negazione.

Un pensiero, che scopre nella ripetizione la sua essenza, la sua verità, e la

sua arma più efficace proprio contro la rappresentazione. Infatti è proprio

nella ripetizione più stereotipata, che Deleuze scopre una ripetizione più

profonda, una ripetizione che è già differenza.

Quindi differenza e ripetizione, diventano le due direzioni di ricerca

strettamente unite di un unico programma che, passando per molti stadi,

vuole affermare la ripetizione come “la produzione dell’assolutamente

differente” e vuole, infine, fare che “per se stessa, la ripetizione sia la

differenza in sé”23. Quindi, il primo compito per attuare questo programma

è, per Deleuze, la critica della rappresentazione. Per realizzare tale

obiettivo, Deleuze analizza la filosofia di Hume, poiché è proprio in quel

empirismo che si trova una critica efficace alla rappresentazione a

vantaggio di una valutazione della ripetizione che tiene conto della

differenza.

23
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 156

20
Nel suo saggio su Hume24, Deleuze individua il problema dell’empirismo

nella questione della soggettività e la situa sul terreno in cui “il soggetto si

costituisce nel dato”, e presenta le condizioni di tale problema nel seguente

assunto: “le relazioni sono esterne alle idee”25.

Ora, se la soggettività si costituisce nel dato, è perché essa non è originaria,

ma si afferma come processo, movimento, mentre il solo elemento

originario è il dato, ovvero il flusso delle percezioni a cui si dà il nome di

immaginazione o mente.

La mente non è la ragione e non è soggetto, ma essa “è identica all’idea

nella mente”. L’idea è il dato in quanto dato, è l’esperienza.

La mente è data, ed è una collezione di idee ma non un sistema .La

collezione delle idee viene chiamata immaginazione, essa designa l’insieme

delle cose nel senso più vago del termine, in quanto sono ciò che

sembrano , cioè flusso delle percezioni”.26.

Il problema, allora, secondo Deleuze, è capire come la mente diventi

soggetto, ovvero come l’immaginazione diventi una facoltà.

La soluzione di Hume è molto chiara: è grazie all’azione dei principi

d’associazione che la mente diventa soggetto, ed il soggetto, non è altro che

l’effetto di tali principi nella mente che la modificano.

Ora, per Deleuze il fatto che il soggetto sia un effetto,significa che esso è

passivo, poiché subisce l’azione dei principi, ma questi sono principi della

24
Deleuze Gilles, Empirismo e soggettività, op. cit., p. 114
25
Ibid., p. 115
26
Ibid., pp. 8-9

21
natura umana e “niente nella mente oltrepassa la natura umana: non vi è

niente di trascendentale”27.

Il soggetto humiano, quindi, non ha nulla di trascendentale, e vedremo,

come Deleuze critica l’idea di un soggetto della conoscenza, per affermare

invece una soggettività esclusivamente pratica. Il soggetto inventa, crede; è

sintesi, sintesi della mente”28. Il soggetto si afferma, dunque, come

credenza, come sintesi.

L’effetto dei principi di associazione che rendono possibile la formazione di

un soggetto, è la relazione “il facile passaggio della mente da un’idea a

un’altra . La mente, divenuta natura, ha tendenza” 29. La relazione è dunque,

ciò che ci fa passare da un’idea data ad un’altra che non è data, e che la

ragione di tale passaggio non è che nei termini dati.

Infatti, la relazione è l’effetto dei principi di associazione che costituiscono

un soggetto, in cui ciò che vi è di costante non è una certa idea come

termine, ma solo il modo di passare da un’idea ad un’altra. Questa

esteriorità delle relazioni è un punto molto importante per Deleuze, poiché è

qui che si pone la critica alla rappresentazione ed è qui che si pone il

problema del soggetto.

Facendo della rappresentazione un criterio, ponendo l’idea nella ragione, la

generalità dell’idea stessa è l’esistenza dell’oggetto, il contenuto delle

parole sempre, universale, necessario o vero; ha trasferito la determinazione

27
Ib. p. 10
28
Ib. p. 94
29
Ib. p. 11

22
della mente agli oggetti esterni, sopprimendo per la filosofia il senso e la

comprensione della pratica e del soggetto.

Infatti la mente non è ragione, è la ragione che è un’affezione della

mente”30. Tale esteriorità delle relazioni esprime per Deleuze un

“concatenamento che significa simpatia”31, non nel senso di sentimento, ma

come un essere che è già sempre “un essere nel mezzo, sulla linea di

incontro”, sulla linea di fuga, la linea del fuori, dove avvengono gli incontri.

Analizzando poi la sintesi passiva, Deleuze sviluppa una nuova idea del

pensiero: un pensiero del fuori, che nasce da un incontro e non da un

riconoscimento, da una sperimentazione, e non da una interpretazione.

Sintesi passiva significa dunque, per Deleuze, che il pensiero è attivato dal

suo fuori, dalla vita attraversata da differenze e molteplicità, da relazioni

che esprimono questa molteplicità, nel senso che esse sono delle

congiunzioni, ne indicano il divenire.

Questo mondo delle relazioni, delle congiunzioni affascina Deleuze, poiché

stabilisce un nuovo modo di procedere in filosofia. Pertanto, Deleuze

afferma che “bisogna spingersi più lontano : fare in modo che l’incontro

con le relazioni penetri e corrompa tutto, mini l’essere, lo faccia vacillare.

Sostituire la e all’è”32, in quanto la congiunzione e è quella “che fa filare le

relazioni fuori dai loro termini, come pure dall’insieme dei loro termini, e

da tutto ciò che potrebbe essere considerato quale Essere, Uno o Tutto.

30
Ib. p. 16
31
Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, op. cit., p. 61
32
Ib. p. 66

23
La e come extra-essere, inter-essere”33. È, dunque, per Deleuze la scoperta

di questa e il vero elemento creativo dell’empirismo, da cui il filosofo

francese sviluppa la nozione di concatenamento e di molteplicità, “Una

molteplicità non è mai nei termini, né nel loro insieme o nella totalità. Una

molteplicità è solamente nella e, la quale non possiede la stessa natura degli

elementi, degli insiemi”34.

Queste due nozioni, sviluppate da Deleuze, attraverso la concezione di

Piano, in cui il Fuori si organizza, appunto come piano, Piano di

consistenza, di compresenza non gerarchica, ma anarchica e nomade, di cui

il pensiero è investito costituendosi così come pensiero fisico. Deleuze,vede

dunque in Hume l’inaugurazione di un pensiero passivo, nel senso che, esso

non unifica il molteplice reale, riducendolo, alla interiorità a priori di un

soggetto, ma che invece si apre all’esteriorità del molteplice ,affermandone

la differenza. Qui, dunque, la passività del pensiero, che è anche la passività

del soggetto, non significa che esso semplicemente subisce il fuori, ma che

lo afferma nella sua positività producendolo nel suo divenire.

Ora, però, il problema è capire come funziona questa sintesi passiva.

Abbiamo visto che essa, per Hume è operata dall’ immaginazione e non da

un Io trascendentale. Tale immaginazione determinata dai principi di

associazione (principio di causalità, di contiguità e di somiglianza),

attraverso i quali l’immaginazione diventa natura. I principi di associazione,

e in questo caso particolare, quello di causalità, però, non spiegano, come

33
Ib. p. 67
34
Ib. p. 68

24
questa immaginazione possa operare un’inferenza e divenire una credenza;

ciò può essere spiegato solo grazie ad un altro principio che è l’abitudine,

che dunque si pone come radice costitutiva del soggetto, ed è grazie ad essa,

che l’immaginazione diventa una credenza. L’abitudine è l’attesa, che

spiega il passaggio da un’idea a un’altra, da un elemento dato ad un altro

che non è dato: “quando compare A, io mi aspetto la comparsa di B”. Si

assiste, qui, secondo Deleuze, ad uno spostamento essenziale, ovvero, si

passa dalla conoscenza come ripetizione di casi simili osservati

nell’esperienza, alla credenza come ripetizione dell’abitudine in un soggetto

passivo o contemplativo.

Ma questa ripetizione dei casi simili non ci fa progredire, poiché il secondo

caso non differisce dal primo, se non per il fatto di venire dopo, senza farci

scoprire un’idea nuova. E’ solo la ripetizione dell’abitudine che è creatrice

e produttiva. Questo spostamento, per Deleuze, è molto importante poiché,

si pongono le condizioni che rendono possibile un’idea di ripetizione nel

suo legame con la differenza. Questo mutamento per Deleuze corrisponde

ad una “differenza, qualcosa di nuovo nello spirito” in cui consiste “il per-

sè della ripetizione, intesa come una soggettività originaria che deve entrare

di necessità nella sua costituzione”35. L’abitudine pone il passato come

regola del futuro nel presente, costituendo così la sintesi del tempo, la quale

definisce il dinamismo del soggetto come sintesi dei tempi. Al tempo

appartiene e il passato e il futuro: il passato nella misura in cui gli istanti

che precedono sono trattenuti nella contrazione; il futuro in quanto l’attesa


35
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 1

25
anticipa la stessa contrazione. Il passato e il futuro non designano istanti

distinti , ma le dimensioni dello stesso presente , e non deve uscire da sé per

muovere dal passato al futuro”36.

Il passato e il presente, dunque, si costituiscono nel tempo sotto, l’influenza

dell’Abitudine, la quale “ci determina a passare rapidamente da un oggetto

a quello che lo accompagnava altre volte, cioè che organizza il tempo come

un presente perpetuo al quale dobbiamo e possiamo adattarci”37.

Il tempo nella mente era essenzialmente successione “ così che, l’idea di

tempo è sempre presente in noi, il tempo era la struttura della mente” 38, e la

mente non operava nessuna sintesi dei tempi “il passato come passato non è

dato ,esso è costituito da e in una sintesi che dà al soggetto la sua vera

origine”39.

Quindi solo il soggetto, solo quando la mente diventa soggetto, si opera la

sintesi dei tempi, in quanto il soggetto si presenta come Abitudine.

Il tempo, dunque, è ripetizione, ma ripetizione interna, ripetizione

dell’abitudine, in cui non cessa di ritornare il presente, come differenza

contratta. Per Deleuze, la differenza non è più pensata nello spazio, come

successione di percezioni, ma nel tempo, come ripetizione interna,

differenza interna. Ciò significa, che il tempo entra nel movimento del

pensiero, come differenza interna, “il movimento reale di apprendere

36
Ib. p. 120
37
Deleuze Gilles, Empirismo e soggettività, op. cit. pp. 98-99.
38
Ib. p. 94
39
Ibidem.

26
implica nell’anima la distinzione di un prima e di un dopo” cioè

“l’introduzione del tempo”40.

E dunque il presente vissuto che costituisce nel tempo un passato e un

futuro, e Deleuze chiarisce che “il futuro appare nel bisogno come forma

organica dell’attesa, mentre il passato appare nell’eredità cellulare” 41, ciò

significa che il tempo non è una condizione astratta, ma è legato ai nostri

bisogni, alla nostra affettività, al nostro organismo.

Vi è dunque un tempo del bisogno, che esprime ciò che Deleuze chiama

“l’urgenza della vita”, e tale campo del bisogno è sempre legato

all’abitudine.

Per Deleuze il bisogno non esprime una “mancanza”, ovvero il bisogno si

forma a partire da sintesi passive, su sintesi passive che lo condizionano

positivamente. La ripetizione è iscritta essenzialmente nel bisogno, poiché il

bisogno si fonda su un’istanza che riguarda essenzialmente la ripetizione.

Il bisogno per Deleuze è compreso negativamente, come mancanza, quando

lo si riferisce all’attività, ma positivamente quando lo si riferisce alla

contemplazione. Il bisogno esprime il vuoto di una domanda, prima di

esprimere il non-essere o l’assenza di una risposta. Ma per Deleuze non è

solo il bisogno, che sfugge alla legge della mancanza, anche il desiderio si

oppone alla mancanza, ovvero non si afferma a partire da una mancanza.

40
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 147. Ma il rapporto tra tempo e differenza è
un tema
costante nella ricerca deleuziana, lo ritroveremo anche nel confronto deleuziano con la
filosofiabergsoniana e nietzscheana.
41
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., pp. 123-124.

27
Questo dualismo, tra un bisogno che si muoverebbe sul piano della realtà e

che mancherebbe perciò di un oggetto reale; è un desiderio che si

muoverebbe nello spazio del simbolico, e che per questo mancherebbe di un

oggetto simbolico , dando origine, in realtà, alla stessa legge della

mancanza: noi manchiamo sempre, una volta di realtà, e un’altra di irrealtà.

Per Deleuze invece, sia il bisogno, sia il desiderio non mancano di nulla, e

l’unica distinzione tra loro, è il fatto che i bisogni “derivano dal desiderio”

ovvero “non è il desiderio a puntellarsi sui bisogni”42 ma il contrario, cioè il

solo reale43.

Il desiderio è l’insieme di sintesi passive “che funzionano come unità di

produzione”44 su cui abbiamo visto crescere i bisogni. Le sintesi passive

dunque, sono le sintesi del desiderio, del desiderio molecolare inconscio

che si afferma, però come produttivo, reale, in quanto è sempre unito al

piano molare del sociale. Ciò che però fonda è sempre il reale, né dunque

una astratta trascendenza, né una falsa profondità, ma il puro e semplice

reale nel suo essere una concatenazione molteplice, e “la produzione

desiderante sottomette a se stessa la produzione sociale, senza per altro

distruggerla, poichè si tratta della stessa produzione con una differenza di

regime”45.

Questa sintesi, secondo Deleuze, esprime la fondazione del tempo che

costituisce il presente nel tempo, ovvero, che costituisce il tempo come

42
Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’Anti-edipo, Einaudi, Milano, 1979, p. 29.
43
Ib. p. 31.
44
Ib. p. 29.
45
Ib. p. 438.

28
presente vivente, e il passato e il futuro come dimensioni di tale presente, e

a questa sintesi corrisponde, nell’analisi di Deleuze, ad un’idea specifica di

ripetizione. Il presente vivente designa dunque il soggetto passivo, l’io

passivo “Gli Io sono soggetti larvali, e il mondo delle sintesi passive

costituisce il sistema dell’io dissolto”46.

L’io compare solo attraverso la contrazione,cioè attraverso la sottrazione

della differenza alla ripetizione.

Ma, per Deleuze, Hume rappresenta solo al primo stadio del suo

programma. Questa di Hume è la prima sintesi del tempo, che rappresenta

la fondazione del tempo; ma Deleuze ne individua altre due: ciò che fa

passare il presente della prima sintesi è la Memoria, intesa come il Passato

Puro. La seconda sintesi caratterizza la ripetizione spirituale o vestita, in cui

la contrazione o fusione, non riguarda più gli istanti separati, ma è la

contrazione della totalità del passato. Infine, Deleuze,analizza una terza

sintesi, che designa, invece, il senza-fondo, lo sfondamento, la forma pura e

vuota del tempo.

46
Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’Anti-edipo, op. cit. p. 133.

29
I.3 L’incontro tra Deleuze e Spinoza come passione

propriamente filosofica

“Tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare”, così Spinoza

chiudeva la sua Etica, quasi come volesse congedarsi con un ultimo invito

per noi lettori ad agire affinché, si trovi al più presto la strada che conduce

all’affermazione di tali “cose eccellenti”.

Certamente è una strada difficile, che raramente si trova, ma proprio per

questo essa raggiunge l’eccellenza. Spinoza ci sfida con molta passione a

trovare l’eccellenza, e con altrettanta passione ci indica i sentieri, le

scorciatoie, le vie maestre per raggiungerla.

É in momenti come questi che la filosofia raggiunge i suoi punti più alti,

affermandosi come pratica di vita, per una vita sempre più potente, una vita

filosofica. Nell’Etica “non vi è che un termine, la vita, che ricomprende il

pensiero, ma che reciprocamente è compresa solo dal pensiero” 47.

Il primo passo che Spinoza ci suggerisce per immetterci su questa strada, è

quello di distruggere ogni tristezza, essendo esattamente la tristezza causa

della nostra incapacità di agire, di pensare, di creare, “la tristezza è il

passaggio dell’uomo da una maggiore a una minore perfezione” 48, qui e

altrove Spinoza intende perfezionare la realtà stessa. Quindi è la tristezza


47
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, Guerini e Associati Milano, 1991, p 23.
48
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro III, Definizioni degli affetti, 3), Boringhieri, Torino, 1992, p
143.

30
che ci fa passare a minore realtà, è questa tristezza che dobbiamo

combattere con tutte le nostre forze, per affermare invece la gioia, che ci fa

passare a maggiore perfezione. E’ quest’affermazione della gioia, contro

ogni tristezza, il grande insegnamento di Spinoza: “l’Etica è

necessariamente un’etica della gioia: solo la gioia ha valore, solo la gioia

resta, e ci avvicina all’azione e alla beatitudine dell’azione”49.

Infatti nell’Etica vedremo come il problema ontologico, gnoseologico e

quello pratico, fanno un tutt’uno, si compongono su uno stesso piano,

definito da Deleuze come un piano comune di immanenza.

Si capisce che Deleuze ne è affascinato, catturato, qui l’esperienza della

“doppia cattura”, trova la sua maggiore espansione. Deleuze fa quindi una

lettura affettiva di Spinoza, non nasconde la sua passione per il Filosofo di

Amsterdam, mantenendo sempre però un grande rigore nell’analisi che ne

fa, anzi qui rigore e passione si uniscono, diventano un nuovo modo di fare

filosofia: una filosofia che nasce da buoni incontri. Deleuze incontra

Spinoza, è un incontro gioioso, come lui stesso dice, egli trae da Spinoza un

affetto, un impulso che fa di Spinoza “un incontro e un amore”.

Da questo incontro nascono nuovi concetti, nuovi concatenamenti, che

appartengono sia a Spinoza sia a Deleuze, dall’idea di univocità del

molteplice, si passa al concetto deleuziano di piano d’immanenza, e questa

vicinanza crea nuove linee, nuovi ritmi, nuovi incontri.

Quest’amore di Deleuze per Spinoza, quasi ci commuove, quando egli ne

traccia il ritratto. Spinoza ci mette di fronte ai nostri momenti più bassi, più
49
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, op. cit., p 40.

31
miseri, ma solo perché attraverso questa conoscenza noi possiamo

liberarcene, ci fa “vedere” sempre, anche nei momenti più terribili, qual è la

nostra possibilità di gioia.

Spinoza, che in un’epoca lontana dalla nostra, aveva chiaro il senso della

libertà e dell’amore, dove gli affetti si confondono con legami di possesso,

ci sottolinea, come tali principi siano per noi ancora molto lontano da

afferrare.

E ancora, tra i principi di vita certi Spinoza, ci insegna di non odiare

nessuno, ma non perché l’odio sia un male in sé, bensì perché l’odio è

tristezza, ossia ci rende tristi, per cui non ci “conviene”, , non ci è utile.

Qui l’utile è la virtù stessa della ragione, per cui a noi conviene amare tutti

anche coloro che avremmo motivo di disprezzare, perché l’amore è gioia 50,

è letizia,ossia ci rende gioiosi e quindi capaci di agire. Questi e tanti altri

insegnamenti, derivano, secondo la lettura di Deleuze, dalla funzione che

Spinoza assegna alla filosofia come “impresa radicale di

demistificazione”51.

Il compito della filosofia è di denunciare tutte le mistificazioni, che

avvelenano la vita, che la rendono triste, la separano dalla potenza d’agire, è

in una parola, quello di denunciare e distruggere tutto il negativo. Deleuze

quindi, nella sua lettura di Spinoza, parte dalle tesi pratiche di denuncia e

liberazione. Queste tesi pratiche, riguardano la critica che Spinoza pone nei

riguardi della coscienza, dei valori, e delle passioni tristi. Questo modello di

50
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, op. cit., p 21.
51
Ib. p 19.

32
denuncia, ricorda Deleuze, sarà ripreso dalla filosofia nietzscheana.

Riguardo alla coscienza, essa crea delle illusioni: “gli uomini credono di

essere liberi per questa sola causa, che sono consci delle loro azioni e ignari

delle cause da cui vengono determinati”52.

Tali cause che la coscienza ignora riguardano sia la natura del corpo umano,

sia la natura della mente, sia i rapporti che essi hanno con altri corpi e altre

menti.

Il corpo, è un modo dell’estensione, la mente, un modo del pensiero; i corpi

vengono distinti attraverso rapporti di moto e di quiete.

Per Spinoza la mente umana è unita al corpo, quest’unione esclude ogni

eminenza, cioè superiorità dell’una sull’altro: “La mente e il corpo, sono

una sola e medesima cosa che viene concepita ora sotto l’attributo del

pensiero, ora sotto l’attributo dell’estensione.

Da ciò deriva che, l’ordine è lo stesso, sia che la natura venga concepita

sotto questo, sia sotto quell’attributo”53. Abbiamo però detto che l’ordine

delle cause riguarda anche i rapporti tra i modi, poiché, abbiamo coscienza

di noi stessi, anche attraverso gli altri: “quando un corpo ‘incontra’ un altro

corpo, un’idea un’altra idea, talvolta accade che i due rapporti si

compongano per formare un tutto più potente, talora accade che l’uno

decomponga l’altro e distrugga la coesione delle sue parti. L’ordine di

queste cause, è dunque un ordine di composizione di rapporti, che affetta

all’infinito, la natura intera”54.


52
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro III, Prop. 2, Scolio), op. cit., p. 101. Vedi anche Libro I,
Appendice, p.35.
53
Ib. Pp. 98-99.
54
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, op. cit., p 29.

33
Per Deleuze lo scopo è quello di acquisire “una conoscenza delle potenze

del corpo, per scoprire parallelamente le capacità della mente, che sfuggono

alla coscienza, per poter comparare le potenze, il corpo, non implica alcuna

svalorizzazione del pensiero in rapporto all’estensione, ma una

svalorizzazione della coscienza in rapporto al pensiero” 55.

Quest’acquisizione sarà oggetto di un altro genere di conoscenza che

Spinoza chiama ragione o conoscenza di secondo genere.

Per quanto riguarda la critica dei valori, Spinoza è molto chiaro: “la

conoscenza del bene e del male non è niente altro che l’affetto di letizia e di

tristezza, in quanto ne siamo consapevoli” 56, ossia è bene ciò che aumenta la

nostra potenza d’agire, mentre è male ciò che la diminuisce ma, nessuna

cosa può essere per noi buona, o cattiva se non ha qualcosa in comune con

noi57, e nessuna cosa può essere per noi cattiva per ciò che di comune ha

con noi, per cui “in quanto una certa cosa conviene con la nostra natura, in

tanto è necessariamente buona”58, per buona qui s’intende utile.

Da ciò si capisce chiaramente che il Bene e il Male non sono dei valori in

sé, ma dipendono dai nostri incontri, che possono essere buoni o cattivi.

E’ buono chi organizza gli incontri giusti, chi si unisce alle cose che sono

simili a lui; è cattivo chi non sceglie i propri incontri ma li subisce, chi non

usa la ragione in quanto facoltà che individua ciò che è comune ai corpi e

alle menti. Abbiamo visto come la tristezza sia la causa della nostra

impotenza d’agire e di capire, per cui ci si lancia in una vera e propria


55
Ib. p 29.
56
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro IV, Prop. 8), op. cit., p. 167.
57
Vedi Spinoza Benedetto, Etica, (Libro IV, Prop. 29), op. cit., p. 179.
58
Ib. p 180.

34
battaglia contro l’uomo delle passioni tristi, l’uomo del risentimento che ha

in odio la vita, che cerca ovunque colpe e colpevoli. “Ciò che avvelena la

vita è l’odio, ivi compreso l’odio ritorto contro se stessi, il sentimento della

colpevolezza”59.

Attraverso questa critica si vuole liberare l’uomo, rendendolo padrone del

suo agire, della sua potenza, e l’itinerario dell’Etica, tende all’affermazione

di quest’uomo, che “non pensa a niente meno che alla morte, la sua

sapienza è meditazione, non della morte ma della vita60.

Ora il problema dell’Etica, è come si può arrivare a formare le idee

adeguate di noi stessi, di Dio e delle cose, visto che la condizione naturale

della nostra esistenza sembra condannarci a non avere altro che idee

confuse e mutile, che creano sentimenti passivi.

La soluzione a questo problema sarà data dall’affermazione di quel secondo

genere di conoscenza, che abbiamo già incontrato come appartenente alla

ragione , ed è proprio sulla nozione comune che l’analisi di Deleuze si

sofferma più a lungo.

Le nozioni comuni rappresentano la composizione di rapporti reali fra modi

esistenti, poiché riguardano ciò che è prima di tutto comune ai corpi 61, ma

esse non costituiscono nulla riguardo all’essenza delle cose, questa sarà

oggetto del terzo genere, di conoscenza che chiamiamo sapere intuitivo.

Attraverso questo terzo genere di conoscenza, noi giungiamo alle gioie

attive e siamo veramente liberi poiché non dipendiamo da nessuna causa

59
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, op. cit., p 38.
60
Spinoza Benedetto, Etica (Libro IV, prop. 67 ) op. cit. p. 208.
61
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro II, proposizione 38, Corollario), op. cit., p. 75.

35
esteriore, ma conosciamo noi stessi, le altre cose, e Dio, dall’interno,

“essenzialmente”.

Quindi è quando raggiungiamo questo terzo genere di conoscenza, che noi

ci riconosciamo come parti interne dell’unica sostanza che è Dio.

Questa conoscenza, secondo Spinoza, ci procura la più grande letizia che

potremmo provare, e questa letizia è accompagnata dall’idea di Dio come

causa”62.

Ma è solo grazie alle nozioni comuni, che possiamo arrivare a questo terzo

genere di conoscenza, poiché le nozioni comuni esprimono idee adeguate,


63
, per cui le nozioni comuni ci danno necessariamente l’idea di Dio64.

Per questo motivo Deleuze afferma che l’idea di Dio, può fungere anche da

nozione comune, esprimendo ciò che vi è in comune in tutti i modi esistenti

essendo questi in Dio.

Certamente l’idea di Dio non è una nozione comune, “gli uomini non

hanno, di Dio, una conoscenza ugualmente chiara che delle nozioni

comuni”65.

Dalla relazione con l’immaginazione, si capisce anche come si formano le

nozioni comuni, infatti è solo quando incontriamo un corpo che concorda

con noi, che ci procura affezioni di gioia, aumentando la nostra potenza

d’agire, che ha dunque molte cose in comune con noi, che noi formiamo la

nozione comune di due corpi. E’ compito della ragione di selezionare gli

incontri giusti, per rendere sempre più potenti i nostri incontri e per farci
62
Spinoza Benedetto, Etica (Libro V, proposizione 32,), op. cit., p. 243.
63
Spinoza Benedetto, Etica (Libro II, proposizione 38, Dimostrazione, Corollario), op. cit., p. 75.
64
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, op. cit., p. 119.
65
Spinoza Benedetto, Etica (Libro II, proposizione 47, Scolio), op. cit., p. 84.

36
cogliere l’incontro in se stesso, come esperienza ed affermazione della

nostra potenza.

Deleuze vede in Spinoza il filosofo dell’immanenza, cioè colui che riesce

ad eliminare ogni trascendenza.

Infatti Deleuze, fa un vero e proprio elogio a Spinoza definendolo “il

principe” dei filosofi, poiché, non ha stabilito “nessun compromesso con la

trascendenza”, avendo saputo che “l’immanenza è immanente solo a se

stessa, che è quindi un piano percorso dai movimenti dell’infinito, riempito

dalle ordinate intensive”.

Infatti Spinoza, secondo Deleuze, con la scoperta del terzo genere di

conoscenza, cioè l’intuizione, traccia il piano del movimento dell’infinito,

dando al pensiero movimenti infiniti e intensivi. Questo piano ci presenta le

sue due facce, l’estensione e il pensiero, o più esattamente le sue due

potenze, potenza d’essere e potenza di pensare.

Per Spinoza Dio è la stessa Natura, ovvero la Natura naturante “ciò che è in

sé e per sé si concepisce, ossia gli attributi della sostanza, che esprimono

l’eterna e infinita essenza, cioè Dio”. Deleuze, però, dice che questo Piano è

un Piano comune di immanenza; ora è proprio l’immanenza la parola

chiave per capire la lettura deleuziana di Spinoza. Quindi, su questo unico

Piano noi abbiamo la sostanza con i suoi attributi, cioè Dio66 e i modi

esistenti, che siamo noi, Ora, per Spinoza, l’essenza di Dio è uguale alla sua

esistenza, essendo Dio causa di sé67, mentre l’essenza delle cose prodotte da

66
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro I, definizione 1, proposizione 6), op. cit., pp 5.
67
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro I, definizione 1, proposizione 20), op. cit., pp 5, 23.

37
Dio, non implica l’esistenza68, per cui Dio è causa efficiente sia

dell’esistenza che dell’essenza dei modi. Quindi l’essenza dell’uomo è

costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio. Spinoza, però,

aggiunge che l’essenza di Dio è la sua stessa potenza dell’uomo è parte

dell’infinita potenza di Dio.

L’essenza dell’uomo, la sua potenza è dunque, lo sforzo di provare gioia.

Aumentare la potenza d’agire, distruggere la tristezza, questo sforzo, come

già abbiamo visto, attraversa il secondo genere di conoscenza e si raggiunge

nel terzo quando non abbiamo più affetti passivi, ma solo gioie attive,

“allora la potenza di modo, si comprende in quanto parte intensiva o grado

della potenza assoluta di Dio”69.

Per questo Deleuze affermava che la gioia etica corrisponde

all’affermazione speculativa, ovvero è attraverso la gioia che affermiamo,

come in un sol colpo, la nostra esistenza, l’esistenza degli altri e quella di

Dio. Il Piano di composizione di cui parlavamo, è un Piano di consistenza

che “non cessa di venire composto e ricomposto dagli individui e dalle

collettività dove non vi è più soggetto ma solo stati affettivi”.

Gli attributi della sostanza, esprimono la loro essenza e l’intelletto

percepisce ciò che tale attributo esprime ,l’essenza espressa è una qualità

illimitata .

Deleuze parlava di un Piano di immanenza nella filosofia spinoziana.

Infatti, attraverso l’espressione, la relazione tra la sostanza e i modi, si

68
Spinoza Benedetto, Etica, (Libro I, proposizione 24), op. cit., p. 25.
69
Deleuze Gilles, Spinoza Filosofia Pratica, op. cit., p. 129.

38
stabilisce un rapporto di implicazione ed esplicazione: “la sostanza si

esplica negli attributi univoci”. Questa univocità per Deleuze è la chiave di

volta di tutto lo spinozismo: infatti, essa facendoci cogliere l’eguaglianza

formale tra la sostanza e i modi, garantisce l’affermazione di una differenza

positiva in seno all’unità Questa immagine normativa di pensiero, ha

dominato la filosofia occidentale, fissandola nella convinzione che l’essere

è uno, che coincide con la lingua e che parla la lingua della ragione. A

questa visione monolitica dell’essere Deleuze contrappone la sua nozione

del divenire.

L’essere, è univoco , qui univoco significa che l’essere stesso si dice in un

solo e stesso senso della sostanza e dei modi , benché i modi e le sostanza

non abbiano lo stesso senso70.

Con Spinoza l’essere univoco cessa di essere neutralizzato e diviene

espressivo.

Questo è un punto molto importante per Deleuze, poiché stabilisce nella

filosofia un’apertura agli essenti, all’interno dell’univocità dell’essere, ne

garantisce l’affermazione della differenza tutto è uguale e il Tutto torna” 71,

ciò significa che, per Spinoza, i modi sono irriducibili a specie o a enti di

ragione e gli attributi sono irriducibili a generi o a categorie.

Essi sono “sensi qualitativamente differenti che si riferiscono alla sostanza

come a un solo e stesso designato”; e la sostanza è il “senso

ontologicamente uno,in rapporto ai modi che la esprimono” 72. L’espresso o

70
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 73.
71
Ib. pp. 481-482.
72
Ib. p. 72.

39
senso “non esiste al di fuori della sua espressione” 73. Abbiamo visto che

l’essenza, è esattamente la potenza, l’essenza della sostanza è infatti la

potenza, poiché Dio è causa di sé e di tutte le cose, i modi stessi hanno

come loro essenza la potenza,intesa come potenza di esistere, di agire e di

perseverare, che li relaziona internamente alla sostanza. Praticamente, il

senso è potenza e ciò che esso esprime è la gioia come affermazione di una

vita eccezionale.

73
Deleuze Gilles, Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 27.

40
I.4 Bergson: differenza ontologica e ontologia della

molteplicità

Il confronto con la filosofia bergsoniana, è sicuramente uno dei più

importanti che Deleuze ha stabilito nel corso dello sviluppo del suo

pensiero. Ma ciò che maggiormente interessa Deleuze della filosofia

bergsoniana, è il tentativo di fondazione di una ontologia della differenza e

della molteplicità, in cui “all’origine non vi è un Essere immobile e stabile”,

ma “la differenza è il vero cominciamento” 74, in cui l’Essere si afferma

come differenza, come molteplicità.

Ora Deleuze precisa che il problema della differenza si presenta sia su un

piano metodologico, sia su un piano ontologico, e si assiste ad un

interscambio continuo tra i due piani, ad un loro legame sostanziale. Infatti,

dal punto di vista metodologico, si tratta di “determinare le differenze di

natura fra le cose: poiché, solo così si potrà tornare alle cose stesse,

renderne conto senza ridurle ad altro, coglierle nel loro essere” 75, ma questo

piano metodologico delle differenze di natura, rinvia all’altro piano

ontologico della natura della differenza, poiché se “l’essere delle cose, è

74
Deleuze Gilles, “La concezione della differenza in Bergson”, in aut aut, La Nuova Italia,
Firenze, n. 204, 1984.
75
Ib. p. 42.

41
nelle loro differenze di natura, possiamo sperare che la differenza stessa sia

qualche cosa che, possieda una natura, insomma che ci sveli l’Essere” 76.

Ora, il metodo che si adotta è l’intuizione, che secondo Deleuze è “uno dei

metodi più elaborati della filosofia”77, infatti esso, determina anche il

rapporto tra la durata, la memoria e lo slancio vitale”78.

Tale accento sul metodo è posto da Deleuze, poiché con esso si raggiunge

una “percezione fine della molteplicità” o differenza, che costituisce anche

l’asse centrale della filosofia deleuziana.

Deleuze, oppone il metodo dell’intuizione, al metodo dialettico, inteso

come movimento del concetto astratto.

Ma, più precisamente la critica deleuziana, si pone verso l’idea di concetto,

inteso come forma di identità con cui opera la rappresentazione: “Il prefisso

RE del termine repraesentatio significa che la forma concettuale

dell’identico si subordina alle differenze”79. Deleuze denuncia in ciò la

forma di universale astratto, assunta nella dialettica dal concetto, cioè la

differenza reale. In effetti, ciò che muove la critica deleuziana è

l’occlusione, da parte di molta filosofia, della distinzione tra “il concetto

della differenza” e la “differenza semplicemente concettuale”.

Quindi il compito che si pone Deleuze è quello di trovare un concetto puro

della differenza, insomma di scoprire la differenza in sé, la differenza non

tra due cose opposte, non la differenza mediata dal concetto, inteso come

identità, che la spinge fino all’opposizione e alla contraddizione, che parte


76
Ibidem.
77
Deleuze Gilles, Il bergsonismo, Feltrinelli, Milano 1983, p. 7.
78
Ib. p. 8.
79
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 98.

42
dunque da un concetto negativo della differenza, ma che ponga la

differenza come affermazione positiva e creativa, come “l’essere del

sensibile”, che è “ciò che può essere solo sentito”.

Il problema è capire quale rapporto si istaura tra il concetto e l’intuizione

rispetto alla differenza.

A tal fine, è necessario tracciare le linee del percorso deleuziano riguardo al

problema del rapporto tra intuizione e concetto. Ora, nel programma di

ricerca deleuziano si evidenzia un’esigenza critica rispetto al concetto della

rappresentazione, che conduce Deleuze ad opporvi un’altra nozione, cioè

quella dell’Idea, che viene affermata da Deleuze come universale concreto.

Perciò possiamo affermare che l’Idea, è il vero concetto della differenza.

L’Idea si oppone al concetto della rappresentazione per affermarsi invece

come concetto proprio e puro della differenza. Infatti i caratteri che Deleuze

dà all’Idea, quali l’intensità, la virtualità, la differenza in sé, la creatività,

sono i caratteri propri del concetto, liberato dal giogo della dialettica e della

rappresentazione.

Tali caratteri, si presenteranno nell’ultimo importante lavoro di Deleuze,

scritto insieme all’amico Guattari, dove con quel suo titolo semplice e

diretto, Che cos’è la filosofia?, i due amici sembrano quasi voler

ricominciare tutto daccapo. Quindi, la nozione di Idea quale si presenta in

Differenza e ripetizione, non si distingue dalla nozione di concetto, quale si

presenta nell’ultimo lavoro di Deleuze e Guattari, ma ne prepara il terreno

distinguendosi ed opponendosi solo al concetto come universale astratto e

43
generale. Ora, l’Idea è considerata da Deleuze,come la molteplicità

variabile : è il quanto, il come, il singolo caso, ogni cosa è una molteplicità

in quanto incarna l’Idea. Ma l’Idea è, secondo Deleuze, anche il problema

come divenire di una domanda che non cessa di porsi al di là delle soluzioni

generali date e in questo senso “il problema o l’Idea è tanto la singolarità

concreta quanto la vera universalità”80, poiché col porsi del problema,

scompaiono anche le soluzioni generali astratte.

Secondo Deleuze, anche l’intuizione si presenta come intensità, come

profondità, capacità di cogliere “l’essere del sensibile” che per Deleuze è

anche “ciò che può essere solo sentito”, ciò che innalza ogni facoltà al suo

limite proprio, alla differenza.

Occorre precisare che Deleuze qui vuole opporre l’intuizione intensiva,

come comprendente la differenza in sé, ad una intuizione puramente

estensiva, che annulla la differenza.

Infatti, si stabilisce tra i due momenti un movimento reale e non dialettico

astratto, poiché se noi consideriamo “lo spazio in quanto intuizione pura,

spatium”81, che per Deleuze è quantità intensiva, non possiamo negare “la

sua affinità con l’Idea, vale a dire la sua capacità”82.

Il movimento che si stabilisce tra l’Idea e l’intuizione è il movimento

proprio della differenza, che Deleuze chiama la realtà del virtuale. Questo

movimento, che va dal virtuale all’attuale, è analizzato da Deleuze

attraverso la filosofia bergsoniana, ma esso include la differenza, grazie al

80
Ib. p. 264.
81
Ib. p. 372.
82
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 373.

44
carattere intensivo dell’Idea e dell’intuizione, è l’intensità infatti che ci fa

cogliere la differenza, essendo essa stessa pura differenza in sé.

Per questo Deleuze vede nell’intuizione o nel concetto d’Idea , la possibilità

di cogliere i segni nel loro essere anch’essi intensivi, implicati, silenziosi.

Questo apprendere, secondo Deleuze, è un apprendere creativo, ed è

l’apprendere proprio della filosofia e dell’arte. Deleuze vuole qui opporre al

sapere astratto della dialettica e della rappresentazione, l’apprendimento

reale senza mediazione, né quella della riflessione o dell’identità come

principio di conoscenza, né la mediazione che nasce dalla presunta idea di

una buona volontà da parte del pensatore.

Il pensiero, per Deleuze, è creazione, e la creazione nasce dall’

”immediato”, non inteso come ciò che è dato qui ed ora una volta per tutte,

ma come quell’essere “all’ora del mondo”, per potere incontrare mondi

prima sconosciuti e mantenere anche quella distanza necessaria con ciò che

è meramente presente, ciò che Deleuze chiama la resistenza al presente, per

coglierne l’essere creativo in un passato puro inventivo, creato più che

ricordato, che si apre all’avvenire inteso come sperimentazione assoluta

della differenza.

Bisogna trovare un’unità tra concetto ed intuizione, che viene

maggiormente chiarito da Deleuze nella ricerca di Che cos’è la filosofia ?,

dove il compito della filosofia (la risposta al che cos’è ?) diventa“la

creazione dei concetti”, lì dove per creazione si intende proprio

un’intuizione capace di sostenerli: “non conoscerete niente attraverso i

45
concetti se non li avrete prima creati, cioè costruiti con una intuizione che è

loro propria: un campo, un piano, un suolo, che non si confonde con essi ma

che ospita i loro germi e i personaggi che li coltivano”83.

Deleuze chiarisce in Che cos’è la filosofia? che la nozione di Idea, coincide

con quella di concetto84, che viene sviluppata a partire dalla stessa critica al

concetto della rappresentazione.

Deleuze riprende la sua denuncia verso quei filosofi che hanno considerato

il concetto “come una conoscenza o una rappresentazione data, che si

spiegavano con le facoltà capaci di

formarlo (astrazione o generalizzazione) o di usarlo (giudizio)”85.

Mentre per Deleuze e Guattari “il concetto non è dato, è creato. Per cui il

problema della filosofia, secondo i due autori, si presenta quale “punto

singolare in cui il concetto e la creazione si rapportano l’uno all’altra” 86,

poiché solo essendo creato il concetto conserva i momenti singolari della

sua creazione.

Il concetto solo in quanto creato, può porsi esso stesso come creativo, come

singolarità intensiva. Così, l’impresa più alta e più degna della filosofia si

presenta nella creazione di concetti : il filosofo diventa l’artista dei concetti.

Ora, la condizione per tale creazione nasce dalla costruzione, da parte della

filosofia, di un piano di immanenza, di consistenza, in quanto “fondazione

su cui la filosofia crea i suoi concetti” 87. Ma il concetto, non si confonde

83
Deleuze Gilles, Guattari Felix, Che cos’è la filosofia?, op. cit. p. xv.
84
Cfr. Che cos’è la filosofia?, op. cit. p. XVIII.
85
Ib. p. XX.
86
Ibidem.
87
Ib. p. 32.

46
con il piano di immanenza su cui si crea ,“i concetti sono come le onde

multiple che si alzano e si abbassano”88. La filosofia, dunque, deve tracciare

tale piano di immanenza, che si presenta dunque come la condizione

necessaria perché possano crearsi dei concetti.

Ora, il punto che a noi maggiormente interessa è che tale piano, è in un

rapporto essenziale con l’intuizione, per la creazione di concetti. Infatti, “gli

elementi del piano sono dei tratti diagrammatici, mentre i concetti sono dei

tratti intensivi. I primi sono intuizioni,i secondi intensioni. Il piano

dell’intuizione, è dunque la condizione singolare per la creazione di

concetti.

Il metodo dell’intuizione, si presenta come un metodo di divisione, che

consiste nel far emergere le differenze che costituiscono l’oggetto di una

intuizione.

Queste differenze, possono essere di semplice grado, oppure sono di natura,

quando riguardano due oggetti o stati, che fanno parte di due ordini di realtà

radicalmente diversi.

Il compito del metodo dell’intuizione è proprio quello di cercare le vere

differenze di natura, laddove erroneamente si è visto solo delle differenze di

grado e viceversa. Deleuze sottolinea questo aspetto critico del metodo,

contrapponendo l’intuizione alla dialettica e alla rappresentazione. Infatti, il

metodo dialettico hegeliano, secondo Deleuze, sostituisce alle differenze di

natura, una concezione generale dei contrari, attraverso il negativo

d’opposizione, per cui la molteplicità viene pensata nella forma della


88
Ib. p. 25.

47
contrapposizione e della subordinazione del Molteplice all’Uno. Questa

molteplicità, cioè la durata, non si confonde con il molteplice, così come la

sua semplicità non si confonde con l’Uno”89.

Per cogliere la natura della differenza, occorre, precisa Deleuze, che si

pongano e si risolvano “i problemi in funzione del tempo, piuttosto che

dello spazio, poiché questa regola dà il senso fondamentale dell’ intuizione:

l’intuizione presuppone la durata, consiste nel pensare in termini di

durata”90.

Questo è un punto molto importante dell’analisi di Deleuze, poiché riguarda

il nucleo centrale della sua stessa ricerca e riflessione sul rapporto tra tempo

e differenza, e sulla possibilità di pensare la differenza nel tempo e non più

nello spazio.

E’ attraverso la durata, cioè il tempo, che noi cogliamo le differenze di

natura .Con la durata. noi stabiliamo non solo una differenza di natura tra

due cose o tra due tendenze, ma più in profondità una differenza interna alla

cosa stessa.

La durata,quindi, è il solo luogo delle differenze di natura, mentre lo spazio

presenta solo differenze di grado. Ciò significa, anche che la differenza di

natura non si pone semplicemente tra la durata e lo spazio, ma che essa si

trova interamente dalla parte della durata che si oppone allo spazio, la

durata dunque è “ciò che si differenzia in sé”91.

89
Deleuze Gilles, Il bergsonismo, op. cit. p. 40.
90
Ib. p. 25.
91
Deleuze Gilles, “La concezione della differenza in Bergson”, in aut aut, op. cit. p. 48.

48
Questo passaggio è molto importante per Deleuze, poiché con

l’affermazione del tempo, la differenza esterna tra due cose, si trasforma in

differenza interna. Il tempo reale è alterazione, e l’alterazione è sostanza”,

ovvero l’Essere è il Tempo, e il Tempo è Differenza. La differenza di

natura, è divenuta essa stessa una natura”92.

La memoria, esprime secondo Deleuze, una ripetizione particolare che,

comprende la differenza. Deleuze afferma che “la memoria è l’organo

amoroso della ripetizione”93.

Essa mette in risalto i meccanismi della ripetizione, nel legame essenziale

tra Amore e Memoria. Solo chi ama cerca la verità.

L’amore dunque esercita una violenza nel pensiero che ci porta a decifrare

il senso profondo delle cose, dei segni: “in amore, nella natura, o nell’arte,

quello che conta non è il piacere, ma la verità94”.

Qui Deleuze oppone l’amore dell’amante, che vuole la verità solo perché ne

è forzato, all’amore del filosofo che vuole la verità perché sente una

disposizione naturale verso essa.

Dunque,per Deleuze, il filosofo deve diventare come questo amante reale,

mai tranquillo, sempre agitato dai segni incontrati, che è costretto a

decifrare per gioirne o morirne. Decifrare i segni dell’amore significa

seguirne la loro evoluzione, la loro perdita, il loro ritrovamento. La Ricerca

è veramente un andare avanti e indietro, un fermarsi catatonico e un

92
Ib. p. 49.
93
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. p. 10.
94
Deleuze Gilles, Marcel Proust e i segni, op. cit., p. 16.

49
improvviso correre, a volte alla cieca: “per questa ragione la Ricerca è

sempre temporale, e la verità sempre condizionata dal tempo”95.

Per questo, noi crediamo che l’amante come l’artista ripete, perché si

conservi la differenza che altrimenti andrebbe perduta nella oscenità di una

semplice novità; per Deleuze questo ripetere rappresenta l’arte propria

dell’amore, quando egli dice di “non aggiungere una seconda e una terza

volta alla prima, ma portare la prima volta all’ennesima potenza” 96 sta

parlando dell’amore e della sua grazia.

La memoria però esprime il passato, che dunque si presenta come la sintesi

del tempo, di cui il presente e il futuro sono solo le dimensioni. Questo

passato è dunque il fondamento del tempo. Questo passato è un passato

puro, cioè “un passato che non fu mai presente, poiché non si forma

dopo”97, ma è la condizione per cui passa il presente.

Ora il problema è capire che il passato non succede al presente che esso è

stato, ma gli coesiste.

Il passato dunque anzitutto coesiste con sé, secondo un’infinità di livelli.

Ora è proprio questa coesistenza, questa contrazione della totalità del

passato, che chiarisce l’importanza del concetto di ripetizione e differenza.

Ora il problema è capire che questo passato puro, per Deleuze esprime

l’essere in sé, l’essenza rivelata nell’arte, come un passato puro che rivela

infine la sua duplice irriducibilità non solo al presente che è stato, ma anche

all’attuale presente che potrebbe essere grazie al loro incontro98.


95
Ib., p. 18.
96
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p.10.
97
Ib., p138
98
Ib., p. 143.

50
I.5 Leibniz: la piega che unisce la filosofia e l’arte barocca

L’ultimo lavoro monografico di Deleuze, riguarda l’analisi della filosofia di

Leibniz, dove il filosofo francese opera una analogia tra la filosofia e l’arte

barocca, al cui sfondo si trova l’immagine della piega

Per Deleuze il concetto di “piega che va all’infinito” unisce la filosofia

all’arte barocca, tracciando quell’affinità a lui cara tra filosofia e arte, che

offre spunti di riflessione e di chiarimenti, sia per la filosofia che attraversa

l’arte, che per l’arte che attraversa la filosofia.

Deleuze spiega che il rapporto tra la monade e il mondo, può essere chiarito

solo se si parte dal mondo e si comprende che la monade, in quanto anima o

soggetto è “per” il mondo, ossia essa è un “punto di vista” sul mondo.

La monade intesa come punto di vista si afferma non come un essere “nel”

mondo, ma come un essere “per” il mondo e pur esprimendo il mondo

intero, esprime però chiaramente solo una piccola regione del mondo, un

“dipartimento”, una variazione che è il suo punto di vista: “la monade è per

il mondo, nessuna contiene chiaramente la ragione della serie, da cui esse

risultano tutte e che resta loro superiore come il principio del loro

accordo”99.

99
Deleuze Gilles, Le Pli (Leibniz et le baroque), Ed. de Minuit, Paris, 1988, tr. It. La piega.
Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino, 1990, p. 38.

51
Quindi il mondo in quanto espresso della monade, pur essendo unico,

“variabile unica”, esprime infinite variazioni. In realtà secondo Deleuze una

condizione positiva, è la condizione che le permette di avere un punto di

vista singolare e autonomo sul mondo: Bisogna mettere il mondo nel

soggetto, affinché il soggetto sia per il mondo.

Questa torsione costituisce la piega del mondo e dell’anima. E conferisce

all’espressione il suo tratto fondamentale: l’anima è l’espressione del

mondo , ma perché il mondo è l’espressione dell’anima 100.

L’essenza della monade è rappresentata da un fondo scuro da cui essa

percepisce il mondo intero, è paragonato da Deleuze all’ideale

architettonico barocco di “una stanza in marmo nero”, dove la luce penetra

esclusivamente attraverso orifizi occultati per non lasciare intravedere

niente dal di fuori, illuminando o colorando le decorazioni con un puro

interno.

Ma la monade non avendo aperture ha come “sigillata una luce, che si

illumina e che produce il bianco il quale s’incupisce verso il fondo oscuro

da dove escono le cose”101.

Vi è, dunque un nuovo regime della luce e dei colori, attraverso il quale il

chiaro, il bianco, è inseparabile dall’oscuro, dal nero, dando origine alla

nuova tonalità del chiaroscuro. Questa scoperta del chiaroscuro è molto

importante per Deleuze perché con esso inaugura una nuova logica

dell’Idea e della percezione, “un’idea chiara è di per sé confusa, e confusa

100
Ib. p. 39.
101
Ib. p. 49.

52
in quanto chiara ,il chiaro è di per sé confuso, e reciprocamente il distinto,

di per sé oscuro”102.

Ma con la nozione di chiaroscuro si chiarisce anche il movimento della

piega interiore alle monadi. Dunque la cosa che maggiormente interessa

Deleuze è che la percezione cosciente, chiara, o l’Idea chiara nasce dalle

micropercezioni oscure, inconsce. La piega della percezione è dunque

sempre un differenziante, un differenziale, una piega che differenzia e si

differenzia, in cui la differenziazione “non rinvia ad un indifferenziato

precostituito, ma a una differenza che non smette di spiegarsi e

ripiegarsi”103, in cui cioè il fondo oscuro delle pieghe delle monadi non è

indifferenziato ma si presenta pieno di differenze. Quindi percepire è

piegare in due modi: attraverso le piccole pieghe delle micro percezioni

dell’inconscio e con le grandi pieghe delle macro percezioni che ne

derivano. La grande percezione rimanda non ad un oggetto ma ai rapporti

differenziali tra le piccole percezioni e quest’ultime rimandano al mondo e

non ad un oggetto.

Ma percepire, nel senso di piegare è anche cogliere il mondo come evento,

come molteplicità caotica, da cui però bisogna “fare uscire qualcosa”.

Deleuze pone infatti come condizione dell’evento, il caos, ma un caos

regolato da tagli attraverso cui “qualcosa”, pur mantenendo la sua infinità,

non sprofondi in un abisso indifferenziato.

102
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. pp. 343-344.
103
Deleuze Gilles, La piega. Leibniz e il barocco, op.cit., p. 46.

53
L’evento, non è semplicemente ciò che accade, ma “qualche cosa in ciò che

accade che è la semplice espressione che ci fa segno e che ci aspetta” 104, e

che deve essere voluto, liberato.

Così come l’insieme delle piccole percezioni potrebbero dare origine ad un

caos come stordimento se non si estraessero dei differenziali in grado di

integrarsi in percezioni chiare. L’evento dunque riguarda il mondo intero

attraversato dalla piega: “il mondo stesso è evento, e deve essere incluso in

ogni soggetto come un fondo,da cui ognuno estrae le maniere che

corrispondono al suo punto di vista”105.

L’evento esprime la relazione tra mondo e monade, relazione

proposizionale in cui “il mondo è la predicazione stessa, le maniere sono i

predicati particolari e il soggetto ciò che passa da un predicato ad un altro”.

Relazione ed evento trasformano il soggetto che diviene creativo e portatore

di novità.

Infatti, il soggetto che ha come predicato l’evento è un soggetto

necessariamente creativo: esso è definito da Deleuze come “prensione”;

quest’ultima indica in ogni individuo e in ogni cosa, una interazione, una

comunicazione, una percezione-affezione con tutti gli altri.

Dunque ogni cosa in quanto prensione comprende tutto ciò da cui procede e

ciò verso cui si dirige, contraendo e contemplando il mondo intero, per cui

la prensione si rivela quasi come una ripetizione contraente.

104
Deleuze Gilles, Logica del senso, op cit., p. 134
105
Deleuze Gilles, La piega. Leibniz e il barocco, op. cit., p. 80

54
Ma ciò che maggiormente interessa Deleuze è il fatto che dall’incontro di

due o più flussi di divenire si possa creare qualcosa di nuovo, appunto

l’evento, creando nuovi divenire e nuove armonie, ponendo le condizioni

per l’affermarsi dell’evento del desiderio che è esso stesso piano di

concatenamento.

Per Deleuze, dunque, si tratta invece di affermare la divergenza, la

dissonanza, in seno all’unicità del mondo stesso, senza esclusione poiché

tutto è interazione, tutto passa nell’unica Piega dipanando la molteplicità

del mondo, in cui non vi sono frontiere o muri irriducibili. Forse è proprio

questo il significato che Deleuze dà all’evento, stabilendo un’etica

dell’evento, intesa come un essere degno dell’evento, poiché nel dire “sì”

all’evento noi stessi ci liberiamo di tutti gli eventi negativi, affermandoci

come “singolarità impersonali e preindividuali, il sì dell’evento puro” 106.

Anche la morte si affermi come evento e si rivolge contro se stessa in

quanto fenomeno biologico, poiché l’evento del “morire” destituisce ogni

morte personale: “l’impersonalità del morire non segna più soltanto il

momento in cui io mi perdo fuori di me, ma il momento in cui la morte si

perde in se stessa, e la figura più singolare che la vita assume per sostituirsi

a me”107.

La filosofia non ha altro scopo che diventare degna dell’evento” 108. Essere

degni dell’evento, volere l’evento, diventa allora il momento più alto della

106
Deleuze Gilles, Logica del senso, op. cit. p. 136.
107
Ib. p.137.
108
Deleuze Gilles, Guattari Felix, Che cos’è la filosofia?, op. cit., p. 161.

55
libertà in cui si decide una forza selettiva e creativa della volontà, che

denuncia l’ordine dei poteri.

Deleuze paragona i suoni alle nomadi.

Proprio per sottolineare che l’interazione stabilisce tra gli accordi musicali

una perfetta armonia Deleuze, per spiegare il concetto di armonia fa

riferimento al modello musicale del concerto barocco.

Infatti, la casa barocca a due piani diventa una casa musicale, in cui nel

piano in basso si estendono le linee melodiche orizzontali del sensibile;

mentre nel piano in alto troviamo le monadi verticali armoniche, gli accordi

interiori109. Ma gli accordi della melodia, gli accordi orizzontali, sono

possibili solo in quanto vengono realizzati dagli accordi interni

dell’armonia verticale che rappresenta l’unità concettuale, spirituale della

monade.

E’ la stessa melodia che viene sottoposta ad un principio armonico perchè si

realizzino gli accordi. Il principio dell’armonia è dunque di realizzare gli

accordi e di risolvere le dissonanze rendendole funzionali all’interno di un’

armonia universale.

L’armonia dunque esprime l’unicità del mondo, l’accordo del mondo, “il

mondo è come una partitura musicale”, linea orizzontale melodica, che

viene espresso armonicamente, verticalmente dalle monadi, ma siccome

l’espresso è un solo e unico mondo che non esiste al di fuori delle monade

che lo esprimono, si stabilisce una unità tra la melodia e l’armonia, che dà

origine ad un unico Piano di composizione, ad una sinfonia della natura.


109
Deleuze Gilles, La Piega. Leibniz e il barocco, op. cit., p. 203.

56
Ma, questo unico piano di composizione riguarda solo il mondo

convergente, mentre per Deleuze si tratta proprio di costruire un Piano di

immanenza, una Piega del fuori, e non più del dentro in cui “non soltanto le

dissonanze non devono più essere risolte, ma le divergenze possono essere

affermate.

Un mondo, dunque, dove non esiste più una differenza tra l’interiore e

l’esteriore, tra i due piani, ma vi è un unico Piano di immanenza.

La musica non esprime più accordi, ma crea nuove armonie che nascono da

divergenze, da differenze che non sono più opposizioni, da molteplicità che

non hanno più un centro e in cui si tratta ancora di “piegare, dispiegare,

ripiegare” all’infinito.

Uno dei grandi meriti della pittura è quello di trovare una via di uscita dalla

rappresentazione figurativa e indica nell’isolamento ciò che Deleuze

chiama clichè, evidenziando con ciò il “già dato”,(i dati figurativi, dati

psichici e fisici), percezioni già pronte, è già presente sulla tela prima che il

lavoro del pittore cominci, ed è anche già presente nella testa del pittore

stesso.

Deleuze definisce l’immagine pittorica, l’immagine nella sua nudità, come

un fatto pittorico : “non un’immagine giusta, ma giusto un’immagine”110,

laddove per “giusto un’immagine” si intende proprio una secchezza

dell’immagine sottratta ad ogni clichè visivo colta nella sua assoluta

presenza, in questo senso essa è pensiero. La questione dei cliché ha dunque

110
Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, op. cit. p. 13.

57
una portata più vasta nel pensiero deleuziano, poiché riguarda il problema

del rapporto tra pensiero e realtà.

Deleuze afferma:“io non credo alle cose” bensì agli eventi mentre i media

non riescono a cogliere un evento perché “mostrano spesso l’inizio o la

fine, mentre un evento continua. Deleuze dunque “non crede” alla realtà già

data, manipolata dai media, alla realtà senso motoria dei corpi, a cui oppone

il senso evento che apre un nuovo campo trascendentale, che esclude ogni

somiglianza tra i fatti empirici e il senso trascendentale. Sotto questo

aspetto potremmo dire che la realtà è prodotta dal senso, o nei termini

dell’antiEdipo dal desiderio.

Ma il possibile di cui qui parla Deleuze non è ciò che comunemente si

pensa, come qualcosa che può accadere, esso non è né ricalcato sul reale, né

tantomeno subordina a sé il reale, ma è la pura forma del possibile, che non

è mai data in anticipo, ma va sempre creata.

In questo senso il possibile si afferma solo nell’evento, irriducibile ai

determinismi sociali, storici, ed ai cliché, contro i quali anzi si ribella.

Questo significa che la lotta contro i cliché riguarda la creazione di una

nuova percezione che è anche una nuova politica, poiché i cliché ci tolgono

“la visione pura” della realtà, quella cioè creata nell’evento.

Dunque la lotta conto i cliché è fondamentale per Deleuze, poiché essa è

liberazione, “libertà per la fine di un mondo”111, del mondo dei cliché, in cui

si capisce anche la portata rivoluzionaria dell’arte.

111
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. p. 466.

58
Infatti il pittore come il “veggente rivoluzionario” distrugge i cliché che

sono sulla tela e dentro di lui, pulisce la tela dai dati figurativi, introducendo

un caos distruttore e creativo, poiché esso è anche “un germe di ordine o di

ritmo”112.

La Figura,è un corpo ma non è un corpo figurativo, non è forma, né ha dei

limiti senso-motori, ma è attraversato da forze che lo deformano, che lo

fanno fuggire da sé.

Deleuze ci dice che “non sappiamo dove finisce il corpo” e“non sappiamo

cosa può un corpo”, e non lo sappiamo perché il corpo non è fissato dai

limiti dell’organismo , ma del corpo vissuto.

La Figura è ora proprio il corpo senza organi, nei termini dell’anti-Edipo, la

superficie metafisica del desiderio che disfa l’organizzazione molare

dell’organismo a vantaggio di una potenza originale e propria del corpo, di

un “corpo nudo”, ovvero senza organismo, che ci spinge fuori di noi stessi,

scompaginando tutti i codici e deterritorializzando i “corpi vestiti” 113, cioè

organizzati secondo codici ed organismi, della terra, del despota, del

capitale denaro.

Poiché esso è puro processo schizofrenico di deterritorializzazione: “il

corpo senza organi è il deserto ove scorrono i flussi decodificati del

desiderio, fine del mondo, apocalisse”114, laddove la fine di tutte le identità

degli organismi , coincide con l’affermarsi del puro piano di immanenza,

senza confini, del desiderio.

112
Deleuze Gilles, Francis Bacon. Logica della sensazione, p. 169.
113
Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, op. cit. p. 320.
114
Ib. p. 197.

59
Pochi mesi prima di morire, Deleuze ritorna su un concetto a lui caro:

l’immanenza, e vi ritorna con la premura di chi voglia chiarirlo e al

contempo rilanciarlo in tutta la sua forza.

Prima di ogni cosa Deleuze, distingue il campo trascendentale, esso infatti,

non riguarda l’esperienza poiché non si riferisce né a un oggetto, né è di

pertinenza di un soggetto, e né tantomeno esso riguarda “la pura coscienza

immediata senza oggetto né io”115 ,poiché qualsiasi coscienza implica

sempre una trascendenza.

Quindi il campo trascendentale non riferendosi a nulla di trascendente “si

caratterizza come un puro piano di immanenza” 116, insomma immanenza

assoluta.

Ma ecco che Deleuze ci spiega che la pura immanenza di cui sta parlando

“è una vita, e nient’altro”117, ma anche qui non si tratta di attribuire

l’immanenza alla vita come a una coscienza trascendente, l’immanenza non

è mai immanente a qualcosa, perché in questo modo si reintroduce la

trascendenza, ma è sempre immanente solo a se stessa; quindi non

è“immanenza alla vita, ma l’immanente che non è in niente, è una vita. La

vita personale dell’ individuo con le sue storie negative è superata nello

splendore impassibile e neutro di una vita impersonale, seppure singolare,

di una singolarità pre-individuale, che esprime un puro evento liberato dagli

accadimenti esteriori e limitanti, è una ecceità: una vita al di là di una vita

vissuta.

115
Deleuze Gilles, “L’immanenza: una vita...”, in aut aut, n. 271-272, 1996., p. 4.
116
Ib. p. 5.
117
Ibidem.

60
I.6 Nietzsche il filosofo dell’avvenire.

Deleuze, vede in Nietzsche il primo filosofo capace di creare “qualcosa” di

nuovo in filosofia: un nuovo stile, nuovi modi di esistenza, nuovi valori,

una nuova critica, ciò lo rende il filosofo dell’avvenire.

Nietzsche è qualcosa di completamente diverso, è l’alba di una

controcultura”, poiché mentre il marxismo e la psicoanalisi pongono come

fine “una ricodificazione di ciò che all’orizzonte non cessa di decodificarsi

mediante lo Stato, nel caso del marxismo;o ricodificazione mediante la

famiglia nel caso del freudismo, quella che invece viene prospettata è una

dialettica conservatrice dei codici, dei valori stabiliti.

Nietzsche pone un altro problema “ è il problema della trasvalutazione”,

della trasmutazione dei valori, “una decodificazione assoluta: far passare

qualcosa che non sia codificabile”118, cioè creare dei nuovi valori, affermare

una nuova potenza che faccia di Nietzsche un filosofo dell’“oggi”.

Visto che “la società contemporanea non funziona a partire da codici” 119,

ma soprattutto dell’avvenire, acquista estrema importanza il gesto

inaugurale di Nietzsche, la decodificazione assoluta, la trasmutazione, che

elimina ogni ricodificazione del presente del passato e del futuro che

anticipa un senso nuovo dell’avvenire come sua creazione.


118
Deleuze Gilles, “Pensiero nomade”, in aut aut, n. 276 nov-dic, 1996, p. 15.Ibidem.
119
Ib. p. 14.

61
La critica di Deleuze verso il panorama della filosofia contemporanea è

volta ad affermare la differenza della filosofia di Nietzsche da tutti gli altri

filosofi del suo e del nostro tempo, sottolineando il suo carattere creativo e

di assoluta novità.

Per Deleuze, dunque, leggere Nietzsche è cosa molto diversa che leggere un

qualsiasi altro filosofo, poiché si stabilisce una relazione che non è “né

legale, né contrattuale, né istituzionale”120, ma ci si sente come “imbarcati

con” e si è costretti a “remare insieme condividere qualcosa, al di fuori di

qualsiasi legge, di qualsiasi contratto, di qualsiasi istituzione. Una deriva,

un movimento di deriva o di deterritorializzazione”121. Leggere Nietzsche

allora significa “cercare con quale forza esterna attuale esso fa passare

qualcosa”122, ovvero proseguirne la deterritorializzazione, la

decodificazione, la trasmutazione.

Per questo Deleuze, si situa sulla linea di fuga instaurata da Nietzsche,

cercandone “macchinazioni” attuali, forze che ne diano un nuovo senso,

poiché è la stessa opera di Nietzsche che si pone in contatto con “un puro

fuori”, come un’ “aria pura” che lascia passare nuove forze.

Con Nietzsche Deleuze vede l’affermarsi di una nuova immagine del

pensiero, una nuova pratica filosofica che si contrappone all’immagine

dogmatica del pensiero, come conoscenza del vero, in cui è presupposta una

buona volontà rivolta al vero, e dove il pensiero possederebbe in quanto

tale, il vero , in cui pensare si confonde con il buon uso, un uso retto delle

120
Ib. p. 16.
121
Ibidem.
122
Ib. p 17.

62
facoltà per pensare la verità. Tale critica è un punto molto importante per

Deleuze, infatti essa verrà ripresa in Differenza e ripetizione contro il buon

senso e il senso comune del pensiero.

La conseguenza di tale immagine dogmatica del pensiero è che il vero è

concepito come universale astratto, ed è proprio da qui che si muove la

critica poiché per Nietzsche “non c’è verità che prima di essere una verità,

non sia la realizzazione di un senso o di un valore” 123, in altre parole non

esiste una verità in sé, indipendente dalle forze o dalla potenza che agiscono

in essa, per cui “la verità di un pensiero deve essere interpretata valutata in

base alle forze o alla potenza che lo inducono a pensare un cosa piuttosto

che un’altra”124.

Quindi il pensiero con Nietzsche non si muove più nell’elemento astratto

del vero, ma in quello reale del senso e del valore. Deleuze vede in

Nietzsche il filosofo della differenza, della molteplicità del pluralismo, che

garantisce una libertà concreta al pensiero.

Per Deleuze è grazie alle nozioni di senso e di valore, introdotte da

Nietzsche che , possiamo scorgere un modo di essere, di esistere.

Infatti, Nietzsche ribalta la concezione classica dei valori e in questo opera

un vero sovvertimento critico: la valutazione, intesa nel senso classico,

presuppone dei valori in sé, considerati come principi. valori ad essa

corrispondenti: elemento critico e creativo al tempo stesso”125.

123
Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 132.
124
Ibidem..
125
Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. pp. 31-32.

63
Con tale scoperta del valore dell’origine è possibile realizzare una critica

totale, poiché il filosofo-genealogista interpreta e valuta tutti i fenomeni e

tutti i valori a partire da una domanda.

Per Deleuze Nietzsche è colui che resiste al dentro, a cui oppone una

potenza di deterritorializzazione,cioè la potenza di un puro fuori, che

investe tutti i codici ed elimina ogni possibilità di ricodificazioni:

“Nietzsche fonda il pensiero , la scrittura , su un supporto immediato un

aforisma che non vuole dire niente, non ha più né significante né

significato, ovvero quelle modalità che servono a restaurare l’interiorità di

un testo” 126 .

Così facendo si trasforma il pensiero in “una potenza nomade”. Quindi è

sempre con altre forze che la forza entra in relazione, ed è questo il senso

del pluralismo della filosofia di Nietzsche, che Deleuze precisa poiché tale

rapporto tra le forze non ha nulla di dialettico. Si stabilisce invece un

rapporto gerarchico per cui una forza domina, ed un’altra viene dominata ,

riconoscere la loro differenza non indica nessuna negazione dialettica dell’

una sull’altra. Vi sono dunque due specie di forze: quelle dominanti che

hanno come loro qualità l’attività, e quelle dominate che sono qualificate

come reattive, ma rimangono forze che esercitano le loro finalità.

Esse rappresentano la coscienza., mentre le forze attive sono inconsce, ma il

loro ruolo è fondamentale poiché senza di esse “le reazioni non potrebbero

venir considerate in termini di forza”127. Per cui vi è una differenza di

126
Deleuze Gilles, “Pensiero nomade”, in aut aut, op. cit. pp. 16-17.
127
Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 70.

64
qualità tra le due forze, che corrisponde alla loro differenza di quantità: “la

differenza di quantità costituisce l’essenza della forza, il rapporto tra una

forza e un’altra”128. Quindi, la critica di Nietzsche si pone verso tutti coloro

che vogliono negare le differenze tra le forze, poiché essi così facendo

vogliono “negare la vita, svalutare l’esistenza preannunciandole una morte

che precipiti l’universo nell’indifferenziato”129, ed è per questo motivo che

Deleuze vede in Nietzsche il filosofo dell’affermazione della differenza

contro ogni dialettica dell’opposizione e della riconciliazione.

Infatti, quando si elimina la differenza originaria tra forze attive e reattive,

quando non si afferma la genealogia come valore dell’origine, come

differenza nell’origine, si assiste al trionfo del nichilismo, delle forze

reattive, che Nietzsche denuncia nelle figure del risentimento, della cattiva

coscienza, e dell’ideale ascetico ; ma perché questo trionfo sia possibile

occorre ancora una volontà che lo affermi.

Il concetto di forza implica un rapporto tra forze, una duplicità della forza

che Nietzsche chiama volontà di potenza quale elemento differenziale della

forza.

Ma la volontà di potenza perché sia l’origine delle qualità delle forze, deve

avere delle qualità diverse da quelle della forza, essa infatti ha come sue

due qualità originarie, l’affermativo e il negativo, che entrano in rapporto

con le due qualità originarie delle forze, l’azione e la reazione. Per cui si

stabiliscono delle affinità tra l’affermazione e l’azione, tra la negazione e la

128
Ib. p. 72.
129
Ib. p. 74.

65
reazione, ma esse rimangono distinte poiché “l’azione e la reazione sono

più che altro dei mezzi, degli strumenti di cui la volontà di potenza si serve

per affermare o negare”130

Esse costituiscono la catena del divenire e insieme la trama delle forze” 131.

La volontà di potenza, dunque, si presenta sotto due aspetti : come

negazione, cioè volontà del nulla che genera un divenire-reattivo delle

forze, ovvero il nichilismo; e come affermazione, volontà di affermare la

vita, da cui deriva il divenire attivo delle forze.

Il problema è capire che questi due aspetti hanno un significato molto

diverso fra loro. Il nichilismo è la svalutazione della vita, ovvero la

negazione come qualità della volontà di potenza, ma tale definizione è

insufficiente se non si capisce il ruolo svolto dal nichilismo: è esso infatti

che ci fa conoscere la volontà di potenza, ma solo come volontà del nulla:

“il nichilismo, la volontà del nulla, non è soltanto una volontà di potenza o

una sua qualità, ma è la ratio cognoscendi della volontà di potenza in

generale e tutti i valori conosciuti e conoscibili ne derivano per natura”132.

Il nichilismo ci fa conoscere solo un aspetto della volontà di potenza e lo

assume come unico, ma la volontà di potenza a sua volta rivela all’interno

del nichilismo stesso un’altra faccia che va contro esso: “la faccia

sconosciuta, l’altra qualità della volontà di potenza, la qualità sconosciuta,

l’affermazione. Ma l’affermazione non è solo una volontà di potenza : essa

è ratio essendi della volontà di potenza in generale, ratio essendi dell’intera

130
Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 82.
131
Ib. pp. 82-83.
132
Ib. p. 200.

66
volontà di potenza, dunque,ragione che espelle il negativo dalla volontà,

così come la negazione era la ratio cognoscendi di tutta la volontà di

potenza ”133

Infatti lo scopo della filosofia di Nietsche è la liberazione dal nichilismo,

che può avvenire proprio grazie ad una trasmutazione all’interno della

volontà di potenza. Volontà di potenza, non significa, dunque, volontà di

potere, di dominio, ma principio dell’affermazione, “virtù che dona”, ciò

che Deleuze chiama desiderio.

Infatti, vi è una continuità tra la nozione di volontà di potenza nietzscheana

e quella di desiderio che Deleuze sviluppa nell’ anti-Edipo, dove il

problema da cui si parte è lo stesso di Nietzsche: si tratta cioè di capire

perché trionfano le forze reattive e quali sono le forze, le potenze capaci di

superarle. Il punto da cui prendono le mosse Deleuze e Guattari, è quello di

Nietzsche, insomma capire che per sconfiggere le forze repressive bisogna

individuarne il desiderio che ne è alla base, la volontà del nulla, poiché il

problema fondamentale della filosofia politica è la risposta alla domanda,

“perché degli uomini sopportano da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la

schiavitù, al punto di volerle non solo per gli altri, ma anche per se

stessi ?”134. Ma la spiegazione non può avvenire distinguendo tra razionalità

e irrazionalità poiché invece bisogna scoprire “la comune misura o la

coestensività del campo sociale e del desiderio”135, insomma il desiderio fa

parte della realtà materiale della produzione sociale, esso non produce

133
Ibidem.
134
Deleuze Gilles, Guattari Felix, L’anti-Edipo.. Capitalismo e schizofrenia, op. cit. p. 32.
135
Ibidem.

67
fantasmi ma del reale: Il fantasma non è mai individuale, è fantasma di

gruppo”136.

Quindi, ci sono due fantasmi di gruppo “a seconda che le macchine

desideranti siano prese nelle grandi masse gregarie che esse formano, o a

seconda che le macchine sociali siano ricondotte alle forze elementari del

desiderio che le formano. Può dunque capitare, nel fantasma di gruppo, che

la libido investe il campo sociale esistente, anche nelle sue forme più

repressive: oppure al contrario che essa proceda ad un contro investimento

che innesta sul campo sociale esistente il desiderio rivoluzionario” 137. Il

problema è capire che se pur tra le macchine desideranti e le macchine

sociali non ci sia differenza di natura.

Certamente , vi è una differenza di regime, tale che, una forma sociale di

produzione esercita una repressione sulla produzione desiderante: “è di

importanza vitale per una società reprimere il desiderio, anzi trovar meglio

della repressione, perché la repressione, la gerarchia, lo sfruttamento,

l’asservimento, siano essi stessi desiderati” 138, dunque si presenta lo stesso

problema di Nietzsche: l’interiorizzazione della repressione che dà origine

alla cattiva coscienza, cioè ad una forza reattiva, al desiderio di repressione.

Per Deleuze e Guattari, il desiderio nel suo senso affermativo è stato

sottoposto ad una durissima repressione per renderlo gregario e assoggettato

a forze reattive, in particolare la psicoanalisi, ha cercato di renderlo passivo,

improduttivo e reazionario, persuadendo il desiderio di una sua

136
Ib. p. 33.
137
Ibidem.
138
Ib. p. 129.

68
colpevolezza edipiana, adoperando tale mistificazione per rovesciare il

desiderio contro se stesso. La grande impresa della psicoanalisi è stata

quella di legare il desiderio alla mancanza, rendendolo reattivo, separando

la forza attiva del desiderio da ciò che essa può e riducendolo al fatto che

essa non può poiché manca sempre di qualcosa. Al desiderio come

mancanza, Deleuze e Guattari contrappongono la schizofrenia come

desiderio attivo e rivoluzionario, che si distingue dalla schizofrenia come

entità psichiatrica resa passiva dalla ospedalizzazione, essa si pone come il

limite interno della produzione sociale stessa, cioè del capitalismo; e se il

capitalismo rappresenta l’ultima forma del nichilismo, la schizofrenia può

rappresentare la sua fine rendendone la deterritorializzazione relativa,

perché è già sempre anche una riteritorrializzazione, assoluta.

In realtà il pensiero dell’eterno ritorno è un pensiero di “distruzione attiva”

delle forze reattive : “l’eterno ritorno produce il divenire attivo” 139, poiché

esso è in rapporto essenziale con la volontà di potenza “con e attraverso

l’eterno ritorno la negazione, si trasmuta in affermazione, diventa

affermazione della negazione stessa, diventa potenza di affermare” 140, per

cui l’unica qualità della volontà di potenza sarà l’affermazione.

L’eterno ritorno si pone dunque come essere del divenire-attivo, che

elimina ogni divenire reattivo, poiché esso opera la trasmutazione che

elimina ogni potere del negativo e attraverso la volontà di potenza lo

trasforma in affermativo. Ma ciò che costituisce l’essenza dell’affermativo

139
Deleuze Gilles, Nietzsche e la filosofia, op. cit. p. 98.
140
Ib. p. 99.

69
è la differenza: “l’eterno ritorno non è affatto un pensiero dell’identico ma,

al contrario, è un pensiero sintetico, un pensiero dell’assolutamente

differente che rivendica il principio della riproduzione del diverso come

tale, il principio della ripetizione della differenza”141. Con questa scoperta

dell’eterno ritorno, per Deleuze, Nietzsche individua il terzo tempo, cioè il

tempo dell’avvenire ma non inteso come un futuro bensì la linea retta

dell’avvenire che coincide con il rivenire stesso Il problema è capire che

nella ripetizione dell’eterno ritorno torna solo la ripetizione come

differenza. Per Deleuze con l’eterno ritorno si realizza l’univocità

dell’essere come ripetizione della differenza: “l’essere si dice secondo

forme che non rompono l’unità del suo senso,si dice in un solo e stesso

senso Ma ciò di cui esso si dice differisce, ciò di cui si dice è proprio la

differenza il Tutto è uguale e il Tutto torna possono dirsi solo là dove si è

raggiunto il punto estremo della differenza”142.

Con l’eterno ritorno la ripetizione “fa” la differenza, inaugurando una

ontologia del molteplice in cui ha valore soltanto la gioia come

affermazione della differenza.

La grande scoperta di Deleuze, è dunque quella di far “risuonare il rivenire

con la differenza”143, poiché lega l’eterno ritorno ad un pensiero “selettivo”,

che consiste esattamente nel “fare la differenza”, cioè nel lasciare apparire

solo le forme estreme, quelle che “si dispiegano nel limite e vanno fino al

fondo della potenza, trasformandosi e trapassando le une nelle altre.


141
Ib. p. 75.
142
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit. pp. 481-482.
143
Foucault Michel, “Theatrum Philosophicum”, introduzione a Differenza e ripetizione, op. cit. p.
XXIV.

70
Ritorna solo ciò che è estremo, eccessivo, ciò che passa nell’altro e diviene

identico”144. Questo mondo Deleuze lo chiama il mondo dei simulacri, in

cui “ il differente si relaziona al differente mediante la stessa differenza” 145,

dove non vi è più nessuna identità o somiglianza preesistente, poiché tutto è

in esso differenza. Infatti il simulacro è il sistema attraverso il quale l’idea

di un modello, di un originale è rovesciata, contestata, poiché esso si

afferma come immagine senza somiglianza, che si distingue dalla copia.

Per Deleuze, si tratta di far risalire il simulacro alla superficie, per negare

sia l’originale, sia la copia; sia la somiglianza, sia l’identità, poiché adesso

ciò che viene prima, ovvero potenza prima non è né l’identico, né lo

stesso,né il simile, ma il simulacro, la differenza in sé è potenza prima, per

cui il medesimo e il simile sono soltanto simulati, ossia prodotti dal

funzionamento del simulacro stesso.

In questo senso non vi è nessuna identità preliminare, né tantomeno essa

viene in seguito, poiché il Medesimo e il Simile, in quanto simulazioni

“ruotano attorno alla differenza e si dicono della differenza in sé. La

differenza del simulacro è una differenza sempre eccessiva, sempre mobile,

che non può mai essere identificata, e se essa fa da centro nel cerchio

dell’eterno ritorno, è un centro “sempre decentrato per una circonferenza

eccentrica”146, in questo senso Foucault dice che non bisogna pensare che

“il ritorno è la forma di un contenuto che sarebbe la differenza; ma che da

una differenza sempre nomade, sempre anarchica, dal segno sempre in

144
Deleuze Gilles, Differenza e ripetizione, op. cit., p. 74.
145
Ib., p. 474.
146
Deleuze Gilles, Logica del senso, op. cit., p. 264.

71
eccesso, sempre spostato del rivenire, si è prodotta una folgorazione che

porterà il nome di Deleuze: ora, un nuovo pensiero è possibile; il pensiero,

di nuovo, è possibile”147.

147
Foucault Michel, “Theatrum Philosophicum”, op. cit., p. XXIV.

72
I.7 Foucault e la critica del linguaggio

Una profonda e lunga amicizia lega Deleuze e Foucault, attraversata da

continui confronti e scambi su temi comuni o differenti che li toccava

entrambi. Così come vivono insieme esperienze politiche importanti degli

anni 70, come il Gruppo Informazioni Prigioni, fondato da Foucault, e a cui

Deleuze partecipa con entusiasmo. Foucault scriverà pagine molto belle e

appassionanti su Differenza e ripetizione e Logica del senso o sull’Anti-

edipo che legge come “una introduzione alla vita non fascista” 148, in cui il

desiderio è un’arte.

Deleuze, d’altra parte, scrive un libro su Foucault, quando l’amico era già

morto, un libro che avrebbe amato scrivere con lui, in cui analizza le tappe

del pensiero di Foucault, sottolineandone passaggi e evoluzioni.

Prima di tutto, per Deleuze Foucault è “un archivista”, poiché scopre una

potenza nuova del linguaggio: l’enunciato, in quanto diverso dalle

proposizioni e dalle frasi, dal significato e dal significante. Già nella sua

Logica del senso, operava una simile critica al linguaggio come

proposizione, in quanto costruito su una logica del significato e del

significante trascendenti il linguaggio stesso, che lo rinchiude e lo riduce a

una rete di significati già dati e lo lega a soggetti già formati, a vantaggio
148
Foucault Michel, “L’anti-Oedipe : une introduction a la vie non fasciste”, in Magazine
littéraire, n.257, sept.

73
della scoperta della dimensione di un senso impersonale del linguaggio, che

nasce da eventi che sono la “frontiera” tra le parole e le cose e che non ha

più nulla a che fare né con un soggetto della frase, né con un oggetto da

designare.

Ma per Deleuze l’enunciato è una formazione del desiderio: “il desiderio è

il sistema dei segni a-significanti cioè enunciati, con i quali si producono

dei flussi d’inconscio in un campo sociale” 149, che viene represso dalla

psicoanalisi nel suo potere di interpretazione e codificazione dei flussi degli

enunciati, che vengono da essa “schiacciati, soffocati.

È impossibile produrre un enunciato senza che venga ricondotto a una

griglia interpretativa prefabbricata. La psicoanalisi è una formidabile

costruzione fatta per impedire qualsiasi produzione di enunciati come

desideri reali”150. Quindi la psicoanalisi come potere di interpretazione,

opera sempre un tradimento e una repressione dell’enunciato desiderante,

andando a cercare un significato nascosto oltre esso, operando una

codificazione dei flussi e dei concatenamenti molteplici e reali propri

dell’enunciato stesso e sottomettendolo a un “soggetto d’enunciazione” che

in realtà non esiste. Dunque, l’enunciato per Deleuze appartiene al

desiderio, mentre vedremo che per Foucault esso deriva dal potere.

Qui è forse la grande differenza tra Deleuze e Foucault, che lo stesso

Deleuze mette in evidenza in un breve articolo su Foucault, laddove egli

vede in Foucault un primato del potere sul desiderio, mentre per lui è

149
Deleuze Gilles, Parnet Claire, Conversazioni, op. cit., p. 92.
150
Deleuze Gilles, Guattari Felix, Parnet Claire, Scala A., “L’interpretazione degli enunciati”, in
aut aut, n.191-192, 1982, p. 92.

74
esattamente il contrario: “io ritrovo il primato del desiderio, poiché il

desiderio è precisamente nelle linee di fuga, coniugazione e dissociazione di

flussi”151.

Ma che cos’è l’enunciato per Foucault? “Una serie di lettere che traccio a

caso, o che ricopio nell’ordine in cui sono disposte sulla tastiera di una

macchina per scrivere”152.

Quindi non è la tastiera con le lettere ma “la curva che passa vicino ad

esse”153 e le congiunge, è una ripetizione “sebbene ciò che ripete sia

qualcosa altro che può essergli stranamente identico”154, in altri termini le

lettere sulla tastiera sono singolarità, intese come un insieme di fuochi di

potere, di rapporti di forza che l’enunciato presuppone e ripete.

In questo senso l’enunciato rinvia solo a qualcosa che gli appartiene e non a

un senso che lo trascende o a un significato nascosto da scoprire, esso è “la

semplice inscrizione di ciò che è detto”155, in cui ogni realtà si manifesta, è

“l’essere del linguaggio il c’è del linguaggio” 156, in cui il soggetto non è

presupposto affinché cominci un discorso, essendo l’enunciato una

formazione anonima, che costituisce un soggetto solo come una sua

funzione derivata. Il soggetto, è sempre e solo un prodotto : per Foucault

del potere, per Deleuze del desiderio. Ma l’enunciato rappresenta solo una

forma del sapere, l’altra è il visibile che ci porta direttamente nel campo del

potere.
151
Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 62.
152
Deleuze Gilles, Foucault, op. cit. p.14.
153
Ib. p. 15.
154
Ib. pp. 22-23.
155
Ib. p. 26.
156
Ib. p. 27.

75
Le due formazioni del sapere sono per Foucault, l’enunciato e il visibile,

formazione discorsiva e formazione non-discorsiva, ma entrambe sono

sapere.

Esiste infatti un regime della luce che appartiene al sapere e che insieme

all’enunciato costituisce gli strati che rendono possibile una conoscenza,

cioè le sue formazioni storiche.

Ora, il visibile non è ciò che è direttamente o immediatamente visibile, così

come l’enunciato è “al tempo stesso non visibile e non nascosto” 157, perché

l’enunciato sia visibile occorre “fendere, aprire le parole, le frasi o le

proposizioni”158, così come per rendere visibili le visibilità, occorre fare la

stessa cosa, poiché esse “non sono forme di oggetti, e nemmeno forme che

si rivelerebbero nel contatto tra la luce e la cosa, ma forme di luminosità,

create dalla luce stessa”159.

In tal senso l’enunciato e il visibile, sono condizioni a priori del sapere, ma

in quanto la condizione è immanente all’epoca storica a cui appartiene, è un

a priori storico.

Per Deleuze come per Foucault, la condizione non è mai più estesa o più

larga del condizionato poiché è sempre ad esso immanente, cosicché essa

varia a seconda delle formazioni storiche considerate.

Ma la cosa importante è che vi sia una irriducibilità reciproca tra

l’enunciato e il visibile, così come per Deleuze in Logica del senso, vi era

una irriducibilità tra le cose e le proposizioni che scavava un interstizio in

157
Ib. p. 26.
158
Ib. p. 59.
159
Ibidem.

76
cui il senso si poneva quale frontiera “tra” esse, superficie del fuori, e in cui

lo spazio, il “tra” è un “fra-tempo” come tempo dell’evento che non si

confonde mai con la sua effettuazione in stati di cose.

Ma per capire meglio tale irriducibilità su cui insiste Foucault, occorre

risalire alle distinzioni “esemplari” che lui pone rispetto a tali forme. Il

visibile, per esempio, concerne la prigione: “è un regime di luce ancor

prima di essere una figura di pietra, è definita dal panoptismo, è cioè da un

concatenamento visivo in cui il sorvegliante può vedere tutto senza essere

visto, e in cui i detenuti possono essere visti in ogni istante senza a loro

volta vedere”160, mentre l’enunciato, in questo caso, concerne il diritto

penale.

Per Foucault, vi è dunque una differenza, una esteriorità tra enunciato e

visibile, che richiede una terza dimensione, questa volta informale, affinché

abbia luogo un rapporto che avviene sempre in uno spazio di esteriorità, ciò

che Deleuze, chiama un “non-rapporto”. Quest’altra dimensione, è il potere.

Per Foucault, dunque, le due formazioni del sapere rinviano,

presuppongono il potere, stabilendo così un primato del potere che

potremmo definire in termini deleuziani come il piano di immanenza

costitutivo, “all’origine” di ogni realtà, mentre abbiamo visto che per

Deleuze tale piano del reale appartiene al desiderio.

Ma il potere, per Foucault, non è l’Ordine stabilito una volta per tutte, non

ha un centro, un cuore da combattere, perché esso non ha una forma

160
Ib. p. 40.

77
definita, è bensì un “rapporto di forze”161, e Foucault, come già Nietzsche,

intende la forza nel suo essere plurale: “la forza non è mai al singolare, la

sua caratteristica essenziale è di essere in rapporto con altre forze, di modo

che ogni forza è già rapporto, e cioè potere”162.

Ciò significa, secondo Deleuze, che la forza viene sempre da un Fuori,

poiché essa è in sé plurale; ed è proprio questo concetto del Fuori che

Deleuze vede in tutta l’opera di Foucault, anche laddove Foucault sembra

ossessionato dalle pratiche di internamento.

Si tratta per Deleuze sempre di descrizioni che tengono conto di un fuori

che le attraversa. Questa concezione del potere come derivante da un fuori,

Foucault la struttura a partire da una critica alle concezioni tradizionali del

potere, e in particolare quelle della sinistra. Secondo esse il potere esprime

la “proprietà di una classe che l’avrebbe conquistato” 163, mentre per

Foucault il potere è una strategia “lo si esercita più che possederlo” 164, e in

questo senso esso non è mai localizzabile in un centro, lo Stato, la Chiesa,

ecc., poiché lo Stato stesso è il risultato di rapporti di forze molteplici che

costituiscono “una microfisica del potere”165.

Dunque, non c’è Il potere, ma i poteri, dispersi e diffusi dappertutto, per

questo ogni rivoluzione fallisce quando crede di trovare “un cuore” del

potere da abbattere, ma forse ciò avviene solo perché si cerca un centro, un

cuore, giusto per prenderne il posto.

161
Ib. p. 75.
162
Ibidem.
163
Ib. p. 33.
164
Ib. p. 34.
165
Ibidem.

78
Così come il potere, secondo Foucault non è subordinato a una struttura

economica, ma è esattamente il contrario.

Ma vi è un’altra condizione del potere, posta da Foucault, che però poco

convince Deleuze, secondo cui il potere non reprimerebbe. Ritorna la

differenza tra Foucault e Deleuze, per il quale i dispositivi di potere avendo

un carattere secondario rispetto al desiderio conservano “un effetto

repressivo, poiché essi schiacciano, opprimono, non il desiderio come dato

naturale, ma i punti di concatenamento del desiderio i quali invece non

hanno a che vedere con la repressione”166.

Secondo Deleuze, le forme di repressione, che sono molteplici “si

totalizzano facilmente dal punto di vista del potere : la repressione razzista

contro gli immigrati, la repressione nelle fabbriche, la repressione

nell’insegnamento, la repressione contro i giovani in generale”167, ovvero

anche se come dice Foucault il potere non agisce attraverso l’ideologia, ha

però per Deleuze una visione totale o globale, in quanto esso rappresenta

una unità di tutte queste forme di repressione.

Ma Foucault non ignora, certamente, che la repressione o la violenza siano

procedure del potere, solo che esse esprimono l’effetto di una forza su

qualcosa, e non rappresentano la relazione di potere, cioè “il rapporto della

forza con la forza” che è una funzione “positiva” del tipo “incitare,

suscitare, combinare”168, ovvero i dispositivi di potere, prima di tutto, cioè

166
Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 61.
167
Deleuze Gilles, Foucault Michel, “Gli intellettuali e il potere”, in Deleuze, Lerici, Cosenza, op.
cit., p. 63.
168
Deleuze Gilles, Foucault, op. cit. p.37.

79
prima di reprimere, normalizzano e disciplinano, per Deleuze invece

codificano e riterritorializzano.

Per Foucault, il potere innanzitutto “produce reale”169, laddove per Deleuze

tale produzione appartiene ai concatenamenti del desiderio, che hanno

molte dimensioni e in cui “i dispositivi di potere non sarebbero che una di

queste dimensioni”170. Quindi, un concatenamento di desiderio comporterà

dei dispositivi di potere, ma “bisognerà situarli fra le differenti componenti

del concatenamento”171, cioè occorre operare delle distinzioni all’interno di

un concatenamento: da una parte, avremo linee di territorialità o di

riterritorializzazione, e dall’altra, movimenti di deterritorializzazione che

trascinano il concatenamento stesso. I dispositivi di potere sorgono dove “si

operano delle ri-territorializzazioni, anche astratte” 172, mentre le

deterritorializzazioni riguardano le linee di fuga del desiderio, che sono

primarie rispetto ai dispositivi di potere, i quali non “concatenerebbero, né

sarebbero costituenti”173 del desiderio stesso, ma che operano una

“legatura”, una repressione delle linee di fuga del desiderio, le quali però

continuano sempre a “far scorrere”, far passare dei flussi sotto i codici

sociali dei poteri che vogliono canalizzarli, sbarrarli. È come se, sia

Deleuze, sia Foucault, ognuno per conto suo, volessero dirci che il potere

non è qualcosa di esterno, estraneo a noi, un nemico preciso fuori di noi da

abbattere, ma appartiene a noi stessi. Secondo Foucault, ovunque vi siano

169
Ibidem.
170
Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 61.
171
Ib. p. 60.
172
Ibidem.
173
Ibidem.

80
relazioni di forze (e purtroppo, quale non lo è?), ovunque vi sia linguaggio,

sapere, azione, passione, molteplicità, da cui deriva Stato, prigione,

famiglia, scuola, ecc., insomma sembra che per Foucault tutto è potere,

poiché esso è immanente a ogni realtà, e non trascendente.

Secondo Deleuze il potere è altrettanto interno ai concatenamenti reali, è

altrettanto interno a noi come desiderio di potere, desiderio di fascismo, ma

solo in quanto desiderio gregario o paranoico, che non ha niente a che fare

con la vera natura del desiderio schizofrenico, che con le sue linee di fuga

continuamente va contro il potere.

Ma l’analisi dettagliata di Foucault sul potere è molto importante, poiché

facendo una microfisica del potere scopre tutti i piccoli nascondigli in cui si

annida potere, e in cui solo apparentemente sembra non esserci, e

considerandolo non come immobile, ma fuggente e sfuggente, riesce a

seguirne le molteplici direzioni, che altrimenti mai sarebbero state svelate, e

quindi a offrirci anche mezzi nuovi e potenti per combatterlo.

Quando Foucault dice che il potere produce verità, ci dice anche che il

potere non si nasconde, non è celato, ma bisogna saper leggere e vedere ciò

che dice e fa, e dove esso si sta esercitando. In questo senso, per Foucault,

la repressione non è il dato importante del potere, se per esempio

consideriamo la sessualità, si può credere a “una repressione sessuale insita

nel linguaggio se ci si attiene alle parole e alle frasi ; ma questo non è

possibile se si isolano gli enunciati dominanti, e specialmente le procedure

di confessione esercitate nelle chiese, nelle scuole, negli ospedali, che

81
cercano contemporaneamente la realtà del sesso e la verità nel sesso” 174,

allora ecco che bisogna leggere gli enunciati, che proprio in quanto

derivano dal potere lo rendono dicibile e quindi esposto a un qualche

possibile attacco.

Questo è dunque il compito dell’archeologia : “aprire le parole, le frasi e le

proposizioni, aprire le qualità, le cose e gli oggetti” 175, per far emergere gli

enunciati e le visibilità di potere. Infatti, enunciato e visibile attualizzano,

integrano, dando forma a istituzioni, le linee fluide dei rapporti di forza del

potere, che altrimenti rimarrebbero evanescenti, non visti, non saputi,

poiché “i rapporti di potere sono rapporti differenziali che determinano

delle singolarità”176, e tali singolarità rimarrebbero ad uno stato embrionale

se non ci fosse il sapere che traccia come “una linea di forza generale, che

ricollega le singolarità, le allinea, le rende omogenee, le mette in serie, e le

fa convergere”177.

Ma per Foucault il primato del potere sul sapere fa sì che “le due forme

eterogenee del sapere si costituiscono mediante integrazione, e all’interno

di condizioni proprie soltanto alle forze, entrano in un rapporto indiretto al

di sopra del loro interstizio o del loro nonrapporto”178, ciò può avvenire

perché il potere opera nello spazio del Fuori : “proprio là dove il rapporto è

un non-rapporto, il luogo un non-luogo, la storia un divenire”179.

174
Deleuze Gilles, Foucault, op. cit. p.37.
175
Ib. p. 60.
176
Ib. p. 80.
177
Ibidem.
178
Ib. p. 85.
179
Ib. p. 89.

82
Questo fuori delle forze riguarda il pensiero stesso: “il pensare riguarda un

fuori che non ha forma. Pensare è il pervenire al non-stratificato. Vedere è

pensare, parlare è pensare, ma il pensare si produce nell’interstizio, nella

disgiunzione tra vedere e parlare”180. Questo fuori è anche “prendere

distanza”181, stare “fuori del vedere e del pensare che fa corrispondere

l’immagine e la cosa”182, è trovare un’altra pratica di pensiero, quale quella

di “rendere invisibile ciò che si vede per imparare a vederlo, non per vedere

altro ma perché possa accadere altro per giungere fino in fondo al fuori” 183,

quello della metafora che è sempre un altrove, ma che è anche il “qui” di

una nuova visione, di un nuovo pensiero.

Questa dimensione del Fuori, è molto importante per Deleuze, poiché è la

dimensione che può portare a un superamento del potere stesso.

Infatti, le forze del fuori esprimono cambiamento, divenire, mutamento,

perché esse non sono stratificate, formate, ma sempre mobili, sempre

“agitate” per cui operano cambiamenti sulle forme del sapere e permettono

l’accesso del nuovo, e tale potere di modificazione esprime una nuova

dimensione della forza oltre a quella di subire o produrre affezioni, è la

“capacità di resistenza, singolarità di resistenza, per esempio punti, nodi,

fuochi, che si attuano a loro volta sugli strati, in modo però da renderne

possibile il cambiamento”184.

180
Ib. p. 90.
181
Ferraro Giuseppe, “Arte della disclocazione e pratica della separazione”, in Nietzsche
Friedrich, Su verità e menzogna fuori del senso morale, (a cura di Ferraro G.), Filema, Napoli,
1998, p. 93.
182
Ib. p. 94.
183
Ib. pp. 93-92.
184
Deleuze Gilles, Foucault, op. cit. p. 92.

83
Ma la resistenza significa anche resistenza al potere stesso, infatti quando il

potere diventa “biopotere”, cioè assunzione e gestione della vita “la

resistenza al potere fa già appello alla vita e la rivolge contro il potere.

La vita diviene resistenza al potere quando il potere assume ad oggetto la

vita”185. È come se Foucault trovasse il modo di combattere e superare il

potere all’interno del potere stesso, infatti le forze di cambiamento e del

nuovo appartengono al potere stesso, ma nel momento in cui esse appaiono

si rivolgono contro esso, la resistenza del potere diventa resistenza al

potere, quindi l’unica lotta possibile può avvenire solo seguendo le linee

fluide, le linee del fuori del potere, nei termini dell’Anti-edipo, il

capitalismo in quanto deterritorializzazione-riterritorializzazione, è una

forma di potere che può essere combattuto solo dal suo limite interno, la

schizofrenia, la deterritorializzazione assoluta. Vi è dunque un rapporto

dentro/fuori tale che rovescia ogni dentro in un fuori e ogni fuori in un

dentro, la lotta non si fa fuori del sistema poiché il sistema stesso è già

attraversato da un fuori, che si tratta, però, di rendere assoluto, la

deterritorializzazione della forza va resa assoluta : “la vita deve essere

liberata nell’uomo stesso, perché l’uomo è stato un modo di

imprigionarla”186.

Questo fuori non è, dunque, affatto separato da un dentro, che però non ha

niente a che fare con l’interiorità di una coscienza, è invece “un dentro più

185
Ib. pp. 94-95.
186
Ib. p. 95.

84
profondo di ogni mondo interiore, così come il fuori è più lontano di ogni

mondo esteriore”187.

Il fuori non è un limite fisso, ma è animato da movimenti “da pieghe e

corrugamenti che costituiscono un dentro del fuori”188.

Il pensiero per Deleuze, proviene sempre da un fuori, ma questo fuori sorge

dal dentro come l’impensato del pensiero “impossibilità di pensare che

raddoppia o scava il fuori”189.

Il dentro è solo la piega del fuori “come se la nave fosse un piegamento del

mare”190, il dentro è già sempre un fuori, ciò che Foucault definisce il

“doppio”, o simulacro per Deleuze: “un raddoppiamento dell’Altro. Non

una riproduzione dello stesso, ma una ripetizione del Differente non è

l’altro, che è un doppio, sono io che mi vivo come il doppio dell’altro : non

incontro me stesso all’esterno, ma trovo l’altro in me” 191, come diceva

Rimbaud “l’io è un altro”, la differenza è sempre interna. Allora, la piega, il

raddoppiamento, consiste in un gioco di differenza e ripetizione, in cui la

“fodera” della piega è “strappata” affinché il tessuto esterno si torca, si

raddoppi per mostrare come “il dentro sia sempre il piegamento di un

fuori”192. Questo ripiegamento del fuori nel dentro, Foucault lo trova nei

Greci, in quanto essi hanno scoperto un “rapporto a sé”, un dentro che è la

piega del rapporto con gli altri, il fuori, nel senso che per loro governare gli

187
Ib. p. 98.
188
Ibidem.
189
Ib. p. 99.
190
Ibidem.
191
Ib. p. 100.
192
Ibidem.

85
altri significa governare se stessi, da cui deriva “un rapporto della forza con

sé, un potere di autoaffezione, un’affezione di sé attraverso sé”193.

Tale autoaffezione per i Greci come per Foucault è il piacere, mentre per

Deleuze sulla linea di Spinoza è il desiderio, di nuovo la differenza tra i due

filosofi. Foucault confessa a Deleuze di non sopportare la parola desiderio:

“anche se voi l’impiegate diversamente, io non posso impedirmi di pensare

o di vivere che desiderio equivale a mancanza, o che desiderio si dice

represso”194, Foucault preferisce la parola piacere.

A sua volta, Deleuze non sopporta la parola piacere, ma usa solo desiderio,

perché “il desiderio non comporta alcuna mancanza” 195, ma è processo,

affetto, evento, ecceità, e soprattutto implica la costituzione di un campo di

immanenza, mentre il piacere non ha nessun valore positivo, perché

interrompe “il processo immanente del desiderio esso appartiene agli strati

e all’organizzazione”196, cioè esso è una ri-territorializzazione, sta dalla

parte del potere, poiché interrompe la positività del desiderio e la

costituzione del suo campo d’immanenza in cui il desiderio non manca di

niente. Questo piano di immanenza del desiderio è “una vita”, che si

distingue dalla vita di cui parlava Foucault, in quanto essa non è solo

resistenza al potere, ma è in se stessa potenza positiva e affermativa,

beatitudine, desiderio, creazione. Si tratta, come già abbiamo visto, di due

tipi diversi di immanenza : l’una del potere, l’altra del desiderio, ma

entrambe sono una lotta al potere.


193
Ib. p. 102.
194
Deleuze Gilles, “Désir et plaisir”, in Magazine littéraire, n. 325, 1994, p. 63.
195
Ibidem.
196
Ib. p. 64.

86
87
CAPITOLO II

FIGURAZIONE DEL NOMADISMO NELLA TEORIA

SOCIALE E POLITICA CONTEMPORANEA

88
II.1 Deleuze e il “concetto nomade”.

Lo schema interpretativo che ci è stato proposto da Deleuze nel corso del I

capitolo rinuncia alle false chiarificazioni , per immettersi nella verità delle

complicazioni.

Sia i concetti che il linguaggio che Deleuze usa sono nuovi poiché sono i

concetti e il linguaggio della “molteplicità”. La molteplicità è un

concatenamento costante in cui si verificano delle trasformazioni, dei

“divenire”.

La possibilità di passare da un insieme di esperienze ad un altro rappresenta

una qualità di interconnessione molto apprezzabile.

Tracciare una rete di interconnessione non è necessariamente un atto di

appropriazione, ma segna delle transizioni tra condizioni e esperienze.

Le linee di fuga e l’idea di divenire di cui parla Deleuze sono in

quest’ambito molto suggestive. Il divenire nomade non è riproduzione e

neppure mera imitazione, ma prossimità empatica, intensa interconnessione.

Essere nomadi, vivere in transizione, non significa non poter o non voler

creare quelle basi, necessariamente stabile rassicuranti, dell’identità che

consentono di stare a proprio agio all’interno di una comunità.

La coscienza nomade consiste nel non considerare alcune identità come

permanente.

89
Il nomade è solo di passaggio; lei/lui costruisce delle connessioni

necessariamente situate che le/gli consentono la sopravvivenza, ma non si

fa carico mai pienamente dei limiti di un’unica identità nazionale.

Il nomade non possiede passaporti, oppure ne ha troppi.197

Gli spostamenti nomadici segnano un divenire creativo. Sono una metafora

che consente incontri altrimenti improbabili e mette a disposizione

insospettate fonti di interazioni tra diverse forme di esperienze e

conoscenza.

Deleuze definisce il pensiero come velocità, rapidità che viaggia attraverso

diversi livelli di esperienza, ma la cui sostituzione non dipende né dalle

leggi di causalità né dal codice del significante.

Pensare è un processo di sostituzione nomadica di un io ricettivo. Deleuze

sostiene che il pensiero filosofico è prodotto non nella filosofia ma altrove.

La filosofia è tutto ciò che nell’arte, nella letteratura, nella scienza disfa

l’immagine classica, normativa di pensiero, sostituisce le frontiere di

pensiero, mettendolo in grado di diventare sempre più aperto al multiplo e

all’eterogeneo.198

Per Deluze la filosofia tenta di esprimere la differenza senza la negazione,

segnando cosi il trionfo delle forze positive, della gioia su quelle reattive di

risentimento.

Egli sostiene che l’affermazione della differenza, come positività, passa

inevitabilmente per l’abolizione della dialettica della negazione, in favore di

197
R. Braidotti, Soggetto nomade Femminismo e crisi della modernità, Donzelli 1995, p.40.
198
R. Braidotti, Dissonanze le donne e la filosofia contemporanea La Tartaruga 1994, pp.71-72.

90
un pensiero multiplo, nomade. “Multiplo“ non significa la dispersione delle

forze in campo, ma piuttosto una ridefinizione del soggetto incarnato in

termini di desiderio e di affettività, lanciato, nella velocità, cioè nel tempo.

Questa visione di molteplicità influenza la nozione di “pensiero nomade”

che è letteralmente un monadologia rovesciata.

Deleuze rinuncia alla ricerca di idee giuste, che sarebbero conformi al

sistema di significazione dominante, e preferisce “giusto delle idee”, degli

incatenamenti temporanei di forze espressive, di desideri intellettuali.

L’attività di pensare acquisisce una libertà straordinaria, che l’avvicina alla

creazione artistica propone un ruolo nuovo della soggettività.

Il soggetto pensante deve essere dissociato negli elementi che lo

compongono. Deleuze valorizza la nozione di intensità contrapponendola a

quella di rappresentazione che perciò è in grado di dimostrarne la

differenza.

Deleuze dà una visione del soggetto come massa di energia in

trasformazione costante.

Il nomade non rappresenta l’essere senza dimora o la condizione di

dislocazione obbligata, è piuttosto un soggetto che ha abbandonato ogni

idea, desiderio o nostalgia di stabilità.

Esprime il desiderio di un’identità fatta di transizioni, spostamenti

progressivi, mutamenti coordinati senza o contro ogni idea di unitarietà

essenziali.

Il soggetto nomade non è tuttavia privo di unità.

91
Si muove secondo modelli di spostamento definiti, stagionali, su percorsi

comunque fissati.

Il nomade ha un territorio, segue tragitti usuali, va da un punto ad un altro,

non ignora i punti (punto d’acqua, d’abitazione, d’assemblea ecc.) ma il

problema è sapere che cosa, nella vita nomade ha statuto di principio e che

cosa è semplicemente conseguenza. I punti sono rigorosamente subordinati

ai tragitti che determinano. Il punto d’acqua è fatto per essere lasciato, ed

ogni punto è un ricambio e non esiste che come ricambio.

Un tragitto è sempre tra due punti, ma lo spazio intermedio ha preso tutta

la sua consistenza è gode di un’autonomia come di una direzione propria.

La vita del nomade è intermezzo il nomade non è affatto il migrante; perché

il migrante va essenzialmente da un punto all’altro, anche se l’altro punto è

incerto, imprevisto o mal localizzato.

Ma il nomade va da un punto ad un altro solo per conseguenza e necessità

di fatto: in linea di principio i punti sono per lui dei ricambi di tragitto199.

Il nomade incarna quindi “l’uomo o la donna di idee”200.

Come dice Deleuze, ciò che distingue gli intellettuali nomadi ha a che fare

con l’attraversare i confini, l’atto di andare, senza curarsi della destinazione.

“La vita nomade è l’intermezzo […]. Egli è un vettore di

deterritorializzazione”201. Le transazioni del nomade non hanno scopi

teleologici.

199
Deleuze G.-Guattari f., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Cooper & Castelvecchi,
2003 p. 529.
200
D. Spender, Woman of Ideas and What Men Have Done to Them, The Women’s Press, London
1982.
201
G. Deleuze – F. Guattari, Nomatology: The War Machine, Semiotexte, New York 1986.

92
Per esemplificare il modo di essere nomade Deleuze usa l’immagine del

“rizoma”, una radice che cresce in profondità e di traverso; e Deleuze la

contrappone alle radici dritte degli alberi.

Per estensione, è “come se” l’immagine rappresentasse un modo di pensare

non fallologocentrico: ramificazioni segrete, laterali, che si estendono, in

contrapposizione a quelle visibili, verticali, degli alberi della conoscenza

occidentale.

Il rizoma sta per un’ontologia politica nomade, che in questo modo simile al

cyborg di Donna Haraway, crea i fondamenti mobili per una concezione

post umanista della soggettività. La coscienza nomade è una forma di

opposizione politica, ad una visione della soggettività fondata

sull’egemonia e sull’esclusione.

Deleuze sostituisce la nozione dei limiti o dei margini di pensiero con

quello della sua periferia, affermando che niente accade al centro, che tutto

sta passando e paragona la minoranza in divenire ad una attraversata.

La coscienza nomade è anche una posizione epistemologica.

La storia delle idee è sempre una storia nomade; le idee sono mortali quanto

gli esseri umani soggetti ai capricci del destino.

La figura del nomade ci consente di pensare la diaspora e la disseminazione

delle idee a livello internazionale, non solo in base al trio modello del

turista o del viaggiatore, ma anche come forma di opposizione, come modo

per salvare delle idee condannate alla cancellazione premeditata o

dimenticata per amnesia collettiva indotta.

93
Se cerco di mantenere una distinzione tra immigrato l’esule ed il nomade è

anche perché essi corrispondono a stili e generi diversi e ad un altro

rapporto con il tempo.

Le modalità ed i tempi dello stile dell’esule sono legati ad un acuto senso di

estraneità cui si accompagna una percezione ostile del paese ospitante.

La letteratura dell’esilio è caratterizzata da un senso di perdita o di

separazione dal paese d’origine, spesso per motivi politici, è un orizzonte

perduto.

L’esule sfugge ad ogni tentativo di classificazione, è una specie di unità

senza collocazione di classe.

L’immigrato ha una destinazione precisa. Si sposta da un posto all’altro per

motivi economici, ciò ha creato una serie di “sottoculture” straniere nelle

quale le donne rivestono un ruolo di custodi delle culture d’origine.

L’immigrato si trova in una zona intermedia, e quindi la narrativa delle

origini non fa che destabilizzare il presente.

Il passato è un peso nella letteratura dell’immigrazione, porta in sé una

definizione fossilizzata della lingua che fa persistere il passato nel presente.

Il passato prossimo è il tempo preferito dall’immigrato.

Il nomade non rappresenta l’essere senza dimora, è piuttosto un soggetto

che ha abbandonato ogni idea, desiderio o nostalgia di stabilità. Esprime il

desiderio di una identità fatta di transizione, spostamenti progressivi,

mutamenti coordinati senza o contro ogni idea di unitarietà essenziale.

Il soggetto nomade non è tuttavia privo di unità.

94
Si muove secondo modelli di spostamenti definiti, stagionali, su percorsi

comunque fissati.

La coscienza nomade, è una forma di resistenza all’assimilazione, o

all’omologazione alle modalità dominanti di rappresentazioni dell’io.

Il tempo del nomade è l’imperfetto: è attivo, continuo.

Il nomade percorre la sua traiettoria a velocità controllata. Parla di

transizioni e di paesaggi senza destinazione predeterminata.

Non rimpiange patrie perdute, il nomade intrattiene un rapporto di

attaccamento transitorio e di frequentazioni ciclica con la terra.

Antitesi del contadino, il nomade raccoglie, miete, scambia ma non sfrutta.

Il nomade si distribuisce in uno spazio liscio, occupa, abita, tiene tale

spazio, ed è questo il suo principio territoriale. Perciò è un errore definire

il nomade per il movimento.

Toynbee ha profondamente ragione a suggerire che il nomade è piuttosto

colui che non si muove.

Mentre il migrante abbandona un ambiente divenuto amorfo o ingrato, il

nomade è colui che non se ne va, che si attacca a quello spazio liscio in cui

la foresta si ritrae, in cui la steppa o il deserto crescono e inventa il

nomadismo come risposta a questa sfida.

Naturalmente il nomade si muove, ma resta seduto non è mai seduto se non

quando si muove (il Beduino al galoppo in ginocchio sulla sella, seduto

sulle piante dei piedi voltati all’insù, “prodezza di equilibrio” ).

95
Il nomade sa attendere ed ha una pazienza infinita. Immobilità e velocità

catatonia e precipitazione, “processo stazionario”, la stazione come

processo; questi tratti di Kleist sono eminentemente i tratti del nomade.

Bisogna quindi distinguere la velocità e il movimento: il movimento può

essere molto rapido, non per questo è velocità; la velocità può essere molto

lenta, o anche immobile, tuttavia è velocità […].

Se il Nomade può essere chiamato Deterritorializzato per eccellenza è

precisamente perché la riterritorializzazione non si produce dopo, come il

migrante, ne su altra cosa, come per il sedentario (il sedentario ha con la

terra un rapporto mediato da qualche altra cosa, regime di proprietà,

apparato di stato …).

Per il nomade, al contrario, è la deterritorializzazione a costituire il

rapporto con la terra, così che, egli si riterritorializza sulla

territorializzazione stessa.

La terra medesima si deterritorializza in modo tale che il nomade vi trova

un territorio. La terra cessa di essere terra e tende a divenire semplice

suolo o supporto202.

C’è un forte legame tra nomadismo e violenza. La spietatezza degli

sradicati può essere sconvolgente.

Fin dagli albori dei tempi, le tribù nomadi sono state ciò che Deleuze

chiama “macchine da guerra”, cioè bande abituate a combattere.

Questo aspetto va sottolineato perché ci indica lo spessore politico del

nomade.
202
G. Deleuze – F. Guattari, Millepiani …., op. cit. p 529-531.

96
Centrale per comprendere la violenza nomade è in realtà l’opposizione tra

la città e lo spazio del deserto.

Bruce Chatwin descrive la città come un giardino che nasconde un ovile,

uno spazio agricolo e di allevamento di pecore, a cui si contrappone lo

spazio aperto , il noumos,che è la radice del termine nomade,termine che sta

ad indicare il membro più vecchio del clan, colui che controlla la

distribuzione dei pascoli alla tribù.

Deleuze conferma l’etimologia di Chatwin e rappresenta il principio

opposto a quello della polis: era uno spazio privo di recinzioni, lo spazio del

pascolo, aperto nomade, contro cui furono eretti i poteri sedentari della

città.

Ecco allora lo spazio metropolitano in opposizione alle traiettorie nomadi.

La violenza nomade si oppone a quella di stato: la tribù è un contro esercito.

Il guerriero nomade è vittima della repressione di stato.

La macchina da guerra è di origine nomade ed è diretta contro lo Stato, è

agente potente di mutazione, soggetta continuamente alla

terrritorializzazione, all’istituzione militare da parte del potere.

Nelle società “primitive”, la guerra si manifesta come strumento di attacco

alla formazione dello Stato, la guerra si pone come strumento non naturale,

ma sociale contro lo Stato.

In realtà, Deleuze e Guattari ci ricordano che la forma di Stato, è sempre

presente, coesistendo e concordando con l’esteriorità della macchina da

guerra.

97
Cosi come concorre il sapere nomade della macchina da guerra con il

sapere codificato dello Stato, e lo Stato si occupa di reprimere la scienza

nomade o minore.203.

Il tempo del nomadismo è dunque, la velocità che coincide con la stessa

macchina da guerra.

La macchina da guerra agisce contro lo Stato con atti di guerra che

deterritorializzano rendendo liscio lo spazio.

Le “armi nomadi sono armi di velocità deterritorializzante, simili, ma

diversi, agli utensili. L’arma si muove vorticosamente e libera nello spazio,

l’utensile è mosso.

Cosi la guerra non è l’oggetto necessario della macchina da guerra, ne è

piuttosto, con Derida “supplemento”204.

Volendo sintetizzare il discorso di Deleuze e Guattari:

I La macchina da guerra è l’invenzione nomade che non ha nemmeno la

guerra come oggetto primario, ma come obiettivo secondario,

supplementare o sintetico, nel senso che si trova determinata a distruggere

la forma-Stato o la forma-città con la quale si scontra.

II quando lo Stato si appropria della macchina da guerra, quest’ultima

cambia, evidentemente, natura e funzione poiché viene allora diretta contro

i nomadi e tutti i distruttori di Stato, oppure esprime relazioni tra Stati, in

quanto uno Stato aspira semplicemente a distruggerne un altro o ad

imporgli i propri obiettivi.

203
Mazzone S., Tempo e potere, Milano,Selene, 2004, pp. 111-112.
204
Ivi, p. 114.

98
III ma, precisamente quando lo Stato se ne appropria, la macchina da

guerra tende a prendere la guerra come oggetto diretto e primario , come

oggetto “analitico”. Simultaneamente, insomma, l’apparato di Stato si

appropria della macchina da guerra, la macchina da guerra prende la

guerra per oggetto e la guerra diviene subordinata ai fini dello stato205.

205
G. Deleuze-F. Guattari, Millepiani …, op. cit. p. 573.

99
II.2 Il “divenire donna”

Nella misura in cui l’Uomo è il principale punto di riferimento in una

opposizione binaria centenaria, che ha trasformato la donna nell’altro, nel

sistema Deleuze non è possibile l’uomo in divenire” poiché le linee di fuga

o di detteritorializzazione puntano al “divenire donna” come cammino di

liberazione.

La “donna “in questione, non si riferisce alle donne empiriche, ma piuttosto

ad una posizione e ad un modo di relazione all’attività di pensiero: la donna

è una modalità nomade.

La minoranza designa innanzitutto uno stato di fatto, cioè una situazione di

gruppo che, qualunque sia il numero, è escluso dalla maggioranza, o

incluso ma come frazione subordinata rispetto ad un campione di misura

che fa la legge e fissa la maggioranza.

In tal senso si può dire che le donne , i bambini, il sud, il terzo mondo ecc.,

sono delle minoranze indipendentemente dal loro numero. Ma allora

prendiamo alla lettera questo primo senso.

C’è subito un secondo senso: la minoranza non designerà più uno stato di

fatto, ma un divenire nel quale ci si impegna.

Divenire-minoranza è un fine , e un fine che riguarda tutti, dal momento

che tutti rientrano in questo fine e in questo divenire nella misura in cui

ciascuno costruisce la sua variazione attorno all’unità di misura simbolica

100
e sfugge, da una parte all’altro, al sistema di potere che ne ha fatto una

parte nella maggioranza.

Da questo secondo senso, le donne sono una minoranza, ma nel secondo

senso c’è un divenire-donna che ha a che fare con tutti, e le donne devono

muoversi verso il divenire-donna.

Un divenire-minoranza universale. La minoranza designa qui la potenza di

un divenire, mentre la maggioranza designa il potere o l’impotenza di uno

stato o di una situazione.206

La donna a cui qui ci riferiamo ha una posizione particolare, e un modo

nuovo di relazionarsi all’attività di pensiero: la donna è una modalità

nomade.

Cosi il divenire-donna non si confonde con le donne e le loro lotte, ma

designa “ciò che riguarda tutti” la potenza di uno sviluppo che porterà ad

una trasformazione radicale della nostra concezione dell’essere umano.

Questa definizione condiziona il pensiero di Deleuze sul femminismo, per

lui il femminismo si sbaglia nella sua affermazione di una sessualità

specificamente femminile: le donne dovrebbero rivendicare la struttura

multisessuale all’origine dell’essere umano, rivendicare tutti i sessi per

divenire donne socializzate.

Le donne sarebbero davvero soggetti rivoluzionarie se dalle loro lotte

emerge la donna “non edipica”; se diviene macchine desiderante, solo allora

le donne sarebbero rivoluzionarie poiché aprirebbero la possibilità di una

nuova umanità che funzionerebbe come modello del desiderio libero.


206
G. Deleuze e C. Parnet, Conversazione

101
Seguendo il percorso tracciato da Deleuze giungiamo alla conclusione che

le donne sono degli agenti rivoluzionari, ma solo potenzialmente, per essere

soggetti rivoluzionari bisogna possedere una coscienza che non è

femminile.

La natura nomadica del pensiero delle donne è la sola chiave del divenire–

minoranza.

Deleuze trova nelle donne una possibilità di rinnovamento generale207.

207
R. Braidotti, Dissonanze le donne e la filosofia contemporanea, op. cit. pp.79-80.

102
II.3 Soggettività nomade e mito

Una serie di trasformazioni del sistema produttivo hanno modificando

anche le strutture sociali e simboliche tradizionali.

Questo spostamento comporta il declino delle tradizionali strutture socio-

simboliche che fanno perno sullo Stato, la famiglia e l’autorità maschile.

La postmodernità corrisponde a un nuovo modo di organizzare

l’accumulazione capitalistica in termini di mobilità dei capitali208.

Il nuovo sistema policentrico di produzione e circolazione dei beni di

consumo determina una crescita delle differenze in quanto marchi, fonti di

scambio, profitti.

Il nomadismo che da queste premesse viene fuori è schierato dalla parte del

no profit che vuole trasportare i flussi nomadici, la libera circolazione della

soggettività rendendola multipla e non unitaria.

Per raggiungere questo fine è necessario un’analisi sui modi di

funzionamento della cultura contemporanea.

Il soggetto nomade che qui si vuole esaminare presuppone una presa di

distanza critica delle forme diffuse di economia politica del capitalismo

avanzato.

208
Scattered Hegemonie: Post-moderity and Transational femminist Practices, a cura di C. Kaplan,
I. Grewal, Universityof Minnesota Press, Minneapolis-London 1994.

103
Sarà compito del femminismo ridefinire una teoria materialista della

soggettività femminista impegnata ad operare entro i parametri della

postmodernità209.

Ripensare il rapporto tra corpo e soggettività diventa il primo gradino del

progetto epistemologico del nomadismo.

Il corpo indica il punto di coincidenza tra fisico, simbolico e sociologico,

esso si accompagna al rifiuto di ogni essenzialismo.

Nell’ambito della teoria femminista si parla “in quanto” donna anche se il

soggetto di enunciazione “donna” non è essenza monolitica, ma il luogo

della sovrapposizione di variabili, come la classe sociale, la razza l’età, lo

stile di vita, le preferenze sessuali.

Con ciò l’orizzonte delle lotte femministe non si racchiude più sulle donne,

ma si apre al mondo esterno a partire dalla presa di coscienza delle donne

come soggetti nomadi in transizione.

Il soggetto nomade è un mito, un’invenzione politica che mi permette di

riflettere a fondo spaziando attraverso le categorie e i livelli di esperienza

dominanti.

Partire con la consapevolezza della forza e dell’importanza

dell’immaginazione, della creazione di miti come via di uscita dalla stasi

politica e intellettuale che segna la fase che stiamo vivendo.

Il nomadismo ha a che fare con quel tipo di coscienza critica che si sottrae a

formule di pensiero e del comportamento socialmente codificate210.

209
R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Sosella
210
Ivi, p. 14.

104
Non tutti i nomadi viaggiano per il mondo. Alcuni viaggi più straordinari si

possono fare senza spostarsi fisicamente dal proprio habitat.

Lo stato nomade è definito da una presa di coscienza che sostiene il

desiderio di ribaltamento delle convenzione date: è una passione politica

per la trasformazione e il cambiamento radicale.

Lo statuto di nomade non ha nulla di vantaggioso o di nobile o di

moralmente superiore; d’altra parte il nomadismo è la condizione storica

dei senza patria la cui appartenenza storica è andata in frantumi, perciò

questi nomadi non hanno neanche il diritto di avere dei diritti.

Nel pensiero filosofico il nomadismo serve come asse portante per una

critica del soggetto stanziale fisso, umanistico, che gestisce il capitale

fallologocentrico sia a livello simbolico che sociale. Lo schema

interpretativo materialista ed empirico che ci offre Deleuze dissolve l’idea

di un centro e quindi ogni concezione di luogo originario, di identità

autentica.

Deleuze e Guattari ci mettono in guardia contro un rischio connaturato ai

sistemi postmoderni, perchè essi potrebbero produrre rapporti di potere

globale su scala ridotta, creando un “microfascismo”, ovvero formazioni di

potere più piccoli , più localizzati ma non meno pericolosi.

Perciò i due autori propongono una speciale forma di resistenza dai centri

egemonici di qualunque proporzioni circoscrizione essi siano.

Le linee di fuga e l’idea del divenire di cui parla Deleuze sono molto

suggestive; il divenire nomade non è riproduzione e neppure mera

105
imitazione ma più tosto prossimità empatica, intensa interconnessione. Gli

spostamenti nomadi segnano quindi un divenire creativo.

Nomadismo come antagonismo, assai diverso dalla tradizione della

trasformazione, paradigma della distruzione non dialettica,

dell’annientamento dell’opposto, arma potente della rivoluzione,

progenitore del proletariato, della moltitudine.211

I soggetti nomadi sono in grado di sganciare il pensiero dal dogmatismo

fallologocentrico, ridandogli la libertà, la vitalità, la bellezza.

La creatività d’ordine estetico o concettuale serve a creare ciò che serve, per

indicare un nuovo orizzonte un futuro possibile. Quello che si crea è un

pensiero aperto verso l’esterno, verso l’orizzonte sconfinato di una praxis

che va reinventata.

Solo un soggetto che è puro divenire può ritenersi all’altezza di questa sfida

epocale.

La pratica del ”come se” ci consente di salvare dal passato ciò che ci

occorre per tracciare percorsi di mutamento della nostra vita, qui ed ora.

Questa pratica può essere vista come modalità di personificazione che

consiste nel riconoscere e negare certi attributi o esperienze.

Ciò che è efficace nella pratica del “come se” è proprio la sua forza di

apertura di spazi in cui si possono generare forme alternative dell’agire

umano.

211
S. Mazzone, Tempo e potere, op. cit. p.115.

106
In questo contesto la strategia della “mimesi” di Luce Irigaray è un tipo di

ripetizione che consente di agire politicamente poiché chiama in causa

questioni di identità, di identificazione e di soggettività politica.

107
II.4 Il poliglotta e la lingua.

Il poliglotta è il nomade della lingua, perché le parole non rimangono ferme

ma seguono un loro percorso212.

Nella cultura che cresce intorno a noi, si ritiene quanto mai importante, il

valore fondante delle lingue madri.

L’ideale della madrelingua va ad alimentare il rinato senso dei

nazionalismi, regionalismi e localismi che segnano questo momento della

nostra storia.

Il poliglotta è una persona in transito tra le lingue ed è in grado di guardare

con scetticismo alle identità fissate una volta per tutte e alle lingue madri.

Perciò il poliglotta è una variante sul tema della coscienza critica nomade,

essere tra le lingue rappresenta un vantaggio per la decostruzione

dell’identità.

L’idea di multiculturalismo non ci porta molto lontano se lo si considera

come una differenza tra culture , ma andrebbe assunta come differenza

entro la stessa cultura, entro ogni se.

Non esistono lingue madri ma solo luoghi linguistici che si assumono come

punti di partenza. Il poliglotta non ha una lingua nativa ma linee di transito,

di trasgressione.

212
R. Braidotti, Nuovi Soggetti Nomadi op. cit., p.22.

108
La lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma luogo di scambio

simbolico che ci lega in una rete di equivoci mediati che chiamiamo civiltà.

Il poliglotta è un nomade tra le lingue e per questo fa affidamento sul livello

emotivo quale punto di sosta. L’identità del nomade è una mappa dei luoghi

in cui è stato. Essere nomade significa una diversità in movimento, poiché

l’identità nomade è un inventario di tracce.

Il desiderio è il concetto chiave per capire l’identità multipla, esso è

produttivo e in continuo movimento.

Il poliglotta sa che la connessione tra i segni linguistici è arbitraria, egli

diventa il prototipo del soggetto postmoderno, titolare di parola turbato

dalle esasperante constatazione dell’arbitrarietà dei significati linguistici. 213

La scrittura nomade cerca il deserto: Spazi di silenzio in mezzo alle

cacofonie.

Chi scrive da nomade e poliglotta non sa che farsene della comunicazione

ufficiale. L’ingorgo di significati in attesa di essere ammessi, produce quel

tipo di inquinamento che chiamiamo “senso comune”.

Il nomadismo è una forma intellettuale; non è tanto l’essere senza dimora,

quanto la capacità di ricreare la propria dimora ovunque.

Molte delle cose che vengono scritte sono delle cartografie. Il nomade e il

cartografo procedono di pari passo, condividendo lo stesso bisogno

situazionale.

213
Braidotti R., Soggetto nomade: Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, 1995, pp. 18,
19.

109
Il nomade sa leggere mappe invisibili; nel libro “Le vie dei canti” 214lo

scrittore Bruce Chatwin dimostra in modo efficace quanto gli zingari, gli

aborigeni australiani e altre tribù che l’identità nomade sia legata alla

memoria: tenere a mente quella poesia orale che descrive i territori che il

nomade nel suo lungo viaggio attraversa.

Il deserto è un’enorme mappa di segni per coloro che, sanno aprirsi la

strada attraverso territori selvaggi.

Luce Irigaray ha cominciato nei suoi testi ad indicarne luogo e data della

stesura, la sua è una cartografia è una specie di etica situata: la politica della

collocazione applicata alla scrittura.

214
B. Chatwin, The Somiglines, Picador, London 1988 (trad. It. Le vie dei canti, Adelphi, Milano
1988).

110
II.5 Lotta per il riconoscimento

Un ruolo preminente fra tutti questi intellettuali nomadi l’hanno certamente

le femministe.

E’ sorprendente constatare quante siano le donne di estrazione culturale

mista attivamente impegnate nel movimento femminista. Il desiderio di

sentirsi nomade, nasce forse dal voler tagliare ogni legame con i discorsi

istituzionalizzati.

L’unico sistema di pensiero o schema concettuale che può interessare è

quello che porta in sé l’idea di cambiamento, trasformazione, transizione

vitale; un progetto creativo, non reattivo, libero dal peso oppressivo

dell’approccio teorico tradizionale.

La teoria femminista è il luogo di tale trasformazione: da un pensiero

sedentario e logocentrico ad un pensiero creativo nomade.

Il femminismo è un impulso creativo volto ad affermare la differenza

sessuale come forza positiva.

Il nuovo soggetto nomade femminista che sostiene questo progetto è

un’entità epistemologica e politica, la sua definizione ed affermazione da

parte delle donne deve nascere dal confronto delle loro molteplici

differenze di classe, razza, età, stile di vita e orientamento sessuale.

111
È chiaro che il femminismo oggi è quell’agire che intende affrontare le

questioni legate all’identità individuale, incarnata, sessuata.

Una delle questioni centrali in gioco in questo progetto è come riconciliare

la storicità, con il desiderio di cambiamento.

Il compito più difficile consiste nel trovare le modalità per fare andare

insieme la volontà del cambiamento con il desiderio del nuovo, ciò implica

la costruzioni di nuovi soggetti desideranti.

Se le femministe vogliono portare avanti una politica efficace, devono

tenere presente la distinzione di piani, che c’è tra scelte politiche

consapevoli e desideri.

Ognuno dei due livelli va rispettato per la sua complessità; si tratta di

trovare i punti di transizione e di incontro.

Chiamiamo “etica delle differenze sessuali”, adottando il concetto proposto

da Luce Irigaray, un progetto femminista nomade che tiene conto delle

contraddizioni interiori e tende di mediare tra le strutture inconsce del

desiderio e le scelte politiche consapevoli215.

In questo senso il femminismo è una forma di coscienza multipla delle

differenze. Questo tipo di analisi si incentra sull’intersezione dell’identità,

della soggettività e dell’epistemologia, vista da una prospettiva post-

strutturalista.

Il punto centrale è l’interconnessione tra identità, soggettività e potere.

Questo genere di coscienza nomade riunisce in sé tratti che sono considerati

215
R. Braidotti, Soggetto nomade, op. cit., p. 37.

112
opposti: il possedere cioè un senso di identità che non si basa sulla stabilità

ma sulla contingenza.

La coscienza nomade combina la coerenza con la mobilità, legando invece

corpo e mente in una nuova serie di transizioni intensive e intransitive.

Il compito delle femministe post-moderniste consiste nel capire come

rispettare lo spettro delle differenze culturali senza cadere nel relativismo o

nella depressione politica.

Le femministe nomadi si trovano di fronte alla sfida di conciliare una

prospettiva pluristratificata e multiculturale, con la responsabilità verso il

loro genere e la capacità di rispondere.

Il femminismo nomade post-moderno sostiene che non è necessario essere

saldi in una concezione sostanziale del soggetto, per poter essere politici, o

per fare delle scelte consapevoli o assumere decisioni critiche.

Il femminismo nomade fa anche un passo in più e sostiene che l’azione

politica ha a che fare con la capacità di mettere a nudo l’illusione dei

fondamenti ontologici.

In una prospettiva nomade il politico è una forma di intervento che opera

contemporaneamente sui registri discorsivi e su quelli materiali della

soggettività; e pertanto ha a che vedere con la capacità di tracciare

connessioni multiple.

Il soggetto nomade funzione come una staffetta: lei/lui connette, circola, si

muove; non forma identificazione ma continua a ritornare indietro ad

intervalli regolari.

113
Il nomade è un’entità trasgressiva, la cui natura transitoria è il vero motivo

per il quale può fare delle connessioni.

La politica nomade è una questione di legami, di coalizioni, di

interconnessioni.

Le cartografie nomadi vanno costantemente ridisegnate in quanto non

tollerano la fissità e neanche una rapace appropriazione.

Il nomade possiede un acuto senso del territorio, senza che questo sfoci

nella possessività.

Come sostiene Donna Haraway, bisogna essere collocati da qualche parte

per poter fare delle affermazione di valore generale.

E quindi il nomadismo non è la fluidità priva di confini, bensì la precisa

consapevolezza della non fissità dei confini. È l’intenso desiderio di

continuare a sconfinare, a trasgredire.

Il nomade è un’entità post-metafisica, intensa, multipla che funziona

all’interno di una rete di interconnessioni. Lei/lui è incarnato/a e quindi

culturale, è un composto tecnologico di umano e post-umano; è dotato/a di

capacità multipla all’interconnessione secondo una modalità interpersonale.

E’ un cyborg e tuttavia ha un inconscio. E’ il “mucoso” o “divino” di Luce

Irigaray ma dotato di una prospettiva multiculturale.

Come il “divenire” di Deleuze è astratto e tuttavia perfettamente,

operativamente reale, cosi uno dei modi in cui le femministe potrebbero

visualizzare questa prospettiva differenziata e situata, è mediante

114
l’immagine della lettura e scrittura multipla, come dire un’auto-creazione

poliglotta collettiva.216

Le femministe devono imparare a esprimersi correntemente in vari stili, in

diversi ambiti disciplinari e in molti dialetti, gerghi, lingue.

Occorre abbandonare quell’immagine di sorellanza in cui domina l’idea

dell’universale similitudine tra tutte le donne in quanto secondo sesso, a

favore di un riconoscimento delle complesse condizioni semiottiche e

materiali in cui le donne si trovano ad operare217.

Le donne hanno bisogno di riappropriarsi della struttura multistratificata

della loro soggettività, in quanto luogo o sedimentazione storica di

significati e di rappresentazioni che debbono essere erosi.

Le pensatrici femministe nomadi non perdono di vista quel passato dal

quale lottano per emergere.

La ricerca di punti d’uscita dal fallocentrismo continua, e il viaggio nomade

femminista procede per necessità.

Spinte da un fortissimo desiderio di mutamento che non può risparmiare

nemmeno gli aspetti più familiari della loro esperienza, la maggior parte

delle femministe dovrebbe concordare con la consapevolezza caustica,

devastante di Kathy Acker cioè che, finora:”Ho la mia identità e ho il mio

sesso: non sono nuova ancora218.

216
R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, op. cit., p.57
217
R. Braidotti., Soggetto nomade, op. cit. pp. 39-42.
218
Acker K., In Memoriam to Identity, Pantheon Books, New York 1990. P. 49.

115
II.6 Il Soggetto femminista

In teoria, il femminismo è un’esperienza costante di un pensiero critico che

si da come obiettivo lo sviluppo di nuove modalità di esistenza, di creazione

e di trasmissione del sapere.

Lo specifico approccio femminista alla questione della modernità consiste

nella valutazione dei legami o della complicità esistente tra sapere e potere,

ragione e dominio, razionalità e oppressione e tutte queste componenti con

la mascolinità.

Il problema della teoria femminista implica anche la critica della categoria

dell’uguaglianza.

E’ poi della massima urgenza definire se le femministe contemporanee sono

delle umaniste che vogliono salvare la ragione, oppure delle epistemologhe

radicali che hanno rinunciato all’idea di guadagnarsi l’accesso a una

determinata verità.

E’ necessario chiarire quale è l’immagine della ragione teorica, operante nel

pensiero femminista, e quali sono le immagini e le rappresentazioni che le

femministe propongono per sostenere il loro approccio alla prassi teoretica?

116
Come sostiene Jane Flax219, questo è un approccio chiaramente

metadiscorsivo che va messo in relazione con due fenomeni simultanei: la

crisi dei valori occidentali220 e l’emergere di una moltitudine di discorsi di

“minoranza”come hanno rilevato Gayatri Spivak221 Chandra Mohanty222e

Trinh T. Minh-ha223.

Per le femministe è particolarmente urgente lavorare in direzione di una

valutazione equilibrata e costruttiva, della mutua interdipendenza tra

uguaglianza e pratica delle differenze.

In uno dei suoi testi più esplicativi dal titolo: Egales a qui?, Luce Irigaray 224

dimostra come la nozione di uguaglianza è ricalcata su parametri maschili,

e afferma la necessità di porre la nozione di differenza al centro del nostra

attività e del nostro pensiero politico.

Rivendicare la differenza significa sganciarla dalla logica dualista nella

quale è stata tradizionalmente iscritta come segno di disvalore, per farne

l’espressione del valore positivo dell’essere “altro-da”, una norma, quella

del maschile , di razza bianca, di classe media.

La teoria femminista è la critica del potere, e in quanto discorso, crea nuovi

modi di pensare; è l’impegnarsi in un processo per imparare a pensare in

maniera diversa.
219
J. Flax, Postmoderism and gender relations in femminist theory, in “Signs”, 1987, 12/4, pp.621-
43 (trad. it. Pensiero postmoderno e relazione di genere nella teoria femminista, in “DWF”,
1989,8).
220
J. Kristeva, Women’s Time, in “Signs”, 1981, 7/1, pp. 13-35, ristampato anche in Femminist
Theory. a Critique of Ideology, a cura di N.O. Keohane, M.Z. Rosaldo e B.C. Gelpi, Chicago
University Press, Chicago 1982.
221
Spivak, In other World.
222
C. Mohanty, Under Western Eyes. Femminist Scholarship and Colonial Discourse, in
“Bounday”, 1984, 2-3,pp. 333-58.
223
Trinh T. Minh-ha, Woman Native, Other.
224
L. Irigaray, Egales a qui?, in “Critique”, 1987,480, pp.420-37.

117
La femminista è una pensatrice critica che mette a nudo e interroga le

dinamiche di potere e di dominazione implicite in ogni discorso teorico.

Il femminismo come pensiero critico è dunque una modalità autoriflessiva

di analisi, che mira ad articolare la critica del potere nel discorso, mediante

l’affermazione di quello che Teresa De Lauretis225 definisce il soggetto

femminile femminista.

La teoria femminista, esprime il desiderio ontologico delle donne, il loro

bisogno di porsi come soggetto femminile, vale a dire non come entità

disincarnate, ma come essere corporei e, di conseguenza, sessuate.

La ridefinizione del soggetto femminile femminista deve partire dalla

rivalutazione delle radici corporee della soggettività e dal rifiuto di una

concezione universale, neutro e quindi privo di genere sessuale.

Ripensare il corpo come il nostro posizionamento primario è il punto di

partenza per muoversi sul versante epistemologico della “politica della

collocazione”, una modalità per argomentare il discorso elaborato dalle

femministe226.

L’identità e la soggettività sono momenti diversi del processo che definisce

la posizione del soggetto, ciò implica che lui/lei non può più essere

assimilato/a alla sua coscienza ma deve essere pensato/a come un’identità

complessa e multipla, come luogo di interazione dinamica tra desiderio e

volontà, tra soggettività e inconscio.

225
Feminist Studies/Critical Studies cit.; T. de Lauretis, Technologies of Gender, Indiana
University Press, Bloomington 1987.
226
R. Braidotti, Soggetto Nomade, op. cit., p. 54.

118
E’ desiderio ontologico, desiderio di essere, la tensione del soggetto ad

essere, la pre-disposizione del soggetto all’essere.

Lyotard definisce questa nozione di soggetto come un evidente distacco dal

progetto della modernità; il modernismo ha segnato il trionfo della volontà-

di-avere, possedere ,ciò ha implicato la correlativa oggettificazione di molti

soggetti di minoranza.

Il Postmodernismo, al contrario, segna l’emergere del desiderio di arrivare

al nocciolo della questione della soggettività.

E’ il trionfo della concezione etica del soggetto considerato come un’entità

corporea discontinua e tuttavia unitaria.

Il fatto che il pensiero postmoderno, compreso il versante femminista, sia

l’espressione di una reazione ad una situazione di crisi, non significa che

esso sia negativo, ma che invece possa offrire molte positive possibilità di

apertura.

L’idea del soggetto come interfaccia tra volontà e desiderio è il primo passo

in quel processo di ripensamento dei fondamenti della soggettività. Ciò che

sostiene il processo del divenire soggetto è la volontà di sapere, il desiderio

di dire, di parlare di pensare e rappresentare.

Questo desiderio di sapere fondante, primario, vitale, è ciò che rimane

impensato al cuore del pensiero, proprio perché è la condizione essenziale

affinché vi sia una qualsiasi forma di pensiero.

Il desiderio, essendo la condizione a priori del pensiero, eccede il processo

stesso del pensare.

119
La differenza sessuale apre alla ridefinizione delle strutture generali del

pensiero e non solo a quelle femminile227.

Per poter meglio comprendere i termini del discorso che si sta cercando di

portare avanti, si deve focalizzare l’attenzione sul corpo o l’incarnazione

del soggetto, che sono i termini chiave nella lotta del femminismo per la

ridefinizione della soggettività.

Il corpo è la struttura multifunzionale e complessa della soggettività. Il

modo migliore di intendere il corpo in questa accezione è considerarlo una

superficie di significazione, situata nella presunta attualità dell’anatomia

con la dimensione simbolica del linguaggio.

Il soggetto è definito da molte variabili diverse: razza, sesso. età,

nazionalità, cultura, che si sovrappongono per definire e codificare i livelli

della nostra esperienza.

Il soggetto sessuato incarnato così definito si situa in una rete di complessi

rapporti di potere che, come ha argomentato Foucault228, lo iscrivono in una

struttura di norme discorsiva e materiali.

Nell’occidente la sessualità è il discorso di potere dominante, perciò la

ridefinizione femminista del soggetto da un lato perpetua la consuetudine

del pensiero occidentale di assegnare un primato alla sessualità, e dall’altro

la critica come uno dei tratti principali del potere discorsivo dell’occidente.

227
Ibidem, p. 56.
228
M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975 (trad. It. Sorvegliare e punier. Nascita
della prigione, Einaudi, Torino 1976); Per un’analisi femminista delle tesi foucaultiane si veda
Foucault and femminis, a cura di I. Diamond e L. Quinby, North-Eastern University Press, Boston
1988.

120
La sessualità come potere è un codice semiotico che organizza la

percezione delle differenze morfologiche tra i sessi.

Il soggetto è sempre sessuato, che l’io sia marcato dal genere è una comoda

finzione, una necessità grammaticale che tiene insieme i molteplici livelli di

esperienza che strutturano il soggetto incarnato, come sostiene il post-

strutturalismo229, non modifica il fatto che abbia un genere che sia

sessualmente differenziato.

Nella teoria femminista una donna parla in quanto tale, sebbene il soggetto

“donna” non sia un’essenza monolitica ma il luogo di una serie di

esperienze multiple, complesse e potenzialmente contraddittorie, definite da

variabili sovrapposte. Di conseguenza il soggetto femminile femminista

chiamandolo”lei-sé” o “io donna” va definito mediante una ricerca

collettiva che riesamini politicamente la sessualità come sistema sociale

simbolico.

Questo progetto (rifarsi a nozione sessuate o sessuali per ridefinire il

soggetto femminile femminista e contemporaneamente decostruirle) ha

portato al rifiuto dell’identità femminile sessuata da parte femminista e alla

critica del significante “donna” come termine politico dotato di significato.

Per uscire dalla logica dicotomica in cui la cultura occidentale ha

229
Si è scritto molto sulla “morte del soggetto”come motivo conduttore della crociata post-
strutturalista contro la concezione classica del soggetto in quanto coincide con la propria
coscienza. La doppia mossa teorica messa così in questione è la simultanea identificazione della
soggettività con la coscienza e di entrambe con il maschile. Per una sintesi delle reazioni
femministe al riguardo, si veda Dissonanze cit.

121
intrappolato le identità sessuate è necessario attraversarla, a tal fine la

nozione di “mimesi230” proposta da Luce Irigaray è efficace.

230
Irigaray, Speculum, De l’autre femme, Minuit, Paris 1974(trad. it.,Speculum. L’altra donna,a
cura di L.Murraro, Feltrinelli, Milano 1989).

122
II.7 Le differenti uguaglianze

Nella storia della filosofia europea la differenza è un concetto centrale: il

pensiero occidentale ha sempre funzionato per opposizione dualistiche che

vanno poi a creare delle sottocategorie di alterità e di “differenza-da”.

La differenza è stata fondata a partire da relazioni di dominio, e di

esclusione, per cui essere”diversa/o-da” è giunto a significare essere “meno

di”, valere meno di. La differenza è divenuta terra di conquista per i

rapporti di potere, tanto da essere ridotta a sinonimo di inferiorità come

asserisce Simone de Beauvoir nel Secondo sesso231.

Ne consegue che la differenza ha assunto connotazione essenzialistiche e

letali,e si è sbarazzata di categorie di esseri umani e anche un po’ più

immortali. All’interno delle pratiche della storia del pensiero femminista il

concetto di differenza ha goduto di una vita lunga e ricca di eventi.

Non c’è nozione più contraddittori, polemica importante all’interno del

pensiero femminista, la differenza è un luogo di forte tensione concettuale;

è perciò necessario ripercorrere le vicissitudini della nozione di differenza

all’interno della teoria femminista.

È Simone de Beauvoir, con la sua analisi dello schema gerarchico della

dialettica della coscienza mutuato da Hegel, a porre il problema. Egli

231
S. de Beauvoir, Il Secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1994 (ed. or. Paris 1949).

123
identifica nella differenza la nozione centrale d’analisi e allo stesso tempo

indica, la necessità del superamento dello schema gerarchico all’interno del

quale la differenza è stata assimilata ad un’alterità svalorizzata.

L’uso egualitario della ragione proposti da Simone de Beauvoir

costituiscono la più importante eredità concettuale per la teoria femminista

contemporanea.

Le femministe post-strutturaliste degli anni settanta hanno messo in

discussione l’idea di Beauvoir sulla politica della razionalità egualitaria,

mettendo in rilievo l’importanza di una politica della differenza. Come dice

Marguerite Duras nell’epigrafe a questo saggio232, le donne che continuano

a misurarsi sul metro dei valori maschili, le donne che ritengono di dover

correggere gli errori degli uomini, sono destinate a sprecare tempo ed

energia.

Luce Irigaray nel suo polemico articolo Egales à qui? indica la necessità di

uno spostamento dell’accento politico: si deve passare dalla critica reattiva

all’affermazione di controvalori positivi. La crisi della modernità ha fatto sì

che la nozione di differenza si sia trovata al centro dell’ordine dei problemi

propri della filosofia europea.

All’interno della modernità l’attenzione speciale rivolta alla differenza

segna uno spostamento ci si è allontanati dalla consuetudine secolare che la

eguaglia all’inferiorità, inoltre, emerge l’idea che la soggettività non

coincide con la coscienza.

232
M.Duras, An Interview, in Shifting Scenes: Interviews on woman, Writing and Politics in Post-
68 France ,a cura di A. Jardine e A.Menke, Columbia University Press, New York 1991, p.74

124
La crisi della modernità può essere vista come una frantumazione dei

fondamenti maschilisti della soggettività classica. Dal punto di vista

femminista una crisi così connotata è un evento non solo positivo ma anche

latore di potenziali forme di assunzione di titolarità e potere per le donne.

Il femminismo degli anni ottanta è stato lo scenario di polemiche e divisioni

tra le femministe “ispirate alla differenze” in particolare le portavoce del

movimento della écriture féminine, e le sostenitrice anglo-americane del

gender.

Questa polemica è poi sfociata nel dibattito sull’essenzialismo approdando

poi ad un punto morto sia politico che intellettuale.

Attualmente, la posizione femminista che si oppone alla teoria della

differenza sessuale, sostiene la tesi di una soggettività “al di là dei generi” o

“post generi”. Questa linea di pensiero ipotizza il superamento del dualismo

sessuale e della polarità dei generi in favore di una nuova soggettività

sessualmente indifferenziata. È necessario valorizzare la differenza sessuale

come progetto politico nomade perché l’accento posto sulla differenza

incarnata dalle donne, fornisce argomenti sostanziali e positivi per la

ridefinizione della soggettività femminile in tutta la sua complessità.

È necessario quindi spiegare nell’ottica di una differenza sessuale assunta

con valenza positiva, per interconnessione tra identità femminile,

soggettività femminista ed epistemologia delle transizioni nomade.

È della massima necessità sottolineare come la differenza sessuale sia un

potente fattore di asimmetria.

125
La conseguenza logica di questa definizione è che il peso della differenza

sessuale ricade unicamente sulle donne, definendole come il secondo sesso,

o l’altro strutturale, mentre gli uomini sono depositari dell’universale e

segnati dall’imperativo di farsene carico.

La divisione del lavoro tra i sessi è un sistema creato dal

fallologocentrismo, espressione del patriarcato.

Questo sistema si è venuto a creare come struttura fondativa in cui o come

uomini o come donne si è stati creati da determinati condizioni simboliche

semiottiche e materiali.

Il maschile e il femminile sono in posizione strutturalmente simmetriche:

gli uomini non hanno un genere perché ci si aspetta che abbiano il fallo,

vale a dire che sostengono l’ideale di una virilità astratta.

Simone de Beauvoir osserva che il prezzo pagato dagli uomini è la perdita

di incarnazione; il prezzo pagato dalle donne è la perdita di soggettività e il

confinamento nel corpo233.

Fondamentale in questo nuovo approccio è una presa di distanza dalla mera

critica al patriarcato in direzione invece dell’affermazione della positività

delle tradizioni culturali e della gamma di esperienze delle donne. Questo

spostamento dell’asse teorico ha fatto si che si sia sottolineato il valore del

linguaggio e della rappresentazione come luogo di costituzione del

soggetto.

233
R. Braidotti, Soggetto nomade, op. cit., p. 72.

126
Uno tra i più interessanti sviluppi di questo nuovo orientamento del

pensiero femminista è la teoria francese della “differenza sessuale” nota

come movimento della ècriture fèminine.

I fondamenti concettuali di questo movimento vengono dalla linguistica,

dalla semiottica dalla filosofia e dalle teorie psicoanalitiche del soggetto.

Le teoriche delle differenze sessuali234 affermano che un’adeguata analisi

dell’oppressione delle donne, deve tenere presente sia il linguaggio che le

condizioni materiali e non essere ridotte solo a l’uno o alle altre.

Il dibattito nato tra le teoriche della differenza e quella della gender ha

portato a due forme di riduzionismo: da una parte una forma di idealismo

che riduce tutto al testuale e dall’altra una forma di materialismo che riduce

tutto al sociale; due forme estreme di “essenzialismo”235.

Uno dei punti di differenza reale tra i due schieramenti è la questione di

identificare i punti di uscita dell’universalismo implicito nel sistema

patriarcale e dal sistema di pensiero binario che lo caratterizza. Le teoriche

della differenza hanno portato avanti l’idea di scardinare dall’interno il

vecchio sistema mediante la strategia della “ripetizione mimetica”; le

teoriche del gender sono ricorse alla “critica dell’ideologia”. Le prime

hanno investito sul polo “femminile” della dicotomia sessuale; le seconde

sono arrivate al rifiuto dello schema della polarizzazione sessuale a favore

di una posizione desessualizzata e senza generi.


234
Si vedano, di Irigaray, Speculum, op. cit.; e di H. Cixous, Le rire de la Medusa, in “L’Arc”,
1974 p. 61.
235
In merito alla discussione sull’essenzialismo, cfr. T. de Lauretis, The Essence of the Triangle e
N. Schor, This Essentialism That Is Not One, in “Differences”, I, 1988, 2; R. Braidotti
Essentialism, in Femminism and Psycanalisis: a Critical Dictionary, a cura di E. Wright, Black
Well, Oxford 1992.

127
Il rifiuto del pensiero dualistico, in quanto modo d’essere del patriarcato, è

il terreno comune dal quale si può procedere per sbloccare la posizione di

stallo tra posizioni femministe altrimenti contrapposte.

Le teoriche emergenti degli anni novanta stanno lavorando su molteplici

variabili per la definizione della soggettività femminile: razza, classe

sociale, preferenze sessuali costituiscono gli assi principali dell’identità.

Apportano delle innovazioni alle idee femministe date, poiché ridefiniscono

la soggettività femminile nei termini di una rete di relazione di potere

simultanee.

Sta emergendo un nuovo materialismo femminista che implica una

ridefinizione dei rapporti di sapere e di potere,è un processo di costituzione

della soggettività come parte di questi rapporti.

L’acquisizione della soggettività è un processo fatto di pratiche materiali e

discorsive, il cui scopo simbolico è sia positivo sia regolativo236.

Il pensiero femminista poggia su un concetto che richiede di essere

decostruito e de-essenzializzato in tutti i suoi aspetti.

La questione centrale nella teoria femminista è diventata quella di ridefinire

la soggettività femminile dopo il declino del dualismo dei generi e

privilegiando nozioni come il sé come processo, la complessità,

l’interrelazione, la presenza di diverse forme di oppressione post-coloniale

e la tecnologia multi stratificata dell’ “io”.

La questione fondamentale riguarda l’identità come luogo di differenza. Le

analisi femministe sottolineano che il soggetto occupa posizioni diverse


236
R. Braidotti, Soggetto nomade, op.cit., pp77-78.

128
poiché influiscono un certo numero di fattori quali la razza, lo stile di vita

ecc..

La teoria femminista deve oggi inventare nuove immagini di pensiero che ci

mettono in grado di pensare il cambiamento e una costruzione dell’”io” in

divenire.

Da ciò emerge il bisogno di una ricodificazione o di un rinnovamento del

soggetto femminile femminista come entità multipla, aperta e

interconnessa.

E’ questa nuova e complessa soggettività femminista il cuore del progetto

di un femminismo nomade.

129
II.8 Il “divenire” del femminismo.

Il nomadismo femminista è l’espressione positiva del desiderio delle donne

di affermare e rappresentare varie forme di soggettività.

Questo progetto implica sia la critica delle esistenti definizioni e

rappresentazioni delle donne, sia la creazione di nuove immagini della

soggettività femminile.

A tal fine suddivideremo il progetto del nomadismo femminista in tre fasi

ciascuna legata alla differenza sessuale.

Si tratta di piani che possono essere compresenti cronologicamente mentre,

i singoli livelli sono opzioni percorribili per la prassi politica e teorica.

La distinzione che si opera è tra “differenza tra uomo e donna”, “differenza

tra donne” e “differenza all’interno di ciascuna donna”; è un processo di

nominazione che si rifà alle diverse facce di un unico fenomeno complesso.

Questo schema è una mappa, una cartografia che riproduce attraverso la

lente della differenza sessuale i vari piani di complessità che soggiacciono

ad una epistemologia nomade.

Seguendo il tracciato nomade si può accedere alla mappa ad ogni livello e

in ogni momento. I vari livelli sono compresenti, coesistono nella vita

quotidiana, e la possibilità di poter transitare da un livello ad un altro

130
rappresenta la chiave di accesso a quella modalità nomade non solo dal

punto di vista intellettuale ma anche come pratica esistenziale.

Simone de Beauvoir affermava che l’opzione teorica e politica delle donne,

andava individuata e praticata nella lotta per conquistare la trascendenza e

così guadagnarsi gli stessi diritti alla soggettività di cui gli uomini sono

titolari.

Come rivelava Judith Butler237, nella sua analisi, de Beauvoir vede la

differenza incarnata nelle donne come qualcosa di non rappresentato.

De Beauvoir ne conclude, che questa entità deve essere svalorizzata e

falsamente rappresentata può e deve essere data rappresentazione, ed è

questo il compito prioritario del movimento femminista.

Le teoriche delle differenze assumono una prospettiva post-strutturalista e

vanno oltre la dialettica.

Luce Irigaray considera l’alterità delle donne non solo come qualcosa che

viene rappresentato ma come ciò che rimane non rappresentabile.

La donna come “altro” resta eccedente rispetto al paradigma

fallologocentrico, che fa coincidere il maschile con l’universale; i due poli

dell’opposizione sono in un rapporto asimmetrico.

Luce Irigaray difende questa differenza irriducibile e la pone, come

fondamento per una nuova fase della politica femminista, dove non esiste

simmetria tra i sessi e che questa asimmetria è stata disposta ad opera di un

regime fallologocentrico.

237
J. Butler, Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia
University Press, New York 1987.

131
Una volta riconosciuto che si è fatto della differenza un significante

negativo il progetto femminista tenda di rovesciare la definizione in termini

positivi e implica il rifiuto dell’emancipazionismo perché esso porta

all’omologazione, vale a dire all’assimilazione delle donne a modalità di

pensiero e di prassi maschile.

Gli sviluppi più recenti nella condizione della donna hanno dimostrato che

l’emancipazione femminile può facilmente tramutarsi in un percorso verso

un mondo maschile.

Questo avvertimento ci viene da pensatrici molto diverse tra loro che

mettono in guardia le donne dal correggere gli errori e le colpe della cultura

maschile. È invece positivo elaborare forme alternative della soggettività

femminile, in un processo che definisce l’affermazione della positività della

differenza sessuale.

Questo mutamento di prospettiva238 ha creato un’ondata di polemiche e di

conflitti tra donne resi più acuti dallo scarto generazionale239.

L’aspetto su cui la polemica è stata più aspra è l’opposizione tra l’anti-

emancipazionismo e le accuse di “essenzialismo” lanciate dalle pensatrici di

ispirazione egualitaria contro le sostenitrici delle differenze sessuali. Il

movimento delle donne è lo spazio in cui la differenza sessuale diventa

operativa adottando la strategia della lotta per l’uguaglianza tra i sessi,

238
D. Kaufmann, Simone de Beauvoir: Questions of Difference and Generation, in <<Yale French
Studies>>, 1986, p.72.
239
Emblematica di questo cambiamento di prospettiva è la polemica che oppose Foucault a Sartre
sulla questione del ruolo degli intellettuali e Cixous e de Beauvoir sulla liberazione delle donne.
Per un sintesi di questi dibattiti si veda Dissonanze op. cit..

132
all’interno di un ordine culturale ed economico, dominato dal controllo

omosociale maschile.

La posta in gioco è la definizione di donna come altro da un non uomo. Il

problema è creare, legittimare e rappresentare la molteplicità delle forme

alternative della soggettività femminile e femminista.

Bisogna perciò partire dalla parola donne, come un contenitore semantico

che raggruppa diversi livelli di esperienze e diverse identità.

Il termine donna si inscrive in ciò che Kristeva chiama il tempo lungo

lineare della storia240.

L’identità femminile appartiene ad una temporalità diversa: il tempo della

trasformazione, della resistenza, delle genealogie politiche e del divenire.

Definiamo femminismo quel movimento che lotta per cambiare i valori

attribuiti alle donne e le loro rappresentazioni scaturite dal tempo lungo

della storia patriarcale, ma anche dal tempo profondo dell’identità di

ognuna.

Il progetto femminista abbraccia sia il livello della soggettività

(acquisizione di diritti politici e sociali), sia il livello dell’identità, legato

alla coscienza, al desiderio e alla politica del personale.

Il femminismo richiede una distinzione epistemologica e politica tra donna

e femminista.

240
Kristeva, Women’s Time, in Femminist Theory: A Critique of Ideology, a cura di N. O.
Keohane, Uneversity of Chicago Press, Chicago 1988.

133
Femminista è sia la spinta verso l’inserimento della donna all’interno della

storia patriarcale, sia l’interrogazione dell’identità sulla base di rapporti di

potere.

Il movimento delle donne si fonda sull’opinione condivisa che tutte le

donne siano accomunate dalla condizione di “secondo sesso”. Ma questo

riconoscere una comune condizione di sorellanza nell’oppressione non può

essere l’obbiettivo ultimo; le donne avranno anche in comune situazioni ed

esperienze, ma non sono tutte uguali241.

Come sostiene Teresa de Laurentis, ogni donna si trova a doversi

confrontare con una certa immagine di donna, che rappresenta il modello

culturalmente dominante dell’identità femminile.

Questo passaggio è stato definito come il riconoscimenti di una “differenza

essenziale” tra la donna come rappresentazione e la donna come esperienza.

La donna cessa quindi di essere un modello culturalmente dominante e

normativo della soggettività femminile, trasformandosi in un topos,

identificabile per l’analisi: come una costruzione ,una mascherata, una

essenza positiva o una trappola ideologica.

La posizione femminista nomade rende possibile la coesistenza di queste

diverse rappresentazione della soggettività femminile.

Il femminismo libera nelle donne il desiderio di libertà, levità, giustizia e

autorealizzazione.

Questi valori non corrispondono a convinzioni politiche razionali, ma ad

oggetti di intenso desiderio.


241
R. Braidotti, Soggetto nomade, op. cit. pp. 84-85.

134
E’ auspicabile che il femminismo si liberi degli atteggiamenti seriosi e

dogmatici e riscopra l’allegria di un movimento che aspiri a cambiare la

vita242.

Italo Calvino243 sostiene che le parole che ci occorrono per uscire dal tunnel

della crisi post-moderna sono: leggerezza, velocità e molteplicità.

242
Questo fù un famoso slogan del maggio 1968 a Parigi.
243
I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.

135
II.9 Femminismo e modernismo

Il progetto della differenza sessuale è storicamente e politicamente urgente,

nel qui ed ora nel mondo comune delle donne, portare alla ribalta e agire

secondo la differenza sessuale.

Considerare il femminismo come una strategia per erodere la nozione

storica di donna in un momento in cui essa ha perduto la sua unità

sostanziale.

Il mito della donna come “altro” è ora uno spazio vacante dove donne

diverse possono agire il loro divenire soggettivo.

La questione è come intervenire sull’idea di donna nel contesto storico

presente in modo da creare nuove condizioni per il divenire soggetto delle

donne qui ed ora.

Il divenire soggetto delle donne implica la critica dell’identità dominanti e

dei rapporti di potere, ed una assunzione di responsabilità nei confronti

delle condizioni sociali che condividiamo.

Ciò impone non solo il riconoscimento delle differenze tra donn,e ma anche

la pratica della decodifica: esprimere e condividere nel linguaggio le

condizioni di possibilità delle scelte politiche e teoriche di ciascuno.

136
La scelta che si offre al femminismo sembra essere un superamento del

dualismo dei generi che neutralizzi le differenze o l’estremizzazione della

differenza, ipersessualizzata in maniera strategica.

La differenza sessuale come strategia nomade è a favore dell’affermazione

estrema dell’identità sessuata come modalità di ribaltamento della

definizione gerarchica delle differenze.

Ciò che conta è soprattutto il fatto che essa mette le donne in grado di agire.

La differenza sessuale permette di affermare forme alternative della

soggettività politica femminista: le femministe sono le donne post-donne.

Il soggetto femminista è nomade perché è intensivo, multiplo, incarnato e

quinti perfettamente culturale; questa figurazione può essere assunta come

un tentativo con ciò che si definisce il nuovo nomadismo della nostra

condizione storica.

Un esempio perfetto di corpo a corpo nomadico ci viene offerto nel suo

History Portraits244 da Sherman che mette in scena una serie di

metabolizzazioni di figure, caratteri ed eroi storici, che l’autrice impersona

con una formidabile mescolanza di precisione ironica.

Attraverso un serie di autoritratti presenta sotto diverse sembianze “tanti

altri”.

In una storia di dominazioni dove il linguaggio fallologocentrico che

struttura le posizioni del discorso in quanto soggetti, evidenziano la

necessità di non abbandonare il significante donna perché le femministe

devono appropriarsene e riattraversarne la poliedrica complessità, perché è


244
C. Sherman, History Portraits, Rizzoli, New York 1991.

137
questa complessità, che definisce quell’identità che condividiamo in quanto

femministe di sesso femminile.

Identificare gli spostamenti nomadici vuol dire sottolineare quanto sia

fondamentale non escludere nessuno dei livelli che ti segnano la mappa

della soggettività femminile femminista.

Ciò che conta è saper nominare e rappresentare zone di transito tra questi

livelli, l’andare, il processo, il passare.

La figura del cyborg di Donna Haraway rappresenta un grande contributo a

livello della soggettività politica, perché propone un riallineamento delle

differenze di razza, genere, classe e degli altri assi di differenzazione che

induce una collocazione plurisfaccettata per l’azione femminista.

La figura del cyborg prefigura un mondo “al di la dei generi”, in quanto

considera l’identità sessuale come qualcosa di obsoleto senza indicare quali

siano i passi da compiere e le vie d’uscita del vecchio sistema costruito

sulla polarizzazione dei generi.

La figura del cyborg risulta molto utile, ma riguardo a la questione

dell’identità, dell’identificazione e dei desideri inconsci, non offre un

grande contributo.

Le figurazioni per una nuova umanità femminista proposta da Luce Irigaray

suggerisce, una esplorazione delle strutture profonde dell’identità

femminile, ma non riesce a rispondere alla molteplicità delle differenze tra

le donne, soprattutto sul terreno delle identità culturali ed etniche.

138
Il soggetto nomade è una figurazione che sottolinea il bisogno di azione sia

a livello d’identità e di soggettività, sia a livello delle differenze tra donne.

Questi differenti requisiti corrispondono a momenti diversi, a diverse

collocazioni nello spazio, a pratiche diverse.

Una femminista deve partire riconoscendo se stessa come non univoca,

come soggetto scisso più volte, su assi di differenziazioni molteplici.

La differenza non è il risultato della forza di volontà, ma di tante ripetizioni.

Finché non avremo attraversato i molteplici strati di significato di donna

non possiamo abbandonare quel significante.

Non possono esservi mutamenti sociali senza aver prima costruito nuovi

soggetti desideranti: molecolari, nomadi, multipli.

Si deve lasciare spazio alla sperimentazione, alla ricerca, alla transizione.

Divenire nomadi245.

È un appello al riconoscimento del bisogno di rispettare la molteplicità e di

trovare forme dell’agire che riflettono la complessità, senza annegarci

dentro.

Gran parte delle polemiche tra femministe potrebbero essere evitate se si

stabiliscono delle distinzioni più rigorose in merito alle categorie di

pensiero e alle pratiche politiche che ne costituiscono la posta in gioco.

Rispondere in prima persona sia delle categorie che delle pratiche è il primo

passo verso l’elaborazione di una teoria femminista nomade, in cui si possa

assumere la responsabilità, scambiare, parlare delle discontinuità, delle

trasformazioni, degli spostamenti di livelli e di collocazioni, in modo che le


245
R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, op. cit. pp. 120-123.

139
nostre differenze possano generare forme incarnate, situate di

responsabilità, di narrazione, di lettura degli scenari.

Ci possiamo posizionare, come intellettuali femministe come viaggiatrici

attraverso paesaggi ostili armate di mappe fatte da noi, pronte a seguire

sentieri che spesso sono visibili solo ai nostri occhi, ma che possiamo

narrare, scambiare e rendere conto.

Caren Kaplan lo esprime in modo limpido:

Dobbiamo andarcene di casa perche le nostre case sono spesso teatro di

razzismo, sessismo e altre pratiche sociali dannose. Li dove arriviamo a

collocarci nei termini delle nostre storie e differenze specifiche deve esserci

posto per ciò che può essere salvato del passato e per ciò che di nuovo può

essere creato.246

Il nomadismo: la differenza sessuale come ciò che offre collocazioni mobili

per molteplici voci incarnate femminili e femministi.

246
C. Kaplan, Deterritorializzazione, op. cit., p. 194.

140
CAPITOLO III

Verso una filosofia femminista.

141
III.1 Le filosofe e la filosofia.

Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio; sull’autobus; mentre tra la folla,

osserviamo l’incoronazione e l’investitura del sindaco di Londra; mentre

passiamo accanto al monumento dei Caduti;mentre percorriamo

Whintehall, mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della

Camera dei Comuni; nei tribunali; ai battesimi; ai matrimoni ai funerali.

Non dobbiamo mai smettere di pensare:che civiltà è questa in cui ci

troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo

prendervi parte? Cosa sono queste professioni e perché dovremmo

diventare ricche esercitandole?

Virginia Woolf, Le tre ghinee247.

Il femminismo non è un concetto, né una teoria, e nemmeno un insieme

sistematico di enunciati sulle donne.

E’ piuttosto il mezzo scelto da certe donne per collocarsi nella realtà e

ridisegnare la loro condizione “femminile”.

La migliore lettura possibile del pensiero femminista è oggi quella di

tracciare una mappa, più che un tentativo di classificazione 248.

La vera difficoltà per il femminismo, sta nel fatto che esso ha enfatizzato il

legame tra la teoria e la pratica, tanto che è difficile formulare una “storia

247
V:Wolf, Three Guineas, Penguin, London 1978 (ed. Or. 1938; trad. It. Le tre Ghinee, Feltrinelli,
Milano 1990).
248
R. Braidotti, Dissonanze: le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica
delle idee femministe, Milano 1994, La Tartuga, p. 105.

142
delle idee femministe”, che non la consideri una pratica di valore politico ed

epistemologico.

Il pensiero femminista rimane, una questione aperta, senza poter sperare in

una tassonomia finale, e tanto meno in una metodologia definita.

L’antinomia tra il pensiero e il femminile, crea difficoltà particolari così che

il diritto delle donne alla soggettività teorica è ancora oggetto di dibattito.

Le donne sono state definite come sospese tra la materia e la ragione; la

razionalità è stata rappresentata come un attributo di origine divina e

presente nell’uomo per eredità fallica249.

La credenza nelle origini naturali, cioè biologiche dell’inferiorità teorica

delle donne è una colonna su cui riposa l’ordine politico e teorico

patriarcale.

Essa ha condotto alla svalutazione delle facoltà intellettuali delle donne ,

cosi come alla repressione dei loro diritti civili e politici, alla loro

esclusione dai luoghi di riproduzione e trasmissione del sapere.

Le pensatrici dimorano nella dispersione , come archivi seppelliti sotto la

polvere di innumerevoli templi e città250, le tracce della loro discorsività si

perdono nella scansione di un tempo storico che non è il loro251.

L’assenza ancestrale delle donne dal discorso teorico significa che non c’è

una tradizione istituita di pensatrici donne, scrittrici donne , non c’è una

genealogia femminile intellettuale e teorica.

249
R. Braidotti, Dissonanze, op.cit.p.106.
250
Vedi H. Cixous e C. Clementt, La junne nee, Unionn Gènerale d’Edition, 10/18, Paris, 1975.
251
Vedi J. Kristeva, “Women’s time”, Signs, 7/1, (1981).

143
L’incompatibilità tra donne e ragione, o intelligenza teorica è una difficoltà

principale nell’elaborazione di una lettura teorica, filosofica del

femminismo.

La filosofia è la disciplina che afferma il potere del discorso, è il luogo dove

sapere è stato sempre stato di potere.

Il discorso filosofico è una forma d’imperialismo nei confronti del quale

bisogna essere vigilanti.

La filosofia contiene in maniera formalizzata e concisa le regole del gioco

di produzione discorsiva: è quindi terreno privilegiato d’analisi dei

meccanismi e della logica d’occultazione, esclusione o squalifica del

femminile252.

In definitiva la filosofia non è un sapere dotato di supervisione, ma una

disciplina del pensiero sempre disposta a ricominciare da capo253.

In questi termini la filosofia Occidentale non è un sapere neutro-universale,

ma il pensiero di un soggetto sessuato al maschile.

La differenza sessuale costituisce uno degli assi più importanti della

soggettività e viene spesso indicata, come differenza primaria sulla quale

vengono poi costituite e organizzate le altre differenze e opposizioni

dicotomiche che strutturano le culture.

Quella tra uomo e donna è la differenza di base dell’umanità” C. Lonzi,

Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale

252
Per le pubblicazioni italiane vedi la ricerca delle donne studi femministi in Italia (a cura) di
M.C. Marcuzzo, e A. Rossi-Doria, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, p. 189.
253
Libreria delle donne di Milano. Il manifesto 05 Maggio 2006.

144
“E’ stato il pensiero femminile contemporaneo a riconoscere che la

differenza sessuale è un significante che organizza la sfera sociale e quella

simbolica che fornisce ad entrambe il loro centro di orientamento, a partire

dal quale sia il sociale sia il simbolico si strutturano a livello profondo, si

organizzano e articolano tutte le altre differenze al loro interno, a partire

da quella più originaria, la differenza di essere donna/uomo.254

Il soggetto maschile si autorappresenta a partire da sé; la filosofia diventa

allora la quintessenza del maschile insito nel discorso.

Per quanto il soggetto maschile sia solo uno dei due sessi, esso pretende di

porsi nel pensiero come soggetto universale.

Viene cosi occultata la differenza sessuale e l’impossibilità per il sesso

femminile di porsi come soggetto reale, di un proprio pensiero, nel quale

possa autorappresentarsi, e riconoscersi.

In ogni campo disciplinare, viene denunciata da parte delle donne che sono

impegnate nei vari saperi, una esperienza di estraneità fra il loro essere

concreto e la scienza nella quale si trovano ad operare.

Un tempo questa estraneità era materialmente visibile; i luoghi della cultura

separati e vietati alle donne.

Ora che l’accesso è stato conquistato dalle donne, l’estraneità si fa interna,

si fa separatezza della pensante dal proprio pensiero.

La filosofia conosce il cogito cartesiano, l’Io penso kantiano, l’Idea di

Hegel e il soggetto debole che rammemora la sua antica forza, ma conosce

anche il suo non esserci in questi.


254
Tommasi, I filosofi e le donne Tre lune edizioni, Mantova, 2001, p. 11

145
La filosofia diventa auto rappresentazione dell’altro, segue le vicende

dell’universale dove l’altro si è significato e riconosciuto255.

In un lavoro di autonegazione che Luisa Muraro chiama “passione della

differenza sessuale”, intendendo la passione come patire.

Ma la passione, tramutatasi in consapevolezza del patire, provoca un

desiderio di uscita dalla parola estraniante, intesa come desiderio di

spezzare i codici universalizzati e cosi sfuggire all’omologazione.

Di pensarsi a partire da se e non più come pensata dall’altro.

Tuttavia, tale uscita per le donne non è facile, il farsi soggetti della propria

auto comprensione, non è operazione che possa avvenire nel vuoto, ma

deve avvenire nel fitto delle categorie estraniante, attraverso le quali sono

state finora costrette a comprendersi, a definirsi e a pensarsi, secondo un

parametro dell’universalizzazione dell’altro.

Siamo nella fase dell’utilizzazione della filosofia occidentale, per la sua

decostruzione e il suo sovvertimento allo scopo di produrre una filosofia

sessuata femminile.

255
La ricerca delle donne op. cit. p. 177.

146
III.2 La politica culturale delle differenze

Il pensiero delle differenze sessuali è una filosofia in fase di sviluppo che si

evolve a partire dal lavoro teorico di Luce Irigaray.

Non che la differenza sessuale sia un tema privilegiato della filosofia: La

differenza sessuale è comparsa ed è stata pensata da donne letterate,

psicologhe, storiche, scienziate che hanno sottolineato la necessità della

sessualizzazione del pensiero.

Il pensiero e la tradizione occidentale, hanno eluso il problema della

differenza, presentando alla storia un soggetto che può dirsi neutro e

universale proprio in virtù della dimenticanza e del sacrificio simbolico del

femminile.

La prospettiva della differenza sottolinea l’inesistenza di un simbolico

femminile: la donna, di fatto, non è mai esistita, se non nelle

rappresentazioni che di lei ha dato la cultura fallologocentrica,

rappresentazioni totalmente funzionali all’affermazione del potere

maschile.256

La filosofia della differenza sessuale, abbandona l’intero e l’universale e si

manifesta qui ed ora in ciascuna donna, nella esperienza della separatezza

nella parola, ogni giorno, dovunque.


256
A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale. Diotima, La tartaruga edizioni, Milano,
1987, p. 53

147
Il pensiero delle differenze sessuali consente di teorizzare la pratica delle

disparità tra le donne, è differenza che si fa pensiero.

La differenza sessuale non è più la grande categoria della filosofia

“essenzialista” della cultura tradizionale,ma diventa questo incarnarsi di

desideri e di pensieri che dà un senso libero, al fatto che donne e uomini

non siamo pari, uguali, assimilabili.

La differenza diventa qualcosa che abita uomini e donna, è l’incarnarsi del

desiderio, delle intelligenze, del pensiero.

Sull’estraneità della donna rispetto al linguaggio, ha scritto Adriana

Cavarero: ”La donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza il

linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio, ma

accoglie con questo, le rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo.

Così la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé” 257.

Ancor prima di essere tutte uguali, siamo tutte donne e non è superfluo

pensare a noi stesse a partire da questo “fatto” fondamentale 258.

L’essere donna non può simbolizzarsi dalla somma delle differenze

individuali di ogni singola donna, mentre la rappresentazione simbolica

dell’essere sessuate al femminile può tranquillamente sfaccettarsi

nell’infinita ricchezza del nostro singolare differire l’una dall’altra.

La somma delle differenze individuali produce una immagine di

dispersione, nel quale il differire fra donne ha un senso ed è una ricchezza.

257
Ibidem, p. 52
258
Il mondo dell’uguaglianza è il mondo della sopraffazione legalizzata; il mondo della differenza
è il mondo dove il terrorismo getta le armi e la sopraffazione cede al rispetto della varietà e della
molteplicità della vita. L’uguaglianza tra i sessi è la veste in cui si maschera oggi l’inferiorità della
donna” C. Lonzi, Sputiamo su Hegel

148
Nel pensiero della differenza sessuale è in questione la donna come

soggetto, non come oggetto.

Voler porre la donna come soggetto vuol dire, per il pensiero delle

differenza sessuale, produce un pensiero sessuato al femminile, che nella

sua stessa costruzione logica ( un pensiero che è delle donne perché è in

esso che le donne si definiscono come soggetto), produce la rete concettuale

del loro sapersi.259.

Non basta che agli studiosi si sostituiscano le studiose, se la struttura logica

del sapere mantiene la sua falsa neutralità.

Perché il pensare delle donne abbia un senso per le donne, è necessario che

il pensare stesso, nella sua organizzazione concettuale, abbia come soggetto

attivo la differenza sessuale femminile che in esso si rappresenta, si dice e

si riconosce.

La donna non sarà più l’oggetto esterno di un pensiero estraneo, ma un

soggetto che nell’oggettivarsi si restituisce a se stesso.

In termini filosofici, si comprende a partire da se. Poiché la questione non è

che si faccia finalmente parola sulle donne, ma che le donne abbiano

parola su di se.

Molto spesso nelle varie ricerche che le donne hanno compiuto sulle donne,

la necessità del pensiero è stata trascurata.

Il soggetto femminile, che non ha mai avuto parola nel sapere dell’altro,

rinuncia a creare lo spazio specifico del proprio sapersi, rinuncia a creare il

259
La ricerca delle donne op.cit. p.182.

149
territorio della propria teoria, e si riduce a “punto di vista” nel territorio

dell’altro.

La cultura riattraversata secondo il “punto di vista” delle donne, posizione

che si mantiene esterna, desistendo dal farsi soggetto delle categorie logiche

della propria auto comprensione.

Se le donne che compiono la ricerca, hanno già fondato nella teoria la

categoria logica del loro sapersi, ossia dispongono di un sapere sessuato di

auto rappresentazione, sarà allora più agevole ri-conoscere, e quindi trovare,

quella parola femminile che risponde a sapersi donna, della ricercatrice.

Ma alla domanda “che cos’è la donna” i vari saperi hanno dato risposte

differenti, ma tutti hanno concordato nell’affermare che il sapere sulla

donna è prodotto dal soggetto maschile.

Sono il pensiero con cui gli uomini ci pensano, e attraverso il quale,

sebbene con fastidio ed estraneità, che anche noi ci pensiamo.

Il fastidio e l’estraneità diventano allora insopportabili, ma il desiderio di

uscire dalle rappresentazioni femminili prodotte dall’altro, non può

appagarsi nella costatazione della pura attualità.

L’accesso al sapere e alle istituzioni, per cui le donne hanno lottato, è stato,

un prerequisito fondamentale per la possibilità di una cultura delle donne,

ma dall’altro lato, si è offerto ad una logica di omologazione che ha posto le

donne in un ruolo di approfondimento, ripetizione e trasmissione del sapere

omosessuale maschile260.

260
La ricerca delle donne, op. cit. p. 186.

150
III.3 Essere filosofa ed essere donna.

Una volta assunta l’ipotesi, che la differenza sessuale possa fondarsi

sull’auto-rappresentazione della sua estraneità, resta la questione tattica,

politica: da dove cominciare per pensarci altrimenti, in quanto donne?

Il fatto di essere donne, per tradursi in sapere e conoscenza, ha bisogno di

auto-significarsi, cioè di rappresentarsi attraverso il riconoscimento delle

proprie simili, cioè altre donne che assumano la loro estraneità e si pensano

in quanto donne.

Questo piano comune di riconoscimento è il primo passo verso

l’elaborazione di un simbolico femminile che permette di gestire “l’infinita

ricchezza del nostro singolare differire l’uno dall’altra”261.

Il femminismo della differenza ha insistito molto sulla profonda

interconnessione e inscindibilità dell’aspetto simbolico e di quello

materiale: l’assenza storica delle donne dalla sfera pubblica, dagli ambiti

culturalmente privilegiati, dalla produzione dal sapere e della politica, la

loro condizione di oppressione sociale, va considerata insieme

all’impossibilità di creare modelli simbolici alternativi, elaborati

autonomamente dalle “donne in carne ed ossa”, in grado di competere e

261
Il pensiero delle donne, op.cit., p.192.

151
affiancare quelli maschili e di dare vita ad un sistema di identificazioni

positive.

La radicalità di questa posizione consiste proprio nel rifiutare di separare il

simbolico dal materiale, indicando così che il sacrificio del soggetto

femminile si confonde con gli stessi fondamenti del vincolo omosociale e

dell’ordine culturale262.

Il rifiuto di separare il piano simbolico da quello materiale introduce un

importante cambiamento rispetto al paradigma del femminismo

dell’uguaglianza.

L’oppressione della donna non risulta essere esclusivamente legata ai fattori

socio-economici; la sua condizione svantaggiata e subalterna non può

essere ridotta solamente a quell’insieme di regole e pregiudizi sociali che la

definiscono in ruoli stereotipati, smantellando i quali sarebbe a portata di

mano la definitiva liberazione.

Per il femminismo della differenza la questione si gioca a livelli più

profondi: essa investe la strutturazione stessa del soggetto donna, la

dimensione dell’inconscio, il problema dell’immaginario, delle

identificazioni simboliche, del linguaggio.

E’ diventato urgente, qui ed ora, di far avvenire un pensiero della differenza

sessuale al femminile.

Questo progetto è per le teoriche del femminismo, un gesto politico

necessario. L’affermazione della differenza sessuale è una strategia politica

262
R. Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. La tartaruga edizioni, Milano,
1994, p. 192

152
e teorica, che iscrive il femminismo come luogo di enunciazione, come

posizionamento sessuale nei confronti del linguaggio, delle regole del

parlare, e della produzione del sapere.

In quanto movimento politico sociale, teorico e collettivo, dobbiamo

fondare un cogito femminile.

Noi ci autorizziamo l’affermazione seguente “io, donna, penso in quanto

donna e dunque sono”263.

La passione per la differenza sessuale che ci lega in quanto donne diventa,

la critica del dominio dell’Uno, di quello universale che, travestendo il

sessuato maschile, ha finito col disincarnare il soggetto stesso della

filosofia.

Le pensatrici della differenza rifiutano, dunque, l’ideale cartesiano di una

soggettività trascendente, autonoma e trasparente ed aprono in questo modo

al femminismo un ambito teorico totalmente diverso, che trova i suoi

riferimenti nella psicanalisi, nella semiotica, nella linguistica (Irigaray,

Kristeva, Cixous), e che dialoga fruttuosamente con il pensiero

poststrutturalista (Foucault, Derrida, Deleuze)264.

L’affermazione della soggettività femminile è un dato sul quale possiamo

tutte concordare: “noi”, movimento di liberazione dell’ “io” di ciascuna, di

tutte quelle che riconoscono in “io donna sono”265.

263
La ricerca delle donne, op. cit. p.191.
264
Il dialogo viene ripreso e approfondito dalle femministe postmoderne.
265
Non sembra che l’essere-donna sia interpretato in chiave causale e deterministica. Si tratta più
tosto di un dato di fatto –il mio essere è sessuato femminile da sempre , cioè dacché io esisto, è un
fatto che esisterà finché esisterò io. Vedi la ricerca delle donne, p.191.

153
Questo gesto segna l’itinerario di un divenire, ci permette di dire “fatemi

posto lasciatemi inventare un mondo a mia misura, perché io donna, ho

voglia di essere”.

All’interno di questa nuova cornice teorica, ogni strategia di emancipazion,

a cui si ispira il femminismo dell’uguaglianza, in nome dell’universalità e

della neutralità del soggetto, è condannata a ritorcersi contro le donne,

proprio perché si risolve nella soppressione della differenza di cui le donne

sono portatrici e nella loro definitiva omologazione ai modelli maschili.

Io donna sono l’essere umano sessuato femminile, mortale, dotato di

linguaggio.

L’essenza della donna, del nostro essere-donna, non è biologica ma storica,

consiste nell’esperienza della separatezza e dell’auto-estraneazione.

L’essere-donna è un fattore ontologico, costitutivo.

Su questo aspetto il femminismo della differenza si è espresso

radicalmente:

Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma

una messa in questione del concetto di potere.

È per sventare questo possibile attentato della donna che oggi ci viene

riconosciuto l’inserimento a titolo di uguaglianza.

Braidotti pone lo stesso problema: “Un’enfasi eccessiva sull’uguaglianza

può portare a dimenticare altre questioni, secondo me più pertinenti. Prima

di tutto: dov’è la nostra etica, l’etica della sorellanza femminista in tutto

154
ciò? Che prezzo siamo disposte a pagare per far parte del sistema? Dov’è il

punto aldilà del quale l’omologazione diventa un processo irreversibile?

L’affermazione della differenza sessuale, intesa come mancanza

fondamentale di simmetria tra i sessi, porta ad una politica della

soggettività, la ricerca di un nuovo statuto per l’esistenza e il discorso delle

donne”266.

Per Irigaray è l’atto stesso del prendere la parola che sconvolge, di fatto,

l’ordine maschile, fondato sul silenzio e sulla assenza delle donne: “Quando

le donne vogliono uscire dallo sfruttamento, non distruggono soltanto dei

‘pregiudizi’, esse sconvolgono tutto l’ordine dei valori dominanti:

economici, sociali, morali, sessuali.

Esse mettono in questione ogni teoria, pensiero, linguaggio esistenti, in

quanto monopolizzati da soli uomini.

Esse interpellano il fondamento stesso del nostro ordine sociale e culturale

la cui organizzazione è stata prescritta dal sistema patriarcale”267.

Come si vede, la riflessione coinvolge e mette in discussione l’intero

sistema della cultura e del pensiero occidentale e con esso il paradigma

concettuale della razionalità, considerato ormai dal femminismo della

differenza – e da molte aree del pensiero contemporaneo - non più

emendabile.

Il ripensare la differenza si impone come problema fondamentale per il

pensiero contemporaneo e viene affrontato in ambiti diversi: dalla

266
R. Braidotti, Dissonanze… op. cit
267
L.Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, Milano, 1990

155
antropologia, al poststrutturalismo, alla psicoanalisi; il tema dell’Altro,

della differenza irriducibile, ontologica di cui è portatore, occupa un posto

privilegiato268.

Braidotti, in Dissonanze: Le donne e la filosofia contemporanea (un’opera

interamente dedicate al rapporto tra femminismo e filosofia

poststrutturalista) riporta a questo riguardo l’osservazione di Cixous:

Che cos’è l’altro? Se è veramente l’ “altro”, non c’è niente da dire; non può

essere teorizzato. L’ “altro” mi sfugge. È altrove, fuori, assolutamente altro.

Non si stabilizza. Ma nella Storia, certamente, ciò che si chiama altro è

un’alterità che si stabilizza, che cade in un cerchio dialettico. E’ l’altro in

una relazione organizzata gerarchicamente in cui le stesse regole, gli stessi

nomi, definisce e assegna il ‘suo’ altro269.

La critica al pensiero razionale arriva ad un punto così radicale da non poter

considerare la possibilità di un statuto diverso della differenza all’interno di

quel paradigma270.

La diversità come alterità svalutata, la differenza come differenza

subordinata o dominante sono, in sostanza, intrinseche e necessarie a questo

tipo di pensiero, che nel fondare le premesse per la propria veridicità deve

definire delimitando, denominare escludendo.

È un pensiero che non riesce a pensare la molteplicità e che riduce la

diversità all’economia binaria di dicotomie fondate sulla necessaria

268
W. Tommasi, I filosofi e le donneTre lune edizioni, Mantova, 2001, p. 11
269
H. Cixoux e C. Clement, La june née, Union Général d’Editionns, 10/18, Parigi, 1975.
270
R. Braidotti, Dissonanze… op. cit.

156
svalutazione di un polo: giorno/notte, mente/corpo, cultura/natura,

ragione/sentimento, uomo/donna.

Osserva Braidotti:

All’inizio è la differenza. Questa differenza non è riducibile alla dualità,

non c’è da un lato, l’uomo, e dall’altro, la donna, ciascuno avente le sue

proprie caratteristiche.

All’inizio è il non-uno, a cui deve essere dato gioco libero…Ma l’uomo

occidentale ha cercato di ridurre questo inizio all’unità portando l’altro

dietro sé stesso, che siano le donne, o gli estranei, i giovani o la classe

lavorativa.

Il pensiero femminista della differenza – insieme al pensiero femminista

postmoderno - partecipa attivamente a questo dibattito, trovandosi vicino

alle posizioni dei poststrutturalisti, ma rivendicando la differenza sessuale

come differenza decisiva e fondamentale su cui concentrare la riflessione 271.

Il problema della differenza sessuale, della sua elusione da parte del

pensiero occidentale e la soppressione simbolica del femminile, risultano

paradigmatici di quel pensiero: in definitiva, la differenza sessuale non è

una differenza fra tante, ma è la differenza, per cui “sopprimere il

femminile è sopprimere l’alterità”.

Come sottolinea Braidotti in Dissonanze, il femminismo sessualizza il

dibattito sulla differenza e, portando in primo piano la differenza sessuale

271
Traduzione di Adriana Cavarero in Le filosofie femministe,dalla raccolta curata da J.A.
Kournany Feminist Philsophies

157
come cuore di tutte le differenze, contrasta assai con la generale

desessualizzazione del discorso poststrutturalista.

La sfida comune che viene lanciata è comunque quella di un pensiero

nuovo, che rompa con, superi, o si “rimetta dalla” metafisica, e che possa

pensare in modo positivo l’alterità.

Solo con queste premesse l’uguaglianza con gli uomini può cessare di

essere il punto di riferimento nel femminismo, e la rivendicazione della

propria differenza configurarsi, invece, come altra possibilità.

Scartata la scelta dell’essere “uguali e indistinte dagli uomini” (Braidotti,

Dissonanze), la strada che le femministe della differenza intraprendono è

una radicale affermazione della differenza irriducibile che contraddistingue

l’essere donna, e che si è trasformata nella materialità della storia in una

profonda asimmetria rispetto alla posizione dell’uomo272.

La teoria femminista riguarda una differenza essenziale, una differenza

irriducibile, sebbene non una differenza tra uomo e donna, e nemmeno una

differenza inerente alla “natura della donna”, ma una differenza nella

concezione femminista della donna, delle donne e del mondo273.

Nella originale rilettura di alcuni personaggi femminili della nostra storia,

nelle ricostruzione di biografie, nel riprendere e reinterpretare miti e

vicende che vedono coinvolte le donne, nel ripercorrere le loro tradizioni

culturali e la gamma delle loro esperienze, si legge il tentativo di affermare

272
Critiche che Braidotti muove a Foucault, Derrida, Deleuze in Dissonanze.
273
R. Braidotti, Dissonanze, op. cit. p. 185.

158
controvalori positivi, recuperando al visibile e dando esistenza simbolica a

ciò che è sempre stato tenuto in ombra e nel silenzio.

La costruzione di un simbolico femminile a partire dalle donne vere, che

dica della loro differenza e della loro concreta esperienza è considerata

essere una necessità fondamentale e viene vista come l’unica possibilità di

affermazione per le donne.

L’alternativa è costituita, infatti, dal pensarsi e dal dirsi in una lingua che

non è mai loro appartenuta e in un pensiero che non le ha mai pensate;

proporsi diverse con la minaccia di ricadere sempre nelle trappole – e nelle

lusinghe – del paradigma fallologocentrico.

Altrimenti, il silenzio: in mancanza di un linguaggio proprio, le donne

hanno spesso scelto la strada dell’estraniazione, del margine, dell’afasia.

E se in un primo momento questa strategia può essere considerata utile per

cominciare a pensarsi, viene alla fine consapevolmente rifiutata 274:

In questa esperienza di distanza della lingua, trovano spazio vie di fuga a

noi ben note: il silenzio, il residuo non detto, il corpo piuttosto che il

pensiero.

Eppure la storia che ci riguarda è da sempre storia di silenzi, di reticenze di

corpi muti portati al mercato!

L’unica via possibile e insieme reale è quella che si radica nella vita

quotidiana: l’essere un pensiero che non si è, eppure l’essere

imprescindibilmente in questo pensiero, il parlarsi e il dirsi in una lingua

straniera.
274
Tommasi: La tentazione del neutro. In Diotima…, op. cit.

159
In assenza di un simbolico femminile, è comunque più utile l’esserci e far

risuonare la propria voce dissonante.

Il rifiuto della parola si riduce ad essere una mossa complice del paradigma

combattuto, simbolo impotente, perché nel silenzio ancor meglio, mi parlo e

mi penso. sempre all’interno di quella rete concettuale che ha suoni da me

non proferiti.

Nel silenzio tace il suono, non la parola275.

275
A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale…op. cit., p. 53

160
III.4 Il femminile in gioco

Pensare il femminismo nell’ottica aperta da A. Cavarero: seguendo Irigaray,

il movimento delle donne è rappresentato come un laboratorio del nuovo,

come il quadro enunciativo che permette l’espressione di potenzialità

positive, l’elaborazione di forme del pensiero adeguato al nostro essere

donne.

Non possiamo noi donne permetterci il lusso di una posizione strategica

basata sul silenzio e la non appartenenza, semplicemente perché questi sono

i tratti storici del nostro essere oppresse.

Il libro di Rosi Braidotti intitolato In metamorfosi. Verso una teoria

materialistica del divenire si situa nel dibattito contemporaneo, entrando in

più di un conflitto.

Situarsi è quello che vuole fare Braidotti, scrivendo quelle che lei chiama

cartografie politiche e teoriche, che sono poi le mappe del pensiero

ricostruibili dal luogo parziale dal quale ci si guarda attorno.

La mappa ha un perno, fare della differenza – sessuale, etnica, locale –

qualcosa di positivo e creativo, sottraendola a quella tonalità negativa che le

viene dal fatto che ogni differenza è l’Altro dello Stesso, il che poi

significherebbe che una donna è l’altro dell’uomo, l’immigrato è l’altro del

cittadino e così via.

161
Come fare della differenza qualcosa che apre uno spazio di soggettività

intensiva, di aumento della consapevolezza e della percezione?

Per questa scommessa Braidotti mette in campo il pensiero sia di Luce

Irigaray sia di Gilles Deleuze che le fanno da guida.

Questo legare il pensiero di Irigaray a Deleuze è uno dei punti più

interessanti, e volutamente polemici, del libro.

Significa innanzitutto rimettere al centro il pensiero della differenza

sessuale di Irigaray, in un periodo in cui esso è stato posto ai margini per il

prevalere, soprattutto negli Stati Uniti, della «teoria del genere».

Braidotti lo dice chiaramente: il pensiero di Irigaray negli Stati Uniti è stato

letto malamente.

Secondo la teoria del genere, il genere femminile come quello maschile

sarebbero solo costruzioni sociali e storiche.

Il pensiero della differenza sessuale invece è materialista, parte dal corpo e

pone al centro quello che Braidotti chiama un «femminile virtuale», ovvero

un femminile che non è un contenuto dato ma è continua apertura al

divenire.

Si potrebbe dire che il pensiero della differenza sessuale 276 sia possibile

proprio perché il logos è in crisi, ma allo stesso tempo la crisi del soggetto

classico è dovuta proprio alla sua incapacità a riconoscere l’altro.

Braidotti entra così in polemica con le teoriche del genere che definiscono il

pensiero di Irigaray essenzialista, cioè fondato su una concezione statica e

chiusa dell’essere donna.


276
La ricerca delle donne, op. cit., p.198.

162
E infatti come si fa a definire essenzialista Irigaray se il «femminile

virtuale» è invece continuo divenire?

Braidotti si rifà ad Irigaray – soprattutto di Speculum – anche per l’altra

grande polemica che ingaggia con buona parte del femminismo

statunitense.

Della psicoanalisi ha ripreso solo ciò che può rinforzare la volontà razionale

– e dunque l’io – nel costruire nuove pratiche politiche discorsive.

L’inconscio finisce così per essere un concetto teorico «morto», di fatto

superfluo.

Il femminismo come teoria critica della differenza sessuale non può

permettersi di ignorare l’intuizione e le lezioni della psicanalisi; l’enfasi

radicale sulle differenze conduce a questioni relative alle strutture

dell’identità intesa come dialettica di identificazione e di desiderio.

Non appena il femminismo abbandona le richieste di parità, esso si connette

a certi aspetti della teoria psicoanalitica, in particolare la sua critica del

primato della razionalità e della natura sessuata del soggetto277.

Sul piano epistemologico la psicanalisi permette di pensare la natura

sessuato del soggetto, senza cadere nel riduttivismo biologico, affermando

la verità profonda e la sua trascendenza all’anatomico, la sua dimensione

immaginaria e simbolica, segno indelebile della sua appartenenza al registro

del linguaggio.

Pensando la distinzione tra la categoria del biologico, e quindi i soggetti

anatomo-empirici, e la sessualità nella sua dimensione simbolica, la


277
R. Braidotti, Dissonanze op. cit, p.198.

163
psicanalisi ha permesso di staccare il registro del “maschile” e del

“femminile”, che indicano dei posizionamenti nei confronti del linguaggio.

E’ proprio sulla questione del “femminile” che la psicanalisi lacaniana ed il

femminismo non possono andare d’accordo.

Dal punto di vista analitico lacaniano un movimento delle donne è

un’assurdità simbolica poiché il significante “donna” non è garanzia di

appartenenza al femminile e quindi di affermazione di differenza.

Siccome poi la donna è definita da Lacan come l’irrapresentabile e

l’irrapresentato dal sistema simbolico, spesso l’elogio per il “femminile” si

confonde con l’apologia dell’ombra, della dispersione, del silenzio, del

mistero dell’eterno errare278.

Braidotti considera invece l’inconscio come ciò che scombina la linearità

dei procedimenti dell’io così come della volontà guidata da ragione,

aprendo il movimento della soggettività a contraddizioni, paradossi, punti di

non ritorno, che hanno a che fare in particolare con la differenza sessuale e

soprattutto con il legame con la madre.

A Braidotti interessa il potenziamento del divenire e lo riconosce in Irigaray

come lo vede nel femminismo, là dove esso crea la passione della libertà,

dignità, giocosità e leggerezza.

Scrive che la politica inizia dalle nostre passioni e dai desideri che ci

muovono.

Le femministe suggeriscono che , se da un lato la psicanalisi ha contribuito

alla comprensione del processo di formazione del soggetto, dall’altro non


278
Ibidem, p. 199.

164
ha aiutato in alcun modo a modificare le relazioni sociali esistenti tra i

sessi279.

I conflitti che Braidotti apre in questo libro sono davvero tanti e non

risparmiano neppure Deleuze, con il quale l’autrice ha un debito sin dai

tempi di Dissonanze e dal quale riprende l’idea di «nomadismo filosofico».

Il nomadismo filosofico è un intensificare il piacere come linea guida del

pensiero, dove le idee schiudono impensate vie del reale.

279
R. Braidotti, Dissonanze, pp. 198-199.

165
III.5 La liberazione della filosofia.

La filosofia è accusata di partecipare attivamente nel sostenere la

supremazia maschile, ma anche di produrre mezze verità sulle donne in

particolare, e sull’attività del pensare in generale.

L’attività di pensiero vista come istanza specifica di autorità in una catena

di effetti di potere, non può essere né pura, né universale.

Il carattere sessuato del potere discorsivo, forma la base della critica

femminista della ragione280.

Ogni teoria del "soggetto" si trova da sempre appropriata al "maschile".

Assoggettivandosi la donna (...) si rimette nella situazione di essere

oggettivata - in quanto "femminile" - ad opera del discorso.

Lei stessa poi si rioggettiva, quando pretende d'identificarsi "come" un

soggetto maschile.

Prendo questa frase di Speculum di Irigaray, che suona esplicita e definitiva.

Siamo ai primi anni settanta e la diagnosi di Irigaray è chiara: una donna

che frequenti le teorie perde se stessa, non ha luogo.

Nelle sue analisi dei maggiori testi e autori filosofici della nostra tradizione,

Irigaray individua alcuni tratti ricorrenti, da Platone a Freud: ogni volta che

si dà un sapere sistematizzato sugli uomini e sul mondo, la donna ha una

funzione precisa: la donna, la madre, il femminile, servono al soggetto per

280
R. Braidotti, Dissonanze, op. cit. p. 188.

166
proclamarsi autonomo, dotato di un pensiero neutro e universale, valevole

per tutti, padrone di un oggetto, che descrive secondo pretese di verità, ma

la verità è quella di un solo sesso, quello maschile281.

Niente teoria per le donne, dunque, anzi, la teoria è nemica delle donne che

si vogliono libere, che vogliono trovare le parole per descrivere la propria

esperienza, i propri rapporti, se stesse .

Anche se, Irigaray lancia questo anatema contro la teoria, eppure Speculum

è una finissima analisi delle teorie filosofiche classiche.

Di più, con gli strumenti di una teoria, quella psicoanalitica di J. Lacan,

Irigaray legge la filosofia e mette le basi per un suo sistema di pensiero,

quello che diventerà poi il pensiero della differenza sessuale.

Si pone allora una domanda a due facce: che cosa è in gioco per Irigaray in

questo rifiuto o, che è lo stesso, in questa attribuzione della teoria al

maschile?

E, d'altra parte, avere voglia, oggi, di fare teoria per parte di donna, è una

neutralizzazione, significa dimenticare o rinunciare al lavoro di tante

autrici?

La risposta alla prima parte della domanda sta nella ricerca di Irigaray di

una radicale messa in questione del mondo - siamo in tempi di grandi

rivolgimenti, il 68 non è lontano - messa in questione del linguaggio, delle

pratiche discorsive, del pensiero e delle sue categorie, che rendono conto

dell'esperienza delle donne, delle loro vite, in un modo già codificato,

quello cioè di un complemento delle esigenze maschili.


281
Speculum Irigaray 1975:129

167
Il pensiero occidentale e la forma che prende, quella di teoria, dal punto di

vista della differenza sessuale, è il riflesso di un ordine sociale e culturale

dove l'uomo non cancella la donna, ma ne fa il proprio complemento

asservito.

Come dice C. Lonzi: “Chiediamo referenze di millenni di pensiero

filosofico che ha teorizzato l’inferiorità della donna“282 .

Questo implica che la filosofia, come tutto il pensiero teorico, è

intrinsecamente connessa al “femminile” per negazione: l’esclusione

sistematica delle donne è un gesto costitutivo del discorso teorico.

Questo è un punto da sottolineare: non è che i filosofi non abbiano parlato

delle donne, ma ne hanno parlato in termini complementari alle loro

esigenze.

Questa tendenza è evidente se si considera che il numero di femministe che

si sono dedicate all’analisi critica della razionalità filosofica è relativamente

piccolo, rendendo cosi la funzione stessa di questa disciplina sospetta.

Le femministe sono arrivate tardi alla filosofia poiché la elitaria disciplina è

stata ignorata.

Questa precisazione permette di fare una distinzione con l'uso del termine

teoria o teoria femminista che in alcuni frequenti casi viene fatto da alcune

autrici di lingua inglese.

La parola teoria è presa nel senso non cogente di “discorso disciplinare

sulle e delle donne”.

282
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, scritti di rivolta femminile 1, 2, 3 , Milano, 1974.

168
Ma nel pensiero della differenza sessuale, la questione non è tanto o

soltanto parlare delle donne, (la differenza sessuale è all'opposto di una

questione o di uno specifico femminile) ma stabilire dei principi che

permettano di rendere conto di un mondo abitato da donne e da uomini.

Dunque nella posizione di Irigaray vediamo che la teoria ha delle

caratteristiche ben precise.

Si costituisce a partire da un fondamento, la sua analisi del mito della

caverna di Platone mostra efficacemente che è una metafora che parte dal

materno-femminile e insieme lo cancella283.

Questo fondamento ha due facce, il sole della verità delle idee eterne e

l'oscurità terrena della condizione umana.

Da questo duplice aspetto è possibile poi procedere per contrapposizioni

binarie, di cui si privilegia un solo polo maschile-femminile, spirito-

materia, intelletto-corpo, etc.

La pretesa di verità - e il suo corollario, l'universalità - è sostanziata dalla

coerenza interna del discorso, della teoria, dalla sua sistematicità, per cui

sembra darsi un legame inscindibile tra ogni parte del discorso e quella

successiva. Inoltre, sempre in virtù della contrapposizione originaria, la

verità si costituisce in un rapporto di astrazione dall'esperienza, che in sé

non è portatrice di verità.

In tempi successivi, in tempi moderni, la teoria è la verità prodotta da un

soggetto che la detiene e che è fuori da quella stessa teoria, e per questo è

universale e neutro.
283
Gross in Patenam, Gross 1986:191).

169
La conoscenza prodotta è dunque oggettiva, assoluta, non si chiama in

causa il ruolo di quel soggetto nel costituirsi di quella realtà.

A meno, di nuovo, che non si tratti di un soggetto empirico, ma allora basta

fare astrazione dall'empirico.

Ricapitolando, le caratteristiche della teoria sono: il fondamento, inizio

primo e indiscutibile, che giustifica le mosse successive; la coerenza interna

o sistematicità, che garantisce la verità del tutto; l'astrazione dall'esperienza

e la necessità di porsi su un piano metafisico, al di là dell'esperienza, e

l’esperienza assume significato solo se ricade sotto i principi di quel

sistema; il soggetto universale e neutro, ovvero disinteressato o interessato

alla sola verità; l'universalità e l'oggettività della conoscenza che ne

conseguono.

Detto questo, per Irigaray va trovato un altro modo per dare voce e pensiero

alle donne. Come?

L'impostazione di Speculum è problematica, le proposte sembrano andare

più verso la forma letteraria che non verso la filosofia.

Eppure non sarà così.

Dichiarato o meno, questo rapporto c'è284. Ritroviamo la critica di

Heidegger285 al concetto di teoria e di teoretico, critica che riguarda la

filosofia come pensiero metafisico, critica ripresa da Braidotti che si rifà

284
Chi dichiara esplicitamente questa connessione, pur mantenendo delle 'dissonanze' rispetto a
questi autori, è Rosi Braidotti (1991).
285
Per una rilettura della critica heideggeriana e una rivalutazione di un rapporto non
immediatamente strumentale-pratico con l'oggetto, v. Gail Soffer 1998.

170
esplicitamente a Deleuze, e rifiuta, insieme a Derrida, la pretesa che un

pensiero si faccia teoria sistematica fondata, a pretesa di verità universale.

Da Derrida, e più in generale da quella filosofia francese che ha messo

all'indice 'lo spettatore disinteressato', soggetto appunto della teoria sin dai

greci286. Ritroviamo qui i colpi che da Heidegger in poi sono stati scagliati

contro le nozioni che stanno alla base dell'idea di teoria: la nozione di

fondamento, di verità come affermazione positiva di contenuti di discorso,

di soggetto inteso come istanza che controlla il discorso da un punto esterno

al discorso stesso, e via dicendo.

Insomma sono gli attacchi alla filosofia come metafisica e alla forma-teoria

che ne deriva.

Facendo un passo ulteriore prendo in considerazione il rifiuto della teoria da

parte di alcune delle autrici del pensiero della differenza sessuale,

individuando su quali caratteristiche della teoria si appunta questo rifiuto.

In Italia, abbiamo visto Carla Lonzi (1971), che rifiuta la teoria sia come

una tradizione che non contempla l'esperienza delle donne, sia nella sua

pretesa di dire la verità dell'esperienza.

Lonzi dichiara che solo l'autocoscienza, e non l'alleanza con sistemi, con

teorie quali il marxismo e la psiconalisi, può dare significato all'esperienza

di una donna.

In questa posizione c'è anche una contraddizione, o un assunto difficile da

sostenere: è possibile azzerare la dimensione sociale e storica di un

286
E. Husserl 1961.

171
individuo, una donna in questo caso, perché trovi in se stessa e in altre la

verità su di sé?

Se il pensiero di Lonzi andasse considerato come una teoria, diremmo che è

una forma di quel peccato filosofico che è oggi il cosiddetto

coscienzialismo o soggettivismo287.

Eppure Lonzi è una grande figura del femminismo italiano, perché?

Proprio perché non era una questione di teoria, perché allora la teoria 288, il

pensiero era al servizio dell'esperienza e della politica.

La grandezza di una autrice non era misurata sulla coerenza interna del suo

pensiero, bensì sull'efficacia della pratica che proponeva, che enucleava

dallo stare tra donne.

E’questa una posizione che in Italia ha ancora piede, la precedenza cioè

della pratica sulla teoria, al punto che si è potuto dire che la teoria non è

niente più che "una pratica messa in parole" (Lia Cigarini).

Ancora, nel catalogo del rifiuto della teoria possiamo mettere l'elaborazione

della differenza sessuale da parte delle filosofe di Diotima (Luisa Muraro,

Chiara Zamboni, Diana Sartori, per citarne alcune).

Il loro primo libro si intitola, non a caso, Il pensiero della differenza

sessuale (Diotima 1987: 9-39).

287
Il dilemma posto dall'autocoscienza rispetto al rapporto tra esperienza e teoria è illustrato in
Non credere di avere dei diritti (Libreria delle donne di Milano 1987:41-2).
288
Segnalo una questione interessante. Con il separatismo la politica delle donne si struttura
attraverso un gesto che appartiene tradizionalmente alla teoria: la sospensione dalle finalità
pratiche, richieste dalla convivenza sociale; in quel caso vennero messe tra parentesi le descrizioni
del femminile che erano funzionali agli interessi pratici dell’ordine sociale.

172
Nelle pagine del saggio introduttivo si nomina senza problemi la parola

teoria attribuendola al lavoro di autrici - filosofe, antropologhe, teologhe,

scienziate, etc. - ma ritengo che la formula pensiero della differenza

sessuale non sia sinonimo a problematico di teoria.

Una risposta si può trovare nel testo di L. Muraro, Maglia e uncinetto.

Racconto linguistico politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia

(Muraro 1998).

Il rifiuto riguarda in questo caso i caratteri della sistematicità o coerenza

interna della teoria e il suo rapporto con l'esperienza.

Muraro indaga sul procedimento del pensiero astratto, o meglio del

linguaggio all'opera nel discorso teorico, che è basato sulla prevalenza

dell'asse metaforico su quello metonimico.

Non mi addentro nel testo, dico solo l'assunzione alla base di quel lavoro: il

discorso metaforico.

La teoria è un discorso che cancella il proprio rapporto con l'esperienza o

meglio il procedimento metaforico ci fa superare il livello descrittivo

dell'esistente, e la particolarità dell'esperienza, sostiene ogni impresa di

spiegazione, interpretazione e progettazione insomma, il discorso teorico,

con il suo carattere metaforico, proprio perché intrattiene questo non-

rapporto con l'esperienza, e proprio perché di discorsi che mantengano

legami con l'esperienza le donne hanno bisogno per dire la propria, non è lo

strumento che ci interessa.

173
In questo caso è proprio per quella priorità che rivendica sulla pratica o

sull'esperienza.

La teoria sarebbe pensata a tavolino e in più pretenderebbe di dettare legge

su come dare significato all'esperienza e, non ultimo, la mutilerebbe,

quando l'esperienza disturbi la coerenza interna della teoria.

La posizione di Muraro è quella che definisco l'esigenza di non rimanere

ostaggio della teoria, della sua sistematicità, per cui ci si trova costrette ad

affermare qualcosa solo per il fatto che è una logica conseguenza delle

premesse, e questo a discapito dell'esperienza e delle incoerenze o

contraddizioni che può produrre.

D'altra parte, il pensiero metonimico permette di fare salti, salti discorsivi

radicati nell'esperienza, che mantengono un discorso in cui il linguaggio 'si

autolimita ed esce fuori di sé, come l'indicare o l'integrazione del contesto

linguistico e non linguistico.

Questa esigenza di non rimanere 'ostaggio della coerenza teorica' si ritrova

in un'autrice che non teorizza esplicitamente la differenza sessuale, ma che

individua problemi analoghi.

Si tratta dell'epistemologa Sandra Harding che in L'instabilità delle

categorie analitiche della teoria femminista (Harding 1986) propone alle

donne di non rinunciare a un progetto teorico, ma per non ripetere gli errori

della tradizione, propone di pensarlo come un 'riffing' (il rif è una breve

sequenza ritmica jazz che serve da sottofondo per interpretazioni solistiche).

174
Segnalo la sua posizione, che è molto interessante, perché in essa

convivono l'esigenza di una teoria e la consapevolezza dei rischi che

implica.

La sua proposta va dunque verso un ripensamento della forma-teoria, delle

caratteristiche che individuano la teoria.

Ma non si pensi che questo è un modo ignoto di fare teoria, è

semplicemente una descrizione più vera, perché anche le teorie tradizionali

si avvalgono di questi salti, ma, al contrario di Muraro, non esplicitano

questa mossa discorsiva.

Per fare un esempio rimando al testo di M. Le Doeuff, L'imaginaire

philosphique, che esamina come anche nei casi di teoresi più alta, la Critica

della ragion pura di Kant, ad esempio, la coerenza interna del sistema riveli

dei punti d'arresto, dei vuoti, che vengono riempiti con dei racconti, con,

non a caso, delle metafore.

Nel terzo capitolo dell'analitica c'è la famosa metafora della 'terra della

verità circondata da un vasto oceano tempestoso'.

Insomma c'è sempre un po' di mito nella teoria, che è in questo spazio

mitico che il rapporto con l'esperienza viene rimodellato e neutralizzato.

Nella lettura data dalle pensatrici della differenza sessuale, è in quello

spazio mitico che avviene il misfatto filosofico per eccellenza,

l'asservimento di un sesso all'altro, la descrizione del mondo in un modo

tale che si istituisce la subalternità e il rimando tra categorie come il

femminile, il materno, la natura, l'oggetto, la materia, etc..

175
Ulteriormente, Rosi Braidotti è l'esempio di come la differenza sessuale

cerchi di pensarsi tenendo conto di queste critiche radicali: la Donna come

soggetto metafisico della teoria non esiste, non esiste un soggetto forte, e

dunque non esiste un pensiero sistematico come una teoria, e anzi, Braidotti

arriva ad affermare che la differenza sessuale è basata su un paradosso

teoretico e pratico: produce e destabilizza simultaneamente la categoria di

'donna' (...) di conseguenza parlerei della differenza sessuale come di una

teoria che riposa e utilizza alcune contraddizioni costitutive, e la risposta a

queste contraddizioni non può essere formale in senso logico, ma pratica,

nel senso di indicare una soluzione nel 'fare'. Anche qui troviamo il rifiuto

di almeno tre caratteristiche della forma-teoria, la preminenza della teoria

sulla pratica, la coerenza formale e l'assunzione di un soggetto unico, con la

maiuscola, la Donna.

In altri termini, c'è l'assunzione che la teoria non debba stare in un rapporto

di tipo gerarchico con la pratica e la politica, ovvero, che la teoria respinga

la pratica e l'esperienza nel dominio del non vero.

E insieme c'è l'assunzione che il discorso sulla differenza sessuale non si

faccia teoria, come discorso basato su un soggetto forte identificato con la

Donna289.

Tuttavia, su altre caratteristiche della forma teoria, quella cioè

dell'universalità e oggettività, troviamo voci recenti che rimettono in

questione l'esigenza di un pensiero dotato di universalità, di oggettività, che,

289
Il brano di Braidotti è tratto dalla replica a Rita Felski che solleva alcune questioni a proposito
della differenza sessuale.

176
per dirla con Muraro, contrasti una certa aria del tempo [oggi le filosofie

sono] filosofie seconde: non parlano mai direttamente di quello che è.

Sono senza impegno ontologico, che è l'impegno di dire che ne è di quello

che è (...) l'economia e la tecnologia hanno superato la filosofia, l'hanno

sopravanzata, realizzando con i loro mezzi propri l'unificazione del mondo,

e questo ha reso superfluo il lavoro del concetto: l'universale ideale di

Platone come di Hegel è stato mandato in pensione dall'universale, reale

consumo di tivù e coca cola (Muraro in Diotima 1996: 6-7)

Non è un caso che questo invito e avvertimento venga da una filosofa della

versione italiana della differenza sessuale che, se ha messo in questione la

forma della teoria, non ha rinunciato tuttavia a porre un inizio - un

fondamento ? - della ricerca filosofica (Muraro 1991) - la relazione con la

madre - e a indicare degli assunti precisi e netti290.

E di questi inviti a riprendere per parte di donne la pretesa insita nel

concetto di teoria, di dire la verità, di cercare un'universalità, attraverso

descrizioni che tengono in conto i soggetti interessati, ne troviamo sempre

più spesso.

Nella controreplica di Felski si nota una certa irritazione, Braidotti, sembra

dire, se la cava con poco, aggira la questione, non risponde ai problemi, alle

contraddizioni o incoerenze che ho messo in rilievo. Tendo a dare ragione a

questa irritazione, e insieme a capire cos'è in gioco per Braidotti.

290
Inoltre come il pensiero della differenza sessuale riveli un certo realismo filosofico, in Diotima,
1990.

177
Tuttavia, capire le ragioni di Braidotti, che ho esposto poco sopra, non può

esimerci dal rendere conto delle contraddizioni, dal cercare di chiarirle,

magari per averne altre.

L'assunto è che la differenza sessuale, attraverso il legame con la madre,

permette di rendere conto della realtà in quel che non dipende da noi.

A partire da Sandra Harding che si chiede 'come mai si possa non voler dire

come le cose stiano veramente' (Harding 1986: 648) e attribuisce alle teorie

che tengono conto dei soggetti sessuati un grado maggiore di oggettività,

poiché descrivono meglio e più fedelmente ciò che è in gioco nella realtà,

rispetto alle descrizioni che riguardano un soggetto unico e neutro.

Come dice Harding ‘l'oggettività forte’ consiste nel rendere oggetto di

indagine anche i soggetti produttori di sapere e le loro relazioni con altri

soggetti: capire noi stessi e il mondo che ci circonda richiede di capire cosa

gli altri pensino di noi e delle nostre credenze e azioni, essendo insufficiente

sapere cosa pensiamo di noi stessi e di loro (Harding in Alcoff, Potter

1993:72).

Donna Haraway, per parte sua, vede nel pensiero delle donne la capacità di

riformulare e ridescrivere la realtà con categorie nuove, capaci di fornire un

impianto critico e insieme di porre 'problemi migliori' e dichiara come il

problema mio e 'nostro' sia come ottenere (...) un impegno rigoroso volto a

ottenere resoconti fedeli di un mondo 'reale', un mondo che può essere

parzialmente condiviso, e sia aperto a progetti mondiali di libertà

178
circoscritta e adeguata abbondanza materiale, che portino un modico di

sofferenza e un po' di felicità (Haraway 1991 1995: 109).

Infine, C. Battersby che non si perita di difendere il pensiero metafisico, per

la sua capacità di porre dei punti fermi, di assumersi la responsabilità di

porre dei principi da cui partire, e tra i quali assumere la differenza sessuale.

Ma attenzione, Battersby qui non rimane ostaggio dei termini, offre

un'ampia disamina dei diversi modi di concepire la metafisica, e annuncia

così il suo progetto, questo libro parte da una prospettiva femminista e le

sue conclusioni sono rilevanti anche per gli uomini (...) il modello di

identità che propongo [relazionale] è più adeguato agli uomini (e alle

donne) della concezione filosofica classica del soggetto, della sostanza e

dell'identità (Battersby 1998:3).

Insomma, come si vede, con il passare del tempo, e soprattutto con le

diverse posizioni delle autrici, questo rifiuto della teoria si modula, si

frammenta e mi pare, offre indicazioni per una strada da percorrere.

Ma cos'è cioè in gioco nella voglia di fare teoria oggi, per parte di donna, e

se questo implichi un tradimento o un oblio della politica e del pensiero

delle donne.

Si può avanzare l'esigenza di una teoria che parta dalla differenza sessuale,

mantenendosi in parziale continuità con il lavoro filosofico e politico che ci

precede.

179
Il punto di partenza , non è un soggetto identitario – le donne o la Donna -

ma un discorso, che può iniziare a farsi tradizione, quello che è stato

elaborato dalle donne, dal femminismo.

E’ dunque un punto di partenza storico, ma che non per questo si risolve

nell’occasionalità, anzi.

Infatti, quanto all'universalità o oggettività, si può affermare che una teoria

che tiene conto della differenza sessuale è più universale 291 del pensiero

neutro a soggetto unico. Suona come un paradosso, ma è un fatto.

E’ un fatto quando si pensa alla differenza sessuale come assunto che

produce discorsi su questioni che toccano uomini e donne, e non un

discorso delle donne sulle donne, né un discorso dell'Uomo che vale per

tutti, né un discorso in cui il proliferare delle differenze le rende irrilevanti

dal punto di vista filosofico.

Il punto di partenza della differenza sessuale è già più articolato e

complesso, più rispettoso della realtà.

Una forma che dia spazio alle contraddizioni - quando queste siano il segno

di un rapporto con l'esperienza - purché queste vengano esplicitate.

Fare leva sulla coerenza del discorso, infatti può essere un modo per

costituire una comunità accademica che dibatta sulle questioni che si

presentano di volta in volta, anziché perseguire sulla strada della

frammentazione specialistica.

291
Anche qui andrebbe sviluppato cosa si intende per universale, cfr. Irigaray, L'universale come
mediazione, 1987.

180
Si rivela così che la teoria è un fare teoria, che è un modo di produzione di

sapere – con i suoi soggetti e le loro relazioni - in un luogo dotato di regole

specifiche.

Non va trascurato il fatto che l’università ha un modo specifico di dare il

suo contributo alla descrizione della realtà, altrimenti, fare filosofia

all'università sarà sempre misconosciuta come esperienza specifica, come

pratica specifica, che è quella di elaborare un sapere a contatto con certe

regole, le si vogliano o meno modificare.

Se la giustificazione del fare teoria rimane sempre altrove, avremo sempre a

che fare con un pensiero alienato.

E ancora, mantenere vivo il rapporto con il femminismo sarà utile anche per

non concepire la teoria in quel rapporto unilaterale, di dominio, nei

confronti dell'esperienza.

L’assenza delle donne, storia teorica, è il segno di un’esclusione ancora più

fondamentale del genere femminile del diritto alla soggettività, nel senso

politico, economico e simbolico del termine.

Il fatto che il femminismo porti un impegno filosofico implicito, potrebbe

anche spiegare la sottovalutazione delle analisi esplicitamente femministe

della filosofia.

Queste filosofe propongono una critica ragionata della ragione teorica, e

sono anche pensatrici di contrapposizione, rivendicando un altro statuto per

la stessa attività di pensiero.

181
Qualsiasi filosofa si avventuri nell’ambito finora proibito del pensiero

teorico deve affrontare la solitudine e la vulnerabilità, le due condizioni

indispensabili alla creatività e soprattutto al pensiero delle donne292.

Uno degli obbiettivi fondamentali che ci si è posti è quello di trasformare la

filosofia in uno strumento utile con cui conseguire una descrizione adeguata

della realtà.

292
R. Braidotti, Dissonanze, op.cit., p.150.

182
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