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L’oggetto dell’intercultura

È degno di nota il fatto che Demetrio non faccia derivare l’intercultura unicamente e
“geneticamente” dall’incontro con lo straniero: “nel tempo degli esordi, la rapida diffusione
dell’idea di educazione e di pedagogia interculturale (questo non può essere dimenticato anche se le
assonanze possono apparire stridenti), venne favorita da un precedente dibattito cui erano seguiti
provvedimenti normativi, organizzativi e didattici rilevanti sull’integrazione di bambini e ragazzi
con handicap. Nonché da una altrettanto importante riflessione, ma dalla assai scarsa eco nella
scuola, sulle differenze di genere e sessuali che abitano i contesti di insegnamento”1.

A differenza del multiculturalismo, l’intercultura contempla, fin dalla sua nascita, non solo lo
straniero, portatore di una diversità culturale radicale, ma anche la donna e il disabile, lo “straniero”
dentro la nostra stessa cultura.

Da un lato, il contatto tra le culture non è più immaginato come un passaggio tra un prima e un
dopo, ma diventa un processo, condizionato da elementi quali la razza, la cultura, la classe sociale,
il genere, l’orientamento sessuale… La pedagogia interculturale si concentrerà sulle faglie di rottura
che contrappongono non solo italiani e stranieri, ma anche maschi e femmine, ricchi e poveri,
persone in situazione di handicap o meno, nomadi e stanziali… Intersezionalità

Anche perché il disagio emotivo e culturale che caratterizza lo straniero è diventato caratteristica di
ciascuno di noi, reso “straniero” a se stesso e alla propria tradizione dai fenomeni di globalizzazione
in corso. Come afferma Callari Galli, infatti: “in fondo ciò che li riunifica tutti – africani e asiatici,
medio-orientali, polacchi e serbi, laureati in una università del proprio paese o analfabeti – oltre a
condividere tutti la «cultura dello spaesamento», del sentirsi sradicati e stranieri, […] è proprio la
partecipazione, omologante e per lo più superficiale e settaria, alla nuova cultura planetaria.

in fondo spaesamento ed estraneità invadono l’intero pianeta, riguardano «noi» e «loro» in quanto i
confini culturali sono caratterizzati da un dinamismo così veloce da essere sempre, per tutti, in via
di definizione”2.

Il conflitto
Un altro degli ambiti d’azione dell’intercultura è il confronto con gli stereotipi e i pregiudizi3.

Stereotipi e pregiudizi

Questo atteggiamento è anche il risultato di un bisogno psicologico di discriminare, di fare la


differenza tra il proprio gruppo, cui si attribuiscono tutte le caratteristiche positive (e così, di
riflesso, a se stessi) e il gruppo altro, cui si attribuiscono tutte le caratteristiche negative4.

Tutto ciò, ovviamente, favorisce la genesi dei conflitti. Purtroppo, noi esseri umani tendiamo a non
collegare il conflitto al contesto che lo produce. Il conflitto è percepito come negativo, così come la
guerra è considerata negativamente, ma è solo una sgradevole o terribile parentesi in una
convivenza considerata positivamente perché caratterizzata dall’assenza totale del conflitto: non
facciamo cioè attenzione ai prodromi che preparano e annunciano il conflitto. A ben guardare,
1
Demetrio – Favaro, Didattica interculturale, op. cit., p. 13; sulla pedagogia della differenza sessuale, vedi A.M.
Piussi (a cura di), Educare nella differenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1989.
2
M. Callari Galli, Il rapporto tra le culture in una società duale: tra multiculturalismo e marginalità in Cultura,
culture, dinamiche sociali, educazione interculturale, Atti del Convegno, Palermo, 4, 5, 6 ottobre 1995, Fondazione
Nazionale «Vito Fazio-Allmayer», Palermo 1997, p. 53.
3
B.M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, il Mulino, Bologna 1997.
4
Ivi, pp. 72-8.
infatti, limitare il campo del conflitto alla sola violenza appare discutibile. In un’ottica
interculturale, il conflitto è espressione di una differenza. Potremmo dire che conflitto è un altro
nome della differenza. Avremo conflitti ogni volta che avremo l’interazione tra differenze. Il
conflitto quindi, più che essere demonizzato, va valorizzato perché, in quanto differenza, può essere
pedagogicamente utile. Ciò non significa accettazione della violenza, proprio perché questa, non
solo non si identifica col conflitto ma anzi ne è la negazione, segnando la paralisi dell’interazione
tra le differenze. La violenza risulta insomma uno solo dei modi in cui può evolversi un conflitto:
sicuramente il peggiore. Seguendo questo ragionamento, avremo meno conflitti violenti se, tenendo
conto della differenza tra conflitto e violenza, cercheremo di analizzare la genesi e la strutturazione
dei conflitti, gestendoli in maniera creativa.

La relazione tra stranieri e italiani è caratterizzata anche da conflitti. Ma, come dice Sclavi, “il
conflitto e il disagio della non riuscita comunicazione molto spesso non è «colpa» di nessuno; è una
normale questione di dissonanza di matrici cognitive” 5. Graziella Favaro riporta un istruttivo
episodio storico6: Cristoforo Colombo, giunto a Trinidad, cerca di attirare gli indigeni sulla sua
caravella e, dopo alcuni infruttuosi tentativi, improvvisa una festa con suoni e danze. All’invito alla
festa, gli indigeni non rispondono con cortesia ma attaccano immediatamente con le frecce. Un
esempio da manuale di fraintendimento interculturale: suoni e danze, che nella cornice culturale di
Colombo erano segni di pace e amicizia, equivalevano per gli Arawak ad una dichiarazione di
guerra.

Esempio: il Marocco

Conflitti del genere nascono in continuazione.


Dentro le aule scolastiche, allo sportello dell’ufficio postale, nel luogo di lavoro, sull’autobus,
siamo infatti poco inclini ad ascoltare l’altro, specialmente se è uno straniero, un membro di una
minoranza, un emarginato. Secondo Sclavi, infatti, “ogni volta che qualcuno inizia una frase,
incominciamo immediatamente a produrre congetture sul significato dell’intera enunciazione e man
mano che va avanti modifichiamo sia la nostra interpretazione delle singole parole che il senso
complessivo quel tanto che è necessario perché la nostra interpretazione rimanga plausibile”7.

Nell’incontro con l’Altro questo meccanismo ha effetti particolari: “maggiore è l’autorità e il


prestigio di una persona, più ci rendiamo automaticamente disponibili a darci da fare per rendere
«sensato» quello che dice e fa […] [invece] quando chi «parla e fa» è una persona emarginata dalla
società o comunque in posizione marginale, altrettanto automaticamente tendiamo a risparmiarci, a
posizionarci sull’ascolto passivo. Questa mancata attivazione e collaborazione è il motivo principale
per cui «i marginali» così spesso «hanno poco da dire» e quello che dicono «ha poco o nessun
senso»”8.

L’intercultura insegna ad ascoltare chi è straniero alla nostra cultura, alla nostra identità, senza
sentire la diversità come una minaccia al nostro senso profondo, ma come occasione per superare lo
scarto, per comprendersi non a prescindere dalla (ma anzi attraverso la) differenza.

5
M. Sclavi, Insegnamenti impliciti ed espliciti nella scuola italiana e in quella statunitense, in P. Perticari – M.
Sclavi (a cura di), Il senso dell’imparare. Per far riprendere il fiato e la parola a insegnanti e studenti, Anabasi,
Milano 1994, p. 42.
6
Demetrio – Favaro, Didattica interculturale, op. cit., p. 125.
7
M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Le Vespe, Pescara-
Milano 2002, p. 104.
8
Ivi, pp. 104-5.

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