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Onestamente non credo di aver risposte a queste domande ma penso sia importante riflettere
sul perché e il per come proprio l’inglese: il fatto che i Gender Studies siano nati in un paese anglofono
non mi soddisfa più. Innanzitutto, l’inglese è una lingua molto più duttile dell’italiano in cui la crasi
è all’ordine del giorno e viene rapidamente assimilata: l’assenza di desinenze fisse per le forme
verbali fa sì che tutto possa essere un verbo. Ed è così che nascono con estrema facilità parole come:
1. bropropriating (bro/brother = fratello + appropriating = appropriarsi; sta per: un uomo ruba
l'idea di una donna e la spaccia per sua)
2. manterrupting (man = uomo + interrupting = interrompere; sta per: atteggiamento arrogante
di un uomo che interrompe una donna mentre sta parlando)
3. mansplaining (man = uomo + explaining = spiegare; sta per: atteggiamento paternalistico di
uomini che spiegano a una donna qualcosa pensando di saperne di più)
4. manspreading (man = uomo + spreading = diffondersi; sta per: postura maschile della seduta
a così gambe aperte da occupare spazi altrui)
5. catcalling (cat = gatto + calling = chiamare; sta per: molestia sessuale, prevalentemente
verbale, che avviene in strada)
6. incel (involuntarily = involontariamente + celibate = celibe; sta per: gruppo di uomini
eterosessuali che sperimentano profonde difficoltà nelle relazioni con le donne e per questo
le odiano)
Sto mettendo insieme un abecedario femminista e sono mesi che mi arrovello per cercare
traduzioni accattivanti ma non c’è verso di trovare qualcosa che non sia un periodo troppo lungo. In
casi come slut-, fat- e body-shaming (slut = puttana / fat = grasso/ body = corpo + shaming =
umiliazione pubblica), la faccenda è ancora più complessa perché se shame è traducibile con
“vergogna” questi termini non indicano “il provare vergogna per…” bensì tutti quegli atteggiamenti
sociali per cui il corpo, il grasso o la libertà sessuale –spesso e volentieri di una donna- vengono
sistematicamente umiliati. To shame è un verbo regolare transitivo attivo, “vergognarsi” è un
intransitivo pronominale ergo riflessivo: le regole grammaticali sono alla base di un’ipotetica
intraducibilità.
In tutti casi sopra citati l’anglicismo veicola una nozione complessa bisognosa di una lunga
perifrasi esplicativa. Ecco la lunghezza, il punto è forse prevalentemente questo: l’italiano una lingua
molto meno essenziale e più prolissa dell’inglese e noi italiani tendiamo ad essere pigri, pigrissimi.
Questa pigrizia a volte ci fa prendere in prestito parole dall’inglese anche se sono imprecise e a tratti
problematiche. Ad esempio, il fenomeno del revenge porn non ha nulla a che vedere con i concetti
di vendetta (revenge) e pornografia (porn) a cui il nome si rifà. Perché se si tratta di vendetta si dà
per scontato che la vittima abbia fatto qualcosa per cui meriti una punizione; mentre la pornografia
non ha molto a che fare con “la condivisione non consensuale di immagini intime”, anche se
comunque il materiale pornografico in circolazione presenti una serie di stereotipi tossici sul sesso.
L’uso del termine survivor al posto di “vittima” si è fatto strada negli ambienti femministi per
definire donne che avevano subito violenze. Questa parola viene scelta perché neutra nel genere e
perché più vicino alla causa dal momento che si distacca dalle narrative che colpevolizzano e
sminuiscono la vittima. Sebbene il termine “vittima” rischia di cristallizzare una passività, con
survivor vi sono due tipi di problematiche: non solo si escludono tutt* coloro che non sono
sopravvisut* alle violenze ma si può anche sottintendere un percorso finalizzato alla conquista di un
valore legato ad uno sviluppo attivo della donna nel reagire e combattere. In questo preciso caso, nei
tribunali si continua ad adoperare il termine “vittima” poiché si parla di reato mentre la Federazione
Internazionale dei Giornalisti invita a scegliere tra i due termini valutando le circostanze.
Tutte queste parole vengono dal femminismo inglese o americano ma non descrivono
fenomeni che accadono solo oltremanica o oltreoceano. Se c’è una cultura patriarcale che ha bisogno
di dare un nome alle sue disfunzioni, quella è la nostra. È importante riconoscere che l’assenza di
terminologie adatte e la presenza narrative tossiche create da un linguaggio sessista rispecchiano
convinzioni e stereotipi sociali dei quali non abbiamo piena consapevolezza. In questo modo il
linguaggio non getta solo le basi per gli abusi verbali ma diventa anche terreno fertile per i fenomeni
Marta Maria Nicolazzi per Mulieris Magazine
di violenza fisica e contribuisce in maniera significativa ad una percezione distorta della violenza di
genere in ogni sua forma.
Partendo dal presupposto che ciò che può essere nominato con precisione si vede meglio, dare
un nome a situazioni, sensazioni, attitudini e fenomeni è il primo passo nei confronti di un
cambiamento: non si può denunciare quello che non esiste, e se un qualcosa non si chiama, non non
esiste. Quindi benché sia giusto sforzarsi a tradurre certi termini e renderli più nostri -come nel caso
di fatphobia e grassofobia, questo proliferare di termini inglesi nelle questioni di genere non sarà cool
come per la moda e l’hightech ma è certamente un sintomo positivo di un mutamento di linguaggio
che può capitanare preziose conquiste di civiltà ed eguaglianza nella nostra società. Come dice la
sociolinguista Vera Gheno, per costruire una società più equa ed inclusiva, bisogna parlare in modo
consapevole e responsabile ascoltando chi si sente vittima di violenze e discriminazioni linguistiche
senza sminuire o minimizzare ciò che non ci tocca personalmente o che riguarda una minoranza.
“Chi parla male pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono
importanti”
Nanni Moretti nel film Palombella Rossa