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Capitolo 5

Cultural heritage: istanze tangibili e intangibili della memoria collettiva

di Diane Barthel-Bouchier

Introduzione

Il patrimonio culturale, o “cultural heritage”, sia nella sua forma tangibile che intangibile, è
un‟istanza fondamentale della memoria collettiva. Il patrimonio materiale, sia che si tratti di un
piccolo e semplice artefatto che di un panorama culturale più ampio, ha lo scopo di fornire una
prova fisica del passato. Questa prova può essere relativamente stabile nel tempo oppure può subire
delle alterazioni significative. Tale testimonianza può essere situata all‟interno di musei o villaggi,
può assumere la forma di una lingua minoritaria, di una pratica commemorativa o della storia
pubblica. Qualsiasi sia la sua sembianza e la sua cornice, il “cultural heritage” testimonia l‟esistenza
di tempi passati differenti dal presente, sebbene quest‟ultimo mantenga un legame sottile ed
evidente con il passato. La gente usa i segni tangibili del proprio patrimonio, così come le tradizioni
e le pratiche intangibili, come strumenti che aiutano la condivisione delle memorie collettive e
mettono in scena delle narrazioni per spiegarle ed accompagnarle.
All‟interno della categoria del patrimonio materiale, il cosiddetto “patrimonio costruito”
assume un‟importanza particolare per la grandezza e la relativa fissità. I dipinti, le sculture e gli
artefatti archeologici possono essere rubati o venduti attraverso i confini nazionali, finendo spesso
per far parte di collezioni private e scomparendo dalla circolazione. Tutto un altro discorso va fatto
per quanto riguarda il tempio di Angkor Watt, il Machu Picchu o la cattedrale di Chartres. Sebbene
la sorveglianza debba essere vigile contro qualsiasi atto vandalico, è impossibile per i vandali
scappare con l‟intera costruzione. Molta dell‟importanza culturale di questi luoghi è connessa alla
loro posizione geografica e quindi ai gruppi sociali e/o alle nazioni che li valutano per il loro ruolo
sia nel dare forma sia nel riconfermare le memorie collettive. Tali memorie spesso assumono anche
un‟importanza sociale e/o politica nel momento in cui vengono impiegate per legittimare le
rivendicazioni di un gruppo in relazione a beni, status o poteri.
In contrapposizione al patrimonio tangibile, quello intangibile può essere definito come «le
pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, la conoscenza, le capacità – così come gli strumenti, gli
oggetti, gli artefatti e gli spazi culturali ad essi associati – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi
gli individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale»1. Come questa definizione
chiarisce, le forme specifiche del patrimonio intangibile possono includere elementi tangibili. Le
tradizioni musicali più caratteristiche fanno affidamento agli strumenti musicali, le arti visive
contano su materiali fisici e si traducono in prodotti artistici o artigianali, il teatro si basa su
costumi, scene e scenografie. Quel che è affascinante del patrimonio intangibile è il fatto che in
qualche modo debba essere “mantenuto vivo” e per far ciò deve essere rimesso in scena ritualmente.
Molte delle pratiche racchiuse sotto l‟etichetta di patrimonio immateriale sono antiche forme di
musica, danza o arte visiva, o anche tradizioni particolari che includono parate, rievocazioni
storiche o festività. Tutto ciò che viene creato all‟interno della categoria di patrimonio immateriale
si basa in una parte considerevole sulla teoria durkheimiana dell‟importanza dei rituali al fine di
mantenere la solidarietà sociale, sia nelle società tradizionali relativamente indifferenziate, sia nelle
moderne società altamente differenziate.
Come facciamo a distinguere ciò che è o non è “cultural heritage”? A prima vista sembra
che qualsiasi cosa possa essere considerata patrimonio culturale. Secondo Graham, Ashworth e
Tunbridge (2000, p. 1), questo termine include «quasi ogni sorta di scambio intergenerazionale o di
relazione, accettata o meno che sia, fra le società così come tra gli individui». Il patrimonio e la
storia sono fenomeni connessi seppur separati. Per Lowenthal, la storia «esplora e spiega passati
divenuti col tempo sempre più opachi», mentre il patrimonio culturale «rende più chiari i passati in
modo da rimodellarli sulla base degli scopi del presente» (1996, p. XI). Il patrimonio
originariamente era associato alle famiglie: si riferiva ai beni collettivi e alla ricchezza che
costituivano il patrimonio di una famiglia che veniva tramandato di generazione in generazione. Si
presume che venissero tramandati sia i beni materiali che quelli immateriali: la posizione sociale
della famiglia all‟interno del villaggio, la sua reputazione per coraggio o codardia, generosità o
avarizia.
Con il passare del tempo, questa definizione è stata estesa fino a includere i concetti di
patrimonio locale o regionale. Un villaggio può avere delle tradizioni culinarie leggermente diverse
da un altro, così come piccole variazioni possono riguardare anche le lingue e l‟accento posseduto
da diverse comunità all‟interno di una stessa regione. Oggigiorno, il “cultural heritage” di regioni
specifiche è al centro di una rinnovata attenzione e sta assumendo progressivamente un significato
politico. Per esempio, si tengono dibattiti accesi sulla questione della corrida: ci si chiede se essa
rappresenti un aspetto più o meno importante della cultura spagnola, con alcuni osservatori che
sottolineano come il desiderio della Catalogna di eliminare la corrida faccia parte del suo stesso
movimento separatista nei confronti di Madrid.
1
UNESCO, Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, disponibile online all‟indirizzo
unesdoc.unesco.org/images/0018/001897/189761e.pdf
In ogni caso, al di là delle associazioni familiari, locali e regionali, il “cultural heritage” ha
assunto un significato nazionale. Come ha giustamente sottolineato Kowalski (2011), gli stati-
nazione vedono il patrimonio come una forma di ricchezza culturale e sono capaci di trasformare
questa ricchezza culturale in risorse economiche. Ad esempio, mentre la Francia si è storicamente
preoccupata di promuovere i propri meriti culturali passati e presenti, altre nazioni relativamente
nuove come il Senegal sfruttano le proprie danze di gruppo e altri artisti per ottenere riconoscimenti
a livello internazionale.
L‟Organizzazione delle Nazioni Unite per l‟Educazione, la Scienza e la Cultura (United
Nations Educational, Scientific and Cultural Organization – UNESCO) promuove questa
definizione di patrimonio, enfatizzando la diversità culturale che esiste fra stati-nazione piuttosto
che quella che esiste all’interno degli stati-nazione. La nozione di “heritage” serve in questo modo a
conferire un senso d‟identità nazionale, contribuendo anche a definire chi appartiene o non
appartiene alla “nazione”. Può creare la percezione di avere uno scopo nazionale unico, mentre
conduce alla soppressione delle minoranze razziali o etniche che rappresentano le differenze
culturali. Queste minoranze, però, mantengono vive non solo lingue e culture diverse, ma anche la
memoria di periodi di persecuzione nel corso della storia. Le loro memorie collettive contrastano
con i “narratives” ufficiali di unità nazionale e rappresentano una minaccia per la centralità politica.
Oltre al livello delle memorie collettive nazionali e delle forme di commemorazione, Levy e
Sznaider discutono dell‟esistenza di “memorie cosmopolite” che, a loro dire, stanno dando origine a
«un processo di “globalizzazione interna” attraverso il quale gli interessi globali diventano parte
delle esperienze locali di un numero sempre più elevato di persone» (2002, p. 87). Le memorie
cosmopolite non sono libere di fluire, ma sono collegate piuttosto a specifiche regioni, comunità o
luoghi. Le memorie cosmopolite si possono formare sia attraverso una conoscenza diretta, sia da
indiretta (ad esempio tramite un abitante locale o un turista) e /o attraverso una conoscenza mediata.
Infatti, Maurice Halbwachs (1952) ha tracciato una distinzione tra le memorie sociali, che sono
condivise da coloro che hanno avuto esperienza diretta di un evento e le memorie storiche, che
vengono mediate dall‟educazione, dai media o anche dal sentito dire.
Facendo riferimento a questo lavoro, ritengo che i siti riconosciuti come patrimonio
rappresentino le basi fisiche per le memorie cosmopolite. Alcuni di questi luoghi diventano lo
scenario abituale televisivo per le notizie provenienti da una nazione specifica, ad esempio l‟Arco di
Trionfo appare spesso come sfondo quando si parla della Francia, o il Parlamento inglese per le
notizie provenienti dall‟Inghilterra. Di fatto, i luoghi specifici diventano una metonimia per gli stati-
nazione o per le loro sedi politiche, come quando qualcuno parla del “Cremlino”, del “numero 10 di
Downing Street” o della “Casa Bianca”. Altri luoghi vengono associati immediatamente a viaggi
(Venezia, le Piramidi), a celebrazioni pubbliche (Times Square, Trafalgar Square), o a proteste (le
piazze di Tahrir o di Tiananmen).
Il “cultural heritage” può riferirsi anche a identità che non hanno una base geografica, ma
che si fondano piuttosto su altri principi, fra i quali includiamo ad esempio la religione, il genere, la
razza, la classe sociale, l‟occupazione o gli hobby. Le cascate Seneca rappresentano un sito “World
Heritage” dello stato di New York, che commemora un momento chiave della storia del
femminismo nel Nord America. Allo stesso modo, Robbins Island, in Sudafrica, è patrimonio
mondiale in quanto in questo luogo viene commemorata la lotta contro l‟Apartheid.
Tuttavia, resta aperta ancora la domanda riguardo a cosa dovrebbe essere considerato
patrimonio per ogni gruppo e/o ad ogni livello dell‟identificazione geografica. Ad esempio, un
membro di una famiglia può considerare le vecchie coperte fatte all‟uncinetto dalla nonna come
forma di patrimonio, mentre un altro potrebbe considerarle pronte per essere gettate nella
spazzatura. Un villaggio può affrontare varie vicissitudini per preservare i suoi storici lavatoi,
mentre in un altro essi sono lasciati alla rovina. Facciamo dunque un passo indietro per considerare
non tanto ciò che viene definito “cultural heritage”, quanto piuttosto chi decide che tali elementi del
passato vengano incorporati nei “narratives” dominanti della memoria collettiva.

5.1. Lo sviluppo di una Comunità del Patrimonio Globale

La domanda relativa a ciò che è o non è definito “cultural heritage” ha una forte dimensione
politica. Nel corso del ventesimo secolo, gruppi specifici di quelli che Burke ha definito i banchieri
simbolici (1984) hanno assunto un ruolo preminente nella conservazione di ricordi visibili del
passato. Questi banchieri simbolici definivano cosa fosse meritevole di essere conservato, il perché
lo fosse e il come dovesse essere conservato e interpretato per il pubblico. In quanto professionisti e
manager del patrimonio, lavoravano con i governi e spesso erano utili ai ministeri in cui la cura del
patrimonio si era intrecciata con il mandato di preservare la cultura di una nazione e di
promuoverne i successi. In questo modo il patrimonio può essere visto come una forma importante
di capitale culturale che può essere chiamato allora a servire una varietà di fini politici, sociali ed
economici (Bourdieu, 1993). Comprendendo questo, i gruppi sociali che ritenevano di essere stati
privati del loro patrimonio iniziarono ad opporsi alle versioni ufficiali. Dalla fine degli anni „60 in
poi, i difensori della New Social History iniziarono a premere per il riconoscimento di “narratives”
del patrimonio culturale associate alle persone di colore, alle classi lavoratrici e alle donne, per
menzionare soltanto alcuni fra i tanti gruppi sociali discriminati le cui memorie collettive non
avevano ricevuto fino ad allora il dovuto riconoscimento sociale.
Nella seconda metà del ventesimo secolo, la conservazione del patrimonio ha raggiunto una
vera dimensione globale con la fondazione di quel che io chiamo la “Comunità del Patrimonio
Globale” (Barthel-Bouchier, 2013). Questa Comunità del Patrimonio Globale può essere definita
come quella che include tutti coloro che sono attivi nella promozione di quei valori connessi
all‟approccio cosmopolita per la conservazione del patrimonio. Tale comunità si ispira alle
competenze che sono associate ad una serie di professioni, fra cui l‟architettura, l‟archeologia, la
storia, la scienza dei materiali, la chimica, la giurisprudenza, la pianificazione urbana e la politica
pubblica. Nonostante rappresenti queste discipline così diverse e derivi dalla crescente diversità di
contesti nazionali, i membri di questa comunità condividono un impegno fondamentale nello
stabilire dei valori e delle norme globali sul perché il patrimonio culturale sia rilevante e su come
dovrebbe essere conservato.
Mentre le radici storiche della conservazione patrimoniale risalgono a secoli fa, questa
Comunità del Patrimonio Globale cominciò a prendere forma nei decenni che seguirono la Seconda
guerra mondiale. Inteso come parte di una repulsione globale nei confronti dei crimini di guerra e
della distruzione dilagante, iniziò a prendere piede il concetto di diritto umano applicato alla
cultura, un diritto che incluse la protezione di monumenti culturali e tradizioni. Questo concetto ha
ottenuto maggiore legittimità quando è stato incorporato nell‟Articolo 27 della Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani del 1948 delle Nazioni Unite. Tale articolo specificava che «Ogni
individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle
arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici». Secondo quel che evidenziano
Silverman e Ruggles (2007), mentre quest‟articolo introduceva l‟idea di cultura come diritto umano,
allo stesso tempo esso non specificava né la relazione particolare fra individui, comunità e nazioni,
né chiariva quali procedure dovessero essere applicate in caso di conflitti legati al diritto di una
forma culturale o di una manifestazione particolare.
Una lista impressionante di convenzioni, risoluzioni e dichiarazioni seguì sulla scia della
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Uno dei primi e più importanti atti fu la Convenzione
per la Protezione dei Beni Culturali in caso di Conflitto Armato, conosciuta anche come
Convenzione di Hague. Adottata nel 1954, fu elaborata con l‟intenzione di proteggere i beni
culturali. Tutti i partiti che firmarono la convenzione acconsentirono a rispettare i monumenti in
tempi di guerra e a proteggerli in tempi di pace. Un altro documento fu la Convenzione concernente
le Misure da Adottare per Interdire ed Impedire l‟Illecita Importazione, Esportazione e
Trasferimento di Proprietà di Beni Culturali, adottata dall‟UNESCO nel 1970. Così come
suggerisce il titolo, questa convenzione protegge gli oggetti del patrimonio culturale e/o la loro
importanza archeologica contro l‟esportazione illegale.
Forse la più nota fra gli accordi è la Convenzione concernente la Protezione del Patrimonio
Culturale e Naturale Mondiale, adottata dalla Conferenza Generale dell‟UNESCO nel 1972. Sotto i
termini di questa convenzione, le candidature dei luoghi considerati come patrimonio sono
trasmesse dagli stati membri al “World Heritage Center” dell‟UNESCO. Gli esperti preparano un
resoconto tecnico, valutando se la proprietà è realmente di “valore universalmente riconosciuto”, a
quel punto la candidatura viene inoltrata all‟Ufficio per il Patrimonio Mondiale ed infine alla
Commissione per il Patrimonio Mondiale, che assume la decisione finale.
La Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, approvata
dall‟UNESCO nel 2003, può essere considerata quel che Kymlicka (2007) ha identificato come un
passaggio internazionale dai diritti umani universali del dopoguerra ai diritti delle minoranze del
periodo post guerra fredda (corsivo dei curatori). Ciò che appare distintivo in questa convenzione è
che essa ha individuato la proprietà dei beni immateriali non negli individui, negli stati-nazione o
nell‟umanità ma “nelle comunità, nei gruppi e, in alcuni casi, negli individui”.
In seguito, nell‟ottobre del 2015, l‟UNESCO ha approvato la Convenzione sulla Protezione
e Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali, più comunemente conosciuta come la
Convenzione sulle Diversità Culturali. Sebbene essa abbia ottenuto da subito grande sostegno
generale fra gli stati-nazione, la proposta originaria sottesa a quella fatta dalle nazioni sostenitrici
(Francia e Canada) riguardava la protezione delle loro industrie culturali, specialmente la
produzione di pubblicazioni ed audiovisivi, contro il potere economico di quelle prodotte dagli Stati
Uniti.
Il fatto che ci sia un‟accettazione diffusa dell‟idea che la conservazione del “cultural
heritage” sia un bene ha condotto Elliott e Schmutz (2012) a sostenere che il “World Heritage” sia
un esempio di quel che John W. Meyer e i suoi colleghi considerano come un crescente world polity
(Meyer, Boli, Thomas e Ramirez, 1997). Secondo questo approccio, le organizzazioni internazionali
governative (international governmental organizations – IGOs), le organizzazioni internazionali
non governative (international non-governmental organizations – INGOs) e le organizzazioni
nazionali non governative (national non-governmental organizations – NGOs) sono i primi motori
di diffusione di una serie di valori e norme a livello mondiale. Piuttosto che indebolire l‟importanza
degli stati-nazione, questa forma di globalizzazione normativa funziona attraverso lo stato-nazione,
nell‟incoraggiare programmi e altri investimenti sociali di supporto alla scienza, ai diritti umani e
alla diffusione della salute e dell‟educazione, fra gli altri beni sociali.
Infatti non c‟è alcun dubbio che l‟approccio cosiddetto world polity sia riuscito
efficacemente ad individuare i processi attraverso i quali un insieme di idee e di forme
organizzative originariamente identificate con la civilizzazione occidentale siano state diffuse in
tutto il mondo o sul fatto che la stessa esistenza delle Nazioni Unite e di una serie di norme
concordate fornissero un‟arena mondiale e regole per la concorrenza. Tuttavia, ci sono motivi per
interrogarsi sul livello di accordo e di intensità del presunto attaccamento ai valori centrali nel
cosiddetto “World Heritage regime”. In breve, i luoghi culturali dell‟heritage mondiale soffrono di
frequente minacce che vanno dallo sviluppo (le intrusioni da parte di compagnie minerarie ed
industriali, nuove opere stradali e ponti), alla guerra e al saccheggio, dall‟eccessivo sfruttamento del
territorio tramite il turismo all‟inquinamento e alla mancanza di attenzione per la conservazione. I
siti naturali del “World Heritage” sono danneggiati da tutto questo, oltre che dalla caccia di frodo.
Inoltre, è ampiamente riconosciuto che gli stati-nazione abbiano spesso sostenuto il Patrimonio
Mondiale non in virtù dei loro alti ideali, ma per il desiderio di migliorare il loro bilancio
commerciale attraverso il turismo, o anche di effettuare pulizia etnica rimuovendo le popolazioni
indesiderate dai siti naturali2. In realtà, una testimonianza varia e diffusa suggerisce che i principi
associati alla politica mondiale possano essere supportati solo da una piccola minoranza della
popolazione mondiale. Altri valori, per lo più la sopravvivenza di base per alcuni e il profitto per
altri, ma anche motivi e valori politici connessi allo status, al tempo libero e al consumo, sono
spesso contrari a questi principi e interferiscono con la loro applicazione pratica.
Piuttosto che riflettere dei valori profondamente radicati, direi che l‟accettazione apparente
dei principi e delle pratiche di conservazione del patrimonio può essere meglio apprezzata tramite il
riferimento a quanto il teorico sociale tedesco Ulrich Beck ha definito “la banalità del bene” (2000).
Nel proporre questo concetto, Beck fa riferimento al concetto di Hannah Arendt di banalità del
male, utilizzato per spiegare l‟operazione burocratica dell‟omicidio di massa nella Germania
nazista. Nei suoi termini più semplici, il ragionamento di Beck è che gli stati-nazione saranno
disposti positivamente verso certe politiche quando queste saranno percepite come portatrici di
onore e di status per lo stato-nazione, pur dipendendo dalla cooperazione internazionale per ottenere
i risultati desiderati e implicando un costo relativamente basso.
Secondo questo ragionamento, quindi, il fatto che la Conferenza di Copenaghen sul Clima
(COP 15) abbia determinato un accordo debole potrebbe essere dovuto al fatto che le politiche
efficaci per ridurre i cambiamenti climatici avrebbero comportato dei costi sostanziali per gli stati-
nazione. Al contrario, la ratifica della Convenzione del Patrimonio Mondiale da parte di uno stato-

2
Ad esempio, nel 1997 le organizzazioni per i diritti umani hanno protestato in Myanmar quando le principali
organizzazioni per la protezione della natura non hanno risposto alle segnalazioni che dicevano che il governo stava
sfollando la minoranza etnica Karen dalla terra dove si stava creando la più grande riserva naturale del mondo.
nazione arriva a costi molto esigui e l‟iscrizione di siti nazionali alla Lista del “World Heritage”
porta numerosi vantaggi. Lo status che deriva dalla lista ricade sullo stato-nazione ed è anche
destinato ad aumentare il turismo culturale, con i benefici finanziari che ne seguono.
La conservazione del patrimonio si è sviluppata marcatamente nella seconda metà del XX
secolo, sia perché i suoi valori e le sue norme sono stati tenuti profondamente in considerazione, sia
perché il sostegno di tali valori porta con sé la percezione di più benefici che costi. Una volta che si
è sviluppato il concetto, lo stesso è avvenuto anche per il campo organizzativo del patrimonio
culturale, che si è evoluto dal rappresentare un ambito di interesse relativamente piccolo, un po‟
elitario e in gran parte ristretto agli amatori, a divenire un‟impresa altamente professionalizzata e
globale. Non appena è aumentata la professionalizzazione, si è venuto a creare anche un processo di
razionalizzazione. Questa razionalizzazione ha comportato una maggiore attenzione agli standard
scientifici e a ciò che è diventato noto come best practice, nonché la creazione di aree di
specializzazione scientifica. Questo processo è di notevole importanza per comprendere come
vengono valutate le memorie collettive delle popolazioni di tutto il mondo, ossia non solo per il loro
significato particolaristico, ma anche per il loro significato universale, da parte di tutta l‟umanità.
Heinich (2012) ha dimostrato come questo approccio scientifico sia stato da una parte il
riflesso di un ampliamento del concetto di patrimonio e, dall‟altra, lo abbia ulteriormente
incoraggiato. Una volta soltanto grandi opere d‟arte e di architettura venivano ritenute degne di
considerazione in quanto patrimonio nazionale o universale. Tuttavia, nel corso del XX secolo, la
“Comunità del Patrimonio Globale” ha adottato sempre di più l‟idea che non fosse solo il sito o
l‟oggetto artisticamente unico a meritare di essere conservato, ma anche ciò che fosse
semplicemente rappresentativo. Attraverso un processo simile alla campionatura scientifica, i
conservazionisti hanno sempre di più cercato i migliori esempi di un dato fenomeno. Ciò ha
significato che più elementi ordinari che avevano legami con la memoria collettiva meritavano di
essere conservati, sia che si trattasse di segni di confine che di utensili da cucina.
Allo stesso tempo, va detto che il pubblico non ha seguito necessariamente la “Comunità del
Patrimonio Globale” quando quest‟ultima ha abbracciato questa concezione più scientifica della sua
missione. Come Choay ha giustamente osservato, «Il Partenone, Santa Sofia, Borobudur e Chartres
ricordano che, nel nostro mondo disincantato, l‟incanto di una missione non viene proposto né dalla
scienza né dall‟analisi critica» (1996, p. 185). Le aggiunte più recenti alla Lista del Patrimonio
Mondiale che riflettono quest‟attitudine più scientifica potrebbero avere decisamente meno
probabilità di suscitare stupore, ma trovano in ogni caso qualche posto nelle memorie collettive
locali e nazionali, come è avvenuto ad esempio per la Stazione Radio Varberg in Svezia o per
Sewell Mining Town in Cile. L‟analisi degli atteggiamenti pubblici nei confronti del “World
Heritage” ha infatti suggerito che, mentre ci possono essere notevoli consensi fra le popolazioni
ricche, istruite e cosmopolite, queste stesse persone sono meno propense ad accettare l‟idea che
luoghi relativamente sconosciuti, la cui pretesa di fama sia affidata ad associazioni moderniste,
militari ed industriali, debbano essere riconosciuti di importanza universale allo stesso livello dei
grandi siti culturali che sono stati fra i primi ad essere iscritti nella lista alla fine del 1970 (Barthel-
Bouchier e Hui, 2007).
Non appena la “Comunità del Patrimonio Globale” si è sviluppata in termini di numeri di
attivisti e le sue attività si sono estese geograficamente e localmente, per tutta una serie di motivi
essa ha cominciato ad attrarre l‟interesse degli scienziati sociali. Questi motivi includono il suo
rapporto con la coscienza storica e la memoria collettiva, i modi particolari con cui tale comunità
lega i passati nazionali alle società contemporanee, le ramificazioni politiche connesse alla
selezione dei siti e la costruzione di narrazioni in cui inserirli. Il paragrafo successivo esamina come
abbia preso forma lo sviluppo di una scienza critica sociale del patrimonio culturale e presenta una
rassegna di alcuni dei contributi fondamentali per questa letteratura.

5.2. L’analisi delle scienze sociali

A partire dagli anni „80, il crescente interesse per il patrimonio culturale ha portato non solo
alla fondazione di innumerevoli organizzazioni a livello locale, regionale, nazionale ed anche
internazionale, ma anche allo sviluppo di programmi di studio interdisciplinari dedicati allo
sviluppo di generalisti e specialisti del patrimonio in un gamma di settori che comprende
l‟architettura, l‟archeologia, la storia dell‟arte, la storia, il management, il diritto e le scienze dei
materiali. Non sorprende, quindi, che gli studiosi abbiano cominciato a studiare e scrivere di questo
sviluppo. Mentre vi era stata una serie di importanti volumi dedicati alla storia del patrimonio e/o
alle sue tecniche, la pubblicazione nel 1985 dell‟opera di David Lowenthal The Past is a Foreign
Country ha fornito un‟analisi più intellettuale, che ha collegato l‟intero fenomeno della
consapevolezza storica a movimenti più ampi nella filosofia, nella letteratura e nelle arti.
Rispetto all‟approccio generalmente favorevole di Lowenthal al patrimonio culturale, il
lavoro di due studiosi britannici ha avuto una vena più critica. Nel suo volume del 1985 dal titolo
On Living in an Old Country: the National Past in Contemporary Britain, Paul Wright rifletteva
ampiamente su come una visione nostalgica del passato avesse plasmato la mentalità inglese.
Wright ha trovato prove di questa visione acritica del passato in una varietà di forme culturali,
compresa la pubblicità, l‟architettura e lo sviluppo urbano. Eppure egli era più preoccupato di come
la classe politica conservatrice dell‟Inghilterra thatcheriana si fosse appropriata del passato, di come
avesse contribuito alla formazione di un patriottismo ingenuo durante il conflitto delle
Falkland/Malvine e di come avesse distratto la gente dalle condizioni economiche e sociali reali
della loro vita quotidiana. Due anni più tardi, Robert Hewison nel suo The Heritage Industry:
Britain in a Climate of Decline ha sostenuto che il patrimonio era diventato una struttura massiccia
e multi-sfaccettata imposta dall‟alto, da parte dello Stato, su una popolazione che per la maggior
parte aveva poco interesse rispetto ad esso. Come Wright, Hewison era preoccupato per le
conseguenze politiche di una sempre più diffusa nostalgia per un‟età dell‟oro che non era mai
esistita.
Rispetto alla Gran Bretagna, la conservazione culturale negli Stati Uniti non ha lo stesso tipo
di potenti organizzazioni centralizzate, un fatto che si riflette nelle opere degli scienziati sociali
americani. Il National Trust britannico (fondato nel 1896) è stato il terzo più grande proprietario
terriero del paese, mentre il National Trust degli Stati Uniti, fondato solo nel 1949, serviva più
come un istituto per lo scambio di informazioni che incoraggiava gli sforzi di base, mentre gestiva
un numero limitato di proprietà. Nel mio libro del 1996, Historic Preservation: Collective Memory
e Historic Identity, ho collegato queste differenze organizzative alle differenze nei “narratives” che
venivano costruiti attraverso le rappresentazioni del patrimonio in ogni paese. Mi sono
particolarmente interessata allo sviluppo di quelle che ho definito Staged Symbolic Communities,
vale a dire Comunità Simboliche Simulate. Queste comunità sono rappresentazioni mitiche del
passato storico e sono leggermente più popolari negli Stati Uniti rispetto alla Gran Bretagna. Esse
potrebbero essere costituite o sulla base di una comunità esistente, come nel caso del distretto
storico di Colonial Williamsburg, in Virginia, o ex novo, con edifici storici provenienti da fuori,
come è accaduto per il Greenfield Village di Henry Ford, a Detroit, o per l‟Old Sturbridge, nel
Massachusetts. Oppure potrebbero coesistere accanto ad una comunità esistente, come nel caso
delle Colonie di Amana in Iowa o dello storico comune di Deerfield nel Massachusetts. Qualunque
sia il loro rapporto con la storia locale attuale, queste Comunità Simboliche Simulate sembravano
spesso delle vere e proprie comunità agli occhi dei visitatori piuttosto che delle località ricreate.
Altri studiosi hanno offerto un‟analisi dettagliata di come fosse stata prodotta e diffusa una
tale immagine attraente di comunità da parte dei manager aziendali che lavorano come banchieri
simbolici. Nella loro etnografia sul distretto di Colonial Williamsburg, Handler e Gable (1997)
hanno ammesso che le presentazioni del patrimonio di questo importante sito turistico sono
cambiate notevolmente sin dalla sua fondazione nel 1920, ossia da quando Rockefeller aveva visto
in esso l‟immagine di un passato pre-industriale armonioso, pieno di edifici georgiani e giardini ben
curati. Ora, la presenza di persone qualificate nel campo della New Social History ha fatto sì che
venissero introdotti altri “narratives”, in particolare quelli relative alle donne, agli afro-americani e
alle classi inferiori.
Come fare, allora, per catturare questi molteplici passati e comprendere gli scopi per cui
sono stati e sono creati? In Francia, c‟è voluto un team di oltre un centinaio di ricercatori, sotto la
direzione dello storico Pierre Nora, per produrre i sette volumi di Les Lieux de Mémoire, pubblicati
tra il 1984 e il 1992. Questo vasto progetto è stato concepito per analizzare le diverse forme di
patrimonio materiale e immateriale che hanno contribuito a costituire l‟identità nazionale francese. I
ricercatori si muovevano da località come Reims, dove furono incoronati i re francesi, fino al
piccolo Musée du Désert nelle montagne Cévennes, a sud della Francia, il quale era stato in
precedenza roccaforte ugonotta, trasformata solo in seguito in un museo in onore alla causa e al
sacrificio protestante.
Un bel numero di altre opere si concentra più specificamente su quanto sia difficile che dei
periodi storici vengano elaborati in discorso pubblico. Olick (2007) ha sostenuto che gli stati-
nazione sono passati da commemorare solo momenti di grandezza eroica ad incorporare episodi di
atrocità all‟interno di ciò che egli chiama “politica della riconciliazione”, basata su un comune
senso di responsabilità, razionalità e giustizia. Attraverso l‟analisi di atti commemorativi
fondamentali, come la visita di Willy Brandt al Memoriale del ghetto di Varsavia, quella di Ronald
Reagan e Helmut Kohl al cimitero Bitburg, o la commemorazione annuale dell‟8 maggio 1945,
Olick mostra come le commemorazioni assumono una forma dipendente da un percorso, con gli
eventi attuali che esistono in una sorta di dialogo con le commemorazioni del passato3.
Jordan (2006) mostra come sia stata data forma visiva a questa pratica politica del “regret”
in istanze e memoriali presenti in tutta Berlino. Nella sua analisi dei motivi per cui alcuni siti di
importanza storica per il partito nazista o per la resistenza tedesca al suo regime siano stati ignorati,
mentre altri siano ufficialmente riconosciuti e protetti, la sociologa enfatizza l‟importanza della
disponibilità della terra e la relativa attrattiva per i promotori commerciali, il ruolo di imprenditori
della memoria nel promuovere l‟importanza di un sito specifico, lo stato dell‟opinione pubblica
riguardante quel luogo e l‟opportunità della sua commemorazione.
Più di recente, Rivera (2008) ha dimostrato come la Croazia sia intenzionata a nascondere
tutte le prove fisiche della devastazione che ha subito durante le guerre che hanno portato alla
disgregazione della ex Jugoslavia. Con la sua politica governata da un forte desiderio di attirare
l'incremento del turismo, la Croazia si è resa una meta turistica con belle spiagge, isole e città
storiche, una narrazione culturale in cui non trovano posto gli scoppi ricorrenti di odi etnici.

3
Si veda OIick e Levy, 1997.
Conclusioni

Attraverso tutti questi diversi processi sociali, il “cultural heritage” plasma non solo le
memorie collettive locali e nazionali, ma anche quelle di natura cosmopolita. Il patrimonio
materiale ha il vantaggio di ricordarci che viviamo in un mondo fisico, in cui gli oggetti concreti
hanno una presenza definita e, talvolta, un‟“aura” che fornisce la base per la costruzione e la
revisione perpetua di narrazioni sociali. Anche il patrimonio immateriale svolge un ruolo
importante, ricordandoci il valore di pratiche umane che utilizzano entrambi gli oggetti che
provengono dall‟ambiente sociale e che trasformano quell‟ambiente. Sia il patrimonio materiale che
quello immateriale richiedono un processo interpretativo, ma stabilire quale forma può assumere
questa interpretazione non è facile in quanto essa è comunque limitata dalle prove storiche. Come
Olick e Levy (1997) hanno suggerito, tali interpretazioni spesso assumono un pattern dipendente dal
percorso, secondo il quale le ultime interpretazioni sono condizionate in una certa misura da quelle
che le hanno precedute. Ciò che le persone fanno con il loro patrimonio culturale dipende, a sua
volta, dai rapporti che queste costruiscono tra le loro memorie collettive del passato e le loro diverse
agende sociali per il futuro.

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