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DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

Diritto sostanziale e attività giurisdizionale

L’oggetto del diritto processuale civile non è de nibile in modo rigido: ha ad oggetto le norme
contenute nel codice di procedura civile, le quali a loro volta disciplinano l’attività giurisdizionale,
cioè quel settore del diritto pubblico che regola l’attività dei giudici ex art. 102 Cost e il contenuto
di entrambe le categorie di norme è eterogeneo.
Occorre quindi ricercare un criterio sistematico per de nire il contenuto del diritto processuale
civile.
Da un lato, il diritto processuale civile ricopre (in senso lato) l’area della tutela dei diritti e quindi si
caratterizza per essere una normativa secondaria, cioè una normativa che interviene laddove la
norma primaria ha fallito il suo scopo. Inoltre la tutela dei diritti può avere luogo in via
giurisdizionale, attraverso l’attività autoritaria dello Stato a data alla magistratura, sia in via non
giurisdizionale, ad esempio attraverso l’arbitrato.
Dall’altro lato, alla giurisdizione civile possono essere attribuite anche funzioni ulteriori alla tutela
dei diritti. Dunque giurisdizione e tutela sono due cerchi che si sovrappongono solo parzialmente:
il settore comune è l’attività giurisdizionale nalizzata alla tutela dei diritti; i settori autonomi
consistono invece nell’attività giurisdizionale non nalizzata alla tutela dei diritti e nella tutela dei
diritti perseguita per una via non giurisdizionale. Di questo si occupa il diritto processuale civile.
Per capire quanto detto bisogna partire da una considerazione: in ogni ordinamento c’è una
normativa primaria che disciplina il comportamento dei consociati impartendo diritti, doveri e
facoltà. Nel momento in cui il comportamento del soggetto si discosta da quanto prescritto dalla
norma, si veri ca un illecito, il quale determina l’attivazione dell’attività giurisdizionale volta
all’accertamento dell’illecito e all’irrogazione della sanzione.
Tuttavia l’ordinamento, oltre ad imporre doveri, riconosce a determinati interessi della vita il rango
di situazioni protette garantendone al titolare la soddisfazione. Infatti nel settore penale , di
fronte al reo non c’è il titolare di un interesse protetto perché l’interesse protetto è unicamente
quello generale; invece davanti al debitore che non paga si trova l’interesse del creditore ad
ottenere la prestazione. Questo interesse è comunemente chiamato interesse legittimo o
soggettivo. Dunque, quando l’illecito è correlato a situazioni sostanziali protette, l’ordinamento
prevede che a questo seguano determinate conseguenze sempre sul piano del diritto sostanziale.
In conclusione, il processo è al servizio del diritto sostanziale: prende avvio da quel frammento
della realtà sostanziale interessato dall’illecito e opera su tale frammento con lo scopo di
reimmetterlo nella realtà sostanziale una volta ricucito lo strappo che l’illecito ha prodotto.

I presupposti dell’attività giurisdizionale

Il presupposto comune a tutta l’attività giurisdizionale è il compimento di un illecito. Tuttavia,


come abbiamo visto, nell’attività giurisdizionale civile c’è un quid pluris: l’illecito produce anche
l’insoddisfazione di una situazione sostanziale protetta. Sia la giurisdizione ordinaria sia le
giurisdizioni speciali sono deputate non alla repressione degli illeciti tout court, ma alla
repressione degli illeciti in quanto nalizzata alla tutela di una situazione sostanziale protetta
dall'ordinamento. L'attività giurisdizionale del giudice ordinario (e dei giudici speciali) è quindi
deputata fondamentalmente alla tutela dei diritti, come prevede l'art. 2907 c.c., secondo il quale
«alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria». La giurisdizione ordinaria ha
come funzione speci ca la tutela dei diritti soggettivi.

Tutela dichiarativa

Va anche sotto il nome di funzione giurisdizionale dichiarativa, a cui corrisponde il processo di


cognizione. La sua funzione è quella di determinare i comportamenti leciti e doverosi che due o
più soggetti potranno o dovranno tenere con riferimento ad una situazione sostanziale protetta.

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Il giudice accerta l’esistenza della situazione sostanziale; accerta la lesione da essa subita a
causa dell’illecito; individua quali e etti sono necessari e quali conseguenze giuridiche devono
prodursi per eliminare la lesione. Questa attività viene comunemente viene chiamata
“cognizione”.
Il provvedimento nale che impartisce la tutela dichiarativa può assumere contenuti diversi, a
seconda del diritto leso, ma ha una caratteristica costante: individua i comportamenti da tenere
da quel momento in poi con riferimento a quel bene.
- provvedimenti di mero accertamento: quando è su ciente stabilire quali sono i
comportamenti leciti e doverosi che le parti dovranno tenere in futuro. In particolare,
l’accertamento dell’esistenza del diritto da tutelare viene e ettuata con speci co riferimento alla
lesione da esso subita. Quindi il diritto non viene accertato in sé ma per quanto si rende
necessario in relazione all’illecito per rimuoverne le conseguenze.
Esempio: se sorge una contestazione sull’esistenza della servitù di passaggio a favore del fondo X
sul fondo Y è necessario veri care l’esistenza dei fatti costitutivi (“titolo”) del diritto. Se invece la
controversia riguarda la natura pedonale o veicolare della servitù, l’esistenza del titolo non è
messa in dubbio e invece dovrà esserne accertata la natura.
In conclusione, questo provvedimento si fonda sull’accertamento del diritto prima del processo
ed emana i suoi e etti nel futuro.
- provvedimenti di condanna: è un provvedimento di mero accertamento caratterizzato dalla
prescrizione di un comportamento (adempimento). Esso accerta l’attuale esistenza del diritto ad
una prestazione da parte dell’obbligato.
- provvedimenti costitutivi: per capire questi provvedimenti è necessario introdurre il diritto
potestativo. Si ha un diritto potestativo quando la manifestazione di volontà di un soggetto è
rilevante a nché si produca un e etto nella sfera giuridica di un altro soggetto (es. nel contratto
di locazione ciascuna delle parti può manifestare la volontà di non rinnovarla).
Il diritto potestativo si esercita in via stragiudiziale quando la manifestazione di volontà esplica i
suoi e etti direttamente sul piano sostanziale. Le eventuali contestazioni danno luogo a una
pronuncia di mero accertamento.
Invece tale diritto si esercita giudizialmente quando l’e etto giuridico è prodotto dal
provvedimento cd costitutivo, che individua quali comportamenti le parti possono/devono tenere
in futuro in conseguenza della modi cazione prodotta dal provvedimento stesso. Ad una
sentenza costitutiva può conseguire una consequenziale pronuncia di condanna.

Tutela esecutiva

La tutela dichiarativa appena analizzata, da sola, non è su ciente perché niente garantisce che,
anche dopo l’emanazione del provvedimento dichiarativo, non persista ancora l’omissione del
comportamento dovuto. Dunque deve intervenire una diversa forma di tutela che garantisca la
soddisfazione della situazione sostanziale, impartita attraverso l’attività giurisdizionale esecutiva
che si articola in due forme: l’esecuzione forzata diretta e l’esecuzione forzata indiretta.
L’esecuzione forzata diretta si ha tutte le volte in cui l’attività non tenuta dall’obbligato è
sostituita da una corrispondente attività dell’organo giurisdizionale. L’attività sostitutiva dell’u cio
esecutivo è possibile se per il creditore è indi erente che la soddisfazione provenga da un
soggetto diverso dall’obbligato. In questi casi si ricorre all’esecuzione forzata indiretta, la quale
prevede il prodursi di determinate conseguenze sfavorevoli come conseguenza del persistere
dell’inadempimento. Tali conseguenze possono variare dalla sanzione penale al sorgere di
obblighi di pagamento di somme di denaro a favore dello Stato o del creditore.
In ne, la tutela esecutiva può essere impartita, in via autoritativa, da soggetti diversi dalla
magistratura ma non può essere prodotta da strumenti di diritto privato.

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Tutela cautelare

Dal momento in cui si richiede l’intervento dell’organo giurisdizionale a quando la tutela è


e ettivamente impartita passa un certo lasso di tempo, con il rischio di sminuire o estinguere
l’interesse di colui che ha richiesto la tutela giurisdizionale. Dunque è necessario fare in modo che
la tutela, nel momento in cui sarà concessa, abbia la stessa utilità che avrebbe avuto se fosse
stata concessa nel momento della richiesta. La funzione cautelare esprime il principio secondo il
quale “la durata del processo non deve danneggiare la parte che ha ragione”.
Caratteristiche della tutela cautelare:
- Sommarietà: è concessa senza una preventiva cognizione di chi abbia ragione dal momento
che è necessario che sia impartita velocemente.
- Varietà di contenuto
- Natura subordinata: essa è al servizio di altre forme di tutela giurisdizionale in quanto ha la
funzione di garantire l’e ettività delle forme di tutela giurisdizionale principali.
- Provvisorietà: ha durata limitata all’arco temporale del processo principale cui è funzionale, poi
è sostituita dalla misura giurisdizionale de nitiva.
Queste caratteristiche sono comuni anche alla tutela sommaria non dichiarativa. Ciò che rende
speci ca la tutela cautelare, che costituisce una specie del genere “tutela sommaria non
dichiarativa”, sta nella sua funzione di realizzare il principio in base al quale la necessità di servirsi
del processo non deve essere fonte di pregiudizio per la parte che ha ragione.

Principi costituzionali in tema di giurisdizione

Art. 24 Cost.: l’articolo si struttura in quattro diverse proposizioni. La prima stabilisce che “tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
Da un punto di vista soggettivo, la parola “tutti” presuppone che la tutela giurisdizionale è
garantita a qualunque soggetto di diritto senza alcuna limitazione.
Da un punto di vista oggettivo, nominando i diritti e interessi legittimi la norma impedisce al
legislatore di creare situazioni sostanziali protette e contemporaneamente negare la tutela
giurisdizionale alle stesse.
Un problema si pone quando la tutela giurisdizionale non è negata espressamente ma risulta
compressa o condizionata.
Il primo esempio è dato dall’autodichia degli organi costituzionali. Autodichia signi ca
farsi giustizia da sé e, in relazione agli organi costituzionali, si veri ca in riferimento al rapporto
con i propri dipendenti. Costoro non possono chiedere la tutela giurisdizionale dei diritti, derivanti
dal rapporto di lavoro, ma devono chiedere al proprio datore di lavoro il riconoscimento delle
proprie pretese. È il datore che accoglie o rigetta la richiesta. Successivamente l’autodichia è
stata estesa anche ai rapporti con i terzi ma sia la Corte costituzionale sia la Corte di cassazione
hanno escluso che l’autodichia possa trovare applicazione in questo caso. Un altro esempio di
autodichia riguarda l’elezione dei membri del Parlamento: se nasce una controversia, questa non
è risolta dal giudice ma dalla stessa assemblea.
L'autodichia degli organi costituzionali ha una ragione storica, che nasce quando la magistratura
non godeva delle garanzie di indipendenza di cui gode attualmente ma era largamente sottoposta
all'in uenza dell'esecutivo. L'autodichia voleva quindi sottrarre gli organi costituzionali
all'in uenza indiretta dell’esecutivo, attraverso una magistratura dallo stesso esecutivo
in uenzabile. Oggi questa ragione storica è venuta meno ma è rimasto l’istituto.
Il secondo esempio è l’arbitrato obbligatorio. L’arbitrato è una forma non giurisdizionale
di tutela dei diritti che si ha quando gli interessati, di comune accordo, stabiliscono di devolvere la
soluzione della controversia a uno o più soggetti (arbitri).
Mentre l’arbitrato normale trova la sua radice nella volontà delle parti interessate, l’arbitrato
obbligatorio si caratterizza per il fatto che, in relazione a certe controversie, è la legge che nega il
diritto alla tutela davanti a un giudice e quindi lascia alle parti solo la possibilità di rivolgersi
all’arbitro anche se la controparte non è d’accordo. La Corte costituzionale ha riconosciuto

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l’incostituzionalità di una tale previsione, perché solo con il consenso delle parti si può non andare
davanti al giudice.
Il terzo esempio è quello della giurisdizione condizionata che si ha quando il legislatore
non inibisce alle parti di rivolgersi al giudice, ma stabilisce che, prima che ciò accada, esse
devono svolgere una certa attività quindi ci sono delle condizioni da adempiere prima di poter
proporre la domanda al giudice. Su questo punto la Corte è spesso intervenuta no a stabilire che
la giurisdizione condizionata è costituzionalmente legittima solo se le condizioni da soddisfare
hanno la nalità di garantire un migliore svolgimento dell'attività giurisdizionale; mentre è
incostituzionale il condizionamento quando, attraverso di esso, il legislatore vuole raggiungere
uno scopo diverso da quello di favorire un miglior svolgimento dell'attività giurisdizionale stessa.
Ad esempio sono costituzionali tutti i tentativi obbligatori di conciliazione da esperire prima della
proposizione della domanda giudiziale; sono invece incostituzionali tutte quelle norme che
imponevano alle parti oneri tributari condizionanti l'accesso alla giurisdizione.
Un altro importante settore in cui la Corte costituzionale è ripetutamente intervenuta
riguarda la possibilità di esperire i ricorsi amministrativi contro provvedimenti della p.a. ed il
coordinamento di tali ricorsi con la tutela giurisdizionale. La Corte ha costantemente a ermato
che l'esperibilità dei ricorsi amministrativi deve essere intesa come facoltativa quindi l'interessato
deve poter scegliere fra l'azione davanti al giudice e l'utilizzazione del rimedio amministrativo.

Dal primo comma dell’art. 24 si ricava un principio fondamentale: il principio dell’e ettività
della tutela giurisdizionale. Questo principio permette di contemperare il primo con il secondo
comma dell’art. 24 Cost. Il diritto di difesa può trovarsi in contrasto con il diritto di azione, inteso
come diritto ad una tutela e ettiva, sotto molteplici pro li. Per esempio, talvolta la necessità di
una e ettività della tutela può far sì che il diritto di difesa della controparte possa subire
determinate limitazioni: se Tizio avanza delle pretese in ordine a certi beni mobili che si trovano
nel possesso di Caio e vi è pericolo che tali beni possano essere dispersi o alienati, sarà
necessario un provvedimento cautelare per custodire tali beni. Se però fosse necessario rispettare
il diritto di difesa della controparte, si dovrebbe avvertire Caio e instaurare il contraddittorio prima
che il giudice conceda il provvedimento richiesto, cosa che potrebbe portare la controparte a
nascondere i beni in questione. Dunque una lettura concertata del primo e del secondo comma
dell’art. 24 permette di capire come la compressione del diritto di difesa sia necessaria a nché
possa essere esercitato il diritto di azione della controparte dal momento che, in certe condizioni,
non è possibile soddisfare tutti e due tali diritti.
Ovviamente la compressione del diritto di difesa deve essere circoscritta nel tempo è strettamente
limitata a quelle ipotesi in cui non c'è altro sistema per poter dare, a chi la richiede, una tutela
e ettiva. Tale compressione deve poi informarsi al principio del minimo mezzo, in base al quale
la deviazione dalle regole generali deve essere la minima indispensabile per raggiungere il risultato
voluto e niente di più.
Il principio dell'e ettività della tutela giurisdizionale ha portato alla generalizzazione della tutela
cautelare. Per molto tempo si è ritenuto che la tutela cautelare fosse una sorta di dono del
legislatore; successivamente invece si è a ermato il principio per il quale la tutela cautelare è
costituzionalmente necessaria in quanto integra un elemento indispensabile per l'e ettività
della difesa.
In ne l’art. 24 co. 1 e 2 garantisce il diritto d'azione e di difesa a tutela di diritti e interessi legittimi
a condizione che questi siano e ettivamente esistenti. La portata di quanto a ermato si coglie
nella possibilità che siano poste a carico della parte soccombente una serie di conseguenze
sfavorevoli, delle quali la parte vittoriosa non deve risentire per aver dovuto agire o essersi dovuta
difendere nei confronti di pretese o resistenze altrui poi rivelatesi infondate.

Analizzando il secondo comma, l’art. 24 a erma che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e
grado del procedimento”. Tale principio è ribadito anche dall’art. 111 Cost., che garantisce
l’attuazione del contraddittorio in ogni processo (altrimenti, senza contraddittorio, non c’è
processo). Il principio del contraddittorio, che nel processo civile è previsto anche dall’art. 101
c.p.c., assicura alle parti la possibilità di in uire con la propria attività sul contenuto della

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decisione. Esso costituisce il sistema migliore per giungere, nel più alto grado possibile, alla
verità: la verità si coglie quanto più il dialogo è aperto e quanto più ampie sono le possibilità di
dire e contraddire. In base al principio del contraddittorio, il processo civile si compone di una
serie di atti, rispetto ai quali al potere di una parte corrisponde e deve corrispondere sempre il
potere uguale e contrario della controparte di replicare e di assumere quelle iniziative necessarie a
smentire o contraddire la deduzione dell’avversario (principio della parità delle armi). In
particolare, anche le iniziative del giudice devono garantire il principio del contraddittorio: infatti
davanti a tali iniziative, le parti devono essere sempre in grado di poter replicare.
Il principio del contraddittorio si realizza nel processo civile in forme diverse, infatti quest'ultimo
ha struttura e funzioni diverse a seconda che si debba impartire una tutela dichiarativa, esecutiva
oppure cautelare:
- il processo di cognizione ha la funzione di stabilire quali devono essere i futuri comportamenti
delle parti con riferimento ad una situazione sostanziale e quindi si innesta su uno stato di
incertezza istituzionale circa l'esistenza ed il modo di essere della situazione: a tale incertezza
corrisponde un contraddittorio a bilateralità perfetta di poteri tra l'attore e il convenuto, e tra
le parti e il giudice.
- Il processo esecutivo ha la funzione di tutelare una situazione sostanziale per la cui
realizzazione è previsto dalla norma l'adempimento di un altro soggetto: in relazione all'an
dell'esecuzione il contraddittorio è meramente eventuale, in quanto è rimesso alla volontà
dell'esecutato il potere di utilizzare strumenti destinati a veri care l'esistenza del diritto, a tutela
del quale si procede ad esecuzione forzata. Invece vi è contraddittorio pieno per ciò che
riguarda le misure esecutive che devono prendere gli organi del processo (il quomodo
dell'esecuzione).
Una particolare distinzione deve essere fatta all’interno dei processi a cognizione piena. Un
processo si quali ca a cognizione piena quando le parti possono portare il loro contributo in
ordine a tutte le questioni rilevanti ai ni della decisione, utilizzando tutti i mezzi che a tal ne il
sistema prevede. Sono a cognizione piena il processo ordinario e i processi speciali che sono
previsti per fornire la tutela dichiarativa in alcune particolari categorie di controversie, in quanto
sono più adatti alle peculiarità delle stesse. Comunque le particolarità dei processi speciali a
cognizione piena non impediscono l'attuazione dei principi costituzionali.
Oltre ai processi a cognizione piena, il nostro sistema conosce anche i processi sommari. Di per
sé questa categoria si individua in negativo: sono sommari tutti quei processi che non sono a
cognizione piena, in quanto non prevedono una trattazione piena ed esauriente della controversia.
La “limitazione” può derivare dal fatto che:
- alcune questioni sono escluse dalla trattazione;
- non possono essere utilizzati tutti i mezzi di prova previsti dal sistema;
- l'istruttoria è e ettuata in modo atipico, cioè senza seguire le regole ordinarie.
Il rapporto tra i processi sommari e il diritto di difesa è il seguente. I processi che sono sommari in
ragione dei limiti posti alle questioni da trattare oppure ai mezzi di prova da utilizzare
soggiacciono ad una regola costante, cioè che ciascuna delle parti deve poter ottenere,
semplicemente manifestando la sua volontà in tal senso, l’instaurazione di un processo a
cognizione piena (sia esso di rito ordinario o speciale), il cui atto conclusivo sostituisca gli e etti
prodotti dal provvedimento emesso nei processo sommario.
Se invece si tratta di processi sommari in ragione di una trattazione e di un'istruttoria che sono
complete ma atipiche, la Corte costituzionale e di cassazione ritengono compatibile il processo
sommario con il diritto di difesa.

Il terzo comma dell’art. 24 Cost. si occupa della difesa giudiziaria dei non abbienti. Il legislatore
ordinario ha il dovere di predisporre appositi istituti per assicurare la difesa giudiziaria di chi non
può permettersi di pagare l’avvocato. In primo luogo vi è un limite massimo di reddito al di sopra
del quale non si ha diritto al bene cio. L'istanza è presentata al consiglio dell'ordine degli avvocati
che ha sede dove è l'u cio del giudice competente a conoscere del merito. Il ricorrente deve
auto-attestare la sussistenza dei presupposti di natura economica ed indicare il diritto che intende
far valere e la tutela richiesta. Il consiglio dell'ordine valuta la non manifesta infondatezza delle

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pretese dell'istante e lo ammette al patrocinio. Se l'istanza è respinta, l'interessato può riproporla
al giudice del merito. L'ammissione ha e etto per tutti i gradi del processo, se la parte ammessa è
vittoriosa; se è soccombente invece deve proporre una nuova istanza e sottoporsi ad una nuova
valutazione di non manifesta infondatezza (dell’impugnazione). Il difensore è scelto dalla parte ed
è retribuito dallo Stato.

Art. 101 Cost.: secondo tale articolo la giustizia è amministrata in nome del popolo, che si
ricollega al principio di sovranità popolare accolta dall’art. 1 Cost.
La soggezione del giudice alla legge, prevista dal co. 2 dell’art. 101 Cost., può essere letta in
molteplici direzioni.
Alcuni vedono in essa il fondamento del principio di legalità, nel senso che il giudice è vincolato
agli atti degli altri poteri dello Stato solo se questi sono conformi alla legge e deve disapplicare gli
atti contrastanti con la legge, cioè decidere la controversia come se questi atti contra ius non vi
fossero. Il nostro ordinamento, a di erenza di quelli di common law, non prevede il valore
vincolante del precedente giudiziale: qualunque decisione vale solo per il caso concreto come
norma agendi; per i casi analoghi può avere semplicemente e cacia di precedente. Tutte le volte
che, davanti allo stesso o ad altro giudice, si ripresenta una questione che deve essere decisa in
base alla medesima norma, il precedente non è giuridicamente vincolante quindi la decisione
che si discosta da tale precedente non è per ciò solo illegittima. Tuttavia il precedente ha
sicuramente un'autorità che vale imperio rationis e non ratione imperii, cioè è e cace in quanto è
persuasivo.

Art. 102 cost.: la parte più importante è il suo co. 2: "non possono essere istituiti giudici
straordinari o giudici speciali”.
Il giudice straordinario è quello istituito e incaricato della materia post factum. Un tale
meccanismo viola l’art. 102 Cost. perché il giudice deve essere precostituito per la fondamentale
garanzia di imparzialità rispetto all'oggetto della lite.
I giudici speciali sono istituiti dalla legge prima del fatto e con competenza solo su determinate
materie ma, nell'ambito di quella materia, per tutte le controversie che in essa rientrano. Sono
giudici speciali quelli diversi dai magistrati ordinari, di cui all’art. 102 co. 1 Cost. Essi non godono
di tutte le garanzie proprie della magistratura ordinaria e proprio per questo la Costituzione ne
impedisce l’istituzione.
Tuttavia l’art. 102 co. 2 Cost. a erma che “possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari
ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini
idonei estranei alla magistratura” (es. le controversie agrarie sono attribuite alla cognizione della
sezione specializzata agraria). La sezione specializzata non è un organo giudiziario a sé stante,
come il giudice speciale, ma fa parte di un u cio (tribunale, corte d'appello) che è
tendenzialmente destinato ad esaminare tutte le materie, non solo quelle specializzate. Tale
sezione può essere composta da membri laici.

Art. 103 Cost.: riguarda la giustizia amministrativa. Infatti le situazioni sostanziali protette non
sono tutte riportabili allo schema del diritto soggettivo ma vi sono anche gli interessi legittimi, che
sono correlati all'esercizio dei poteri autoritativi della p.a. e la cui tutela si realizza attraverso
l'impugnazione del provvedimento amministrativo illegittimo che li lede.
La distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi costituisce una delle questioni più
spinose ed incerte, che è stata particolarmente approfondita nel nostro sistema, perché su di essa
è imperniato il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario (al quale spetta la tutela dei diritti
soggettivi nei confronti dell'attività autoritativa della p.a.) e giudice amministrativo (al quale è
a data la tutela degli interessi legittimi).
Gli organi di giurisdizione amministrativa hanno peraltro giurisdizione anche relativamente a taluni
diritti soggettivi, sempre naturalmente nelle materie disciplinate dal diritto pubblico. I settori più
importanti sono quelli relativi alle controversie in materia di pubblici servizi ed a quelle in materia
urbanistica ed edilizia.

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Art. 111 Cost.: è stato modi cato nel 1999 mediante l’introduzione di alcuni commi nuovi che
sono stati anteposti ai tre commi originari, i quali sono diventati gli attuali sesto, settimo e ottavo.
Come abbiamo visto, questo articolo garantisce il diritto al contraddittorio e inoltre prevede una
altro principio fondamentale cioè quello dell’economia processuale, cioè la ragionevole durata
del processo.
Il sesto comma stabilisce che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”.
Infatti un provvedimento giurisdizionale è un atto pubblico, che rappresenta l’esercizio di un
pubblico potere. Quando si deve rendere conto del fondamento di una decisione, inevitabilmente
la decisione è più meditata e comunque si dà la possibilità di veri care se è giusta e l’inesistenza
di errori ed arbitri. Quindi il giudice nella motivazione deve dare conto dei criteri che sono stati
utilizzati per la decisione della causa.
Nel nostro ordinamento non tutti i provvedimenti giurisdizionali hanno la stessa natura.
Nel processo civile i provvedimenti che il giudice pronuncia sono: sentenze, ordinanze e decreti.
Le sentenze sono i provvedimenti che concludono il processo in un certo grado del suo sviluppo
e che, in ogni caso, hanno uno dei contenuti previsti dall'art. 279 c.p.c. La sentenza, una volta
pronunziata, esaurisce il potere giurisdizionale del giudice che l'ha emessa. Essa è da lui
irrevocabile, ed il suo contenuto è per lui vincolante. La sentenza può essere rimossa soltanto
attraverso i mezzi di impugnazione che l'ordinamento prevede. Non esistono sentenze non
motivate.
L'ordinanza e il decreto costituiscono provvedimenti minori, in quanto sono destinati a risolvere
questioni interne al singolo processo, in vista della sua de nizione. L'ordinanza, dice l'art. 134
c.p.c., deve essere « succintamente » motivata e non può essere impugnata in via autonoma
rispetto alla sentenza. Come vedremo meglio in seguito, le questioni risolte con ordinanza, talora
d’u cio talvolta su istanza di parte, devono essere riesaminate dal giudice al momento
dell’emanazione della sentenza. Pertanto l’ordinanza non ha mai l'e cacia tipica della sentenza,
che è quella di esaurire il potere giurisdizionale del giudice che la emette, di essere da lui
irretrattabile e vincolante.
I decreti sono qualcosa di inferiore rispetto alle ordinanze e non sono motivati.
Una volta la dottrina de niva i decreti come atti di amministrazione e non di giurisdizione, nel
senso che non decidono questioni ma sviluppano in senso ordinatorio il corso del processo senza
incidere in alcun modo sulla risoluzione di una questione di fatto o di diritto. È comunque ovvio
che si tratta pur sempre di atti del processo.
In virtù della previsione costituzionale, si deve in ogni caso ritenere che, ove il decreto non abbia
un contenuto vincolato, esso debba essere sia pur succintamente motivato. Se invece il
contenuto è vincolato, la motivazione è super ua.
La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali assolve a due funzioni diverse, che però sono in
stretta interdipendenza fra di loro: sono quelle che la dottrina identi ca con il controllo extra ed
endo-processuale.
La motivazione serve al di fuori del processo come strumento per l’e ettiva realizzazione della
partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia, serve a consentire la veri ca, a chi non
è parte del processo, dei modi, dei tempi, delle forme, dei criteri con i quali il giudice decide la
singola controversia.
La motivazione, allo stesso tempo, serve all’interno del processo per permettere di esercitare il
diritto di azione e di difesa. La motivazione è lo specchio a posteriori dell’attuazione di tali diritti,
dando alla parte il potere di veri care la giustizia e correttezza della decisione anche in vista della
spendita dei poteri di impugnazione contro la sentenza sfavorevole.
Il settimo comma stabilisce che “contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà
personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso
in Cassazione per violazione della legge”. La norma quindi garantisce il ricorso in Cassazione
limitatamente agli errori di diritto. Si tratta della normativa sostanziale applicabile al rapporto, che
quindi è metro di giudizio per il decidente. Totalmente diverse sono le questioni relative alla
violazione della normativa processuale, che per il decidente sono regole di condotta.
Riguardo al diritto al ricorso in Cassazione, ricordiamo che nel nostro ordinamento il precedente
non ha valore vincolante ma al massimo persuasivo. Il compito della Corte di Cassazione è quello
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di evitare che si creino tante giurisprudenze quanti sono gli organi giudiziari, e quindi garantire
l’uniforme interpretazione della legge (nomo lachia). Questo risultato, nonostante il fatto che il
precedente non sia vincolante, può essere raggiunto in primo luogo con l’autorevolezza
dell’organo in quanto le sentenze della Corte, se convincenti, possono indurre gli altri giudici ad
adeguarvisi. In secondo luogo, se è vero che il giudice è libero di discostarsi dal precedente, è
altrettanto vero che la parte soccombente ha diritto di impugnare la sentenza “dissenziente” e di
farla annullare in Cassazione. In questo modo il giudice sarà più propenso ad adeguarsi alla
Cassazione sapendo che la sua decisione divergente potrebbe essere annullata.
Alla luce di quanto detto, si capisce che la funzione principale dell’art. 111 si articola nei seguenti
punti:
- Consentire alla Corte di cassazione di potersi pronunciare su tutte le questioni di diritto
esistenti nell'ordinamento, senza che tale funzione sia subordinata a scelte insindacabili del
legislatore ordinario in tema di ricorribilità in cassazione dei provvedimenti giurisdizionali.
- Non vigendo nel nostro sistema il principio del vincolo al precedente, deve essere possibile
porre davanti alla Corte le sentenze che si discostano dal precedente altrimenti la nomo lachia
sarebbe solo in astratto.
- L’atto conclusivo del processo non è necessariamente una sentenza, infatti il legislatore può
liberamente prevedere che sia un decreto o un’ordinanza sempre che produca gli stessi e etti
della sentenza. Se l’art. 111 si applicasse unicamente agli atti che hanno la forma di una
sentenza, basterebbe che il legislatore desse al provvedimento nale una forma diversa per
escludere la funzione di nomo lachia della Corte. Infatti il termine “sentenza” non viene inteso
in senso formale ma in senso sostanziale: non come atto che ha la forma della sentenza ma
come atto che ha gli e etti della sentenza. Tuttavia la Corte di cassazione non riesce ad
intervenire in tutti i settori dell’ordinamento perché se il decreto o l’ordinanza non hanno la
stessa disciplina e lo stesso contenuto della sentenza rimangono esclusi. Per esempio, i
provvedimenti cautelari non sono suscettibili di ricorso in cassazione perché sono rimossi dalla
sentenza pronunciata nel processo di cognizione.
In ne, l’ottavo comma stabilisce che, contro le sentenze del Consiglio di stato e della Corte dei
conti, il ricorso in cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Come
vedremo a suo tempo, la Corte di cassazione è, infatti, il giudice che decide i con itti di
giurisdizione. Poiché avverso le sentenze del Consiglio di stato e della Corte dei conti non è
ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge, ciò signi ca che, nel settore in cui hanno
giurisdizione, le funzioni di nomo lachia sono da essi stessi esercitate.

Art. 113 Cost.: interessa principalmente la giustizia amministrativa, ma ha rilevanza per il


processo civile soprattutto con riferimento al terzo comma, secondo il quale spetta alla legge
ordinaria determinare se gli atti della pubblica amministrazione possono essere annullati dal
giudice ordinario o dal giudice amministrativo.
Il principio generale inibisce al giudice ordinario di annullare gli atti della P.A., e gli consente
unicamente la disapplicazione degli stessi (con e etti, quindi, limitati alla controversia decisa).
Ebbene, l'art. 113, III Cost. stabilisce chiaramente che tale principio non ha valenza costituzionale,
e che il legislatore ordinario è assolutamente libero di accoglierlo come di non accoglierlo.

Principi sovranazionali

Oltre alle regole contenute nella Costituzione, oggi dobbiamo tener conto dei principi e delle
norme di origine sovranazionale: la CEDU e la normativa comunitaria.
La CEDU, rati cata dall’Italia nel 1955, contiene una disposizione di speci co interesse per la
tutela dei diritti. L'art. 6, rubricato come “diritto ad un processo equo», stabilisce che “ogni
persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un
tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge, che decide […] in ordine alla
controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile.”
Con la rati ca della convenzione, l'Italia si è impegnata ad assicurare la realizzazione delle
previsioni contenute nella convenzione. Ove uno Stato venga meno agli obblighi previsti nella
convenzione, esso può essere convenuto dalla Commissione europea dei diritti dell'uomo dinanzi
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alla Corte EDU che ha sede a Strasburgo (che non deve essere confusa con la Corte di giustizia
della Unione europea, che ha sede in Lussemburgo) a nché la Corte, accertata la violazione degli
obblighi, condanni lo Stato inadempiente a rimuovere gli e etti della lesione o, se ciò non è
possibile, al risarcimento dei danni subiti dalla parte lesa.
In virtù di quanto detto, lo Stato italiano è stato ripetutamente condannato per violazione dell’art.
6, soprattutto per quanto riguarda l’eccessiva durata dei processi. In conseguenza di queste
condanne è stata introdotta la legge Pinto, che consente alla persona lesa di ricevere dallo Stato
un risarcimento per il danno subito a causa dell’eccessiva durata del processo: ove tale
risarcimento sia equivalente a quello che avrebbe corrisposto la Corte, non è più necessario
proporre ricorso in sede europea.
Di altro genere e portata è la rilevanza del diritto comunitario. In primo luogo le norme europee
hanno immediata e cacia nei singoli Stati membri ma l’UE non ha una propria struttura
giurisdizionale autonoma competente per le materie regolate dal diritto comunitario o comunque
per le controversie che presentano pro li rilevanti per l’ordinamento europeo (come accade negli
Stati Uniti dove oltre ai giudici statali ci sono i giudici federali con caratteristiche ultrastatali).
Nell’UE sono i giudici degli Stati membri a dover applicare il diritto comunitario, che prevale, ove
contrastante, sul diritto interno.
Il rischio che tali norme siano diversamente interpretate dai singoli giudici statali è risolto dalla
presenza di un organo giurisdizionale comune, la Corte di giustizia dell’UE con sede a
Lussemburgo, che ha lo stesso compito nomo lattico che le corti supreme hanno all’interno degli
Stati. Lo strumento che consente a tale corte di esercitare le sue funzioni è il rinvio pregiudiziale:
quando il giudice di uno Stato membro si trova a dover fare applicazione di una norma
comunitaria, la cui interpretazione lascia qualche dubbio, può sospendere il processo innanzi a sé
e rimettere la questione alla Corte europea. Il rinvio, facoltativo per i giudici non di vertice, è
obbligatorio per le corti supreme. La decisione della corte di giustizia è vincolante per il giudice
che ha sollevato la questione.
In ne, dal 2000, in virtù del trattato di Amsterdam, gli organi comunitari hanno iniziato ad
interessarsi anche del processo civile interno ai singoli Stati membri: sono stati emanati dei
regolamenti, che hanno lo scopo di armonizzare i rapporti fra i vari sistemi processuali interni.
Ora, ancorché questi regolamenti si applichino alle controversie che presentano pro li di rilevanza
comunitaria, non vi è dubbio che essi hanno una forte attrattiva per i legislatori nazionali, che
inevitabilmente, quando dettano le proprie norme, tendono di fatto ad adeguarsi ai principi
contenuti nella normativa comunitaria.

Principi comuni alle varie forme di tutela giurisdizionale

Il codice di procedura civile è strutturato nel modo seguente:


- Primo libro: disposizioni generali. Questo libro era stato scritto facendo riferimento
principalmente al processo di cognizione, ma non vuol dire che le sue disposizioni si debbano
applicare esclusivamente a questo tipo di processo, infatti possono essere adattate anche alle
altre tipologie processuali.
- Secondo libro: processo di cognizione.
- Terzo libro: esecuzione forzata.
- Quarto libro: procedimenti speciali.
Occorre fare una premessa: le norme processuali presentano la medesima struttura delle norme
sostanziali in quanto regolano comunque dei comportamenti umani, con la precisazione che le
norme procedurali sono secondarie rispetto alle norme sostanziali. Quindi all’attività
giurisdizionale è devoluto il compito di controllare la conformità dei comportamenti alle astratte
previsioni delle norme sostanziali ma anche delle norme processuali. Questo determina una
duplicità di contenuto delle norme processuali: da un lato forniscono regole di comportamento;
dall’altro forniscono gli strumenti per veri care che tali regole di comportamento non siano violate.
Dunque la normativa processuale ha un pro lo statico e uno dinamico.

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Nel processo di cognizione le questioni di rito sono pregiudiziali a quelle di merito, nel senso che
la decisione di una questione di rito deve essere e ettuata prima che sia decisa la questione di
merito. Al contrario, la trattazione di una questione di rito può essere svolta anche
contemporaneamente alla trattazione delle questioni di merito.
Tuttavia le questioni di rito non sono tutte uguali fra loro, infatti alcune possono avere
caratteristiche particolari che costituiscono requisiti indispensabili perché il giudice possa
scendere all’esame del merito e il vizio di uno di questi requisiti impedisce al giudice di emettere
una valida decisione di merito. Invece altre questioni di rito non incidono sulla possibilità di
scendere nel merito ma sul contenuto della decisione di merito.
Le questioni di rito che condizionano l’emanazione di una pronuncia di merito prendono il nome di
“presupposti processuali” o, per essere più precisi, “condizioni per la decisione del merito”
perché quelle di cui parliamo non sono condizioni per l’instaurazione del processo ma condizioni
perché il giudice possa scendere nel merito.
I presupposti processuali sono un numerus clausus, individuati dal legislatore, e non sono
disponibili dalle parti, salvo eccezioni. Essi possono essere:
- presupposti processuali che attengono all’organo giudicante: la giurisdizione, la competenza,
la regolare costituzione del giudice;
- presupposti processuali che attengono all’oggetto della controversia: la cosa giudicata o
eventuali impedimenti alla decisione di merito.
- presupposti processuali che attengono alle parti: la capacità, la legittimazione, l’interesse ad
agire, l’instaurazione del contraddittorio.

La domanda giudiziale e i suoi e etti

La domanda giudiziale è il ponte fra il diritto sostanziale e il processo, così come la sentenza sarà
il ponte tra il processo e il diritto sostanziale.
La proposizione della domanda avviene necessariamente, ma non solo, con l’atto introduttivo
del processo, il quale deve contenere la domanda giudiziale a nché sia individuato l’oggetto del
processo. Comunque una domanda può essere inserita anche in altri atti del processo: quando
ciò accade si ha un processo con più oggetti (processo oggettivamente cumulato). Si ha un
processo cumulato anche quando, con il primo atto del processo, si propongono più domande.
L’atto del processo che contiene la domanda può essere variamente regolato dal legislatore,
come vedremo.
Le parti non sono libere di individuare l’oggetto del processo come meglio credono, infatti la
domanda ha un contenuto minimo che risponde a precise esigenze pubblicistiche volte ad
evitare che il “servizio pubblico giustizia” sia chiamato ad intervenire più volte quando può essere
evitato. Secondo opinione largamente di usa, con la domanda si deve chiedere la tutela di un
diritto e non si può ricorrere al giudice al solo ne di ottenere la risoluzione di singole questioni
rilevanti per l’esistenza/inesistenza del diritto (neppure se tutte le parti sono d’accordo).
Da un altro punto di vista, la domanda deve avere ad oggetto la richiesta di risolvere la
controversia, dettando le regole di condotta concrete che sostituiscano le norme generali ed
astratte. Invece nell’arbitrato questo è possibile, cioè chiedere solo l’accertamento di una
situazione.

Per quanto riguarda l’individuazione del diritto, bisogna distinguere a seconda dei diversi tipi di
situazioni sostanziali, perché i criteri di identi cazione del diritto non sono sempre gli stessi:
I diritti assoluti in genere, compresi i diritti reali e i diritti che hanno ad oggetto un bene
determinato, si identi cano sulla base di tre elementi: il titolare del diritto, il bene che ne
costituisce l’oggetto e il tipo di utilità garantita dall’ordinamento, cioè il tipo di diritto che ha ad
oggetto quel bene (es, servitù, locazione ecc). I diritti appartenenti a questa categoria si
denominano autoindividuati in quanto per identi care il diritto non c’è bisogno di stabilire in virtù
di quale fattispecie esso è sorto. Al moltiplicarsi delle fattispecie acquisitive non si moltiplicano i
diritti, infatti il diritto rimane sempre lo stesso. Invece se muta l’utilità garantita muta anche il

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diritto (es. la servitù dà un’utilità diversa da quella che dà la piena proprietà). Quanto detto vale
anche per i diritti assoluti non reali.
Per quanto riguarda i diritti di credito aventi ad oggetto una prestazione ripetibile, gli
elementi identi catori sono l’oggetto e la fattispecie costitutiva del diritto. Il moltiplicarsi delle
fattispecie acquisitive determina il moltiplicarsi dei diritti. Questa categoria di diritti prende il nome
di eteroindividuati perché hanno bisogno della loro fattispecie acquisitiva per essere individuati.
Non è comunque su ciente un’alterazione di un qualunque elemento di fatto per far mutare
anche il diritto. Per esempio, il fatto di ottenere il risarcimento a seguito di un sinistro stradale è
indipendente dalle modalità con cui si è veri cato. Il discorso è più complesso quando la diversità
del fatto comporta anche una modi cazione della fattispecie: si potrebbe dire che in questo caso
siamo in presenza di due diritti diversi ma questo non sempre accade, per esempio quando la
relazione tra i due diritti è tale che l’esistenza dell’uno esclude l’esistenza dell’altro.
Invece, quando vi è un vero e proprio concorso di più diritti i diritti sono e ettivamente diversi e
sono tra loro collegati solo nel senso che l’estinzione satisfattiva dell’uno comporta l’estinzione
anche dell’altro. Al contrario, l’inesistenza o l’estinzione non satisfattiva dell’uno non ha rilevanza
per l’altro.
Per quanto riguarda i diritti potestativi, utilizziamo un esempio per vedere le diverse
alternative che si pongono per i diritti potestativi: l’annullamento del contratto si può avere per
errore, violenza e dolo a cui si aggiunge la manifestazione di volontà della parte lesa a decidere se
vuole o no l’annullamento. Tuttavia gli episodi di dolo possono essere molteplici (A, B, C),
ciascuno dei quali su ciente ad integrare la fattispecie di annullamento del contratto ma nessuno
può dirsi prevalente sugli altri.
Prima ipotesi: esistono tanti diritti potestativi quanti sono i fatti storici concreti, quindi esiste il
diritto potestativo per il dolo A, per il dolo B e per il dolo C. In questa ipotesi il diritto potestativo si
individua attraverso l’episodio storico concreto.
Seconda ipotesi: il diritto potestativo è identi cato dal motivo giuridico (dolo, violenza, errore). I
singoli fatti storici non sono di per sé identi catori del diritto potestativo: si cumulano tutti insieme
per determinare un solo diritto potestativo per errore, uno per violenza e uno per dolo. Dunque il
diritto potestativo viene individuato a livello intermedio.
Terza ipotesi: il diritto potestativo si identi ca per l’e etto giuridico che produce (es.
annullamento). Il diritto è unico ed è il diritto all’annullamento.

Per quanto riguarda l’individuazione della lesione, chi propone la domanda giudiziale deve
individuare quale comportamento la controparte doveva tenere e non ha tenuto.

Ultimo elemento della domanda giudiziale è l’individuazione della tutela richiesta e quindi degli
e etti che si chiede al giudice di produrre. Tali e etti devono essere in astratto previsti
dall’ordinamento ed in concreto ammissibili con riferimento alla lesione lamentata.

La domanda giudiziale può avere tre categorie di e etti:


Gli e etti meramente procedimentali non sono propriamente e etti della domanda, ma dell'atto
che la contiene, e sono costituiti dal potere di compiere l'atto immediatamente successivo: se la
domanda è proposta con citazione, gli atti immediatamente successivi sono il deposito della
citazione noti cata nella cancelleria dell'u cio giudiziario, indicato nella citazione stessa;
l’iscrizione a ruolo; la formazione del fascicolo d’u cio e la nomina del giudice incaricato della
trattazione della causa.
Il primo fondamentale e etto processuale in senso stretto dell’atto introduttivo è la
litispendenza (in senso lato). Ad essa possono essere ricondotte:
- la litispendenza in senso proprio;
- l’irretrattabilità della domanda, che non può essere ritirata senza il consenso della controparte
costituita;
- la perpetuatio iurisdictionis;
- la possibilità di successione processuale.

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Gli e etti processuali in senso stretto si ricollegano al fatto che il processo è pendente e non
riguardano il merito, bensì il rito, quindi operano a favore di tutte le parti del processo.
Gli e etti sostanziali della domanda incidono invece sul contenuto di merito della pronuncia.
Essi vanno distinti in due categorie:
- nella prima rientrano le ipotesi in cui rilevante è, in sé, la proposizione della domanda (es. la
proposizione della domanda interrompe la prescrizione in quanto è un atto di esercizio del
diritto).
- nella seconda rientrano le ipotesi in cui gli e etti sono emanati solo con l’accoglimento della
domanda. In questo caso si pone il problema che abbiamo già visto, cioè che passa
inevitabilmente un certo lasso di tempo tra la richiesta di tutela e la tutela e ettiva, cosa che
non deve andare a danno della parte che ha ragione. Tuttavia può accadere che il pregiudizio
derivi non dal uire della realtà materiale esterna al processo, ma dalla stessa applicazione del
diritto sostanziale. Per evitare questo, le norme sostanziali “di diritto comune” sono
disapplicate mentre sono applicate norme sostanziali “speciali” nel momento in cui
l’applicazione delle norme comuni arreca un pregiudizio alla parte che avrà ragione.
Uno degli e etti sostanziali più importanti della domanda giudiziale riguarda il saggio degli
interessi dovuti nel corso del processo. Secondo l'art. 1284, IV e V. c.c. «Se le parti non ne hanno
determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi
legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali. La disposizione del quarto comma si applica anche all'atto con cui
si promuove il procedimento arbitrale».
Per e etto di questa disposizione, il debitore è disincentivato dal resistere infondatamente ad una
richiesta di adempimento. Infatti, essendo il saggio degli interessi legali molto inferiore ai tassi con
cui si può ottenere un nanziamento bancario, il debitore avrebbe tutta la convenienza a
dilazionare il pagamento no al provvedimento di condanna esecutivo, e lucrare così della
di erenza tra il saggio di interessi legali e quello bancario. In pratica, per tutta la durata del
processo, il debitore si farebbe nanziare dal creditore al saggio di interesse legale.

La giurisdizione

La giurisdizione del giudice ordinario incontra tre limiti.


Il primo riguarda la persona del convenuto. L'art. 3 della l. 218/1995, sul diritto
internazionale privato, utilizza come criterio di collegamento principale il domicilio o la residenza
in Italia del convenuto. Il criterio è residuale, perché si applica laddove non esistono convenzioni o
accordi internazionali che regolino diversamente la materia. Le convenzioni internazionali hanno
applicazione preferenziale rispetto alla legge di diritto internazionale privato. Al di sopra di tutto,
poi, stanno ovviamente i regolamenti comunitari.
Il secondo è nei confronti dei poteri pubblici: gli organi pubblici non possono avere altri
poteri al di fuori di quelli che sono loro conferiti dalla legge e non possono esercitare i poteri di un
altro organo (principio di legalità). Questo principio non deve essere confuso con quello di
separazione dei poteri, infatti sono possibili interferenze tra poteri dello Stato ma ciascuno deve
rimanere nell’ambito delle proprie attribuzioni. Di solito questo limite viene inteso come limite al
potere giurisdizionale nei confronti della PA.
Il terzo è il limite nei confronti delle giurisdizioni speciali. Il criterio generale è fornito
dall’art. 1 c.p.c.: la giurisdizione ordinaria si espande no ai con ni estremi dell’attività
giurisdizionale. Dunque ci sono certi settori dove il legislatore attribuisce la giurisdizione a
soggetti diversi dal giudice ordinario. Il primo e fondamentale settore in cui vi è carenza di
giurisdizione del giudice ordinario riguarda la legittimità costituzionale delle norme primarie, il cui
sindacato è sottratto al giudice ordinario ed è attribuito alla Corte costituzionale.
Una peculiarità delle giurisdizioni speciali consiste nel fatto che le loro decisioni sono impugnabili
dinanzi alla Corte di cassazione ex art. 360 c.p.c.. Inoltre, le questioni relative alle attribuzioni
giurisdizionali sono risolte dalla cassazione, organo di vertice.
Questo limite integra un criterio di ripartizione interna rispetto al potere giurisdizionale
dell’ordinamento nel suo complesso, a di erenza degli altri limiti dove se non c’è giurisdizione del

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giudice ordinario non c’è un altro organo a cui rivolgersi. L’eventuale carenza di giurisdizione del
giudice ordinario, dunque, dà luogo ad un difetto di giurisdizione non assoluto, ma relativo,
perché se anche il giudice ordinario non ha potere giurisdizionale, esiste nell’ordinamento un altro
giudice che il potere giurisdizionale lo ha. Tanto che, come vedremo, la controversia,
erroneamente proposta ad un giudice carente di giurisdizione relativa, può essere "trasferita"
dinanzi al giudice che tale giurisdizione possiede.
Un’altra questione importante riguarda la determinazione delle condizioni che
conferiscono la giurisdizione al giudice ordinario (o speciale). In alcuni casi la norma si de nisce
“concreta” perché individua nominativamente un soggetto particolare, ma di solito le norme
processuali sono astratte e quindi i soggetti, destinatari della norma, sono individuati attraverso le
fattispecie.
Esempio: “chiunque uccide viene punito”: la fattispecie è l’uccisione, il destinatario è chiunque in
concreto tenga il comportamento previsto dalla fattispecie astratta.
Ciò accade anche per i presupposti processuali, il cui e etto si produce quando vengono ad
esistenza i fatti storici che costituiscono la fattispecie. Dunque la norma descrive uno o più fatti al
cui veri carsi segue l’e etto giuridico.
Posto questo, talvolta la fattispecie è composta da un fatto compiuto non suscettibile di ripetersi
nel tempo oppure da un fatto che dura nel tempo e quindi può mutare. Quando la fattispecie del
presupposto processuale è costituita da un fatto suscettibile di mutamento nel tempo, se il fatto
in questione sussiste all'inizio del processo ma viene meno nel corso dello stesso, verrebbe meno
anche la possibilità di emettere la pronuncia di merito. Identica questione si presenta per i
mutamenti, sempre nel corso del processo, delle norme attributive della giurisdizione e della
competenza. Per evitare tali inconvenienti, l’art. 5 cpc stabilisce che la giurisdizione e la
competenza si determinano con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda, e che non hanno rilevanza i successivi mutamenti
della legge e dello stato di fatto. Occorre soltanto fare eccezione per le sentenze della corte
costituzionale che dichiarano illegittima la norma attributiva della giurisdizione o della
competenza. In tal caso, se nel processo in corso la questione di giurisdizione o di competenza
non è ancora preclusa, essa è rilevabile da chi è legittimato a farlo.
Un’ulteriore questione riguarda la disponibilità convenzionale delle regole della
giurisdizione, e cioè se le parti possono istituire regole sulla giurisdizione diverse da quelle
previste dall’ordinamento. L’art. 4 l. 218/1995 sul diritto internazionale privato consente una
deroga alle norme sulla giurisdizione nei confronti del convenuto: da un lato, la giurisdizione
italiana sussiste se le parti, con un atto scritto, l'hanno accettata; dall'altro, le parti possono
convenzionalmente escludere la giurisdizione italiana, con atto scritto, ma solo in materia di diritti
disponibili. Una disciplina parzialmente analoga è contenuta nell’art. 25 del regolamento
1215/2012.
Per quanto riguarda gli altri limiti, nessuna norma stabilisce se siano derogabili o meno. Salvo
previsione contraria le norme processuali sono inderogabili dalla volontà delle parti le quali non
possono, accordandosi, disapplicare una norma vigente oppure introdurre una norma nuova; non
possono introdurre nuovi presupposti processuali, né modi care la disciplina di quelli previsti, né
escludere l'applicazione di quelli esistenti.

Il mezzo attraverso il quale nel processo di cognizione si controlla il rispetto delle norme
processuali è la rilevazione della questione: signi ca che la questione relativa al rispetto di
norme processuali diventa oggetto di trattazione e di decisione come la questione attinente al
merito. Infatti l'omogeneità delle questioni di rito e di merito (in entrambi i casi si tratta di stabilire
quale comportamento è conforme ad una norma rispettivamente processuale o sostanziale)
consente, nel processo di cognizione, la trattazione e la decisione di entrambi i tipi di questioni
con la stessa tecnica. Quando la rilevazione proviene dalle parti, essa prende il nome di
eccezione. La rilevazione è sempre possibile per le parti e può essere e ettuata anche dal
giudice d’u cio. La tecnica dell'eccezione o rilevazione è utilizzabile solo nel processo di
cognizione che ha infatti una funzione e struttura dichiarativa: alla cognizione ed alla decisione
delle questioni di merito si aggiunge la cognizione e la decisione delle questioni di rito.

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Per quanto riguarda le questioni di giurisdizione, l’art. 37 cpc stabilisce che il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della p.a. o dei giudici speciali è rilevato, anche
d’u cio, in qualunque stato e grado del processo.
(Questo articolo è stato modi cato dalla riforma Cartabia e al testo sopra riportato è stato
aggiunto “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo e
dei giudici speciali è rilevato anche d’u cio nel giudizio di primo grado. Nei giudizi di
impugnazione può essere rilevato solo se oggetto di speci co motivo, ma l’attore non può
impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito.)
Analizzando l’articolo, “anche d’u cio” signi ca che il difetto è rilevabile non solo dal giudice ma
anche dalla parti, ma non tutte le parti in virtù del principio di autoresponsabilità per cui nessun
soggetto è legittimato a far valere i vizi del processo a cui egli ha dato causa. Se l’errore di
giurisdizione dipende dall’attore, egli non può rilevare il difetto di giurisdizione perché ha dato
causa al processo. Quindi se il giudice a erma la sua giurisdizione, l’attore non è titolare di una
situazione processuale protetta e quindi non ha potere di impugnazione. Se invece il giudice nega
la sua giurisdizione allora l’attore diventa titolare di una situazione processuale protetta e può
chiedere, impugnando, di far riesaminare la questione da un altro giudice.
Invece il convenuto può impugnare la sentenza se il giudice a erma la propria giurisdizione;
invece non ha potere di impugnazione se il giudice la nega nel momento in cui è il convenuto a
chiedere al giudice di dichiararsi carente di giurisdizione.
Una volta rilevata la questione di giurisdizione, il giudice deve deciderla con una sentenza
soggetta ai normali mezzi di impugnazione. Se il giudice a erma la propria giurisdizione e non ci
sono impugnazioni, la decisione di primo grado passa in giudicato impedendo l’ulteriore
rilevazione nel successivo svolgimento del processo. Questo principio vale anche per tutti gli altri
presupposti processuali.
Rilievo di giurisdizione nei confronti del convenuto: in tre ipotesi il difetto di giurisdizione è
rilevabile anche d’u cio in ogni stato e grado del processo (quando la controversia abbia ad
oggetto beni immobili situati all'estero; quando il convenuto è contumace; quando la giurisdizione
è esclusa per e etto di una norma internazionale). Se invece il convenuto si è costituito, la
questione è rilevabile solo da quest’ultimo in qualunque stato e grado del processo, purché egli
non abbia accettato espressamente, tramite manifestazione di volontà, o tacitamente, cioè senza
fare impugnazioni, la giurisdizione italiana.
E etti del rilievo del difetto di giurisdizione: il nostro sistema prevede che il giudice, per il solo
fatto di essere investito della domanda, ha il potere di valutare la sussistenza di tutti i presupposti
processuali. Il potere che, con l'eccezione di carenza di giurisdizione, viene posto in
contestazione è invece il potere di decidere nel merito ma il potere di veri care l'esistenza dei
presupposti processuali rimane pur sempre del giudice adito, per il solo fatto di essere stato
investito della domanda. Sono dunque due poteri diversi che nascono da due presupposti diversi:
il potere di decidere nel merito si fonda sulla presenza di presupposti processuali; il potere di
valutare i presupposti processuali si fonda sulla sola proposizione della domanda.
Conseguenze del difetto di giurisdizione: le conseguenze sono diverse a seconda che si tratti di
un difetto di giurisdizione assoluto o relativo. Riprendendo i tre limiti visti precedentemente, i primi
due comportano un difetto assoluto di giurisdizione infatti, se la giurisdizione manca, vuol dire
che non esiste nell'ordinamento statale italiano alcun giudice che possa fornire tutela; il terzo
limite invece integra un difetto relativo di giurisdizione, in quanto la carenza di giurisdizione del
giudice ordinario non esclude che, nell'ordinamento statale italiano, esista un altro giudice
(speciale) che può fornire la tutela richiesta. Dunque nel primo caso il giudice si limita a dichiarare
il proprio difetto di giurisdizione; nel secondo caso invece deve anche indicare qual è il giudice
che, a suo avviso, è fornito di giurisdizione per quella controversia.questa indicazione innesca un
meccanismo di sanatoria del difetto di giurisdizione. In particolare, davanti al giudice indicato
come fornito di giurisdizione, sono fatti salvi gli e etti processuali e sostanziali che la domanda
avrebbe prodotto se tale giudice fosse stato adito sin dall’inizio.
Le parti sono vincolate all'indicazione del giudice munito di giurisdizione, essendovi una sentenza
passata in giudicato; invece il giudice è vincolato dalla sentenza che dichiara la sua giurisdizione
solo se questa è stata pronunciata dalle sezioni unite della cassazione, altrimenti egli può rilevare
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di non essere munito di giurisdizione rimettendo, con ordinanza, la questione davanti alle sezioni
unite della corte di cassazione.

Per decidere le questioni di giurisdizione esiste inoltre un meccanismo peculiare: il regolamento


di giurisdizione disciplinato dall’art. 41 cpc. La peculiarità del regolamento è di essere un mezzo
con cui il potere di decidere è sottratto al giudice adito e rimesso alla Corte di cassazione, che
decide in luogo del giudice adito. Il regolamento, dunque, è un mezzo preventivo perché previene
la decisione del giudice sul punto; il mezzo di impugnazione è invece un posterius rispetto alla
decisione del giudice. Col mezzo di impugnazione, infatti, si chiede ad un altro giudice di
modi care la decisione emessa; col regolamento di giurisdizione, invece, si sottrae al giudice
adito il potere di decidere della questione di giurisdizione.
Il regolamento è un mezzo facoltativo e la sua nalità è quella di dare alle parti la possibilità di
avere subito una pronuncia de nitiva sulla giurisdizione. Infatti la corte di cassazione è l'organo di
vertice per la giurisdizione e le sue decisioni statuiscono in modo de nitivo sulla giurisdizione: se
sorge una questione di giurisdizione, soprattutto se si tratta di una questione di giurisdizione
relativa, poiché le pronunce dei giudici diversi dalla cassazione non sono vincolanti per gli altri
giudici anche se passate in giudicato, è utile uno strumento con cui si possa arrivare subito ad
una decisione vincolante per tutti i giudici.
Legittimato a proporre il regolamento è anche l’attore, che può avere interesse ad ottenere subito
una pronuncia vincolante sulla giurisdizione senza correre il rischio di sentirsi dire dalla
cassazione, al termine della tra la ordinaria dei mezzi di impugnazione, che si è scelto il giudice
sbagliato ed occorre iniziare da capo innanzi ad un altro giudice.
La proporzione del regolamento di giurisdizione determina una sospensione discrezionale: il
processo di merito è sospeso, tranne che il giudice valuti il regolamento manifestamente
inammissibile o manifestamente infondato.
La proposizione del regolamento non impedisce al giudice di procedere verso la decisione di
merito, quindi se la sentenza di merito viene emessa e passa in giudicato prima che la cassazione
abbia deciso del regolamento si presentano due situazioni: se la cassazione a erma la
giurisdizione del giudice non si pone alcun problema; se invece la giurisdizione è negata, la
sentenza di merito verrà caducata perché manca il presupposto processuale della giurisdizione.
Regolamento proposto dalla PA: questa può chiedere alla Corte di cassazione che sia dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a causa dei poteri attribuiti dalla legge
all'amministrazione stessa. Si tratta qui di rivendicazione dell'esercizio di poteri di
amministrazione attiva, attribuiti alla P.A. dalla legge, che non ha niente a che vedere con il
controllo, da parte del giudice, degli atti della pubblica amministrazione. Quest'ultimo pro lo pone
una questione di giurisdizione (relativa) fra il giudice ordinario e i giudici speciali, e non una
questione di con itto fra giudice ordinario e PA. Quando si chiede al giudice di esercitare un
potere che spetta invece alla pubblica amministrazione si ha un difetto assoluto di giurisdizione,
e la PA ha il potere di sollevare il regolamento di giurisdizione no a quando la giurisdizione non
sia stata a ermata con sentenza passata in giudicato. Comunque, al passaggio in giudicato della
sentenza, la PA può sollevare il con itto di attribuzione, che è strumento esterno al processo.

Competenza per materia e valore

La competenza è de nita come la ripartizione interna del potere appartenente a ciascun settore
giurisdizionale. La ripartizione di potere tra vari u ci giurisdizionali può essere di due tipi diversi:
orizzontale (competenza per territorio) e verticale (competenza per materia e per valore).
Problemi di competenza orizzontale si hanno quando il tipo di u cio competente in prima istanza
è uno solo (es. il T.A.R) ma vi sono più u ci dello stesso tipo distribuiti sul territorio.
Per quanto riguarda la giurisdizione ordinaria, in relazione alla competenza verticale, i giudici
competenti in primo grado sono il giudice di pace e il tribunale. Esistono poi altri organi che non
hanno competenza in primo grado ma solo per l’impugnazione: essi sono la corte d’appello e la
Corte di cassazione. L’appello avverso le sentenze del giudice di pace è di competenza del

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tribunale, il quale quindi è l'unico organo giurisdizionale che assolve ordinariamente funzioni di
primo e secondo grado, in materia civile.
Le regole di competenza attuano il principio costituzionale del giudice naturale precostituito per
legge, quindi non hanno solo una portata organizzatoria ma anche garantista verso le parti.
Dunque i criteri per stabilire la competenza sono tre: due in senso verticale, per individuare se
competente è un u cio del giudice di pace o del tribunale; e uno in senso orizzontale, per
individuare quale dei più u ci giudiziari del tipo individuato è competente a decidere quella
controversia.
Criteri verticali: il criterio per materia si utilizza con precedenza rispetto al criterio per valore,
che è quindi residuale rispetto al primo.
Il giudice di pace è competente per: le cause relative ad apposizione di termini e osservanza delle
distanze; le cause relative alla misura e modalità d'uso dei servizi di condominio delle case; le
cause relative a rapporti tra proprietari di immobili adibiti a civile abitazione in materia di
immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino
la normale tollerabilità; per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di
prestazioni previdenziali o assistenziali.
Il tribunale è competente in materia di stato e capacità delle persone (ad es., cittadinanza, nome,
cognome, liazione, adozione di maggiorenni, matrimonio, separazione, divorzio, etc.), in materia
di diritti onori ci, per la querela di falso. Inoltre il tribunale ha ereditato le competenze per materia
del pretore, cioè le azioni possessorie, le cause di lavoro, le cause locative e la repressione del
comportamento antisindacale.
La competenza per materia si determina sulla base della domanda dell'attore. Esiste, infatti, un
principio generale in virtù del quale un presupposto processuale (e quindi anche la competenza
per materia) si determina dalla domanda allorché rilevanti, ai ni del presupposto processuale in
parola (e quindi anche della competenza), siano l'esistenza e/o il modo di essere della situazione
sostanziale dedotta in giudizio, o più in generale fatti rilevanti anche per il merito.
Esempio: il tribunale è competente per materia nelle cause relative a rapporti di locazione e di
comodato di immobili (art. 447-bis c.p.c.). Rilevante, ai ni della competenza, è l'a ermazione, da
parte dell’attore, della sussistenza di uno di tali rapporti. L'eventuale contestazione, da parte del
convenuto, che si tratta invece di diritto di abitazione, di usufrutto o di appalto, non incide sulla
competenza, ma solo sul merito. Il tribunale esamina nel merito la domanda e, se accerta che il
rapporto e ettivamente sussistente fra le parti non è quello a ermato dall’attore, rigetta la
domanda nel merito, ferma rimanendo la riproponibilità della domanda sotto il diverso pro lo
giuridico di cui il tribunale non si è potuto occupare perché incompetente.
Se sussiste una competenza per materia, si procede all'individuazione della competenza
territoriale. Invece se la competenza per materia non è prevista per quella controversia, opera il
criterio residuale del valore, anche se è stato più volte criticato perché il valore della controversia
non è un criterio razionale per determinare la competenza. Vediamo comunque questo criterio.
L’art. 7 cpc a erma che il giudice di pace è competente per valore per le cause relative a beni
mobili di valore non superiore a 5.000 € (ora diventato 10.000 € a seguito della riforma). In
particolare, “cause relative a beni mobili” signi ca che sono compresi nella competenza tutte le
cause in cui il bene immobile appare non come oggetto del diritto reale, ma come punto di
riferimento di un diritto diverso (ad esempio il diritto al risarcimento dei danni subiti dal bene
immobile). Dunque tale competenza è esclusa per le cause che abbiano ad oggetto un diritto
reale su un bene immobile, la cui competenza spetta invece al tribunale.
Inoltre, in tema di competenza per valore, l’art. 9 stabilisce che il tribunale è competente per ogni
causa di valore indeterminabile. Non bisogna confondere il valore indeterminato con quello
indeterminabile: indeterminabile signi ca che non può essere determinato; indeterminato
signi ca che in concreto non è determinato ma in astratto è determinabile.
Individuata la fascia di competenza, si stabilisce il valore della causa sulla base degli artt. 10-15
cpc, ai quali si applicano le fasce degli artt. 7-9 cpc. Anche per determinare il valore si utilizza il
criterio della domanda dell’attore: se è proposta una domanda di un valore che rientra nell’ambito
della competenza del giudice adito, tale giudice è competente anche per attribuire una somma
inferiore al limite minimo della sua competenza. Se l’attore modi ca la sua domanda,

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aumentandola e quindi superando il limite massimo di competenza, allora il giudice diventa
incompetente e la causa deve essere rimessa al giudice superiore. L’attore può modi care la
domanda no al passaggio della causa dalla fase istruttoria a quella decisoria.
Inoltre l’art. 10 co. 2 disciplina il fenomeno della sommatoria fra domande che ha luogo
quando, con un unico atto, una parte propone una pluralità di domande contro una stessa
controparte. Non c’è sommatoria nelle seguenti ipotesi:
- Le domande proposte dall'attore contro il convenuto non si sommano alle domande proposte
dal convenuto contro l'attore perché sono domande proposte da una parte contro l’altra.
- Le domande proposte, anche con un unico atto, contro più soggetti non si sommano.
- Le domande proposte da una parte nei confronti della controparte con un atto non si sommano
alle domande proposte dalla stessa parte nei confronti della stessa controparte con un altro
atto.
- Ove vi sia ragione di connessione, più cause proposte in distinti processi possono essere
riunite in un processo unico. Anche in tale ipotesi le domande non si sommano perché sono
state proposte con atti diversi.
- Non si ha sommatoria quando il cumulo non è incondizionato. Cumulo incondizionato:
quando le più domande sono proposte in modo tale che l'esito dell'una non condiziona
l'esame dell'altra; oppure anche quando l'esito dell'una incide sull'esito dell'altra domanda. È
invece condizionato se l'esito dell'una incide sull'esame dell’altra.
Il condizionamento può avere luogo in tre modi diversi:
- Alternatività: quando l’attore chiede alternativamente due cose, senza esprimere una
preferenza. Il giudice accoglie la domanda che per prima è matura per la decisione.
- Cumulo condizionato in senso proprio: quando l'attore propone in via principale una domanda
e, per il caso che sia rigettata, ne propone un’altra.
- Cumulo condizionato in senso improprio: quando in caso di accoglimento di una domanda si
chiede di esaminare anche l’altra. La di erenza con l'ipotesi delle domande
incondizionatamente cumulate è la seguente: se le due domande sono proposte
incondizionatamente cumulate, il giudice esamina la prima (che è pregiudiziale) e, se la rigetta,
rigetta anche la seconda domanda (che è dipendente dalla prima); se invece le domande sono
cumulate in via condizionata impropria, il giudice esamina la prima e, se la rigetta, non esamina
la seconda.
Le domande proposte in via alternativa o in via condizionata propria non si sommano, perché non
possono essere accolte entrambe. Al contrario, nel terzo caso, si e ettua la somma fra le due
domande perché ambedue possono essere accolte.
Tornando alle altre ipotesi, non c’è sommatoria quando le due domande, proposte nello stesso
atto dallo stesso soggetto nei confronti della stessa controparte, sono una soggetta alla
competenza per materia e l'altra alla competenza per valore. In tal caso le due domande non si
sommano perché quella per materia non ha valore.
Un’eccezione alle regole dell’art. 10 è contenuta nell’art. 11 cpc, il quale prevede che “se si è
chiesto da più persone o contro più persone l'adempimento per quote di un’obbligazione, il valore
della causa si determina dall'intera obbligazione”. Questa eccezione non si applica alle
obbligazioni solidali o a quelle indivisibili, ove ciascun debitore è obbligato per l’intero.
Per quanto riguarda l’art. 12 cpc, esso stabilisce che “il valore delle cause relative all'esistenza,
validità o risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio si determina in base a quella parte del
rapporto che è in contestazione”. Il rapporto giuridico obbligatorio è quella gura di diritto
sostanziale che ha la funzione di uni care una pluralità di e etti giuridici, per dare loro una
disciplina unitaria e coerente. Ciascun e etto può avere suoi presupposti particolari costitutivi o
estintivi ma esistono fatti comuni a tutti gli e etti: è qui che serve la nozione di rapporto giuridico
obbligatorio, al ne di uni care i fatti rilevanti per tutti gli e etti e che pertanto incidono sul
rapporto in sé. Il venir meno di tutti i diritti ricollegati ad un rapporto produce la scomparsa anche
del rapporto stesso.
Tornando all’art. 12, questo prevede una sempli cazione per determinare il valore della causa ai
ni della competenza. In relazione al rapporto giuridico obbligatorio, per quanto riguarda la

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competenza, possono accadere due cose. In primo luogo può essere dedotto in giudizio uno dei
diritti che nascono dal rapporto.
Esempio: il dipendente chiede il pagamento della tredicesima. Per stabilire se esiste l’e etto
giuridico dedotto in giudizio, può essere che il giudice debba portare la sua attenzione
sull’esistenza e il modo d’essere del rapporto giuridico obbligatorio. In tal caso il legislatore fa
riferimento a quella parte del rapporto che è in contestazione.
Invece, quando si chiede l'accertamento dell'esistenza o inesistenza o la quali cazione del
rapporto in sé, il criterio sempli catore non funziona e il valore va determinato sulla base
dell'intero rapporto e cioè sulla base del valore pecuniario degli e etti della sentenza che accoglie
la domanda.
Gli artt. 14 e 15 stabiliscono poi come si determina il valore di una somma di denaro, di un bene
mobile o immobile.
Cause relative a somme di denaro: vi sono due alternative. La somma di denaro può essere o
quanti cata oppure non quanti cata dall'attore. La somma è quanti cata quando l'attore precisa
che vuole tot euro; la somma è non quanti cata quando l'attore rinvia all'esito dell'istruttoria la
determinazione della somma che pretende. Se la somma di denaro è quanti cata, il valore si
determina in base alla richiesta. Le eventuali contestazioni del convenuto circa l'esistenza e
l'entità della somma sono irrilevanti ai ni della competenza ma rilevanti ai ni del merito. Se la
somma di denaro non è quanti cata, la causa si presume di competenza del giudice adito.
Se l'attore quanti ca la somma in corso di causa si possono avere tre ipotesi:
- L'attore indica una somma compresa fra il limite minimo e massimo di competenza del giudice
adito: la quanti cazione ha e etto ai ni del merito ma non incide sulla competenza.
- La somma indicata supera il limite massimo di valore del giudice adito: il giudice deve
dichiararsi incompetente e la causa va trasferita al giudice superiore.
- La somma indicata è inferiore al limite minimo di competenza del giudice adito: la
quanti cazione non rileva ai ni della competenza ma solo ai ni del merito ex art. 10 cpc (gli
aumenti rilevano ai ni della competenza mentre le diminuzioni no). Quindi il giudice adito
rimane competente ma non può attribuire una somma maggiore di quella chiesta dall’attore.
Se la domanda non è quanti cata inizialmente né in corso di causa, si applica l’ultimo comma
dell’art. 14: il valore della causa rimane ssato anche agli e etti del merito nei limiti della
competenza del giudice adito. Ciò signi ca che il giudice non può attribuire una somma superiore
al limite massimo della sua competenza, anche se dovesse riconoscere che il credito, sul piano
sostanziale è di entità maggiore.
Cause relative a beni mobili: l'attore può attribuire o meno un valore al bene mobile. Se l'attore
quanti ca il valore, la competenza si stima sulla base della somma indicata dall'attore. Se invece
non quanti ca il valore, la causa si presume di competenza del giudice adito. A di erenza di
quanto accade per le somme di denaro, il valore del bene mobile è irrilevante ai ni del merito,
dunque la sentenza che attribuisce la proprietà del bene non trova ostacoli nel limite massimo
della competenza del giudice adito. Per questo motivo la contestazione del convenuto è rilevante
ai ni della competenza del giudice. Tale contestazione deve essere fatta nella prima difesa e può
essere sia in aumento che in diminuzione. In caso di contestazione, il giudice decide ai soli ni
della competenza sulla base di quello che risulta dagli atti senza apposita istruzione. Infatti il
giudice non può svolgere attività istruttoria per valutare il valore del bene. Una volta che il giudice
abbia attribuito un valore al bene mobile, su tale valore valuta la propria competenza.
Cause relative a beni immobili: più correttamente, sono quelle relative a diritti reali su beni
immobili, cioè proprietà, usufrutto, uso, abitazione, en teusi, servitù. Restano esclusi i diritti reali
di garanzia, il cui valore si determina dal credito garantito; e i diritti personali relativi a beni
immobili, cioè quelle domande che trovano il loro fondamento in un rapporto obbligatorio e non in
un diritto reale (es. il diritto dell’acquirente alla consegna del bene, che si fonda sul contratto di
acquisto e non sul diritto di proprietà). Tutte le volte in cui il diritto fatto valere si fonda su un
rapporto contrattuale e non è un diritto reale, siamo fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 15
cpc ed è applicabile l’art. 12 cpc.
L'art. 15 c.p.c., che disciplina la competenza nelle cause relative ai diritti reali sui beni immobili,
adotta un meccanismo diverso da quello dell'art. 14 c.p.c. perché istituisce una valutazione

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automatica del valore del bene attraverso il riferimento a due elementi rilevanti in materia
tributaria: il reddito dominicale dei terreni e la rendita catastale dei fabbricati.
I beni immobili sono accatastati, cioè descritti all'u cio tecnico erariale, che ha le mappe dei
terreni e dei fabbricati. Ogni terreno ed ogni fabbricato è individuato catastalmente attraverso un
numero, ed è loro attribuito un reddito, che si chiama reddito dominicale per i terreni, e rendita
catastale per i fabbricati.
Per individuare il valore delle cause relative ai diritti reali su beni immobili si moltiplica il reddito
catastale per 200 se si tratta di controversia relativa alla proprietà; per 100 se si tratta di altro
diritto reale minore.
È evidente il vantaggio della regola contenuta nell'art. 15 c.p.c.: poiché il meccanismo è
automatico, non si pongono di solito problemi, perché è su ciente un'operazione aritmetica per
individuare il giudice competente. Tuttavia questo articolo non è al momento operante perché in
materia di diritti reali sui beni immobili ha competenza solo il tribunale.

Competenza per territorio

Per la competenza territoriale dobbiamo distinguere tre fori: quelli disciplinati dagli artt. 18-19
c.p.c. che sono il foro generale rispettivamente delle persone siche e degli altri soggetti che non
sono persone siche, il foro facoltativo dell'art. 20 c.p.c. per le cause di obbligazione; i fori
esclusivi degli artt. 21-22-23-24 c.p.c. È necessario preliminarmente stabilire come si regolano fra
loro questi tre tipi di competenza territoriale.
Il foro generale si applica là dove non vi siano previsioni di competenza territoriale esclusiva.
Esso dà una regola di carattere residuale, applicabile a tutte le controversie per le quali non vi sia
una regolamentazione diversa.
Il foro facoltativo ha la caratteristica di aggiungersi al foro generale: i criteri del foro facoltativo si
cumulano con quelli del foro generale. Ove si tratti di una controversia che rientri nell'art. 20
c.p.c., l'attore ha la scelta fra l'utilizzare i fori degli artt. 18 e 19 c.p.c. o utilizzare uno dei fori
dell'art. 20 c.p.c. Si ha una pluralità di fori concorrenti quando per la stessa controversia sono
competenti più u ci giudiziari, in quanto trovano applicazione più criteri di determinazione della
competenza.
Il foro esclusivo si chiama così proprio perché esclude il foro generale: nelle ipotesi regolate dagli
artt. 21 ss. c.p.c. non si applicano le previsioni degli artt. 18-19 c.p.c. Se la competenza è
attribuita in base ad una delle previsioni degli artt. 21 ss. c.p.c., l'unico foro competente è quello
indicato da quella norma. Non si deve confondere il foro esclusivo con il foro inderogabile. La
inderogabilità convenzionale della competenza territoriale non ha niente a che vedere con il fatto
che si tratti di foro generale, facoltativo o esclusivo.

Disciplina del foro generale:


Stabilisce l’art. 18 cpc che, salvo che la legge disponga altrimenti, è competente il giudice del
luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio e se questi sono sconosciuti, quello del
luogo in cui il convenuto ha la dimora. Se il convenuto non ha né residenza né domicilio in Italia, e
la dimora è sconosciuta, è competente il giudice del luogo, ove l'attore ha la propria residenza.
Gli stessi criteri valgono sostanzialmente per l'art. 19 cpc il quale, per i soggetti diversi dalle
persone siche, stabilisce che è competente il giudice del luogo dove la persona giuridica ha la
sede ed inoltre il giudice del luogo ove la persona giuridica ha uno stabilimento e un
rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda. Per sede si intende sia
la sede legale che quella e ettiva, cioè il luogo in cui vengono prese le decisioni più importanti
relative alla vita delle persone giuridiche; a ciò poi si aggiunge lo stabilimento. Se la persona
giuridica o l'associazione non riconosciuta, comunque la gura soggettiva non persona sica non
ha la sede in Italia, oppure la sede non è conosciuta, si applica l'art. 18 co. 2 cpc, ossia
competente è il giudice della residenza dell'attore.
Sulla base sia dell'art. 18 cpc che dell'art. 19 cpc vi è una pluralità di fori concorrenti, con
possibilità per l'attore di scegliere uno qualunque degli u ci giudiziari competenti. Naturalmente,

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la scelta spetta all'attore in quanto tale (e cioè a colui che pone in essere l’atto iniziale del
processo) a prescindere da ciò, che egli sia anche il titolare del diritto fatto valere.

Disciplina del foro facoltativo per le obbligazioni: l’art. 20 prevede la competenza del foro sia
del luogo in cui è sorta l’obbligazione sia del luogo dove deve essere eseguita. In particolare, le
obbligazioni contrattuali sorgono nel luogo dove si perfeziona il contratto; quelle extracontrattuali
sorgono nel luogo dove si veri ca l’ultimo elemento di fatto che produce la nascita
dell’obbligazione. Per quanto riguarda il luogo di adempimento dell’obbligazione, occorre far
riferimento all'art. 1182 c.c. tenendo conto del fatto che l'obbligazione avente ad oggetto il
pagamento di una somma non liquida di denaro deve essere adempiuta al domicilio del debitore.

Disciplina del foro esclusivo: dal momento che è esclusa la competenza di altri fori, per esempio
le cause relative ai diritti reali sugli immobili e quelle in materia di locazione e comodato sono di
competenza del giudice del luogo ove si trova l’immobile e tale competenza non si aggiunge a
quella della residenza e del domicilio del convenuto. Competente è solo il giudice del luogo dove
è posto l’immobile.

Il foro della pubblica amministrazione è previsto dall’art. 25 cpc. La pubblica amministrazione


(statale) è difesa in giudizio da un corpo di impiegati ad hoc che si chiama Avvocatura dello Stato.
Gli u ci dell'Avvocatura dello Stato non sono dislocati sul territorio in modo capillare, ma si
trovano solo presso la sede di corte di appello. L'art. 25 cpc stabilisce, dunque, che ove sia in
causa, come attore, come convenuto, o come chiamato un'amministrazione statale, la
competenza territoriale è del tribunale che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello,
nel cui territorio si trova il giudice che sarebbe competente secondo le regole ordinarie.
Lo spostamento di competenza non ha luogo per i giudici di pace, ma solo per i tribunali: pertanto
l'appello avverso le sentenze del giudice di pace non viene proposto al tribunale normalmente
competente, ma al tribunale individuato dall'art. 25 cpc.
Un meccanismo analogo è previsto dal dlgs 168/2003 in relazione ad alcune tipologie di
controversie, tra cui quelle in materia di proprietà industriale e intellettuale o quelle che riguardano
le società di capitali. Il legislatore ha previsto che, ove le ordinarie regole di competenza portino
ad individuare un tribunale compreso in quel distretto, la domanda vada proposta al tribunale che
ha sede ove si trova la corte di appello.
Ove si abbia un cumulo fra una causa che rientra fra quelle sopra indicate ed una causa che non
vi rientra, prevale la competenza speciale del tribunale sopra indicato.
Ci si domanda se i rapporti fra una sezione specializzata ed il tribunale ordinario presso la quale
tale sezione è istituita siano quali cabili in termini di competenza.
La questione è stata risolta dalla Cassazione con la sent. 2019/19882 distinguendo le sezioni
specializzate che sono composte solo da magistrati ordinari (come la sezione specializzata in
materia di impresa o la sezione lavoro) e le sezioni specializzate che sono composte anche da
esperti laici. Nel primo caso non si ha una questione di competenza mentre nel secondo caso si.

Derogabilità ad opera delle parti delle regole di competenza: l’accordo delle parti non può
derogare alla competenza per materia e per valore ma solo alla competenza territoriale, salvo
l’inderogabilità territoriale ex art. art. 28 cpc, che individua una serie di casi, di cui i più importanti
sono previsti dall’art. 70 cpc. L’art. 70 è la norma che regola le ipotesi in cui il pm deve
obbligatoriamente essere avvertito della pendenza di un processo civile, in quanto oggetto del
processo sono diritti indisponibili, cioè quei diritti, rispetto ai quali non ha e cacia la volontà
negoziale delle parti.
Esclusi i casi di inderogabilità, l’accordo delle parti deve essere:
- Preventivo rispetto all’instaurarsi della controversia;
- Deve riferirsi a controversie determinate;
- Deve risultare da atto scritto
- Può essere autonomo o essere inserito in un contratto come clausola accessoria.

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L’e etto dell’accordo è di istituire la competenza del giudice del luogo individuato dalle parti:
tuttavia tale e etto si ha solo se le parti stabiliscono espressamente che l’unico giudice
competente è quello da loro individuato. Altrimenti si applicano le norme di legge.

Rilevazione e decisione delle questioni di competenza

Esaminiamo ora i pro li “dinamici” delle norme sulla competenza, cioè quegli strumenti volti ad
a rontare e risolvere le contestazioni che possono sorgere in ordine al rispetto delle norme
attributive della competenza.
L'art. 38 cpc introduce due diverse regole di rilevazione dell'incompetenza a seconda che si tratti
di competenza per materia, territorio inderogabile e valore; oppure di competenza territoriale
derogabile. L'incompetenza per materia, territorio inderogabile e valore è rilevabile, dal giudice,
non oltre l'udienza di cui all'art. 183 cpc (art. 38 co. 3 cpc). Ovviamente questa regola, scritta per
il processo di cognizione ordinario dinanzi al tribunale, va poi adattata ai processi di cognizione di
rito speciale (giudice di pace, lavoro e previdenza, etc.), ai processi esecutivi ed ai processi
speciali (cautelare, giurisdizione volontaria, decreto ingiuntivo, convalida di sfratto, etc.).
L'art. 38 cpc sembra contrastare con l'art. 14 cpc in cui si stabilisce che il convenuto (e non
anche il giudice) solo nella sua prima difesa (e non anche alla prima udienza) può contestare il
valore attribuito dall'attore ai beni mobili. Il coordinamento tra le due norme si realizza nei seguenti
termini: l'art. 38 c.p.c. presuppone, per essere applicabile, che il valore della causa sia
numericamente determinato. Sulla base dell'art. 14 cpc ciò può avvenire perché l'attore, se si
tratta di somma di denaro, la quanti ca; se si tratta di bene mobile, perché si arriva ad attribuirgli
un valore attraverso il meccanismo di contestazione e di decisione allo stato degli atti, previsto
dall'art. 14 co. 2 cpc.
Quando si è giunti ad esprimere in termini numerici il valore della causa, allora in relazione a quella
entità, applicando i parametri degli artt. 7 e 9 cpc, il giudice può rilevare d'u cio la propria
incompetenza per valore.
Tra le due norme non c'è dunque sovrapposizione ma consecuzione: in prima battuta si applica
l'art. 14 cpc; se, attraverso l'applicazione dei meccanismi previsti da tale norma, si arriva a
determinare in cifre il valore della causa, a quel punto scatta l'art. 38; se non si arriva a
determinare in cifre il valore della causa, l'art. 38 non si applica perché, ex art. 14, ultimo comma,
la causa si presume di competenza del giudice adito.
Il convenuto può rilevare l’incompetenza per materia, valore e territorio solo nella comparsa di
risposta tempestivamente depositata (art. 38 co. 1). Se vi è una pluralità di fori concorrenti, il
convenuto deve contestare tutti i pro li di competenza astrattamente applicabili alla causa.
Dunque l'art. 38 co. 1 cpc preclude il potere di eccezione del convenuto prima che si precluda il
concorrente potere di rilevazione del giudice: tecnica normativa poco raccomandabile, ma che ha
delle precise conseguenze. Infatti, alla prima udienza il convenuto potrà ancora « segnalare » al
giudice l'incompetenza, ma senza avere alcuna situazione processuale protetta, che gli assicuri
per un verso una risposta del giudice e, per altro verso, il potere di sindacare tale risposta. Il
convenuto, in ne, quando eccepisce l'incompetenza territoriale del giudice adito, deve anche
individuare il giudice a suo avviso competente e, se sono più i fori concorrenti, tutti i giudici a suo
avviso competenti. Se manca l'indicazione del giudice che il convenuto ritiene competente,
l'eccezione si ha come non proposta. Se le altre parti accettano l’indicazione del convenuto che
ha sollevato l’eccezione, si realizza un altro accordo sulla competenza. Se ciò accade, il giudice
adito chiude il processo con un provvedimento meramente ordinatorio: con ordinanza dispone la
cancellazione dal ruolo e la causa non è più riportata davanti a lui in udienza. Tuttavia tale accordo
ha e etti limitati nel tempo (tre mesi dal provvedimento con il quale il giudice ha chiuso il
processo di fronte a sé), cosa che lo di erenzia dall’accordo ex art. 28 che invece è illimitato nel
tempo.
Se non si giunge a un accordo a seguito della proposta del convenuto, il giudice deve a rontare la
questione di competenza. Comunque il fatto che sia stata sollevata la questione di competenza
non impedisce al giudice di svolgere l’attività di trattazione ed istruzione relativa al merito, salvo
a rontare la questione della competenza quando la causa sarà totalmente istruita.

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Per decidere sulla questione di competenza il giudice può trovarsi nella necessità di compiere
attività istruttoria per accertare che sia e ettivamente venuta ad esistenza la fattispecie concreta
corrispondente a quella astratta. Abbiamo detto, in tema di giurisdizione, che in alcuni casi la
fattispecie concreta è realizzata da fatti endoprocessuali, per esempio quando rilevanti, ai ni del
rito, sono gli stessi fatti rilevanti ai ni del merito, poiché in tal caso la fattispecie del presupposto
processuale è integrata non tanto dall’e ettiva esistenza del fatto storico, quanto dalla sua
a ermazione. Dunque, in ultima analisi, rilevante è l’atto (processuale) in cui l’a ermazione è
contenuta.
Quindi quando rilevante è un fatto endoprocessuale, non vi è necessità di acquisire prove sulla
sussistenza dei fatti storici che integrano la fattispecie concreta relativa al presupposto
processuale perché tali fatti, essendo accaduti nel processo, sono percepiti dal giudice con la
semplice lettura degli atti.
Quando invece la fattispecie concreta è realizzata da un fatto che è esterno al processo, cioè un
fatto extraprocessuale che è irrilevante ai ni del merito, il giudice deve accertare che il convenuto
abbia e ettivamente la residenza o il domicilio in un luogo che sia compreso nell’ambito della sua
competenza territoriale.
A tal ne si utilizzano, per tutti quanti i presupposti processuali ad eccezione della competenza, i
normali mezzi di istruzione probatoria di cui al secondo libro del cpc. Invece per la competenza
l’art. 38 co. 4 prevede che l’istruttoria abbia luogo con la tecnica delle sommarie informazioni,
istituto spesso utilizzato dal legislatore in sede di procedimenti speciali, e si caratterizza per
essere un'istruttoria deformalizzata, in cui sono utilizzabili anche prove atipiche oppure prove
tipiche ma atipicamente assunte.
Il giudice decide delle questioni di competenza talvolta con ordinanza talvolta con sentenza (art.
279 co. 1 cpc): usa la forma dell'ordinanza quando decide della sola questione di competenza;
usa la forma della sentenza se, insieme alla questione di competenza, decide altre questioni che,
ai sensi dello stesso 279, devono essere decise con sentenza. Comunque gli e etti di entrambi
sono identici, quindi possiamo usare il termine “provvedimento”.
Il provvedimento può essere di duplice contenuto: il giudice può dichiararsi competente oppure
incompetente. Se il giudice dichiara la propria incompetenza, il provvedimento non può riguardare
anche il merito della causa e quindi è necessariamente una ordinanza, in quanto pronuncia sulla
sola competenza. Se, invece, il giudice si dichiara competente, il provvedimento può contenere
anche, unita al capo che riguarda la competenza, la decisione di merito. Ciò accade quando,
dopo aver deciso in senso a ermativo la questione di competenza, il giudice ha tutti gli elementi
necessari per decidere il merito. Ma se il giudice, esaminata la questione ed accertata la propria
competenza, si accorge che è necessaria un'istruttoria per decidere il merito, in tal caso emette
un’ordinanza di sola competenza e rimette la causa in istruttoria per l'assunzione delle prove
necessarie per la decisione del merito.

Regolamento di competenza

Esso, al contrario del regolamento di giurisdizione che è un mezzo preventivo e non un mezzo di
impugnazione, segue i principi generali dei mezzi di impugnazione, come conferma l'art. 324
cpc. Al contrario degli altri mezzi di impugnazione, i presupposti del regolamento attengono non
alla fase del processo in cui il provvedimento da impugnare è emesso, ma al contenuto del
provvedimento stesso. Occorre precisare che con il regolamento di competenza si devono far
valere anche i pro li dinamici della competenza, come la tempestività del provvedimento.
Tale regolamento non si applica alle decisioni del giudice di pace, i cui provvedimenti si
impugnano normalmente con l’appello.
Il regolamento può essere necessario se il provvedimento (ordinanza) ha deciso solo della
competenza; è invece facoltativo se il provvedimento (sentenza) ha deciso anche nel merito.
Bisogna precisare che “necessario” non vuol dire “obbligatorio” ma vuol dire che è l’unico mezzo
per ridiscutere della questione di competenza; invece “facoltativo” signi ca concorrente con altri
mezzi di impugnazione.

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Comunque il regolamento, nonostante questa distinzione, è un unico mezzo di impugnazione,
che ha una disciplina unitaria e produce sempre gli stessi e etti.
Dato il concorso tra i normali mezzi di impugnazione e il regolamento facoltativo, bisogna vedere
come si coordinano tra di loro i due strumenti. Anzitutto dobbiamo precisare che la questione di
competenza può essere ridiscussa con un mezzo ordinario (appello, ricorso in cassazione) a
condizione che, insieme alla competenza, sia impugnato anche il merito (art. 43 co. 1 cpc); non è
ammissibile impugnare con il mezzo ordinario la sola questione di competenza. Inoltre, in questo
caso, la cassazione intende con “merito” ogni questione, anche di rito, diversa dalla competenza
e non soltanto una decisione avente ad oggetto la situazione sostanziale dedotta in giudizio.
Prima regola di coordinamento: se il regolamento di competenza è proposto prima
dell’impugnazione ordinaria, i termini per proporre l'impugnazione ordinaria si sospendono in
attesa che sia deciso il regolamento. Se la sentenza che decide il regolamento conferma la
competenza del primo giudice, i termini riprendono a decorrere e può essere proposta
l’impugnazione ordinaria (naturalmente solo per la parte relativa al merito; non per la competenza,
perché questa è stata ormai decisa). Se, invece, in sede di regolamento si dichiara che il primo
giudice non è competente, allora i termini non decorrono più perché la sentenza emessa in sede
di regolamento, dichiarando incompetente il giudice adito, ha travolto la pronuncia di merito.
Seconda regola di coordinamento: se prima viene proposta l'impugnazione ordinaria, le altre
parti possono comunque proporre il regolamento di competenza.
Al convenuto allora si impone una scelta: se è forte nel merito lascia passare in giudicato la
questione di rito e si difende solo nel merito, in sede di impugnazione; se è debole nel merito
coltiva la questione di competenza, perché in sede di impugnazione la sentenza di merito può
essere ribaltata contro di lui; e, se ciò accade, il convenuto non può più "ripescare" la questione
di competenza, in quanto la sentenza di primo grado sul punto della competenza è passata
in giudicato.
Poiché la proposizione dell’impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre
l'istanza di regolamento, il convenuto vittorioso sul merito, ma soccombente sulla competenza,
qualora decida di coltivare la questione di competenza, può scegliere tra due strumenti distinti:
contestare, con l'impugnazione incidentale, la decisione della questione di competenza di fronte
al giudice adito dall'attore; oppure utilizzare il regolamento di competenza. Se sceglie la via del
regolamento, il processo relativo all'impugnazione ordinaria è sospeso in attesa della decisione
del regolamento.
In quest’ultimo caso, gli esiti sono quelli già visti: se, in sede di regolamento, si conferma la
competenza del giudice di primo grado, si riavvia il processo che era stato sospeso; se invece è
dichiarata l’incompetenza del giudice di primo grado, la sentenza di regolamento travolge anche
quella parte della sentenza di primo grado che aveva deciso nel merito e quindi il processo non
viene ripreso.
La di erenza tra il regolamento di competenza e l’appello consiste nella diversità dell’atto con cui
si propone l’impugnazione, diversità del giudice e del processo.
Tuttavia, nel caso di sentenza emessa in grado di appello o in unico grado, può avvenire un
concorso tra regolamento e ricorso ordinario ex. art. 360 cpc. Posto che hanno somiglianze
notevoli, vediamo due importanti di erenze:
- il termine per proporre il regolamento è di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento
da impugnare; per il ricorso in cassazione il termine è di 60 giorni dalla noti cazione della
sentenza o, in mancanza di noti cazione, sei mesi dalla sua pubblicazione, cioè dal deposito
della sentenza in cancelleria da parte del giudice.
- per il ricorso ordinario è necessario conferire mandato speciale ad un legale iscritto in uno
speciale albo, nell'albo dei patrocinanti di fronte ai giudici superiori (Corte costituzionale,
Consiglio di stato, Corte dei conti, Corte di cassazione). Invece il regolamento può essere
proposto, senza necessità di ulteriore mandato, dallo stesso legale che ha rappresentato la
parte di fronte al giudice che ha emesso la sentenza impugnata, quindi anche da un difensore
non iscritto all'albo delle giurisdizioni superiori e senza necessità di apposita procura.
È possibile che fra tali due atti si veri chi una conversione: l'istanza di regolamento,
erroneamente proposta può convertirsi in ricorso ordinario e viceversa.
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Il fenomeno della conversione è possibile quando l'atto errato può essere sussunto sotto le norme
che disciplinano l'atto giusto. Tenendo conto delle di erenze appena viste, la conversione da
istanza di regolamento a ricorso ordinario è possibile, quando l’istanza è proposta da un
avvocato, munito di mandato speciale e iscritto all'albo delle giurisdizioni superiori; e viceversa la
conversione da ricorso ordinario a istanza di regolamento è possibile, quando il ricorso è
noti cato nei termini, entro i quali deve essere proposto il regolamento.
Procedimento: il regolamento si propone nel termine sopra visto (30 giorni) alla Corte di
cassazione. La comunicazione del provvedimento consiste nell'avviso che il cancelliere fa, ai
legali delle parti, dell'avvenuta pubblicazione (o deposito in cancelleria) della sentenza o
dell'ordinanza da parte del giudice (art. 133 cpc). Il ricorso è noti cato alla o alle controparti e
depositato nella cancelleria della Corte, alla quale il cancelliere del giudice a quo rimette il
fascicolo. Le altre parti possono costituirsi di fronte alla Corte depositando i loro atti, dopo di che
la Corte decide (con ordinanza) in camera di consiglio, sulla base degli scritti difensivi delle parti e
statuisce sulla competenza indicando qual è il giudice competente.
Si forma così il giudicato sulla questione di competenza. La Corte “statuisce sulla competenza”
(art. 49 cpc), indicando il giudice competente. La pronuncia della Corte è vincolante per tutti i
giudici dell'ordinamento. Il giudice indicato come competente non può ribellarsi e la questione
sulla competenza è de nitivamente chiusa.
Se la Cassazione a erma la competenza del giudice adito, il processo va avanti di fronte a quel
giudice, e gli atti compiuti sono ovviamente validi. Ma se la Cassazione dichiara l’incompetenza
del giudice adito, il processo si azzera e deve essere ricominciato da capo innanzi al giudice
indicato dalla Cassazione come competente. Però il processo non viene necessariamente iniziato
ex novo in quanto esso può essere “trasferito” innanzi al giudice competente con un atto di
riassunzione (art. 50 cpc).
Per capire cosa signi ca “riassunzione” è necessario a rontare il problema della sanatoria dei
vizi dei presupposti processuali.
La carenza di un presupposto processuale e quindi l’impossibilità di pronunciare nel merito può
derivare da un vizio sanabile oppure insanabile. Nel caso di vizio sanabile, l’acquisizione nel
processo dei requisiti mancanti del presupposto processuale in questione deve avvenire
attraverso l’attività di colui che ha proposto la domanda (o eventualmente d’u cio). Altrimenti i
vizi non sono sanabili.
Esempio: il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario è insanabile. Se si tratta di difetto
di giurisdizione causata dai poteri attribuiti alla p.a., l'attore non può fare niente perché il potere in
questione sia conferito al giudice: l'unico soggetto che potrebbe fare qualcosa è il parlamento
attraverso l'approvazione di una legge che attribuisce al giudice ordinario il potere di cui
attualmente carente. Tuttavia il parlamento è un soggetto diverso dall’attore.
Nel momento in cui si presenta un vizio insanabile, il processo non può che essere chiuso in rito.
Una tendenza del nostro ordinamento è quella di prevedere, ove si accerti la carenza di un
presupposto processuale sanabile e questo sia individuato dal giudice, che il giudice non possa
chiudere immediatamente il processo con una pronuncia di rito, ma debba dare le disposizioni
idonee per acquisire al processo ciò che manca e quindi sanare il vizio del presupposto
processuale. Se l'attività necessaria è compiuta correttamente, il vizio si sana ed il processo è in
grado di giungere alla decisione di merito. Ma se l'attività non è posta in essere, allora diviene
inevitabile la chiusura di rito del processo. Quindi la chiusura in rito avviene in presenza di
presupposti insanabili oppure insanati.
Se invece la carenza è individuata da una delle parti, non si deve attendere che il giudice dia
quelle disposizioni ma occorre attivarsi immediatamente per porre in essere l'attività necessaria.
Se il processo nasce viziato ed è sanato in itinere, la sanatoria opera in due modi: talvolta la
sanatoria del vizio ha e cacia retroattiva, in quanto gli e etti della domanda si considerano
prodotti dal momento in cui è stata proposta la domanda stessa, ancorché il processo in quel
momento fosse viziato: come si dice comunemente, in tal caso la sanatoria opera ex tunc. In altre
ipotesi, gli e etti della domanda si considerano invece prodotti dal momento in cui si veri ca la
sanatoria: in tal caso la sanatoria ha e etto ex nunc, in quanto gli e etti si producono dal

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momento in cui sono stati acquisiti al processo gli elementi mancanti che rendono possibile la
pronuncia di merito.
La scelta, se attribuire e cacia retroattiva o meno alla sanatoria del vizio del presupposto
processuale, è e ettuata dal legislatore volta per volta sulla base di valutazioni di opportunità e di
un bilanciamento di interessi; anche se ci sono ipotesi, come la nullità della citazione per vizi
attinenti all’editio actionis, in cui la retroattività non è possibile giuridicamente.
Inoltre, che ne è degli atti medio tempore compiuti tra la proposizione della domanda e la
sanatoria del vizio? Gli atti compiuti prima della sanatoria vanno ripetuti oppure vengono
convalidati a posteriori dalla raggiunta sanatoria? Nel caso del vizio di capacità della parte,
certamente al rappresentante legale che entra al processo non possono essere imposti gli e etti
degli atti già compiuti, altrimenti verrebbe leso il diritto di difesa (con riferimento all’incapace).
Sicuramente questi atti sono nulli e non sono sanati dall’acquisizione al processo delle condizioni
per la pronuncia di merito. Identico ragionamento dobbiamo fare per tutti i vizi che hanno inciso
sul diritto di difesa.
Per quanto riguarda la competenza, l'art. 50 cpc stabilisce che, se il processo viene riassunto nei
termini davanti al giudice dichiarato competente, esso "continua" davanti al nuovo giudice. Tale
espressione signi ca che la sanatoria ha e cacia retroattiva e quindi gli e etti della domanda si
producono dal momento in cui la domanda è stata proposta al giudice incompetente.
Parte della dottrina e della giurisprudenza argomentano dall’espressione "il processo continua",
per dedurre l’utilizzabilità delle prove raccolte dal giudice incompetente, e più in generale degli atti
di trattazione della causa compiuti di fronte al giudice incompetente. La deduzione, però, non è
corretta, in quanto vi sono altre ipotesi di sanatoria retroattiva, in cui, quindi, "il processo
continua” ma nelle quali di cilmente si possono ritenere utilizzabili gli atti compiuti prima della
sanatoria. Ad es., se, per vizio della noti cazione dell'atto introduttivo, il convenuto non è stato
avvertito della pendenza del processo, il processo prosegue dopo la sanatoria che ha e etto
retroattivo ma gli atti compiuti prima della sanatoria certamente non sono utilizzabili (salva la
rati ca, cioè la manifestazione di volontà del soggetto, titolare dell'interesse protetto, volta a
tenere per buoni gli atti compiuti), perché altrimenti verrebbe leso il diritto di difesa del convenuto.
Se il processo non è riassunto nel termine indicato, esso si estingue: tutti gli atti compiuti perdono
e etti, tranne l’ordinanza sulla competenza della cassazione, che rimane vincolante nel caso in cui
la domanda sia riproposta. Se la domanda è riproposta (al giudice riconosciuto competente dalla
cassazione) gli e etti decorrono dalla riproposizione.
Qui sta la di erenza tra riassunzione e riproposizione della domanda: nella riassunzione gli
e etti si riportano alla prima domanda e non all’atto di riassunzione. Se il processo si estingue e la
domanda viene riproposta, gli e etti della prima domanda si perdono e si producono e etti nuovi
al decorrere dalla riproposizione della domanda.
Ci sono anche di erenze procedimentali meno rilevanti ma non trascurabili. L’atto di riassunzione
non contiene una domanda e quindi ha caratteristiche del tutto diverse dall’atto introduttivo del
processo. Basta richiamare l’atto introduttivo e dire che si riassume il processo. Inoltre, proprio
perché non contiene una domanda, tale atto può essere compiuto da qualunque soggetto del
processo e non soltanto dall’attore.

Prosecuzione del processo

Vediamo l’ipotesi in cui il provvedimento sulla competenza non sia impugnato. Se tale
provvedimento a erma la competenza del giudice adito, non si pongono problemi di rilievo: si
forma il giudicato sulla questione di competenza, il processo prosegue presso il giudice adito e
non è possibile sollevare di nuovo la questione di competenza nel corso del processo.
Invece quando il giudice si dichiara incompetente deve anche indicare quale sarà il giudice
competente. Se le parti si adeguano a tale indicazione, ex art. 50 cpc ciascuna di esse può
riassumere la causa di fronte al giudice indicato come competente dall’ordinanza di incompetenza
(emessa dal giudice che si è dichiarato incompetente o dalla cassazione). Il processo continua di
fronte al nuovo giudice con gli e etti della riassunzione.

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Un problema si pone quando la riassunzione avviene sulla base di un’ordinanza non della
cassazione ma di un altro giudice, che possiamo chiamare “di merito” per distinguerlo dalla
cassazione. Il problema è il seguente: fermo che la parte (negativa) in cui il giudice adito nega la
propria competenza è ovviamente vincolante, perché ciascun giudice è giudice della propria
competenza, ci si chiede che e cacia abbia la parte (positiva) in cui il giudice adito dichiara la
competenza di un altro giudice.
L'art. 44 cpc distingue le ipotesi di incompetenza per valore e territorio derogabile dall’ipotesi di
incompetenza per materia e territorio inderogabile.
Nel primo caso la pronuncia di incompetenza è vincolante non solo per la parte negativa, ma
anche per la parte positiva. Il giudice indicato come competente, quando la causa è
tempestivamente riassunta nel termine dell'art. 50 cpc, non può rilevare la propria incompetenza
per valore e territorio derogabile. L'art. 44 cpc stabilisce che l’ordinanza rende incontestabile
l'incompetenza dichiarata e la competenza del giudice in essa indicata (cioè sono vincolanti sia la
parte negativa sia quella positiva) salvo che si tratti di incompetenza per materia e territorio
inderogabile (art. 28 cpc). Se si tratta di incompetenza per valore e territorio derogabile,
all’ordinanza di incompetenza viene attribuita e cacia vincolante sia nel suo pro lo negativo sia in
quello positivo, e quindi, ove la causa sia riassunta, non può più essere sollevata questione di
competenza né dalle parti né d’u cio.
Se, invece, l'incompetenza è stata dichiarata per ragioni di materia o territorio inderogabile e la
causa viene riassunta davanti al giudice indicato come competente, tale giudice non è vincolato
all’indicazione di competenza e può a sua volta rilevare la propria incompetenza ma sempre e
solo per ragioni di materia o territorio inderogabile.
Però, in deroga alla regola normale, secondo la quale il giudice, che rileva la propria
incompetenza, decide della questione, il giudice di fronte al quale la causa è riassunta non può
dichiarare la propria incompetenza, ma deve richiedere il regolamento di competenza d’u cio;
deve, cioè, emettere un'ordinanza di rimessione degli atti alla Corte di cassazione perché decida
sul con itto di competenza.
Se, dopo una pronuncia di incompetenza non impugnata, la causa non è riassunta nei termini di
cui all'art. 50 cpc, il processo si estingue. Il fenomeno è identico a quello che si ha se il processo
si estingue dopo il regolamento di competenza e comporta, in primis, la perdita degli e etti della
domanda. Senonché l'estinzione del processo produce, in ordine all’ordinanza di competenza
emessa dal giudice di merito, e etti ulteriori rispetto a quelli che produce in ordine all’ordinanza
della Cassazione, perché l'art. 310 cpc a erma: “l'estinzione rende ine caci gli atti compiuti ma
non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la
competenza”.
Pertanto, se il processo si estingue per mancata riassunzione dopo l’ordinanza di incompetenza,
non soltanto si perdono gli e etti della domanda, ma la causa può anche essere riproposta allo
stesso giudice che si è dichiarato incompetente; questi può sollevare la questione, o il convenuto
eccepirne l’incompetenza; il giudice deve decidere la questione in maniera del tutto libera e non
condizionata dalla sua precedente pronuncia, e magari può arrivare ad un risultato diverso,
a ermando la propria competenza. La causa può essere riproposta al giudice che era stato
dichiarato come competente, e ancora una volta questi può rilevare di u cio la propria
incompetenza ex art. 38 cpc. Quando la causa è riproposta, il giudice indicato come competente,
se si ritiene incompetente, non solleva il con itto di competenza d'u cio, ma decide della
questione.

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La regolare costituzione del giudice, l’astensione e la ricusazione

L'art. 158 cpc si limita a stabilire che la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice
è insanabile e deve essere rilevata d'u cio, salva la previsione dell'art. 161 cpc.
Possiamo fare una elencazione, anche se non esaustiva, dei vizi relativi alla regolare costituzione
del giudice o, meglio, delle ipotesi che danno luogo a tali vizi.
1. Questioni relative all'investitura del potere giurisdizionale, cioè alla qualità di giudice del
soggetto che emette il provvedimento. Per quanto riguarda il giudice professionale, ad esempio, è
necessario che ci sia l'atto di nomina, che non vi sia stato pensionamento, dimissioni o
trasferimento ad altro u cio. Per quanto riguarda il giudice onorario che ci sia l'atto di nomina, e,
siccome i giudici onorari sono nominati a tempo, non vi deve essere stata la scadenza, cioè il
termine del periodo per cui sono stati nominati.
Le questioni relative alla validità dell'atto di nomina (che rientrano nella giurisdizione del giudice
amministrativo) costituiscono controversia che si svolge in quella sede e che non riguarda la
regolare costituzione del giudice.
2. Questioni relative all’assegnazione del magistrato all’u cio. Questo pro lo riguarda solo i
magistrati professionali, in quanto la loro costituzione è regolare solo se il processo è condotto da
un magistrato assegnato a quell’u cio. Invece per i magistrati onorari, l’atto di nomina contiene
anche la designazione dell’u cio.
3. Questione relativa alla composizione numerica dell’organo giudicante, se questo è collegiale.
4. Questione relativa al principio di unitarietà della fase decisoria. La fase decisoria viene dopo
la fase di trattazione della causa, che termina con l'udienza di precisazione delle conclusioni. In
base al principio di unitarietà della fase decisoria, i giudici, a cui è a data la causa nella fase
decisoria, non possono essere sostituiti. Se, per una qualunque ragione, è impossibile portare a
termine la fase decisoria con gli stessi giudici coi quali è stata iniziata bisogna ripetere la fase
stessa, cioè bisogna riprendere il processo dal momento successivo alla precisazione delle
conclusioni e ripercorrere tutta la fase successiva. L'eventuale modi cazione che si abbia nei
soggetti componenti l'organo giudicante in questa fase comporta un vizio relativo alla regolare
costituzione del giudice.
Invece non costituisce vizio relativo alla regolare costituzione del giudice:
1. Questioni relative all’assegnazione della causa a un certo giudice all’interno dello stesso
u cio, che integra un fatto meramente organizzativo.
2. Questioni relative all’astensione
3. Questioni relative alla ricusazione
Per quanto attiene alla parte dinamica dell’art. 158 cpc, il vizio è rilevabile in ogni stato e grado
del processo anche d'u cio, in accordo con la regola generale dei vizi dei presupposti
processuali. La regola della rilevabilità in ogni stato e grado del processo, anche d'u cio, dei
presupposti processuali trova, peraltro, come di consueto, un ostacolo nella formazione del
giudicato. Tuttavia, nel caso della regolare costituzione del giudice, incontriamo, per la prima
volta, un ulteriore fenomeno: quando diciamo che una questione è rilevabile in ogni stato e grado
del processo, implicitamente a ermiamo che, una volta che la sentenza de nitiva sia passata in
giudicato, la questione non è più rilevabile, perché non c'è più il processo. Ebbene, questa è
certamente la regola; tuttavia alcuni vizi sopravvivono al giudicato, cioè possono essere fatti
valere al di fuori del processo in cui si sono veri cati: ciò accade per alcuni (non tutti) dei vizi
relativi alla regolare costituzione del giudice, i quali rientrano appunto nella categoria dei vizi dei
presupposti processuali, che sopravvivono al giudicato (es. sentenza inesistente: l’inesistenza può
essere rilevata anche al di fuori del processo).

A rontiamo ora un altro argomento. Una delle caratteristiche della giurisdizione è l’imparzialità del
giudice, cioè l’equidistanza di questi rispetto agli interessi in con itto, che deve essere garantita
sia da un punto di vista soggettivo o personale sia da un punto di vista oggettivo o funzionale. Per
farlo l’ordinamento prevede l’istituto dell’astensione e ricusazione.
Le ipotesi di astensione e ricusazione sono riunite in cinque gruppi e sono elencate nell'art. 51
cpc. Esse riguardano i casi in cui:

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1) il giudice ha interesse nella causa o in altra vertenza su identica questione di diritto. È molto
discusso se anche un interesse lato sensu politico o ideologico sia idoneo ad essere ricompreso
nella previsione.
Si ritiene in linea di massima che ciò non accada, sempre che non sia in gioco un ente o una
istituzione, di cui il giudice faccia parte;
2) il giudice o il coniuge sono parenti no al quarto grado, o il giudice è legato da vincoli di
a liazione, o convivente o commensale abituale di una delle parti o dei difensori. Il presupposto
della commensalità abituale ovviamente esige qualcosa di più di semplici incontri conviviali con i
soggetti indicati dalla norma;
3) il giudice o il coniuge hanno causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito
con una delle parti o dei difensori. Anche questa previsione va intesa nel senso che i rapporti di
credito o debito debbono uscire dalla siologica normalità: ad es. l'essere correntista di una
banca non integra certamente la previsione di questo numero;
4) il giudice ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa o vi ha deposto come testimone,
oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo
5) il giudice è tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti;
amministratore o gerente di un ente, di un'associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di
una società o stabilimento che ha interesse in causa.
In tutte queste ipotesi il giudice ha l'obbligo di astenersi, comunicando al capo dell'u cio la
sussistenza di uno dei casi esaminati. Il capo dell'u cio nominerà un altro giudice che sostituirà
quello astenutosi.
È poi prevista una facoltà di astensione (art. 51 cpc) in ogni altro caso in cui esistano gravi
ragioni di convenienza. Qui però il singolo giudice deve chiedere l'autorizzazione al capo
dell'u cio, il quale può anche negarla se ritiene che tali gravi ragioni non sussistano.

Nelle stesse ipotesi in cui si ha astensione obbligatoria, ciascuna delle parti può ricusare il
giudice che doveva astenersi, e che non si è astenuto. La ricusazione è proposta nei modi e nei
termini previsti dall'art. 52 cpc, produce la sospensione del processo, ed è decisa dal presidente
del tribunale se è ricusato un giudice di pace e dal collegio se è ricusato un giudice di tribunale, di
corte di appello o della corte di Cassazione. Il rigetto in rito o in merito della ricusazione può
comportare una sanzione pecuniaria. L’accoglimento produce la sostituzione del giudice ricusato
e la nullità degli atti da lui compiuti.
Sulla ricusazione il giudice competente decide con ordinanza, sentito il giudice ricusato e
raccolte, se necessario, le prove relative. L’art. 53 de nisce il provvedimento come «non
impugnabile» e la giurisprudenza si attiene a tale de nizione, ma ha introdotto, da un certo
momento in poi, una signi cativa novità rispetto a quanto essa in precedenza aveva sostenuto.
Per lungo tempo, infatti, la Cassazione aveva a ermato l’insindacabilità dell'ordinanza, che decide
sulla ricusazione. Successivamente, invece, ha modi cato la propria opinione: ora a erma che il
provvedimento, che rigetta la ricusazione, con uisce nella sentenza nale, e che il mancato
riconoscimento del difetto di imparzialità del giudice si converte in motivo di impugnazione della
stessa. Dunque la ricusazione diventa uno strumento necessario ma non preclusivo per garantire
l’imparzialità del giudice: necessario perché, se la ricusazione non è tempestivamente proposta,
la questione non può più essere sollevata in seguito; non preclusivo perché, una volta
correttamente proposta la ricusazione, se essa è rigettata, la questione può essere coltivata in
sede di impugnazione della sentenza.
Anche per quanto riguarda l’e etto sospensivo della proposizione dell’istanza di ricusazione,
prima la giurisprudenza riteneva che fosse una sospensione ex lege, che si caratterizza per il fatto
che, veri catosi il presupposto della stessa, il processo è automaticamente sospeso e, se il
giudice va ugualmente avanti, gli atti compiuti sono automaticamente invalidi; oggi ritiene invece
che si tratti di una sospensione ope iudicis, che si caratterizza per il fatto che la sospensione
consegue ad un provvedimento del giudice: sicché, se questi per errore non sospende, gli atti
compiuti non sono automaticamente invalidi. Secondo la giurisprudenza più recente, il giudice
deve valutare l’ammissibilità della ricusazione, e non sospendere il processo se la ritiene

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inammissibile. È ovvio che il procedimento di ricusazione va avanti ugualmente, anche se il
giudice non sospende il processo; ma anche che, se essa è accolta, gli atti compiuti sono invalidi.

Pubblico ministero

Il processo civile normalmente ha ad oggetto situazioni sostanziali disponibili, rispetto alle quali
ha e cacia la volontà negoziale delle parti. In questo caso, un provvedimento giurisdizionale
dichiarativo diventa necessario solo dove non ci sia accordo tra le parti.
Inoltre la natura disponibile del diritto consente all’ordinamento di non preoccuparsi né che il
titolare della situazione sostanziale protetta la faccia valere, né che al giudice sia o erto un
quadro completo e veritiero dei fatti storici rilevanti.
Ma il diritto sostanziale conosce anche diritti indisponibili, rispetto ai quali non sussiste un
potere negoziale dei loro titolari. L'ordinamento non può restare indi erente di fronte alla
incompleta allegazione e prova dei fatti storici rilevanti: proprio perché il diritto è indisponibile,
occorre garantire che eventuali omissioni difensive di una delle parti non conducano il giudice ad
emettere una sentenza contra ius, in quanto fondata su una realtà sostanziale diversa da quella
e ettivamente esistente.
Laddove si abbia a che fare con diritti indisponibili, è necessario prevedere un meccanismo che
garantisca la completezza del quadro dei fatti allegati e provati in giudizio e, nei casi in cui
l’interesse pubblico è ancora maggiore, addirittura consenta l’instaurazione del processo anche
quando i titolari del rapporto indisponibile rimangano inerti.
A ciò provvede il nostro sistema processuale con gli artt. 69-74 c.p.c., i quali a dano ad un
organo pubblico, il pubblico ministero (p.m.), il potere-dovere di attivarsi per gli scopi appena visti.
Il p.m. ha compiti fondamentali nel processo penale, ma nei casi che vedremo ha un ruolo
importante anche nel processo civile.
In primo luogo dobbiamo considerare i casi in cui il pm addirittura ha il potere di iniziare il
processo, deducendo in giudizio la situazione sostanziale bisognosa di tutela giurisdizionale. Si
realizza così un’ipotesi di legittimazione straordinaria (art. 81 cpc), come vedremo meglio a suo
tempo. L’art. 69 cpc prevede che questo accada “nei casi stabiliti dalla legge”, cioè in situazioni
sostanziali indisponibili in cui l’interesse pubblico prevale sulla scelta delle parti di non chiedere la
tutela giurisdizionale del proprio diritto.
In secondo luogo, dobbiamo considerare i casi in cui il pm deve essere messo a conoscenza della
pendenza del processo a nché egli possa intervenire e spendervi i poteri attribuitigli dalla legge.
In ne il pm può intervenire in ogni altra causa in cui ravvisi un interesse pubblico.
Se il pm propone la domanda, ovviamente partecipa al processo come attore; se invece la
partecipazione del pm al processo si realizza non attraverso la noti cazione a lui di un atto con cui
è evocato in giudizio (come accade per gli altri soggetti) ma attraverso la comunicazione degli atti,
che è disposta dal giudice davanti al quale pende la causa, con questa comunicazione si realizza
quanto voluto dall’ordinamento. Spetterà al pm valutare se prendere parte attiva al processo o
disinteressarsene.
Se decide di prendere parte attiva al processo, i poteri che egli ha sono diversi a seconda che si
tratti di causa che egli stesso avrebbe potuto proporre, oppure di intervento in una causa che egli
non poteva proporre.
Nel primo caso, stabilisce l'art. 72 cpc, che egli ha gli stessi poteri delle altre parti e li esercita
nelle forme previste per le altre parti. Quindi può allegare fatti, richiedere prove, produrre
documenti; il suo consenso è necessario per la rinuncia agli atti; ovviamente può impugnare la
sentenza.
Nel secondo caso, sempre secondo l'art. 72 cpc, egli può «produrre documenti, dedurre prove,
prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle parti». L'attività descritta dalla norma
ha essenzialmente natura istruttoria; ma il pm può anche allegare in giudizio fatti non dedotti dalle
parti. Se, infatti, lo scopo del suo intervento è quello di evitare che le parti, omettendo (magari
d'accordo fra loro) certe attività processuali, costringano il giudice a prendere una decisione
senza una visione completa dei fatti storici rilevanti, è ovvio che si rende necessario conferire al
pm non soltanto un potere istruttorio sui fatti già allegati dalle parti, ma anche e soprattutto il
potere di allargare il quadro dei fatti storici dedotti in giudizio.
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In relazione all’impugnazione, se il pm ha potere di impugnare egli deve partecipare al processo
davanti al giudice a quo; se non ha tale potere, al processo non partecipa il pm della precedente
fase ma quello esistente presso l’organo giurisdizionale competente per la fase di impugnazione.
Dunque, una volta proposta l’impugnazione, la legittimazione a partecipare al processo spetta
esclusivamente al pm presso il giudice dell’impugnazione.
Dal punto di vista dinamico, dobbiamo rilevare quanto segue. Ai sensi dell'art. 158 cpc, la nullità
derivante dai vizi relativi all'intervento del pm è insanabile e deve essere rilevata di u cio. A ciò
consegue che la mancata comunicazione degli atti al pm determina il vizio di un presupposto
processuale, che può essere colto per la prima volta anche in sede di impugnazione.
Naturalmente, come si è detto, per escludere la nullità è su ciente che il pm sia stato avvertito
della pendenza del processo, mentre non è necessario che vi abbia partecipato e ettivamente.
Se il vizio non è colto durante la pendenza del processo, che viene chiuso con una sentenza
passata in giudicato, l’ordinamento prevede il rimedio della revocazione ex art. 397 cpc: nelle
cause in cui è obbligatorio l'intervento del pm, le sentenze possono da lui essere impugnate per
revocazione quando egli non è stato sentito, cioè quando non gli sono stati comunicati gli atti.

La cosa giudicata: i limiti oggettivi

La cosa giudicata (o giudicato) fa parte del secondo gruppo di presupposti processuali, quelli
attinenti all'oggetto della controversia.
I tre argomenti da a rontare in tema di giudicato riguardano i limiti oggettivi, soggettivi e
temporali: in altri termini che cosa statuisce la sentenza, nei confronti di chi, e no a quando. Essi
costituiscono le tre coordinate che individuano gli e etti della sentenza.
Preliminarmente, dobbiamo chiarire alcune questioni. In primo luogo, noi parliamo in questa sede
di «e etti della cosa giudicata o del giudicato», ma sarebbe più corretto parlare di «e etti della
sentenza passata in giudicato» perché il giudicato non è un ulteriore e etto che si aggiunge a
quelli della sentenza, ma è una qualità che consiste nella stabilità di tali e etti.
La prima nozione che dobbiamo a rontare è, dunque, quella di «passaggio in giudicato». L’art.
324 cpc dà la de nizione della cosa giudicata formale: “si intende passata in giudicato la
sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per
cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395”. I mezzi di impugnazione
menzionati in tale articolo sono de niti ordinari, ai quali si contrappongono quelli straordinari,
suscettibili di essere utilizzati anche contro sentenze passate in giudicato formale (revocazione e
opposizione di terzo). Inoltre, il termine per proporre il mezzo di impugnazione ordinario ha un dies
a quo certo (la pubblicazione della sentenza), mentre quello per proporre il mezzo di
impugnazione straordinario ha un dies a quo incerto (la scoperta del vizio), e non si può sapere né
se tale vizio esiste né se e quando sarà scoperto.
La seconda questione preliminare da a rontare riguarda il contenuto della pronuncia. La
sentenza può essere alternativamente di rito o di merito. Nel primo caso essa ha ad oggetto il
processo, ed a erma o nega la possibilità di pronunciare nel merito a causa della esistenza/
inesistenza di un presupposto processuale. La sentenza di rito, per de nizione, non produce
e etti sul terreno del diritto sostanziale, in quanto enuncia regole di comportamento appunto
processuali e non sostanziali.
Dobbiamo dunque introdurre un’ulteriore distinzione fra cosa giudicata formale, che riguarda tutte
le pronunce, e cosa giudicata sostanziale, che consiste negli e etti delle pronunce di merito: è
proprio su tali e etti che si dovrà porre attenzione.
È necessario, poi, distinguere fra giudicato esterno e interno. Si de nisce interno il giudicato
formatosi nello stesso processo; ed esterno quello formatosi in un processo diverso.
Questa distinzione può essere rilevante in due situazioni:
1) In ordine al potere di rilevazione del giudicato stesso: parte della dottrina ritiene proponibile
solo dalla parte l'eccezione di giudicato esterno; mentre il giudicato interno può essere
rilevato ex o cio.
2) In ordine all’e cacia della sentenza al di fuori del processo in cui è stata emessa: l’opinione
dominante è nel senso che la sentenza di rito non abbia e etti al di fuori del processo in cui si

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è formata, così che tale sentenza passata in giudicato formale non ha neppure e etti nel
successivo processo, instaurato fra le stesse parti in ordine allo stesso oggetto, qualora
all’interno di questo secondo processo dovesse sorgere la stessa questione di rito già
a rontata e decisa dalla precedente sentenza.
Esempio: Tizio propone domanda nei confronti di Caio, per ottenere la condanna di questi
all'adempimento di un certo contratto. Il giudice, applicando il regolamento comunitario, dichiara
la propria carenza di giurisdizione in quanto Caio ha il domicilio in Francia ed il contratto deve
essere adempiuto in Germania. Secondo l'opinione prevalente, tale sentenza, ancorché passata in
giudicato, non impedisce a Tizio di riproporre in Italia la stessa domanda.
In ne bisogna chiarire cos’è l’oggetto del giudicato sostanziale. C’è largo consenso nel ritenere
che il punto di riferimento del giudicato è la situazione sostanziale per la quale è stata richiesta la
tutela giurisdizionale. Gli e etti delle pronunce giurisdizionali devono per de nizione avere
in uenza sul piano del diritto sostanziale, perché altrimenti verrebbe meno la funzione stessa della
giurisdizione.
Richiamando la de nizione di tutela dichiarativa, diviene semplice concludere che il giudicato
(sostanziale) consiste appunto nella determinazione autoritativa (perché proveniente da un organo
pubblico) e perciò vincolante di regole di condotta appartenenti al diritto sostanziale.
Questo consente di individuare la correlazione fra oggetto della domanda e oggetto della
pronuncia: la domanda introduce nel meccanismo processuale una porzione di realtà sostanziale;
la pronuncia statuisce sul modo di dover essere della realtà sostanziale introdotta in giudizio.
Tendenzialmente, ciò che è oggetto della domanda diventa anche oggetto della sentenza, per
cui noi possiamo parlare dell'oggetto della domanda, dell'oggetto del processo e dell'oggetto
della decisione come di tre aspetti di un'unica realtà.
Può comunque accadere che non ci sia coincidenza tra oggetto della domanda e della decisione:
tale non coincidenza può essere siologica o patologica a seconda che avvenga secundum ius
processuale (non dipendente da errori del giudice) o contra ius processuale (dipendente da errori
del giudice):
- Il primo caso si ha nell’ipotesi di una pluralità di domande fra loro alternative o condizionate
(vedi quanto detto per la competenza per valore). Dunque può essere che le domande proposte
siano più di quelle decise, e quindi ci sia uno scarto siologico fra oggetto del processo e
oggetto della decisione.
- Il secondo caso si può avere sia quando il giudice non decide le domande che doveva decidere
(quindi l'oggetto del processo è più ampio dell'oggetto della decisione), sia nel senso che
decide di domande che non sono state proposte (quindi l'oggetto della decisione è più ampio
dell'oggetto del processo). Nel primo caso si parla di infrapetizione, nel secondo di
ultrapetizione. In queste ipotesi ciò che rileva è l’oggetto della sentenza e non l’oggetto della
domanda, in quanto il giudicato si forma sulla decisione del giudice e non sulla richiesta di
parte.

Per a rontare i problemi posti dall’ambito (oggettivo, soggettivo, temporale) della cosa giudicata,
dobbiamo costantemente presupporre che ci sia una sentenza passata in giudicato e che in un
secondo processo ci si chieda se tale sentenza abbia e cacia oppure no.
Ora, posto che oggetto della sentenza è la statuizione circa il modo di (dover) essere di una
situazione sostanziale, possiamo constatare che i rapporti fra l'oggetto della prima decisione
(quella passata in giudicato e della cui e cacia si discute), e l'oggetto del secondo processo, cioè
le relazioni astrattamente ipotizzabili fra i due oggetti, sono tre: una relazione di identità, una di
dipendenza, una di pregiudizialità. Vediamo cosa signi cano queste espressioni.
L'identità si veri ca quando l'oggetto del secondo processo coincide con l'oggetto della
decisione passata in giudicato: se l'oggetto della prima sentenza è X, è X anche l'oggetto del
secondo processo.
Per spiegare la relazione di dipendenza e pregiudizialità bisogna partire da una constatazione: la
norma, di solito, quando prevede il veri carsi di un e etto giuridico, descrive una fattispecie alla
cui presenza l’e etto si veri ca: al veri carsi dei fatti A, B e C si veri ca l’e etto giuridico X.

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Tuttavia la norma potrebbe anche prevedere che uno o più elementi della fattispecie siano
costituiti dall’esistenza, inesistenza o modo di essere di un altro e etto giuridico. Per esempio
l'ordinamento prevede che la fattispecie risarcitoria possa essere composta non solo del danno
ingiusto, del dolo o colpa e del fatto illecito, ma anche da un altro elemento giuridico, che è la
proprietà dell'oggetto che ha prodotto il danno: ad es. il proprietario dell'autovettura che ha
prodotto il danno è responsabile per il risarcimento dei danni prodotti. Nell'esempio appena
utilizzato, un elemento della fattispecie è il diritto di proprietà, che è un e etto giuridico, un diritto,
e non un mero fatto. Schematizzando possiamo dire:
A+B+C=X
X+D+E=Y
dove X è al tempo stesso un e etto giuridico autonomo e un diverso e etto giuridico.
Lo schema appena descritto è molto comune all'interno del sistema, ed integra il rapporto di
pregiudizialità-dipendenza perché l'e etto Y è dipendente dall'e etto X. Se non si veri ca
l'e etto X, non si integra la fattispecie dell'e etto Y e quindi questo non sorge. A sua volta l'e etto
X è pregiudiziale all'e etto Y: X può ben venire a esistenza anche se non viene a esistenza Y,
mentre Y non può venire a esistenza senza X. D'altro canto, l'esistenza di X non è su ciente a
produrre l'e etto giuridico dipendente (Y), perché se non si veri cano D ed E non si integra la
fattispecie costitutiva di Y.
Alla luce di questo, si ha pregiudizialità quando l'oggetto della sentenza è la situazione
pregiudiziale e l'oggetto del secondo processo è la situazione dipendente, cioè quando la
sentenza passata in giudicato ha deciso X e oggetto del secondo processo è Y.
Si ha dipendenza quando l'oggetto della sentenza è la situazione dipendente (Y) e l'oggetto del
secondo processo è la situazione pregiudiziale (X).
Rispetto al rapporto di pregiudizialità, l'art. 2909 cc stabilisce che l'accertamento contenuto nella
sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni e etto: quando si sia de nito con sentenza
passata in giudicato il modo di essere del diritto pregiudiziale e nel secondo processo si discute
della situazione dipendente, le parti e il giudice del secondo processo sono vincolati a ciò che è
stato deciso sulla situazione pregiudiziale.
Quando l’oggetto della prima decisione è il diritto dipendente, l’art. 34 cpc a erma che la
decisione della questione pregiudiziale ha e cacia di giudicato solo se nel precedente processo,
quando è stata discussa, vi è stata l'esplicita domanda di una delle parti, oppure la legge prevede
(ma sono ipotesi rarissime) che della questione pregiudiziale si debba decidere con e cacia di
giudicato. Se è mancata la domanda di parte o non sussiste la previsione di legge, ciò che il
giudice del primo processo ha detto circa il modo di essere della situazione pregiudiziale non
costituisce una decisione con e cacia di giudicato, ma una mera cognizione incidenter tantum
(cioè nalizzata esclusivamente alla decisione del diritto dipendente, oggetto del processo).
Questa soluzione ex art. 34 è indiscussa con riferimento alle ipotesi in cui un diritto entra a
comporre la fattispecie di un altro diritto (cd. Pregiudizialità in senso tecnico). È molto dibattuto
invece se la stessa disciplina si applica anche alla cd pregiudizialità in senso logico, cioè a
quelle ipotesi in cui viene dedotto in giudizio uno degli e etti di un rapporto giuridico.
Secondo alcuni vale l’art. 34 cpc, in forza del quale il giudicato sull'esistenza e quali cazione del
rapporto si forma solo se c'è domanda di parte.
Altri invece rilevano che la pregiudizialità in senso logico si innesta su un modo di essere della
realtà sostanziale diverso da quello della pregiudizialità in senso tecnico. Il rapporto diritto
pregiudiziale - diritto dipendente non ha niente a che vedere con la relazione tra il singolo e etto e
il rapporto giuridico da cui questo e etto scaturisce. Mentre nella pregiudizialità in senso tecnico
la situazione pregiudiziale è un vero e proprio diritto che attribuisce un bene della vita, il rapporto
giuridico di per sé non è una situazione sostanziale attributiva di alcun bene della vita. L'utilità non
nasce dal rapporto in sé, ma dai singoli e etti del rapporto.
Il criterio da usare quindi per la pregiudizialità logica è quello dell'antecedente logico
necessario. Se il giudice, per decidere dell'e etto (diritto) dedotto in giudizio, si è dovuto
occupare (antecedente logico) dell’esistenza e quali cazione del rapporto a cui tale diritto
appartiene, allora ciò che il giudice ha stabilito del rapporto forma giudicato ove venga in
discussione, in un successivo processo, un altro diritto che appartiene allo stesso rapporto. Se

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però, per decidere del diritto, il giudice non ha avuto bisogno di occuparsi del rapporto, il
giudicato non si forma.

I limiti soggettivi

Il problema dei limiti soggettivi si pone solo quando, sulla base delle regole sui limiti oggettivi
appena esaminate, si giunge alla conclusione che la precedente sentenza è rilevante per la
decisione della seconda controversia. Se la prima sentenza non è rilevante nel secondo processo,
il terzo, cioè il soggetto che è parte nel secondo processo ma non è stato parte nel primo, non ha
la necessità di essere difeso da un'e cacia che non lo riguarda: egli è un terzo indi erente.
Il problema dei limiti soggettivi consiste quindi nello stabilire se e quando la sentenza, che
formerebbe giudicato se le parti fossero le stesse, forma giudicato anche quando le parti del
secondo processo sono diverse dalle parti del primo processo.
La di erenza fondamentale tra le ipotesi in cui il secondo processo si svolge tra gli stessi soggetti
che hanno preso parte al primo, e le ipotesi in cui il secondo processo vede come parte un
soggetto che è stato terzo nel primo processo è la seguente: chi è stato parte nel primo processo
ha avuto modo di difendersi, di usufruire del contraddittorio garantito dagli artt. 24 e 111 Cost.
Chi, invece, non ha preso parte al precedente processo non ha avuto modo di usufruire di quelle
garanzie.
Il principio del contraddittorio è quindi la prima e fondamentale regola che governa il problema dei
limiti soggettivi di e cacia della sentenza. In via tendenziale ogni estensione soggettiva
dell'e cacia della sentenza urta contro il principio del contraddittorio. Infatti, vincolare al
contenuto di un provvedimento giurisdizionale un soggetto che non ha avuto modo di difendersi
costituisce la massima violazione del principio del contraddittorio.
L'art. 24 Cost. però non garantisce solo il diritto di difesa ma anche il diritto di azione (che va
inteso come il diritto ad una tutela e ettiva), e questi due principi possono trovarsi in contrasto in
modo che ambedue non possano trovare compiuta attuazione. È necessario, quindi, trovare un
criterio per stabilire quando si deve estendere l'e cacia della pronuncia al terzo, comprimendo il
suo diritto di difesa ma realizzando il diritto di azione della parte vittoriosa nel primo processo; e
quando, invece, si deve negare l'e cacia della pronuncia nei confronti del terzo, così tutelando il
suo diritto di difesa, ma comprimendo il diritto di azione della parte vittoriosa. A tal ne dobbiamo
distinguere due ipotesi.
Nella prima ipotesi, il diritto o l'obbligo del terzo sorgono dopo l'inizio del processo, al quale egli
non è stato chiamato a partecipare e della cui e cacia si discute nel secondo processo. In questa
ipotesi, tutelare il diritto di difesa del terzo escludendo l'e cacia della sentenza nel secondo
processo signi cherebbe negare il diritto di azione della parte vittoriosa in maniera irrazionale,
perché, quando il processo è iniziato, l'attore lo ha correttamente instaurato.
Un fatto nuovo (la nascita della situazione del terzo), che è subentrato in seguito, non deve
pregiudicare il diritto di azione della parte (che risulterà) vittoriosa. Questo è quanto stabilito
dall’art. 111 cpc e 2909 cc.
La compressione del diritto di difesa del terzo, in applicazione del principio del minimo mezzo,
dev'essere tuttavia limitata a quel tanto che serve per garantire il diritto di azione della parte che è
stata o che risulterà vittoriosa, quindi comunque non si potrà vietare al terzo di prendere parte al
processo (ancora in corso) di sua iniziativa.
Nella seconda ipotesi, la situazione del terzo nasce prima che venga proposta la domanda. In
questo caso sono le parti del primo processo che hanno trascurato la situazione del terzo che già
esisteva quando la prima domanda è stata proposta. Dunque è più corretto tutelare il diritto di
difesa del terzo piuttosto che il diritto di azione della parte vittoriosa, in quanto è costei ad aver
malamente utilizzato il suo diritto di azione.
Il problema, che abbiamo a rontato, si pone solo quando la sentenza è favorevole alla
controparte del dante causa. Se, al contrario, essa è favorevole al titolare del diritto o dell'obbligo
pregiudiziale non vi è alcuna esigenza di tutelare né il diritto di azione della controparte
soccombente (infatti, essa ha usufruito del poteri processuali previsti dall'ordinamento) né il diritto
di difesa dell'avente causa della parte vittoriosa.

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Posto quanto detto, a certe condizioni non è esclusa un'e cacia della sentenza nei confronti del
terzo, la cui situazione sia sorta prima della proposizione della domanda, ma non per ragioni di
diritto processuale ma per motivi di diritto sostanziale, per il tipo speciale di struttura sostanziale
che lega la situazione intercorrente fra le parti e la situazione del terzo.
Distinguiamo tra pregiudizialità - dipendenza istantanea, cioè quando la situazione pregiudiziale
deve esistere nel momento in cui sorge la situazione dipendente e le sue modi che, in un
momento successivo alla nascita della situazione dipendente, dal punto di vista del diritto
sostanziale sono inin uenti; e pregiudizialità - dipendenza permanente, cioè quando la situazione
pregiudiziale deve esistere non solo nel momento in cui sorge la situazione dipendente, ma deve
persistere anche successivamente e il venir meno della situazione pregiudiziale, in un momento
successivo alla nascita della situazione dipendente, dal punto di vista del diritto sostanziale è
rilevante e produce il venir meno anche della situazione dipendente.
Quando la persistenza della situazione glia dipende dalla persistenza della situazione madre, ove
intervenga una sentenza che neghi l'esistenza della situazione pregiudiziale, ciò si ripercuote
necessariamente nella sfera del titolare della situazione dipendente. Ciò dimostra che non è la
sentenza, in quanto atto giurisdizionale, che pregiudica il terzo; qui è il modo di essere del diritto
sostanziale che lo pregiudica, in quanto l'ordinamento costruisce la sua situazione come una
situazione che si deve adattare momento per momento alla situazione pregiudiziale. Qualunque
evento che incida sulla situazione pregiudiziale comporta il necessario assestamento della
situazione dipendente.
Tuttavia, il terzo titolare di una situazione permanentemente dipendente e quindi sensibile a
qualunque atto che abbia ad oggetto la situazione pregiudiziale, non è senza protezione nei
confronti dei comportamenti dei titolari della situazione pregiudiziale. Di solito la protezione è
quella del dolo: se gli atti sono compiuti con lo scopo di pregiudicare il terzo, questi può farli
dichiarare a sé inopponibili. Come contro gli atti sostanziali è data l'azione revocatoria dell’art.
2901 cc, così contro le sentenze è data l'opposizione di terzo revocatoria, attraverso la quale
egli può far dichiarare la sentenza frutto di dolo ine cace nei suoi confronti (art. 404 cpc).
Concludendo: in presenza di una relazione di pregiudizialità-dipendenza permanente, la sentenza
ha e etti nei confronti del terzo, anche se questi è titolare di una situazione che è sorta prima
della proposizione della domanda. In questi casi il terzo è ugualmente pregiudicato sia dagli e etti
della sentenza, sia da qualunque altro atto di disposizione, di contenuto identico alla sentenza,
che le parti compiono sul terreno del diritto sostanziale.

I limiti temporali

Visti i precedenti limiti rispetto alla formazione del giudicato, bisogna chiedersi no a quando esso
dura. Infatti, la statuizione contenuta nella sentenza fa riferimento ad un momento storico ben
preciso, che è diverso a seconda che si consideri la c.d. quaestio facti oppure la c.d. quaestio
iuris. La quaestio facti attiene alla realtà storica rilevante per la decisione; la quaestio iuris
attiene alle norme, di cui si fa applicazione nel decidere la controversia.
Orbene, con riferimento alla quaestio facti, determinante è l’udienza di precisazione delle
conclusioni che, in quanto ultima udienza di trattazione, costituisce la cerniera fra la fase di
trattazione-istruzione e la fase di decisione. Si fa riferimento a tale udienza perché è l'ultimo
momento utile per introdurre nel processo ulteriori elementi di fatto. Questo vuol dire che nel
giudizio di Cassazione nessuna nuova allegazione è possibile, e quindi il referente temporale della
quaestio facti rimane quello relativo alla sentenza impugnata in sede di legittimità.
Dal momento della precisazione delle conclusioni inizia la divaricazione tra la realtà e ettiva e
quella rilevante per la decisione, perché, dei fatti nuovi che si veri cano dopo l'udienza di
precisazione delle conclusioni, il giudice non può tener conto in sede di decisione.
Proprio per la funzione della tutela dichiarativa, che è quella di stabilire de nitivamente le regole di
comportamento delle parti con riferimento ad una certa situazione sostanziale, è necessario
introdurre una preclusione alla possibilità di ripetere i processi diversi aventi lo stesso oggetto.
Questa preclusione è detta "del dedotto e del deducibile” e signi ca che non è più possibile far
valere fatti che già avevano prodotto e etti giuridici al momento della precisazione delle

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conclusioni e che quindi potevano essere dedotti e fatti valere nel processo precedente che ha
portato alla pronuncia passata in giudicato.
Tale preclusione opera quando nel secondo processo ha e etto la prima sentenza. L'estinzione
degli e etti della sentenza, in virtù dell'evolversi della realtà sostanziale, si veri ca soprattutto per
le situazioni c.d. strumentali (diritti di credito, diritti potestativi), cioè quelle situazioni che sono
funzionali a realizzare un interesse diverso da quello in cui esse consistono, e che sono «utili» nel
momento in cui si estinguono. Ma lo stesso fenomeno si veri ca anche per le situazioni c.d.
nali (diritti assoluti in genere, diritti reali, diritti personali di godimento), cioè quelle situazioni che
sono funzionali a realizzare lo stesso interesse, in cui esse consistono, e che sono "utili" nché
esistono.
Occorre segnalare che non c'è concordia sul concetto di deducibile. L'opinione maggioritaria
intende precluso qualunque fatto venuto ad esistenza prima dell'udienza di precisazione delle
conclusioni: la deducibilità è intesa quindi in senso oggettivo come astratta possibilità di
allegazione del fatto.
Una parte minoritaria della dottrina invece intende la deducibilità in senso soggettivo come
concreta possibilità di allegazione di un fatto non solo venuto ad esistenza ma anche conosciuto
o quantomeno conoscibile dalla parte al momento della precisazione delle conclusioni. Se la
parte, senza sua colpa, non era a conoscenza del fatto, non poteva in concreto allegarlo
nonostante esso fosse in astratto deducibile.
È invece paci co che, ove l'e etto giuridico sia prodotto da una fattispecie complessa, la
preclusione del dedotto e del deducibile scatta solo se, al momento della precisazione delle
conclusioni, la fattispecie si è completata e si è dunque prodotto l'e etto. Pertanto, se alcuni fatti
erano già venuti ad esistenza al momento della precisazione delle conclusioni, ma l'ultimo fatto è
venuto ad esistenza successivamente, la preclusione non si veri ca.
Resta da stabilire quali fatti sopravvenuti sono idonei ad incidere sugli e etti della sentenza.
Dobbiamo distinguere le sopravvenienze possibili rispetto alle sentenze che hanno dichiarato che
si è prodotto un e etto giuridico dalle sopravvenienze possibili rispetto alle sentenze che hanno
negato che si sia prodotto un e etto giuridico.
Se il giudice ha dichiarato che l'e etto giuridico si è prodotto, i fatti che possono incidere sugli
e etti della sentenza sono sicuramente i fatti modi cativi ed estintivi del diritto accertato
esistente, che sono sopravvenuti all'udienza di precisazione delle conclusioni.
Inoltre, in tutte le ipotesi in cui la fattispecie costitutiva del diritto fatto valere si proietta nel futuro,
il giudice deve fare una previsione, sulla base della situazione di fatto esistente al momento della
precisazione delle conclusioni. Ciò che conta per consentire la riproponibilità della domanda non
è tanto una modi cazione della situazione fattuale esistente in quel momento, quanto uno
scostamento dell’evoluzione e ettiva della situazione fattuale rispetto all’evoluzione prevista dal
giudice.
La possibilità di una riproposizione della domanda si fonda sul fatto che la prognosi del giudice
non fa parte della fattispecie sostanziale, ma costituisce uno strumento processuale per
consentire di pronunciare su un diritto che non è ancora sorto, in quanto la fattispecie costitutiva
dello stesso non si è ancora completata.
Se invece il giudice ha negato il prodursi dell’e etto giuridico, occorre sempre chiedersi quale sia
stato il motivo di tale rigetto. Il fatto sopravvenuto, idoneo a consentire la riapertura del discorso
chiuso dal giudicato, deve coincidere con il motivo del rigetto.

Vediamo ora il problema dei limiti temporali nel caso in cui cambi la legge applicabile.
Se rispetto alla quaestio facti l'ultimo momento utile per introdurre in giudizio nuovi fatti è
l'udienza di precisazione delle conclusioni, rispetto alla quaestio iuris l'ultimo momento utile per
applicare il mutamento normativo è la pubblicazione della sentenza.
L'applicazione di tali novità normative, se il processo si trova già nella fase decisoria, avviene in
modo di erenziato a seconda che esse diano o meno rilevanza a fatti diversi rispetto a quelli
rilevanti per l'applicazione della norma previgente. Nel primo caso, è necessario che la causa torni
in istruttoria, per dar modo alle parti di allegare e provare i fatti resi rilevanti dalla nuova norma; nel
secondo caso, è su ciente che il giudice solleciti, in sede decisoria e senza necessità che il

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processo retroceda alla fase istruttoria, il contraddittorio delle parti circa l'applicazione della
nuova norma.
Il problema più delicato che pone lo ius superveniens riguarda i suoi rapporti con il giudicato: è
necessario stabilire a che condizioni e no a che punto la norma nuova può alterare le regole di
condotta contenute nella sentenza.
In primo luogo, gli e etti giuridici possono dirsi relativi ad un interesse istantaneo, allorché tale
interesse si realizza in un momento temporale preciso e puntuale. Ciò si veri ca anzitutto per gli
e etti costitutivi o estintivi di una situazione giuridica, che si producono istantaneamente allorché
si completa la fattispecie costitutiva oppure estintiva del diritto. Inoltre, ciò si veri ca con
riferimento al contenuto del diritto in relazione alle situazioni strumentali che realizzano l'interesse
protetto.
In secondo luogo, gli e etti giuridici possono dirsi relativi ad un interesse permanente, allorché
questo si realizza in un arco temporale durevole. Ciò accade in relazione al contenuto delle
situazioni nali, che realizzano l'interesse protetto nché esistono e perdurano nel tempo.
Posto questo, la nuova norma non retroattiva non entra mai in con itto con la sentenza, sia nel
caso di interessi istantanei sia nel caso di interessi permanenti.
Il discorso si complica nel caso di una norma retroattiva perché essa entra in con itto con la
sentenza. Occorre tener conto che la sentenza, nell'individuare i comportamenti doverosi e leciti
delle parti, opera sostituendo le regole di condotta da essa stessa determinate al consueto
meccanismo norma astratta/fattispecie concreta. Pertanto, la norma retroattiva non si applica alla
fattispecie presa in considerazione dalla sentenza, poiché tale fattispecie è divenuta irrilevante per
la produzione dell'e etto giuridico in questione, che resta ormai disciplinato esclusivamente dalla
sentenza. Questo avviene per gli interessi istantanei.
Tuttavia, quando l'interesse giuridico disciplinato è permanente, la norma retroattiva produce
e etti, appunto retroattivi, no al momento in cui essa norma è rilevante, cioè no al momento in
cui la sentenza è pubblicata.

La rilevazione e decisione delle questioni relative al giudicato

Analizziamo ora come, all’interno del processo, si pone la questione dell’esistenza di un


precedente giudicato. Il giudice può rilevare il giudicato d'u cio, per la prima volta anche in
appello e in Cassazione, senza limitazioni che non siano quelle della già avvenuta decisione della
questione relativa al precedente giudicato. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti,
l'eccezione di giudicato è un'eccezione di rito.
Al giudice, una volta sollevata la questione del precedente giudicato, non è inibita la trattazione
della causa, però al momento della decisione dovrà esaminare la questione relativa all'esistenza
del giudicato prima di decidere il merito.
Se il giudice ritiene che esiste un precedente giudicato che ha e etti in quel processo, gli e etti
non sono sempre i medesimi.
Nei casi di identità di oggetto si applica il principio del ne bis in idem: il giudice non ha il potere
di decidere nel merito una domanda che è già stata decisa. Il ne bis in idem integra i c.d. «e etti
negativi del giudicato»: negativi, perché negano il potere giurisdizionale del giudice successivo.
Se l’oggetto è diverso, vengono in luce i cd “e etti positivi del giudicato”. In questo caso occorre
giungere a una pronuncia che statuisca sulla diversa situazione sostanziale, oggetto del secondo
processo, tenendo conto di quanto stabilito nella precedente sentenza: il vincolo del giudicato
riguarda quell’elemento che è già stato deciso con la prima sentenza. Dunque si parla di e etti
positivi del giudicato perché il secondo giudice emette una sentenza di merito il cui contenuto è
però vincolato a quanto già deciso.
Se due sentenze passate in giudicato contengono disposizioni fra loro contrastanti si ha il
contrasto dei giudicati. Il contrasto può essere teorico oppure pratico. Il contrasto teorico si ha
quando le due pronunce hanno ad oggetto situazioni sostanziali diverse che sono però connesse
tra loro per pregiudizialità-dipendenza, oppure dipendono dallo stesso rapporto giuridico, in modo
da rendere possibile o l'applicazione degli e etti positivi che, però non hanno funzionato; oppure

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da consentire il cumulo processuale, cioè la trattazione e decisione unitaria delle cause aventi ad
oggetto le due situazioni sostanziali connesse, cumulo che però in concreto non si è realizzato.
Un contrasto e ettivo invece si ha nel caso di contrasto pratico. Qui le pronunce hanno lo stesso
oggetto e il ne bis in idem non ha impedito l’emanazione della seconda sentenza. Se le pronunce
hanno il medesimo contenuto, l’inconveniente si limita alla super uità di una di esse. Ma se il loro
contenuto diverge, occorre trovare una soluzione. L'individuazione della regola per la risoluzione
del contrasto pratico di giudicati passa attraverso l'interpretazione dell'art. 395 cpc. Vedremo,
trattando della revocazione, che, ove non venga tempestivamente utilizzato tale mezzo di
impugnazione, prevale la sentenza successiva.

Finora abbiamo parlato del giudicato di merito, ma il problema si pone anche per le sentenze di
rito, che statuiscono circa l'esistenza dei presupposti processuali. Tali sentenze in certi casi non
sono oggettivamente idonee a formare giudicato al di fuori del processo in cui sono emesse; ma
vi possono essere sentenze di rito che di per sé sono astrattamente idonee ad essere vincolanti
anche nel secondo processo (ad es. sentenze sulla giurisdizione). Secondo l'opinione prevalente,
il nostro ordinamento ha fatto una scelta di diritto positivo diversa, in quanto ha stabilito che
normalmente le sentenze di rito valgono solo come giudicato interno (art. 310 cpc). A questa
regola fanno eccezione le pronunce della Cassazione in tema di competenza e giurisdizione.
Ma l'opinione prevalente non persuade, in quanto si fonda sulla indebita estensione della
disciplina, prevista dall'art. 310, II c.p.c. per le sentenze non de nitive di rito, anche alle sentenze
de nitive di rito.
L'art. 310 cpc si riferisce necessariamente alle sentenze non de nitive, perché la sentenza
de nitiva chiude il processo, e dunque, dopo la sua pronuncia, non vi può essere estinzione.
Ora, una sentenza non de nitiva di rito per de nizione non è destinata a produrre e etti al di fuori
del processo in cui è emessa, poiché accerta che quel processo ha le carte in regola, e dunque la
sua portata precettiva sarà assorbita dalla pronuncia di merito, rispetto alla quale essa ha una
funzione meramente preparatoria. Se poi, patologicamente, il processo si estingue dopo che è
stata accertata la sussistenza di un presupposto processuale, è abbastanza ragionevole che essa
perda e etti e che la stessa questione processuale da essa decisa possa essere sottoposta di
nuovo al giudice, dinnanzi al quale sarà riproposta la domanda.
La pronuncia de nitiva di rito, al contrario, è in grado di produrre i suoi e etti al di fuori del
processo, e se non li produce si veri cano dei rilevanti inconvenienti in una duplice direzione:
- la stessa domanda potrebbe essere riproposta all'in nito, e tutte le volte sarebbe necessaria
una nuova decisione relativamente al presupposto processuale carente;
- l’impossibilità di far valere in un diverso processo la sentenza de nitiva di rito, a causa della
mancanza di un’e cacia esterna della stessa, può portare a inaccettabili conseguenze.

La litispendenza, la continenza e la connessione

Litispendenza signi ca pendenza della lite. In senso ampio, con tale termine si fa riferimento alla
situazione che si veri ca tra la proposizione della domanda giudiziale ed il passaggio in giudicato
formale della sentenza che chiude il processo. In senso ristretto, con tale termine si connota il
fenomeno, in virtù del quale, di fronte a u ci giudiziari diversi, sono pendenti due processi che
hanno lo stesso oggetto. Quando due processi hanno lo stesso oggetto occorre trovare una
forma di coordinamento fra di essi.
Le esigenze che sottostanno alla litispendenza sono due: da un lato impedire che lo stesso
oggetto del processo abbia una duplice fonte di disciplina; dall'altro lato, evitare attività
processuali inutili, per il principio di economia processuale.
Esaminiamo ora i presupposti necessari a nché si abbia la litispendenza. Ai sensi dell'art. 39
cpc. occorre che una stessa causa sia proposta a giudici diversi. Gli elementi per individuare
quando una causa ha lo stesso oggetto sono tre: i soggetti; la causa petendi (le ragioni della
domanda); il petitum (ciò che è chiesto al giudice).

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Soggetti: quando i soggetti dei due processi sono diversi, non c'è litispendenza perché la
diversità di soggetti porta normalmente ad una diversità di situazioni sostanziali, in quanto il diritto
di A è diverso da quello di B, quand'anche entrambi cadano sullo stesso bene.
A questa regola c'è un'eccezione, legata all'istituto della legittimazione straordinaria: nei casi in
cui sussiste, è consentito far valere in giudizio i diritti altrui. Ad es. nell'azione surrogatoria il
creditore fa valere in giudizio i diritti del suo debitore nei confronti di un terzo, sostituendosi al suo
debitore.

Causa petendi: è la fattispecie costitutiva del diritto dedotto in giudizio. Occorre però richiamare
la di erenza tra diritti autoindividuati e diritti eteroindividuati.
Se di fronte ad un giudice è pendente una controversia che ha ad oggetto un diritto
autoindividuato in relazione ad una certa causa petendi, e di fronte ad un altro giudice è pendente
una controversia relativa allo stesso diritto ma sulla base di altra fattispecie costitutiva, ciò non
toglie che l'oggetto dei due processi sia lo stesso e che quindi fra i due processi si abbia
litispendenza.
Se invece si tratta di diritti eteroindividuati, per stabilire se c'è litispendenza occorre vedere se le
fattispecie costitutive dei diritti oggetto dei due processi coincidono. Se la risposta è positiva, c'è
litispendenza; altrimenti no.

Il secondo comma dell’art. 39 parla della continenza di cause, un istituto che si applica a due
diversi fenomeni. Il primo si ha quando in uno dei due processi è chiesto qualcosa di meno
rispetto a quello che è chiesto nell’altro: tale quid minus può veri carsi o in relazione al tipo di
tutela richiesta, oppure in relazione ai diritti dedotti in giudizio.
Sotto il primo pro lo c'è continenza fra un processo in cui è chiesto il mero accertamento di un
credito e un processo in cui è chiesta la condanna per lo stesso credito, perché la condanna
costituisce un quid pluris rispetto all'accertamento del credito (che è quindi un quid minus).
Sotto il secondo pro lo, si ha continenza se l'oggetto di un processo è maggiore rispetto
all'oggetto dell'altro processo: ad es., in un processo è chiesta la risoluzione del contratto e
nell'altro, oltre alla risoluzione, anche la condanna al risarcimento del danno;
Quella appena delineata è la con gurazione tradizionale della continenza, che corrisponde al
signi cato etimologico del termine e che realizza una sorta di litispendenza parziale. Tuttavia la
continenza nella con gurazione descritta costituisce il fenomeno meno frequente, infatti ha
assunto uno sviluppo in tutt'altra direzione. Si pensi al caso in cui sono pendenti in processi
separati due e etti diversi scaturenti da un unico rapporto.
Nei suddetti casi, non si ha litispendenza perché il diritto che si fa valere è diverso nei due
processi, ancorché entrambi trovino fondamento nello stesso rapporto giuridico. Tuttavia,
ambedue i processi sono potenzialmente produttivi di giudicato sullo stesso rapporto
fondamentale: una duplice decisione dello stesso rapporto è evento solo potenziale perché non
necessariamente la decisione relativa al singolo diritto dipendente da un rapporto produce il
giudicato relativamente al rapporto stesso.
Pur essendo il fenomeno solo eventuale, occorre comunque uno strumento idoneo a prevenire la
pronuncia di due sentenze, ciascuna delle quali potrebbe formare giudicato sullo stesso rapporto
fondamentale.
Per raggiungere tale risultato, la giurisprudenza applica il rimedio della continenza, che è
logicamente diverso dalla litispendenza, poiché qui non c'è l'identità d'oggetto come nella
litispendenza in quanto c'è l'identità del rapporto fondamentale ma non dei diritti che le parti
hanno fatto valere in giudizio.

Vediamo ora i pro li dinamici, cioè come sorgono e come si risolvono le questioni relative alla
litispendenza ed alla continenza. Entrambe sono rilevabili in ogni stato e grado del giudizio, anche
d’u cio.
Per la litispendenza il meccanismo è più semplice poiché, essendo l'oggetto dei due processi lo
stesso, uno dei due è super uo. La tutela richiesta può provenire indi erentemente dalla sentenza
di ciascuno dei due processi. Per questo motivo è necessario e su ciente chiudere uno dei due

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processi con provvedimento (ordinanza) di rito dichiarando la litispendenza, in particolare andrà
avanti il processo instaurato per primo mentre si chiuderà l’altro. Ciò anche quando competente
fosse eventualmente il giudice adito per secondo e quello adito per primo fosse incompetente.
Ove ciò accada, si chiude dapprima il secondo processo, il giudice adito per primo si dichiara
incompetente in favore dell'altro giudice, e la causa viene riassunta dinanzi a quest’ultimo.
Per stabilire quale dei due processi è stato instaurato per primo si applica l'ultima parte dell'art.
39 cpc: la prevenzione è determinata dalla noti cazione della citazione.
In ne, quando nell'art. 39 cpc si parla di giudici diversi, si intende u ci giudiziari diversi. Se,
cioè, gli stessi fenomeni che originano la litispendenza e la continenza si veri cano non tra cause
pendenti dinanzi a u ci giudiziari diversi, ma fra cause pendenti di fronte allo stesso u cio
giudiziario, non si applicano i meccanismi previsti nell'art. 39, ma quelli previsti nell'art. 273 cpc.
Per la continenza il discorso è più complesso perché, nonostante la non coincidenza fra gli
oggetti dei due processi, non è sempre possibile chiudere il processo instaurato
successivamente. Nella continenza prosegue il giudice adito per primo a condizione che sia
competente anche per la causa pendente di fronte all'altro giudice; altrimenti, prosegue il giudice
adito successivamente.
Inoltre, se l’oggetto dei due processi è diverso, il giudice assegna un termine per trasferire la
causa, così chiusa, di fronte all’altro giudice che prosegue; invece se i due processi hanno il
medesimo oggetto, allora il processo che viene chiuso non è riassunto davanti al giudice che
prosegue.

Vediamo ora le ipotesi di connessione ex art. 40 cpc: “se sono proposte davanti a giudici
diversi più cause le quali, per ragione di connessione, possono essere decise in un solo
processo, il giudice ssa con ordinanza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della
causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello
preventivamente adito.” Altre ipotesi di connessione sono previste dagli art. 31 a 36, con la
di erenza che in questi casi le cause connesse sono proposte nello stesso processo.
Dunque la funzione dell’art. 40 è quella di realizzare un cumulo oggettivo e/o soggettivo. Se le
cause pendono davanti allo stesso u cio giudiziario si applica l’art. 274 cpc.
I pro li dinamici della connessione sono previsti al co. 2 dell’art. 40: “la connessione non può
essere eccepita dalle parti né rilevata d'u cio dopo la prima udienza, e la rimessione non può
essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente
l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse.”
Per quanto riguarda il cumulo di cause assoggettate a riti processuali diversi, il co. 3 dell’art. 40
prevede una serie di ipotesi ma prima di a rontarle bisogna sottolineare che non è richiamato
l’art. 33, cioè il cumulo soggettivo, che si indica di solito come connessione debole o per
coordinazione. Se il rito è diverso, le cause connesse ex art. 33 non possono essere trattate
insieme.
Vediamo queste ipotesi:
- le cause cumulate sono soggette una al rito ordinario, l'altra ad un rito speciale, e la causa
soggetta al rito speciale non è una causa di lavoro (art. 409 c.p.c.) o previdenziale (art. 442
c.p.c.). In tal caso, le cause vengono tutte trattate con il rito ordinario.
- le cause cumulate sono soggette una al rito ordinario e l'altra al rito speciale, e la causa da
trattarsi col rito speciale è una causa di lavoro o previdenziale. In tal caso tutte le cause sono
trattate con il rito speciale del lavoro. Comunque se una controversia, soggetta al rito del
lavoro, ma che non è di lavoro o previdenziale, è cumulata con una controversia soggetta al rito
ordinario, il rito prevalente è quello ordinario.
- i riti delle cause cumulate sono riti speciali diversi e nessuna di tali cause è una causa di
lavoro o previdenziale. In tale ipotesi, le cause vengono trattate con il rito della causa in ragione
della quale si determina la competenza. Se sono di competenza dello stesso giudice, il rito
comune ad ambedue le cause è quello della causa di maggior valore.
- una delle cause cumulate è una causa di lavoro o previdenziale e l'altra è da trattare con un rito
speciale. L'ipotesi non è speci camente disciplinata ma sembra logico pensare che le cause
vadano trattate con il rito del lavoro.
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La riforma ha poi introdotto la seguente ipotesi: in caso di connessione ai sensi degli articoli 31,
32, 34, 35 e 36 tra causa sottoposta al rito sempli cato di cognizione e causa sottoposta a rito
speciale diverso da quello previsto dal primo periodo (art. 409 e 442), le cause debbono essere
trattate e decise con il rito sempli cato di cognizione.
In ne, l’art. 40 si occupa anche dei casi in cui una causa di competenza del giudice di pace sia
connessa ad una causa di competenza del tribunale: quest’ultima attrae la prima.

Capacità processuale

Con “capacità” si usa un unico termine per far riferimento a due fenomeni diversi.
Da un lato, per capacità si intende la capacità di essere parte, cioè di assumere il ruolo di
soggetto del processo e di essere destinatario degli e etti degli atti processuali. In tale direzione,
la capacità è strettamente correlata alla capacità giuridica di cui all'art. 1 c.c., cioè alla qualità di
soggetto di diritto. In questa accezione non ha la capacità processuale chi non è nato, chi è
morto, e le persone giuridiche e gli altri soggetti di diritto non ancora sorti oppure estinti. Vi è,
quindi, un parallelismo fra capacità giuridica e capacità processuale. Colui, che è soggetto del
processo e quindi destinatario degli e etti degli atti processuali, può essere de nito come parte in
senso processuale.
Dall'altro lato, per capacità si intende la capacità di compiere atti del processo, e corrisponde sul
piano sostanziale alla capacità d'agire ex art. 2 c.c. Si ha la capacità di compiere atti nel
processo quando si ha il libero esercizio dei diritti oggetto del processo stesso. Per cui ha
capacità processuale chiunque ha la capacità d'agire sul piano sostanziale in relazione al diritto
controverso.
Colui che compie atti del processo può essere de nito come parte in senso formale.
Un soggetto, capace giuridicamente ma senza la capacità d'agire (e quindi neppure quella
processuale) in relazione ad un certo diritto, può essere destinatario degli e etti degli atti
processuali ma non li può compiere.
Esempio: il minore proprietario di un bene non può compiere atti di un processo avente ad
oggetto il suo diritto sulla cosa, ma è destinatario degli e etti degli atti di quel processo; infatti,
una cosa è compiere atti processuali ed altra cosa è essere destinatario degli e etti degli atti
compiuti.
Per tale ragione l'art. 75 cpc. stabilisce che gli incapaci devono stare in giudizio rappresentati o
assistiti o autorizzati, secondo le norme che regolano le loro capacità (d’agire).
Nel caso in cui un soggetto sia capace giuridicamente ma incapace di agire si ha, dal punto di
vista processuale, una scissione fra la parte in senso processuale, intesa come destinataria degli
e etti, e la parte in senso formale, intesa come colui che compie atti processuali, i cui e etti si
imputano al soggetto rappresentato o assistito. Nel processo in cui è parte un incapace, questi è
destinatario degli e etti giuridici degli atti del processo (parte in senso processuale), mentre colui
che compie gli atti processuali è il suo rappresentante legale (parte in senso formale).
Se l’incapace non ha un rappresentante oppure è in con itto di interessi con lui, occorre
procedere alla nomina di un curatore speciale ex artt. 78, 79, 80 cpc, curatore che rappresenta il
minore soltanto in quel processo (per questo si de nisce speciale).
Una uguale scissione tra il soggetto che compie gli atti e il soggetto cui si imputano gli e etti degli
atti si ha nel caso di rappresentanza volontaria: rispetto alla rappresentanza legale di erisce per
il fatto che il rappresentato volontario ha il potere di compiere anch’egli gli atti del processo.
L’art. 75 prevede anche la rappresentanza organica, cioè rispetto alle persone giuridiche e per i
soggetti di diritto che non sono persone giuridiche (associazioni non riconosciute, comitati).
Questa si caratterizza per il fatto che all’ente si imputano non solo gli e etti dell’attività compiuta
ma l’attività stessa, quindi gli atti del rappresentante organico sono, in realtà, atto dell’ente.
Questo permette di so ermarsi sull’istituto delle autorizzazioni, accennato dall’art. 75 e
disciplinato dall’art. 182 cpc: colui che compie l’attività legale deve essere munito
dell’autorizzazione di un altro soggetto. L’autorizzazione non incide sulle parti come destinatarie
degli e etti, ma incide sulla possibilità che il rappresentante compia validamente gli atti
processuali.
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Mentre in caso di rappresentanza legale o organica, l'attore ha l'onere di agire per mezzo del suo
rappresentante legale oppure, se la rappresentanza riguarda il convenuto, ha l'onere di instaurare
il contraddittorio nei confronti del rappresentante legale della controparte; nel caso
dell'autorizzazione l'attore deve procurarsi le autorizzazioni per lui prescritte, ma non deve
procurarsi anche le eventuali autorizzazioni che servono al convenuto perché deve essere
quest'ultimo a preoccuparsi di farsi autorizzare.
L'inosservanza dell'onere di procurarsi l'autorizzazione necessaria per potersi validamente
costituire in giudizio comporta l'invalidità di tutti gli atti processuali compiuti dal soggetto non
munito della prescritta autorizzazione, essendo invalida la sua costituzione in giudizio.
Dunque, se manca l'autorizzazione dell'attore è invalida la domanda giudiziale (che costituisce un
presupposto processuale), per cui il processo non può giungere ad una pronuncia di merito.
Invece, se l'autorizzazione manca al convenuto, ciò non impedisce l'emanazione di una pronuncia
di merito, perché gli atti processuali compiuti dal convenuto senza autorizzazione sono sì invalidi
ma ciò non impedisce la pronuncia di merito.

Vediamo ora i pro li patologici. Il difetto relativo alla capacità processuale è rilevabile anche
d'u cio in ogni stato e grado del processo. Il difetto di rappresentanza è suscettibile di sanatoria
perché quell'elemento, che manca per integrare il presupposto, può essere acquisito al processo
su iniziativa di chi ha proposto la domanda.
Nel nostro ordinamento vige il principio per cui, se il vizio del presupposto processuale è sanabile,
il giudice non può immediatamente chiudere il processo in rito, ma deve prima provvedere
a nché sia sanato il vizio attraverso l’acquisizione al processo dell'elemento carente. Ciò è
quanto espressamente prevede, in tema di vizio della rappresentanza legale, l'art. 182 cpc. Una
volta sanato il vizio relativo alla capacità della parte, si può arrivare alla sentenza di merito.
Gli atti processuali già compiuti devono essere compiuti di nuovo tranne in caso di rati ca
dell’interessato. La rati ca si ha quando colui, che doveva rappresentare la parte, costituendosi
in giudizio, fa propri, cioè rati ca, gli atti compiuti dal soggetto che stava nel processo al suo
posto. Ad esempio il padre, costituendosi in giudizio, rati ca gli atti compiuti dal glio minore. La
rati ca presuppone quindi un comportamento attivo dell'interessato, che manifesta la volontà di
fare propri gli atti compiuti da un altro soggetto. Per quanto riguarda gli e etti della domanda, la
sanatoria ha carattere retroattivo: tali e etti si producono dal momento in cui è stata proposta la
domanda. L'ultima parte dell’art. 182 stabilisce che operata la sanatoria gli e etti sostanziali e
processuali della domanda si producono n dal momento della prima noti cazione o, se si tratta
di ricorso, n dal momento dell'originario deposito in cancelleria dello stesso.
Il regime del difetto di autorizzazione, secondo la giurisprudenza unanime, è diverso da quello
del difetto di rappresentanza. La mancanza di una prescritta autorizzazione produce l’ine cacia
degli atti compiuti dalla parte non debitamente autorizzata.
Se la parte non autorizzata è l'attore, il vizio impedisce la decisione di merito in via indiretta, in
quanto determina l'invalidità della domanda giudiziale; se la parte non autorizzata è il convenuto,
essa deve considerarsi contumace.
Per quanto riguarda la sanatoria, l'autorizzazione può essere data in qualunque momento, anche
nel corso del processo, nché il giudice non abbia emesso un provvedimento che abbia accertato
il difetto di autorizzazione e ne abbia tratto le debite conseguenze. Una volta data,
l’autorizzazione integra retroattivamente la condizione di e cacia degli atti della parte e quindi
rende e caci ex post anche gli atti compiuti prima che l’autorizzazione fosse concessa, operando
come una sorta di rati ca.

L’incapacità naturale rileva come motivo di annullamento degli atti compiuti da un soggetto che,
sia pure transitoriamente, sia stato incapace di intendere e di volere al momento in cui tali atti
sono stati compiuti. Quindi l’incapacità naturale non ha una rilevanza immediata e diretta ma è
l’incapace a scegliere se far valere o meno la sua incapacità.

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Legittimazione ad agire

Anche la legittimazione ad agire, come la capacità, è un presupposto processuale, cioè una


condizione a nché il processo possa giungere ad una decisione di merito. La disciplina della
legittimazione si ricava dall'art. 81 cpc, il quale stabilisce che «fuori dai casi espressamente
previsti dalla legge (espressione di un principio di tassatività) nessuno può far valere, in un
processo, in nome proprio un diritto altrui». Questo articolo in realtà non enuncia la regola
generale della legittimazione ad agire ma l’eccezione: cioè la legittimazione straordinaria.
Comunque, a contrario, è possibile ricavare il concetto della legittimazione ad agire, cioè che chi
agisce in giudizio deve farlo per la tutela di un diritto proprio e deve proporre la domanda nei
confronti del o dei titolari dei doveri, correlati a tale diritto e funzionali alla soddisfazione dello
stesso. Trattandosi di processo dichiarativo, legittimato è colui cui si imputeranno le regole di
condotta che la sentenza conterrà. Si parla allora di legittimato ordinario.
La legittimazione ad agire si determina dalla domanda e non attraverso indagini per capire se
colui che agisce è veramente titolare del diritto fatto valere. Se, sulla base delle contestazioni del
convenuto e dell'istruttoria e ettuata, il giudice si convince che l'attore non è il titolare del diritto
fatto valere rigetta nel merito la domanda.
Vediamo alcune ipotesi di legittimazione straordinaria.
- azione surrogatoria (art. 2900 cc): il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o
conservate le sue ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso terzi al proprio
debitore. Nell'azione surrogatoria il creditore agisce in nome proprio ma per la tutela di diritti altrui
(del proprio debitore).
- azione del pm: il pm agisce per far valere situazioni giuridiche altrui.
- t.u. degli enti locali: ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al
comune e alla provincia.
Parte della dottrina ha criticato la nozione di legittimazione straordinaria, dicendo che il legittimato
straordinario, quando agisce, lo fa in nome proprio e quindi per la tutela di un proprio interesse e/
o diritto, per cui sarebbe scorretto a ermare che egli agisce per la tutela di un diritto altrui. In tal
modo però si dimentica che l'oggetto di quel processo resta sempre il diritto altrui, tant'è vero che
la sentenza di quel processo può avere e etti indiretti e ri essi per il legittimato straordinario ma
diretti e immediati per il legittimato ordinario.
La funzione della legittimazione ad agire è quella di garantire il titolare di una situazione
sostanziale protetta dalle ingerenze altrui, cosa che fa capire perché le ipotesi di legittimazione
straordinaria siano tassative: perché solo il legislatore può valutare in quali circostanze l'inerzia del
titolare del diritto può rendere giusti cabile la compressione del potere, spettante al titolare del
diritto, di scegliere se agire o meno.
La legittimazione straordinaria non deve essere confusa con la rappresentanza, perché il
rappresentante è colui che agisce in nome e per conto del rappresentato, tant'è vero che gli e etti
dell'attività giuridica del rappresentante sono immediatamente riferibili alla sfera giuridica del
rappresentato. Ciò non accade nella legittimazione straordinaria, perché qui chi agisce lo fa in
nome proprio (e non in nome altrui), anche se per la tutela di un diritto altrui (pertanto tutta
l'attività processuale compiuta è riferibile al legittimato straordinario). Quindi destinatario degli
e etti degli atti processuali compiuti nella rappresentanza è il rappresentato, nella legittimazione
straordinaria è il legittimato straordinario. Inoltre le spese processuali sono a carico del legittimato
straordinario, mentre nella rappresentanza sono a carico del rappresentato (sono a carico del
rappresentante solo in particolari casi).
Al contrario, gli e etti di merito si imputano al legittimato ordinario, quale titolare della situazione
sostanziale dedotta in giudizio.
Ovviamente, anche in caso di rappresentanza gli e etti di merito si imputano al rappresentato.
Per quanto riguarda i pro li dinamici, il difetto di legittimazione è rilevabile in ogni stato e grado
del processo anche d’u cio, salvo il giudicato. Esso è insanabile e quindi, se riscontrato
sussistente, comporta l’immediata chiusura in rito del processo.
In ne occorre precisare che a proposito di questo istituto si usa parlare indi erentemente di
legittimazione straordinaria e di sostituzione processuale. Tuttavia è meglio utilizzare il termine

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“legittimazione straordinaria” per identi care il fenomeno in generale e riservare quello di
“sostituzione processuale” ai casi eccezionali, come vedremo a suo tempo, in cui il legittimato
ordinario non è litisconsorte necessario.

L’interesse ad agire

L'art. 100 cpc a erma: “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario
avervi interesse”.
L’interesse ha una funzione parallela a quella della legittimazione: l’interesse ad agire serve ad
evitare che si scenda all'esame del merito (in quanto l’attività di rito è inevitabile) quando
l’accoglimento della domanda o della difesa, anche se fondate, non produce alcun e etto utile
nella sfera giuridica di chi le ha proposte. Quindi l'interesse ad agire è strettamente connesso al
principio di economia processuale: ha la funzione di ltro processuale nelle ipotesi in cui lo
strumento di attacco o difesa utilizzato dalle parti può essere fondato ma è comunque inutile.
L'interesse ad agire può essere carente con riferimento al mezzo processuale oppure al risultato
del processo, cioè agli e etti richiesti.
Sotto il primo pro lo l'e etto chiesto al giudice è utile, ma la parte può ottenerlo per una via
diversa da quella giurisdizionale: di solito attraverso strumenti di diritto sostanziale.
Esempio: lo strumento generale per reagire all'inadempimento di un contratto a prestazioni
corrispettive è l'azione generale di risoluzione ex art. 1453 c.c. Attraverso la sentenza che
accoglie la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. si arriva alla risoluzione del contratto. Tuttavia,
in materia di lavoro subordinato, l'ordinamento fornisce il datore del potere unilaterale di
risoluzione del rapporto (licenziamento), per cui il datore raggiunge l'e etto risolutivo del rapporto
attraverso l’utilizzazione di un potere sostanziale; quindi egli non ha bisogno del mezzo
processuale per arrivare allo scopo, che è la risoluzione del rapporto.
Sotto il secondo pro lo, una volta ottenuti gli e etti richiesti, questi non servono in quanto
lasciano la parte nella stessa condizione di prima.
Inoltre, in relazione all’interesse a contraddire, è possibile fare un discorso analogo perché c’è
sempre interesse a resistere a una domanda nei propri confronti, quindi la portata di tale interesse
si può trovare non in relazione ad una difesa generica nei confronti della domanda, ma in relazione
all’utilizzazione di uno speci co mezzo di difesa processuale. Anche la parte che resiste alla
domanda può spendere mezzi per i quali si può fare lo stesso discorso: magari sono fondati, però
non servono, quindi è inutile perdere tempo.
Per quanto riguarda i pro li dinamici, il difetto di interesse ad agire è rilevabile in ogni stato e
grado del processo anche d'u cio, salvo il giudicato; ed è ovviamente insanabile.

Un'altra caratteristica dell'interesse ad agire è che esso può sopravvenire o venir meno nel corso
del giudizio: ciò che conta è la sua esistenza al momento della decisione.

Rappresentanza tecnica

Essa è un presupposto processuale disciplinato negli artt. 82 e ss. Per individuarne la ratio
occorre distinguere quando essa costituisca una possibilità oppure un obbligo della parte.
La rappresentanza tecnica è sempre possibile perché la parte non può essere costretta a
difendersi da sola.
Laddove è necessaria, la ratio dell’istituto è l’esigenza pubblicistica di garantire che gli atti del
processo siano compiuti da soggetti i quali, a causa della loro formazione professionale, sappiano
come "muoversi", e quindi non creino intralci allo svolgimento del processo stesso.
Non si deve confondere l'obbligo della difesa tecnica con l'obbligo di difendersi: nel processo
civile, al contrario di quello che accade nel processo penale, la parte può liberamente scegliere se
partecipare al processo o rimanere inerte. Se decide di non difendersi, il processo andrà avanti
senza di lei. L'unica eccezione è data dal processo in cui si deve stabilire l’adottabilità di un
minore.

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La rappresentanza tecnica può essere inserita nella categoria della rappresentanza volontaria. Il
difensore tecnico è legato alla parte da un mandato con rappresentanza, poiché compie attività
giuridica in nome e per conto della parte che rappresenta, ossia il suo cliente.
L’art. 83 cpc stabilisce che «quando una parte sta in giudizio col ministero di un difensore, questi
deve essere munito di procura». E la procura deriva dal contratto di mandato che lega la parte e il
suo difensore.
Dall'altro lato l'art. 84 cpc prevede che «quando la parte sta in giudizio col ministero del suo
difensore, questi può compiere e ricevere, nell'interesse della parte stessa, tutti gli atti del
processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati». Quindi il difensore compie
attività processuale per conto della parte interessata (mandato con rappresentanza).
Ciò subisce una deroga in due casi, che realizzano la c.d. ultrattività del mandato.
Una prima deroga è prevista nell'art. 85 cpc nell'ipotesi di revoca e rinuncia alla procura. Mentre
la rinuncia e la revoca nel mandato fanno estinguere il mandato stesso automaticamente, nel caso
invece del mandato del difensore tecnico questo e etto non avviene immediatamente ma solo
quando vi sia stata nomina di un nuovo difensore. Quindi si ha una prosecuzione del mandato
nonostante la revoca o la rinuncia.
Un'altra deroga alla disciplina del mandato di diritto sostanziale è rappresentata dal venir meno
della parte nel processo civile. Anche qui, contrariamente a quanto accade nel contratto di
mandato dove la morte del mandante estingue il mandato automaticamente, la morte del cliente
non estingue automaticamente il mandato del suo rappresentante tecnico. L’e etto estintivo si
produce quando lo stesso difensore dichiara nel processo la morte del suo cliente.
Detto ciò, l’art. 83 co. 2 a erma anche che la procura alle liti può essere generale oppure
speciale, e deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata.
La procura è speciale quando il mandato è riferibile ad un singolo processo che la parte vuole
instaurare o che contro la parte è stato instaurato, mentre nella procura generale la parte fornisce
il difensore tecnico del potere di difenderla in tutti i possibili processi che saranno proposti nei
confronti di essa o che essa proporrà.
Inoltre, la regola generale è che il soggetto deve essere difeso da un rappresentante tecnico.
Tuttavia è consentito, in particolari casi, che la parte non si faccia rappresentare tecnicamente.
Per esempio davanti al giudice di pace in controversie di scarso valore.
Al contrario è incostituzionale il divieto di rappresentanza tecnica (art. 24 Cost).
Per quanto attiene ai pro li dinamici, il difetto di rappresentanza tecnica (quand'essa è
obbligatoria) è rilevabile anche di u cio in ogni stato e grado del processo, salvo il giudicato che
si sia formato sulla questione. Le conseguenze sono diverse a seconda che il difetto riguardi
l'attore oppure un'altra parte: nel primo caso si veri ca il vizio di un presupposto processuale, che
impedisce la pronuncia di merito; nel secondo caso, si ha la contumacia della parte.
Il difetto di rappresentanza tecnica è sanabile retroattivamente, con salvezza degli e etti della
domanda ex art. 182 cpc. Secondo la Corte di Cassazione, la sanatoria prevista dall'art. 182 cpc
non si applica al processo di Cassazione. Pertanto, non è sanabile e dà luogo ad inammissibilità il
ricorso non proposto da un avvocato patrocinante innanzi alle corti supreme, munito di mandato
speciale (cioè conferito espressamente per quel ricorso e rilasciato dopo la pubblicazione della
sentenza che si impugna).

Atto introduttivo

Fino a questo momento abbiamo esaminato la domanda giudiziale ed alcuni presupposti


processuali, i quali si valutano dalla domanda oppure da fatti extraprocessuali, irrilevanti ai ni del
merito.
Dobbiamo ora esaminare il contenuto di merito della decisione. Svariati atti del processo
costituiscono il potenziale contenente di una domanda giudiziale, ma uno solo di essi deve
contenere (mentre gli altri possono contenere) una domanda: l'atto introduttivo del processo,
qualunque sia la forma che esso assume (citazione o ricorso). Qui interessa sottolineare che gli
elementi propri della domanda giudiziale, su cienti per individuare l'oggetto del processo, e

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quindi per stabilire se la decisione di merito è possibile, di solito sono insu cienti o comunque
non sono i soli per determinare il contenuto della decisione di merito.
A questo proposito, occorre tener presente che ogni ordinamento stabilisce i modi ed i tempi per
l'acquisizione degli elementi propri della trattazione della causa, e diversi da quelli necessari per la
determinazione dell'oggetto del processo. Quando l'atto contenente la domanda contiene anche
(in ossequio ad un obbligo imposto dal legislatore o per volontaria scelta acceleratoria della parte)
elementi propri della trattazione, esso svolge un doppio ruolo: di atto contenente la domanda,
appunto, e di scrittura preparatoria alla trattazione della causa.
Con riferimento alla trattazione bisogna distinguere il diverso ruolo che gioca la cd quaestio facti
e la cd quaestio iuris: la prima è di esclusiva spettanza delle parti e si realizza attraverso una
speci ca attività che è l’allegazione, cioè la dichiarazione con cui le parti introducono nel
processo determinati fatti storici in modo da vincolare il giudice a prenderli in considerazione.
L’allegazione dei fatti è necessaria anche ai ni dell’individuazione dell’oggetto del processo
perché si tratta di un diritto eteroindividuato. Invece nei diritti autoindividuati l’allegazione dei fatti
costitutivi rileva esclusivamente ai ni della trattazione. L'allegazione è sempre rilevante ai ni
dell'accoglimento della domanda, perché, se non c'è allegazione dei fatti costitutivi, il giudice non
la potrà accogliere.
Il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti storici allegati, perché così gli impone
l'art. 112 cpc, che contiene due disposizioni: il giudice non può pronunciare su diritti e domande
diversi da quelli individuati dalle parti; il giudice deve esaminare tutti i fatti allegati senza poterne
prescindere. Questo non vuol dire che il giudice possa porre a fondamento della decisione solo i
fatti allegati. Infatti se emergono fatti provati dagli atti di causa, questi possono fondare la
decisione anche se non allegati dalla persona interessata. Ciò sulla base del c.d. principio di
acquisizione, secondo il quale tutti gli elementi che emergono dalla trattazione della causa
possono, in linea di massima (e salve le eccezioni di cui appresso) essere utilizzati per la
decisione della causa stessa.
Sono previsti però due limiti: in primo luogo, con riferimento ai diritti eteroindividuati, il giudice
non può accogliere la domanda utilizzando un fatto provato ma non allegato dalla parte
interessata, che individui un diverso diritto, perché allora violerebbe il principio della domanda. Il
secondo limite riguarda le eccezioni che possono essere fatte valere solo dalla parte: il giudice
non può rigettare la domanda sulla base di un'eccezione riservata al convenuto e che questi non
abbia fatto valere, ancorché il fatto sul quale l'eccezione si fonda sia provato agli atti di causa.
Mentre, per quanto riguarda la quaestio facti, il giudice è vincolato dalle allegazioni delle parti, per
quello che riguarda la quaestio iuris il giudice non è vincolato alle allegazioni delle parti.
Per quanto riguarda la quaestio iuris, gli artt. 113 e 114 cpc precisano quale debba essere il metro
di giudizio che il giudice utilizza al momento della decisione di merito. L’art. 113 a erma che il
giudice, nel pronunciare sulla causa, deve seguire le norme di diritto. In questo caso si fa
riferimento alle norme di diritto sostanziale, che nel processo sono in primis regole di condotta.
Poi quando il giudice le utilizza al momento della decisione diventano metro di giudizio.
Non sempre il giudice deve utilizzare le norme di diritto sostanziale, infatti talvolta utilizza anche
regole di giudizio diverse, come l’equità, che nel nostro sistema si distingue tra integrativa e
sostitutiva. Integrativa è l'equità che integra una norma di diritto perché è la norma di diritto
stessa che richiama equità: ad es. l’art. 1226 c.c. prevede la valutazione equitativa del danno.
L’equità sostitutiva, cioè quella alternativa al giudizio di diritto, è richiamata dall’art. 114 cpc
secondo il quale, in materia di diritti disponibili, se vi è richiesta congiunta delle parti, il giudice
utilizza come metro di giudizio l'equità, invece delle norme sostanziali.
Il giudizio di equità assume un signi cato diverso a seconda che costituisca lo strumento per far
applicare dal decidente le regole vigenti in una certa organizzazione oppure riguardi una relazione
fra due soggetti non appartenenti ad uno stesso gruppo.
Nel primo caso, le parti prevedono un arbitrato equitativo, che ha il vantaggio di consentire alle
parti di scegliersi coloro che decidono la controversia.
Nel secondo caso, il giudizio di equità è un giudizio di diritto «addolcito», cioè non prescinde
totalmente dalle norme di diritto e dai principi dell'ordinamento, ma consente al giudicante di
togliere rilevanza a certe prescrizioni rigide.
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Inoltre, attribuendo al giudice il potere di decidere secondo equità, le parti gli consentono di tener
conto anche dei pro li di opportunità della decisione: pro li che egli, normalmente, non può
prendere in considerazione non potendo, appunto, sostituirsi ai diretti interessati per stabilire cosa
è per essi più conveniente.
Si ha equità necessaria nei processi davanti al giudice di pace per un valore non superiore a
1.100 euro. Comunque il giudice di pace dovrà rispettare le norme costituzionali, quelle
comunitarie e le norme processuali, perché il giudizio secondo equità riguarda il merito e non il
rito.
Le sentenze pronunciate secondo equità integrativa sono soggette ai normali mezzi di
impugnazione; mentre le sentenze pronunciate secondo equità sostitutiva non sono soggette ad
appello ma solo a ricorso in Cassazione. Le sentenze pronunciate secondo equità necessaria
sono soggette ad un appello limitato.
In ogni caso il giudizio equitativo deve essere motivato.

Noti cazione

L'atto introduttivo del processo, per il rispetto del principio del contraddittorio, deve essere
portato a conoscenza della controparte, intendendosi qui per controparte colui che può compiere
gli atti del processo, non colui a cui si imputano gli e etti degli atti processuali.
Ad es. se si vuole convenire in giudizio un minore, l'atto introduttivo deve essere portato a
conoscenza del rappresentante legale e non del minore.
Lo strumento speci co è la noti cazione, disciplinata negli art. 137 e ss. La noti cazione è
compiuta da un u ciale giudiziario su istanza di parte o su richiesta del pm o del cancelliere.
Anche gli avvocati hanno la possibilità di noti care gli atti relativi ai propri assistiti a mezzo di
posta o pec.
La noti cazione ha e etti per il noti cato dal momento in cui essa si perfeziona: tale momento
non sempre coincide con la ricezione materiale dell'atto da parte del destinatario. Comunque, dal
momento in cui la noti cazione si è perfezionata, decorre un termine per il compimento di un atto
da parte del noti cato.
Può peraltro accadere che la noti cazione debba essere compiuta dal noti cante entro un certo
termine. In questo caso, no a qualche tempo fa si considerava rilevante, tranne rare eccezioni, il
perfezionamento della noti ca. Tuttavia la Corte costituzionale ha ritenuto incostituzionale tale
disciplina poiché non è costituzionalmente legittimo porre a carico del richiedente le conseguenze
dipendenti dall'attività di un terzo, qual è l'u ciale giudiziario. Dunque ad oggi dal noti cante si
può esigere che egli, nel termine prescritto, faccia quanto è in suo potere fare, e non di più.
Passando ai pro li patologici, l’art. 160 cpc disciplina la nullità della noti cazione dando
rilevanza ad alcuni elementi di essa, ed esattamente alle disposizioni circa la persona a cui deve
essere consegnata la copia, all'incertezza assoluta sulla persona cui è fatta e alla data. Ciò
signi ca che la violazione di non tutte le regole di noti cazione è ugualmente rilevante ai ni della
nullità: sono rilevanti solo le violazioni che riguardano gli elementi che abbiamo appena visto.
Trattandosi di vizio sanabile, il giudice che lo riscontra esistente non deve chiudere
immediatamente il processo in rito, ma deve dare le disposizioni per la sanatoria del vizio. Se la
parte si rende conto che la noti cazione è viziata, non deve chiedere al giudice un termine per
rinnovarla ma deve provvedere autonomamente, in un tempo ragionevole, alla “ripresa” del
procedimento noti catorio per perfezionarlo.
Una volta intervenuta la sanatoria, gli atti compiuti prima di essa non sono per ciò solo
automaticamente sanati.
Per quanto riguarda gli e etti della domanda, la sanatoria ha e etto retroattivo, operando ex
tunc, dal momento in cui pende il processo e non ex nunc, dal momento in cui si veri ca la
sanatoria. Ciò è espressamente previsto dall'art. 291 cpc secondo il quale «la rinnovazione
impedisce ogni decadenza».
Proprio per l'e cacia retroattiva della sanatoria del vizio di noti cazione, si opera una distinzione
di origine dottrinale e giurisprudenziale non esplicitamente prevista del codice. Si è introdotta la
nozione d'inesistenza della noti cazione e la si è distinta dalla semplice nullità: se il vizio è di

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semplice nullità e viene sanato, la sanatoria opera ex tunc; se il vizio è di inesistenza, la
rinnovazione dell'atto comporta e etti ex nunc, cioè dal momento in cui viene e ettuata la
sanatoria. La Cassazione ha a ermato che gli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere
riconoscibile un atto come una noti cazione sono la trasmissione dell'atto ad opera di un
soggetto abilitato (u ciale giudiziario, avvocato, etc.) e la consegna dello stesso in uno dei modi
previsti dall'ordinamento. La carenza di ogni altro elemento è motivo di nullità e non di
inesistenza.

Difese del convenuto

In primo luogo, può darsi che per giungere a una sentenza di merito sia necessario il consenso
del convenuto, accettazione che diventa allora un presupposto processuale.
Nel nostro sistema l’attiva partecipazione del convenuto al processo non costituisce né un
presupposto processuale né un elemento che incide sul merito. Se il convenuto non fa uso di quei
poteri processuali che l’ordinamento gli dà, ciò non impedisce la decisione del merito.
Il convenuto che invece decide di prendere parte attiva al processo può svolgere un’attività che
rientra in una delle seguenti categorie: semplici difese, eccezioni e domande.

La semplice o mera difesa è l'attività più elementare che il convenuto può tenere. Essa consiste
nella contestazione della fondatezza della domanda in fatto o in diritto, in relazione
all’accertamento che i fatti storici allegati dall'attore siano e ettivamente venuti a esistenza; che
tali fatti integrino la fattispecie astratta da cui scaturisce il diritto fatto valere dall'attore; accertare
l’illecito. Tali elementi devono essere esaminati dal giudice d'u cio anche se il convenuto non si
sia costituito in giudizio.
Il valore delle semplici difese è diverso a seconda che le contestazioni siano di fatto o di diritto. La
contestazione in fatto consiste nella negazione dei fatti allegati dall’attore, che però acquista
importanza dal momento in cui il convenuto cerca di provare il contrario di quanto a ermato
dall’attore.
Nella contestazione in diritto il convenuto deve convincere il giudice che l’esatta soluzione della
quaestio iuris non è quella che a erma l’attore. La difesa in diritto è compatibile anche con una
difesa in fatto: non è necessario che il convenuto, per difendersi in diritto, confermi la verità di
quanto asserito dall’attore.
Con le mere difese, il convenuto attua il principio del contraddittorio ma non arricchisce il
processo di questioni nuove infatti gli argomenti su cui il convenuto esplica la propria attività
difensiva sono quegli stessi che il giudice avrebbe comunque dovuto a rontare e risolvere
d'u cio.

Con l'eccezione il convenuto arricchisce di nuovi fatti la cognizione del giudice. Per individuare
l'eccezione dobbiamo richiamare la nozione di fattispecie, che è composta, oltre che dai fatti
costitutivi, anche dai fatti impeditivi, modi cativi e estintivi, che fondano le eccezioni.
L'art. 2697 cc stabilisce che chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento (e cioè i fatti costitutivi). Chi eccepisce l'ine cacia di tali fatti ovvero
eccepisce che il diritto si è modi cato o estinto deve provare i fatti (impeditivi, modi cativi o
estintivi) su cui l'eccezione si fonda. Correttamente non si parla in termini di "attore" e
“convenuto" perché vi sono innumerevoli casi di inversione dell'iniziativa processuale, cioè casi in
cui l'iniziativa processuale, quindi la qualità di attore, spetta a colui che nega l'esistenza del diritto
altrui (es. azione negatoria). Dunque si utilizza la nozione sostanziale di "soggetto che a erma" e
"soggetto che nega" l'esistenza di un diritto.
Inoltre, nel nostro ordinamento vige il principio di acquisizione, in virtù del quale, quando una
prova è legittimamente acquisita al processo, il giudice può trarre da essa ciò che serve per
provare indi erentemente tutti i fatti allegati, chiunque sia il soggetto che ha preso l'iniziativa per
acquisire al processo la prova in questione.
Esempio: il convenuto chiede l'ammissione di una prova testimoniale per provare un fatto
estintivo, e i testimoni raccontano fatti costitutivi. Il giudice può trarne la prova dei fatti costitutivi.

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Proprio perché esiste il principio di acquisizione, la regola sull'onere della prova deve più
correttamente de nirsi una regola di giudizio che si applica allorché i fatti allegati non risultano
provati attraverso una qualunque delle prove acquisite: essa ripartisce il rischio della mancata
prova. L'art. 2697 cc si applica in presenza di un fatto a ermato e non provato, e non ha modo di
essere applicato quando il fatto è stato comunque provato in causa, qualunque soggetto abbia
preso l'iniziativa per acquisire al processo il mezzo di prova da cui risulta provato quel fatto.
Ulteriore problema è quello della ripartizione della fattispecie complessiva nei due settori dei fatti
costitutivi e delle eccezioni ai ni dell'applicazione della regola dell'onere della prova. È rilevante,
infatti, stabilire se la mancata prova di un certo fatto, che sia costitutivo, comporta il rigetto della
domanda, oppure se, essendo esso un'eccezione, non impedisce viceversa l'accoglimento della
domanda.
Sappiamo che la struttura della decisione è tale per cui l'accoglimento della domanda postula la
presenza di tutti gli elementi della fattispecie costitutiva e la mancanza di tutti gli elementi della
fattispecie impeditiva, modi cativa e estintiva, cosicché, quando si sia in presenza di una
fattispecie in cui manchi anche uno solo dei fatti costitutivi o sia presente anche una sola delle
eccezioni, la conseguenza necessitata è il rigetto.
Distinguere i fatti modi cativi ed estintivi dai fatti costitutivi è semplice perché i primi sono
successivi nel tempo ai fatti costitutivi.
Il problema riguarda i fatti impeditivi perché essi sono contemporanei ai fatti costitutivi. Sembra
un problema assurdo perché un fatto costitutivo fa sorgere il diritto mentre un fatto impedito lo
impedisce. Il punto è che la nozione di fatto giuridico è diversa da quella di fatto storico: un
medesimo fatto storico può essere sia costitutivo che impeditivo.
Non c’è un’unica soluzione ma vi sono una serie di criteri per decidere alcuni casi non risolti dal
legislatore.
Il primo criterio è la distinzione tra regola ed eccezione. Dalla struttura della norma si ricava che
il legislatore descrive la fattispecie in questi termini: al veri carsi di certi fatti si veri cano alcuni
e etti “tranne che”, “ad eccezione che”. Tutto ciò che segue tale locuzione è un fatto impeditivo.
Tuttavia questo criterio non copre tutte le ipotesi possibili.
Un altro criterio utilizzabile è quello che si trae dal brocardo “negativa non sunt probanda”: ciò
che “non è" non può essere oggetto di prova. Questo consente di enunciare un criterio, che opera
come norma di chiusura, e che costituisce il principio di cui il brocardo è una speci cazione. Il
criterio in questione è detto “della vicinanza alla fonte della prova”: essendo incerto se un fatto
appartiene alla fattispecie costitutiva oppure a quella impeditiva, si deve scegliere quella
soluzione, in virtù della quale diventa onerato della prova il soggetto per cui la prova è più facile,
cioè il soggetto più vicino alle fonti di prova.

All'interno delle eccezioni dobbiamo ora introdurre una distinzione che riguarda la dinamica del
processo. Mentre dal lato del convenuto tutte le eccezioni sono uguali, cioè sono sempre fatti
modi cativi, impeditivi e estintivi, scorrendo la normativa sostanziale ci rendiamo conto che, dalla
parte del giudice, non tutte le eccezioni sono uguali ma devono essere divise in due categorie:
- eccezioni rilevabili anche d’u cio o eccezioni in senso lato.
- eccezioni rilevabili solo dalla parte o eccezioni in senso stretto: il legislatore crea le eccezioni
in senso stretto quando vuole che l’interessato valuti l’opportunità di far valere quel certo fatto
impeditivo, modi cativo o estintivo e quindi voglia evitare l’operatività automatica di quel fatto.
Questo accade per esempio con la prescrizione, dove l’inerzia del titolare estingue il diritto ma il
legislatore ha lasciato alla controparte la scelta se avvalersi o meno di tale fatto estintivo.
Talvolta è il legislatore che indica in quale delle due categorie rientra l’eccezione. Se invece il
legislatore non quali ca l’eccezione, una soluzione può essere rintracciata nell’art. 112 cpc, che
a erma che “il giudice non può pronunciare d’u cio su eccezioni che possono essere proposte
soltanto dalle parti”. Dunque il giudice può pronunciarsi d’u cio su tutte le eccezioni che il
legislatore non riserva espressamente alla parte.

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Processo cumulato. L’accertamento incidentale

Un processo può essere oggettivamente cumulato quando comprende più di un oggetto, e


quindi più domande; oppure soggettivamente cumulato quando comprende più di due parti.
I tre principi fondamentali che reggono il processo oggettivamente cumulato sono:
- Autonomia processuale delle singole cause;
- Principio di acquisizione: la trattazione delle più cause cumulate è unica e gli atti compiuti in
relazione ad una di esse sono utilizzabili, in via di principio e salvo eccezioni, anche per le altre.
- Rilevanza dei nessi sostanziali: è il tipo di connessione sussistente fra i vari oggetti del
processo che determina l'applicazione delle regole che esamineremo, non lo strumento o
l'occasione, attraverso i quali il cumulo si è realizzato.

Il primo gruppo di nome che dobbiamo esaminare sono gli artt. 34, 35 e 36 cpc. Queste norme
sono collocate nella sezione dedicata alla modi cazione della competenza per ragioni di
connessione, quindi disciplinano il cumulo non in sé, ma per le speciali regole di competenza ad
esso applicabili. Occorre dunque separare quanto di speci co appartiene alla disciplina della
competenza da quanto invece riguarda l’istituto in sé.
Dell’art. 34 cpc abbiamo parlato in riferimento ai limiti oggettivi. Vediamone l’ambito di
applicazione.
L'art. 34 cpc parla di “una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla
competenza di un giudice superiore”: l'oggetto della previsione normativa è un quid (la questione
pregiudiziale) che deve per forza di cose consistere in un diverso oggetto della domanda e quindi
del processo (pertanto normalmente una diversa situazione sostanziale), perché solo ciò che è
suscettibile di costituire oggetto di domanda è suscettibile di essere attribuito alla competenza di
un giudice.
Questa considerazione preliminare permette di eliminare dall’ambito di tale articolo due fenomeni.
Da un lato, tutte le questioni di rito non possono essere ricomprese nella nozione di questione
pregiudiziale dell'art. 34 cpc, perché esse sono per de nizione di competenza del giudice adito.
Dall'altro lato, fuoriescono anche le questioni di merito che riguardano i singoli elementi della
fattispecie, cioè i fatti costitutivi e le eccezioni, e che non hanno la consistenza di un’autonoma e
diversa situazione sostanziale. Anche tali questioni di merito sono per de nizione di competenza
del giudice adito.
Nella ampia nozione di questione pregiudiziale, che ricomprende ogni punto controverso che il
giudice deve a rontare per decidere, sta la nozione più ristretta di questione pregiudiziale
rilevante ai sensi dell'art. 34. Essa è una species del genus, perché la questione pregiudiziale di
cui parla l'art. 34 cpc deve consistere in un’autonoma situazione sostanziale, in quanto solo le
autonome situazioni sostanziali possono appartenere alla competenza di un giudice diverso da
quello adito.
La situazione, oggetto del processo, è dipendente da un'altra situazione, che ne forma un
elemento della fattispecie: si tratta del rapporto di pregiudizialità-dipendenza. La situazione
sostanziale dedotta in giudizio vede come elemento della sua fattispecie l’esistenza/inesistenza di
un’altra situazione sostanziale.
Parlando dei limiti oggettivi abbiamo distinto la pregiudizialità in senso tecnico e in senso logico:
in questo secondo caso il giudicato sull’esistenza e quali cazione del rapporto si forma sulla base
della regola dell'antecedente logico necessario. Dobbiamo quindi escludere dalle ipotesi dell’art.
34. quelle che costituiscono la pregiudizialità logica, a cui si applicherà l’istituto della continenza.

Individuato l’ambito di applicazione nella pregiudizialità tecnica, occorre richiamare quanto detto
in tema di limiti oggettivi del giudicato: la cognizione del diritto pregiudiziale rimane mera
cognizione, tranne che vi sia una domanda di parte o un'esplicita previsione di legge la quale
stabilisca che il diritto pregiudiziale sia non soltanto conosciuto, ma anche deciso.
Pertanto, quando si proporrà una domanda che abbia ad oggetto il diritto pregiudiziale, ciò che il
primo giudice abbia detto di tale diritto nella motivazione della precedente sentenza non formerà
giudicato, perché tale sentenza ha deciso solo del diritto dipendente e ha semplicemente

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conosciuto del diritto pregiudiziale. Se, invece, c'è la volontà di legge o la domanda di parte che
investa il diritto pregiudiziale, questo diventa oggetto del processo, oggetto della decisione e su di
esso si forma il giudicato.
Proprio quando il diritto pregiudiziale diventa oggetto del processo si pongono problemi di
competenza perché bisognerà veri care tutti i presupposti processuali e le regole di competenza.
Per quanto riguarda la domanda di parte, essa deve essere proposta nei modi e nei tempi previsti
dai singoli modelli processuali.
Per quanto riguarda la previsione di legge, occorre che sia coordinata con il principio della
domanda ex art. 112 cpc: bisogna vedere se ci sono giusti cazioni su cienti per una
compressione del diritto di azione da parte del legislatore. In particolare, la compressione del
diritto di azione che ne scaturisce si giusti ca sulla base della natura delle situazioni sostanziali in
gioco, che sono situazioni indisponibili a rilevanza pubblicistica, e quindi si capisce come
l'ordinamento imponga una coerenza di giudicati che invece, nell'ipotesi normale, viene lasciata
alla volontà delle parti.

Per quanto riguarda le problematiche relative alla competenza, se non vi fosse l'art. 34 il giudice
dovrebbe dichiararsi incompetente per la causa relativa al diritto pregiudiziale: il simultaneus
processus non potrebbe realizzarsi. Per evitare ciò, l'art. 34 introduce una regola speciale di
competenza, stabilendo che le cause devono rimanere unite, cioè devono essere trattate da un
unico giudice, anche se ciò comporta la deroga alle norme ordinarie di competenza. Se la causa
pregiudiziale appartiene alla competenza di un giudice superiore (ipotesi espressamente
disciplinata dall'art. 34), il giudice originariamente adito rimette tutte e due le cause (quella
originaria e quella relativa al diritto pregiudiziale) al giudice superiore, assegnando alle parti un
termine per porre in essere l'atto di riassunzione, che non è una domanda ma un atto di impulso
processuale, e quindi può essere compiuto da una qualunque delle parti. La causa proseguirà,
dinanzi al giudice superiore, con due oggetti, che dovranno essere decisi entrambi con e cacia di
giudicato.
Se, invece, la causa pregiudiziale appartiene alla competenza di un giudice inferiore, il giudice
originariamente adito decide anche della causa pregiudiziale, quantunque di competenza di un
giudice inferiore.
L'assorbimento, da parte del giudice superiore, della competenza sulla causa che sarebbe di
competenza del giudice inferiore, opera sia per la competenza per valore sia per la competenza
per materia. È prevista anche una deroga alla competenza territoriale: infatti, se il giudice è
territorialmente competente per la causa dipendente originariamente proposta, ma non per quella
pregiudiziale, egli acquista la competenza territoriale derogata anche per la causa pregiudiziale,
se questa viene introdotta nel processo aperto dalla prima.

La compensazione

L'art. 35 cpc disciplina la compensazione. Prima di a rontare gli aspetti processuali, bisogna
chiarirne i presupposti sostanziali.
La compensazione è disciplinata dagli artt. 1241 ss. cc. Se fra due soggetti sussistono rapporti
incrociati di credito-debito per una quantità di cose fungibili (es. somme di denaro), i due rapporti
si estinguono vicendevolmente per le quantità corrispondenti.
La compensazione presuppone che la relazione credito-debito nasca da due rapporti distinti. Nel
caso in cui la relazione di dare-avere nasca all'interno di un unico rapporto, non si applica la
disciplina della compensazione.
La compensazione opera ipso iure (art. 1242 c.c.), ma richiede una manifestazione di volontà,
cioè occorre che il controcredito sia opposto in compensazione da uno dei due soggetti. Quando
uno dei due soggetti manifesta la volontà di utilizzare il proprio credito per estinguere il
controcredito altrui, l'e etto è retroattivo al momento in cui i due crediti sono venuti a
coesistenza, cioè sono divenuti ambedue esigibili.
La compensazione non può essere rilevata d’u cio dal giudice dal momento che deve essere la
volontà dell'interessato a creare il raccordo tra i due crediti.

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Passando ai pro li di diritto processuale, la compensazione è un modo di estinzione delle
obbligazioni oneroso perché per estinguere il diritto altrui occorre spendere il proprio; e
satisfattivo perché ciascuno vede sì estinto il proprio diritto ma contemporaneamente anche un
proprio obbligo.
Ciascun credito, sul piano del diritto sostanziale, si presenta in due dimensioni diverse: esso è
una situazione sostanziale perfetta, che il titolare può far valere come qualunque altra situazione
sostanziale; però, al tempo stesso, esso è un potenziale fatto estintivo di un diritto diverso. La
duplicità del modo di essere, sul piano sostanziale, dei due diritti corrisponde, sul piano del
processo, ad un duplice modo con cui ciascuno di essi può essere fatto valere.
Il credito è fatto valere come diritto, quando nel processo è oggetto di una domanda giudiziale;
al contrario, il credito è fatto valere come fatto estintivo del diritto altrui, quando nel processo è
oggetto di un’eccezione. Se è fatto valere come diritto, il soggetto può proporre la domanda in
un autonomo, separato processo, oppure proporla come causa riconvenzionale all'interno
dell'unico processo. In tal caso il controcredito è fatto oggetto di domanda, ancorché questa sia
proposta nello stesso processo: si ha così un'ipotesi di processo cumulato.
L'art. 35 parte, invece, dal presupposto che il controcredito sia usato come eccezione nel
processo che ha come oggetto dell’unica domanda il credito fatto valere dall’attore. Opporre il
credito come eccezione ha il solo scopo di far rigettare la domanda dell’attore: se il giudice ritiene
che il diritto dell'attore non è mai sorto, non esamina l'eccezione di compensazione, che viene
così assorbita. Quando invece il controdiritto è oggetto di domanda, questa non può essere
assorbita e dunque il giudice dovrà analizzarla in ogni caso.
Una di erenza fra l'eccezione di compensazione e le altre eccezioni sta nella vigenza del
principio della ragione più liquida. Secondo tale principio per rigettare la domanda non si
impone un ordine logico di esame delle varie questioni di merito e quindi per il rigetto della
domanda è su ciente che risulti fondata un'eccezione, anche senza l'accertamento della
sussistenza dei fatti costitutivi. Tale principio non si applica nei confronti dell'eccezione di
compensazione. Infatti il convenuto ha interesse a far esaminare l'eccezione di compensazione
per ultima, in modo che il giudice utilizzi il controcredito per respingere la domanda solo dopo
aver accertato l'attuale esistenza del diritto dell’attore. Ciò signi ca che l'eccezione di
compensazione è destinata ad essere assorbita ogni volta che il giudice ritenga che il credito
dell'attore non è attualmente esistente per una qualunque altra ragione.
Se il giudice assorbe l’eccezione di compensazione, non c’è alcuna pronuncia su di essa e quindi
il controcredito rimarrà impregiudicato per un successivo processo. Se invece il giudice giunge
alla conclusione che il credito originario è attualmente esistente allora dovrà esaminare
l’eccezione di compensazione e stabilire se il controcredito c’era o non c’era al momento della
coesistenza. Nel momento in cui il giudice valuta il controcredito, qualunque cosa decida, il
convenuto ha perso quella quantità del suo credito corrispondente a quella dell’attore.
La fattispecie disciplinata dall’art. 35 si pone solo quando il controcredito opposto in
compensazione come eccezione è maggiore del credito originario. In questo caso bisogna
stabilire se la statuizione del giudice riguardo l’esistenza o meno del controcredito forma giudicato
sulla parte rimanente rispetto al credito originario dell’attore. Quando il convenuto eccepisce in
compensazione un controcredito maggiore del credito dell'attore, egli "spezza" il suo credito in
due parti: la parte di entità equivalente al credito vantato dall'attore viene dedotta in giudizio; il
residuo ne resta fuori.
Questa scissione viene meno, per mere ragioni di economia processuale, se l’attore contesta
l’esistenza del controcredito. Se l'eccezione di compensazione è esaminata, e l'attore ha
contestato l'esistenza del controcredito, si ha la decisione con e cacia di giudicato dell'intero
controcredito; se l'attore non ha contestato, il giudicato investe solo la parte di controcredito
uguale al credito dell'attore, e il residuo non è pregiudicato. Quindi, nel successivo processo sul
residuo, se il credito è stato contestato, è e cace la precedente sentenza nella parte che accerta
o nega l'esistenza del controcredito. Se il controcredito non è stato contestato, nel successivo
processo sul residuo si riparte da zero.
L’art. 35 si occupa di quanto appena descritto nell’ottica della competenza. Finché il controdiritto
viene dedotto nel processo solo per la parte corrispondente al credito dell’attore non si pongono

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problemi di competenza; se invece viene dedotto interamente, può essere che il giudice,
competente per la somma minore corrispondente al credito dell’attore, non sia competente per la
somma maggiore corrispondente al controdiritto. Tale problema si pone non tanto per il tribunale,
che non ha limiti di competenza per valore, quanto per il giudice di pace. Dunque l’art. 35 fa
capire indirettamente che il giudicato sull’intero controcredito dipende dalla contestazione
dell’attore: se la domanda originaria dell'attore è fondata su titolo non controverso o facilmente
accertabile, il giudice decide della domanda dell'attore e rimette al giudice superiore la decisione
sull'eccezione di compensazione. Abbiamo qui un’ipotesi tipica di sentenza di condanna con
riserva delle eccezioni.
La tecnica adottata dal legislatore ha la funzione di accelerare la tutela dell'attore, scindendo la
decisione del giudice in due parti: con la prima sentenza, il giudice decide dell'esistenza del diritto
accantonando l'eccezione di compensazione, che diviene oggetto di istruttoria, con cognizione
ordinaria ed in modo pieno, nella seconda fase del processo, che termina anch'essa con sentenza
la quale decide in via de nitiva del diritto fatto valere, tenendo conto di quanto a ermato nella
prima sentenza (che il giudice della seconda fase non può modi care o revocare) e di quanto
emerge dall'istruttoria sull'eccezione di compensazione.
Nel caso in cui la domanda dell'attore è contestata e non è di veloce decisione, il giudice adito
rimette la causa al giudice superiore, che deciderà unitariamente della domanda e dell'eccezione
di compensazione. In questo caso il giudice potrà anche subordinare l’esecuzione della sentenza
con cui decide il credito, alla prestazione di una cauzione. Abbiamo detto che il convenuto può
utilizzare il controcredito nel processo come eccezione di compensazione oppure farlo valere in
un separato processo. Il vantaggio dell'eccezione di compensazione sta, per il convenuto, nel non
essere costretto a corrispondere all'attore una somma che egli dovrà recuperare in un separato
processo, quando farà valere il suo controdiritto. Il convenuto vuole evitare il passaggio di denaro
da lui all'attore e, successivamente, un passaggio inverso di denaro dall'attore a lui. Infatti
possono sorgere problemi ove il patrimonio dell'attore non dia su cienti garanzie: il convenuto
può correre il rischio di non trovare nel patrimonio dell'attore neppure ciò che lui ha pagato.
La cauzione serve a garantire il convenuto non già di avere il suo, ma di recuperare quello che ha
pagato all'attore in virtù della sentenza di condanna con riserva delle eccezioni.

Causa riconvenzionale

La causa riconvenzionale (art. 36 cpc) è l'ipotesi più frequente tra le domande nuove. Bisogna
distinguere le nuove domande, proposte in corso di causa, che appartengono alla competenza
del giudice adito, e quelle che non appartengono.
L’art. 36 si applica solo nell’ipotesi in cui la causa riconvenzionale non appartenga alla
competenza del giudice adito: se il controdiritto appartiene alla competenza di altro giudice, esso
è deducibile, come causa riconvenzionale, nel processo già instaurato solo alla condizione che tra
diritto originario e controdiritto esista il tipo di connessione descritto all'art. 36 cpc. Tale
connessione incide sul potere di separazione, che può essere esercitato solo a determinate
condizioni che variano a seconda del tipo di connessione tra le cause cumulate. Se le cause non
sono connesse, la separazione può avvenire ex art. 104 cpc.
L’art. 36 prevede la connessione per titolo e per eccezione: per "titolo" si intende la fattispecie
costitutiva del diritto fatto valere in giudizio dall'attore, e per eccezione i fatti impeditivi,
modi cativi ed estintivi di questo stesso diritto. La connessione rispetto ai fatti costitutivi, o per
titolo, si ha quando le rispettive fattispecie costitutive hanno in comune almeno uno dei fatti che le
compongono; la stessa cosa accade se hanno in comune la fattispecie estintiva.
Legato al tema della connessione si pone quello dell’incompatibilità: due diritti sono tra loro
incompatibili quando l'esistenza dell'uno osta all'esistenza dell'altro diritto e viceversa. Già la
compensazione presenta un particolare caso di incompatibilità ma la di erenza fra incompatibilità
in senso proprio e compensazione è la seguente: nella compensazione l'e etto estintivo
incrociato è bilaterale, per cui ciascun credito estingue l'altro; invece nella incompatibilità, pur
essendo potenzialmente ciascun diritto fatto impeditivo/estintivo dell'altro e pur essendoci un
collegamento incrociato analogo a quello già visto per la compensazione, tuttavia l'e cacia

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impeditiva/estintiva opera in un senso solo: più esattamente nel senso stabilito dall'ordinamento
sulla base dei criteri di prevalenza. Inoltre nell’incompatibilità in senso proprio si ha l'estinzione di
un diritto e la sopravvivenza dell'altro; nella compensazione, invece, si ha l'estinzione di entrambi
per le quantità corrispondenti.
Dobbiamo ora esaminare la c.d. eccezione riconvenzionale, che ha alcuni punti in comune con
l'eccezione di compensazione, perché ambedue si fondano sul fenomeno della incompatibilità.
Nell’eccezione riconvenzionale il controdiritto serve solo a far rigettare la domanda dell'attore, ma
non è accertato con e cacia di giudicato; nella causa riconvenzionale il controdiritto è accertato
con e cacia di giudicato.
Le eccezioni di cui abbiamo parlato tradizionalmente si de niscono riconvenzionali perché
l’alternativa tra fondare sulla stessa realtà sostanziale una domanda oppure un’eccezione è
possibile solo là dove la realtà sostanziale consista non in un mero fatto storico, ma in un diritto.
Nel caso in cui la realtà sostanziale sia costituita da un mero fatto storico, essa può essere
acquisita al processo solo come eccezione.
Nonostante il legislatore non sia sempre preciso nella terminologia adottata, bisogna distinguere
la causa riconvenzionale dalla domanda riconvenzionale. La causa fa riferimento al tipo di
connessione (art. 36) che deve sussistere fra le due cause, sempre che la loro trattazione
cumulata possa operarsi anche in deroga alle regole ordinarie di competenza. Il termine “causa”
quindi indica il contenuto.
Il termine "domanda riconvenzionale" indica la forma dell’atto con il quale si può proporre una
qualsiasi domanda nuova nel corso del processo, e che si caratterizza per essere privo della
vocatio in ius, cioè dell’instaurazione del contraddittorio. In particolare, la forma riconvenzionale si
può utilizzare per proporre domande nuove (qualunque domanda nuova) in corso di causa, solo
se il soggetto, nei cui confronti si propone tale domanda, ha già assunto la qualità di parte.
Altrimenti, per proporre la domanda nuova occorre utilizzare la chiamata in causa del terzo.

Riguardo ai problemi di competenza, con l'art. 36 il legislatore introduce delle regole speciali di
competenza, che derogano alle regole ordinarie, al ne di consentire il simultaneus processus. Se
il giudice adito non è competente per la causa riconvenzionale, si applicano gli artt. 34 (tutte le
cause sono trattate insieme dallo stesso giudice) e 35 (le due cause o sono trattate insieme dallo
stesso giudice oppure, se separate, sono trattate e decise da giudici diversi: quello inferiore la
causa originaria e quello superiore la causa riconvenzionale.)
Una deroga «invisibile» alla competenza si può avere allorché il giudice superiore decida una
causa riconvenzionale di competenza del giudice inferiore: in tal caso, la realizzazione del
simultaneus processus comporta una deroga alla competenza della causa riconvenzionale. Il
criterio di scelta tra separazione o realizzazione del processo simultaneo è contenuto nell’art. 40
cpc poiché la deroga alla competenza riguarda solo il giudice di pace e il tribunale.
Qualora la causa riconvenzionale sia connessa (per titolo o per eccezione) alla causa principale,
ed una di esse appartenga alla competenza del tribunale, mentre l'altra appartiene alla
competenza del giudice di pace, entrambe devono essere trattate dal tribunale.
Conseguentemente, se la causa principale è stata proposta al giudice di pace, perché di sua
competenza, egli deve, anche d’u cio, pronunciare la connessione e rimettere entrambe le cause
al tribunale; se, invece, la causa principale è stata proposta al tribunale, perché di sua
competenza, e quella riconvenzionale è di competenza del giudice di pace, il tribunale decide
anche della riconvenzionale, in deroga alle regole di competenza proprie di quest’ultima.
Qualora la causa riconvenzionale non sia invece connessa alla causa principale, ciascuna di esse
sarà trattata dal giudice competente secondo le regole ordinarie.

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Litisconsorzio necessario

La pluralità di parti disciplinata dall'art. 102 cpc si caratterizza per il fatto che la presenza nel
processo di più di due soggetti è necessaria, nel senso che la pronuncia di merito è invalida ove
tutti coloro, che devono esserlo, non siano divenuti parti del processo.
Siamo, quindi, in presenza di un altro presupposto processuale: l'integrità del contraddittorio in
presenza di un litisconsorzio necessario.
Tuttavia la norma descrive il fenomeno ma non indica le ipotesi in cui esso si veri ca. Per quanto
riguarda la descrizione del fenomeno, il punto di partenza è la necessità di una decisione unica
che abbia e etto nei confronti di più soggetti. Per individuare i presupposti in presenza dei quali si
veri ca questo e etto, è opportuno prendere in esame due ipotesi di litisconsorzio necessario ex
lege:
- art. 784 cpc sullo scioglimento delle comunioni: ciascun contitolare ha diritto pieno su tutto il
bene, ma tale diritto è limitato dal diritto degli altri. La divisione opera in modo che a ciascuno
dei contitolari sia assegnato in piena proprietà una porzione del bene. Una divisione, se non è
e cace nei confronti di tutti i contitolari, non è una divisione dunque se si vuole una divisione,
si deve avere una sentenza che sia e cace nei confronti di tutti i contitolari.
- art. 247 cc in tema di disconoscimento di liazione: un soggetto chiede il disconoscimento
della sua qualità di padre. Il processo deve svolgersi nel contraddittorio del padre
disconoscente, della madre e del glio. Infatti non è giuridicamente possibile che un soggetto
chieda il disconoscimento della sua paternità senza in uire sulla situazione giuridica della
madre e sul rapporto di liazione tra madre e glio. Il disconoscimento si produce solo se opera
anche nei confronti del rapporto tra madre e glio.
Alla base delle due ipotesi esaminate sta il combinarsi di un fenomeno sostanziale e di un
fenomeno processuale. Il fenomeno sostanziale è l'unitarietà della situazione sostanziale o una
pluralità di situazioni sostanziali inscindibili. Il fenomeno processuale consiste negli e etti che
l'attore chiede al giudice: tali e etti incidono necessariamente nella sfera giuridica di tutti i titolari
della situazione unitaria. Se la pronuncia non ha e etti nei confronti di tutti, l'attore non ottiene
quello che vuole.
Parte della dottrina ha sostenuto che il litisconsorzio necessario si ha solo nei casi previsti dalla
legge in quanto nel nostro processo vige il principio della separazione dei ruoli, per cui chi
emette la decisione non ha il potere di individuare l’oggetto della sua decisione: il giudicante non
può proporre la domanda. Quindi se l’attore chiedesse un certo tipo di provvedimento e il giudice
imponesse di agire nei confronti di soggetti diversi da quelli individuati dall’attore, si violerebbe il
principio della domanda. Tuttavia si potrebbe replicare che la necessità del litisconsorzio si fonda
sulla base della stessa domanda dell’attore e, in particolare, sulla base degli e etti da esso
richiesti.
Il fatto che l’art. 102 preveda il contraddittorio è nell’interesse dell’attore perché altrimenti la
sentenza non avrebbe e etto nei confronti del terzo e in tal caso l’attore non otterrebbe tutela.
Un’altra ipotesi di litisconsorzio necessario è la costituzione di servitù coattiva su un fondo
servente che sia in comproprietà. Qui c’è litisconsorzio perché una situazione di tipo reale come la
servitù, con le caratteristiche della perpetuità ed opponibilità a qualunque successivo proprietario,
presuppone che la servitù sorga nei confronti di tutti i comproprietari. Pertanto se l'attore chiede
la costituzione di una servitù sul fondo in comproprietà e non chiama in giudizio gli altri
comproprietari, la servitù non può essere costituita, perché essa può sorgere solo da una
sentenza che abbia e etti nei confronti di tutti.
Altra ipotesi tipica di litisconsorzio necessario si ha quando si chiede lo scioglimento di un
rapporto plurilaterale, come un contratto di società. Se il soggetto vuole svincolarsi dal rapporto,
signi ca che vuole svincolarsi nei confronti di tutti; allora è necessaria una sentenza e cace verso
tutti, e quindi, per il principio del contraddittorio, tutti debbono essere chiamati a partecipare al
processo.

C’è un lone di dottrina e giurisprudenza che limita il litisconsorzio alle pronunce costitutive. Si
sostiene che la sentenza di mero accertamento non esige il litisconsorzio, perché tale sentenza

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non modi ca la realtà sostanziale, e l'accertamento di ciò che esiste può essere e ettuato anche
nel contraddittorio di due sole parti.
Ma la limitazione non convince, anche se in essa c'è un fondo di verità. Abbiamo visto, trattando
dell'interesse ad agire, come di solito la domanda di mero accertamento fondi la sua utilità
sull'incertezza, prodotta dalla contestazione altrui. Ora, è chiaro che in tali ipotesi è su ciente che
la sentenza abbia e etti nei confronti di colui dal quale proviene la contestazione: e ciò anche se
si tratta di situazione sostanziale unica con più soggetti.

Il litisconsorzio necessario può avere anche un fondamento esclusivamente processuale, dato


dalla legittimazione straordinaria, la quale si caratterizza per il fatto che un soggetto è autorizzato
dalla legge a far valere in giudizio un diritto altrui. Le regole di imputazione delle sentenze di
merito di eriscono dalle regole di imputazione delle sentenze di rito. In queste ultime gli e etti si
imputano alla parte processuale, intesa nel senso di destinataria degli e etti (ad es., il
rappresentato), mentre gli e etti delle sentenze di merito si imputano ai titolari della situazione
oggetto del processo; quindi, nel processo condotto dal legittimato straordinario, gli e etti di
merito si imputano ai titolari della situazione oggetto della decisione (legittimato ordinario e
controparte) e non anche al legittimato straordinario.
La posizione processuale dei titolari della situazione sostanziale dedotta in giudizio da un
legittimato straordinario può essere ricavata dall’art. 2900 cc in tema di surrogazione. La norma
prevede il litisconsorzio necessario per il rispetto del principio del contraddittorio, in quanto gli
e etti di merito della sentenza sono imputati in primis al debitore surrogato perché suo è il diritto,
oggetto del processo. Quindi, per il principio del contraddittorio, costui deve partecipare al
processo per avere la possibilità di difendersi.
Vi è una fondamentale di erenza tra il litisconsorzio che ha fondamento sostanziale e quello che
ha fondamento processuale. Nel secondo caso c'è litisconsorzio solo se l'iniziativa è presa dal
legittimato straordinario, mentre se l'iniziativa è presa dal legittimato ordinario non c'è
litisconsorzio. Invece, se il fondamento è sostanziale c'è sempre il litisconsorzio, chiunque prenda
l'iniziativa processuale.

La realizzazione del litisconsorzio dal lato passivo, e cioè quando la domanda deve essere
proposta contro più soggetti, non presenta problemi di rilievo: l'attore, con l'atto introduttivo del
processo, conviene in giudizio tutti i litisconsorti. Alcune di coltà presenta, invece, il litisconsorzio
necessario dal lato attivo, cioè il caso di più attori litisconsorti necessari. Le alternative che
astrattamente si possono prospettare sono le seguenti: o si rende necessaria la proposizione della
domanda da parte di tutti i litisconsorti necessari attori, oppure è su ciente che uno solo di essi
proponga la domanda. La soluzione corretta è la seconda. Ciascun litisconsorte è pienamente
legittimato da solo a proporre la domanda con e etto nei confronti di tutti. Si ha, dunque, una
legittimazione disgiuntiva; gli altri litisconsorti, però, devono essere vocati in ius. Tutto ciò dal
punto di vista processuale. Dal punto di vista del diritto sostanziale l'atteggiamento che gli altri
litisconsorti assumono nel corso del processo incide non sul rito, ma sul merito della causa.
Gli altri litisconsorti chiamati a partecipare potranno a ancarsi, ma potranno anche opporsi alla
domanda dell'attore.
Qualora si oppongano, occorre stabilire, sul terreno del diritto sostanziale, se, a nché il giudice
possa accogliere la domanda, è necessario il consenso di tutti i contitolari della situazione
oggetto del processo, oppure se basta la volontà della maggioranza, oppure anche di uno
soltanto di essi.
Per quanto riguarda il regime processuale dell'eventuale difetto di litisconsorzio necessario,
l'integrazione del contraddittorio, come sappiamo, costituisce un presupposto processuale, il cui
difetto, secondo le regole generali, è rilevabile anche d’u cio in ogni stato e grado del processo.
Il difetto del contraddittorio può essere sanato, prima ancora che il difetto sia rilevato,
dall'iniziativa del litisconsorte pretermesso: tale intervento volontario fuoriesce dall’ambito dell’art.
105, costituendo un tipo di intervento a sé. Egli può intervenire spontaneamente per tutto il corso
del processo, senza alcuna limitazione.

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Una volta rilevato il vizio del contraddittorio, in quanto il litisconsorte né è stato convenuto in
giudizio né si è spontaneamente costituito, il giudice, poiché si tratta di vizio sanabile, ne ordina la
citazione, che può avvenire ad opera di una qualunque delle parti. Ciò è possibile proprio perché
l'integrazione del contraddittorio non costituisce proposizione di una nuova domanda, ma
semplice atto di impulso processuale, che sviluppa e dà attuazione alla domanda originariamente
proposta. La conseguenza della mancata integrazione del contraddittorio, quando il giudice la
dispone, è prevista dall’art. 307 cpc, che stabilisce l’estinzione del processo. Se il difetto è
rilevato in sede di impugnazione, il giudice dell’impugnazione, che dichiara il vizio di
contraddittorio, deve annullare la sentenza impugnata, e rinviare la causa al giudice di primo
grado. Il processo, in tal caso, può essere riassunto in primo grado, e riprende dall’inizio.
Gli e etti della domanda sono fatti salvi: essi decorrono dal momento della proposizione della
prima domanda, e non dal momento in cui il vizio è sanato. La sanatoria opera quindi ex tunc.

Vediamo ora l'e cacia della sentenza, passata formalmente in giudicato, emessa in assenza di
uno o più litisconsorti necessari. Le soluzioni astrattamente possibili sono tre: la sentenza ha
e etti nei confronti di tutti; la sentenza non ha e etti nei confronti di alcuno; la sentenza ha e etti
soltanto tra le parti e non nei confronti del litisconsorte pretermesso. L'ultima soluzione non è
accettabile perché, se si è in presenza di litisconsorzio necessario, non è possibile che la
sentenza abbia e etti solo nei confronti di alcuni e non nei confronti di altri.
In base alla prima ipotesi, il litisconsorte pretermesso, in quanto terzo, a di erenza delle parti,
ha lo strumento dell'opposizione di terzo: con tale mezzo può ottenere l’annullamento della
sentenza emessa in sua assenza. La seconda soluzione considera invece la sentenza come
ine cace. Secondo tale prospettazione, dunque, essendo la sentenza ine cace nei confronti di
tutti, chiunque può riproporre la domanda e, di fronte all'eccezione di precedente giudicato, può
replicare rilevando l'ine cacia della precedente sentenza. La sentenza, quindi, ha il regime
processuale della sentenza inesistente.

Litisconsorzio facoltativo

Il litisconsorzio facoltativo è regolato dall'art. 103 cpc. Anche in questo caso si ha la


partecipazione di più soggetti allo stesso processo, o dal lato attivo o da quello passivo, oppure
anche da ambedue. Mentre nel litisconsorzio necessario il processo non può prescindere dalla
presenza di tutti i soggetti necessari, ciò non si veri ca per il litisconsorzio facoltativo. Si ha qui la
possibilità della trattazione unitaria di più cause senza che questa sia, però, necessaria.
A nché la trattazione unitaria delle più cause sia possibile la legge pone delle condizioni: la
prima e principale è enunciata dallo stesso art. 103, il quale indica come necessaria una
connessione per oggetto o per titolo delle cause cumulate. In questo caso si ha il litisconsorzio
facoltativo proprio, al quale si contrappone il litisconsorzio facoltativo improprio, che si ha
quando, per la decisione delle più cause cumulate, si rende necessaria la risoluzione di identiche
questioni.
La funzione del litisconsorzio facoltativo è duplice: di economia processuale e poi di
armonizzazione delle decisioni in quanto si evita il contrasto di accertamenti.
Anche per il litisconsorzio facoltativo, come per le altre ipotesi di cumulo, la sussistenza dei
presupposti processuali va valutata singolarmente in relazione ad ogni causa cumulata.
Per quanto attiene alla competenza, l'art. 33 cpc a erma che è possibile e ettuare il cumulo
delle cause derogando alle regole di competenza territoriale. A sua volta, l'art. 103 consente
implicitamente anche la deroga alla competenza per valore. A erma detta norma che, se il
cumulo viene sciolto, sono rimesse al giudice inferiore le cause di competenza di quest'ultimo.
Ciò presuppone necessariamente che, per realizzare il cumulo, si sia derogato anche alla
competenza per valore. La deroga alla competenza è possibile solo per il litisconsorzio facoltativo
proprio: perché l'art. 33 esige, per la deroga alla competenza, l'esistenza di una connessione per
l'oggetto o per il titolo.

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Quando la decisione delle più cause dipende dalla risoluzione di questioni identiche, il cumulo è
possibile solo se tutte le cause convergono, secondo le ordinarie regole di competenza, di fronte
allo stesso u cio giudiziario.
Inoltre è possibile che le cause si scindano successivamente. La scissione comporta o la
decisione delle cause separate ad opera di u ci giudiziari diversi, oppure la loro decisione ad
opera dello stesso u cio giudiziario ma con processi e sentenze separate.
La separazione è possibile:
- quando vi è l’istanza di tutte le parti;
- quando è il giudice a decidere di separare le cause sulla base di una esigenza puramente
processuale;

Figura intermedia tra litisconsorzio necessario e facoltativo è il litisconsorzio quasi necessario o


unitario. Esso è facoltativo quanto all’instaurazione: i più soggetti, come nel litisconsorzio
facoltativo ed al contrario del litisconsorzio necessario, non sono parti necessarie del processo.
Tuttavia, se la pluralità di parti si realizza, il litisconsorzio è necessario quanto alla prosecuzione: la
decisione deve essere necessariamente unica per tutti i litisconsorti. Ciò, ovviamente, comporta
l'impossibilità della separazione di cui all'art. 103. Si ha litisconsorzio unitario quando ciascuno
degli interessati è legittimato a dedurre in giudizio da solo l'intera situazione sostanziale
controversa, senza che sia necessaria la partecipazione al processo degli altri. Gli e etti della
decisione peraltro si producono, secondo la previsione normativa, anche nei confronti di chi non
ha partecipato al processo.
Una delle ipotesi di litisconsorzio necessario è l’annullamento della deliberazione di una spa con
e etto rispetto a tutti i soci e ciascun legittimato può impugnare la deliberazione con e etti per
tutti, perché la sentenza vincolerà tutti i soci.
Nel litisconsorzio facoltativo, l'attività processuale che le parti svolgono in relazione ai fatti comuni
può essere utilizzata per la decisione di tutte le cause; fatta eccezione, però, per gli atti che
comportano l'esercizio di un potere riservato alla parte, e che non si comunicano agli altri
litisconsorti. Invece nel litisconsorzio unitario (come anche in quello necessario) la soluzione è
invertita: posto che la decisione è unica per tutti, anche gli atti che costituiscono esercizio di un
potere riservato alla parte si comunicano alle altre.

Intervento volontario

L’intervento volontario è disciplinato dall’art. 105 cpc, che prevede tre tipi di intervento.

In primo luogo l’interventore fa valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all’oggetto o
dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. Prende il nome di intervento generale ad
excludendum. Il diritto fatto valere deve avere tre caratteristiche:
1. Autonomia: il diritto è autonomo quando il suo titolare lo può far valere in giudizio
autonomamente, cioè quando la sentenza che sarà emanata in quel processo, ove il terzo non
intervenisse, non lo vedrebbe vincolato ai suoi e etti. Quindi signi ca gestione processuale
autonoma del proprio diritto.
L’autonomia del diritto si ha in due ipotesi: la prima si veri ca quando il diritto del terzo non è
dipendente, sul piano del diritto sostanziale, da quello delle parti, o perché acquistato a titolo
originario o perché acquistato a titolo derivativo ma da un quarto soggetto. In questi due casi la
emananda pronuncia è irrilevante per il terzo, in quanto egli rientra nella categoria dei terzi
indi erenti. La seconda ipotesi di autonomia si veri ca quando la situazione del terzo è
dipendente, sul piano del diritto sostanziale, da quella oggetto del processo, ma è sorta prima
della litispendenza, onde il terzo è titolare di una situazione sostanzialmente dipendente da quella
oggetto del processo, ma processualmente autonoma, perché l'emananda sentenza non lo
vincola.
Non sono invece titolari di un diritto autonomo, e quindi non possono intervenire in via principale, i
terzi con titolo anteriore alla litispendenza, ma vincolati agli e etti della pronuncia altrui perché

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titolari di una situazione sostanziale permanentemente dipendente da quella oggetto del
processo.
2. Incompatibilità: può essere totale o parziale. Infatti la tutela del terzo può non escludere in toto
la tutela delle parti ed è su ciente anche un’incompatibilità parziale. L'incompatibilità va, dunque,
intesa in senso ampio, come situazione che, se esiste, esclude in tutto o in parte la tutela richiesta
dalle parti originarie. In particolare, l'incompatibilità si ha quando l'esistenza di una situazione
sostanziale è fatto impeditivo o estintivo dell’altra. il diritto dell'interventore è incompatibile con
quello oggetto del processo quando l'esistenza del suo diritto è fatto impeditivo o estintivo del
diritto fatto valere nel processo stesso. Qui l'incompatibilità ha una dimensione trilaterale (attore -
convenuto - interventore), ma oggettivamente riguarda sempre due diritti: quello fatto valere
dall'attore e quello fatto valere dall'interventore.
3. Prevalenza: è una conseguenza dell’incompatibilità perché determina in che direzione opera la
potenzialità impeditiva o estintiva. In ordine alla prevalenza valgono due principi fondamentali per
risolvere il con itto fra diritti incompatibili, principi che sono diversi a seconda che i soggetti in
contrasto abbiano o meno un comune dante causa.
Se entrano in contrasto due acquisti a titolo derivativo che abbiano origine (anche mediata) da
un comune dante causa, tendenzialmente prevale quello acquistato per primo. La soluzione è
solo tendenziale perché in certi casi occorre non tanto che il diritto sia stato acquistato per primo,
quanto piuttosto che sia stato conservato, cioè che sia stato trascritto per primo l'atto da cui il
diritto deriva.
Se i due soggetti in con itto non hanno un dante causa comune, allora, per risolvere il con itto,
diviene indispensabile far capo ad un acquisto a titolo originario dei soggetti stessi o di un loro
dante causa. In tal caso è l'ultimo acquisto a titolo originario che prevale sui precedenti.

La posizione processuale dell’interventore è del tutto autonoma da quella delle parti. Egli infatti
può compiere tutti gli atti processuali a tutela della propria situazione sostanziale come un
qualsiasi attore o convenuto di quel processo. La pronuncia, stante l'incompatibilità fra i diritti, o
tutela l'interventore o tutela una delle parti. Il cumulo derivante dall'intervento principale non è
soggetto a separazione, perché il terzo propone domanda nei confronti di entrambe le parti;
quindi ciascuno è in lite con gli altri.

In secondo luogo, l’interventore fa valere un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo
dedotto nel processo medesimo nei confronti di alcune delle parti originarie. Prende il nome di
intervento adesivo autonomo. Ha gli stessi presupposti del litisconsorzio facoltativo ma si
realizza in itinere, cioè in corso di causa, anziché attraverso un unico atto introduttivo.
I poteri processuali di chi interviene, come accade nell’intervento principale ad excludendum,
sono poteri pieni in relazione alla situazione sostanziale fatta valere in via di intervento. Per quanto
riguarda gli e etti della sentenza in relazione alle varie cause, si deve approfondire quanto già
accennato in tema di litisconsorzio facoltativo.
La pronuncia relativa ad una delle domande proposte non rileva per l'altra. Trattandosi di cause
parallele, il giudice può accogliere una domanda e rigettare l'altra, senza che, nel decidere di una,
debba tener conto dell'esito dell’altra. Ciò contrariamente a quanto accade quando tra i più diritti
oggetto del processo vi sia un nesso di pregiudizialità-dipendenza.

In terzo luogo, l’interventore partecipa in via adesiva al processo senza proporre una propria
domanda, ma interviene a sostegno delle ragioni di una delle parti perché vi ha un proprio
interesse. Prende il nome di intervento adesivo dipendente. Nei due casi precedenti si veri ca
un aumento dell'oggetto del processo (si parla allora di intervento innovativo); in questo caso
invece ciò non accade e quindi questo intervento non è innovativo. La situazione del terzo,
pertanto, deve essere giuridicamente protetta: non può, ad es., proporre intervento adesivo
dipendente il c.d. interessato di fatto, perché il suo interesse appunto non è giuridico, non è
riconosciuto dall’ordinamento.

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Esempio: Tizio, che tutti gli anni viene invitato a trascorrere le vacanze al mare in casa di un
amico, è pregiudicato solo di fatto da una sentenza che nega all'amico il diritto di proprietà sulla
casa al mare. Egli, dunque, non può intervenire nel processo relativo alla proprietà della casa.
L'interventore in via adesiva dipendente è colui che, essendo titolare di un diritto o di un obbligo,
riceve pregiudizio dalla pronuncia emessa fra le parti del processo. Ciò accade quando la
pronuncia è e cace nei suoi confronti, ossia nelle ipotesi in cui la situazione del terzo, pur sorta
prima della proposizione della domanda, in virtù di un nesso di dipendenza permanente è esposta
agli e etti della pronuncia relativa alla situazione permanentemente pregiudiziale.
Per quanto riguarda i poteri processuali del terzo intervenuto, è chiaro che egli non ha pieni poteri
in quanto gli mancano tutti i poteri processuali che si ricollegano alla titolarità della situazione
controversa. Il terzo può fare allegazioni e proporre eccezioni, comprese quelle riservate alla
parte; può poi addurre prove a sostegno delle ragioni della parte.
Per quanto riguarda i pro li funzionali dell’istituto, l’intervento adesivo del terzo titolare di una
situazione dipendente serve qualora l’interventore ritenga insu ciente la difesa della parte
adiuvata in relazione alla situazione dedotta in giudizio: intervenendo egli può integrare la difesa
della parte. In sostanza, l'intervento adesivo dipendente costituisce l'azione surrogatoria applicata
al processo.
Parte della dottrina ritiene che l'intervento adesivo dipendente possa essere e ettuato anche dal
terzo titolare di una situazione collegata da un nesso di pregiudizialità-dipendenza istantaneo con
quella oggetto del processo: quindi dal terzo che non è vincolato dalla sentenza altrui. In tali
ipotesi, l'interesse all'intervento non sta nell'incidere sul contenuto di una sentenza che ha
comunque e etti nei suoi confronti anche se egli non interviene, quanto nel cercare, intervenendo,
di ottenere una sentenza favorevole alla parte (e di ri esso anche a lui) sottomettendosi, con
l’intervento, agli e etti della sentenza.
Per quanto riguarda i poteri processuali dell'interventore, si rinvia a quanto già visto a proposito
dell'intervento principale. La di erenza sta unicamente nel fatto che l'interventore principale, oltre
ai poteri sul rapporto altrui, ha anche e principalmente quelli sul rapporto proprio, mentre
ovviamente l'interventore adesivo dipendente, non deducendo in giudizio un rapporto proprio,
manca di questi ultimi poteri processuali.

Se l'intervento del terzo è consentito solo in limine litis, non si pone alcun problema: i poteri, che
in astratto sono conferiti all'interventore, possono senz'altro essere da costui in concreto spesi, in
quanto la sua partecipazione al processo o avviene n dall'inizio, oppure non avviene più. Se, al
contrario, è consentito al terzo di intervenire anche a processo inoltrato, bisogna capire se e quali
poteri, che l’interventore in astratto ha, sono in concreto spendibili in virtù del fatto che egli
interviene quando il processo si trova ormai in uno stato più o meno avanzato di svolgimento.
L’art. 268 cpc prevede che l’intervento può aver luogo no all’udienza di precisazione delle
conclusioni e che l’interventore (tranne il litisconsorte necessario pretermesso) non può compiere
atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti alle altre parti. A questo punto bisogna
distinguere a seconda che si tratti di un intervento innovativo oppure non innovativo.
Nel primo caso, i poteri del terzo che interviene subiscono solo in minima parte le preclusioni che
si sono già veri cate per le parti. Egli, infatti, con l'intervento deduce in giudizio una propria
situazione sostanziale, proponendo una vera e propria domanda. Ora, le preclusioni già
veri catesi per le parti potrebbero colpire il terzo solo in quanto egli voglia compiere atti riferibili
alla situazione sostanziale dedotta in giudizio dalle parti originarie; non possono invece colpirlo in
quanto egli compia atti riferibili alla situazione da lui dedotta in giudizio con la domanda di
intervento.
Tuttavia la giurisprudenza maggioritaria è di opinione diversa, ritenendo l’interventore vincolato
alle preclusioni istruttorie già maturate per le parti.
Diversa è invece la situazione dell’intervento adesivo dipendente. Per de nizione il terzo interviene
con riferimento ad una situazione sostanziale altrui, cercando di in uire sulla decisione relativa a
tale diritto altrui. I suoi atti quindi necessariamente si riferiscono all'unico e originario oggetto del
processo. L'interventore adesivo dipendente sembrerebbe quindi incorrere nelle preclusioni già
maturate per le parti. Questo vuol dire che se interviene dopo l’udienza ex art. 183 cpc, non può

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più proporre allegazioni né svolgere attività istruttoria. In questo modo però il terzo rimarrebbe
privo di tutela perché è comunque soggetto agli e etti della sentenza senza potersi difendere.
Dunque l’art. 153 cpc consente alla parte che dimostra di essere incorsa nelle preclusioni per
causa a lei non imputabile, di essere rimessa in termini. Qui, se si considera che il terzo è in grado
di rendersi conto dell'opportunità del suo intervento solo allorché la parte adiuvata non si difende
in modo adeguato, si vede che qui si può applicare la stessa ratio dell'art. 153 cpc.
Esempio: se un debitore è convenuto in giudizio da un terzo per l’accertamento della proprietà di
un bene, il creditore ha motivo di intervenire in via adesiva dipendente solo nel caso in cui il
debitore, ad es. ometta di allegare e/o chiedere di provare l'usucapione del bene stesso. Ma di ciò
il creditore può rendersi conto solo a processo inoltrato, e cioè una volta scattate per la parte
adiuvata quelle preclusioni che impedirebbero anche a lui, se intervenisse, di provare
l’usucapione.
Allora si deve concludere che l'interventore adesivo dipendente, soggetto agli e etti
dell'emananda sentenza, può compiere atti che sono preclusi alle parti originarie, in quanto egli
per necessità incorre nelle preclusioni e nelle decadenze per causa a lui non imputabile: prima
che le preclusioni e le decadenze si veri chino, non ha motivo di tutelare la propria posizione. Non
è invece preoccupante la posizione del terzo, che non è soggetto (se non interviene) agli e etti
della sentenza. Per lui l'intervento è una difesa concorrente. Se anche non interviene, può
difendersi senza limiti nel successivo processo, che ha ad oggetto la sua situazione sostanziale.

Le condizioni, che sopra abbiamo visto necessarie per la partecipazione del terzo al processo,
costituiscono il presupposto processuale per la realizzazione del cumulo soggettivo. Ovviamente
poi, rispetto all’interventore, devono sussistere tutti gli altri presupposti processuali relativi alla sua
domanda. La sussistenza delle condizioni per l’intervento costituisce quindi questione
pregiudiziale di rito, che deve essere decisa con sentenza.

Per quanto riguarda l’accertamento di queste condizioni, bisogna fare una distinzione.
Laddove il titolo di legittimazione dell’intervento coincide con il modo di essere della situazione
sostanziale che il terzo deduce in giudizio e della quale chiede la tutela, secondo i principi generali
la valutazione avviene sulla base della domanda; ciò che occorre è che il terzo si a ermi titolare
di una situazione sostanziale connessa per incompatibilità, oppure per titolo od oggetto con
quella già dedotta in giudizio.
Laddove la situazione del terzo non è dedotta in giudizio, ma nel processo assume solo il ruolo di
titolo di legittimazione, essa, ove sia contestata, dovrà essere accertata autonomamente; e ciò
sempre sulla base del principio per il quale, ove il presupposto processuale non coincida con un
elemento rilevante per il merito, esso si stima non dall'a ermazione (del suo modo di essere), ma
dall’e ettiva esistenza di quell’elemento.

Intervento su istanza di parte

Gli istituti regolati dagli artt. 106 e 107 cpc si denominano comunemente chiamata in causa o
intervento coatto. Prima di tutto bisogna chiarire che il termine coatto non si riferisce ad un
accompagnamento forzato di fronte al giudice, ma ad una partecipazione al processo su iniziativa
non spontanea del terzo ma o di una delle parti originarie (art. 106) oppure del giudice (art. 107).
Per quanto riguarda l’intervento su istanza di parte, l’art 106 individua due presupposti: la
comunanza di causa e il rapporto di garanzia.
Con “comunanza di causa” si individua una nozione molto ampia perché causa “comune”
signi ca causa “connessa” e quindi si richiamano tutte le ipotesi di connessione esistenti.
La ragione della genericità della terminologia sta nel fatto che il legislatore non ha voluto fare delle
previsioni tassative sulle ipotesi in cui si può veri care l’opportunità che si realizzi la chiamata in
causa del terzo. Infatti il legislatore vuole consentire la realizzazione del simultaneus processus, in
tutte le ipotesi in cui questo è possibile, anche attraverso uno strumento (la chiamata in causa)
che consente l'instaurazione del contraddittorio. Sotto questo pro lo, la chiamata in causa
costituisce istituto complementare alla domanda riconvenzionale (che può essere utilizzata solo

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nei confronti di chi è già parte di quel processo) per proporre domande nei confronti di chi non è
parte di quel processo.
Dobbiamo precisare che il soggetto che opera la chiamata ex art. 106 può essere qualunque
parte, anche se nella maggior parte dei casi è il convenuto.

Per individuare nuove situazioni di connessione rispetto a quelle già viste vediamo un esempio.
Esempio: Tizio, che percorre tranquillamente un'autostrada, investe una pecora. La pecora muore
e Tizio subisce dei danni. Avendo pagato il pedaggio, Tizio chiama in causa la società
autostradale perché questa avrebbe dovuto garantire l'autostrada libera da animali. La società si
costituisce, si dichiara non responsabile del danno e attribuisce la responsabilità ad un pastore
che, per far prima a passare da una parte all'altra, ha fatto un buco nella rete e una sua pecora è
rimasta sull'autostrada. Il giudice ritiene fondata la difesa del convenuto, e rigetta la domanda. La
sentenza diviene de nitiva. Tizio propone allora la domanda di risarcimento nei confronti del
pastore, individuato dalla sentenza come vero responsabile. Questi si costituisce e si dichiara a
sua volta non responsabile; anzi speci ca che, a causa dell'incuria della società autostrade nel
mantenere la recinzione, ha subito il danno della perdita di una pecora, e per questo si riserva di
proporre domanda contro la società autostradale per il risarcimento del danno. La difesa del
convenuto viene accolta, la domanda è rigettata, e la sentenza anche qui diviene de nitiva. Quindi
Tizio si trova di fronte a due pronunce che, in astratto, riconoscono che ha un diritto risarcibile,
nessuna delle quali, però, in concreto, gli dà il risarcimento del danno.
Il tipo di difesa che fa il convenuto nell’esempio viene chiamato “contestazione della
legittimazione passiva”, che non deve essere confusa con la legittimazione (processuale) ex art.
81 cpc, infatti nell’esempio la legittimazione non fa riferimento a un pro lo processuale ma a uno
di diritto sostanziale: quindi non ad un problema di decidibilità nel merito della domanda, ma ad
un problema di accoglimento nel merito della domanda. Il fenomeno deve essere più
esattamente denominato come il pro lo dell'individuazione del vero obbligato. La legittimazione
sostanziale è quella che si ha quando il convenuto (magari) riconosce il diritto fatto valere
dall'attore, ma (comunque) nega che questo sussista nei suoi confronti. Il convenuto a erma che
obbligato, sul piano del diritto sostanziale, è un altro soggetto.
Ritornando all’esempio, l’inconveniente emerso si veri ca perché colui che nella sentenza viene
a ermato e ettivo titolare dell’obbligo è rimasto terzo rispetto al processo e quindi non è
vincolato dagli e etti della sentenza. A tale inconveniente si ovvia rendendo vincolante per colui
che viene individuato come vero obbligato l’accertamento contenuto nella sentenza: ciò è
possibile solo chiamandolo in giudizio e quindi instaurando il contraddittorio nei suoi confronti ex
art. 106 cpc.

Vediamo ora l’ipotesi inversa partendo sempre da un esempio.


Esempio: Tizio ha preso in locazione un certo bene da Caio, al quale paga un canone mensile. Un
giorno gli si presenta Sempronio, il quale dichiara di aver comprato lo stabile e, in base all'art.
1599 c.c., essendo il successore nel rapporto di locazione, pretende che il pagamento del canone
sia a lui e ettuato. Sorta la controversia il giudice accerta che e ettivamente Sempronio è il nuovo
proprietario-locatore, per cui Tizio viene condannato a pagare a lui l'a tto. Ovviamente Tizio
smette di pagare l'a tto a Caio, il quale propone domanda nei suoi confronti per il pagamento del
canone. Tizio spiega i motivi del non pagamento del canone nei confronti Caio, il quale a sua volta
dichiara di aver venduto sì il bene, ma che il contratto è nullo. Il giudice accoglie la prospettazione
di Caio, e il povero Tizio è costretto a pagare due volte il canone per lo stesso bene.
L'esempio appena fatto pone il problema dell’individuazione del vero titolare del diritto. Anche
qui non si tratta di legittimazione in senso proprio, ancorché nella prassi il fenomeno vada sotto il
nome di “contestazione della legittimazione attiva". Infatti l'attore, quali candosi titolare del diritto,
è legittimato; se poi ciò che egli a erma viene accertato non vero ed egli risulta non essere
l'e ettivo titolare del diritto, ciò pone un problema di fondatezza della domanda, e non di sua
decidibilità nel merito.

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Anche qui l'inconveniente nasce dal fatto che la sentenza emessa nel precedente processo non è
opponibile al terzo. Anche in questo caso l’inconveniente si elimina estendendo il contraddittorio
al terzo ex art. 106 cpc.
Con la chiamata in causa il terzo assume la qualità di parte e come tale resta vincolato dalla
sentenza e non potrà contestare in seguito ciò che è statuito dal giudice. L'oggetto del processo
rimane sempre ed esclusivamente la situazione sostanziale originaria, quella introdotta in giudizio
dall'attore contro il convenuto. Non si realizza un cumulo oggettivo, ma solo un cumulo
soggettivo. Si realizza la stessa situazione dell’intervento adesivo dipendente.
Nel secondo processo, eventualmente instaurato da o nei confronti di chi, nel primo processo, è
stato chiamato in causa, non si potrà contestare quanto stabilito con la prima sentenza.
Il convenuto del secondo processo, che ha assunto la veste del chiamato in causa nel primo
processo, potrà difendersi con ogni argomento, tranne che asserendo che il vero obbligato è il
convenuto del primo processo.
Se, viceversa, si è avuta la chiamata in causa del preteso vero titolare del diritto, la sentenza che
accerta che titolare del diritto è l'attore del primo processo nega irrimediabilmente il diritto del
chiamato. È vero che tutte le altre questioni restano impregiudicate: però esse sono anche
irrilevanti, una volta che si sia accertato che il vero titolare del diritto è un soggetto diverso dal
chiamato in causa.
Accanto a questa situazione cd minimale, di chiamata non innovativa, ci può essere una vera e
propria domanda da o nei confronti del terzo. La situazione sostanziale che corre fra una delle
parti ed il terzo può essere dedotta in giudizio e divenire oggetto di decisione, se viene proposta
una domanda che abbia ad oggetto il rapporto del terzo.
Può accadere che il convenuto indichi il vero obbligato e l’attore, invece di chiamarlo in causa
solo per rendergli opponibile la sentenza, lo chiami proponendo una domanda nei suoi confronti,
per ottenere una sentenza che abbia ad oggetto il rapporto sostanziale che intercorre fra l'attore
ed il terzo. Si realizza così un cumulo oggettivo che si sarebbe potuto realizzare anche ab initio
con la proposizione di una domanda alternativa. Prendendo ad esempio la servitù, l’attore è
intercluso e ha diritto di avere la servitù o su un fondo con nante o sull’altro. Il giudice riconosce
la servitù sul fondo rispetto al quale essa produce minor danno (alternativa pura). Oppure l’attore
può porre una domanda alternativa chiedendo al giudice di esaminare se ha la servitù sul fondo X
e, se non ce l’ha, di riconoscerla sul fondo Y (alternativa subordinata). Comunque la domanda
alternativa espone l'attore necessariamente ad un rigetto e quindi a pagare le spese del processo
ad uno dei due convenuti.

Per quanto riguarda i poteri processuali del terzo chiamato, si può rinviare a quanto detto in
tema di intervento volontario: se la chiamata in causa è non innovativa, il chiamato ha gli stessi
poteri dell'interventore adesivo dipendente; se è innovativa, ha gli stessi poteri dell'interventore
autonomo.

Restano da esaminare gli e etti prodotti, nei confronti del partecipante in via adesiva al processo
altrui, dagli atti processuali dispositivi compiuti dalle parti principali.
Bisogna distinguere tra le ipotesi in cui il partecipante in via adesiva, in quanto titolare di una
situazione permanentemente dipendente, è esposto agli e etti degli atti di disposizione compiuti
dai titolari della situazione pregiudiziale; e le ipotesi in cui il partecipante in via adesiva, in quanto
titolare di una situazione dipendente in modo istantaneo, non è esposto agli e etti degli atti di
disposizione compiuti dai titolari della situazione pregiudiziale.
Nel primo caso il partecipante in via adesiva risente degli e etti di tutti gli atti processuali compiuti
dalle parti principali; nel secondo caso invece, il partecipante non può essere vincolato da tali atti.
Quando un tale atto viene posto in essere, si possono veri care diverse situazioni:
- si possono applicare le norme sul litisconsorzio necessario, per cui l’atto non vincola
nessuno; tuttavia in questo modo si impedisce alle parti principali di disporre dei propri diritti
per il solo fatto che un terzo partecipa al processo.

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- si possono scindere le decisioni, per cui il giudice dovrebbe decidere fra le parti principali
tenendo conto dell’atto dispositivo, e nei confronti del partecipante senza tenerne conto.
Tuttavia tale soluzione costringe il giudice a e ettuare due distinte istruttorie.
- si può fornire il partecipante in via adesiva di una difesa da spendere nel successivo processo,
che si svolgerà nei suoi confronti e che avrà ad oggetto la sua situazione sostanziale: in quella
sede egli potrà svincolarsi dagli e etti della sentenza allegando che essa è fondata su un atto
dispositivo. Quest’ultima soluzione è la più persuasiva perché consente una disciplina
omogenea degli atti dispositivi di diritto sostanziale e di diritto processuale.
Esempio: Tizio agisce in giudizio contro Caio per la costituzione di una servitù coattiva;
Sempronio, proprietario di altro fondo con nante, partecipa al processo in via adesiva. Tizio
riconosce che il fondo di Caio non può essere asservito, perché si tratta di un giardino. La
domanda di Tizio viene quindi rigettata. Successivamente Tizio conviene Sempronio, sempre per
la costituzione della servitù coattiva. In linea di massima Sempronio, avendo partecipato al
precedente processo, non potrebbe sostenere che la servitù deve essere costituita sul fondo di
Caio, in quanto la sentenza è per lui vincolante. Ma se Sempronio eccepisce che la sentenza si
fonda su un atto dispositivo di Tizio, allora la sentenza cessa di essere per lui vincolante, ed
anche tale difesa diviene per lui possibile.

Resta da esaminare la posizione del terzo soggetto agli e etti dell'emananda sentenza, che abbia
partecipato in via adesiva al processo altrui, e il quale non lamenti che la sentenza si sia fondata
su un atto dispositivo delle parti ma lamenti che tale atto dispositivo integra gli estremi del dolo e
della collusione ex art. 404 cpc (opposizione di terzo revocatoria). Dunque, chi ha partecipato al
processo in qualità di titolare di una situazione autonoma, essendo immune dagli e etti di tutti gli
atti dispositivi, potrà svincolarsi da tali e etti dimostrando che la sentenza si è fondata appunto su
un atto dispositivo; chi ha partecipato al processo in qualità di titolare di una situazione
dipendente, essendo immune dagli e etti dei soli atti dispositivi che integrano dolo o collusione,
potrà svincolarsi dagli e etti dimostrando che la sentenza è frutto appunto del dolo o della
collusione delle parti.

L’altro tipo di chiamata in causa ex art. 106 cpc è la chiamata di garanzia. La domanda di
garanzia è un istituto processuale che trova le sue radici in un fenomeno di diritto sostanziale. Un
soggetto, in caso di soccombenza, ha diritto di essere tenuto, da un terzo, in tutto o in parte
indenne degli e etti negativi che su di lui la soccombenza produrrà. Processualmente, il garantito
può chiamare in causa il garante informandolo che nei suoi confronti è stata proposta una
domanda e che, in caso di soccombenza, egli vuole riversare nella sfera giuridica del garante
(perché ne ha diritto) le conseguenze negative della stessa.
Nella garanzia il diritto verso il garante nasce dal riconoscimento, ad opera della sentenza, che
nella sfera giuridica del garantito esiste un certo obbligo o non esiste un certo diritto. L'esistenza
dell'obbligo o l'inesistenza del diritto nel patrimonio del garantito gli dà a sua volta un diritto verso
il garante. La soccombenza del garantito è presupposto per l'esistenza dell'obbligo del garante.
Nella comunanza di causa per alternatività ciò non si veri ca, perché o c'è l'obbligo dell'uno o c'è
l'obbligo dell'altro. Quando il convenuto a erma che il responsabile del danno non è lui ma un
altro e il giudice accoglie questa difesa, il convenuto viene riconosciuto non titolare di alcun
obbligo. L'accoglimento della difesa porta al rigetto della domanda; al contrario, la sussistenza
dell'obbligo di garanzia postula l'accoglimento della domanda, se garantito è il convenuto, o il
rigetto della domanda, se garantito è l’attore.
Nel nostro sistema ci sono diversi tipi di garanzia.
Garanzia formale: negli acquisti a titolo derivativo, il dante causa deve garantire l’avente causa
che, al momento del trasferimento, egli era titolare di una situazione sostanziale tale da consentire
la nascita del diritto in capo all'avente causa.
Vediamo i pro li processuali. L'art. 1485 c.c. stabilisce: «Il compratore convenuto da un terzo che
pretende di avere dei diritti sulla cosa venduta deve chiamare in causa il venditore. Qualora non lo
faccia, e sia condannato con sentenza passata in giudicato, perde il diritto alla garanzia se il
venditore prova che esistevano ragioni su cienti per far respingere la domanda».

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Anche in questa ipotesi trova applicazione la regola sui limiti soggettivi di e cacia della sentenza.
Il venditore può proporre l'exceptio litis malae gestae perché non è stato parte del processo.
Questo stesso articolo contiene poi un’altra regola, la quale stabilisce che, se invece di rimanere
soccombente in causa, il compratore ha spontaneamente riconosciuto il diritto del terzo, si
veri ca un'inversione dell'onere della prova, ossia non sarà più il venditore a dovere dimostrare
che esistevano ragioni su cienti per far respingere la pretesa del terzo, ma sarà il compratore a
dover dimostrare che non esistevano ragioni su cienti per resistere alla pretesa del terzo. Questo
è logico, perché non si può imporre al garantito di subire un processo anche se ha torto; non si
può imporre all'acquirente, per conservarsi il diritto di garanzia, di rimanere soccombente nel
processo; bisogna dargli la possibilità di riconoscere la fondatezza della domanda e di cedere alla
pretesa del terzo. Però in tal caso è il compratore a dover dimostrare che non poteva fare
altrimenti, perché la pretesa del terzo era fondata, e ogni difesa sarebbe stata uno spreco di
denaro e di tempo.
La garanzia formale prevede anche il diritto del garantito di chiamare in causa il garante ed un
obbligo del garante di assumere la difesa processuale del garantito.
L’art. 1586 cc (in tema di locazione) al co. 1 pone a carico del conduttore l'obbligo di avvertire il
locatore di eventuali pretese di terzi, a nché il locatore possa intervenire in causa e far valere il
proprio diritto. Al co. 2 a erma che «se i terzi agiscono in via giudiziale il locatore è tenuto ad
assumere la lite qualora sia chiamato nel processo. Il conduttore deve esserne estromesso con la
semplice indicazione del locatore se non ha interesse a rimanervi».
Quindi l'obbligo di garanzia, nelle ipotesi di garanzia formale, assume un duplice contenuto.
L'esistenza dell'obbligo di difesa processuale è importante, perché, come vedremo, su di esso si
fonda la possibilità di estromissione del garantito, che presuppone che il garante sia obbligato
ad assumere la lite, cioè che il contenuto del rapporto di garanzia non sia solo quello di tenere
indenne il garantito sul piano sostanziale, ma sia anzitutto (in senso cronologico) quello di
assumere su di sé la difesa processuale del garantito.
Garanzia semplice: riguarda le ipotesi di regresso disciplinate dall’art. 1298 cc per le obbligazioni
solidali o dall’art. 1950 cc per la deiussione.
L’art. 1298 c.c. stabilisce: «nei rapporti interni l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori
o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell'interesse esclusivo di alcuno di essi. Le
parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente». Se l'obbligazione è stata
assunta nell'interesse di tutti, ciascun condebitore solidale è obbligato a rimborsare al
condebitore che ha pagato la propria quota, che si presume uguale se non c'è prova contraria (5
debitori solidali, credito di 100, uno paga e ha diritto di chiedere 20 a ciascuno degli altri). Se, al
contrario, l'obbligazione è stata assunta nell'interesse di uno, allora vi è un regresso per l'intero
nei confronti di colui, nel cui interesse è stata assunta l'obbligazione; se, invece, paga colui nel cui
interesse è stata assunta l'obbligazione, egli non ha regresso nei confronti degli altri.
Esempio: la solidarietà per il risarcimento dei danni tra conducente e proprietario dell'autoveicolo
è unidirezionale, perché il conducente che paga non ha diritto di regresso nei confronti del
proprietario dell'autoveicolo, in quanto l'obbligazione è nata per fatto del conducente e non del
proprietario; ma se il risarcimento lo paga il proprietario, egli ha regresso per l'intero nei confronti
del conducente.
Per evitare che l’applicazione rigida di questa regola porti a una moltiplicazione di processi,
l’ordinamento consente che si agisca in regresso anche in via subordinata: colui che è
convenuto per il pagamento, ma ha diritto di regresso in tutto o in parte nei confronti di terzi, può
proporre domanda di regresso, all'interno dello stesso processo chiedendo al giudice che accerti
il diritto di regresso e condanni il garante a tenere indenne il garantito, subordinatamente al
veri carsi di un evento futuro: il pagamento, da parte del garantito, al creditore.
La chiamata in garanzia consente al garantito, quando agirà in regresso in un separato processo
contro il garante, di opporre a quest'ultimo la sentenza che lo ha visto soccombente, e impedisce
al garante, che ha preso parte al processo principale, di opporre l'exceptio litis malae gestae.
Allora il convenuto può chiamare in garanzia colui nei cui confronti ha regresso in due distinti
modi:

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- chiamata non innovativa: il rapporto di garanzia non è dedotto in giudizio; il garante partecipa
al processo in via adesiva; la sentenza che accerta la sussistenza dell'obbligo o l'inesistenza
del diritto del garantito gli sarà opponibile nel secondo processo, che avrà ad oggetto appunto
il rapporto di garanzia, impedendogli di difendersi negando l'esistenza del credito principale.
- chiamata innovativa: egli propone una domanda relativa al rapporto di garanzia; il giudice, se
condanna il convenuto a pagare, esamina anche il rapporto di garanzia e se lo ritiene
sussistente condanna il chiamato in causa. L’e cacia esecutiva di tale condanna è però
condizionata all'adempimento dell'obbligo principale.
La garanzia semplice ha luogo anche nella deiussione: il deiussore ha diritto di regresso nei
confronti del debitore principale e, se convenuto in giudizio, può chiamare in garanzia l'obbligato
principale. Non vale l'inverso perché l'obbligato principale non ha alcun diritto nei confronti del
deiussore, che è garante del creditore e non del debitore.
La caratteristica della garanzia semplice è che manca un obbligo di difesa processuale: mentre
in quella formale abbiamo riscontrato l'obbligo del garante di assumere la lite al posto del
garantito, nella garanzia semplice l’obbligato in via di regresso, chiamato in giudizio dal
convenuto, non può assumere la lite al posto di questi. In questo modo, non si potrà nemmeno
avere l'estromissione del garantito.

Queste due forme di garanzia appena esaminate rientrano nella categoria della garanzia propria
perché esse discendono direttamente dalla previsione normativa e costituiscono il modo di essere
della regolamentazione di un rapporto sostanziale.
Un’altra ipotesi si ha invece con la garanzia impropria, che si ha quando la garanzia discende da
una connessione estrinseca, soprattutto sorgente da collegamenti negoziali. L'ipotesi tipica di
garanzia impropria si riscontra nella vendita a catena, dove ciascuno è obbligato nei confronti
della controparte "a valle", ma può agire nei confronti della controparte "a monte". I più rapporti
sono uniti da un nesso estrinseco consistente nel fatto che lo stesso bene è passato attraverso
più contratti di compravendita. Non c'è quindi quella unicità di rapporto tipica della garanzia
propria.
Comunque la disciplina processuale della garanzia impropria è identica a quella della garanzia
propria.
Per quanto riguarda la posizione processuale del chiamato in garanzia, si rimanda a quanto
detto per la comunanza di causa. In caso di chiamata innovativa, il garante ha pieni poteri sulla
propria causa.
Con riferimento ai poteri del chiamato in ordine alla causa principale, egli ha poteri di allegazione
e istruttori ma non ha poteri dispositivi.
Con riferimento all'opponibilità al chiamato degli atti processuali dispositivi sul rapporto
principale compiuti dalle parti del rapporto stesso, essi sono ine caci alle condizioni e nei modi
già esaminati a proposito della comunanza di causa.
Per quanto riguarda il momento in cui la chiamata avviene, il terzo non subisce alcuna
preclusione a causa del pregresso svolgimento del giudizio.

Intervento per ordine del giudice

L'art. 107 cpc prevede il potere del giudice di ordinare l'intervento in causa di un terzo, quando
egli ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti di un soggetto al quale la causa è
comune. Gli elementi che sono rilevanti per l'esercizio del potere del giudice sono dunque la
comunanza di causa e la valutazione di opportunità.
Le di erenze tra art. 107 e art. 102 sono due:
- nell’art. 102 la partecipazione del terzo è necessaria; mentre nell’art. 107 è subordinata a una
valutazione di opportunità del giudice.
- ove venga omessa l’integrazione del contraddittorio ex art. 102, si ha l’estinzione del processo;
invece con riferimento all’art. 107, se nessuna delle parti provvede alla citazione del terzo, il
giudice istruttore dispone con ordinanza non impugnabile la cancellazione della causa dal
ruolo. La causa entra in uno stato di quiescenza e non si ha estinzione immediata del processo,
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che potrà essere riassunto dalle parti nel termine di tre mesi dalla cancellazione della causa dal
ruolo.
Il problema di fondo che pone l’art. 107 cpc è il rispetto del principio della domanda espresso
dall’art. 112 cpc, che impone la separazione dei ruoli tra chi individua l'oggetto della decisione e
chi emette la decisione su quell’oggetto. In base all’art. 107 il giudice, per sua scelta, si trova a
dover decidere anche rispetto ad un soggetto nei cui confronti non è stata proposta la domanda.
Inoltre, il legislatore usa volutamente una formula molto ampia (“causa comune”) a nché non
sfuggano dalla previsione normativa ipotesi in cui la chiamata del terzo sarebbe opportuna.
Dunque la chiamata del giudice può essere usata in relazione a ogni tipo di connessione che
consenta un cumulo.
Sulla base di questo, il principio della domanda e la chiamata del giudice si conciliano per il fatto
la chiamata in causa del giudice non assoggetta a decisione il rapporto che lega una o anche
ambedue le parti al terzo perché il terzo partecipa al processo in via adesiva, quindi il processo
continua a mantenere l’oggetto determinato dalla domanda originaria.
La partecipazione del terzo al processo altrui produce l'opponibilità a costui degli e etti della
emananda sentenza, se il chiamato appartiene a quella categoria di terzi nei cui confronti la
sentenza altrui non produce e etti (in quanto costoro sono titolari di una situazione dipendente in
modo istantaneo da quella oggetto del processo). Una volta che il terzo sia divenuto parte del
processo, chiaramente egli sarà poi vincolato agli e etti della pronuncia.
Se, invece, il chiamato appartiene a quella categoria di terzi nei cui confronti la sentenza altrui
produce e etti (in quanto costoro sono titolari di una situazione dipendente in modo permanente
da quella oggetto del processo), la chiamata in causa da parte del giudice ha la funzione di
avvertire il soggetto terzo della pendenza del processo e quindi di metterlo in grado di difendere la
posizione della parte principale (e indirettamente la propria).
Il potere discrezionale riconosciuto al giudice in questo ambito trova parametri di esercizio
diversi a seconda del tipo di connessione tra la situazione oggetto del processo e quella che fa
capo al terzo. L’unica connessione che non consente la chiamata iussu iudicis è quella prevista
dall’art. 103 cpc: la mera comunanza di fatti storici nelle fattispecie dei rispettivi diritti.
Per quanto riguarda i pro li dinamici, questo tipo di chiamata non è innovativa e quindi si attiva
attraverso un mero atto di impulso processuale, infatti la parte che chiama in causa il terzo in
ottemperanza all’ordine del giudice non propone domanda nei confronti del terzo.
Se invece, con lo stesso atto di chiamata o con un atto successivo, una delle parti originarie
propone domanda contro il terzo o viceversa, si realizza un processo cumulato con due situazioni
sostanziali (quella originaria e quella oggetto della domanda da o contro il terzo).
Per quanto riguarda i poteri processuali del terzo chiamato dal giudice, se da o contro il terzo è
proposta una domanda, il terzo avrà poteri pieni rispetto alla situazione sostanziale che fa capo a
lui. Altrimenti al terzo mancano i poteri di disposizione.
Per quanto riguarda gli e etti nei confronti del chiamato degli atti di disposizione delle parti
originarie, essi variano a seconda del tipo di connessione. Se il terzo è titolare di una situazione
permanentemente dipendente, gli atti di disposizione processuale gli sono opponibili come lo
sono quelli di diritto sostanziale. Ma se il terzo chiamato è titolare di una situazione sostanziale
connessa in modo istantaneo, neppure gli atti di disposizione processuale lo possono vincolare.
Anche il terzo chiamato dal giudice non subisce le preclusioni che colpiscono le parti originarie
nel momento in cui egli è chiamato. Anche nei suoi confronti l’art. 271 cpc prevede che l’udienza
alla quale è citato è, per lui, l’udienza di prima comparizione.

Estromissione

È il fenomeno in forza del quale si ha una diminuzione del numero delle parti di un processo,
intendendo per “parte” il soggetto destinatario degli e etti degli atti processuali e non colui che
compie tali atti.
Dal momento in cui si veri ca l'estromissione, all'estromesso non sono più imputabili gli e etti
degli atti processuali, ivi compresi gli e etti delle pronunce di rito, fra i quali rientra la pronuncia

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sulle spese. Tale pronuncia può essere emessa solo a favore e contro il destinatario degli e etti
processuali.
Le gure di estromissione conosciute nel nostro sistema sono sostanzialmente tre: l'estromissione
del garantito (art. 108 cpc); l'estromissione dell'obbligato (art. 109 cpc); l'estromissione del dante
causa (art. 111 cpc.).
Nel gergo forense si nomina impropriamente “estromissione” anche la pronuncia con la quale si
produce l’allontanamento di un soggetto del processo per ragioni di rito o di merito.
Il termine estromissione è qui utilizzato in senso generico e atecnico: con esso si allude ad una
sentenza parzialmente de nitiva, che de nisce in rito o in merito il processo nei confronti di una
delle parti. La possibilità di una simile pronuncia ovviamente dipende dalle circostanze, e sarà
esaminata in seguito.
Estromissione del garantito: l’art. 108 cpc fa riferimento al fenomeno della garanzia, che trova le
sue radici sul piano sostanziale e si caratterizza per la pretesa, sempre sostanziale, di essere
tenuti indenni dagli e etti negativi che possono scaturire da una pronuncia giurisdizionale. Posto
questo, abbiamo visto che la garanzia può avere anche un contenuto processuale che consiste
nell’assumere la difesa del garantito da parte del garante. Se il garante accetta di assumere la
difesa del garantito, quest’ultimo può chiedere di essere estromesso dal processo.
Il garantito deve scegliere: se vuole la contestualità fra la sua eventuale soccombenza nel merito e
la reintegrazione patrimoniale, deve stare in giudizio di persona e coltivare la domanda di
risarcimento. Se vuole andarsene dal processo, deve posporre l’eventuale domanda risarcitoria.
L’estromissione del garantito dal processo realizza un fenomeno di legittimazione straordinaria,
in quella particolare forma che è la sostituzione processuale. Il garante sta in giudizio in nome
proprio ma non per una propria situazione sostanziale ma per una situazione sostanziale del
garantito. La legittimazione straordinaria non riguarda solo diritti ma anche obblighi altrui (ipotesi
disciplinata dall’art. 108). Nell'estromissione non c'è litisconsorzio necessario perché è lo stesso
interessato a chiedere di andarsene, è lui che a da le sue sorti processuali al garante. Visto che è
sua la decisione, non c'è nessun ostacolo alla sostituzione processuale.
Con l’estromissione, l’oggetto del processo rimane la situazione dedotta in giudizio con la
domanda originaria. Se oggetto del processo continua ad essere la situazione sostanziale
intercorrente fra garantito e controparte originaria, gli e etti della sentenza di merito riguardano i
titolari della situazione sostanziale originaria.
Con l'estromissione, il garantito perde la qualità di parte processuale, anche se mantiene la
qualità di parte sostanziale, in quanto titolare della situazione sostanziale oggetto del processo; e
come tale, abbiamo visto, sarà destinatario degli e etti di merito della sentenza.
Dopo l’estromissione, il garante è parte a tutti gli e etti: non è un rappresentante ma un vero e
proprio sostituto processuale, quindi un soggetto che compie atti processuali i cui e etti si
imputano a lui e non all’estromesso. Egli può compiere anche atti dispositivi. A di erenza della
rappresentanza, dove gli e etti degli atti processuali e delle sentenze di rito si imputano al
rappresentato (e le spese sono pagate al o dal rappresentato), nel caso di sostituzione
processuale le spese sono pagate al o dal sostituto processuale.
Inoltre l’art. 108 stabilisce che l’estromissione ha luogo qualora le altre parti (controparte
originaria) non si oppongano. Le ragioni dell’opposizione non riguardano né gli atti processuali da
compiere né gli e etti della sentenza di merito, perché essi si imputano all’estromesso. Una
possibile ragione di estromissione riguarda la condanna alle spese e quindi un’opposizione può
provenire dalla controparte che potrebbe obiettare che il garante non gli garantisce
su cientemente il pagamento delle spese.
Quando vi è un cumulo di domande, l'estromissione può essere parziale, e riguardare solo quella
o quelle domande per le quali sussiste la garanzia.
L’estromissione si pronuncia con ordinanza: il legislatore del 1942 infatti partiva dal presupposto
che l’opposizione delle altre parti fosse automaticamente ostativa all’estromissione. Dunque, se
nessuno si opponeva era su ciente un provvedimento che avesse la forma di un’ordinanza.
Tuttavia la giurisprudenza si è evoluta nel senso di ritenere che il ri uto all’estromissione deve
essere motivato e il giudice deve sindacare la fondatezza dei motivi addotti per ri utare
l’estromissione. Quindi l’estromissione è possibile anche se qualcuno si oppone, qualora
l’opposizione sia ritenuta infondata.
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Estromissione dell’obbligato: in questo caso si è in presenza di una lite tra pretendenti del
medesimo diritto. Tale lite può nascere:
- per via di chiamata ex art. 106 ad opera del convenuto o dell’attore;
- per via di intervento principale ad excludendum dell’altro pretendente ex art. 105;
- per intervento iussu iudicis ex art. 107;
- in via di litisconsorzio facoltativo ex art. 103.
Una volta realizzato il processo (due attori e un convenuto), può darsi che l'obbligato non abbia
interesse a partecipare al processo, perché sul piano sostanziale egli si ritiene obbligato alla
prestazione. All'obbligato interessa solo che sia stabilito a chi deve adempiere, per non farlo due
volte. Inoltre, se il giudice dispone che il convenuto depositi una somma o una cosa, egli, quando
adempie, non rinuncia ad esse: questo permette di risolvere il problema di cosa accade quando
il processo non giunge ad una decisione di merito oppure quando il giudice ritenga che la
prestazione non spetti ad alcuno dei due pretendenti. In tal caso, la cosa o la somma ritorna nella
disponibilità dell'estromesso perché non ha rinunciato ad esse.
L'oggetto del processo non si riduce solo alla titolarità attiva della prestazione ma continua ad
essere anche la posizione sostanziale dell’obbligato.
La forma del provvedimento di estromissione è la sentenza se qualcuno si oppone, e il giudice
ritiene infondata tale opposizione; se nessuno si oppone, si avrà ordinanza.

Successione nel processo

Dobbiamo ora esaminare due istituti, disciplinati dagli artt. 110 e 111 cpc, uniti tradizionalmente
sotto la denominazione di successione processuale, anche se hanno funzioni diverse. Per
esempio, nell’art. 110 vengono in luce problemi di rito mentre nell’art. 111 il problema che la
norma risolve è di merito.
Iniziando dalla successione nel processo, l’art. 110 descrive in modo netto la fattispecie: “quando
la parte viene meno per morte o per altra causa”. La morte, ovviamente, riguarda le persone
siche. L’espressione "altra causa" si riferisce a fenomeni attinenti a gure soggettive diverse
dalle persone siche. In particolare, viene in luce il fenomeno della fusione delle società. La
società che risulta dalla fusione o la società incorporante proseguono in tutti i rapporti, anche
processuali, delle precedenti società senza interruzione del processo.
La fattispecie ex art. 110 non è dunque la successione a titolo universale nel diritto controverso,
come sostiene parte della dottrina.
La fattispecie di tale articolo è l'estinzione di una parte: si estingue il soggetto che ha assunto la
qualità di parte in senso processuale. Quindi, nell'ipotesi della rappresentanza, l’art. 110 regola il
venir meno del rappresentato; così come nell'ipotesi di legittimazione straordinaria, regola il venir
meno del legittimato straordinario. Quando una parte viene meno, l'inconveniente a cui l’art. 110
pone rimedio sta nel fatto che il processo non può proseguire, in quanto è un fenomeno
essenzialmente trilaterale (giudice, attore e convenuto), dove se manca uno di questi tre soggetti il
processo si trova in una situazione di stallo. È allora necessario che la parte venuta meno sia
sostituita da un altro soggetto.
L’art. 110 prevede la prosecuzione del processo nei confronti o da parte del successore
universale, che per le persone siche è l'erede; mentre nei fenomeni di fusione è la società che
risulta dalla fusione. Nella successione per causa di morte, se non esistono eredi per testamento
o per legge, è successore lo Stato.
Successione universale senza venir meno della parte: per es. negli anni '60, con la
nazionalizzazione dell'energia elettrica, si è veri cato il trasferimento di tutte le aziende elettriche
all'ENEL. Le società elettriche hanno perso le loro aziende, ma sono rimaste come soggetti di
diritto. Dal momento che non è venuta meno la parte, non si applica l’art. 110 cpc ma l’art. 111
cpc.
Venire meno della parte senza successione universale: secondo la teoria in forza della quale
l’art. 110 riguarda la successione a titolo universale nel diritto controverso, entrambi gli articoli
sarebbero inapplicabili. Un esempio è se viene meno il legittimato straordinario: non si ha una
successione nel diritto controverso ma semmai in un altro diritto, che non è oggetto del processo.

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L'applicazione dell'art. 110 anche alle ipotesi in cui il venir meno della parte comporta
l'estinzione del diritto controverso non signi ca che il giudice debba ignorare, ai ni del merito,
il fatto che, sul piano sostanziale, il venir meno della parte ha prodotto l'estinzione di tale diritto.
Tuttavia, è necessario ugualmente sostituire la parte venuta meno, a nché il processo possa
essere proseguito e il giudice sia messo in grado di decidere nel merito, naturalmente tenendo
conto dell'avvenuta estinzione del diritto, oggetto del processo.
Inoltre, le vicende che attengono al merito non eliminano i problemi relativi alle spese del
processo.
È da preferire, quindi, quella lettura dell'art. 110 che vede come presupposto di applicazione della
norma il venir meno di una delle parti e non la successione a titolo universale nel diritto
controverso. Questo permette di risolvere anche il problema che sorge quando c’è una pluralità
di successori. Se la ratio della norma fosse di far subentrare nel processo il successore a titolo
universale nel diritto controverso, in questo caso dovrebbero subentrare nel processo coloro e
solo coloro nei cui confronti si è trasferita la situazione controversa ed essi possono anche non
essere tutti gli eredi. Però, siccome la ratio dell'art. 110 è meramente processuale, e consiste nella
ricostituzione della necessaria bilateralità del processo, la soluzione (paci ca in giurisprudenza) è
quella del litisconsorzio necessario fra i più successori universali, a prescindere dal fatto che
solo uno o alcuni di essi siano succeduti nel diritto controverso. Qui il successore a titolo
universale subentra nella qualità di parte, che è una posizione inscindibile e indivisibile; per forza
di cose tutti quanti gli eredi devono proseguire il processo.
La successione si caratterizza per il fatto che, nei confronti del successore, permangono tutti gli
e etti giuridici favorevoli e sfavorevoli che si sono prodotti nei confronti del dante causa.

Esaminiamo ora i fenomeni di confusione processuale, che si ha quando il successore


universale che dovrebbe subentrare è la controparte di chi è venuto meno.
La prima ipotesi si ha quando la controparte di quella che è venuta meno è l'unico successore
universale, ed il diritto controverso si trasferisce a costui. Qui la confusione si veri ca sia sul piano
processuale sia su quello sostanziale: il processo non prosegue.
La seconda ipotesi si ha quando la controparte è l'unico successore universale, ma il diritto
controverso si trasferisce a titolo particolare, cioè a titolo di legato. In questo caso il processo
prosegue nei confronti del legatario, in deroga al 111. Questa è l’unica ipotesi in cui l’art. 110 non
funziona.
La terza ed ultima ipotesi si ha quando la controparte è uno dei successori universali e succede
pro quota nel diritto dedotto in giudizio. In questo caso la successione non avviene nei confronti
di tutti i successori ma di tutti meno la controparte. Comunque quando si arriva alla sentenza di
merito, bisogna tenere conto dell’avvenuta successione.

Estinzione di società: il fenomeno dell’estinzione delle società non ha posto problemi


processuali di rilievo, nché la giurisprudenza ha ritenuto che, malgrado la cancellazione, la
società rimaneva in vita nché vi fosse anche un solo rapporto attivo o passivo che la riguardava.
Di conseguenza, quand'anche la società si fosse cancellata nel corso del processo, a ciò non
conseguiva l'applicazione dell'art. 110 in quanto essa non veniva meno.
Ad un certo momento, però, la giurisprudenza ha cambiato opinione, a ermando che con
l'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese la società si sarebbe estinta.
Dal punto di vista processuale, si prevede che la domanda dei creditori sociali non soddisfatti, se
proposta entro un anno dalla cancellazione, possa essere noti cata presso l'ultima sede della
società. Comunque il nome dei soci deve essere enunciato nell'atto di citazione, il quale in
applicazione del litisconsorzio facoltativo può anche essere proposto nei confronti di tutti i soci,
perché la citazione non può essere proposta nei loro confronti collettivamente e impersonalmente.
I problemi processuali più importanti riguardano l'ipotesi in cui la cancellazione sia iscritta nel
corso del processo, quindi dopo la proposizione della domanda e no al passaggio in giudicato
formale della sentenza. In questo caso il processo prosegue nei confronti dei soci no alla
sentenza de nitiva. Questa è la soluzione proposta dalle sezioni Unite ma nel momento in cui era
stata pronunciata aveva un difetto. La giurisprudenza dell'epoca riteneva, infatti, che al momento

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della proposizione delle impugnazioni la situazione si presenta come è al momento della
proposizione della domanda iniziale: l'impugnazione va proposta nei confronti della parte
interessata ad essa. Dunque, se ad es. nel corso del processo di primo grado si è avuta la
cancellazione della società, la sentenza andrà impugnata da e nei confronti dei soci. Nonostante il
diritto a estinguersi della società, questo non può comportare che siano scaricati sui terzi gli oneri
derivati da un suo atto volontario.
La successiva giurisprudenza ha dunque valorizzato il principio dell’ultrattività del mandato ed ha
a ermato che il venir meno della parte non produce e etti, neppure in sede di proposizione
dell'impugnazione, nché non sia dichiarato dal difensore. Questa può essere proposta nei
confronti della parte venuta meno, noti cando l'atto di impugnazione al difensore che non abbia
dichiarato l’evento.
Un’altra soluzione è poi proposta dall’art. 33 codice della crisi di impresa: questa norma prevede
che la società cancellata, quindi estinta, possa essere sottoposta a liquidazione giudiziale entro
un anno dalla sua cancellazione. Dunque un soggetto inesistente sul piano sostanziale può
tuttavia assumere il ruolo di parte processuale, e mantenerlo durante tutto il corso del processo
concorsuale o tributario. Se ciò è possibile addirittura per il caso in cui l’estinzione del soggetto
sia antecedente all'inizio del processo, sembra a maggior ragione possibile ritenere che la società
estinta sul piano sostanziale continui a mantenere una soggettività processuale quando tale
estinzione avviene nel corso del processo.
L'estinzione della società è un fatto volontario, e della pendenza di un processo il legale
rappresentante della stessa è consapevole: se non ne mette a conoscenza i soci, non si vede
perché debba essere la controparte a subirne le conseguenze.
La soluzione preferibile è dunque quella di ritenere che la soggettività processuale della società
cancellata nel corso del processo, nonostante questa sia estinta sul piano del diritto sostanziale,
si mantenga no al momento del passaggio in giudicato formale della sentenza. Ciò esclude che
si abbia una fattispecie di successione nel processo.

Successione nel diritto controverso

L’art. 111 co. 1 stabilisce: “se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto
tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue fra le parti originarie”. Alle ipotesi di successione
a titolo particolare dobbiamo aggiungere quelle di successione a titolo universale cui non
corrisponde il venir meno della parte.
Il co. 2 stabilisce: “se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è
proseguito dal successore universale o in suo confronto”. La disposizione è analoga a quella
contenuta nel primo comma perché il successore universale prende il posto della parte originaria.
Bisogna speci care che esistono due specie di legati:
- legato di genere: il diritto sorge con l'apertura della successione a favore del legatario e nei
confronti dell'erede. Tale diritto non esiste prima dell’apertura della successione. Ad es. Tizio
lascia alla sua vecchia domestica un vitalizio, che dovrà esserle corrisposto dall'erede vita natural
durante. Dall'apertura della successione nasce, a favore della domestica, un credito nei confronti
dell'erede.
- legato di specie: il diritto, oggetto del legato, già esisteva nel patrimonio del de cuius. Ad es.
Tizio lascia alla sua vecchia domestica l'orologio a cucù, che si trova nel suo studio. Il de cuius
era proprietario dell'orologio a cucù, e il suo diritto di proprietà si trasferisce alla domestica.
La distinzione appena fatta è necessaria, perché solo il legato di specie può dar luogo ad una
successione nel diritto controverso. Infatti il diritto oggetto del legato di genere, non esistendo
prima dell'apertura della successione, non può essere in quel momento controverso.

Il primo punto da a rontare riguarda la ratio della norma. L’inconveniente che si creerebbe se
l’art. 111 non esistesse sarebbe quello del rischio, per colui che ha avuto ragione, di subire
ripetuti processi discutendo sempre della stessa questione. L’origine di tale inconveniente è la
regola sui limiti soggettivi di e cacia della sentenza: la sentenza non è vincolante per chi non ha
preso parte al processo.

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L’art. 111 risolve questo problema a ermando che “la sentenza pronunciata tra le parti originarie
spiega sempre i suoi e etti anche contro il successore a titolo particolare”. L'ultimo comma
introduce la deroga alla regola generale: la sentenza normalmente non ha e etto rispetto ai terzi
(regola generale) ma (regola speciale) ha e etto rispetto al successore nel diritto controverso, cioè
chi è subentrato nel diritto o nell’obbligo dopo che esso era stato dedotto in giudizio.
In virtù dell'estensione degli e etti della sentenza, la sentenza, che pronuncia sulla situazione
pregiudiziale, è vincolante anche per l'avente causa anche se non è stato chiamato a
partecipare al processo stesso. Ciò costituisce senza dubbio un'eccezione al principio del
contraddittorio: il diritto di azione (inteso come diritto ad una tutela e ettiva) della controparte
vittoriosa si trova in contrasto con il diritto di difesa dell'avente causa. Se si tutela l'avente causa
si costringe la controparte vittoriosa a un nuovo processo, con tutti gli inconvenienti che abbiamo
visto; se si tutela la controparte si vincola l'avente causa all'esito di un processo della cui
pendenza egli non è stato posto a conoscenza. L’ordinamento sceglie di tutelare la posizione di
chi è arrivato prima nel tempo: quindi si tutela la controparte piuttosto dell’avente causa.
L’e cacia della sentenza nei confronti del successore è il dato costante dell’art. 111, infatti
l’istituto della successione nel diritto controverso non è unitario dal momento che presenta una
serie di variabili.
Iniziando ad esaminare le variabili, possiamo constatare che, talvolta, è su ciente l'estensione
degli e etti della sentenza nei confronti dell'avente causa: il processo prosegue fra le parti
originarie con e etti nei confronti del successore. Applicata tale regola, tutti gli inconvenienti
spariscono.
L'estensione degli e etti della sentenza all'avente causa non è su ciente quando la successione
ha, sul piano sostanziale, la conseguenza di estinguere la situazione oggetto del processo, e la
successione è allegata e provata in causa.
Esempio: se Tizio vende la proprietà del bene a Sempronio, l'atto di vendita ha un duplice e etto:
costitutivo del diritto di proprietà di Sempronio, e nel tempo stesso estintivo del diritto di proprietà
di Tizio. La successione ha così e etti estintivi del diritto di proprietà del venditore. Se Tizio agisce
in giudizio nei confronti di Caio per l'accertamento del suo diritto di proprietà e nel corso del
processo vende il bene a Sempronio, quest’ultimo acquista la proprietà del bene, e si estingue il
diritto di Tizio dedotto nel processo. La stessa cosa accade nel caso di cessione del credito: Tizio
chiede il pagamento del suo credito a Caio, e nel corso del processo lo cede a Sempronio; il
diritto di credito di Tizio si estingue con la cessione.
Se la successione produce l’estinzione della situazione dedotta in giudizio, il giudice deve
rigettare la domanda.
Ma ci sono inconvenienti anche quando la successione avviene dal lato dell’attore (titolare del
diritto). Riprendiamo l'esempio della cessione del credito: l'attore cede il credito, l'atto di cessione
viene prodotto in causa, il giudice rigetta per tale motivo la domanda. Si potrebbe dire che il
convenuto ha avuto quello che sperava (il rigetto della domanda), ma bisogna ricordare che la
portata precettiva della sentenza che nega l'esistenza del diritto è correlata al motivo di rigetto. In
particolare, la regola sui limiti temporali di e cacia della sentenza dice che il fatto sopravvenuto,
che integra il motivo di rigetto, consente la riproposizione della domanda. Ci sono, quindi, motivi
di rigetto che danno più tutela, e motivi di rigetto che danno meno tutela.
Una sentenza che rigetta la domanda per il motivo che l'attore ha ceduto il credito non dà alcuna
tutela al convenuto nei confronti del cessionario; lascia aperta a quest'ultimo la possibilità di
riproporre la domanda. Non ha senso, quindi, estendere gli e etti della sentenza nei confronti del
cessionario quando è il contenuto di tale pronuncia a non dare tutela alla controparte originaria.
Occorre, pertanto, per prima cosa trovare un meccanismo per dare un certo contenuto alla
pronuncia di merito, e poi estendere gli e etti della pronuncia di merito, con quel contenuto, nei
confronti dell'avente causa.
La dottrina prevalente sostiene che l’inconveniente che si verrebbe a creare consisterebbe nella
“perdita di legittimazione” della parte originaria e quindi, in assenza dell’art. 111, il processo si
dovrebbe concludere con una sentenza di rigetto per carenza di legittimazione. La funzione
dell’art. 111 è proprio evitare questo.

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Tuttavia questa impostazione non è corretta perché qui non c’entra la legittimazione ex art. 81 cpc
ma si utilizza il termine “legittimazione” nell’accezione di e ettiva titolarità del diritto e obbligo
dedotti in giudizio, quindi come legittimazione sostanziale.
Dunque nella successione nel diritto controverso si pongono problemi di merito e non di rito in
quanto la domanda deve essere rigettata nel merito. Storicamente si sono utilizzate varie tecniche
per neutralizzare gli e etti che l’estinzione della situazione dedotta in giudizio produce sul
contenuto di merito della sentenza.
Il sistema più semplice (ma eccessivo) consiste nel prevedere la nullità o più in generale
l’ine cacia (sul piano sostanziale) degli atti di disposizione sul diritto controverso. Il meccanismo
è però deleterio per la circolazione dei diritti, in quanto la blocca per il solo fatto della pendenza di
un processo.
Tuttavia questo meccanismo è contrario al principio del minimo mezzo, quindi è opportuno
individuare la regola processuale che determina questo inconveniente per poi trovare una
soluzione. Tale regola processuale è quella in base alla quale la decisione si deve fondare sulla
situazione esistente al momento della precisazione delle conclusioni. Il giudice deve tener conto
di tutti i fatti veri catisi in corso di causa, quindi anche degli e etti estintivi che sono conseguenza
della successione nella situazione controversa. Per evitare l'inconveniente, si può disapplicare tale
norma nell'ipotesi in cui il fatto, veri catosi in corso di causa e che produce l'estinzione della
situazione dedotta in giudizio, consiste in un atto di disposizione di una delle parti. La regola
sopra richiamata non si applica, così, nell'ipotesi di successione nel diritto controverso. È vero
che, ad es. se l'attore cede il credito, sul piano sostanziale la cessione produce l'estinzione del
diritto fatto valere, ma il giudice deve decidere come se il diritto non si fosse estinto in seguito alla
cessione. Tale teoria è detta della irrilevanza, perché le modi cazioni conseguenti alla
successione sono irrilevanti ai ni della decisione di merito.
Un'altra versione dello stesso meccanismo è quella della c.d. retroattività della sentenza al
momento della domanda: la sentenza deve decidere sulla base della realtà sostanziale esistente
al momento della proposizione della domanda, senza tener conto degli e etti prodotti, nel corso
del processo, dalla successione.
Bisogna precisare che l’irrilevanza è limitata alle modi cazioni prodotte dagli atti di disposizione:
essa non riguarda i fatti modi cativi o estintivi della situazione dedotta in giudizio, che non
derivano da atti di disposizione traslativi del diritto o dell’obbligo controversi in capo a terzi.
Esempio: Caio, convenuto da Tizio per la condanna al pagamento di un credito, adempie in corso
di causa; oppure Tizio, sempre in corso di causa, rimette il debito a Caio. Il giudice deve tener
conto di tali fatti estintivi sopravvenuti, in quanto essi non coincidono con una successione nel
diritto o nell'obbligo controversi.
In quest’ottica, l'accoglimento della domanda nei confronti del convenuto non è ostacolato dal
fatto che questo, in virtù dell'atto di disposizione, ha visto estinto il proprio obbligo. Gli e etti della
sentenza, che accoglie la domanda, si estendono al successore del convenuto.
Esempio: Tizio agisce in rivendicazione nei confronti di Caio. Caio, in corso di causa, cede il
possesso del bene a Sempronio. Se il giudice accerta che Tizio è proprietario del bene e che Caio
ne era possessore al momento della proposizione della domanda giudiziale, accoglie la
rivendicazione e condanna Caio a consegnare il bene a Tizio. Questi può ottenere, se del caso
anche esecutivamente, la consegna del bene da Sempronio, nei cui confronti si estendono gli
e etti della sentenza.

Tuttavia se e nché oggetto del processo rimane la situazione del dante causa, non possono
essere fatti valere nel processo, nei confronti del dante causa, tutti i fatti propri del rapporto col
cessionario, perché essi sono irrilevanti rispetto all'oggetto del processo. Si ha, così, una
divaricazione fra la realtà sostanziale e ettiva e ciò che è rilevante ai ni della decisione di merito.
Questa sfasatura produce degli inconvenienti: l'obbligato non può adempiere perché, se adempie
al cessionario, viene ugualmente condannato, visto che il diritto del cedente non si estingue in
virtù di tale pagamento; se adempie al cedente, il pagamento non è liberatorio sul piano
sostanziale, perché non e ettuato a colui che, sul piano sostanziale, è il creditore.

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A nché i fatti, rilevanti solo nei confronti della situazione dipendente, divengano utilizzabili in
causa, occorre modi care l’oggetto del processo: è necessario che oggetto del processo
diventi il diritto dipendente del cessionario e non più il diritto originario del cedente. Si deve quindi
applicare la teoria della rilevanza, così chiamata perché diventa rilevante la successione in
quanto si muta l’oggetto del processo. Se, dunque, la controparte del dante causa fa valere fatti
modi cativi o estintivi propri del diritto dell'avente causa, oggetto del processo diviene il diritto
dell'avente causa. Il dante causa si trasforma in sostituto processuale del suo avente causa,
facendo valere non più il diritto suo, ma quello dell'avente causa.

Individuati i presupposti e i meccanismi di applicazione della norma, bisogna vedere come


funziona il processo quando avviene una successione del diritto controverso.
La compressione del principio del contraddittorio, in ossequio al principio del minimo mezzo, va
mantenuta nei limiti strettamente necessari per raggiungere la nalità perseguita, e non può
essere eccedente rispetto allo scopo da raggiungere. Lo scopo da raggiungere è quello di non
mettere la controparte, per ottenere la tutela che le spetta, in condizione di dover inseguire tutti gli
aventi causa che eventualmente si vengono a creare nel corso del processo; di non dare a lei
l'onere, al ne di avere una sentenza e cace nei confronti dell'avente causa, di doverlo chiamare
nel processo. Quindi è costituzionalmente giusti cato che la sentenza produca e etti nei confronti
del successore, senza che la controparte sia obbligata ad instaurare il contraddittorio nei suoi
confronti, però non sarebbe giusti cato negare all'avente causa tutti gli altri elementi che
compongono il diritto di difesa.
Se si veri ca l’ipotesi di successione del diritto controverso, bisogna distinguere 4 situazioni:
1. svolgimento del processo prima della successione: non vi sono di erenze con il normale
processo.
2. svolgimento del processo dopo la successione ma prima che il successore diventi parte in
senso processuale: questa è l’ipotesi più delicata. Per raggiungere il risultato di tutelare la
controparte, il dante causa che rimane nel processo deve essere munito di poteri pieni senza che
l’avvenuta successione possa in qualche modo incidere sui poteri processuali del dante causa e
della controparte. Se ciò accadesse l’istituto della successione nel diritto controverso non
raggiungerebbe il suo scopo di rendere possibile la circolazione dei diritti senza pregiudicare la
posizione della controparte rispetto a chi ha dato luogo alla successione. Se il processo mantiene
il suo oggetto originario, la parte che ha dato luogo alla successione può compiere tutti gli atti e
nei suoi confronti possono essere compiuti tutti gli atti in quanto l’oggetto del processo è il suo
diritto / obbligo.
Ma anche quando l’alienante si trasforma in sostituto processuale egli è munito di poteri pieni,
cioè può compiere e contro di lui possono essere compiuti tutti gli atti che si potrebbero fare se
fosse in causa l'e ettivo titolare del diritto. Infatti, nella sostituzione processuale il sostituto può
sostituire in tutto il legittimato ordinario. Per il compimento di certi atti processuali conta il potere
di disporre del diritto oggetto del processo, e non la titolarità dello stesso. E se titolare del diritto
controverso, in caso di sostituzione processuale, è l'avente causa, il potere di disporre (all'interno
del processo, proprio in qualità di sostituto processuale) spetta al dante causa.
3. svolgimento del processo quando il successore è divenuto parte (perché è intervenuto
volontariamente o è stato chiamato in causa da una delle parti originarie): il successore può
intervenire e la chiamata può essere fatta in qualunque momento. L’intervento del successore nel
diritto controverso è diverso in quanto a presupposti da quello ex art. 105 cpc. Invece l'intervento
del successore, a cui l’emananda sentenza sia inopponibile, avviene ai sensi dell’art. 105 cpc co.
1: cioè si tratta di un intervento principale ad excludendum oppure adesivo autonomo. Con
l'intervento o la chiamata del successore si realizza un'ipotesi di litisconsorzio unitario. Dante
causa e avente causa diventano parti necessarie del processo: non è possibile la separazione tra
le cause ma è possibile l’estromissione del dante causa. Una volta che il successore è divenuto
parte in senso processuale, gli atti processuali hanno la caratteristica dell'unitarietà propria del
litisconsorzio quasi necessario.
4. svolgimento del processo dopo che si è avuta l'estromissione del dante causa: in questa
ipotesi si incontra un’altra forma di estromissione, ulteriore rispetto a quella del garantito e
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dell’obbligato. L’estromissione richiede come presupposto necessario che la successione abbia
avuto luogo in relazione all’intero oggetto della domanda. Per quanto riguarda un processo con
più oggetti, se la successione nel diritto controverso si veri ca, anche rispetto ad uno solo di tali
oggetti ma per l’intera estensione di questo, l’estromissione è possibile. Inoltre è possibile se vi è
il consenso delle altre parti. Il ri uto all’estromissione può essere motivato dal fatto che, con
l'estromissione, il dante causa perde la qualità di parte processuale, perdendo così anche la
qualità di destinatario degli e etti di rito delle pronunce, tra cui la condanna alle spese. La
controparte può, quindi, ri utare il proprio consenso, se teme fondatamente di non essere
su cientemente garantita dal patrimonio del successore, per quanto riguarda il pagamento delle
spese processuali.
L'estromissione è pronunciata con ordinanza se nessuno si oppone; è pronunciata con sentenza
se qualcuno si oppone, e il giudice ritiene che i motivi di opposizione non sono meritevoli di
tutela. Se, al contrario, il giudice ritiene che l'opposizione sia fondata, sempre con sentenza ri uta
l’estromissione. Una volta avuta l’estromissione, si torna alla situazione normale. In particolare, gli
e etti della sentenza si imputano tutti quanti al successore: quelli di rito (ivi compresa la
statuizione sulle spese) perché egli è parte in senso processuale; e quelli di merito perché egli è
parte in senso sostanziale, essendo il titolare del diritto o dell'obbligo dedotti in giudizio.
Ma la tutela dell’avente causa non si limita alla possibilità di prendere parte al processo,
svolgendo il ruolo di parte in modo pieno, infatti l’ordinamento riconosce al successore nel diritto
controverso la possibilità di utilizzare i mezzi di impugnazione propri delle parti non solo quando
egli sia stato chiamato o sia intervenuto, ma anche quando non è diventato parte.

E etti della sentenza

Arriviamo ora all’ultimo comma dell’art. 111 cpc, che costituisce il nucleo della norma, cioè la
parte attorno alla quale ruota tutta la disposizione: riguarda l’e cacia della sentenza nei confronti
del successore, che deve sempre trovare applicazione (a di erenza degli altri commi).
Si rende opportuna una precisazione terminologica pregiudiziale: l'art. 111 cpc testualmente
dispone che la sentenza, pronunciata contro il dante causa (alienante o successore universale),
spiega sempre i suoi e etti anche contro il successore a titolo particolare. Che cosa signi ca
“contro”? L'espressione non va presa alla lettera, come se la sentenza avesse e etti nei confronti
del successore solo se a lui sfavorevole, e viceversa non avesse e etti se a lui favorevole. La
dizione del legislatore si spiega con il fatto che la sentenza favorevole è comunque utilizzabile da
parte del successore. Come abbiamo già visto, la sentenza favorevole al dante causa è sempre
utilizzabile da parte del successore per ragioni di diritto sostanziale, e quindi anche quando la
successione ha luogo prima della proposizione della domanda.
Quando il successore nel diritto controverso non ha assunto la qualità di parte in senso
processuale, si pone un ulteriore problema, che invece non si ha quando il successore è
intervenuto oppure è stato chiamato nel processo. In tale seconda ipotesi, la sentenza imputa i
suoi e etti al successore in via immediata: egli è identi cato nella sentenza con nome e cognome.
Nel primo caso, invece, l’e cacia della sentenza nei confronti del successore si veri ca a
condizione che venga ad esistenza la fattispecie, che è prevista dalla norma.
In tutte le ipotesi di e cacia della sentenza nei confronti di terzi (cioè di soggetti che non sono
stati parti del processo nel quale il provvedimento si è formato) esiste una fattispecie cui è
subordinato il prodursi dell'e cacia. Così, ad es. l'e cacia della sentenza nei confronti del
successore a titolo universale è subordinata al fatto che il soggetto, nei cui confronti si vuol far
valere la pronuncia, sia e ettivamente un successore a titolo universale della parte soccombente.
Nel caso dell'art. 111, la fattispecie, in virtù della quale gli e etti della sentenza si estendono ad
un terzo, è che vi sia (e ettivamente) stata la successione nel diritto controverso.
Quanto appena detto vale sia quando nella sentenza non si fa cenno alla successione nel diritto
controverso, sia quando la sentenza a erma che vi è stata, sempre che il successore non sia
divenuto parte. In tal caso, le questioni rilevanti per la sussistenza della successione nel diritto
controverso sono discusse e decise nel suo contraddittorio e la sentenza fa stato nei suoi

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confronti non in virtù dell'art. 111 cpc, ma appunto in via diretta in quanto egli è nominato nella
sentenza come il destinatario di tali e etti.
La condizione, cui è subordinata l'e cacia di ogni atto, è per forza di cose estranea alla portata
precettiva dell'atto stesso e pregiudiziale all’e cacia dell’atto.
Dobbiamo pertanto concludere che il terzo, il quale non sia divenuto parte, può sempre e in ogni
caso contestare gli e etti della sentenza sostenendo che non sussistono i presupposti di tale
e cacia, anche quando tali presupposti sono a ermati nella sentenza stessa.
L'art. 111 prevede delle eccezioni all'e cacia della sentenza verso il successore, richiamando le
norme sull'acquisto in buona fede dei mobili e le norme sulla trascrizione. Le due eccezioni hanno
portata ben diversa: le norme sull'acquisto in buona fede dei mobili sono gli artt. 1153 e 1155 cc.
L'art. 1153 cc. prevede una fattispecie di acquisto a titolo originario, composta dall'atto
astrattamente idoneo al trasferimento del diritto e dal conseguimento del possesso in buona fede.
L'art. 1155 cc. è analogo e in pratica applica, in tema di doppia alienazione mobiliare, lo stesso
principio. La questione, ovviamente, non riguarda il tipo di beni, ma il tipo di acquisto, cioè
l'acquisto a titolo originario. Nell'ipotesi di acquisto a titolo originario la sentenza è ine cace
nei confronti del successore non in virtù dei limiti soggettivi, ma in virtù dei limiti oggettivi.
Quando esaminammo i limiti soggettivi di e cacia della sentenza, vedemmo che tale problema
presuppone risolto quello dei limiti oggettivi. Perché entrino in gioco i limiti soggettivi, ciò che è
stato deciso con la sentenza deve essere rilevante per decidere della situazione del terzo,
oggetto del secondo processo. Nel caso di acquisto a titolo originario la sentenza non è e cace
nei confronti del terzo perché costui è un terzo indi erente.

Trascrizione delle domande giudiziali

Il richiamo, contenuto nell'art. 111, alle norme sulla trascrizione fa riferimento agli artt. 2652-2653
cc. per quanto riguarda i beni immobili ed agli art. 2690-2691 cc. per quanto riguarda i beni mobili
registrati. Nel prosieguo prenderemo in esame gli artt. 2652-2653 cc., in quanto la disciplina per i
beni mobili registrati è sostanzialmente analoga a quella degli immobili.
La trascrizione riguarda gli atti di cui all'art. 2643 cc., quando abbiano ad oggetto beni immobili.
La funzione primaria della trascrizione è quella enunciata dall'art. 2644 cc.: risolvere il con itto tra
due aventi causa dello stesso dante causa, non sulla base della priorità dell'atto di acquisto ma
sulla base della priorità della trascrizione dell'atto di acquisto. Tra due aventi causa dello stesso
dante causa prevale colui che trascrive per primo e non colui che acquista per primo.
Nel nostro sistema la trascrizione non ha funzioni ulteriori, oltre a risolvere tale con itto.
Vediamo ora qual è il collegamento tra gli artt. 2652-2653 c.c. e l'art. 111. Vi sono due tipi di
problemi da a rontare, perché la trascrizione della domanda ha due tipi di e etti:
E etto processuale: si veri ca sempre ed è il seguente: quando la domanda è soggetta a
trascrizione, la litispendenza, ai ni dell'applicazione dell'art. 111, si determina non sulla base dei
criteri ordinari ma sulla base della trascrizione della domanda. Si considera l'avente causa un
successore nel diritto controverso (e come tale soggetto agli e etti della sentenza) se la
trascrizione del suo atto d'acquisto è posteriore alla trascrizione della domanda, anche se il suo
atto d'acquisto si è perfezionato prima della proposizione della domanda. E, inversamente,
l'avente causa si considera un successore ante litem e quindi svincolato dagli e etti della
sentenza, quando egli ha trascritto il suo atto d’acquisto prima della trascrizione della domanda,
sempre che tale atto sia posteriore alla proposizione della domanda.
Esempio:
3 aprile 2021: Tizio vende a Caio
4 aprile 2021: Sempronio propone domanda contro Tizio (ovviamente la domanda e l'atto di
vendita devono avere ad oggetto lo stesso bene)
5 aprile 2021: Sempronio trascrive la sua domanda contro Tizio
6 aprile 2021: Caio trascrive il suo acquisto contro Tizio.
Poiché la trascrizione della domanda di Sempronio contro Tizio è anteriore alla trascrizione
dell'atto di acquisto di Caio, la litispendenza è anteriore all'acquisto di Caio, che deve essere

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quali cato come un successore nel diritto controverso: quindi la sentenza sarà e cace nei suoi
confronti. Si può anche veri care il caso inverso.
Se non ci fosse la trascrizione né chi acquista né chi propone la domanda saprebbero se
l'acquisto o la domanda sono opponibili ai terzi.
Questo e etto processuale non esplica nessuna e cacia sul piano sostanziale, ma garantisce il
diritto di difesa di chi ha trascritto perché eventuali sentenze pronunciate contro il suo dante
causa non gli sono opponibili.
È chiaro che la sentenza, e cace verso il terzo che ha acquistato sulla base di un atto trascritto
dopo la trascrizione della domanda, è quella che accoglie la domanda trascritta. Se per caso
viene accolta una domanda diversa da quella trascritta, la sentenza non ha e cacia nei confronti
dell’acquirente. A ciò si deve fare un’eccezione per il caso in cui il giudice dichiari la nullità del
contratto, che infatti è rilevabile ex o cio e quindi la sentenza che la dichiara non pronuncia su
una domanda diversa da quella trascritta.
Dunque l'e etto processuale costante della trascrizione è, per alcune domande previste dagli artt.
2652 e 2653 cc, anche l'unico e etto possibile.
E etto sostanziale: si veri ca in certe situazioni a certe condizioni. Le sentenze che accolgono le
domande ex art. 2652 cc non pregiudicano, a certe condizioni, i diritti acquisiti dai terzi in base ad
un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Da notare la di erenza
terminologica: l'art. 2653 parla di diritti acquistati in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione
della domanda e parla di avere e etto della sentenza nei confronti di chi trascrive dopo. Qui si
dice che le sentenze non pregiudicano i diritti di chi ha trascritto prima della trascrizione della
domanda.
Per individuare correttamente tale e etto proviamo ad utilizzare una concreta vicenda. Tizio
trasferisce un bene a Caio che lo ritrasferisce a Sempronio. Vi sono dunque due atti: il primo
traslativo del diritto da Tizio a Caio (1), il secondo da Caio a Sempronio (2). Il trasferimento di 1 è
a etto da un vizio (nullità, annullabilità, etc.), oppure è soggetto a venir meno (risoluzione,
rescissione, etc.). Tizio domanda e ottiene in relazione a 1 la risoluzione, annullamento o la
dichiarazione della sua nullità. I rapporti tra Tizio e Sempronio sono regolati, in mancanza di
regole diverse espressamente previste, da due vecchi brocardi: «resoluto iure dantis, resolvitur et
ius accipientis» cioè venuto meno 1 viene meno anche 2. Questo brocardo si applica alle
pronunce costitutive-risolutive. L'altro brocardo «nemo plus iuris in alium transferre potest quam
ipse habet», applicato ai casi di contratto ine cace, signi ca che Caio non può trasferire a
Sempronio più diritti di quelli che lui ha. E siccome 1 è ine cace, Caio non ha potuto trasferire
alcunché a Sempronio. In questi casi, il con itto tra Tizio e Sempronio sarebbe sempre risolto a
favore di Tizio.
Tuttavia non bisogna confondere il piano sostanziale con quello processuale.
Tornando all’esempio, se 2 è anteriore alla domanda di nullità, risoluzione ecc. di Tizio verso
Caio, Sempronio è successore ante litem: questo vuol dire che la sentenza tra Tizio e Caio non è
e cace nei suoi confronti.
Però il diritto sostanziale vede Tizio prevalere nei confronti di Sempronio. Data l'ine cacia, nei
confronti di Sempronio, della sentenza che accerta la nullità, annulla o risolve il contratto, Tizio
deve proporre una nuova domanda nei confronti di Sempronio e dimostrare ex novo che il
contratto fra lui e Caio è nullo, annullabile o risolubile. Ma una volta che l'avesse dimostrato, Tizio
otteneva sempre tutela nei confronti di Sempronio. È poi evidente che, se 2 è successivo alla
proposizione della domanda di nullità, annullabilità o risoluzione proposta da Tizio contro Caio,
Sempronio deve considerarsi successore nel diritto controverso, e quindi soggetto (anche) agli
e etti della sentenza.
L’applicazione di questi principi però pone gravi problemi in ordine alla circolazione dei diritti e
quindi il legislatore ha introdotto alcune deroghe ai due principi sopra enunciati, svincolando, a
certe condizioni, l’acquisto di Sempronio (2) dalla sorte dell’acquisto del suo dante causa (1).
In primo luogo, rimane fermo che il subacquisto trascritto dopo la trascrizione della domanda non
dà nessuna tutela al subacquirente, che è un successore nel diritto controverso.
Il legislatore interviene nel caso in cui la trascrizione del subacquisto 2 sia anteriore alla
trascrizione della domanda di Tizio verso Caio: oltre all’ine cacia processuale, il legislatore

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stabilisce che, a certe condizioni ex art. 2652, il subacquirente diventa insensibile, sul piano
sostanziale, al venir meno del titolo del suo dante causa.
Vediamo le condizioni:
- Art. 2652 n. 1: alla sola condizione che 2 sia stato trascritto prima della trascrizione della
domanda di Tizio, Sempronio è immune dalla risoluzione, annullamento ecc.
- Art. 2652 n 5 (azione revocatoria): «la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i
diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede in base ad un atto trascritto o iscritto
anteriormente alla trascrizione della domanda». In questo caso non basta la semplice
anteriorità della trascrizione del titolo, rispetto alla trascrizione della domanda, ma ci vuole
qualcosa di più: la buona fede e il titolo oneroso. Se non si veri cano tali presupposti, allora si
riapre per Tizio la possibilità di dimostrare ex novo, nei confronti del subacquirente Sempronio, i
presupposti dell'azione revocatoria (andando ad applicare il brocardo resoluto iure dantis).
- Art. 2652 n. 6: si occupa delle domande dirette a far dichiarare la nullità di un contratto e
stabilisce: «se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data di trascrizione dell'atto
impugnato, la sentenza che lo accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai
terzi di buona fede in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della
domanda». Qui, per la salvezza del subacquirente, sono necessari la buona fede e il decorso di
cinque anni tra la trascrizione dell'atto nullo e la trascrizione della domanda di nullità.
Occorre precisare che la salvezza non costituisce un acquisto a titolo originario, perché dà a
Sempronio un titolo opponibile a Tizio ma non opponibile ad un eventuale estraneo che sia il vero
proprietario del bene.
Mitigando l'applicazione dei principi “nemo plus iuris” e “resoluto iure dantis” l'ordinamento
inverte il rischio della insolvenza di Caio, facendolo ricadere su Tizio invece che su Sempronio.
Infatti, ove le vicende attinenti al titolo Tizio-Caio (1) siano opponibili a Sempronio, quest'ultimo
perde il bene (che deve restituire a Tizio) ed ha ragioni di evizione verso Caio. Qualora, invece, le
vicende attinenti a 1 non siano opponibili a Sempronio, Tizio non ottiene la restituzione del bene,
ma ha diritto di averne l'equivalente pecuniario da Caio. Se però Caio è insolvente, la salvezza a
favore di Sempronio scarica su Tizio il danno economico di non avere né il bene né il suo
controvalore economico.

Rimangono in ne le ipotesi previste dai nn. 2 e 3 ex art. 2652 cc, che riguardano la doppia
alienazione (o promessa di alienazione) da Tizio a Caio (A) e da Tizio a Sempronio (B), e la
trascrizione della domanda ha e etti di prenotazione.
Nel primo caso, la sentenza che accoglie la domanda e quindi trasferisce la proprietà “prende
data” dalla trascrizione della domanda e quindi prevale sulle trascrizioni ed iscrizioni e ettuate nel
corso del processo nei confronti di colui contro il quale la domanda è stata proposta.
Nel secondo caso, si è avuta una vendita per scrittura privata, e come tale non trascrivibile.
L'acquirente quindi propone e trascrive domanda per ottenere una sentenza che veri chi la
sottoscrizione. La sentenza che accoglie la domanda di veri cazione consente la trascrizione
della scrittura privata e “prende data” dalla trascrizione della domanda e quindi prevale sulle
trascrizioni ed iscrizioni e ettuate nel corso del processo nei confronti di colui contro il quale la
domanda è stata proposta.
La trascrizione della domanda in linea di principio produce e etti nché vi è la litispendenza. Tale
regola però produce delle incertezze nella circolazione dei beni nel caso in cui il processo viene
meno senza una pronuncia formale di estinzione. Per evitare tali incertezze, l’art. 2668 bis cc
prevede che la trascrizione della domanda abbia e etto per vent'anni dalla sua data. Prima della
scadenza, se il processo è ancora in corso, la trascrizione deve essere rinnovata.

Nullità degli atti processuali

Prima di trattare della nullità degli atti, occorre fare una premessa: le norme processuali sono
vincolanti per tutti coloro cui sono indirizzate, a prescindere dalle conseguenze della loro
violazione. A riprova di ciò si pone l’art. 124 cpp, il quale a erma che "i magistrati, i cancellieri e
gli altri ausiliari del giudice, gli u ciali giudiziari, gli u ciali e gli agenti di polizia giudiziaria sono
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tenuti a osservare le norme di questo codice anche quando l'inosservanza non importa nullità o
altra sanzione processuale”.
Ciò premesso, occorre ora esaminare la nozione di procedimento e di processo, il modo e la
struttura con cui gli atti processuali vengono previsti in astratto e compiuti in concreto.
Il procedimento è un modo speciale di combinarsi tra loro degli atti e si caratterizza perché gli
e etti della sentenza vengono prodotti dall’atto nale e al tempo stesso ciascun atto della serie
forma il presupposto dell’atto successivo, il quale presuppone a sua volta l’atto precedente. La
duplice rilevanza di presupposto e presupponente di ogni atto della sequenza trova eccezione
solo per l'atto iniziale e l'atto nale, perché l'atto iniziale forma il presupposto di quelli successivi,
ma non ne presuppone altri antecedenti, mentre l'atto nale presuppone tutti gli atti antecedenti e
non forma il presupposto di atti successivi.
Non sempre il procedimento costituisce una sequenza unica: a volte si formano sub-sequenze di
atti, cioè sub-procedimenti all'interno del procedimento maggiore. Ciò è importante per quanto
riguarda i problemi relativi alla validità ed alla e cacia degli atti.
Il processo, poi, costituisce una sottospecie del procedimento, caratterizzata dal principio del
contraddittorio e dalla parità delle armi. L'attività giurisdizionale si struttura necessariamente
come processo per la previsione costituzionale contenuta nell'art. 24 Cost, dunque il
contraddittorio deve trovare attuazione.
Per quanto attiene alla forma degli atti, ogni singolo atto processuale, secondo la teoria generale
degli atti, ha alcuni elementi: un soggetto che lo pone in essere, un contenuto, una volontà e una
forma (non si intende la forma scritta o orale, ma il modo in cui l'atto è percepibile all’esterno).
Dobbiamo so ermarci in particolare sulla volontà e sulla forma perché l'atto processuale è
normalmente un atto giuridico in senso stretto, cioè non ha le caratteristiche del negozio. Ciò
signi ca che la volontà è la semplice volontarietà del comportamento e non la volontà dei ni,
come avviene nel negozio. Pertanto i vizi della volontà (errore, dolo e violenza), che rilevano nel
negozio, sono irrilevanti per l'atto processuale.
Nel diritto processuale l'indagine sulla volontarietà, che pure è rilevante, è sempli cata dal fatto
che tale accertamento viene ad essere surrogato dalla forma: se l'atto presenta tutti i requisiti
formali descritti dalla previsione normativa, si presume che l'atto sia stato compiuto
consapevolmente e non per caso. Tuttavia nulla esclude che in certi casi si possa dimostrare che
un atto è stato compiuto senza la volontarietà del comportamento.

Passiamo al problema della nullità degli atti. Bisogna distinguere tra la nullità dei singoli atti del
processo (nullità formale) e la nullità conseguente alla carenza di un presupposto processuale
(nullità extraformale).
Da un punto di vista di teoria generale, vale la seguente regola: l'atto è valido quando è integrata
la fattispecie prevista dalla legge, cioè quando la fattispecie astratta prevista dalla legge coincide
con la fattispecie concreta, costituita dal singolo concreto comportamento. Un atto valido è anche
un atto e cace, cioè gli conseguono per previsione normativa determinati e etti.
Tuttavia l’art. 156 cpc adotta una nozione di nullità diversa da quella di teoria generale appena
vista: stabilisce che l’invalidità dell’atto si ha in due ipotesi concorrenti. Nel caso in cui la nullità è
espressamente prevista dalla legge e quando l’atto manca dei requisiti per il raggiungimento
dello scopo.
Allora, se la nozione di invalidità adottata dal diritto positivo è diversa da quella che si fonda sulla
teoria generale, bisognerà rivedere anche i rapporti tra validità ed e cacia. Tale combinazione
può dare luogo a quattro soluzioni possibili:
1) La prima ipotesi è quella siologica: l'atto è valido ed e cace. Qui la previsione normativa e la
regola di teoria generale coincidono, in quanto la fattispecie è completa, l'atto è valido e produce i
suoi e etti.
2) La seconda ipotesi combina la validità e l'ine cacia: l'atto è valido e tuttavia ine cace. È
chiaro che l'ine cacia deve essere temporanea, in quanto non è immaginabile che un atto sia
valido e tuttavia permanentemente inidoneo a produrre e etti.
Un esempio di questa combinazione è la vacatio legis.

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3) La terza ipotesi si ha quando l'atto è invalido e tuttavia e cace: l’atto invalido produce
momentaneamente i suoi e etti ma contemporaneamente deve esserci la possibilità di impugnare
l’atto e quindi di caducarne gli e etti. Ciò accade, ad es. nel caso del contratto annullabile, il
quale produce i suoi e etti, ma può essere impugnato ad iniziativa di parte ed entro un certo
termine. Questa combinazione si applica alla nullità di diritto processuale, quella che nel diritto
privato si chiama annullabilità. A tale fenomeno si riferisce l'art. 156 quando a erma che non può
essere “pronunciata la nullità”. Prevedendo la "pronuncia" della nullità, la norma indubbiamente si
riferisce ad un atto invalido ma e cace, onde la pronuncia della nullità costituisce lo strumento
per caducarne gli e etti. È importante sottolineare che gli artt. 156 ss. si riferiscono ai vizi formali,
rimanendo quindi esclusi sia i vizi extraformali sia l’inesistenza dell’atto, per la quale non esiste
una disciplina compiuta.
4) L'ultima ipotesi si ha quando l'atto è invalido e ine cace: non è necessario esercitare
un'azione di impugnativa nel termine pre ssato dal legislatore in quanto è su ciente far
constatare, in ogni tempo e con ogni mezzo e da parte di chiunque, che gli e etti non si sono
prodotti. Questa è la disciplina della nullità del diritto sostanziale: il negozio nullo non produce
e etti, quindi l'azione di nullità è imprescrittibile e la nullità è rilevabile da chiunque vi abbia
interesse, ed anche d’u cio. Nel diritto processuale tale fenomeno si chiama convenzionalmente
inesistenza.
In sintesi l’art. 156 dispone che: l'atto è nullo quando lo prevede la legge (primo comma); l'atto è
nullo, anche se la legge non lo prevede, quando non ha gli elementi indispensabili per il
raggiungimento dello scopo (secondo comma); la nullità non può essere pronunciata, nonostante
sia prevista dal primo comma, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato (terzo comma).
Comunque la sanatoria costituita dal raggiungimento dello scopo non intende quest’ultimo come
produzione dell’e etto giuridico ma va intesa nel veri carsi di un evento materiale la cui
realizzazione quel requisito doveva favorire. Si ha così la convalidazione oggettiva dell’atto nullo.
Lo stesso ragionamento si può fare per il secondo comma: occorre individuare, volta per volta, lo
scopo o gli scopi dell'atto, vedere se l'atto può raggiungere ugualmente lo scopo nonostante la
carenza di quell'elemento peraltro non previsto espressamente a pena di nullità (se l'elemento
fosse previsto espressamente a pena di nullità si rientrerebbe nella previsione del primo comma
dell'art. 156) e, se la risposta è positiva, l'atto compiuto è nullo, nonostante la mancata previsione
della legge.

Vediamo ora l'ipotesi inversa: l'atto raggiunge il suo scopo nonostante l'espressa previsione di
nullità. Sappiamo che la noti cazione serve a portare a conoscenza della controparte determinati
atti per rendere possibile il compimento di attività che costituiscono la replica a quello, che è stato
noti cato. Lo scopo della noti cazione è di rendere possibile la difesa della controparte. Se la
noti cazione è nulla, però è seguita dal compimento della replica della controparte, la
noti cazione ha raggiunto il suo scopo e quindi la nullità è sanata.

Per quanto attiene il pro lo dinamico, l’art. 157 si occupa della dinamica della nullità. Lo
strumento con cui, all'interno del processo di cognizione, la parte introduce la questione della
nullità di un atto si de nisce eccezione; ma essa non ha niente a che vedere con l'eccezione di
merito, che consiste nell'allegazione dei fatti impeditivi, modi cativi ed estintivi del diritto dedotto
in giudizio: qui si tratta di un'eccezione processuale, cioè di un'attività di rito. Una volta sollevata
l’eccezione, il giudice dovrà a rontare la questione relativa all’asserita nullità dell’atto.
In relazione al potere d’u cio del giudice di rilevare la nullità, in tema di eccezioni di merito, il
giudice può rilevare d'u cio tutte le eccezioni, tranne quelle che sono espressamente riservate
alla parte. In questo caso invece, il giudice non può pronunciare la nullità d’u cio se non quando
la legge gli conferisce espressamente tale potere.
Quando la nullità non è rilevabile d’u cio, vi sono meccanismi precisi per rilevarla. In primo luogo
la nullità può essere rilevata solo dalla parte, nel cui interesse è stabilito il requisito dell'atto che
è viziato; inoltre la parte interessata deve rilevare la nullità nel primo atto successivo al momento
in cui è venuta a conoscenza dell'atto nullo; quindi la reazione deve essere immediata. In ne, la

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nullità non può mai essere rilevata dalla parte che vi ha dato causa (in base al principio di
autoresponsabilità) e la nullità è sanata da una rinuncia, anche tacita, della parte interessata.
Queste regole riguardano le nullità relative e non quelle assolute, rilevabili d’u cio senza termini
di decadenza e non ha e etti l’eventuale rinuncia della parte.
Un’altra regola importante è contenuta nell’art. 159 cpc, che disciplina l’estensione delle nullità
e stabilisce che la nullità di un atto non comporta la nullità degli atti precedenti né di quelli
successivi che ne sono indipendenti. In base a questa regola, la nullità degli atti del processo
in uisce in linea di massima sull'atto nale, perché tutti gli atti del processo sono compiuti in
funzione dell'atto nale. La ripercussione delle nullità degli atti del processo sulla sentenza dà
luogo ad un fenomeno di nullità derivata della sentenza, che è nulla in quanto dipendente da atti
nulli.
Vi sono peraltro due ipotesi in presenza delle quali un processo, in cui è presente un atto nullo,
non produce a sua volta una sentenza nulla. La prima ipotesi è siologica e si ha quando il giudice
riconosce che l'atto è nullo e quindi non ne tiene conto nella decisione. L'altra ipotesi si ha
quando di fatto l'atto nullo non è utilizzato dal giudice, ancorché il giudice non ne dichiari
espressamente la nullità.
In tema di nullità della sentenza dobbiamo tener conto di un altro principio fondamentale previsto
dall’art. 161 cpc: il principio della conversione delle nullità della sentenza in motivi di
impugnazione. Tale articolo richiama solo l'appello e il ricorso per cassazione ma deve essere
esteso anche agli altri mezzi di impugnazione. Il principio della conversione vale, poi, anche nel
processo esecutivo, la nullità dei cui atti deve essere fatta valere con i mezzi che l'ordinamento
predispone. La regola della conversione delle nullità in motivi di impugnazione fonda quindi il c.d.
principio dell'onere di impugnazione, applicabile anche al di fuori del processo, nei confronti di
atti di diritto sostanziale. In base a tale principio, quando l'ordinamento prevede che i vizi di un
atto debbano essere fatti valere in un termine stabilito e attraverso un determinato strumento, i
vizi in questione non possono essere dedotti in via incidentale, in una sede diversa da quella
prevista.
Esempio: la nullità, non sanata, della noti cazione della citazione determina la nullità della
sentenza; questo vizio deve essere fatto valere attraverso i mezzi di impugnazione. Il convenuto
soccombente non può far valere tale nullità in una sede diversa, ad es. attraverso un'opposizione
all’esecuzione.
Il principio dell'onere dell'impugnazione non si applica quando l'atto è inesistente anziché
semplicemente nullo. Infatti l’art. 161 co. 2 speci ca che “questa disposizione non si applica
quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”. La norma non va intesa nel senso
che le sentenze mancanti di sottoscrizione non possono essere impugnate ma nel senso che non
è necessario che siano impugnate.
Quindi la sentenza che manca di sottoscrizione, anche se non impugnata, rimane pur sempre
viziata in modo tale, che il vizio può essere fatto valere anche all'esterno del processo. Questa
tipologia di vizio connota la sentenza inesistente. Si noti che la nozione di inesistenza è
interamente di derivazione dottrinale, in quanto essa non è utilizzata dal legislatore. La di erenza
fondamentale fra il primo ed il secondo comma dell'art. 161 è infatti la seguente: un vizio, che
deve ma non è fatto valere con i mezzi di impugnazione diventa irrilevante, perché, persi i mezzi di
impugnazione, non c'è più lo strumento per rilevarlo e quindi ormai, se anche la sentenza è nulla,
la nullità svanisce. Al contrario, la sentenza che manca della sottoscrizione può essere impugnata
ma, se anche non è impugnata, esistono altri strumenti per far valere il vizio.
Quella dell'art. 161 co. 2 è l'unica ipotesi espressamente prevista dal legislatore, che rientra nella
nozione dottrinale di inesistenza. Ciò, tuttavia, non impedisce di ampliare il discorso per vedere se
esistono altre ipotesi d'inesistenza della sentenza.
Queste ulteriori ipotesi riguardano:
- il giudice: per esempio è paci co che è inesistente la sentenza emessa da un soggetto che non
ha potere giurisdizionale. Oppure quando il giudice è collegiale e la decisione viene deliberata
da un numero di soggetti inferiore a quello minimo previsto dalla legge. Inoltre secondo la
CGUE si ha sentenza inesistente quando il giudice che l'ha pronunciata è stato nominato in
palese violazione delle norme fondamentali del sistema giudiziario interessato, sì che tale

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provvedimento non possa considerarsi pronunciato da un giudice indipendente e imparziale
precostituito per legge.
- provvedimento emesso nei confronti di una parte che era già inesistente (cioè che non aveva
capacità giuridica) al momento della proposizione della domanda. Tipico è il caso del processo
instaurato nei confronti di una persona sica che, già al momento della proposizione della
domanda giudiziale, era defunta.
- l'oggetto della decisione è incerto o impossibile, poiché qui non si sa su cosa abbia statuito il
giudice.
- casi in cui la sentenza non abbia i requisiti minimi indispensabili per svolgere la propria funzione
(es. scritta a mano con gra a indecifrabile).
L’inesistenza può essere ricondotta a due patologie: da un lato, vi sono le ipotesi in cui la
sentenza, oltre che invalida, è anche e soprattutto inidonea al raggiungimento del suo scopo, che
è quello di determinare le regole di condotta di due o più soggetti con riferimento ad una
situazione sostanziale protetta. Dall'altro lato, vi sono le ipotesi in cui, invece, la sentenza è
oggettivamente idonea a svolgere la sua funzione ma è viziata in modo talmente radicale, da non
essere riconducibile al modello normativo. Per es. nei casi in cui chi l'ha pronunciata non aveva il
potere giurisdizionale.

Le nullità extraformali si distinguono da quelle formali perché le nullità formali sono rilevabili
eccezionalmente d'u cio e, normalmente, soltanto ad istanza della parte interessata. Al contrario,
per la rilevabilità dei vizi dei presupposti processuali vale la regola opposta: essi sono
normalmente rilevabili d'u cio, tranne quelli che eccezionalmente sono riservati all'iniziativa di
parte. Se il giudice ritiene sussistente il difetto del presupposto processuale ed il vizio è sanabile,
egli ha il dovere di disporre la sanatoria; se invece è insanabile, il giudice ne prende atto e chiude
immediatamente il processo con sentenza di rito.
Gli e etti della sanatoria sono i seguenti:
- si acquisisce la possibilità di pronunciare nel merito;
- gli atti di trattazione del merito compiuti prima della sanatoria devono essere compiuti ex novo
salvo quelli compiuti di fronte al giudice incompetente e salva l'eventuale rati ca della parte
pregiudicata dal vizio;
- gli e etti sostanziali della domanda normalmente si producono ex tunc, quindi con e cacia
retroattiva, mentre altre volte si producono ex nunc, cioè dal momento in cui si veri ca la
sanatoria.

Spese e danni processuali

L’attività processuale ha un costo: nché il processo si svolge, ciascuna delle parti deve
anticipare le spese degli atti che essa compie, di quelli che chiede di compiere e di quelli per i
quali la legge o il giudice pongono a suo carico l’anticipazione. Se la parte è ammessa al gratuito
patrocinio l’anticipazione delle spese è e ettuata dallo Stato. Inoltre, la parte si serve
normalmente (di solito obbligatoriamente) dell'attività di un difensore tecnico, il quale ha diritto al
compenso per l'attività compiuta. Talora, poi, vi sono da pagare i compensi degli ausiliari del
giudice o delle parti.
Quasi tutti gli ordinamenti moderni pongono a carico del soccombente la refusione delle spese
processuali cui sia rimasto esposto il vincitore: ciò si esprime con il detto victus victori. Chi ha
dovuto agire o difendersi non può risentirne nocumento.
Per queste ragioni, checché ne pensi la Corte costituzionale, è incostituzionale e inopportuno
quanto previsto dall’art. 91 co. 4 cpc, secondo il quale “nelle cause previste dall’art. 82 co. 1 le
spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della
domanda”. In questo caso infatti la norme impedirebbe di esercitare il diritto di difesa o di azione.
Esempio: Tizio avanza una pretesa di 300,00 € nei confronti della società Alfa. Se le spese
dell'avvocato, com'è probabile, superano questa somma, Tizio di fatto deve rinunciare.
L'art. 91 prevede che, al termine di ogni fase del processo, il giudice di regola liquida alla parte
vincitrice le spese sostenute e le pone a carico della parte soccombente. È necessario anzitutto

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precisare che per «parte» qui si intende il soggetto destinatario degli e etti degli atti processuali.
Le spese, quindi, pur avendo rilievo patrimoniale, seguono le regole di imputazione degli atti
processuali e delle sentenze di rito e non quelli delle sentenze di merito.
In caso di rappresentanza le spese sono liquidate a favore o contro il rappresentato e non a
favore e contro il rappresentante; in caso di sostituzione processuale, le spese riguardano il
sostituto e non anche il titolare del diritto controverso, al quale si imitano gli e etti di merito.
Con principio di causalità si intende quindi che le spese vanno a carico della parte che ha
causato nell’altra la necessità del processo.
Sulla base del principio di causalità si spiega anche quanto prevede l'art. 91 co. 1 secondo
periodo: quando il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta
conciliativa, condanna la parte che ha ri utato senza giusti cato motivo tale proposta al
pagamento delle spese del processo maturate successivamente alla proposta.
La proposta conciliativa, di cui parla la norma, è costituita da una proposta, in qualunque sede
maturata purché ovviamente provata in causa, che coincida nella sostanza con la portata
precettiva della sentenza. Ovviamente deve trattarsi di diritti disponibili, altrimenti una proposta
conciliativa non avrebbe valore alcuno.
Bisogna stare bene attenti all'applicazione di questa regola laddove siano in gioco domande di
condanna: in questo caso, una mera proposta conciliativa del convenuto non è su ciente se non
accompagnata anche dall' adempimento o quanto meno da una seria o erta di adempimento.
L'altro principio che governa la condanna alle spese è il principio di globalità: la soccombenza
dev'essere valutata globalmente, con riferimento all'esito nale del processo, senza che rilevi il
fatto che, nelle fasi precedenti, la parte alla ne vittoriosa si sia vista dar torto; oppure il fatto che,
all'interno della stessa fase, alcune difese della parte vittoriosa siano state ritenute infondate dal
giudice. La liquidazione delle spese deve essere e ettuata nella sentenza con la quale il giudice
chiude il processo davanti a sé.
Il procedimento cautelare uniforme prevede che, ove un'istanza cautelare sia proposta prima
dell'instaurazione del processo di merito e sia rigettata oppure sia concesso un provvedimento
cautelare anticipatorio, il giudice deve provvedere sulle spese anche del processo cautelare, in
quanto la causa di merito potrebbe anche non essere proposta. Qualora, invece, l'istanza
cautelare sia proposta nel corso del processo di merito, oppure, se proposta prima
dell'instaurazione del processo di merito, sia concesso un provvedimento cautelare conservativo,
alla liquidazione delle spese della fase cautelare provvede il giudice del merito.
Al principio di globalità si fa apparente eccezione anche per le pronunce sulla competenza,
nonostante che la pronuncia sulla competenza non determini la chiusura del processo, e quindi
sia solo un momento di un complesso iter processuale, che può proseguire con la riassunzione
della causa di fronte al giudice competente, il quale potrà ben dar ragione alla parte che, sulla
questione di competenza, è rimasta soccombente.
In ogni caso l’allocazione delle spese deva essere rivista qualora il processo continui.
La liquidazione delle spese è e ettuata d’u cio, anche senza necessità di istanza, e costituisce
un capo della sentenza (separato, ancorché dipendente dal merito), se del caso impugnabile con i
normali mezzi di impugnazione (e ciò anche se la pronuncia sia soggetta al regolamento di
competenza necessario). Le spese non possono essere liquidate a favore della parte contumace
perché non ha compiuto per de nizione attività processuale.
Per quanto riguarda l'entità delle spese, esse sono liquidate dal giudice sulla base delle spese
vive sostenute e documentate dalla parte vittoriosa, nonché del compenso al suo legale.
L'art. 96 co. 3 cpc prevede che il giudice "in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell'articolo 91", possa condannare la parte soccombente al pagamento a favore della parte
vittoriosa, oltre che delle spese, anche "di una somma equitativamente determinata”. Il legislatore
non stabilisce né i presupposti di tale condanna, né i criteri per quanti care tale somma.
Per quanto riguarda il quantum, il legislatore ha conferito al giudice un potere che si può de nire
arbitrario per la mancanza di una taxatio, cioè di un parametro cui il giudice deve commisurare la
sanzione, e di un massimo che il giudice non può superare. Proprio per questa ragione la
disposizione è incostituzionale: dal momento che ha funzione sanzionatoria, essa soggiace al
principio di legalità, che vale anche per il giudice. Tuttavia la Corte costituzionale, con una

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sentenza interpretativa di rigetto ha salvato la norma a condizione che l’entità della sanzione sia
parametrata alle spese di lite.
Se vi sono più soccombenti, il giudice provvede alla liquidazione in proporzione al rispettivo
interesse in causa; e, se le parti hanno un interesse comune, può anche pronunciare condanna
solidale.
Le spese del processo esecutivo sono a carico di chi subisce l'esecuzione: egli, infatti, con il suo
inadempimento ha reso per de nizione necessario il ricorso del creditore alla tutela giurisdizionale
esecutiva.
Se in corso di causa si avvera un fatto, che determina la cessazione della materia del
contendere, ma le parti non trovano un accordo sulle spese, il giudice deve valutare la
soccombenza virtuale: deve, cioè delibare, sulla base degli atti di causa, l'ipotetico esito che la
lite avrebbe avuto ove non fosse cessata la materia del contendere e deve liquidare le spese in
conseguenza.
L'art. 93 cpc, poi, prevede che il difensore della parte possa chiedere che il giudice pronunci la
condanna alle spese direttamente a suo favore, ove egli dichiari di aver anticipato le spese vive e
di non aver riscosso gli onorari. Egli diventa così un «adiectus solutionis causa».
Il principio victus victori non è tuttavia un principio rigido: l'art. 92 cpc introduce dei
contemperamenti. Anzitutto, il giudice può non liquidare le spese sostenute dalla parte vincitrice,
se ritiene che siano eccessive o super ue; inoltre, può condannare la parte al rimborso delle
spese che l'altra ha dovuto sostenere a causa della violazione del dovere di lealtà e probità.
Più in generale, l'art. 92 co. 2 cpc dà al giudice il potere di compensare in tutto o in parte le
spese «se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di novità della questione trattata o
mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti».
La Corte costituzionale, con la sentenza 1 aprile 2018 n. 11, ha dichiarato l'incostituzionalità di
questa norma "nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le
parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali
ragioni" rispetto a quelle previste dal legislatore. La Corte ha escluso che le condizioni personali
ed economiche di una delle parti (ad es., la qualità di lavoratore in una controversia di lavoro)
possano fondare la compensazione delle spese.

Lo svolgimento dell'attività processuale può produrre dei danni a carico della parte che abbia
avuto ragione. Il risarcimento di tali danni rientra, in generale, nell'attuazione del principio in virtù
del quale chi è stato costretto ad agire o a difendersi in giudizio non deve risentirne e etti
dannosi. Tuttavia, nel nostro ordinamento, il legislatore non ha ritenuto di seguire per il
risarcimento dei danni lo stesso criterio che ha seguito per le spese, ed ha quindi previsto, all'art.
96 co. 1 e 2 una duplice ipotesi risarcitoria, che è ancorata al presupposto soggettivo di uno stato
psicologico della parte soccombente:
- co. 1: il risarcimento danni è anzitutto dovuto allorché la parte soccombente abbia agito o
resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Questa è la previsione generale, che si
applica a tutti i tipi di processi e ad ogni tipo di soccombenza, con la sola esclusione dei casi
disciplinati dal secondo comma dello stesso art. 96. Mala fede o colpa grave, ed esistenza del
danno devono essere provati da chi chiede la condanna risarcitoria; ma non vi è necessità che i
danni siano provati nel loro ammontare, perché la liquidazione avviene d’u cio. Per tale
ragione, la giurisprudenza ritiene che non possa aver luogo una separazione del giudizio sull'an
dal giudizio sul quantum. Tale norma è da considerarsi speciale rispetto a quella contenuta
nell'art. 2043 cc, sicché quest'ultima non può trovare applicazione, neppure sussidiaria, per i
danni processuali.
- co. 2: prevede un'ipotesi speci ca di danno processuale, che si ha quando sia soccombente
nel merito la parte che abbia trascritto una citazione, ottenuto un provvedimento cautelare,
iscritta ipoteca giudiziale o fatto ricorso all’esecuzione forzata. È evidente, infatti, che tali forme
di tutela giurisdizionale sono assai più incisive e pericolose del processo di cognizione; sicché
si rileva opportuna una mitigazione dello stato psicologico richiesto per l'obbligo risarcitorio. In
questa ipotesi, infatti, è su ciente aver agito senza la normale prudenza. Qui occorre,
tuttavia, che si tratti di soccombenza nel merito, e cioè che sia accertata l'inesistenza del
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diritto per la tutela del quale la parte ha fatto ricorso a quelle forme di tutela. Se, in queste
stesse ipotesi, si ha invece soccombenza nel rito, si rientra nella disciplina del dell'art. 96 co. 1
e ritornano necessarie la mala fede o la colpa grave.
La domanda rivolta ad ottenere il risarcimento dei danni è di competenza esclusiva dello stesso
giudice di fronte al quale pende la controversia. Essa non costituisce una domanda nuova e
quindi è proponibile per la prima volta in appello, in sede di rinvio o anche davanti alla
Cassazione.

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